Amazzonie, riflessioni post Sinodo panamazzonico

Testi di: Gaetano Mazzoleni, Paolo Moiola, Jaime C. Patias. A cura di: Paolo Moiola |



Dopo un lungo e tormentato percorso storico

Un sinodo sull’Amazzonia, finalmente

Questo sinodo era un’esigenza storica. Non è nato all’improvviso, ma da un lungo percorso della Chiesa e del papato. Un missionario e antropologo con una lunghissima esperienza nell’Amazzonia commenta il documento finale (senza trascurare qualche puntatina polemica verso i critici).

Dopo oltre cent’anni dall’enciclica Lacrimabili statu di san Pio X sulle condizioni disumane dei popoli amazzonici, finalmente è stato realizzato un sinodo sulla Panamazzonia e sui suoi abitanti. Questa affermazione potrebbe meravigliare molti lettori, ma molto di più ha sorpreso qualche manipolo di cattolici – si potrebbe dire – «più papisti del papa», che hanno fatto di tutto per ostacolare e disturbare la realizzazione di questo sinodo speciale. Ma andiamo con ordine.

Diversi gli invasori, identici i risultati

La prima domanda da porsi è: perché un sinodo speciale sull’Amazzonia? La risposta è duplice: la prima legata all’attualità ambientale, la seconda alla preoccupazione della Chiesa per i più deboli.

Nei mesi scorsi i mass media ci hanno inondato di pessime notizie ambientali. Da un lato, la fascia equatoriale del mondo, in cui si trovano realtà come il bacino amazzonico, il bacino del Congo e la zona del Sud Est asiatico, aree che hanno registrato preoccupanti segni di distruzione da parte dell’uomo (con probabili ripercussioni sui cambiamenti climatici globali). Dall’altro, i mesi di giugno e luglio sono stati caratterizzati da notizie allarmanti sulla foresta amazzonica in fiamme.

Le problematiche della regione amazzonica erano già state affrontate dalla Chiesa con la bolla di Benedetto XIV Immensa Pastorum Principis del 20 dicembre 1741, la bolla di Urbano VIII del 22 aprile del 1639 Commissum nobis e, ancora più indietro nel tempo, la bolla Pastorale Officium di papa Paolo III, datata 29 maggio 1537.

La citata enciclica di San Pio X, Lacrimabili statu, datata 7 giugno 1912, aveva come oggetto la tutela dei diritti umani e naturali degli amerindi amazzonici. Ai tempi, queste popolazioni erano oggetto di indicibili soprusi. Era l’epoca dello sfruttamento del caucciù (fine secolo XIX – prima metà del secolo XX), un periodo storico corrispondente all’inizio dell’industria automobilistica nel mondo occidentale. Il ciclo del caucciù si sarebbe concluso con l’arrivo dei derivati del petrolio, dopo la seconda guerra mondiale.

Denunciando quelle situazioni disumane, san Pio X si dimostrò un papa antesignano rispetto alla sensibilità per le condizioni dei popoli indigeni e dell’Amazzonia. Dopo oltre 100 anni da quella denuncia, l’esperienza dimostra che sono cambiati gli invasori, ma i fatti si ripetono: conquista, occupazione, distruzioni, profitto, oro, morti e sempre le stesse persone che perdono.

Questi due elementi – il progressivo degrado della situazione ambientale e la condizione delle popolazioni autoctone amerindie – indicavano alla Chiesa la necessità di fare qualcosa.

Così, quando papa Francesco ha parlato per la prima volta della necessità di un sinodo sull’Amazzonia, la mia prima reazione è stata un’esclamazione di gioia: «Finalmente. Era ora!». Non solamente perché lo consideravo giusto, utile o una novità assoluta, ma per la sua esigenza storica.

Una Chiesa che ascolta

foto Paolo Moiola

Scorrendo le pagine del Documento finale del Sinodo speciale, uscito a fine ottobre, mi pare esplicito l’invito a riflettere su diverse problematiche: ambientali, ecologiche, antropologiche ed ecclesiali.

La Chiesa «in uscita» si mette in «ascolto» del grido di aiuto dell’Amazzonia e delle popolazioni indigene che l’abitano per riflettere su come annunziare, vivere, celebrare il messaggio evangelico ed essere Chiesa radunata dall’Eucaristia. Riascoltando le voci dell’Amazzonia, il sinodo speciale invita tutte le persone di buona volontà, nello spirito di Francesco d’Assisi, a prendersi cura della «casa comune», a praticare la solidarietà con i più poveri che devono recuperare la loro dignità di persone, di figli di Dio e la loro identità culturale. «Cristo indica l’Amazzonia»: con questa affermazione di san Paolo VI comincia il primo capitolo (numeri 5 – 19) del Documento finale. È un grido che viene da lontano: dalla Lacrimabili statu di san Pio X, attraversa tutto l’arco temporale e di pensiero del Concilio Vaticano II e arriva fino ai nostri giorni.

Per la Chiesa latinoamericana il percorso verso l’Amazzonia e i suoi abitanti si è snodato attraverso gli incontri della Conferenza episcopale latinoamericana (Celam): Medellìn (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992), Aparecida (2007), ma anche e forse soprattutto i molteplici incontri promossi dal «Dipartimento di Missioni» (Demis) dello stesso Celam con la guida del papa.

Dalla connessione all’alleanza

«Connessione» è un’ulteriore prospettiva essenziale del Documento finale perché presenta la stretta unione tra il grido della terra e quello dei poveri con la denuncia della distruzione del creato, dello sterminio del mondo naturale, della minaccia alla vita umana di coloro che abitano quei territori, ma anche con l’annuncio e la testimonianza della buona notizia di Gesù.

La connessione si fa alleanza quando si parla di Chiesa e popoli indigeni: Chiesa alleata del mondo amazzonico. Cristo, indicandoci l’Amazzonia, ci segnala le grandi sfide globali, la crisi socio-ambientale, il dramma delle migrazioni forzate e la convivenza tra culture e religioni differenti. L’ascolto dell’Amazzonia è un invito per la Chiesa alla conversione integrale perché ne riconosce il suo messaggio di vita: la voce e il canto dell’Amazzonia che diventa nello stesso tempo un grido di tutto il territorio e dei suoi abitanti. Dall’ascolto sorge la proposta di nuovi cammini di conversione pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

© Vatican Media

Il percorso di una conversione pastorale (20 – 40) riguarda tutti i battezzati chiamati a costruire una Chiesa samaritana, misericordiosa e solidale. Una Chiesa missionaria impegnata nel dialogo ecumenico, interreligioso e culturale con volto e cuore indigeno o contadino (caboclo, ribereño, colono, afrodiscendente, …), migrante e giovane. Alla Chiesa della Panamazzonia è chiesto di diventare essa stessa missionaria. L’ascolto della Panamazzonia si trasforma – inoltre – in una conversione culturale (41 – 64).

Alleandosi con i popoli amazzonici la Chiesa si sente in dovere di rispettare e far rispettare i loro valori, le loro culture e il loro stile di vita come risultato di una forza vitale di adattamento storico. La Chiesa difende i diritti dei popoli amazzonici e denuncia tutti gli attacchi contro la vita delle loro comunità, il loro ambiente, con molteplici forme di sfruttamento.

Questa presa di posizione implica un’apertura sincera all’altro visto come fratello da cui si può imparare – ce lo dimostra la millenaria esperienza di adattamento dei popoli amerindi – e non come mezzo di cui servirsi a nostro beneficio. Per la Chiesa la difesa della «vita» e dei diritti dei popoli amerindi è un principio evangelico. L’alleanza tra popoli indigeni e Chiesa si realizza nell’ottica della fraternità, si manifesta in una sempre maggiore inculturazione della fede nella vita dei popoli amazzonici. In un’atmosfera di fraternità la Chiesa deve svolgere la missione di evangelizzare, il che non ha nulla a che vedere con il proselitismo, rifiutando al tempo stesso ogni forma di «evangelizzazione di stile coloniale».

I nuovi cammini di conversione ecologica (65 – 85) indicano che lo sfruttamento illimitato della «casa comune e dei suoi abitanti» deve essere fermato. Un’ecologia integrale non è un cammino tra i tanti che la Chiesa può scegliere per il suo futuro e quello di questo territorio, ma è l’unica via possibile e urgente; non esiste altro percorso praticabile per salvare la regione e i popoli indigeni. I cambiamenti nel sistema economico mondiale e la solidarietà globale sono urgenti e necessari.

Anche se la Chiesa non ha il potere di cambiare immediatamente e ovunque i modelli di sviluppo distruttivi e predatori, essa segnala e mostra da che lato sta. Il fondamento è la dottrina sociale della Chiesa, che implica espressamente l’ecologia. Deve impegnarsi per uno sviluppo equo, solidale e sostenibile con una denuncia coraggiosa dello scempio prodotto dall’estrattivismo.

L’introduzione del «peccato ecologico»

Nel porre in rilievo nuovi cammini di sviluppo «amichevoli» verso la casa comune, la Chiesa fa un’opzione chiara per la difesa della vita, della terra (territorio) e delle culture originarie amazzoniche (78).

In tale luce si comprende il «peccato ecologico» (82): ogni azione o omissione contro Dio, il prossimo, la comunità e l’ambiente. Tra le proposte concrete, spicca quella di un fondo mondiale per coprire parte dei bilanci delle comunità amazzoniche e la creazione di un osservatorio socio-ambientale pastorale che lavori in alleanza con i vari attori ecclesiali nel Continente – a partire dal Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) – e con i rappresentanti delle etnie native.

Nell’orizzonte di comunione e partecipazione si devono cercare nuovi cammini ecclesiali, soprattutto, nella ministerialità e nella sacramentalità della Chiesa con volto amazzonico (86-119). La Chiesa ha bisogno di nuove esperienze sinodali, di un nuovo cammino fatto insieme, di una cultura del dialogo e dell’ascolto per rispondere alle sfide pastorali. In particolare, nel documento si sottolinea a questo riguardo la corresponsabilità dei laici.

Il volto femminile

Un’intera sezione del Documento è poi dedicata alla «presenza e all’ora della donna», al volto femminile della Chiesa amazzonica. Il ruolo straordinario dell’evangelizzazione al femminile viene riconosciuto con forza chiedendo la possibilità che anche le donne possano accedere ai ministeri di lettorato, accolitato e di dirigente di comunità.

Il testo del Documento finale è il risultato dello «scambio aperto, libero e rispettoso» svoltosi nelle tre settimane di lavori del Sinodo, per raccontare le sfide e le potenzialità dell’Amazzonia, «cuore biologico» del mondo, un cuore esteso su 9 paesi e abitato da oltre 33 milioni di persone, di cui circa 2,5 milioni di indigeni. Questa regione, seconda area più vulnerabile al mondo (dopo l’Artico) a causa dell’uomo, si trova «in una corsa sfrenata verso la morte» e ciò esige urgentemente una nuova direzione che consenta di salvarla, pena un impatto catastrofico su tutto il pianeta.

foto Paolo Moiola

Amazzonia, «locus theologicus»

Questo, per sommi capi, il contenuto del documento finale di un sinodo benedetto, anche se arrivato molto tardi.

Penso di poterlo affermare sulla base dei miei 45 anni trascorsi nella regione amazzonica. Una regione dove, durante la stagione delle piogge (invierno), i fiumi si gonfiano, straripano e mandano a farsi benedire tutti i confini stabiliti «politicamente». Durante questa stagione i confini cambiano. È la legge della Panamazzonia, diversa dalla legge degli stati.

Come è diversa quella che dice: «I fiumi uniscono, non dividono». Diretta conseguenza di un altro principio: «Chi proibisce agli uccelli dell’altra sponda di venire a questa e viceversa? O chi impedisce ai pesci di questo lato del fiume di passare liberamente e tranquillamente all’altro?». Questa è saggezza e filosofia panamazzonica o, se si preferisce, «pensiero mistico religioso» di quell’area.

Qualcuno si è scandalizzato per espressioni come «buon vivere» o, ancora di più, «Pacha Mama» (madre terra). Eppure, un noto salmo biblico recita: «Venite ammirate le opere del Signore: ha fatto cose stupende sulla terra» (come, per esempio, il bacino e la selva amazzonica). In effetti, ci vuole così poco per riconoscere la foresta panamazzonica come un «locus theologicus»: basta viverci dentro.

Gaetano Mazzoleni

foto Paolo Moiola

 


Il documento finale del sinodo, una lettura laica:

L’Amazzonia, cuore biologico del mondo

Come l’Instrumentum laboris, anche il documento finale del Sinodo panamazzonico ha tra i propri meriti la chiarezza delle posizioni. Almeno quando parla della situazione politica, ambientale e antropologica.

Link ai documenti del Sinodo:

La situazione dell’Amazzonia, cuore biologico della Terra, è drammatica. Sono necessari – ricorda nei passaggi iniziali il documento finale del Sinodo – dei cambi radicali e urgenti nonché una nuova direzione che permetta di salvarla (2 – questi numeri si riferiscono al documento finale).

Nella regione amazzonica coesiste una realtà plurietnica e multiculturale, dato che, oltre ai popoli originari, esistono popolazioni meticce nate dall’incontro tra popoli diversi (8). I popoli indigeni hanno come orizzonte il «buon vivere», che significa vivere in armonia non soltanto con se stessi e con gli altri esseri umani, ma anche con la natura e con l’essere supremo (9).

Questa realtà plurietnica, pluriculturale e plurireligiosa richiede un’apertura al dialogo, riconoscendo la molteplicità degli interlocutori: oltre ai popoli indigeni, quelli rivieraschi, i contadini, gli afrodiscendenti, le organizzazioni della società civile, i movimenti sociali popolari, lo stato (23). Senza dimenticare le altre chiese cristiane e denominazioni religiose, anche se le relazioni tra cattolici e pentecostali, carismatici ed evangelici non sono facili (24). Va poi precisato che, in Amazzonia, il dialogo interreligioso si rivolge specialmente alle religioni indigene e ai culti afro. Queste tradizioni meritano di essere conosciute, comprese nelle loro espressioni e nelle loro relazioni con la foresta e la madre terra (25).

Nella foresta non soltanto la vegetazione è in connessione, ma anche i popoli sono collegati in una rete di alleanze che porta vantaggi per tutti. Grazie a questo sistema di interrelazioni e interdipendenze il pur fragile equilibrio dell’Amazzonia si è preservato nel tempo (43).

La visione indigena e quella occidentale

Il pensiero dei popoli indigeni offre una visione integrale della realtà, una visione capace di comprendere le molteplici connessioni esistenti tra tutti gli elementi del creato. Questo contrasta con la corrente dominante del pensiero occidentale che, per comprendere la realtà, tende a frammentarla, senza riuscire ad articolare una visione complessiva e unitaria. Oltre a ciò, nei popoli indigeni s’incontrano anche altri valori come la reciprocità, la solidarietà, il senso di comunità, l’eguaglianza (44).

L’avidità per la terra è alla radice dei conflitti che portano all’etnocidio, così come all’assassinio e alla criminalizzazione dei movimenti sociali e dei suoi dirigenti. La demarcazione e la protezione delle terre indigene è un obbligo degli stati nazionali e dei loro rispettivi governi. Senza dubbio, buona parte dei territori indigeni sono sprovvisti di protezione e quelli già demarcati (per esempio, la terra degli Yanomami) sono invasi a causa dell’estrattivismo minerario e forestale, dei grandi progetti infrastrutturali, delle coltivazioni illecite (in primis, la coca) e dei latifondi che promuovono le monocolture e l’allevamento estensivo (45).

Come spiega molto bene la Laudato si’, l’«ecologia integrale» ha il suo fondamento nel fatto che tutto è in connessione. Questo significa che ecologia e giustizia sociale sono intrinsecamente unite (66). Una delle cause principali della distruzione dell’Amazzonia è il cosiddetto «estrattivismo predatorio» che risponde alla logica dell’avarizia, propria del paradigma tecnocratico dominante (67).

foto Paolo Moiola

La visione indigena e quella occidentale

Risulta scandaloso che si criminalizzino i leader indigeni e le comunità per il solo fatto di reclamare i propri diritti. In questi ultimi anni, la regione amazzonica ha visto un continuo incre-
mento dello sfruttamento delle risorse naturali (legname, petrolio, oro e molto altro) e lo sviluppo di megaprogetti infrastrutturali (dighe, centrali elettriche, strade). Tutto questo si è tradotto in pressioni dirette sui territori ancestrali senza la possibilità per gli indigeni di ottenere giustizia (69).

È evidente che l’intervento dell’uomo ha perso il suo carattere «amichevole», per assumere un’attitudine vorace e predatoria che tende a sfruttare le risorse naturali disponibili fino al loro esaurimento (71). Molte attività estrattive, come le miniere su grande scala (quelle illegali in particolare, si pensi all’estrazione dell’oro), riducono in maniera sostanziale il valore della vita in Amazzonia. In effetti, si appropriano della vita dei popoli e dei beni comuni della terra, concentrando potere economico e politico nelle mani di pochi. A peggiorare le cose, molti di questi progetti distruttivi si realizzano nel nome del progresso e sono appoggiati o permessi dai governi locali, nazionali e stranieri (72).

Il futuro dell’Amazzonia è riposto nelle mani di tutti noi. Esso dipende principalmente dall’abbandono immediato del modello di sviluppo attuale che distrugge la foresta, non porta benessere e pone in pericolo l’immenso tesoro naturale amazzonico e i suoi guardiani (73).

La Chiesa riconosce la conoscenza tradizionale dei popoli indigeni rispetto alla biodiversità, una conoscenza viva e sempre in marcia. Il furto di essa è chiamata biopirateria, una forma di violenza contro queste popolazioni (76).

Nel nuovo modello sostenibile e inclusivo diventa una necessità urgente lo sviluppo di politiche energetiche che riducano drasticamente l’emissione di biossido di carbonio (CO2) e degli altri gas legati al cambiamento climatico. Inoltre, va assicurato l’accesso all’acqua potabile, che è un diritto umano fondamentale (77).

La difesa della vita dell’Amazzonia e dei suoi popoli necessita di una profonda conversione personale, sociale e strutturale (81). Occorre adottare comportamenti responsabili che rispettino e valorizzino i popoli dell’Amazzonia, le loro tradizioni e conoscenze, proteggendo la loro terra e cambiando i nostri modi di vivere. Dobbiamo ridurre il consumo eccessivo e la produzione di rifiuti solidi, stimolando il riuso e il riciclaggio. Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e dall’uso delle plastiche. Dobbiamo cambiare le nostre abitudini alimentari, visto l’eccessivo consumo di carne e pesce. Dobbiamo attivarci nella semina di alberi. Dobbiamo cercare alternative sostenibili nell’agricoltura, nel campo energetico e nella mobilità. Dobbiamo promuovere a tutti i livelli l’educazione all’ecologia integrale (84).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Valorizzare la donna e le lingue autoctone

La saggezza dei popoli ancestrali afferma che la madre terra ha un volto femminile. Sia nel mondo indigeno che in quello occidentale la donna è la persona che lavora in una molteplicità di campi (101). Eppure, nella vita quotidiana le donne sono vittime di violenza fisica, morale e religiosa. La Chiesa si schiera in difesa dei loro diritti e le riconosce come protagoniste e guardiane della creazione e della casa comune (102).

Avviandosi alla conclusione, il Documento finale ricorda che la Chiesa cattolica deve dare una risposta alla richiesta delle comunità amazzoniche di adattare la liturgia valorizzando la cosmovisione, le tradizioni, i simboli e i riti originari nelle loro dimensioni trascendenti, comunitarie ed ecologiche (116). E tutto va fatto usando le lingue proprie dei popoli che abitano l’Amazzonia (118).

Paolo Moiola

© Vatican Media


Scheda


Contro il sinodo e contro papa Francesco: Tribalista ed ecologista

Il Sinodo panamazzonico ha avuto molti avversari interni alla Chiesa cattolica. Per capirne di più, abbiamo dato un’occhiata ai loro siti.

Povero padre Corrado Dalmonego, non solo hanno messo il suo essere missionario tra virgolette («questo “missionario”»), ma ne hanno anche travisato il cognome (Dalmolego), segno – lo diciamo per inciso – non di sbadataggine ma di sciatteria. L’ambito è il sito dell’agenzia Corrispondenza Romana e la firma è quella di Cristina Siccardi, saggista torinese molto critica verso il pontificato di papa Francesco. È la stessa persona che sul medesimo sito, il 6 novembre, scriveva scandalizzata: «Il papa in persona, il 4 ottobre scorso, alla vigilia del Sinodo, ha partecipato ad una cerimonia nei giardini del Vaticano, insieme a vescovi e cardinali, guidata in parte da sciamani, dove sono stati usati degli oggetti che nulla hanno a che vedere con il Cattolicesimo, in particolare la donna nuda e incinta, la Pachamama. Papa Francesco ha anche riverito due vescovi che portavano in processione la Pachamama sulle loro spalle nella Sala del Sinodo, per essere poi collocata in un luogo d’onore. E statue di figure femminili nude in legno sono state venerate nella Basilica Vaticana, di fronte alla Tomba di San Pietro!».

Sarebbe interessante sapere il parere di Cristina Siccardi sul nudo nell’arte sacra o, senza andare lontani, sui corpi nudi della Cappella Sistina.

Corrispondenza Romana è il sito – uno di quelli ascrivibili al fondamentalismo cattolico anti papa Francesco (vedere riquadro) – che ha esultato per il gesto, definito «coraggioso», del giovane austriaco che «il 21 ottobre ha rimosso dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina (una delle sedi esterne del Sinodo, ndr) e ha gettato nel Tevere le statuette di Pachamama, la divinità pagana rappresentante la “Madre Terra” amerindia».

© Guilherme Cavalli-Cimi

Il Sinodo è una minaccia

L’offensiva contro il malcapitato padre Corrado – missionario in Amazzonia (Catrimani, Roraima, Brasile), giovane ma preparatissimo, tanto da essere chiamato come uditore al Sinodo – era iniziata già a giugno 2019 con un attacco firmato dal cileno José Antonio Ureta sempre su Corrispondenza Romana.

Ureta così descrive gli Yanomami tra i quali padre Dalmonego opera: «Gli Yanomami sono un gruppo etnico composto da 20 a 30 mila indigeni che vivono nella foresta tropicale in modo molto primitivo […]. I loro vestiti sono molto sommari e li usano a malapena come ornamento ai polsi, alle caviglie e come cintura attorno alla vita. Gli uomini della tribù generalmente hanno varie mogli, comprese adolescenti appena entrate nella pubertà. Gli uomini sono soliti consumare la pianta “epená” o virola, che contiene una sostanza allucinogena». José Antonio Ureta è membro di «Tradizione, famiglia e proprietà», un movimento nato in Brasile che lotta contro «la grave minaccia che il Sinodo sull’Amazzonia rappresenta per la civiltà occidentale» e contro «un’ecologia falsa, i cui promotori cercano di controllare la società con il pretesto di salvare l’ambiente». Lo stesso Ureta e la citata Cristina Siccardi sono tra i cento firmatari della protesta (Contra Recentia Sacrilegia) per – si legge testualmente (9 novembre) – «gli atti sacrileghi e superstiziosi commessi da Papa Francesco, il Successore di Pietro, durante il recente Sinodo sull’Amazzonia tenutosi a Roma». Le accuse dei firmatari verso il pontefice partono tutte dal suo atteggiamento definito sacrilego verso la «dea pagana Pachamama». Nell’elenco si trova anche Roberto De Mattei, storico, presidente della «Fondazione Lepanto», direttore della rivista Radici Cristiane e di Corrispondenza Romana, nonché discepolo di Plinio Corrêa de Oliveira, fondatore del movimento «Tradizione, Famiglia e Proprietà». È sul sito da lui stesso diretto che de Mattei ha attaccato il nuovo «Patto delle Catacombe», firmato il 20 ottobre nelle catacombe di Domitilla in una celebrazione presieduta dal cardinale Hummes. Il professore ha usato parole sarcastiche per descrivere l’evento, definendolo «il patto socio-cosmico dell’era di Greta Thunberg» (Corrispondenza Romana, 22 ottobre). Molti dei firmatari del documento Contra Recentia Sacrilegia sono statunitensi come statunitense è il sito National Catholic Register. È il sito che ha attaccato (Edward Pentin il 17 ottobre) duramente anche la Repam (presieduta dal cardinal Hummes) e il Cimi (guidato da dom Roque Paloschi), la prima molto impegnata nell’organizzazione del Sinodo, il secondo da anni in prima linea nell’impagabile difesa dei popoli indigeni e dell’Amazzonia.

foto Paolo Moiola

I tre vaticanisti

L’offensiva anti Sinodo e anti papa Bergoglio è proseguita sulle pagine web di alcuni vaticanisti. «Il sinodo dell’Amazzonia è passato agli archivi, ma lo “scandalo” che ne ha accompagnato il cammino è lontano dall’essere sanato», scrive Sandro Magister nel suo blog Settimo Cielo il 13 novembre. Poi parla di idolatria a causa di quella «statuetta lignea di una donna nuda e gravida». Infine, boccia il Sinodo per «l’irrilevanza, se non l’assenza, dell’annuncio cristiano e l’enfasi scriteriata data invece alla cultura e alla religiosità pagane, senza esercitare su di queste il necessario giudizio». Secondo l’autore, oggi il «populismo» di papa Francesco è focalizzato sulle tribù amazzoniche e sull’«esaltazione del “buen vivir”» (30 novembre).

