Mondo. Ha vinto la teologia fossile

C’è stata una continuità tra la Cop28 e la Cop29: entrambe le conferenze sul clima sono state organizzate in «petrostati», paesi produttori di idrocarburi. Si è passati, infatti, dagli Emirati arabi uniti (2023) all’Azerbaijan (2024). Ipocrita dunque stupirsi che, sia nel primo che nel secondo caso, il risultato in tema di mitigazione climatica e transizione energetica sia stato nullo: tante parole, qualche promessa, pochi o pochissimi risultati.

Che a Baku le cose si sarebbero messe male si era capito fin dall’inizio. La ventinovesima Conferenza delle parti (Cop) è iniziata l’11 novembre, pochi giorni dopo la vittoria elettorale di Donald Trump, noto per il suo negazionismo climatico e prossimo presidente degli Stati Uniti, il secondo più grande emettitore di gas serra dopo la Cina. Il magnate statunitense ha fatto immediatamente proseliti: il presidente argentino di ultradestra Javier Milei ha ordinato il ritiro della sua delegazione.

Nella giornata d’apertura, ha parlato il padrone di casa, il presidente e dittatore Ilyam Aliyev. Figlio di Heydar Aliyev, alla guida del Paese dal 1993 al 2003, Ilyam Aliyev è al potere dal 2004, essendo stato (teorico) vincitore di quattro consecutive elezioni. Nel suo discorso inaugurale, l’uomo ha dato il proprio benvenuto ai partecipanti e, dopo aver elogiato il proprio Paese (che, tra l’altro, occupa con la forza la regione armena del Nagorno-Karabakh) e criticato l’Occidente, ha fatto chiaramente intendere che l’ipotizzata transizione energetica dovrà attendere. Furbissima la sua spiegazione: gas e petrolio sono «un dono di Dio». Per inciso, l’Azerbaijan ci ricorda che gran parte delle riserve mondiali di idrocarburi è in mano a stati dittatoriali: Russia, Arabia Saudita, Iran, Venezuela. Tutte dittature che si reggono sulla produzione e vendita di gas e petrolio.

Oltre che a rallentare il cambiamento climatico, la transizione energetica sarebbe anche una scelta morale a favore della democrazia e della libertà.

A Baku, dopo dieci giorni di discussioni improduttive (soprattutto sui soldi da destinare ai paesi poveri o in via di sviluppo di Africa, Asia e America Latina per affrontare le emergenze climatiche e la transizione), la Cop29 è stata chiusa – domenica 24 novembre – in ritardo di un giorno e mezzo sul calendario. L’accordo raggiunto prevede trecento miliardi di dollari all’anno (promessi, non elargiti), che sono poco più di nulla di fronte alla gravità dei problemi.

Come si sono comportati i paesi più importanti? L’Arabia Saudita, di gran lunga il primo dei petrostati, ha lavorato – apertamente e di nascosto – per ostacolare ogni accordo che prevedesse un riferimento all’abbandono delle fonti fossili (la cosiddetta decarbonizzazione). Quanto alla Cina, primo inquinatore e seconda economia mondiale, è clamoroso che essa contribuirà ai finanziamenti per il clima in maniera volontaria, a differenza dei paesi ricchi che sono obbligati. Per gli Stati Uniti, secondo inquinatore e prima economia, occorrerà invece attendere l’insediamento di Trump 2, ma l’anti ambientalismo dichiarato del tycoon induce all’assoluto pessimismo.

Infine, riguardo all’Unione europea, attore tra i più avanzati nel contrasto ai cambiamenti climatici, il suo attivismo è stato frenato dalle divisioni interne prodotte dall’avanzata dei partiti sovranisti, ma – a conti fatti – rimane il protagonista più serio.

Nel 2025, la Cop30 si svolgerà in Brasile, a Belém, la porta d’ingresso dell’Amazzonia, uno degli ecosistemi mondiali più importanti e più in sofferenza.