In un suo precedente scritto (30 ottobre), Magister aveva individuato il vero punto nevralgico – a suo dire – del Sinodo amazzonico: «È di dominio pubblico che questo sinodo è stato ideato e organizzato precisamente con questo obiettivo primario: “aprire” all’ordinazione di “viri probati” in Amazzonia per poi estendere la novità a tutta la Chiesa».

Anche Aldo Maria Valli, vaticanista della Rai, si concentra (con una certa dose di sarcasmo verso alcuni suoi critici) sulla questione dell’ordinazione di uomini sposati (viri probati). «In seguito al molto discusso Sinodo amazzonico – scrive il 16 novembre – si sta facendo più vicina l’ipotesi non di permettere a tutti i preti di sposarsi, bensì di ordinare, in certe aree, uomini sposati, anzi anziani sposati (poveri anziani!). Ma sappiamo come vanno queste cose. E dovrebbero saperlo anche i maestrini che pretendono di darmi lezioni. Dopo che è stato aperto un pertugio, da esso può passare di tutto. Nel caso specifico, si tratta di un pertugio amazzonico, che sembra lontano da noi, ma non lo è. Serviva un pretesto, e di solito il pretesto arriva da un caso limite».

Per parte sua, Marco Tosatti, un altro vaticanista (dai toni ancora più ruvidi e perentori), la butta tutta in politica: nella lotta tra la sinistra perdente (quella del Pd, di Repubblica, di Zuppi, «cardinale in quota Pd», Tosatti dixit) e la destra vincente (quella di Salvini, Meloni, ma anche – sostiene il vaticanista – di Casa Pound, il movimento neofascista), papa Bergoglio è schierato inopinabilmente con la prima. Però, ha perso, pure sul Sinodo, anche se questo si è svolto – scrive Tosatti – «in una situazione di manipolazione altissima» (29 ottobre), su alcuni temi come i viri probati e il diaconato femminile. Ma – avverte – occorre stare vigili perché il papa è il «detentore del mazzo», un pontefice che «si scaglia contro i cattolici che non sentono e pensano esattamente come lui», un papa con una «memoria selettiva» (16 novembre) perché esprime timori per un ritorno in auge di idee naziste, ma non dice nulla della Cina, del Nicaragua e del Venezuela.

Insomma, per costoro è tutto chiaro: papa Francesco non solo è un vero cattocomunista, ma ha riportato in vita la teologia della liberazione. Magari – come ha suggerito Julio Loredo, presidente per l’Italia di Tradizione, Famiglia e Proprietà (il Giornale, 20 novembre) – nelle sue forme aggiornate: la teologia indigena e la teologia ecologica. Loredo è la stessa persona che, a febbraio 2019, con chiaro intento spregiativo aveva definito la Chiesa «tribalista ed ecologista».

Paolo Moiola

Siti contro (la giostra delle citazioni)

  • https://www.corrispondenzaromana.it
  • http://www.ncregister.com (Stati Uniti)
  • https://lanuovabq.it
  • https://anticattocomunismo.wordpress.com
  • https://www.rossoporpora.org
  • https://www.fondazionelepanto.org
  • https://www.radicicristiane.it/
  • https://www.radiospada.org/
  • https://www.radioromalibera.org/
  • https://www.marcotosatti.com/
  • http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/

Quelli sopra elencati sono gli indirizzi dei principali siti contrari (o fortemente contrari) al Sinodo panamazzonico e a papa Francesco. Gli ultimi tre appartengono ad altrettanti vaticanisti: Aldo Maria Valli, Marco Tosatti e Sandro Magister. Va detto che nomi e contenuti all’interno di questi siti si ripetono spesso perché alcune persone sono presenti in vari ambiti (Roberto de Mattei su tutti) e perché la citazione reciproca è molto praticata. È giusto ed opportuno che i lettori li conoscano anche per comprendere meglio l’entità della battaglia interna che il papa argentino si trova a dover affrontare.

Pa.Mo.


© Vatican Media


Il documento finale del sinodo: una lettura missionaria

Il grido della Terra: dopo l’ascolto, l’azione

Il Sinodo è stato un successo, ma adesso viene il difficile: passare dall’ascolto all’azione. E questa dovrà sfidare «altari» e «troni». La Chiesa sarà sempre missionaria, ma in modo diverso. La «conversione» passa anche attraverso un nuovo tipo di presenza sul territorio amazzonico e al fianco dei popoli che lo abitano.

Il Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre è stato una benedizione per la Chiesa e per l’umanità. Allo stesso tempo, ha posto sul tavolo le principali sfide per la missione in un mondo globalizzato e minacciato. L’intero processo di preparazione e realizzazione di questo evento ecclesiale convocato da papa Francesco ha rafforzato la convinzione che territorialità e popoli determinano una missione che deve includere l’ecologia. Questa prospettiva aveva già acquisito slancio durante la visita del papa a Puerto Maldonado in Perù (gennaio 2018), un gesto che aveva sottolineato l’importanza di ascoltare gli indigeni e gli altri popoli.

La sfida ad «altari» e «troni»

Questo processo di ascolto del «grido dei poveri e del grido della terra» sfida «altari» e «troni» nella ricerca di nuovi modi di essere Chiesa. Il rinnovamento desiderato comporta necessariamente la conversione.

Durante l’assemblea sinodale, svoltasi dal 6 al 27 ottobre a Roma, la riflessione ha avuto come temi: la conversione pastorale, la partenza missionaria, la conversione culturale, il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale, la conversione sinodale, i nuovi ministeri, la teologia, catechesi e formazione inculturata, il riti amazzonici, la Chiesa povera, con e per i poveri. Temi che rappresentano una sfida alla missione della Chiesa e, quindi, si scontrano con «altari» al proprio interno (come raccontato a pag. 41 di questo dossier, ndr).

D’altra parte, temi come conversione integrale, conversione ecologica, modelli di sviluppo sostenibile, cura della casa comune, promozione ecologica integrale, grido dei poveri e grido della terra, interdipendenza tra tutti gli esseri, ecc., sfidano i «troni» del sistema capitalista attuale che è neoliberista e predatore.

È bene sottolineare che tutte queste domande sono interconnesse da una «spiritualità dell’ascolto» e dall’annuncio della buona novella con uno «spirito profetico».

Nel pontificato di Francesco, le basi per questo cambiamento sono state poste nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013)* e nell’enciclica Laudato si’ (2015). Allo stesso modo, il documento finale del sinodo (che dovrebbe orientare l’esortazione post sinodale) indica un passaggio dall’ascolto alla conversione integrale ponendo l’Amazzonia come «luogo teologico» simbolico per l’intera Chiesa universale.

© Vatican Media

I nuovi percorsi della Chiesa

Una lettura missionaria del documento finale aiuta a mettere in luce che il tema della missione è ben articolato in cinque percorsi (e altrettanti capitoli) di «conversione»: integrale, pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

Quando, a inizio del capitolo 2 del documento, si legge: «Una chiesa missionaria in uscita richiede da noi una conversione pastorale» (20), scorgiamo la sintonia tra il sinodo e la teologia della missione del Concilio Vaticano II e delle conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam). Infatti, al numero 21 si legge: «La Chiesa, per sua natura, è missionaria e ha la sua origine nell’“amore fontale di Dio” (AG 2). Il dinamismo missionario che scaturisce dall’amore di Dio si irradia, si espande, trabocca e si diffonde in tutto l’universo. “Siamo inseriti dal battesimo nella dinamica dell’amore attraverso l’incontro con Gesù, che dà un nuovo orizzonte alla vita” (DAp 12). Questo straripamento spinge la Chiesa alla conversione pastorale e ci trasforma in comunità viventi, lavorando in gruppi e reti al servizio dell’evangelizzazione. La missione così intesa non è opzionale, un’attività della Chiesa tra le altre, ma la sua stessa natura: la Chiesa è missione! “L’azione missionaria è il paradigma dell’intera opera della Chiesa”(EG 15)» (Doc. finale 21).

Ciò che colpisce è la convinzione che la missione appartiene a tutti, la Chiesa è missione, e quindi «ogni cristiano è una missione» di Dio nel mondo. Con ciò, la missione cessa di essere qualcosa di esterno come «ornamento» e diventa qualcosa di essenziale: «La vita è missione» (EG 273) e questo pone la Chiesa sulla soglia per entrare «nel cuore di tutti i popoli» (Doc. finale 18).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Una revisione dello stile missionario

Proponendo la conversione nei modi più diversi, il sinodo ribadisce che la «gioia del Vangelo» prima di essere diretta verso gli altri è diretta alla Chiesa stessa e ai suoi missionari. La conversione integrale si manifesta principalmente attraverso la conversione pastorale (missionaria) e sinodale. Per i missionari questa conversione richiede una seria revisione dello stile di missione che presuppone una presenza incarnata nella realtà e nella vita dei popoli. «La nostra conversione pastorale sarà samaritana, in dialogo, accompagnando le persone con volti concreti di indigeni, contadini, discendenti africani (quilombolas), migranti, giovani e abitanti delle città. Tutto ciò comporterà una spiritualità di ascolto e annuncio» (Doc. finale 20).

La conversione pastorale implica anche una prospettiva missionaria di itineranza, vicinanza e una presenza più efficace con i popoli, superando le visite sporadiche (desobrigas) e creando relazioni permanenti nella missione. Il sinodo sottolinea l’importanza di gruppi itineranti composti da diversi carismi, istituzioni e congregazioni, religiose e religiosi, laici e sacerdoti che lavorano formando una rete viaggiante (Doc. finale 39 e 40). Non bisogna più camminare da soli. La missione si svolge in una rete e in comunione ecclesiale. Il desiderio è che la Chiesa assuma in Amazzonia la sinodalità missionaria (Doc. finale 86-88).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Davanti alla realtà amazzonica

Questo sinodo è stata una cosa unica. Le numerose attività (incontri, dibattiti, celebrazioni, mostre) della «Tenda amazzonica: la casa comune» (con sede principale nella chiesa della Traspontina in via della Conciliazione, a Roma) durante l’assemblea sinodale hanno portato a Roma rappresentanti dei popoli del territorio panamazzonico per «ascoltare insieme» con Francesco, i padri e le madri sinodali. Francesco ha invitato la periferia a sedersi nel centro del cristianesimo, la «foresta amazzonica» è stata piantata nella «foresta di pietre» e la «città eterna» è stata ossigenata.

Nella missione, i protagonisti sono la realtà e i suoi popoli che, oltre ad essere valorizzati, devono anche assumersi la loro responsabilità. «Questo sinodo vuole essere un forte appello per tutti i battezzati in Amazzonia ad essere discepoli missionari. (…) Pertanto, crediamo che sia necessario generare un maggiore impulso missionario tra le vocazioni native; l’Amazzonia deve essere evangelizzata anche dai suoi abitanti» (Doc. finale 26). In questo senso, la proposta di nuovi «ministeri per uomini e donne in modo equo» (95) e l’«elaborazione di un rito amazzonico» (119) sono encomiabili.

L’ambiente e il «peccato ecologico»

© Guilherme Cavalli-Cimi

Un altro momento saliente di questo sinodo è stato quello di affermare che l’ecologia integrale e la cura della casa comune sono parti costitutive della missione della Chiesa. Pertanto, l’azione evangelizzatrice con i suoi progetti e missionari non può dimenticare la cura della vita del pianeta. In questo senso, la definizione di «peccato ecologico come azione o omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente» (Doc. finale 82) rappresenta un aggiornamento importante dell’insegnamento della Chiesa per la pratica della fede cristiana.

Decolonizzare la missione

Il sinodo per l’Amazzonia segue la linea della Conferenza di Medellin che, nel 1968, ha dato una contestualizzazione al Concilio Vaticano II in America Latina. Esso ha avuto anche il contributo di altri continenti. Questo cambio di prospettiva è importante per la «decolonizzazione» della missione e l’allontanamento dal pensiero eurocentrico. È bene ricordare che papa Francesco è un figlio del Concilio e del Sud, un fattore rilevante per «decolonizzare» la missione. L’Amazzonia ci sfida a passare dalla visione della missione come «espansione» alla missione come «incontro» senza proselitismo. «Siamo tutti invitati ad avvicinarci alle popolazioni amazzoniche su una base di uguaglianza, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile del ben vivere. […] Rifiutiamo un’evangelizzazione in stile coloniale. Proclamare la buona novella di Gesù implica riconoscere i semi della Parola già presenti nelle culture» (Doc. finale 55).

Nonostante resistenze e incomprensioni, questo sinodo è un kairos, un momento tempestivo di grazia e speranza. Molto al di là del ricco documento prodotto, stiamo affrontando un processo che dovrebbe condurre a nuovi percorsi per una Chiesa divenuta molto più consapevole che, senza una conversione integrale e sinodale, non ci saranno cambiamenti reali nel suo modo di essere e di vivere la missione.

Jaime C. Patias

Firma del Patto delle Catacambe – © Guilherme Cavalli-Cimi


Dal 16 novembre 1965 al 20 ottobre 2019

Il «Patto delle catacombe» rivive e si rinnova

Nelle catacombe di Domitilla è stato firmato un nuovo patto. Per la casa comune. Per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana.

Il Concilio Vaticano II aveva ispirato, durante il suo svolgimento, un gruppo di vescovi guidati da mons. Helder Camara (1909-1999) a costruire una Chiesa servitrice e povera. Questa utopia prese forma il 16 novembre 1965, nelle Catacombe di Santa Domitilla a Roma, dove pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, quarantaquattro padri conciliari celebrarono un’eucaristia e, con un gesto profetico, firmarono l’«Alleanza della Chiesa dei poveri e dei servi», meglio noto come il «Patto delle catacombe». Molti altri vescovi si unirono successivamente al Patto. I firmatari del documento si impegnarono a vivere in condizione di povertà, a rinunciare a tutti i simboli o privilegi di potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale.

Questa alleanza è stata considerata il seme della Chiesa di Francesco, che tre giorni dopo essere stato eletto successore di San Pietro, disse ai giornalisti: «Come vorrei una chiesa povera per i poveri!». Bergoglio conosceva bene la «barca» che stava cominciando a guidare. Ed è stata la sua sensibilità per «il grido dei poveri e il grido della terra» che lo ha portato a convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia, alimentato dall’enciclica Laudato si’ (2015) e dalla riaffermazione di una Chiesa che «non può dimenticare i poveri e la cura della Creato». Il pontificato di Francesco è diventato un forte richiamo alla conversione della Chiesa e dei poteri politici ed economici. È ovvio che ciò disturba coloro che, nella Chiesa, ignorano i poveri e non vogliono né perdere i loro privilegi, né mettere in discussione i potenti del mondo globalizzato che obbediscono solo ai desideri del profitto.

© Caldeira Ferreira Julio César

Una nuova alleanza per la casa comune

Sebbene non facesse parte della programmazione ufficiale del sinodo, il 20 ottobre 2019,  giornata missionaria mondiale, potrebbe anch’essa divenire una data storica, perché nella stessa sede del Patto del 1965, è stato firmato un nuovo Patto, questa volta per la casa comune: una chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana. La proposta era stata costruita nei mesi precedenti il sinodo e aveva preso forma nelle prime due settimane della sua realizzazione a Roma.

Prima dell’alba di domenica 20 ottobre, cinque pullman parcheggiati in Via dei Cavalleggeri, vicino alla sala del sinodo, aspettavano un variegato gruppo composto da vescovi sinodali, esperti, leader pastorali, indigeni e religiosi e altre persone coinvolte nelle attività della tenda «Amazzonia, casa comune». La destinazione del gruppo erano le catacombe di Santa Domitilla nel moderno quartiere Ardeatino di Roma.

Con 17 chilometri di gallerie, quattro piani e oltre 150mila tombe, queste catacombe sono tra le più grandi di Roma. Vi furono sepolti numerosi martiri del primo cristianesimo, tra cui la stessa Flavia Domitilla, nipote dell’imperatore Vespasiano che donò la terra ai cristiani, e Nereo e Aquilleo che diedero il nome alla basilica semi sotterranea costruita alla fine del IV secolo su richiesta di papa Damaso I.

Mentre il gruppo scendeva le scale verso la basilica, il silenzio e la commozione hanno preso il sopravvento. La canzone «Alla luce dei martiri della fede», del noto cantautore Antonio Cardoso, annunciava il significato di quella visita. «Torniamo qui – dice il testo – tutte le volte che è necessario. Dopo il Concilio ci siamo incontrati per camminare con i poveri e Gesù. Torniamo qui per riscattarci in Amazzonia. Cerchiamo tutte le alleanze in queste tombe alla luce dei martiri della fede». E, usando la tintura rossa estratta dal seme dell’urucum (annatto) dell’Amazzonia, tutti hanno lasciato le loro impronte digitali su un panno morbido, simbolo della memoria del Gesù martire e di coloro che, per fede in lui, hanno versato il loro sangue.

Tra martiri e profeti

Padre Oscar Beozzo ha ricordato la storia del Patto del 1965, sottolineando che allora le guide del gruppo erano l’arcivescovo Helder Camara, l’arcivescovo Leonidas Proaño, vescovo degli indigeni in Ecuador, e l’arcivescovo Enrique Angelelli, che in seguito sarà assassinato dalla dittatura militare argentina.

L’eucaristia è stata presieduta dal cardinale Claudio Hummes, presidente della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), che era accompagnato dal cardinale Pedro Barreto, arcivescovo di Huancayo in Perù, vicepresidente della stessa organizzazione.

Il ricordo del Patto del 1965 era rinnovato dalla stola di dom Helder usata a messa dal cardinale Hummes, che, emozionato, alla fine l’ha consegnata a dom Erwin, uno dei grandi profeti viventi dell’Amazzonia. Era presente anche una tunica di dom Helder, indossata da dom Adriano Ciocca, vescovo di São Felix do Araguaia, dove vive dom Pedro Casaldáliga, uno di coloro che hanno realizzato il patto all’estremo. Il calice e la patena usati nella messa appartenevano a padre Ezequiel Ramin, un missionario comboniano italiano, martirizzato nel 1985 a Cacoal, Rondônia, Brasile, per volere dei proprietari terrieri della regione.

© Caldeira Ferreira Julio César

Nella casa comune tutto è connesso

A differenza del primo, questo Patto per la casa comune è stata firmato da tutti i presenti (oltre 200 persone, tra cui 80 padri sinodali e due membri di altre chiese delegate fraterne nel Sinodo) con rilievo per la partecipazione degli indigeni e delle donne. Si tratta di un documento aperto che può ancora essere firmato in occasione di riunioni o attività in difesa della casa comune in tutto il mondo.

Chi firma i suoi 15 impegni rinnova l’opzione preferenziale per i poveri e si prende cura della casa comune con un’ecologia integrale in cui tutto è interconnesso (la sostenibilità della foresta, dei fiumi e del bioma amazzonico); valorizza e difende la diversità culturale, le tradizioni spirituali e lo stile di vita dei popoli amazzonici; desidera camminare ecumenicamente con altre comunità cristiane e religioni; valorizza le comunità e riconosce i ministeri; segue uno stile di vita sobrio, semplice e solidale; vuole ridurre la produzione di rifiuti e l’uso di materie plastiche, e favorire la produzione e la commercializzazione di prodotti agroecologici; difende i perseguitati e la vita dove essa è minacciata.

Saper ascoltare le voci scomode

Di fronte alle sfide ecologiche, sociali ed ecclesiali, questo nuovo Patto è una risposta alle preoccupazioni di papa Francesco che, anche alla messa di chiusura del Sinodo (il 27 ottobre), ha nuovamente ricordato: «Quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non vengono ascoltate e talvolta sono derise o messe a tacere perché scomode. Chiediamo la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa». E come afferma il Patto: «Con loro abbiamo sperimentato il potere del Vangelo che opera nei piccoli».

Jaime C. Patias

foto Paolo Moiola


Hanno firmato questo dossier:

  • Gaetano Mazzoleni. Missionario della Consolata, dopo gli studi di teologia, si è specializzato in antropologia culturale presso la Catholic University of America di Washington. Ha vissuto in Colombia dal 1965 al 2010 con un intervallo di un anno in Venezuela. Durante la sua lunga esperienza si è sempre occupato di popoli indigeni, prima come missionario, poi come missionario e antropologo.
  • Jaime C. Patias. Missionario della Consolata, giornalista, attualmente è membro della Direzione generale dell’Istituto Missioni Consolata con responsabilità sulla regione americana.
  • A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

foto Paolo Moiola




Libri: Contro la mentalità predatoria

yesto di Chiara Brivio |


Cosa può accomunare un libro sull’Amazzonia a un altro sulla prostituzione? La denuncia di quella mentalità che considera l’ambiente, da un lato, e la donna, dall’altro, non come un dono da custodire, ma come una preda da possedere e usare a proprio piacimento. Lo sfruttamento dell’Amazzonia, come quello delle donne va fermato.

Anche quando si leggono due libri con temi apparentemente molto lontani tra loro, si possono trovare interessanti assonanze, e una certa comunanza di ideali e di visione di fondo.

Questo mese vi parliamo di due libri che portano l’attenzione sull’Amazzonia sfruttata e depredata, come le tante donne che la abitano, da una parte, e sulle tante ragazze gettate nelle nostre strade e costrette a vendersi per sopravvivere, dall’altra. Due facce di un’unica visione distorta e malata della società – come spesso ci ricorda papa Francesco -, basata sullo sfruttamento dei deboli e degli indifesi.

In questi testi si ritrovano anche esempi di lotte edificanti, di tentativi di riconoscimento e di riscatto delle donne, che offre uno scorcio di speranza, molto spesso nutrita dagli sforzi e dall’impegno della Chiesa.

Frontiera Amazzonia

«Frontiera Amazzonia. Viaggio nel cuore della terra ferita» è il racconto dei viaggi che Lucia Capuzzi e Stefania Falasca, due firme del quotidiano «Avvenire», hanno compiuto nella foresta amazzonica attraverso quattro dei nove paesi che la ospitano. Pubblicato da Editrice Missionaria Italiana in occasione del Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre, il libro narra di un viaggio che vuole raccogliere l’eredità e, idealmente, continuare quello iniziato da papa Francesco a Puerto Maldonado, Perù, nel gennaio 2018.

«Frontiera Amazzonia» è un libro interessante già per il modo in cui è strutturato, perché ogni capitolo è dedicato a una particolare «ricchezza» dell’Amazzonia: oro, legname, coca, petrolio, esseri umani; tutte risorse che sono anche la sua maledizione, portando nella foresta miniere illegali, tratta di persone, disboscamento.

Il quadro che emerge da questo appassionato reportage non è affatto roseo, anzi.

A prima vista potrebbe indurre il lettore a pensare che un’inversione di tendenza per il nostro «polmone verde» non sia nemmeno immaginabile (siamo al 20% del disboscamento, gli scienziati hanno stimato che il punto di non ritorno si aggiri intorno al 40%), soprattutto nell’era del governo di Jair Bolsonaro in Brasile. Tuttavia, come spesso accade, la speranza viene dalle donne, vere protagoniste di questo libro.

Abusate e vittime di soprusi come la loro terra – «l’Amazzonia è una donna, una donna stuprata», scrivono Capuzzi e Falasca nell’introduzione -, sono impegnate nella lotta e nella difesa dei loro diritti, nonché nel mantenimento del delicato equilibrio ecologico del loro territorio. Figure fiere e forti, sono suore, contadine, leader indigene come Nemo, del popolo degli Waorani, che lotta contro i «rapinatori della terra» che inquinano il territorio con l’estrazione del petrolio. O come Marcivana Sateré Mawé, leader del Copime (Coordinação dos povos indígenas), che ci ricorda che, oltre alle multinazionali, sono in primis i pregiudizi a dover essere estirpati: «La gente non può concepire che l’indio oggi possa andare al college, che sia dottore, avvocato, insegnante. L’indio sa che cosa vuole. Vogliamo essere noi stessi e mantenere viva la nostra cultura per le generazioni future».

Sono vittime dell’estrattivismo e di quel «capitalismo rapace» e «usa e getta» che «produce scarti», come più volte denunciato da papa Francesco.

Sono rappresentanti di una condizione femminile che si rispecchia anche nel ruolo che ricoprono all’interno della chiesa locale, come suggerisce padre Enrico Uggè, missionario del Pime in Amazzonia: «Non si tratta di “supplenze”. Il futuro di una chiesa che rimane e cresce passa per il cuore di queste donne. E laggiù in Vaticano dovrebbero considerare anche loro e tenere conto del ruolo centrale che oggi svolgono nella chiesa amazzonica». Da leggere la prefazione del cardinale Cláudio Hummes, relatore speciale al Sinodo panamazzonico.

Donne crocifisse

«Qualsiasi forma di prostituzione è una riduzione in schiavitù, un atto criminale, un vizio schifoso». Pesano come macigni le parole di papa Francesco nella sua prefazione al volume di don Aldo Buonaiuto, «Donne crocifisse. La vergogna della tratta raccontata dalla strada», uscito per Rubbettino.

Buonaiuto, sacerdote, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, esorcista, da anni in prima linea contro lo sfruttamento, ha voluto raccogliere nel libro le numerose storie di quelle «sorelline» – come le chiamava il fondatore della Comunità, don Oreste Benzi – che ha incontrato sulle strade nel corso degli anni. Storie di violenza, di soprusi e di sfruttamento raccolte dalla voce delle tante, troppe, ragazze che finiscono costrette sui marciapiedi delle nostre città.

I dati che Buonaiuto cita nella prima parte del volume, un’accurata analisi del fenomeno sulla strada e online, sono impressionanti: in Italia le schiave del sesso sono circa 120mila, il 37% delle quali minorenni. Il 36% del totale proviene dalla Nigeria. Un giro d’affari che, a livello globale, si aggira sui 186 miliardi di dollari all’anno.

L’autore del libro pensa che l’unica soluzione sia una riforma della legislazione italiana, sul modello di Svezia e Francia dove viene punito il cliente invece della prostituta, producendo un capovolgimento di prospettiva che riconoscerebbe alle donne il loro status di vittime di sfruttamento e che in quei paesi ha portato a una drastica diminuzione della domanda.

Il libro è una risposta chiara a tutti coloro che vorrebbero riaprire le case chiuse, o che la pensano come il governatore di una ricca regione italiana che recentemente ha dichiarato che chi si fa complice dello sfruttamento di queste ragazze è «una persona che ha qualche necessità fisiologica».

Le vere protagoniste di questo volume sono, comunque, le testimonianze delle vittime sotto forma di lettere. Esse raccontano di un destino comune: la fuga dalla povertà, la promessa (fasulla) di un lavoro in Europa, la schiavitù – termine che ricorre spesso nel libro – per le strade.

Tra queste donne c’è Mary, «ex bambina soldato abituata a difendersi da sola e soprattutto a lottare per sopravvivere», che non sopporta il pianto dei bambini perché le ricordano sua figlia, partorita in agonia dietro un cespuglio, sotto gli occhi di tutti, e lì spirata dopo pochi istanti. C’è Stefania, bulgara, che davanti al presidente Mattarella, nonostante la sordità che la affligge per le torture subite, si è appellata a tutti i «clienti», dicendo: «Sappiano che stanno sbagliando». C’è Blessing, nigeriana, che, alla richiesta di don Buonaiuto di mostrarle il braccio nascosto sotto la giacca intrisa di sangue, raccontò che un cliente «dopo averla pagata le bloccò il braccio incastrandole la mano nella portiera per riprendersi il denaro e scappare».

Leggendo questo libro viene da chiedersi perché ancora ci siano così tanti uomini nel nostro paese (le stime parlano di tre milioni di clienti) che desiderano di abusare di queste donne, obbedendo a quella «mentalità patologica» a cui fa riferimento papa Francesco nella sua prefazione.

Sarebbe necessaria una «conversione» da parte loro, una conversione che li spinga, come faceva don Benzi, a domandare: non «quanto vuoi?», ma «quanto soffri?».




Dal Sinodo per l’Amazzonia una nuova sfida per la missione

«Non indurite il vostro cuore»

testo della Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana |


«Vi vedo un po’ inquieti, forse non capite di che cosa ha bisogno l’Amazzonia… Noi abbiamo una nostra visione, questo ci avvicina a Dio, la natura ci avvicina a poter contemplare di più il volto di Dio, a contemplare l’armonia con tutti gli esseri viventi. Mi sembra che non vi tornino i conti, vi vedo preoccupati, dubbiosi di fronte a questa realtà che noi cerchiamo. Non indurite il vostro cuore».

Tra le tante parole ascoltate in queste settimane intorno all’Amazzonia è l’appello pronunciato da Delio Siticonatzi Camaiteri – indio cattolico peruviano, membro del popolo Ashaninca, una delle 390 etnie indigene della grande foresta che il Papa ha voluto a Roma nel cuore della Chiesa universale – il riassunto più efficace che come riviste missionarie ci portiamo a casa da questo Sinodo: «Non indurite il vostro cuore».

Conferenza stampa del 7/10/2019 (foto Guilherme Cavalli_Cimi)

Fin dal suo cammino di preparazione, il Sinodo ha proposto uno sguardo unitario su una regione del mondo parcellizzata dagli interessi di un’economia assetata di materie prime e ridotta a riserva da sfruttare, senza rispetto per niente e per nessuno.

Questo Sinodo ha avuto il coraggio di mettersi in ascolto di popoli e culture che il mondo globalizzato vorrebbe ridurre a semplici reperti da museo. Persone e comunità che invece hanno un messaggio forte da portare alla società e alla Chiesa del XXI secolo e desiderano, allo stesso tempo, ascoltare la parola di Gesù.

Questo Sinodo chiede alla Chiesa di essere autenticamente missionaria, e a noi riviste missionarie (associate nella Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana) lascia in eredità alcuni compiti.

1) Continueremo a parlare dell’Amazzonia. Abbiamo visto in queste settimane quanto anche in certe frange del mondo cattolico i pregiudizi sui suoi popoli siano radicati. Quanta ignoranza, quanta superficialità, quanto disprezzo per coloro che vivono una cultura diversa dalla nostra. ; quanti occhi chiusi sui tanti cristiani che anche in Amazzonia sono perseguitati e muoiono nell’indifferenza di un mondo che non accetta mai di porsi domande sull’unico vero idolo del nostro tempo: il proprio carrello da riempire al supermercato. Per questo moltiplicheremo i nostri racconti. Aiuteremo a scoprire che uno sviluppo amico della biodiversità fisica e culturale dell’Amazzonia è possibile ed è già realtà là dove non regna solo la legge del profitto massimo e immediato. Andremo avanti a ripetere il messaggio che Papa Francesco ha messo al cuore dell’enciclica Laudato Sì: tutto è connesso.

2) Racconteremo il cammino della Chiesa dal volto amazzonico, di comunità che alla luce del Vangelo vogliono rileggere la propria storia, la propria cultura, i propri miti. È quanto la prima evangelizzazione realizzò in Europa, dando vita a sintesi e devozioni straordinarie; perché dovrebbe creare scandalo se a compiere questa stessa inculturazione della fede oggi sono i cristiani di altri continenti?

3) Riveleremo i volti delle comunità cristiane dell’Amazzonia, con ministeri che hanno qualcosa di importante da suggerire alle nostre comunità; i volti delle donne, che in tanti luoghi sono già punto di riferimento e leader di comunità, e i volti dei martiri/testimoni che stanno pagando con la vita per un mondo nuovo.

Ma proveremo anche a far capire a chi si scandalizza che no, in Amazzonia nessun cristiano guarda alla statuetta della Pachamama come a un idolo da adorare. In quelle viscere ritrova un’immagine della misericordia di Dio che troppi cristiani in Occidente oggi fanno fatica a contemplare.

«Non indurite il vostro cuore». Alla fine, il punto è proprio questo. Perché la dove il cuore è duro non c’è posto per la missione.

In Amazzonia come nelle nostre città.

Fesmi

Foto di gruppo del 17/10/2019 – Vatican Media

Firma del Patto delle Catacombe (foto Guilherme Cavalli-Cimi)




Con Puat Subyz nella Raposa Serra do Sol

testo e foto di Dan Romeowww.iviaggididan.it


Incontro fratel Francesco Bruno, detto Cico, classe 1946 di Pinerolo (Torino), a Boa Vista, in Roraima, Brasile. Arrivato là nel ‘76, è un uomo d’altri tempi, con un umorismo contagioso e una manualità in grado di passare dalla riparazione di un carburatore alla realizzazione di chilometri di acquedotti. Lo definisco un eroe, capace di amore, dedizione, passione, tenacia e coraggio. Trascorro con lui pochi giorni alla scoperta delle missioni tra i popoli indigeni e dei progetti realizzati.

A bordo del suo camioncino Chevrolet raggiungiamo le missioni di Maturuca e Camarà. Le lunghe ore trascorse insieme mi aiutano a comprendere, attraverso i suoi racconti, le questioni che lo preoccupano maggiormente e che affliggono i territori indigeni minacciati da fazendeiros e garimpeiros (allevatori di bestiame e cercatori d’oro).

Questi ultimi stanno sfruttato da tempo le terre ancestrali occupandole abusivamente e attentando con ogni mezzo alla stessa esistenza delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Ingarikó e Patamona.

Per i popoli indigeni la terra è tutto, è la vita stessa. Soddisfa tutti i loro bisogni materiali e spirituali. Fornisce cibo e riparo ed è il fondamento della loro identità e del loro senso di appartenenza.

Le invasioni e la situazione dei territori indigeni

L’invasione dei territori indigeni si protrae da oltre 500 anni ed è stata da sempre attuata attraverso la violenza sulle popolazioni, la distruzione degli ecosistemi, il furto delle conoscenze e la schiavitù fisica e spirituale. Una guerra che sembra non avere fine.

Il decennio che volge al termine rivela quanto il colonialismo rimanga vivo e operativo. Un’offensiva orchestrata da potenti interessi finanziari, corporazioni neo-estrattive e megaprogetti di sviluppo, continua a minacciare vite, culture e territori.

L’avanzare dei governi di destra e autoritari in Brasile rafforza la strategia di colonizzazione che va contro i diritti delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol, attraverso meccanismi istituzionali che favoriscono quelli che alcuni definiscono etnocidio ed ecocidio.

Nonostante le violenze subite, le popolazioni indigene resistono e vogliono essere soggetti del proprio destino. La causa indigena appartiene a tutti, indigeni e non. I processi come la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico rappresentano, infatti, una minaccia crescente per il mondo intero.

L’intervista

Dopo il nostro primo incontro a Raposa Serra do Sol, ho occasione di incontrare Puat Subyz, questo il nome indigeno di fratel Cico (sarebbe Chico, pronunciato scico in brasiliano, ndr), varie volte. Puat Subyz significa scimmia urlatrice, ma, come precisa lui stesso, l’origine del soprannome deriva dalla barba che all’inizio portava bella folta e fluente.

Mi racconti l’origine della tua vita da missionario in Roraima?

«Tutto è nato quando ho saputo che i missionari in Brasile avevano bisogno di un meccanico riparatore.

Quando sono arrivato a Boa Vista, nel 1976 e, più precisamente, a Calungà, dopo soli tre giorni, un missionario mi ha invitato ad andare con lui in moto in un villaggio indigeno. Un viaggio sotto la pioggia e segnato da numerose cadute nei profondi banchi di sabbia fine. Arrivati nella chiesetta del villaggio, il missionario, in abito talare bianco, durante la sua predica ha puntato il dito verso l’esterno della chiesa dicendo ai fedeli, cinque donne e sei bambini: “Voi non dovete fare questo”. Indicava gli uomini del villaggio che dormivano tra le alte erbacce dove erano caduti durante la sbornia della sera precedente.

Da quel giorno, iniziai a chiedermi come fare per evangelizzare e riparare le persone in panne (e non più solo gli automezzi)».

Quali sono state le tappe della tua lunga esperienza?

«Da quel lontano 1976, ho vissuto 14 anni a Calungà nel Centro Educativo della Consolata, insegnando e lavorando a riparare macchinari e automezzi della diocesi e della popolazione locale. Il fine settimana, partivo alla volta dei villaggi di lingua indigena Wapixana nella regione di Serra da Lua, per il lavoro di evangelizzazione e assistenza religiosa.

Dal 1991 al 1996, sono stato animatore missionario nelle scuole e nelle parrocchie di Erexim, nel Rio Grande do Sul. Ho poi trascorso 18 mesi nella missione di Catrimani nella terra yanomami, un anno alla missione parrocchiale di Alto Alegre, tre anni alla missione della Barata nella regione Taiano, sei anni all’area missionaria di Caranà a Boa Vista, un anno a Maturuca, sei anni nella missione di Camará nella regione Baixo Cotingo. Dal 2016 sono tornato a Maturuca».

Quali le maggiori difficoltà che hai incontrato in questi anni?

«In primo luogo, la malaria. I numerosi incidenti e le cadute con la mia motocicletta, i viaggi lunghi su strade e sentieri sconnessi e disseminati di pietre, crateri, pantani, torrenti da guadare; imboscate da parte di garimpeiros e fazendeiros evitate solo grazie alla protezione degli stessi indigeni; le incomprensioni e, in ultima istanza, i miei limiti personali e la poca preparazione per lavorare con popoli e culture molto differenti da me».

Quali e quante sono le etnie che hai incontrato in questi anni nella Serra do Sol?

«Nella Regione Baixo Cotingo, ho lavorato con i Macuxi e con gli Irian, due etnie con lingua simile che oggi convivono ma che in passato erano sempre in lotta tra loro. In misura minore ho anche interagito con individui di lingua Wapixana. Nella regione Serras invece, ho lavorato solo con Macuxi e poche persone di altre etnie presenti nelle nostre assemblee periodiche. In generale, i Macuxi, costituiscono la maggioranza insieme a minoranze di Ingarikó, Taurepang, Patamona, Maiongong e qualche Wapixana. Gli Irian, nella Regione Baixo Cotingo, sono al secondo posto come numerosità. Da notare che i Wapixana sono del gruppo linguistico Aruak. Tutti gli altri del gruppo linguistico Carib».

Quali sono le tue maggiori preoccupazioni legate ai problemi che da sempre affliggono le terre indigene?

«Al momento nella Regione Serras, ci sono invasioni di turisti con vari tipi di distrazioni. C’è una forte presenza di venditori ambulanti, che offrono mercanzie di ogni sorta, tra cui bevande alcoliche e droga, senza nessun controllo da parte del governo. Al contrario, il paradosso è che gli indigeni non possono portare i loro prodotti in città a causa della “mosca della Carambola” e il controllo del governo da questo punto di vista è molto severo.

Fortissime le incursioni dei politicanti che offrono di tutto, soprattutto la realizzazione di fantomatici progetti che non sono in sintonia con l’ecosistema della regione e la stessa cultura indigena. Molte le promesse mai mantenute, per fortuna degli indigeni, i quali spesso si lasciano ingannare da questi uomini in malafede e senza scrupoli.

Nella Regione Serras c’è poca vegetazione, tipica dei climi semi aridi. Gli indigeni hanno iniziato da qualche tempo a organizzare fiere di sementi e piante con relativo scambio di prodotti del territorio; stanno così crescendo gli scambi e il commercio di beni che generano lentamente un aumento della produzione alimentare locale.

La televisione è purtroppo il mezzo più distruttivo nelle comunità indigene: è comune vedere nelle capanne di legno e foglie, televisori con grandi schermi alimentati da piccoli generatori o dallo stesso generatore del villaggio, quando questo funziona.

Nella terra yanomani, sono presenti oltre ventimila invasori garimpeiros e questo comporta malattie, morte e annientamento sociale e culturale per gli indigeni.

Il furto delle conoscenze e la distruzione dell’ecosistema sono piaghe secolari.

Purtroppo sono pochi gli indigeni che si preoccupano di queste tematiche che affliggono la loro società e il loro ambiente naturale».

Esistono ancora le condizioni per il pieno esercizio del diritto all’autodeterminazione delle popolazioni indigene?

«Ci sono molti indigeni e giovani impegnati che partecipano a incontri su questi temi, ma la lotta è durissima. Sono drammatici gli eventi recenti che vedono precipitare la situazione delle terre indigene e peggiorare le condizioni di vita dei popoli nativi a seguito dell’insediamento del nuovo governo di Jair Bolsonaro. Il nuovo presidente ha promesso, durante la campagna elettorale, di permettere l’estrazione dei minerali nelle riserve degli indigeni. Questo ha incoraggiato i cercatori d’oro a continuare le devastazioni per l’estrazione del prezioso metallo violando deliberatamente la legge e inquinando i fiumi.

Dal punto di vista dei diritti umani la situazione peggiora di giorno in giorno. Gli indigeni denunciano gli invasori finanziati dall’agrobusiness di violenza, terrorismo e guerriglia allo scopo di raggirare la legge, calpestando quanto affermato nella stessa Costituzione».

Credi sia possibile arrivare a una fine della violenza, della criminalizzazione e della discriminazione nei confronti delle popolazioni indigene e dei loro territori, garantendo la punizione dei responsabili?

«È il grande sogno indigeno ma anche di moltissimi brasiliani. Purtroppo, la realtà delle cose in Brasile peggiora di giorno in giorno. Impunità totale dei colpevoli ricchi e potenti, punizioni severe per gli indigeni e la povera gente».

Dan Romeo




Ricordando padre Giovanni Calleri, vulcano d’amore


Testi in memoria di don/padre Giovanni Calleri di: Ernesto Billò, Margherita Allena, Ugo Pozzoli, Corrado Dalmonego e scritti vari dagli archivi Imc
A cura di: Gigi Anataloni
Foto: da Archivio fotografico MC e famiglia Calleri

Sommario

«Se dovessi morire, è per una grande causa» (G. Calleri)

Missione straordinaria, difficile e dura.
Da Carrù al rio Alalaú: quando l’amore non ha confini «Non si accontentava delle mezze misure».
Padre Calleri nel ricordo degli Yanomami Da napë a xori
I ricordi della sorella, monaca di clausura Il coraggio di fare il bene bene.
Padre Giovanni Calleri, la forza dell’esempio.
Bibliografia essenziale.

 

 


Missione straordinaria, difficile e dura

Un giovane prete, missionario esemplare per generosità e coraggio. Un turbine di attivismo e di apostolato che sa coinvolgere, sorprendere, trascinare i giovani e i meno giovani. Padre Giovanni Calleri, carrucese (di Carrù Cn), perde la vita a soli 34 anni, tutti fervidamente vissuti. La perde in Brasile, nella foresta amazzonica, il 1° novembre 1968, durante una spedizione da lui guidata fra gli indios Waimiri-Atroarí del rio Alalaú (o rio sant’Antonio). Partita da Manaus il 13 ottobre con intenti umanitari e pacificatori, padre Calleri sa che l’impresa è molto rischiosa, anche per lui che in precedenza ha già saputo vincere la diffidenza degli Yanomami.

Proprio per i suoi precedenti contatti con gli indios, padre Calleri era parso l’uomo giusto per tentare la mediazione nel conflitto tra indigeni e governo: sia ai suoi superiori della prelazia di Roraima, che alle istituzioni brasiliane, preoccupate di superare le tenaci ostilità di indios ancora non contattati alla realizzazione di una strada nella foresta lunga 800 chilometri, da Manaus (Brasile) a Caracas (Venezuela): la Br-174, un’arteria che poteva cambiare aspetto all’Amazzonia «aprendola alla civiltà», ma anche a colossali interessi economici e minerari, all’invasione delle terre da parte di coloni e alla diffusione di malattie e «vizi» dei «bianchi» sconosciuti agli indigeni.

Sentendosi invasi nei loro territori millenari, gli indios, con attacchi a sorpresa, avevano costretto l’impresa a interrompere i lavori a duecento chilometri da Manaus; e proprio lì doveva intervenire la spedizione guidata da padre Calleri (in tutto, compreso lui, otto uomini e due donne) per convincere i diversi gruppi di indigeni a spostarsi dall’area interessata dalla costruzione della strada. Certo erano in gioco interessi estranei allo spirito evangelico di un missionario; ma egli sapeva che il governo era determinato a fare la strada a ogni costo e che sui duemila indios Waimiri-Atroarí pesava la minaccia di sterminio sia con bombardamenti dal cielo che con rappresaglie da parte dell’esercito. Padre Giovanni era ben consapevole dei pericoli che avrebbero corso lui e i suoi compagni, sia per l’istintiva diffidenza degli indios, sia per le ambiguità del governo e gli enormi interessi in gioco; ma non gli mancavano coraggio e fiducia in Dio. «Se dovessi morire, si sappia che è stato per una grande causa», scrisse, partendo, alla famiglia a Carrù.

La spedizione partì a metà ottobre da Manaus, il 22 cominciò a entrare nel territorio conteso. Aveva tempo un paio di mesi per pacificare gli indios, poi l’esercito avrebbe avuto mano libera. Durante la spedizione sette messaggi radio raggiunsero Manaus in un’alternanza di speranze e di allarmi. Poi, dal 31 ottobre, la radio tacque: un silenzio carico di brutti presagi. Le ricerche partirono con grande ritardo il 7 novembre con ricognizioni aeree, e solo dal 24 novembre con pattuglie nella foresta, fino all’atroce scoperta del 30 novembre: nove cadaveri ridotti a scheletri spolpati dagli animali e dagli avvoltorni. Un massacro per il quale furono incolpati e puniti gli indios. Più avanti presero forza ipotesi inquietanti, come quella di un doppio gioco messo in atto da un membro della spedizione, unico sopravvissuto, in combutta con alcuni indigeni traditori e il governo, per favorire la soluzione drastica voluta da quest’ultimo contro gli indigeni.

Grande sconcerto si diffuse tra confratelli e amici in Brasile, commozione in Italia, nella sua famiglia e dovunque padre Giovanni era passato lasciando segni e semi di una presenza umana ed ecclesiale di singolare incisività. Fu vasta l’eco alla tivù, sui giornali nazionali e locali.

Ernesto Billò

I componenti della spedizione di pacificazione


Da Carrù al rio Alalaú:

quando l’amore non ha confini
«Non si accontentava delle mezze misure»

Cinquant’anni fa, padre Giovanni Calleri e otto dei suoi nove compagni di spedizione (sei uomini e due donne) furono massacrati dagli indios Waimiri-Atroarí nei pressi del rio Alalaú, nello stato di Roraima in Brasile. Volevano pacificare le comunità indigene e convincerle a spostarsi dal percorso della strada Manaus – Caracas, la Br-174, che il governo era deciso a costruire ad ogni costo invadendo i loro territori ancestrali e facendo piazza pulita di ogni resistenza. La spedizione aveva poche settimane di tempo per raggiungere lo scopo, ma troppi interessi erano in gioco. Un’impresa che si capisce solo nella logica dell’amore.