Paolo Moiola




Il sogno dello sciamano

 


Il sogno è difendere l’Amazzonia e i suoi popoli nativi. Senza farsi illusioni: cambiare una condizione sedimentata nei secoli e portata avanti dal potere dei bianchi è una lotta lunga, complicata e lastricata di speranze e sconfitte. Eppure, Davi Kopenawa Yanomami non si arrende.

Pian del Cansiglio (Belluno). La nebbia mattutina d’inizio aprile viene dissipata dai primi raggi del sole. Poco dopo, l’altopiano si mostra nella sua veste migliore: aria fresca, colori e il silenzio della natura. Attorno si apre la foresta – dicono sia la seconda d’Italia per estensione – e in lontananza si stagliano le montagne ancora innevate. L’ospite – Davi Kopenawa Yanomami – apprezzerà?

Lui arriva al tavolo della colazione preparata dalla signora Franca, la gestrice del rifugio Vallorch, indossando jeans, felpa blu e scarpe da ginnastica. Un abbigliamento che ci aiuta subito a vedere le cose nella giusta prospettiva. Troppo spesso, infatti, nella nostra testa ecomiti e stereotipi occidentali resistono come licheni sulla roccia. Mai dimenticare che un indigeno rimane tale anche se usa il cellulare, il computer o se gioca a calcio, come ricorda una preziosa campagna di sensibilizzazione – Menos preconceito mais índio (Meno preconcetti, più indigeni) – dell’Instituto socioambiental (Isa), trent’anni compiuti proprio quest’anno.

Al suo quarto viaggio in Italia, Davi è arrivato assieme a Carlo Zacquini, missionario della Consolata che con lui ha attraversato oltre mezzo secolo di lotte indigene condividendo speranze, vittorie e sconfitte.

Ovviamente, quella del Cansiglio non è la foresta amazzonica, e il rifugio Vallorch non è la casa comune di Watoriki, l’aldeia di Davi. Premesso questo, il leader degli Yanomami ha trovato qui un ambiente più familiare al suo e, comunque, certamente migliore rispetto a quello offerto da una città e da un albergo. Un’idea originale – oltre che un simbolico gemellaggio tra due foreste – uscita dal cappello degli organizzatori de «Il Mondo di Tommaso», la vitalissima associazione di Vittorio Veneto che ha portato in Italia i due ospiti.

A passeggio tra i boschi del Cansiglio, Davi racconta le differenze con la «sua» foresta amazzonica. Foto Paolo Moiola.

Raccontare gli Yanomami: da Cannes al Giappone

A tavola chiediamo a Davi se sia contento di viaggiare, di essere qui. «Più o meno», risponde con disarmante sincerità e con il suo consueto, tranquillo sorriso. Precisa: «Lo faccio per la causa del mio popolo».

Il suo libro A queda do ceu (La caduta del cielo) è stato tradotto in più lingue e adottato in molte facoltà universitarie. Da esso è stato tratto un documentario selezionato per il festival di Cannes 2024. Eppure, tutto ciò non basta: la realtà rimane complicata, drammaticamente complicata. Gli Yanomami del Brasile (ma la situazione è identica anche per quelli del Venezuela) stanno conoscendo anni molto difficili che possono mettere a rischio la loro stessa sopravvivenza come popolo indigeno autonomo e orgoglioso.

È una crisi dalle molte facce, tutte feroci e tutte tra loro collegate: sociale, sanitaria, ambientale, climatica. Per questo Davi non vuole tirarsi indietro. Pur avendo una moglie (Fatima) e cinque figli (Dario, Guiomar, Denisi, Tuila e Vitorio), continua a girare il mondo – dopo questo viaggio in Italia (con il clou di un incontro privato con papa Francesco) partirà subito per il Giappone – per perorare la causa degli Yanomami e dell’Amazzonia.