Nato nel 1934, ultimo di quattro figli (Maria, Margherita, Lucia le sorelle), a otto anni – nel 1942 – rimane orfano del padre Giuseppe, che, dopo alcuni anni vissuti da migrante in California, era tornato e aveva acquistato la cascina Pralungo a Morozzo (Cn). La mamma Lucia Massimino, rimasta vedova, deve far ricorso al proprio carattere forte, pratico, risoluto. Trasferisce i suoi in via Monasteroli a Carrù, e lì Giovanni – legato alle sorelle, specie a Margherita (poi suor Teresina), alla madrina e ai cugini – frequenta le prime classi elementari e la parrocchia retta allora da don Giorgio Oderda che consiglia per lui nell’ottobre ‘44 il passaggio alla quinta elementare nel piccolo seminario della diocesi di Mondovì a Vicoforte. E lo presenta così: «È un bravo giovinetto inclinato a pietà, assiduo nel servizio in chiesa e tra gli aspiranti di Azione Cattolica Può diventare domani un buon sacerdote». Giovanni ha solo dieci anni, e condivide quel distacco da casa con l’amico Antonio Servetti e con un ragazzo di qualche anno maggiore, Matteo Rino Filippi.

Da Carrù al seminario

Per Carrù e la Langa è un periodo drammatico sotto l’occupazione nazifascista. Il seminario tiene quei ragazzi al riparo dai rigori della lotta, ma non dai rigori di un’alimentazione di pura sussistenza. Giovani stomaci vuoti, bilanciati dalla spensieratezza dell’età e dall’impegno nello studio e nella preghiera. Nonostante quelle ristrettezze Giovanni comincia a manifestare vitalità, intraprendenza e ingegnosità non comuni. «Non si accontentava delle mezze misure», ricorda la sorella Margherita che di lì a poco sarebbe entrata, ventenne, nella clausura del Carmelo a Torino col nome di suor Teresina. La mamma fa fatica ad accettare come una benedizione quella duplice vocazione nata in famiglia, ma come non capirla? Sì, perché alla conclusione della quinta ginnasio, Giovanni – a differenza dei suoi due amici – sceglie di vestire la talare e di proseguire gli studi (filosofia dal 1950 al 1953 e teologia dal 1953 al 1957) nell’antico seminario maggiore di Mondovì Piazza. Lo fa con convinzione, anche se la mamma lo vorrebbe ingegnere.

A ogni fine d’anno ottiene risultati e giudizi più che buoni, e più che buone sono le relazioni stese da don Oderda sulla sua condotta nelle settimane estive in cui torna a casa per le vacanze: «Pietà profonda, volontà tenace, studioso con vocazione sicura». Col rettore del seminario don Giorgio Gasco, invece, qualche attrito e incomprensione non mancano per la vivacità e impulsività del giovane, tipica di una personalità in formazione desiderosa di agire sulle cose e sugli altri, con slancio e una certa autonomia, come dimostrano le sgroppate estive in bicicletta anche assai lontano e le avventurose uscite con i seminaristi più piccoli affidati alla sua assistenza negli anni ‘54-‘56. Nel dicembre del ‘56, quando è suddiacono, esprime al direttore del seminario il suo desiderio di diventare missionario. Un proposito al quale ha contribuito, dalla clausura, anche suor Teresina. I diretti superiori però rinviano a tempo imprecisato ogni decisione. Intanto le inattese difficoltà, gli inspiegabili ostacoli incontrati via via lo radicano ancor più nel suo sogno.

Vicecurato «dirompente»

Il 29 giugno 1957 Giovanni è ordinato prete (con Angelo Maritano, Efisio Caredda, Giovanni Crosetti, Armando Peano) da monsignor Sebastiano Briacca, vescovo di Mondovì. E subito va vicecurato festivo a Niella Tanaro, dove – giovane coi giovani – anima un ventaglio di proposte e di attività: dalle gite in bici in gruppo, al lancio – fallito – di una mongolfiera alta come il campanile, e tanto altro. Non tardano a venire espresse su di lui alcune riserve, specie dal parroco. Così nel maggio ‘58 il vicecurato scavezzacollo è trasferito nella remota Val Bormida. C’è sconcerto e dispiacere in paese, specie tra i giovani. Ma a Calizzano con don Suffia il rapporto è più fiducioso e costruttivo. «Ci impressionava per la grande devozione», ricorda un ragazzo d’allora, «anteponeva Dio a tutto e cercava di portare noi scalpitanti a fare lo stesso». Quindi, la partita di calcio si fa solo dopo vespri e benedizione. Le partite più memorabili da lui ideate sono quelle tra i «rossi» dello stato e i «neri» della chiesa (3-2; 3-3) seguite da accese tifoserie.

Intanto cresce in lui l’aspirazione a una vita diversa, in terra di missione. E cresce pure l’impazienza per l’assenso del vescovo che ancora non arriva. Tramite la sorella, don Giovanni contatta il Pime, Pontificio istituto missioni estere di Milano, e si reca da loro per un corso di esercizi spirituali. Ma da Mondovì arrivano ancora freni, sicché Giovanni sollecita suor Teresina: «Mettiti un po’ a pregare per me». Difficile però smuovere quei dubbi. La scusa è: scarsezza del clero. Scarsezza? Col seminario pieno? La sorella gli suggerisce di pregare e riflettere molto per conoscere bene la volontà di Dio. Pazienza ancora per un anno almeno. A fine 1959 è mandato come vicecurato a Farigliano, a due passi dalla sua Carrù e alle porte della Langa. Quel parroco lo accoglie bene e dà spazio alla sua estrosa intraprendenza. Don Giovanni si butta dunque più che mai ad animare il paese e i dintorni. Suscita adesioni e simpatie nei giovani che lo seguono in iniziative di vario richiamo. Così nasce nel gennaio ‘61 «A.gi.r.e.» (Associazione giovanile ricreare educando) che organizza spettacoli teatrali con la filodrammatica «Cit Farian Show», partite di calcio, concorsi ippici (con l’olimpionico Piero D’Inzeo), gare di moto, incontri di pugilato. Successi esaltanti e qualche inatteso e costoso flop. Mentre don Giovanni si appresta a inaugurare il nuovo stadio «Indemini» da lui tenacemente voluto e sostenuto, un incidente con la sua auto – nel quale muore un uomo – gli crea turbamenti. Dalla clausura intanto la sorella si preoccupa per lui, sollecita più volte in alto loco quell’assenso che tarda troppo. «Se ha veramente la vocazione missionaria, perché non lasciargliela assecondare presto?».

Il sogno della Missione

Finalmente nell’autunno 1962 giunge il via libera per un anno di preparazione presso il Pime. A Farigliano è amarezza generale quando lui stesso ne dà l’annuncio. «Ma quando Dio chiama…», dice. E il parroco, in appoggio: «Il suo ardente cuore non conosce limiti nel darsi agli altri. Troverà la forza di una totale offerta di sé per la salvezza di tanti». Parole profetiche. Il 28 settembre una folla lo accompagna fino a Villa Grugana, a Calco presso Lecco. Ma il postulandato (periodo di prova prima del noviziato) al Pime dura pochi mesi. Il direttore sospetta infatti che don Giovanni abbia ancora pendenze a Farigliano con la gestione di A.gi.r.e di cui è presidente, nonostante la regola precisi di tagliare con ogni impegno precedente. Con dispiacere gli consiglia di ritirarsi e il 14 dicembre lo dimette.

Che fa don Giovanni? Su consiglio della sorella va a bussare alle Missioni della Consolata, da lui ben conosciute anche perché radicate da tempo nella Certosa di Pesio, nella stessa diocesi di Mondovì. Mons. Briacca, il suo vescovo, al quale vengono richieste informazioni canoniche sul suo conto, lascia, in una lettera del 12 gennaio 1963, la seguente autorevole testimonianza: «Attestiamo che don Calleri, di questa diocesi, ha sempre tenuto una condotta sacerdotale buona sotto ogni riguardo, dimostrando doti particolari di zelo, di volontà generosa, e carattere sereno e disinteressato. Lo crediamo bene intenzionato verso la vita missionaria, sulla quale ha insistito con frequenza. Crediamo possibile con la guida di provetti missionari, ottenere da lui una maggior fermezza di volontà nelle singole iniziative, ed un più equilibrato giudizio della giusta misura nelle attività esteriori, la qual cosa dovrà prefiggersi nel periodo di postulandato e di noviziato. Saremo lieti della sua buona riuscita».

A padre Delio Lucca, superiore regionale dei missionari della Consolata che chiede informazioni confidenziali, il direttore del Pime di Milano risponde illustrando le difficoltà avute con lui concernenti l’associazione A.gi.r.e, e così conclude: «Voglio sperare che quanto è successo possa servire a don Calleri per il futuro. Mi è sembrato un buon giovane, molto dinamico, ma bisognoso di incanalare le sue energie nell’obbedienza. Se sotto la loro guida diventerà un buon missionario, gioirò e ringrazierò il Signore».

Don Giovanni giunge così all’Istituto Missioni Consolata con la sua grande carica di vitalità e si sottomette volenterosamente alle sue regole. I superiori, apprezzando le eccezionali qualità organizzative del postulante, il suo grande spirito di dedizione e la non comune capacità comunicativa, lo aiutano a moderare gli ardori del suo carattere tanto fattivo ed esuberante.

Missionario della Consolata

Non risulta facile neppure il nuovo inserimento come postulante tra Rovereto e Rosignano; il percorso è ancora accidentato (e ci si mette di mezzo pure un’assurda lettera diffamatoria e l’eccessivo «scandalo» per la riproposizione a Merano – come già a Calizzano – di un incontro di calcio «Chiesa-Stato», col clero in campo coi calzoncini corti). Comunque, Giovanni trovò maggior comprensione e incoraggiamento: da Farigliano, da Mondovì e dalla maggior parte dei maestri della Consolata.

Giovanni comincia col mettere in ordine l’archivio a Rovereto, poi prende a organizzare mostre e giornate missionarie a Cortina, Merano, coinvolgendo anche villeggianti. Proprio non riesce a star fermo; le regole gli vanno strette, e fa corrugare qualche fronte. Qualche padre si lamenta, anche se – senza ammetterlo – ammira e invidia tanta vitalità, e quelle spiccate doti di persuasione.

L’ammissione al noviziato non è però «pacifica». Una relazione di padre Andrea Salvini riassume bene le qualità e i limiti di don Giovanni e determina la sua accettazione: «Lati negativi: don Calleri è portato all’indipendenza nell’assolvere gli incarichi ricevuti: non per ambizione ma per una certa frenesia nell’azione che lo spinge facilmente a strafare. Ha una salute di ferro e perciò non bada al riposo; passa i limiti soliti della resistenza propria e altrui. Chi lavora con lui presto si sfianca. Lati positivi: ha una pietà solida e costante, ha un vero entusiasmo per le missioni e lo comunica agli altri suscitando collaboratori e offerte nelle giornate missionarie. Ha un dono quasi eccezionale di persuasione con poche parole dette nelle prediche. Si accaparra l’aiuto disinteressato di volenterosi. Concepisce l’obbedienza in modo un po’ … spartano. Non rifiuta nessun comando e ubbidisce senza discussioni; però per agire fa notare che vorrebbe una certa libertà. Se lo si tiene imbrigliato con le redini tese in giusta misura si potrà avere da lui un rendimento ottimo; se non lo si controlla potrà avere sbandamenti per troppo zelo. Io spero che avremo in lui un bravo padre della Consolata».

Don Calleri passa alla casa del noviziato a Bedizzole, dove trascorre ancora due mesi di postulandato prima di iniziare il noviziato. Padre Giovanni Morando, maestro dei novizi, lo accompagna nell’anno del noviziato e al termine dell’anno scrive: «È di pietà sincera, di costumi irreprensibili, socievole nella convivenza, di obbedienza a volte un po’ ragionata. Ha dato segni decisamente buoni della sua vocazione ecclesiastico-missionaria e di grandi possibilità nel lavoro apostolico. La sua estrosa genialità organizzativa e la sua salute forte lo spingono a gettarsi senza limite. Ma occorre che chi lo dirigerà comprenda le sue capacità e doti, e sia deciso nell’esigere da lui il rispetto dei limiti stabiliti. Per altro, sotto quest’ultimo aspetto, l’impegno non gli è mancato». Padre Giovanni Calleri viene ammesso alla professione religiosa, pronuncia i voti il 12 gennaio 1965 e viene destinato alla prelazia di Roraima, Brasile.

La partenza

Il 4 febbraio 1965 tutta Carrù gli è attorno per la consegna del crocifisso; poi padre Giovanni si reca al Carmelo di Torino per congedarsi dalla sorella. Che di là dalla grata gli dice: «Ti auguro di poter lavorare tanti anni per il Signore; poi, come premio, il martirio». E lui: «Sarebbe la grazia più grande». La sera del 15 febbraio, accompagnato fino a Linate da un nugolo di parenti e amici, parte per il Brasile, destinazione Roraima, Amazzonia. Mamma Lucia lo segue, soffocando le lacrime, fino alla scaletta dell’aereo, fino a che quella veste bianca e quella barba nera scompaiono dentro. Non lo vedrà più. Solo qualche lettera affettuosa, qualche foto, una voce di lontano.

All’arrivo a Boa Vista il 22 marzo 1965, scrive al superiore generale: «Oggi termina il nostro viaggio. Tutto felicemente bene. Le devo esprimere viva e filiale riconoscenza per avermi data la possibilità di lavorare per le missioni, tanto più in un campo come questo. Molti miei amici sacerdoti mi invidierebbero sapendomi a lavorare in queste situazioni così bisognose. Cercherò senz’altro di fare del mio meglio per essere un po’ meno indegno di questa chiamata di predilezione. Per questo la ringrazio della sua paterna benedizione che già benevolmente mi diede alla partenza e ancora mi vorrà dare».

In Roraima si prepara al lavoro missionario applicandosi innanzitutto allo studio della lingua portoghese, e poi partecipa ai viaggi per contattare gli indios Yanomami che vivono lungo il fiume Catrimani, accompagnando padre Bindo Meldolesi che della zona della foresta è un buon conoscitore. Quando padre Bindo si ritira, padre Calleri continua da solo e, pur in mezzo a qualche dubbio e perplessità da parte dei superiori, cerca di stabilire in maniera permanente la missione al Catrimani. La missione viene piantata lungo il fiume, perché considerato dagli indigeni luogo neutro di scambi e di incontro con altri gruppi.

Dopo quei primi contatti con il mondo indigeno, padre Giovanni così scrive nel luglio del 1965 ai suoi familiari: «Qui ho avuto impressione improvvisa di trovarmi in un paradiso terrestre. Tutto diverso, quasi completamente, dalla nostra Europa. Uomini e cose. Tutto a base di natura: come uscita dalle mani di Dio. C’è da imparare molto prima di insegnare. Pensavo che solo noi, civilizzati, fossimo capaci a vivere. Credo ora che sia diverso, soprattutto moralmente».

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Catrimani

In quel periodo padre Giovanni ha la fortuna d’incontrare padre Silvano Sabatini, amministratore di tutto il gruppo dei missionari in Brasile e appassionato del mondo indigeno, che lo comprende e lo accompagna nel suo intento di iniziare una forma nuova di evangelizzazione tra le popolazioni delle foreste che non sia la tradizionale «desobriga» (visite periodiche alle comunità per adempiere agli obblighi fondamentali di messa, confessione e comunione), utilizzata dai missionari in passato. Sono gli anni in cui gli effetti del Concilio Vaticano II si fanno sentire impellenti ed esigono una rivisitazione della prassi tradizionale della missione. Padre Giovanni è pronto alle nuove sfide e a continuare con impegno il suo lavoro nella missione del Catrimani.

La missione del Catrimani diventa il suo mondo per due anni. Vi si stabilisce evitando, per quanto possibile, il viaggio di 600 km lungo il fiume per ritornare a Boa Vista, la sede della Prelazia. Le sue giornate sono scandite da due ore di preghiera il mattino con la celebrazione dell’eucaristia in privato, e dieci ore di lavoro con gli indigeni. Nel suo bagaglio missionario c’era la concezione di una missione tradizionale ben strutturata, che ben presto accantona per ridurre all’indispensabile le costruzioni. Mette in piedi una capanna che gli possa servire da casa e alcuni magazzini. Avvicina la gente e da loro cerca di imparare la lingua: per lui è una priorità. Cura le persone con le poche medicine che ha a disposizione. Non regala niente, anche perché la gente già conosce il baratto. Offre oggetti indispensabili in cambio di ore di lavoro («mamo» sono dei cartoncini che usa come «moneta di scambio» in base alle ore di lavoro fatte). Disbosca, costruisce una pista per piccoli aerei per facilitare i contatti con la sede centrale senza dover sobbarcarsi i viaggi in fiume, dissoda terreno per piccole coltivazioni.

La gente impara a conoscerlo e collabora volentieri con questo straniero gentile, rispettoso e tanto laborioso. L’inizio di questa missione è incoraggiante. Padre Calleri non è ancora del tutto consapevole di quanti interessi esistano dietro a questa foresta lussureggiante e impenetrabile. Sa che il governo centrale del Brasile vorrebbe costruire una strada che va verso il Nord del paese e che dovrebbe passare proprio in mezzo ai luoghi dove abitano gli indigeni. Ma non sa che tutto questo è però solo la punta di un iceberg.

Il missionario si converte

Padre Sabatini intanto gli consiglia di seguire un corso di antropologia a Belém, dove insegna un missionario, buon conoscitore della realtà indigena. Padre Giovanni abbandona così il Catrimani e gli indios fra i quali, come confessa lui stesso, aveva cominciato a costruire il suo «nido» e si reca a Porto Alegre, nel Sud del Brasile, per seguire un corso di studi antropologici e allo stesso tempo offrire il suo aiuto di ministero in una parrocchia della città. È proprio questa interruzione del lavoro a Catrimani che gli permette di rivedere quanto finora realizzato e tracciare un piano per il futuro.

Ecco alcune linee-guida da lui maturate:

  • Le popolazioni indigene non devono essere «colonizzate o civilizzate» per poterle evangelizzare. Il missionario deve innanzitutto avvicinarsi a loro con grande stima e attenzione. Deve andare a scuola da loro per apprenderne la lingua, la cultura e le credenze.
  • L’approccio missionario ha bisogno di una radicale conversione. Gli indios non devono abbandonare la lingua e cultura per diventare «cristiani». Il missionario deve rispettarli, solidarizzare con loro, e non «imporre» i valori cristiani per farli giungere presto al battesimo. Questa fase di pre-evangelizzazione può avere una durata molto estesa. Il missionario non deve accelerare questo cammino di conoscenza, ma sottomettersi al loro ritmo di apprendimento e di crescita.
  • È possibile una promozione umana dell’indio? La risposta è affermativa ma sempre nel rispetto del suo cammino. Il criterio deve essere quello del «completamento» e non quello della «sostituzione», come è stato fatto troppo spesso in passato.
  • Bisogna fare sì che gli indios vengano a contatto con altre culture e realtà di vita perché anche per essi ci possa essere crescita e sviluppo. Il totale isolamento a cui la foresta li ha finora relegati ha impedito loro un naturale sviluppo (idea non più condivisa dai missionari oggi, ndr).
  • Una promozione umana e cristiana potrà avvenire attraverso l’utilizzo di quattro mezzi: la salute, il lavoro, la giustizia, l’elevazione intellettuale.
  • Il missionario, pertanto, deve innanzitutto credere che l’indio è un uomo libero, ha personalità, ha cultura, ha dignità, ha diritti, ha una patria che è la foresta.

Oltre a studiare, padre Calleri offre il suo aiuto pastorale in una parrocchia di Porto Alegre. Anche qui, la sua creatività, il suo slancio giovanile e impegno vulcanico, fanno sì che al termine degli studi, la gente e i sacerdoti desiderino che la sua presenza continui. Lo ricorda lui stesso in una lettera ai familiari del luglio ‘68: «Sono stato nel Sud del Brasile per fare un due tre corsi… E laggiù dove ero ospite feci una mezza rivoluzione, tanto che manco più riuscivo a venirne via: da Roraima mandavano una serie di telegrammi, della necessità del mio ritorno per un lavoro urgente tra gli indios; e di là, da Porto Alegre, rispondevano con sottoscrizioni a valanga per chiedere la mia permanenza là. Alla fine, ne venni fuori, ma con un sacco di nostalgia».

Salvare i Waimiri-Atroarí

Intanto nuove difficoltà si affacciano. Il governo brasiliano, costretto a sospendere i lavori per la costruzione della strada Manaus-Venezuela a causa di tribù ostili, richiede ufficialmente l’intervento della Prelazia di Roraima per un’opera di pacificazione. La strada che deve attraversare l’area indigena rischia di compromettere l’esistenza stessa di vari gruppi di indios a causa della distruzione del territorio, del contagio di malattie sconosciute agli indigeni e delle violenze perpetrate da lavoratori e minatori abusivi che inquinano il territorio alla ricerca di oro. La prelazia costituisce una commissione per studiare il problema in maniera da permettere da un lato di salvare gli indios e dall’altra di offrire al governo statale la possibilità di continuare la costruzione della strada Br-174. Di tale commissione padre Calleri è il segretario. La soluzione diocesana contempla un processo lento di avvicinamento, di conoscenza della popolazione e poi uno spostamento dei vari gruppi di indios in aree più sicure.

Padre Giovanni viene inviato dalla Diocesi di Roraima a Manaus per convincere le autorità governative della bontà del progetto dei missionari. E qui avviene invece un cambio di programma. Lo stesso padre Calleri, che tanto successo ha ottenuto con gli Yanomami, pare l’uomo giusto per l’impresa di capitanare una spedizione pacificatrice governativa. La missione è difficile e rischiosa. Egli aderisce alla proposta e accetta, pur sapendo che nessuna delle decine di persone partite negli ultimi anni per avvicinare quelle tribù aveva fatto ritorno.

Mentre da Manaus già si accinge alla partenza, ne dà notizia alla famiglia esponendo i motivi della sua decisione:

«Cara mamma e care sorelle,

[…] Vi dò una notizia: mi trovo in questo momento a Manaus, capitale dell’Amazzonia, per preparare una missione straordinaria: stavolta è molto difficile e dura. Il governo nazionale, che sta costruendo una grande strada intercontinentale tra il Brasile e il Venezuela, e detta strada è costretta a passare in una zona occupata completamente da Indios ferocissimi, di dove nessuno è mai riuscito a venir fuori vivo, ha chiesto ufficialmente l’intervento del nostro Istituto, il quale scelse me per eseguire l’impresa. Centoventi persone, in questi ultimi anni, hanno perso la vita sotto le frecce degli Indios, nel tentativo di pacificarli. La cosa è parecchio grossa: ne parlano giornali e radio.

L’Istituto, attraverso il Superiore Generale, che venne appositamente in Roraima, non mi obbligò, è logico. Ma io accettai. Il coraggio non mi è mai mancato. Se il nostro Istituto non accettava di intervenire erano duemila indios che venivano massacrati con bombardieri. Inoltre, trattandosi di un’impresa altamente umanitaria, sono certo che Iddio penserà a dare una mano anche Lui. Non è nemmeno il caso di dirvi di pregare. Già lo farete e lo farete fare.

Sinceramente, non sono sicuro di farcela. Ci metterò, però, tutta la prudenza e lo studio per evitare momenti brutti. Ma una cosa è certa: che questi gruppi di Indios sono espertissimi nel cogliere l’individuo quando meno se lo aspetta. Che lo Spirito Santo mi mandi la sua luce quando sarà tempo! In Catrimani, ora, le nove tribù con cui sono venuto in contatto, sono miei amici, molto … È costato parecchio duro lavoro, ma tutto andò bene: questa volta, invece, non lo so…

Sono con Dio e la sua buona collaborazione.
[…] Arrivederci presto!

Giovanni».

 

Con queste ultime parole padre Calleri presagisce la fine che toccherà a lui e ai suoi compagni di spedizione, poche settimane dopo.

Ernesto Billò e Margherita Allena
(con inserzioni da pubblicazioni  dei missionari della Consolata)

2 dicembre 1968. Padre Silvano Sabatini (a destra) trasportando le spoglie di padre Calleri all’uscita della cattedrale – da O Jornal do Coméercio del 3.12.1968

Le urne funerarie all’arrivo all’aereoporto di Punat Pelada a Manaus il 1° dicembre 1968. Quella di padre Calleri è la quinta.


Padre Calleri nel ricordo degli Yanomami

Da napë a xori

Da «straniero / nemico» a «parente / amico». Tradotte e trascritte quasi letteralmente, tre interviste a Yanomami che raccontano i primissimi incontri tra gli indios e padre Calleri, testimonianze del passaggio dalla diffidenza all’accettazione. L’originale è registrato in video.

Lavorare insieme

Intervista a Pedro Yanomami (di circa 80 anni) realizzata presso la comunità dei Maamapi theri, il 20 gennaio 2015.

«Inizialmente, [padre] Bindo [Meldolesi] abitò qui da solo e fece la pista di atterraggio. All’inizio abitò da solo e ci chiese di aiutarlo nel lavoro. Lui fece in questo modo: ci nutrì e si fece nostro amico. Lui disse così: “Io sono padre Bindo, sono veramente un padre”.

In seguito, aumentò il numero delle persone, [alla missione Catrimani]. È arrivato padre Calleri, scendendo con l’aereo. Con lui noi lavorammo. Padre Calleri ci chiese di lavorare».

[Interviene Teresa, moglie di Pedro] «Io, per prima, cinsi il mio collo con collane di perline. Quando altre donne videro che io avevo molte perline, rimasero felici e lavorarono con intensità alla pista di atterraggio. Noi donne lavoravamo e ricevevamo [in compenso] perline di vetro».

[Pedro continua] «Solamente i padri [i missionari e i loro aiutanti] arrivavano [a poco a poco] e aumentavano. Loro dicevano così: «Noi siamo padri; noi ci prenderemo cura di voi», e ancora: “Non ci sono altri napëpë [pl. non Yanomami o stranieri] che siano vostri amici”. I padri non mi alloggiarono in una casa di paglia, ma in una casa di assi. I padri costruirono la mia casa di assi, ben protetta. Loro mi chiamarono per abitare vicino. In quella direzione, dall’altro lato del fiume, avevamo una casa, ma loro mi chiamarono per abitare su questa sponda, vicino. Loro [i padri] iniziarono la scuola. Padre Giovanni, per primo iniziò ad insegnare. Lui consegnava [per il lavoro] biglietti [una forma di moneta che si chiamava mamo (occhio)], [in cambio] di questi biglietti distribuiva utensili. Così faceva padre Calleri. Disegnava molti biglietti [con simboli diversi corrispondenti alle ore di lavoro]. Con questi ricevevamo oggetti e utensili. Così faceva padre Calleri.

Con molto impegno, padre Giovanni scriveva nel quaderno la mia lingua. Io gli insegnai la mia lingua. Padre Giovanni diceva: “Insegnami la lingua yanomae”, perciò io gli insegnai. Gli insegnai il nome degli animali: “Questo è un tapiro, questo è un pécari, questa è una scimmia ragno, questa è una scimmia urlatrice, questo è una scimmia cebo, questa è una tartaruga di terra”, così gli dicevo. Così lui imparò a parlare molto bene».

 I primi contatti

Interviste a Alexandre (nascita: 1961) e Xirixana (nascita: 1956) realizzate presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 18 gennaio 2015.

«L’indio [di etnia Ticuna, chiamato] Peruano, accompagnava padre Calleri che distribuì alcuni oggetti [ami, forbici, ecc.] agli Yanomami che con lui visitarono le loro comunità [si riferisce ai primi viaggi esplorativi per contattare i vari gruppi risalendo il fiume Catrimani; era normale lasciare allora dei piccoli regali come riconoscenza per l’accoglienza ricevuta e per dimostrare la volontà di un incontro pacifico, ndr].

Due Yanomami, lo zio di Juruna – questo [giovane] seduto lì – e il marito dell’anziana madre [Andina], trasportarono alcuni utensili e gli alimenti dei due: di padre Calleri e di Peruano.

Inizialmente solo padre Calleri arrivò fino alla comunità di Hawarihi [quella di Alexandre, localizzata lungo il fiume Lobo d’Almada, affluente di destra del fiume Catrimani] e raggiunse le altre comunità degli anziani [lett. «antenati», perché molti di loro sono già morti, ndr]. In seguito, giunsero altri [insieme al padre].

In seguito, chiamò altri [abitanti] di questa regione. In questo modo, vide le necessità degli anziani e conobbe la loro cultura: l’amaca di cotone [coltivato nella piantagione], la mandibola di pecari per lisciare l’arco.

Padre Calleri osservò e provò [gli utensili degli Yanomami]: “Si fa così con questo?”. Vedendo l’utensile di denti di aguti [un roditore, ndr] legato al braccio, domandò: “Come lo fate?”. Gli anziani Yanomami insegnarono a padre Calleri: “In questo modo fabbrichiamo la punta [di freccia chiamata] atarihi; invece così, dopo avere ritorto [le fibre vegetali], prepariamo la corda per l’arco”.

In questo modo, Calleri vide con i suoi occhi le difficoltà degli anziani [che confezionavano i loro utensili]: le donne cuocevano la focaccia di manioca sulle pietre, grattugiavano i tuberi di manioca [sfregandoli] sulla corteccia dell’albero operema. Vide le donne che facevano fatica: spremevano la polpa di manioca nei piccoli cesti ikatoma. Vedendo tali necessità, padre Calleri li aiutò, li aiutò veramente. Dopo averli aiutati, li chiamò: “Venite qui”. Gli anziani Yanomami andarono ad aprire la pista di atterraggio.

Padre Calleri orientò gli anziani Yanomami: il gruppo degli Opikitheri [di língua yaröame], quelli della comunità di Tooropi, quelli del fiume Hwayau, quelli della comunità Kaxipii, altri Yanomami del fiume Catrimani, quelli [provenienti dalla] comunità di Korihana. Tutti questi anziani Yanomami, insieme aprirono la pista di atterraggio.

In seguito, per il servizio prestato, padre Calleri distribuì i machete che aveva portato da Manaus.

Calleri aiutò gli anziani che, per questo, rimasero molto contenti. I nostri antenati fecero grande amicizia con padre Calleri. Tutti gli abitanti delle comunità di Tooropi, di Hwaia u, di Kaxipi u, gli Yawari. Tutti strinsero amicizia con lui, ma lui fu ucciso».

La paura delle donne

Dall’intervista a Fátima (nascita: 1956) realizzata presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 17 gennaio 2015.

«Anticamente, padre Calleri arrivò fra di noi, nella regione chiamata Kaxipi [sulla riva del fiume Jundiá, affluente del medio fiume Catrimani]. Solo gli adulti [non ebbero paura e] continuarono a cantare mentre lui [Calleri] ascoltava. Lui [Calleri] chiese loro di continuare a cantare e, dopo aver deposto al suolo le sue cose [forse un registratore], li fece danzare. Mentre gli anziani cantavano, noi ragazze ci chiedevamo: “Perché stanno cantando?”.

Dentro [alla casa comunitaria], al fondo, io rimanevo nascosta [fra le foglie] perché avevo paura. [Io pensavo che] I padri potessero rubare le donne, per questo ebbi paura e, in silenzio, rimasi nascosta. All’inizio avevamo molta paura. Ebbi paura perché era arrivata la notizia che alcuni napëpë [plurale di napë] che avevano risalito il fiume, durante una visita al popolo Yawari, avevano portato [via] con sé alcune donne».

[Anni dopo, Fatima divenne l’aiutante della suora infermiera nel dispensario della missione del Catrimani].


I ricordi della sorella, monaca di clausura

Il coraggio di fare il bene bene

Il Carmelo dello Spirito Santo è una piccola oasi di tranquillità e silenzio nella già tranquilla prima collina torinese. Da anni i missionari della Consolata che vivono in Casa madre a Torino offrono il servizio come cappellani di questa piccola comunità di suore di clausura che, con fede e tanta simpatia, accompagnano al ritmo della preghiera anche la nostra missione nel mondo. Da tanti anni, però, c’è un altro motivo di contatto e comunione fra le nostre due comunità.

Nel 1946, con un viaggio reso complicato dai postumi della guerra, una giovane ragazza di Carrù, entrò in monastero per donare interamente la sua vita al Signore, lo sposo amato. Oggi, è un’arzilla vecchietta che sta per compiere 92 anni alla quale chiedo di ripercorrere per l’ennesima volta la storia di suo fratello, di raccontarmi com’era questo padre Giovanni Calleri, missionario della Consolata ucciso in Amazzonia cinquant’anni fa, il 1° novembre 1968.

«Padre Giovanni lo conoscevo bene, eccome, l’ho tirato su io da bambino – inizia a ricordare suor Teresina. Era un bambino vivace, molto vivace… un po’ furbetto. È stato con la cresima che, secondo me, Giovanni ha ricevuto una grazia speciale. È diventato più aperto, ma anche più disposto alla preghiera».

Le chiedo che cosa avevano pensato in famiglia a proposito della sua decisione di entrare in seminario e poi, in seguito di diventare missionario.

Suor Teresina risponde di getto. Sorvola sulla famiglia – del resto in quei tempi, soprattutto nelle nostre campagne – era cosa comune mandare i figli a «studiare dai preti». Ricorda invece che il parroco, guardando forse il carattere vivace del ragazzo, era contrario al suo ingresso in seminario. Pensava che non fosse la sua strada, che avrebbe avuto delle delusioni. Giovanni venne aiutato nel suo proposito da una catechista che lo conosceva bene e, soprattutto, ne vedeva alcuni aspetti di bontà. Si capiva che dietro a tanta vivacità si nascondevano una creatività e una attitudine verso la pietà davvero speciali. Così quando sua sorella entrò nel Carmelo, lui entrò nel seminario di Mondovì.

«Quando invece decise di andare in missione ci preoccupammo tutti un po’ – continua suor Teresina -, in diocesi aveva mille impegni, tantissime attività iniziate e ci chiedevamo tutti come avrebbe potuto lasciare tutte queste cose per iniziare un nuovo cammino. Del resto, la sua prima esperienza di formazione missionaria con il Pime di Milano finì anche per questo motivo. I suoi nuovi superiori si accorsero che continuava ad essere attaccato alla sua precedente realtà pastorale e gli consigliarono di tornare ad essa e di dedicarsi anima e corpo alla parrocchia e alle attività ad essa legate».

Fu una delusione, il dover tornare indietro?

«Certamente lo fu. Quell’anno, si era all’inizio della novena di Natale, venne a trovarmi e a confidarsi con me. Giovanni aveva nel cuore la missione, voleva andarci. Mi disse che aveva chiesto ai Salesiani che, però, pur avendo istituti scolastici e missioni all’estero, non gli avevano assicurato di poterlo mandare. Lui aveva bisogno di trovare un Istituto missionario. Solo gli bastò guardare ancora più vicino».

«In quegli anni, qui al Carmelo, avevamo già un cappellano missionario della Consolata, padre Creola. Misi Giovanni in contatto con lui e così iniziò il percorso di formazione con il vostro Istituto. Ne fu contento, si trovò immediatamente bene, in mezzo a tanti piemontesi come lui, si è subito sentito il benvenuto».

Suor Teresina conosceva però bene suo fratello e dovette intervenire con la preghiera e un paio di lettere ai superiori di padre Giovanni per far sì che riuscisse a coronare il suo sogno.

«È vero, lo hanno fatto tribolare non poco prima di dargli il via. Giovanni era un tipo vulcanico, difficile da inquadrare in uno schema. Io ogni tanto scrivevo ai suoi superiori dicendo che avessero comprensione, che Giovanni era buono, di tenerlo perché sicuramente avrebbe fatto del bene. Chi ne ha visto la stoffa e lo ha capito è padre Giovanni Morando, che fu suo maestro di noviziato. Lo prese davvero a cuore».

Chissà che gioia quando padre Morando scoprì che il suo novizio aveva una sorella monaca di clausura di nome «Suor Teresina». Aveva un’autentica devozione per Suor Teresina di Lisieux.

«Quando lo seppe mi scrisse subito. Del resto Santa Teresina è patrona delle missioni, il mese missionario inizia con la sua festa, e io stessa mi sento missionaria in prima linea, qui dal Carmelo, accompagnando con la preghiera tutti i missionari. Santa Teresina mi ha ispirato. Devo a lei anche la mia vocazione visto che è maturata dopo aver letto il suo “Storia di un’anima”».

Chiedo a suor Teresina qual è l’ultimo ricordo che ha di suo fratello.

«Prima di partire per il Brasile venne a salutarmi e a celebrare qui l’Eucaristia. Ricordo le ultime parole che gli dissi: “Ti auguro di lavorare, di fare tanto bene e alla fine, se Dio vorrà… il martirio”. Mi rispose: “Sarebbe la grazia più bella”. È un martirio per il quale si è preparato, nonostante il poco tempo in cui è rimasto in Brasile. Si era reso conto che qualcosa non andava con quella spedizione in cui poi perse la vita, che qualcuno gli remava contro. È andato avanti lo stesso, con tenacia, ispirato dall’ideale della salvezza dell’uomo, di questi indios a cui si era donato. Ha resistito anche di fronte a chi gli consigliava di lasciar perdere, che era troppo pericoloso. Questa sua fortezza basterebbe a considerarlo un martire della carità».

Vedo che suor Teresina è stanca. Continuerebbe a parlare di suo fratello, lo si legge negli occhi, ma forse è meglio fermarci. Le faccio un’ultima domanda e le chiedo quale caratteristica di suo fratello potrebbe essere di ispirazione per un giovane di oggi.

Mi guarda come se fosse in procinto di darmi una risposta scontata… e forse lo è. «Il coraggio – mi dice – il coraggio nel fare il bene a qualsiasi costo».

Ugo Pozzoli

 


Giovanni Billò – Margherita Allena

Padre Giovanni Calleri, la forza dell’esempio

Nella prima parte io ho cercato di seguire Giovanni nel suo cammino di educazione umana e spirituale: dagli inizi in famiglia e in parrocchia agli anni di scuola e di seminario, cogliendo – attraverso lettere, testimonianze, documenti – il maturare delle sue doti di sensibilità, intelligenza, creatività, autonomia, e il precoce affiorare di una vocazione ecclesiale e missionaria determinata e generosa messa però presto alla prova da certe incomprensioni e diffidenze dovute soprattutto alla sua vivacità e intraprendenza e a certi atteggiamenti che apparivano troppo anticonformistici in ambienti educativi ancora rigidi e chiusi. […]

Qui si innesta la seconda parte del libro, in cui Margherita Allena riferisce di un viaggio compiuto nel 2009 in Brasile con la cugina Zelda Guglielmotto, pronipoti di padre Giovanni,
visitando i luoghi dove aveva operato e cercando contatti con chi l’aveva conosciuto e con vecchi indios che egli aveva contribuito a beneficare e tra i quali aveva perso la vita. (Gio. Bil.)

Edito da: Associazione «Amici di Padre Calleri»
Piazza Dante 12, 12061 Carrù (Cn)
info@amicipadrecalleri.it


Bibliografia essenziale

  1. Damioli e G. Saffirio, Yanomami, Indios dell’Amazzonia, Ed. Capitello 1996.

Silvano Sabatini, Sangue nella foresta amazzonica, Emi, Bologna 2001.

Silvano Sabatini e Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo, Ediesse 2012.

Gabriele Soldati, Testimonianza di sangue, MC 1/1969 p. 14-35.

Sabatini Silvano, Sono morti così, MC 1/1970 p. 28-35.

Gigi Anataloni, La causa degli Indios è la nostra causa, dossier MC 2/1985 p. 27-38.

Margherita Allena e Zelda Guglielmotto, Sulle orme dello zio, MC 9/2010 p. 10-17.

AA.VV., L’incontro (Nohimayou), dossier MC 10/2016 p. 27-58.

 

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Perú, mons. Baretto, la storia del vescovo ambientalista

Testo dell’incontro col vescovo cardinal Pedro Baretto e Mauricio López Oropeza di Paolo Moiola |


In Perú sono in corso centinaia di conflitti ambientali. Sia in Amazzonia (la selva) che nelle Ande (la sierra). La salvaguardia dell’ambiente e la salute delle persone costituiscono elemento centrale della missione pastorale di mons. Pedro Barreto?Jimeno, arcivescovo di Huancayo (Junín), vicepresidente della Conferenza episcopale peruviana e neocardinale (dal 29 giugno). Da pochi mesi, in qualità di socio fondatore della «Red Eclesial Panamazónica» (Repam), il prelato è stato anche nominato membro della commissione vaticana che sta preparando il Sinodo amazzonico del 2019. Lo abbiamo incontrato nella sua Lima poco prima della sua nomina a cardinale.

@ Paiolo Moiola

Miraflores (Lima). Nelle giornate di sole da Miraflores, noto distretto di Lima, si può ammirare un magnifico panorama sull’Oceano Pacifico. Arriviamo al centro ignaziano della locale parrocchia di Fátima per approfittare della presenza di mons. Pedro Barreto Jimeno, gesuita e arcivescovo di Huancayo, capoluogo del dipartimento di Junín, regione andina nel centro Ovest del paese. In Perú il prelato è molto conosciuto per le sue battaglie in favore dell’ambiente (el obis­po eco­ló­gi­co).

Dal 2004 presta servizio tra le Ande, ma ci confessa quasi subito che il suo cuore «è amazzonico». Un sentimento nato durante i tre anni da vicario apostolico a Jaén, capoluogo dell’omonima provincia amazzonica (selva alta) del dipartimento di Cajamarca.

In quello stesso periodo entra nel consiglio permanente della «Conferenza episcopale peruviana» e nella «Conferenza episcopale latinoamericana» (Celam).

Jaén è la porta d’ingresso dell’Amazzonia Nord orientale del Perú. «L’Amazzonia – spiega mons. Barreto – comprende quasi otto milioni di chilometri quadrati e nove paesi, con il Brasile in testa (65% della superficie totale) seguito dal Perú. Come uomini di chiesa ci rendevamo conto che il lavoro da fare era tanto e disperso su un territorio immenso. Nell’aprile del 2013, a un mese dall’elezione del papa Francesco, il Celam si riunì in Ecuador per dibattere la questione. Nel settembre 2014 ci ritrovammo – vescovi, religiosi e religiose – a Brasilia e decidemmo di creare la “Rete ecclesiale panamazzonica”, la Repam. Che non è una vera istituzione, né una struttura, ma – come dice il suo nome – una rete che cerca di unire con il dialogo e l’aiuto reciproco popoli indigeni e non indigeni che vivono in Amazzonia. Ciò che ci sorprese fu l’immediato messaggio di felicitazioni del papa. Questo ci spinse a considerarne lui il fondatore».

A partire da quel momento la crescita della Rete panamazzonica è molto rapida.

«Il papa ci chiese di presentare al mondo la Repam. Lo facemmo il 4 marzo del 2015 a Roma, nell’aula Giovanni Paolo II. Poco dopo, il 19 marzo, tenemmo un’udienza tematica sulle attività minerarie in Amazzonia davanti alla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington».

Il ruolo e la visibilità della Repam prendono in seguito grande impulso da due eventi importanti: l’uscita, nel maggio 2015, dell’enciclica Laudato si’, interamente dedicata all’ambiente e, nell’ottobre 2017, l’annuncio del papa di un Sinodo panamazzonico per l’ottobre 2019.

© Malcom K.

Dall’Amazzonia alle Ande

Dopo l’esperienza a Jaén, mons. Barreto deve lasciare l’Amazzonia per le Ande: regione di Junín, nella cosiddetta sierra. «Fui nominato – racconta – arcivescovo di Huancayo, una città posta in una valle dentro alle Ande, la valle del rio Mantaro. È la valle interandina più grande del Perú: 77 chilometri di lunghezza e una media di 22 di larghezza».

Luoghi molto diversi dall’Amazzonia, ma afflitti da problematiche identiche: il difficile rapporto tra l’ambiente naturale e le attività umane e tra il diritto al lavoro e quello alla salute.

Nel dipartimento di Junín, le concessioni minerarie riguardano circa il 20% del territorio totale. Si estraggono rame, piombo, zinco, molibdeno, argento. Vi operano diverse imprese tra cui la cinese Chinalco, la canadese Pan American Silver, la peruviana Volcan, la brasiliana Milpo. La più famosa, per i disastri provocati, è la statunitense Doe Run, da anni in liquidazione. Queste attività minerarie danno un po’ di lavoro (sottopagato) alla popolazione locale, ma portano soprattutto tanti danni, all’ambiente e alla salute delle persone.

«Da secoli – racconta il vescovo (cardinale dal 29 giugno, ndr) – è una zona eminentemente mineraria. C’è una città che si chiama La Oroya, a 3.700 metri d’altezza, che è considerata una delle cinque città più inquinate al mondo. Da alcuni anni non vengono più emessi gas tossici perché il complesso metallurgico della Doe Run è fermo, ma se si vedono le foto dall’alto – su internet è possibile – si nota una massa bianca. Non è neve, sono particelle di piombo, rame, zinco, tutti metalli pesanti che in questi 90 anni di produzione (l’attività iniziò nel 1922, ndr) si sono accumulati sulle montagne». E nel sangue degli abitanti, soprattutto bambini e anziani. Acqua, aria e suolo presentano livelli di contaminazione decine di volte superiori ai limiti consentiti.

Venuto a conoscenza dei gravi problemi ambientali, mons. Barreto si dà subito da fare. Nel marzo 2005, a pochi mesi dal suo insediamento come arcivescovo, istituisce un tavolo di dialogo (Mesa de diálogo) con l’ambizioso obiettivo di trovare una «soluzione integrale e sostenibile al problema ambientale e lavorativo a La Oroya e il recupero della conca del fiume Mantaro».

Il dialogo è però lungo e complicato. In gioco ci sono gli interessi della multinazionale statunitense e il lavoro di ben 2.000 persone. A mons. Barreto arrivano minacce di morte e intimidazioni.

Il complesso metallurgico di La Oroya passa attraverso fasi di insolvenza economica (2009), contenziosi con lo stato per i mancati investimenti di adeguamento ambientale (Programa de Adecuación Medio Ambiental, Pama) e, infine, nel 2017-2018 alcuni tentativi di vendita, finora falliti.

Il Cardinal Pedro Baretto © Paolo Moiola

I cinesi di Morococha

Il problema – ancora irrisolto – di La Oroya non è il solo. A circa 40 chilometri di distanza sorge Morococha, cittadina cresciuta sopra un enorme giacimento di rame a cielo aperto. Dal 2008 il giacimento – noto come progetto Toromocho – è di proprietà della Chinalco, impresa appartenente al governo cinese. «Il primo problema da affrontare – racconta mons. Barreto – fu quello di spostare la popolazione. La Chinalco costruì una nuova città: Nueva Morococha. Il trasferimento delle 1.200 famiglie iniziò nel 2012 e ancora non si è concluso».

Nel frattempo, tra gennaio e luglio 2017, l’impresa ha estratto 106mila tonnellate di rame. «Anche nel caso di Toromocho – precisa mons. Barreto -, c’è un danno ambientale perché un’attività mineraria, per quanto si possa essere attenti, contamina sempre. Il problema è che nella regione non ci sono molte alternative lavorative. Anche se, come chiesa, abbiamo iniziato un piccolo progetto di produzione tessile che impiega soprattutto donne ma che comunque non basta».

Secondo l’Istituto peruviano di economia, l’attività mineraria genera circa l’11% del Prodotto interno lordo (Pil) del paese, la metà della valuta straniera che entra in Perú, il 20% delle entrate fiscali, oltre a migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti.

«Il Perú – racconta mons. Barreto – è sempre stato un paese minerario. Però è anche un paese agricolo. Nella valle del Mantaro le miniere inquinano e, allo stesso tempo, in agricoltura si stanno utilizzando fertilizzanti che nel resto del mondo sono proibiti. Dovrebbe essere trovato un equilibrio tra un’attività mineraria responsabile e un’agricoltura egualmente responsabile».

Mons. Barreto, il vescovo (cardinale) ambientalista, non è a priori contro le miniere. «Io – precisa – direi che l’attività mineraria è necessaria. Non possiamo cioè dire “no” alle miniere. Quello che dobbiamo dire è: in questa riserva, in questo biotopo, in questo parco non può esserci attività mineraria. Un esempio: in questo momento un’impresa mineraria sta esplorando la laguna di Marcapomacocha. Qui occorre rispondere con un secco “no”».

Di certo, guardando al territorio peruviano, sembrerebbe che tutto il paese sia stato dato in concessione. «È vero – conferma il prelato -. Si parla della stessa piazza d’Armi di Cuzco. Un’assurdità. L’attività mineraria dovrebbe essere responsabile e con chiare restrizioni. Non possiamo opporci, ma dobbiamo dire: prima delle miniere sta la responsabilità per la vita e la salute delle persone».

Amazzonia, bioma universale

Dall’Amazzonia alle Ande l’impegno di mons. Barreto in difesa dell’ambiente non è mai cambiato. «A volte mi chiedono come mai un arcivescovo che vive in mezzo alle Ande sia entusiasta dell’Amazzonia. Il fatto è che qui si parla di un bioma che dà vita non solamente a noi ma a tutta l’umanità. Nella Laudato si’ – al numero 38 – il papa descrive l’Amazzonia come uno dei polmoni del mondo assieme alla conca fluviale del Congo».

In generale, però, la consapevolezza della sua importanza vitale è molto scarsa. Anche per questo gli attacchi alla sua integrità si fanno ogni giorno più numerosi. Come ammette anche mons. Barreto:?«Se si chiede a un peruviano della costa se il suo paese è amazzonico, questi risponderà che abbiamo la selva. In realtà, il 63 per cento del territorio peruviano è amazzonico. Abbiamo ancora zone intatte ma abbiamo anche zone infernali come a Puerto Maldonado (visitata dal papa a gennaio 2018, ndr), dove le attività minerarie illegali e informali hanno prodotto disastri. Quando si arriva in aereo si vedono nella foresta grandi fette di territorio dove ormai non cresce un solo filo di vegetazione, distrutta da mercenari che utilizzano il mercurio per cercare l’oro».

Da pochi mesi mons. Barreto, vicepresidente della Repam, è stato nominato membro della commissione (riquadro) istituita per preparare un’assemblea straordinaria sulla Panamazzonia.

«Quella di convocare un sinodo sulla regione amazzonica – chiosa il prelato – è stata una decisione sorprendente di papa Francesco. La prima volta nella storia della Chiesa. In precedenza e in più occasioni, il papa aveva detto che la Chiesa deve avere un volto amazzonico e indigeno (un rostro amazónico y indígena). Come va interpretata questa affermazione? Significa spingere per una conversione ecologica, un nuovo stile di vita, basato non su un paradigma tecnocratico ma su un nuovo paradigma che porti a soluzione il problema socioambientale e offra a tutti una vita degna e solidale».

Paolo Moiola

© Graham Styles


Il segretario esecutivo della Repam

«Vogliamo “amazzonizzare” il mondo»

In tanti parlano di Amazzonia, ma in pochi agiscono per contrastare la sua distruzione. Nata meno di quattro anni fa, la «Rete ecclesiale panamazzonica» (Repam) sta operando nei nove paesi amazzonici e tentando di coscientizzare il resto del mondo sul problema. Ne abbiamo parlato con Mauricio López Oropeza, segretario della Repam.

@ Paolo Moiola

Puerto Leguízamo (Colombia). «Da quando sono entrato in questo territorio, mi è stato rubato il cuore». Mauricio López Oropeza, 40 anni, è messicano e l’Amazzonia l’ha conosciuta in Ecuador dove arrivò dieci anni fa per completare gli studi. Oggi è sposato con Ana Lucía, cittadina ecuadoriana, lavora con la Caritas nazionale ed è segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) dalla sua fondazione.

Mauricio, come si può descrivere l’Amazzonia in poche parole?

«L’Amazzonia non è soltanto un territorio. È un bioma unico. Un sistema vivo in cui i fiumi rappresentano il sangue e le vene. Un sistema diverso e complesso di cui ancora oggi conosciamo pochissimo. I popoli originari che vi vivono rappresentano un modello distinto da quello occidentale».

Negli ultimi cinquant’anni è cambiato il modo di guardare all’Amazzonia.

«È vero. Prima l’Amazzonia era il patio trasero (cortile di casa) del pianeta. Era vista come una terra praticamente disabitata che occorreva dominare, controllare, colonizzare. Le sue popolazioni erano considerate composte da indios selvaggi da civilizzare. Oggi l’Amazzonia si è trasformata in plaza central (piazza centrale) su cui tutti si riversano a causa degli enormi interessi che su di essa si sono scatenati».

Quali sono le minacce principali che gravano sull’Amazzonia?

«La prima minaccia è il modello di sviluppo seguito. È un modello neoliberista che ha nell’estrattivismo la propria manifestazione più devastante. Essendo ricca di petrolio e di risorse minerarie, l’Amazzonia è colpita dalla “maledizione dell’abbondanza”. Ciò produce una pressione enorme a favore dell’estrazione. In questo modo è come bruciare un archivio naturale: non sappiamo quanta ricchezza genetica potrebbe perdersi.

La seconda minaccia è l’espansione della frontiera agricola (con la soia in prima fila) e dell’allevamento bovino in un territorio inadatto a queste attività. La capacità organica dell’Amazzonia è molto più bassa rispetto ad altri territori. Tuttavia, essendo considerata uno spazio disponibile (a dispetto di eventuali territori indigeni), il disboscamento è incessante (siamo ormai al 25% del totale) e questo sta mettendo a rischio tutto il sistema, in primis quello del ciclo dell’acqua».

Distruggere l’ambiente amazzonico significa implicitamente distruggere coloro che lo abitano.

«La terza minaccia riguarda infatti la sopravvivenza stessa dei popoli amazzonici. I più minacciati sono quelli in isolamento volontario (popoli non contattati). Sarebbero 140 nel mondo, 130 di essi nella Panamazzonia e 110-120 nella sola Amazzonia del Brasile. È una sfida enorme. Come salvare queste sorelle e fratelli che vivono in modo completamente distinto da quello occidentale? I popoli indigeni hanno tutto il diritto di entrare, qualora lo vogliano, nelle dinamiche del nostro mondo, ma debbono anche avere la possibilità di preservare il proprio territorio e la propria cultura.

In questo hanno fallito i governi – di destra e di sinistra – che sono andati contro le proprie costituzioni e accordi internazionali sottoscritti».

Qual è la situazione attuale nei paesi amazzonici?

«In tutti i nove paesi abbiamo situazioni problematiche. Il Brasile – sia con Temer che con Dilma – certamente ha fatto passi indietro rispetto al passato. Per esempio, rispetto alla demarcazione delle terre indigene. Il modello neoliberale e accaparratore sta dominando le decisioni politiche brasiliane. Anche in Bolivia, dove si parlava dei diritti della madre terra, si è fatta marcia indietro come nel caso del Tipnis. Qui si è tolta la intangibilità e una strada taglierà in due la riserva. Pare per favorire gli interessi dei produttori di coca con i quali il governo ha una relazione molto diretta. Infatti, il tracciato della strada non favorisce le comunità, ma segue proprio il percorso della coca.

Anche in Ecuador abbiamo fatto tanti bei discorsi, ma oggi – con il paese dipendente dal petrolio – si sta parlando sempre e soltanto di permettere l’esplorazione petrolifera in zone intangibili, naturali, ancestrali. Quando è uscito il primo barile di petrolio dal parco Yasuní hanno festeggiato. Dicono che ci siano standard elevatissimi per la sicurezza, ma sappiamo tutti che non esiste un impatto ambientale nullo.

Nel Perú ci sono continue perdite di petrolio nei territori delle comunità indigene. I popoli Awajún e Wampis sono stati criminalizzati per avere richiesto la consultazione preventiva, anche se essa è un diritto riconosciuto come costituzionale. E poi c’è la terribile situazione di Madre de Dios (vedere MC, giugno 2012).

In Colombia, come in Perú e in Brasile, c’è molta attività mineraria illegale che usa metalli pesanti che contaminano i fiumi. Già ci sono casi di popolazioni indigene malate a causa del pesce contaminato da mercurio. La condizione di postconflitto ha inoltre determinato dinamiche nuove e una situazione paradossale. Riserve naturali che ricadevano nei territori in mano alla guerriglia erano rimaste integre, ora sono esplorate e date in concessione anche per finanziare il processo di pace e dare alternative agli ex guerriglieri.

In Venezuela, c’è la questione legata al cosiddetto arco minero del fiume Orinoco (negli stati Bolivar, Amazonas e Delta Amacuro, ndr). Qui c’è il più grande progetto di estrazione mineraria del paese, proprio in un luogo di alta biodiversità e di presenza indigena. L’impatto sarà molto grave, come dimostrano varie ricerche. Infine, anche nei paesi amazzonici più piccoli – Guyana, Suriname e Guyana francese – ci sono gravi problemi a causa delle miniere. Insomma, il modello estrattivista si sta approfondendo praticamente ovunque».

I governi dei paesi amazzonici sostengono che non ci sia un’alternativa all’estrattivismo.

«Ma neppure si sforzano di trovare strade alternative. Questo modello ha generato un grande debito con le popolazioni originarie e soprattutto il costo della distruzione dell’Amazzonia è assai maggiore dei benefici e mette a rischio il futuro delle prossime generazioni».

Cos’è la «Red eclesial panamazónica»?

«La Repam è uno sforzo di articolazione di distinte istanze della Chiesa cattolica nel gran territorio amazzonico. Anche se è stata fondata soltanto tre anni fa, essa è il risultato di decenni, per non dire secoli, di presenza sul territorio. Una presenza che ha avuto matrici positive ma anche negative. Come dice papa Francesco, dobbiamo iniziare chiedendo perdono per gli errori storici, i peccati e i crimini commessi nel processo di colonizzazione. Oggi però esiste anche una Chiesa profetica con uomini che hanno dato la propria vita per l’Amazzonia. Approfittando della sua presenza capillare su tutto il territorio, la Repam si è posta al servizio della realtà amazzonica e dei suoi problemi».

In quanto «rete», quali modalità di comunicazione privilegiate?

«Come Repam abbiamo relazioni con varie istituzioni del territorio, tra cui anche quelle che si occupano di comunicazione. O meglio di comunicazione per la trasformazione. Come l’Asociación Latinoamericana de Educación Radiofónica (Aler) o Radialistas Apasionadas y Apasionados».

Con Radialistas (vedere MC, aprile 2016) avete collaborato per un lavoro sulla Laudato Si’.

«Vero. Con José Ignacio López Vigil e i suoi collaboratori abbiamo pensato come far arrivare la Laudato Si’, una delle encicliche più potenti in tema ambientale, al cuore della gente e delle comunità. L’enciclica è scritta in un linguaggio diverso, ma rimane anche un’impronta teologica, scientifica e politica. Il nostro obiettivo era di abbassare il tono per renderla comprensibile alle persone semplici. Per questo abbiamo creato una serie radiofonica di 20 puntate in cui San Francesco d’Assisi ritorna sulla terra e scopre i disastri prodotti dall’uomo. Sfruttando la sua abilità nel parlare con tutti, lo facciamo dialogare con il fratello petrolio, con la sorella soia transgenica, con il fratello mais e via dicendo, percorrendo tutta l’America Latina per far intendere l’impatto del cambio climatico e la gravità della situazione».

Mauricio, come avete accolto l’annuncio del Sinodo panamazzonico dell’ottobre 2019?

«Come una grande opportunità. Il nostro slogan è “amazonizar el mundo” (amazzonizzare il mondo). Che significa rendere cosciente il mondo intero dell’importanza vitale di questo territorio unico. Bellissimo, fragile e profondamente minacciato».

Paolo Moiola


Siti

• il sito della diocesi di Huancayo: www.arzobispadodehuancayo.org
• il sito dell’«Observatorio de Conflictos Mineros en el Perú»: http://conflictosmineros.org.pe/
• il sito della «Rede eclesial panamazónica» (Repam): http://redamazonica.org/




Incontro con i Kukama nella capitale amazzonica peruviana


Non è più tempo di nascondersi o di subire passivamente. Come tanti altri popoli, anche i Kukama hanno scelto di uscire allo scoperto per difendere con orgoglio il loro essere indigeni con le proprie consuetudini di vita e credenze. Come testimonia la storia di Rusbell Casternoque, apu (cacique) di una piccola comunità kukama nei pressi di Iquitos che ha lottato lungamente per ottenere il riconoscimento giuridico da parte dello stato peruviano.

Iquitos. Nell’angusto ufficio del Caaap – Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica – non ci sono finestre e fa un caldo soffocante. Dobbiamo accendere il ventilatore anche se il rumore delle pale disturba la conversazione.

L’interlocutore è l’apu (cacique) di Tarapacá, piccola comunità kukama sul fiume Amazonas, vicino a Iquitos. Si chiama Rusbell Casternoque Torres e ha un volto segnato dal sole, folti capelli neri, baffetti appena accennati e un bel sorriso.

Si presenta: «Appartengo a un popolo che risiede in tutta l’Amazzonia di Loreto. Un popolo al quale piace vivere in tranquillità. Avere cibo tutti i giorni. Cerchiamo di essere in armonia con gli esseri spirituali che vivono vicino a noi, nell’acqua e nel bosco. Parliamo con loro attraverso i nostri sabios e curanderos ogni volta che ce ne sia la necessità. Per esempio, quando si tratta di curare una persona».
Rusbell non parla esplicitamente di sumak kawasy, il «buon vivere» indigeno, ma il concetto è quello.

I Kukama sono tra i popoli indigeni più numerosi della regione di Loreto. Si parla di almeno 20mila persone. Abitano principalmente lungo il fiume Marañón. A parte qualche eccezione come quella rappresentata dalla comunità guidata da Rusbell.

La lotta per il riconoscimento

La storia di quest’uomo di 61 anni è a suo modo esemplare. Rusbell e gli abitanti di Tarapacá – 60 in tutto – hanno lottato a lungo perché volevano essere riconosciuti come indigeni e come kukama, un popolo cacciato – alla pari di tantissimi altri – dalle proprie terre ancestrali, per fare spazio alle compagnie petrolifere, del legno o turistiche. Dopo secoli di sottomissione o anonimato, da alcuni decenni i Kukama hanno riscoperto la propria identità e l’orgoglio dell’appartenza.

Oggi Tarapacá è riconosciuta dalla legge peruviana come Comunidad nativa kukama-kukamiria, ma è stato un processo lungo e pieno di ostacoli. «Ci dicevano che siamo troppo vicini a Iquitos, che non parliamo la lingua indigena, che siamo meticci».

La Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, ratificata anche dal Perù, nel secondo comma dell’articolo 1 prevede che un criterio fondamentale per essere riconosciuti come indigeni sia il «sentimento di appartenenza», vale a dire l’autoriconoscimento. Nonostante questo fondamento giuridico, Rusbell e la sua comunità – affiancati dagli esperti del Caap – hanno dovuto affrontare vari gradi di giudizio prima di vedere accolta la propria istanza.

Il riconoscimento legale – che spetta al ministero peruviano dell’Agricoltura – ha una conseguenza pratica rilevante: l’ottenimento della «personalità giuridica» da parte della comunità indigena. A partire da questa è possibile chiedere allo stato molte cose: la costruzione di una scuola o di un centro di salute, la fornitura di acqua adatta al consumo e, soprattutto, la titolazione delle terre ancestrali come previsto dall’articolo 89 della Costituzione peruviana.

La proprietà delle loro terre è imprescrittibile, afferma la norma. La realtà mostra però situazioni diverse. L’esempio più clamoroso viene dalla Riserva nazionale Pacaya Samiria (dal nome dei due fiumi che la attraversano).

Sulla loro terra

Inaugurata nel 1982, Pacaya Samiria ha un’estensione di quasi 21.000 chilometri quadrati (come la metà della Svizzera). Situata alla confluenza dei fiumi Huallaga, Marañón e Ucayali, all’interno della cosiddetta depressione Ucamara (Ucayali-Marañón), la riserva è un gioiello di biodiversità. La gran parte dei turisti che la visitano – sono circa 12.000 all’anno, di cui la metà stranieri – non sa però che la riserva si fonda su una serie di ingiustizie. Essa infatti è situata sul territorio ancestrale dei Kukama, ma questi – a parte alcune comunità che hanno resistito – non lo abitano più da quando ne furono espulsi. «Hanno presentato la riserva mostrando gli animali, ma dimenticando gli uomini», commenta Rusbell con una triste sintesi.

All’ingiustizia perpetrata ai danni degli indigeni lo stato peruviano ha aggiunto anche la beffa di permettere l’estrazione petrolifera all’interno della riserva (dal lotto 8X, che dispone di vari pozzi). E, come ampiamente prevedibile, l’attività ha prodotto inquinamento. Come accaduto, fuori dalla riserva, con il lotto petrolifero 192 (gestito dalla canadese Frontera Energy, che ha sostituito l’argentina Pluspetrol Norte) e con l’oleodotto Nor Peruano di Petroperú.

Nell’affrontare l’argomento Rusbell si scalda. Parla con passione. Nelle parole e nei gesti.

«Tutto ciò che viene chiamato investimento in terra indigena è impattante – spiega -. Imprese del legno, imprese turistiche, compagnie petrolifere. Queste ultime sono entrate da più di 40 anni e che hanno fatto? Dicevano che avrebbero portato sviluppo, ma non c’è stato. Anzi, cosa c’è ora nei luoghi dove esse hanno operato? Ecco, qui sta la disgrazia, la disgrazia (lo ripete due volte, ndr). Lo dico chiaramente, con rabbia e collera. Hanno lasciato terre e acque inquinate. Dove andrà la gente a seminare e a pescare?».

I Kukama sono uno dei popoli indigeni che mangia più pesce. L’inquinamento delle acque dei fiumi è per loro un colpo mortale.

«Ci sono – spiega l’apu – molte persone con metalli pesanti nel sangue che stanno morendo lentamente. Per non dire quelli infettati dal virus dell’epatite B. C’è qualcuno del governo che prende posizione per noi? Siamo dei dimenticati».

Rusbell ricorda che la stessa mancanza di consulta previa (consultazione preventiva) con le comunità indigene – prevista dall’articolo 6 della Convenzione 169 (e dalla legge peruviana n. 29785 del 2011) – stava per accadere per il megaprogetto cinoperuviano noto come Hidrovía Amazónica, che mira a realizzare una via navigabile di oltre 2.500 chilometri usando i corsi dei fiumi Marañón, Huallaga, Ucayali e Amazonas. Questa volta non è andata così: la consultazione è avvenuta. Tanto che, a luglio 2017, il governo peruviano ha annunciato di aver sottoscritto 70 accordi con 14 popoli indigeni. Occorrerà però aspettare per dare un giudizio definitivo perché le organizzazioni indigene sono tante e spesso in contrasto tra loro.

E?poi non c’è soltanto questo. Come per altre tematiche, anche per la Hidrovía Amazónica non è soltanto una questione di impatto ambientale e pareri preventivi, ma anche di cosmovisione o, per dirla meglio, di cosmologia amazzonica.

«Ridono di noi»

Quando si entra nel campo della cosmologia amazzonica, non è facile seguire i discorsi di Rusbell. Che abbia una mentalità laica o religiosa, nell’ascoltatore non indigeno prevalgono pensieri dettati dalla razionalità e dalla logica. Tuttavia, la conoscenza della cosmovisione è indispensabile per avvicinarsi alla comprensione del mondo indigeno.

Per i Kukama esistono vari mondi (di norma 5: terra, acqua, sotto l’acqua, cielo, sopra il cielo), abitati da esseri che influenzano – nel bene e nel male – la vita delle persone. Così c’è il mondo in cui viviamo, abitato da gente, animali, piante, spiriti buoni e spiriti cattivi. E c’è il mondo che sta sotto l’acqua, dove vivono sirene, yakurunas (gente dell’acqua) e la yakumama (la madre delle acque rappresentata da un enorme serpente). Così, ad esempio, quando le persone muoiono affogate e non se ne ritrovano i corpi, si dice che sono andate a vivere nel mondo sotto l’acqua. E le famiglie coltivano la speranza di rimanere in contatto con loro tramite gli sciamani. Per tutto questo i Kukama hanno un forte vincolo e un grande rispetto per i fiumi e per l’acqua.

«Altro tema è la nostra credenza: noi crediamo che dentro l’acqua ci siano esseri viventi. Hanno mandato scienziati con apparecchiature sofisticate per cercarli, ma hanno visto soltanto terra. È che vivono in maniera sotterranea: lì stanno. Escono quando i nostri curanderos ne hanno bisogno. Per aiutare a curare. Quanti bambini kukama sono stati rubati dalle sirene e, dopo anni, sono tornati per dire: “Mamita, sono vivo. Non preoccuparti. Là dove vivo mi sono fatto una famiglia”. Siamo orgogliosi di poter dire che noi abbiamo nostre famiglie che vivono sotto l’acqua. Questa è una realtà. Nella mia comunità c’è un vecchietto di 75 anni. Egli parla direttamente con la sirena. Questa esce dall’acqua e conversa con lui in persona. Noi ci crediamo, ma, se lo diciamo ad altri, questi ridono e dicono che siamo matti».

Rusbell parla con convinzione davanti a un interlocutore non sufficientemente preparato in materia. Riesco solamente a domandare se Tarapacá abbia uno sciamano. «Sì, abbiamo uno sciamano che è anche curandero». Poi, per riportare la discussione su livelli più comprensibili alla mentalità occidentale, chiedo a Rusbell come sia diventato apu.

«Si chiama la comunità all’assemblea. Si propongono i candidati. E poi si discute finché ne rimane soltanto uno. Così sono stato eletto anch’io. Sono apu dal 2011. Nel 2019 si riconvocherà l’assemblea che può rieleggermi o cambiare. L’apu è il rappresentante della comunità, la sua massima autorità. Egli però agisce secondo le direttive dettate dalla collettività. Sono aiutato da una giunta comunitaria composta da quattro persone».

La lingua perduta

L’identità culturale di un popolo passa anche attraverso la propria lingua. Chiedo a Rusbell quale sia la sua.

«Parlo kukama e castigliano. Quest’ultima è la lingua più parlata perché il nostro popolo è stato quello più sottoposto alla “castiglianizzazione” da parte dei meticci. La verità è che stavamo perdendo la nostra lingua, ma ora stiamo recuperandola. Stiamo imparandola di nuovo. Per fortuna, sono rimasti alcuni vecchietti che parlano il kukama, ma non lo usavano più per vergogna. E poi ci sono alcuni insegnanti bilingue che stanno insegnando ai nostri bambini».

Lo metto in difficoltà quando gli domando una conclusione in lingua kukama. Ride. «No, no, non sono in grado. Sto ancora imparando».

Rusbell Casternoque, apu di Tarapacá, non parla (per ora) la lingua madre, ma non per questo è un meticcio. È un kukama e lo rivendica con orgoglio.

Paolo Moiola


La responsabile del Caaap di Loreto

Dimenticati e inquinati

Dimenticati dallo stato, i popoli indigeni si trovano ad affrontare le conseguenze
dell’inquinamento di fiumi e territori. Anche per questo molti di loro emigrano verso le città dove però trovano discriminazione e altre difficoltà. Conversazione con l’avvocata Nancy Veronica Shibuya, che con il Caaap combatte al loro fianco.

Iquitos. Nel 1974 nove vescovi cattolici dell’Amazzonia peruviana crearono il «Centro amazzonico di antropologia e di applicazione pratica» (Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica, Caaap), un’associazione civile che aveva l’obiettivo di servire le popolazioni emarginate, in particolare i popoli indigeni.

Nancy Veronica Shibuya è una giovane avvocata di 36 anni che dal 2012 lavora con il Caaap come responsabile della regione di Loreto. Quando la incontro nell’ufficio di Iquitos mostra un atteggiamento molto professionale, ma già dalle sue prime risposte traspare la passione per quello che fa, per i diritti che ogni giorno cerca di difendere o conquistare.

Veronica, quali sono i problemi principali dei popoli indigeni?

«Sono tanti. A iniziare da quelli che debbono affrontare nei loro territori a causa di  attività estrattive, deforestazione, inquinamento da petrolio. Quest’ultimo è tremendo perché colpisce in maniera diretta attraverso l’acqua, la terra, l’aria.

Oltre ai problemi ambientali che sono quelli più urgenti, ci sono quelli dovuti al mancato rispetto dei diritti alla salute e all’educazione come per tutti gli esseri umani. E ancora quelli sociali: alcolismo, prostituzione, tratta di persone».

Tratta di persone?

«Certo. Ci sono giovani donne indigene che sono state rapite e portate in altre zone del paese o fuori del paese. La regione di Loreto è nota anche per questo».

Si dice che un indigeno abbia verso la natura una sensibilità molto superiore a quella di un non indigeno. È una realtà o un mito?

«È così: esiste una differenza di sensibilità molto marcata. Un cittadino vede il taglio degli alberi come una necessità per avere legno. Al contrario, un indigeno ha molte difficoltà a tagliare un albero perché questo può avere un significato particolare o naturalistico o spirituale. Lo stesso vale quando s’inquina una laguna dato che per gli indigeni l’acqua significa vita, alimento, continuità. Il cittadino comune lo vede semplicemente come un reato e nulla più.

È difficile riuscire a comprendere la mentalità indigena che vede gli essere umani connessi con l’ambiente, le piante e gli animali. Nel momento in cui riusciremo a comprendere questo, riusciremo a comprendere anche il rapporto tra gli indigeni e l’Amazzonia».

L’Amazzonia è veramente in pericolo?

«Chiaro che è in pericolo. Un pericolo costante dovuto alla depredazione e alle minacce derivanti da megaprogetti, attività estrattive, indifferenza dello Stato. E parlo non soltanto dell’Amazzonia peruviana, ma dell’intera Amazzonia. Non sappiamo se, da qui a qualche anno, un ambiente come questo esisterà ancora».

 Quando non vince l’indifferenza, prevalgono frustrazione e impotenza. Che si può fare?

«Finché non sensibilizziamo ogni persona a rispettare l’ambiente circostante, poco o nulla possiamo fare. Certo, non dipende soltanto dal singolo individuo, ma dalla collettività nel suo insieme. E poi è necessario che lo stato assuma il suo ruolo a difesa dell’Amazzonia, delle risorse, dei popoli che vi vivono, esseri umani che meritano lo stesso rispetto che noi esigiamo».

Che tipo di lavoro svolge il Caaap?

«Il nostro lavoro con le comunità indigene è multidisciplinare. Significa che esse ricevano non solo un’assistenza tecnica e legale, ma anche formativa».

Esempi concreti di assistenza quali possono essere?

«L’assistenza legale può riguardare i rapporti giuridici con le istituzioni dello stato, ad esempio sulle questioni legate alla terra. Quella tecnica per spiegare come funziona qualcosa, ad esempio – per rimanere sull’attualità – il progetto di idrovia amazzonica. La formazione, infine, avviene con incontri e assemblee sulle tematiche più varie».

Come scegliete le comunità presso cui operare?

«Passando attraverso le organizzazioni indigene. Come Acodecospat (Asociación cocama de desarrollo y conservación san Pablo de Tipishca) di cui fanno parte 63 comunità kukama. O come Acimuna (Asociación civil de mujeres de Nauta) che raggruppa donne kukama discriminate o maltrattate. O ancora come Oepiap (Organización de estudiantes de pueblos indígenas de la amazonía peruana) in cui confluiscono studenti indigeni di varie etnie. Recentemente abbiamo iniziato a lavorare affiancando il Vicariato San José del Amazonas con le popolazioni indigene della conca del Putumayo. Ci sono Ocaina, Kichwa del Napo, Yaguas e Huitoto».

Veronica, non esiste un pericolo di neocolonialismo?

«Io credo che sia un problema sempre latente. Finché tutti i popoli indigeni non saranno consapevoli dei loro diritti esisterà questo pericolo».

Come Caaap lavorate molto con i Kukama.

«Sì, perché qui è l’etnia più diffusa. Negli anni hanno perso la propria lingua, rimasta viva soltanto negli anziani. Oggi però lottiamo al loro fianco per un’educazione bilingue. Il Kukama vive in stretta connessione con il fiume. Il suo alimento principale è il pesce. Oggi però il Marañón, il fiume lungo il quale vive la maggior parte dei Kukama, è così inquinato che le autorità statali hanno dichiarato che la sua acqua non è adatta al consumo umano e di conseguenza i pesci che in essa vivono.

Dato che il Kukama è un grande consumatore di pesce, le conseguenze dell’inquinamento sono molto pesanti. Tra l’altro, in quanto uomini di pesca, le loro attività agricole sono sempre state limitate. Hanno piccoli appezzamenti di terreno coltivati a riso, juca e platano».

Da tempo si assiste a una migrazione dalle comunità indigene sparse nella foresta amazzonica verso le città come Iquitos. Come lo spiega?

«La migrazione dei popoli indigeni verso la città è dovuta all’abbandono da parte dello stato. Ci sono carenze molto gravi. Pensiamo al diritto alla salute. Le comunità indigene non hanno centri di salute. Non ci sono opportunità di lavoro per gli adulti e d’istruzione per i figli. Le persone emigrano per cercare di soddisfare necessità fondamentali».

Chi emigra in città trova un’esistenza diversa e soprattutto altri problemi.

«Chiaro che c’è differenza tra gli indigeni che vivono nelle comunità e quelli che sono venuti a vivere in città. Nelle comunità c’è una totale di libertà di espressione, in città non è così. Nelle comunità un indigeno sta in contatto permanente con la natura e le sue risorse. È circondato dalla famiglia e ci sono vincoli stretti tra gli uni e gli altri. Venendo in città, la maggior parte degli indigeni si lascia influenzare dalla cultura occidentale. Si ritrova in balia di situazioni che spingono gli indigeni a negare la propria identità culturale. La negano per l’obiettivo di essere accettati in determinati ambiti sociali. La realtà racconta però che la maggioranza degli abitanti è indigena. Se poi glielo chiedi, ti risponderanno: “No, io sono della città”, “No, io vivo a Iquitos”, “No, io sono di Iquitos”».

Mi ha detto che voi lavorate anche con un’organizzazione di studenti indigeni. Per quale motivo?

«Nelle comunità i giovani indigeni non hanno la possibilità di avere un’educazione superiore. Quando alcuni di loro vengono in città ed entrano in un istituto superiore, per essere accettati, negano da dove vengono o chi sono. Anche se l’aspetto fisico o il nome dicono molto, loro continuano a negare.

È una lotta costante contro la discriminazione. Noi come associazione li sosteniamo per rafforzare il loro lato identitario, perché non perdano il senso della loro provenienza e il loro essere. Un esempio. Al contrario dei Kukama, gli Awajún (o Aguaruna della famiglia linguistica jíbaro, ndr) continuano a sviluppare la propria lingua. Eppure, in ambito scolastico o lavorativo anch’essi in generale negano la loro identità».

Voi siete un’istituzione della Chiesa cattolica. In più occasioni papa Francesco ha chiesto perdono per gli errori commessi nei confronti dei popoli indigeni.

«Storicamente, nel processo di evangelizzazione la Chiesa ha commesso molti errori. Ha avuto un atteggiamento impositivo che ha causato molti danni. È stato chiesto perdono. Oggi il volto della Chiesa è cambiato: è una chiesa itinerante, più vicina ai popoli e ai deboli. E il Caaap ne è un esempio concreto».

Paolo Moiola




Il volto indio di Iquitos. Nella capitale amazzonica peruviana

Testo e foto di Paolo Moiola |


Si ipotizza che l’80 per cento degli abitanti di Iquitos, la più grande città dell’Amazzonia peruviana, siano indigeni urbani: Huitoto, Kukama, Kichwa. Non esistono numeri certi perché la maggior parte di loro preferisce tacere sulla propria origine. Quando non è l’aspetto fisico a tradirne la provenienza, lo è quello culturale. Vivono nelle periferie di Iquitos, dove manca di tutto e vivere dignitosamente è un’impresa. Accompagnati da due amici missionari abbiamo visitato il barrio di Masusa e quello delle Malvinas.

Iquitos. Accanto alla pulsantiera dell’ascensore c’è, ben visibile, un adesivo: «No allo sfruttamento sessuale di bambini, bambine e adolescenti. Il nostro hotel protegge il futuro di Loreto». A Iquitos, capitale del dipartimento peruviano di Loreto, la gran parte dei visitatori arriva per le meraviglie della natura (la riserva di Pacaya Samiria, quella di Allpahuayo Mishana, la laguna di Quistococha) e – non si può tacerlo – per il turismo de la pobreza, il turismo della povertà, tale è infatti la visita alla comunità di Belén (definita, con rozzo cinismo, la «Venezia amazzonica»). Altri ancora giungono a Iquitos per provare l’esperienza dell’ayahuasca, la bevanda indigena dagli effetti allucinogeni. Ci sono, infine, i visitatori che arrivano fin qui allo scopo di adescare minori.

La pedofilia non è che uno dei tanti problemi che affliggono la capitale dell’Amazzonia peruviana. È proprio per vedere e capire la città reale che prendo contatto con due vecchi amici missionari: padre Miguel Ángel Cadenas e padre Manolo Berjón, da tre anni tornati nel capoluogo loretano dopo aver vissuto per venti tra le comunità dei Kukama lungo il rio Marañón.

Masusa e gli indigeni urbani

Con un mototaxi – il tipico mezzo di trasporto di Iquitos (le auto sono una rarità, i bus sono pochissimi e scalcinati) – mi reco alla parrocchia della Immacolata Concezione dove i due missionari spagnoli prestano servizio. La loro parrocchia serve il vasto territorio di Punchana, uno dei quattro distretti municipali di Iquitos.

La chiesa della Inmaculada si nota subito, non tanto per i suoi due tozzi campanili, quanto per il suo colore blu elettrico. Miguel Angel e Manolo sono già in strada. Un abbraccio e, su due mototaxi, partiamo subito alla volta del barrio di Masusa. Questo è il quartiere cresciuto attorno al principale porto fluviale di Iquitos, quello sul rio Amazonas.

Scesi dai veicoli, a piedi ci addentriamo nel barrio e nei suoi vari asentamientos humanos (insediamenti umani). Man mano che proseguiamo il contesto urbano si degrada e con esso peggiora a vista d’occhio la situazione di chi vi abita. Dopo qualche minuto di cammino arriviamo in una specie di piazzetta il cui pavimento è fango mischiato con detriti legnosi (scopriremo più in là il motivo). Tutt’attorno abitazioni su palafitte costruite con legno di recupero e dalla struttura visibilmente precaria.

In un angolo sorge la cappella Sagrado Corazón de Jesús, dove una ventina di fedeli e una decina di bambini attendono i padri per la messa domenicale. Dopo la celebrazione, padre Miguel Ángel sollecita le persone presenti a prendere il microfono e a raccontarsi davanti alla telecamera. Si alternano in molti, donne e uomini, probabilmente attratti da quella piccola ma inaspettata opportunità di uscire dall’anonimato, di far sentire la propria voce. Con grande dignità raccontano da dove vengono, cosa fanno, dei problemi quotidiani. Che sono tanti, dalla mancanza di un lavoro a una situazione abitativa subumana.

«Nessuno ha confessato di essere indigeno per timore della discriminazione – commenta poco dopo padre Miguel -. Ma è importante sapere che questa gente proviene da comunità native. Si tratta di indigeni urbani. Secondo noi, arrivano all’80 per cento della popolazione, in particolare qui, nelle periferie. Ci sono persone con tratti somatici indigeni, in altre si notano meno. Però i tratti culturali sono evidenti, soprattutto con riferimento alla cosmologia (la visione del mondo) e allo sciamanesimo». Gli chiedo di farmi qualche esempio. «Una città come Iquitos è piena di “piante che proteggono contro gli spiriti maligni”. Non ci sono cifre precise, ma sappiamo che il numero di sciamani è altissimo. Quando muore qualcuno si cerca un colpevole, anche se il referto medico parla di cancro. Ci sono persone che dicono di “fotografare gli spiriti” con il cellulare. Si lascia che i bambini prendano le proprie decisioni fin da piccoli, frutto di una concezione indigena della persona».

Accanto alla cappella c’è una piccola e tristissima struttura che funge da asilo e i missionari scrollano la testa sconsolati. Pochi passi più in là, un signore attorniato da un nugolo di bambini sta caricando su un motocarro delle taniche di acqua. «Siamo a 300 metri dal rio Amazonas, ma qui non c’è acqua da bere, per lavarsi, per cucinare o per lavare. Non c’è acqua per nulla. Come, d’altro canto, in gran parte della città di Iquitos».

Le «madereras»

Dall’asentamiento humano Alejandro Toledo ci incamminiamo verso quello chiamato Santa Rosa del Amazonas.

Le stradine sterrate su cui camminiamo sono piene di trucioli e segatura di legno.

«Il municipio – spiega padre Miguel – invece di riempire con terra ha permesso alle segherie di usare i loro scarti di lavorazione per rialzare il terreno. Quando arriva la creciente (termine che indica i periodi – normalmente da marzo a maggio – di massima portata del rio Amazonas e dei suoi affluenti, quando le acque esondano, ndr), l’acqua continua a inondare le case, anche se si nota meno perché non compaiono ponteggi e passerelle. Sotto le case a palafitta sono però rimasti grandi vuoti dove si accumulano acqua putrida e rifiuti. Senza dimenticare che gli scarti del legno hanno fatto aumentare la popolazione di topi e di zanzare. Ancora una volta ha vinto l’opportunismo di politici e affaristi a scapito dei diritti dei cittadini». Eccole, le madereras, le segherie, le imprese del legname. Sono state costruite in questa zona per la vicinanza con il porto di Masusa. Il problema è che oggi sono circondate da insediamenti umani densamente abitati. Questo significa che la gente vive in mezzo ai residui della lavorazione del legno, tra cui particelle minuscole che vengono respirate. Allo stesso tempo molti abitanti traggono vantaggio dalla vicinanza delle madereras per recuperare materiale per le loro abitazioni o per costruire esteras (stuoie di legno) da vendere al mercato.

Le segherie hanno barriere d’alluminio che impediscono di vedere all’interno e torrette di guardia agli angoli. Ma per una cinquantina di metri lungo il perimetro c’è ancora una semplice staccionata (probabilmente in attesa di essere sostituita), che consente la visione. Al di là, cumuli di pezzi di tronchi dal diametro enorme. Un bulldozer sta spostando materiale di ogni dimensione.

Attività legale o illegale?, chiedo a padre Manolo. «Sicuro che è illegale – risponde il missionario -. O meglio: può essere che formalmente siano imprese legali, ma quasi sempre estraggono il legno illegalmente. Mi spiego: hanno una concessione per una data zona, ma poi lavorano in un’altra». In cerca di legno prezioso?, insisto io. «Dipende. La verità è che adesso di legno prezioso ne è rimasto veramente poco».

Mentre faccio foto e filmati noto che ci stanno osservando da una baracca che funge da ufficio. Probabilmente la loro è soltanto curiosità.

In ogni caso, a pochi metri di distanza, sull’angolo, un container color verde pallido è stato adibito a stazione di polizia. Lo hanno messo su ruote, in modo che sia a mezzo metro dal terreno sconnesso. Ci hanno ricavato alcune finestrelle e una porta. Dipinto due stemmi: quello del governo di Loreto e quello della polizia. E una scritta rassicurante: Juntos por la Seguridad Ciudadana! (Uniti per la sicurezza cittadina!).

La porta è aperta e così ne approfitto per entrare.

C’è una piccola scrivania, due sedie, un vecchio televisore e due brandine a castello. E soprattutto ci sono due giovanissimi poliziotti che stanno ascoltando musica dal cellulare. Appena mi vedono, abbassano il volume e si mettono in testa il cappellino d’ordinanza. I due mi accolgono calorosamente, nonostante abbia una telecamera in mano.

Mi dicono che sono aperti 24 ore e che intervengono principalmente per casi di violenza familiare e furti. Chiedo della droga di cui tutta l’Amazzonia peruviana è grande produttrice. «Sì – confermano i poliziotti -, c’è spaccio di pasta basica di cocaina. Sono coinvolti molti minori. Una dose costa un sol (25 centesimi di euro, ndr)».

Li ringrazio e raggiungo di nuovo le mie guide. Uno dei due poliziotti ci raggiunge però dopo pochi secondi per chiederci se vogliamo essere accompagnati nel nostro percorso. «No, grazie. Non c’è bisogno», rispondono i missionari. Questa non è una zona frequentata da stranieri, ma i due padri sono conosciuti anche perché qui c’è una delle quattro cappelle della loro parrocchia.

L’insediamento di Santa Rosa è triste e squallido come il precedente con la differenza che è tagliato in due da una via sterrata, usata da qualche veicolo delle segherie. La strada prosegue per qualche centinaio di metri fino a raggiungere il punto dove il rio Itaya sbocca nell’Amazonas. Sulla spiaggia che guarda i due fiumi da una parte c’è una catasta di enormi tronchi d’albero, dall’altra una montagna illegale di rifiuti e davanti a questa, tra l’acqua e la terraferma, un cimitero di vecchi battelli arrugginiti. Giriamo a destra seguendo l’Amazonas e, dopo poche decine di metri, giungiamo al porto di Masusa, conosciuto anche con il nome di puerto Silfo Alvan del Castillo.

I battelli amazzonici

I cancelli sono aperti e non c’è alcun controllo. Sulla riva sono ormeggiati una serie di battelli di medie dimensioni (50-100 tonnellate), all’apparenza tutti piuttosto scalcinati, ma che raggiungono quasi ogni angolo dell’Amazzonia peruviana. Il porto di Masusa funziona per merci e passeggeri.

Oggi c’è poca gente perché è domenica. Tuttavia, ci sono alcuni camion che caricano o scaricano mercanzia.

«Arriva soprattutto frutta e viene imbarcato soprattutto riso per le comunità dell’interno. E naturalmente arriva la droga. Da qui partono anche le persone vittime di tratta per andare verso Lima o la costa dove saranno impiegate nella prostituzione o in lavori illegali. Ci sono sia maschi che femmine e moltissimi di loro sono minorenni. È facile cadere nella tratta di persone. Se sei un ragazzo che vive in una famiglia povera e ti offrono un lavoro in un altro posto, alla fine decidi di partire».

Lasciamo il porto per entrare nell’adiacente mercato di Masusa. È una struttura riparata da una tettornia dove si vendono prodotti alimentari. Sui tavolacci in legno è rimasto poco o nulla perché l’ora è tarda. Su uno ci sono mucchi di zampe di gallina, su un altro razzolano alcuni pulcini.

Usciamo da una porta laterale del mercato per trovarci in un vicolo di sassi e rifiuti. I due missionari debbono fare visita a un’anziana malata. Abita sotto una palafitta, una sorta di pianoterra aperto, senza pareti circostanti, senza porte e finestre. Un tugurio con un pavimento di nuda terra e un soffitto di assi la cui altezza non permette a una persona di stare in piedi. Su un lato di questa stanza improbabile c’è un gruppetto di bambini con gli occhi fissi su un piccolo televisore, dall’altra una signora sdraiata su un vecchio letto circondato da indumenti e medicine. Alla vista dei missionari lei si mette seduta e scambia qualche parola. È anziana e malata, ma il suo viso conserva i segni di un’antica bellezza. Marta, questo il nome, non ha famiglia e sopravvive con l’aiuto dei vicini di casa. Prima dei saluti, chiede a padre Miguel Ángel di ricevere la comunione. Una visita, quella alla signora Marta, che ti prende lo stomaco e che ti lascia senza parole.

Abitare alle Malvinas

Con i consueti mototaxi lasciamo il quartiere del porto. La prossima destinazione è il barrio delle Malvinas. Anche qui, come a Masusa, le condizioni abitative peggiorano man mano che ci addentriamo, in particolare verso l’asentamiento Iván Vásquez.

Percorriamo una calle pavimentata con cemento, tanto stretta che a stento ci passa un mototaxi. Poi la viuzza termina e il luogo si allarga in maniera inaspettata, ma anche poco piacevole. La stradina nascondeva la rete fognaria (acantarillado), che ora invece esce allo scoperto in forma di un fiumiciattolo di acque putride e puzzolenti (desagüe).

È riduttivo definirla una fogna a cielo aperto perché è larga alcuni metri. L’acqua ha un colore grigio, impenetrabile dallo sguardo. È stagnante tanto che i sacchetti di rifiuti gettati sul fondo non si muovono e sono oggetto di attenzione da parte di vari gallinazos – grandi uccelli dalla testa nera appartenenti alla famiglia degli avvoltorni – che vi cercano cibo.

Sulle due sponde della fogna è cresciuta una ininterrotta serie di abitazioni con le persone che all’aperto cucinano, lavano i panni o vendono mercanzie (dal pesce alle banane agli spiedini).

Non è strano che la gente accetti tutto questo?, chiedo alle mie guide. «No, non è strano. Sono venuti da fuori per cercare migliori condizioni di vita ma hanno trovato questo».

Camminiamo lungo il canale finché arriviamo a una curva, dove una conduttura in cemento sbuca dal greto della cloaca. «Ecco questo è il punto più incredibile. Qui fuoriescono i rifiuti dell’ospedale Essalud, che sta a cento metri di distanza», mi spiega padre Miguel Ángel. Vista la situazione, non stupisce che, oltre alla malaria e al dengue, diffuse in tutta Iquitos, qui siano endemiche anche le infezioni respiratorie acute e le malattie diarroiche acute.

Dopo la curva, il fiume-fogna torna diritto proseguendo per alcuni chilometri fino a terminare nel rio Nanay, molto vicino alla confluenza di questo con l’Amazonas. Sulle due sponde sono state poste barriere in legno e sacchi di sabbia per frenare l’acqua nei periodi della creciente, la piena dei fiumi. Per passare da una sponda all’altra gli abitanti hanno costruito passerelle di assi. Ne attraversiamo una per andare a camminare sul lato esterno.

L’insediamento è molto esteso. Tutte le abitazioni sono su palafitte e costruite con assi di legno e tetti in lamiera. I bambini sono ovunque e, come in ogni parte del mondo, trovano il modo di giocare e divertirsi. C’è anche un ampio spazio libero dove in molti stanno seguendo una partita di calcio. Più avanti, nello spazio tra alcune abitazioni, un gruppo di giovani sta giocando a pallavolo.

Dato che non esiste alcun sistema di distribuzione idrica, incrociamo varie persone che, a mano, trasportano secchi d’acqua. «A dispetto di tutto questo – chiosa padre Miguel Ángel -, da qui non vogliono andarsene. Il barrio è vicino al porto. E Masusa è il solo luogo dove molti di loro possono trovare un lavoro: o come scaricatori o come rivenditori dei prodotti più vari. Questa città non offre altro».

Tra invisibilità e indifferenza

Ormai è quasi buio. È ora di tornare indietro. Oggi abbiamo conosciuto due barrios di Iquitos, dove la gente – quasi sempre indigena – vive in condizioni di povertà o di estrema povertà. La maggior parte degli abitanti della più importante città dell’Amazzonia peruviana vive così. Ma rimane invisibile agli occhi dei più. O indifferente, che forse è anche peggio.

Paolo Moiola

 




Amazzonia, opportunità e sfida per religiosi e missionari

Testo e foto di Jaime C. Patias


Rappresentanti di 30 Congregazioni religiose con progetti nella prospettiva pan-amazzonica si sono riuniti, nella città di Tabatinga (Stato di Amazônas, Brasile), sulla triplice frontiera tra Brasile, Colombia e Perù.

L’obiettivo dell’incontro, avvenuto fra il 20 e il 24 aprile, è stato quello di favorire la comunione e rafforzare la missione della Vita Religiosa Consacrata in quella regione. “Qualcosa di nuovo sta nascendo nella missione in questo terreno”.

All’incontro hanno partecipato 90 missionari (sacerdoti, religiosi, religiose e laici), fra cui quattro missionari della Consolata: i padri Fernando Florez (Perù), Joseph Musito (Roraima-Brasile), Jaime C. Patias, Consigliere Generale per l’America, e il diacono Luiz Andres Restrepo Eusse (Ecuador). Ha partecipato anche, suor Maria Teresa, missionaria della Consolata a Roraima. Le presenze dei Missionari della Consolata, nel territorio amazzonico, si situano nel nord del Brasile, in Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela.

I missionari della Consolata in Amazzonia

Presentando il percorso di 70 anni di presenza in Amazzonia (1948-2018), si è fatto memoria dei 50 anni della morte di P. Giovanni Calleri (1968), dei conflitti, delle sfide, persecuzioni e minacce sofferte, così come delle gioie frutto delle conquiste. Nella Regione Amazzonia, oggi ci sono tre esperienze significative che ispirano il futuro della nostra missione: il lavoro nella Terra Indigena Raposa Serra do Sol (Roraima), la Missione Catrimani (fondata nel 1965) e il Centro di Documentazione Indigena (CDI) a Boa Vista. Significativo è anche il lavoro accanto ai popoli indigeni nell’Amazzonia colombiana (dal 1951), in Venezuela, in Ecuador (Sucumbios, dal 2005) e in Perù (2013). Queste esperienze devono essere valutate e ripensate nello spirito della continentalità. Inoltre, data l’importanza della questione amazzonica, le regioni IMC del Brasile e dell’Amazzonia sono chiamate a qualificare la missione.

Il Progetto Missionario IMC del Continente America ha assunto, tra le altre, le opzioni per l’Amazzonia e per gli Indigeni. Per una Congregazione che ha nel suo DNA la missione ad gentes è impossibile essere nel continente americano senza mettere i piedi, il cuore e la testa in Amazzonia. Nel corso degli anni, abbiamo imparato a camminare con i popoli indigeni, con le loro speranze e lotte, le gioie e conflitti, rompendo schemi e frontiere. Oggi vogliamo vivere la missione nel territorio amazzonico, nello spirito della continentalità, in rete con altre congregazioni e organizzazioni. Siamo convinti che questo percorso ci renda più forti e più efficaci. La missione profetica nella Raposa Serra do Sol e la Missione incarnata del Catrimani richiedono missionari senza paura del nuovo, incarnati e aperti al dialogo. La sfida è mantenere vive queste due esperienze che danno visibilità al carisma ereditato dal beato Allamano, e valorizzare il Centro di documentazione indigena (CDI). Per questo riteniamo essenziale la formazione di missionari appassionati della causa indigena e dell’Amazzonia.

Alcuni eventi ci animano, ad esempio, il pontificato di Francesco, la creazione della Rete Ecclesiale Pan-Amazzonia (REPAM), l’enciclica Laudato sì, il Sinodo speciale per l’Amazzonia, le varie assemblee e i processi in andamento.

L’incontro di Tabatinga è stato promosso dalla REPAM e dalla Confederazione dei Religiosi e Religiose di America Latina e Caraibi (CLAR). L’Amazzonia e i suoi popoli sono fonte di vita per la Vita Religiosa Consacrata. La realtà ci sfida a pensare la missione di forma intercongregazionale e interistituzionale, in un territorio ricco di connessioni. La nostra presenza in Amazzonia è fermento di rivitalizzazione del carisma che ci fa ritornare alle origini della fondazione.

Sinodo per l’Amazzonia

Non potendo raggiungere Tabatinga, il presidente della REPAM, cardinale Claudio Hummes, ha inviato un messaggio di incoraggiamento: «Considero questo incontro molto importante e promettente, nel momento in cui la situazione della Pan-Amazzonia chiede aiuto. Il papa Francesco ascolta questo grido e per questo motivo ha deciso di convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia. Tutti noi che siamo già in questa regione in vista dell’evangelizzazione siamo molto felici per questa decisione. È lo Spirito Santo che ci chiama. La preparazione del Sinodo è già in corso, collaboriamo tutti. Il Sinodo può essere un evento storico che costruirà nuove strade per la Chiesa e per un’ecologia integrale. Ringraziamo Dio per questo kairos che concede alla Chiesa missionaria e gli chiediamo di illuminarci e dare a tutti il coraggio di non avere paura del nuovo».

Jaime C. Patias, IMC




Colombia-Perù. La forma della felicità

Testo e foto di Paolo Moiola |


Non ci sono né acquedotto né acqua potabile. Non ci sono fognature e strade. L’elettricità arriva per quattro ore al giorno. La malaria è la norma. Eppure, a Soplín Vargas, piccolo villaggio di 700 persone (tra indigeni e meticci) sulla riva peruviana del rio Putumayo, si può essere felici. È il sumak kawsay, la forma indigena della felicità. Confermata dai missionari.

Verso Soplín Vargas. Ci imbarchiamo al porticciolo di Puerto Leguízamo. Qui non esiste un servizio di trasporto pubblico. I passaggi sul rio Putumayo dipendono dall’intraprendenza dei singoli. Come fa la signora Teresa, una donna imprenditrice che ha coinvolto nell’attività anche i propri figli. Due volte a settimana la sua vecchia lancia in legno percorre il tragitto tra Puerto Leguízamo e Soplín Vargas, in terra peruviana. Ci accomodiamo tra sacchi di cemento marca San Marcos, scatole e borse della spesa. È stato imbarcato pure un mobile di medie dimensioni. I passeggeri – uomini e donne con bambini – sono tutti peruviani che vengono a fare acquisti sul lato colombiano del fiume, dove i prodotti si trovano più facilmente e più a buon mercato. «Teresa, come va il business?», chiedo mentre lei è ancora sul molo in attesa di altre persone. «Più o meno», risponde lei con una risata. Non esistono orari. L’unica regola è evitare di muoversi con il buio. Raggiunti i 14 passeggeri, Teresa molla la cima e Angelo, uno dei suoi figli, accende il motore. «Ci vorranno poco più di due ore», spiega padre Fernando Flórez, che a Soplín Vargas ha la sua missione.

A pochi minuti dalla partenza passiamo davanti alla base della «Forza navale del Sud» dell’Armada colombiana, che qui ha una presenza di rilievo vista la zona di confine (con Perú ed Ecuador) e la situazione di conflitto armato con le Farc che vigeva fino agli accordi di pace del novembre 2016.

La navigazione procede tranquilla. L’acqua del fiume ha un colore opaco, tra il verde e il marrone, come si notava dall’aereo. Sulle rive la vegetazione è continua ma quasi non ci sono alberi ad alto fusto. Ogni tanto, seminascosta dalla boscaglia, s’intravvede qualche abitazione su palafitte. Le rare imbarcazioni che s’incontrano sono soprattutto peke-peke (il nome deriva dal tipico rumore del motore) appartenenti a pescatori o a famiglie che si spostano lungo il fiume.

Dopo un paio di ore di viaggio, sulla riva peruviana compare un grande cartellone della Marina da guerra del Perú – sul Putumayo ha alcune guarnigioni stabili (come la controparte colombiana) – che annuncia l’arrivo a Soplín Vargas. «Sia Puerto Leguizamo che Soplín Vargas debbono i loro nomi a soldati caduti durante la guerra tra Colombia e Perú che ebbe luogo tra il 1932 e il 1933», mi spiega padre Fernando.

La lancia di Teresa riduce la velocità e si dirige verso un piccolo molo sul quale sono indaffarate parecchie persone. Man mano che ci avviciniamo capisco il motivo di tanto trambusto. Qualcuno sta squartando una vacca e vari dei presenti se ne portano via un pezzo, chi più grande, chi più piccolo. La maggior parte di loro se lo carica sulle spalle per fare più comodamente la ripida scalinata in legno che dal fiume conduce al promontorio dove sta Soplín Vargas. Per questa sua posizione il villaggio è considerato in «altura», che significa non inondabile dal Putumayo.

Noi scendiamo poco più avanti in un posto più scomodo e sconnesso. Gli stivali sono indispensabili per muoversi su un terreno reso fangoso e viscido dalle piogge.

Dopo una camminata in leggera salita su sentieri in terra battuta, arriviamo alla missione. Ad accoglierci è il volto sornione di padre Moonjoung Kim, missionario della Consolata coreano che con padre Fernando opera a Soplín Vargas.

La missione è una piccola casa in muratura posta su un unico piano.

L’entrata dà su un salone dove si svolgono tutte le attività (incontri, messe, feste, celebrazioni). Al fondo dello stesso ci sono quattro porte corrispondenti alle stanze da letto dei due padri, al cucinino e al piccolo bagno.

«Sumak kawsay»

Padre Fernando e padre Kim operano su tutto il distretto denominato Teniente Manuel Clavero, che si estende su un territorio amazzonico molto vasto (circa 9.107 km2). C’è Soplín Vargas, il capoluogo con circa 700 abitanti e una comunità mista di meticci e indigeni. Ci sono due altre comunità meticce e poi 28 comunità indigene: Kichwa soprattutto (21), ma anche Secoya (6) e Huitoto (1). La più piccola, Peneyta, conta soltanto 36 abitanti.

Vista l’ampiezza del territorio, i due missionari sono sempre in viaggio, muovendosi in barca e a piedi. Però, a dispetto di fatica e difficoltà, sembrano in totale armonia con l’ambiente naturale, umano e culturale in cui sono immersi. «La chiesa cattolica – spiega padre Fernando – dovrebbe evangelizzare e il vangelo – anche dal punto di vista etimologico – significa “buona notizia”. In questo pezzetto di Amazzonia noi dovremmo portare buone notizie. Ciò si traduce nel sumak kawsay, tradotto come buen vivir. Tutto ciò che sta a favore della vita è Vangelo, tutto ciò che sta contro la vita va denunciato. Anche per questo io e padre Kim stiamo percorrendo il Putumayo in lungo e in largo: per formare líderes e líderesas che possano essere gestori del buen vivir».

Il sumak kawsay-buen vivir è un concetto affascinante: vivere privilegiando la comunità in un contesto di rispetto dell’ambiente naturale. Affascinante ma difficile, soprattutto per un bianco che, per capirlo ed eventualmente attuarlo, deve spogliarsi di molti preconcetti, di strutture mentali sedimentate, di comodità date per acquisite. Ad esempio, vivere nella foresta amazzonica è un’esistenza unica in ogni aspetto della quotidianità.

«Di acqua ne abbiamo molta – racconta padre Fernando -. Il problema è che spesso non è potabile. È un paradosso, lo so. Siamo sulle sponde del fiume Putumayo, ma il fiume è inquinato. In primis, dall’immondizia: tutto ciò che le comunità producono come immondizia, viene buttato nel fiume. Va detto che l’indigeno è passato in poco tempo da uno scarto naturale (gusci, cortecce, legno) alla plastica. Con la differenza che il primo non inquina, il secondo sì. A Soplín Vargas parte dell’immondizia si raccoglie, ma si butta in un terreno senza alcun trattamento. Non esiste il concetto di riciclaggio. E poi ci sono i reflui umani che anch’essi vanno a finire nel fiume. Qui in pochissimi hanno un gabinetto con una fossa biologica».

Dunque, come ci si procura l’acqua?, chiedo da straniero abituato alle comodità dei bianchi. «Normalmente la gente raccoglie l’acqua piovana in un contenitore, ma altrettanta prende l’acqua da bere direttamente dal fiume. Noi portiamo l’acqua (trattata) in bottiglioni dalla Colombia e, quando la gente sulla barca ci vede, ride di noi. “Fernando, l’acqua del Putumayo non si prosciuga, perché vai a comprarla?”».

Domando della vita quotidiana. «Se non lavorano nella municipalità – spiega padre Fernando -, le persone al mattino vanno a collocare le loro reti nel rio Putumayo per pescare. Durante la notte possono andare a caccia per procurarsi la carne, che poi salano dato che qui non c’è possibilità di congelare i prodotti». Dunque, pesca, caccia, ma anche un’agricoltura di tipo familiare.

«Nelle chagras (o chacras, piccoli appezzamenti di terra) si coltivano – spiega padre Kim – riso, frutta amazzonica e yuca. Quest’ultima è molto usata dagli indigeni, anche per produrre bevande tipiche come la chicha e il masato». Chiedo della coca. «E tristemente si coltiva anche coca – conferma il missionario -. Però, la si coltiverebbe meno, se in altre parti del mondo non si consumasse. Senza dimenticare che gli indigeni la utilizzano anche in alcuni loro rituali tradizionali».

Dopo la cena, nel salone multiuso rimontiamo la tenda sotto la quale dormirò. Occorre approfittare della luce: a Soplín Vargas la corrente elettrica viene erogata per 4 ore giornaliere, dalle 18,00 alle 22,00. La missione non ha un generatore autonomo. Non c’è televisione né collegamento internet. «Però – dicono quasi all’unisono i due missionari – abbiamo vegetazione, tranquillità, persone con le quali si può parlare faccia a faccia senza un telefono che suoni».

Amazzonia, cuore del mondo

Ogni mattino mi alzo anchilosato, ma senza punture. Anche la scorsa notte le zanzare (zancudos o mosquitos) non sono passate dalla mia tenda. Esco subito per approfittare della temperatura sopportabile. Percorro il sentiero – sono poche centinaia di metri – che porta verso il centro del villaggio. Passo davanti alla scuola primaria e secondaria e a un piccolo campo da gioco in cemento. Ancora pochi passi e sono sulla Plaza de Armas di Soplín Vargas. È uno spazio erboso circondato da una stradina pavimentata con lastroni di cemento. Tutt’attorno ci sono il posto di polizia (una baracca in legno di colore verde pallido), il municipio e anche un ufficio del Banco de la Nación.

Incrocio il direttore del collegio. La scuola di Soplín Vargas – chiamata Teniente Luis García Ruiz – conta 108 alunni in primaria e 78 in secondaria. Secondo il direttore, i problemi principali sono quelli della mobilità (degli insegnanti e degli studenti) e i bassi salari. «Non stiamo tanto bene, però stiamo migliorando», conclude. In piazza incontro anche il medico, il dottor Francisco José Rosas Pro, che mi invita a casa sua. Sposato con Rina, infermiera, hanno una bambina. Sono qui dal 2012, ma in attesa di trasferimento.

«Manca molto – racconta il medico – l’appoggio dello stato, soprattutto per quanto concerne i medicinali. Non danno neppure quelli di base come amoxicillina e paracetamolo. Non rispondono alle nostre richieste. Oppure inviano medicinali non richiesti in quantità quando vedono che stanno per scadere».

Gli chiedo delle patologie più diffuse. «A parte la diarrea e problemi respiratori tipici, c’è la malaria, sempre presente. Ogni giorno ci sono pazienti. Spesso scelgo di dare loro i medicamenti anche se l’analisi del sangue è negativa, perché vengono da molto lontano. Qui a Soplín Vargas si tratta principalmente di malaria vivax, ma nei caserios (i villaggi più piccoli) c’è una prevalenza del falciparum» (sulla malaria vedi MC ottobre 2018 pag. 62).

Siamo interrotti per un’emergenza. Lo seguo al puesto de salud (consultorio medico) che dista un centinaio di metri. È una struttura in muratura relativamente grande ma triste e spoglia. Pare abbandonata. Le stanze non mancano, ma sono quasi tutte chiuse e vuote. L’unica aperta e attrezzata è quella sulla cui porta c’è il cartello «Tópico de emergencia». All’interno un paziente, sdraiato sul lettino, lamenta forti dolori al basso ventre. Francisco lo visita. Esce poco dopo. «Probabili calcoli renali. Ho dato dei medicinali e ordinato (all’unica addetta, ndr) una fleboclisi».

Al puesto de salud di Soplín Vargas l’umidità percorre muri e scalini, ma non c’è l’acqua per gli usi normali. «Una delle tante ragioni per cui ho chiesto di essere trasferito», chiosa il medico.

Alla sera racconto della mia visita all’ambulatorio. «Sì, è vero. Qui ci sono molte necessità – ammette padre Fernando -. I governi non si preoccupano della gente di questi territori. Sono interessati soltanto ad accaparrarsi le ricchezze della regione: per queste persone l’Amazzonia è sinonimo di denaro. Per me invece è il cuore del mondo».

Paolo Moiola


Nella comunità kichwa di Nueva Angusilla

«Sì, io sono il cacique»

Sul fiume Putumayo, come su tanti altri fiumi amazzonici, vivono varie comunità indigene. Spesso dimenticate dallo stato centrale.

Verso Nueva Angusilla. Da Soplín Vargas navighiamo lungo il rio Putumayo verso Sud per 140 chilometri. Quando il fiume incontra il rio Angusilla, suo affluente, siamo arrivati alla comunità kichwa di Nueva Angusilla.

L’avamposto militare – qualche casupola dipinta di verde e un’insegna posta sul terreno antistante – sta su un promontorio senza alberi. Ma la posizione è perfetta: all’intersezione tra i due fiumi. Poco più avanti, sul pontile un gruppo di adulti e bambini sono in attesa della nostra lancia. I cartelli di benvenuto tenuti dai piccoli sono per mons. José Javier Travieso Martín: è un’occasione unica perché il vescovo risiede a San Antonio del Estrecho, molto lontano da Nueva Angusilla.

Il villaggio è stato costruito con una struttura rettangolare: il lato libero guarda verso il fiume, sugli altri tre sono sorte le abitazioni. Le case – fatte di assi di legno e tetto di lamiera o di frasche – sono rialzate dal terreno di circa mezzo metro. Al centro, sproporzionata rispetto al resto, c’è la costruzione più moderna, chiamata Centro de Servicio de Apoyo al Hábitat Rural, ma da tutti conosciuta come «tambo». È un progetto del governo peruviano per ospitare – nei luoghi più disagiati – i principali servizi pubblici: registro civile, credito e appoggio tecnico ai contadini, consultorio medico, asilo nido per bambini, consulenza giuridica e altro ancora. Però, a Nueva Angusilla come altrove, c’è solo il contenitore fisico, mentre i servizi mancano o sono molto carenti.

«Qui ci sono circa 120 abitanti. Si vive di agricoltura e pesca. E poi lavoriamo con il legno con cui facciamo assi vendute in Colombia», mi dice gentile ma forse un po’ a disagio Eliseo, un abitante che si sta dirigendo verso il locale comunale – una struttura in legno aperta e con un tetto di frasche – dove il vescovo impartirà battesimi e comunioni.

Cerco il capo, il responsabile della comunità: il cacique, ma meglio sarebbe dire apu o curaca. Eccolo. Statura piccola e volto da giovanissimo, risponde volentieri alle domande anche se con visibile timidezza. «Sì, sono il cacique. Mi chiamo Jackson Kenide Mashacuri Andi e ho 24 anni. La popolazione mi ha eletto come autorità di qui. Mi piace molto stare con la gente per aiutarla a organizzarsi». E con orgoglio aggiunge: «Ho fatto il quinto grado della scuola secondaria e dunque sono capace di difendermi». Precisa che gli abitanti sono 117 che vivono coltivando yuca e platano (banane da cuocere, ndr) e pescando per il proprio consumo. Spiega che, come cacique, fa parte di una organizzazione chiamata Fikapir – Federación Indígena Kichwa Alto Putumayo Inti Runa -, la quale funge da intermediario con le autorità statali.

Chiedo dei problemi che ci sono. «Per la salute non c’è quasi appoggio. Per l’educazione stiamo cercando di avere professori bilingue. Adesso abbiamo soltanto insegnanti meticci che non parlano la nostra lingua. Qui la popolazione parla kichwa». Anche i giovani?, chiedo. «Sì, anche loro. Lo parlano in casa ma non a scuola».

Ci sono problemi di malaria? Fa una smorfia prima di rispondere: «Eh, sì. Soltanto un mese fa c’erano 20-25 persone contemporaneamente con la malaria. Malaria vivax». E c’è la posta medica?, intervengo. «Sì, ma non abbiamo il tecnico».

Oggi è una giornata di festa. Bisogna andare a mangiare. Pollo, riso, platano fritto. Prima di risalire sulla lancia, Jackson mi presenta la sua famiglia per un’ultima foto.

Paolo Moiola


Indigeni e bianchi

Una ciotola di «masato» (per un ipocondriaco)

Tra un indigeno e un bianco le diversità sono evidenti. Soprattutto quelle culturali. L’importante è accettarle, magari con un arricchimento reciproco. Racconto di un piccolo episodio di vita quotidiana.

Nueva Angusilla. Una semplicissima casa in legno rialzata da terra di circa un metro. Nessun mobile, un paio di secchielli (di plastica) con dell’acqua, qualche indumento appeso a fili volanti. Una famiglia numerosa e allargata (genitori, figli, nipoti) accoglie padre Fernando. In quanto amico del missionario, io sono un ospite da onorare come meglio si possa. E il meglio per una famiglia kichwa è offrire una ciotola colma di masato. È – lo confesso – un momento che temevo e che inevitabilmente si presenta. Tremo all’idea di dover ingerire quella bevanda tanto gradita dagli indigeni quanto indigesta per i non-indigeni, soprattutto se occidentali. Bere è un atto dovuto, segno di rispetto, riconoscenza, amicizia. Bere è però anche un rischio certo di avere conseguenze fisiche immediate e sicuramente poco piacevoli. Anni di esperienze negative mi vengono immediatamente alla memoria. Non c’è speranza di farla franca. È quasi matematico.

Il masato (aswa, in kichwa) è il nome di una bevanda molto comune in tutto il bacino amazzonico. È ottenuta a partire dalla yuca dolce (o manioca), una pianta con una radice a forma di tubero, commestibile e ricca di amidi. La sua preparazione è compito delle donne indigene. I tuberi vengono prima pestati e poi bolliti. La pasta ottenuta è quindi masticata dalle donne per provocarne la fermentazione. Da ultimo si diluisce la massa in acqua (quasi sempre di dubbia potabilità) e il masato è pronto per essere bevuto.

Prendo la ciotola di… plastica tra le mani. Appoggio le mie labbra incerte sul bordo. È come se quella bevanda biancastra e veramente poco attraente quasi mi guardasse e mi dicesse: «Bevimi!».

La decisione è repentina ed improvvisa. In un decimo di secondo passo la ciotola nelle mani compassionevoli di padre Fernando. Labbra appena inumidite, ma no, non ce l’ho fatta a bere. Però almeno sono arrivato lì, lì a pochissimo dalla temuta meta.

Cerco nella mia testa due paroline in lingua kichwa: «Yapa alli» (muy bueno, molto buono), dico con un sorriso tanto largo quanto bugiardo a tutti i presenti che sono lì davanti, con gli sguardi fissi su di me. E subito cerco di sviare l’attenzione. Una foto, una foto di tutti con padre Fernando. Sì, mi vergogno, ma il mio stomaco e probabilmente la mia salute sono salvi. Spero sia salva anche la mia reputazione presso quella famiglia kichwa di Nueva Angusilla. Sentendomi come colpevole di un reato, prometto loro che farò arrivare le foto cartacee di quella visita. Temo però che il masato tornerà ancora a materializzarsi davanti a me. Negli incubi notturni o nella realtà.

Paolo Moiola