La maledizione dell’oro

Dopo colazione, ci incamminiamo verso il massiccio del monte Cavallo, ancora innevato (la cima supera di poco i 2.200 metri). La cosa che più attrae Davi è proprio la neve, l’unico elemento veramente nuovo rispetto all’ambiente amazzonico dal quale lui proviene.

«Mi piace questa foresta – dice mentre camminiamo lungo i sentieri -. Io non sono nato in casa, sono nato in foresta. Per questo è mia sorella».

Nulla di strano in queste parole: nella visione indigena, la foresta è viva, gli alberi sono vivi. E gli sciamani sono il tramite tra gli uomini e gli spiriti della foresta.

«Sì, mi piace – ripete Davi -. Anche se, a differenza della nostra, non è nativa ma piantata. Anche gli alberi sono differenti». E, vedendo gli abeti, aggiunge: «Pure le foglie sono diverse. Queste sembrano capelli» (riferendosi agli aghi). Quando passiamo a camminare su un tratto di sentiero pavimentato, Davi osserva con un sorriso: «Questo è il vostro “garimpo”».

Da tempo garimpos (miniere) e garimpeiros (minatori) sono l’ossessione di Davi Kopenawa. Perché rappresentano – con ragione – il peggio dell’uomo bianco: la violenza verso madre natura e i popoli indigeni.

L’invasione è dovuta alla ricerca dell’oro, che – purtroppo – è presente in abbondanza come già avevano scoperto i conquistatori spagnoli e portoghesi.

I garimpeiros cominciarono ad arrivare negli anni Settanta, quando iniziò la costruzione della Perimetral Norte (o strada federale Br-210, mai completata) e Davi era un bambino.

Con il ritorno di Lula alla presidenza del paese, gli invasori sono diminuiti di oltre il 60 per cento, ma ne rimangono almeno altri settemila (e molti altri sono pronti a entrare o rientrare nel territorio yanomami). L’ultima operazione militare allestita per cacciarli – chiamata Operação Catrimani II – ha avuto luogo in aprile.

Davi riconosce il ruolo positivo del presidente: «Lula è una buona persona, però è solo». La solitudine è dovuta a un Congresso brasiliano dominato da uomini dell’ex presidente Jair Bolsonaro, nemico dichiarato dell’Amazzonia e dei popoli indigeni.

Davi Kopenawa Yanomami in Pian del Cansiglio (Belluno), aprile 2024. Foto Paolo Moiola.

Oggi il mercurio si acquista su internet

Lo sciamano yanomami amplia il concetto di garimpeiros. Spiega: «Io considero garimpeiro anche chi compra l’oro dai garimpeiros e chi nei paesi dei bianchi lo vende». Purtroppo, la realtà racconta che la domanda di oro non pare destinata a ridursi visto che è considerato un bene rifugio e il prezzo dello stesso rimane molto alto (attualmente, oltre 70 euro al grammo).

Davi passa a elencarci tutto ciò che il garimpo porta con sé: «Si mettono sui fiumi con draghe e motori. Poi hanno bisogno di combustibile, cibo e alcol, mezzi di trasporto, armi da fuoco per sparare agli indigeni. Hanno schermi televisivi e soprattutto hanno internet».

Non sono esagerazioni di una vittima arrabbiata. Risponde al vero che i satelliti di Starlink – la società di telecomunicazioni di Elon Musk (tra l’altro, molto vicino all’ex presidente Bolsonaro) – hanno favorito soprattutto i garimpeiros che possono comunicare con tutto il mondo anche dalle zone amazzoniche più isolate. Tramite internet gli invasori possono interloquire con i propri referenti e acquistare tutto ciò che serve alla loro attività.

Per esempio, Infoamazonia ha scoperto che sulle piattaforme brasiliane Olx e Mercado livre si possono tranquillamente comprare balsas (draghe), mercurio liquido e ogni tipo di attrezzatura mineraria.

Chiediamo a Davi del mercurio e lui smette di camminare per mostrarci anche a gesti come viene utilizzato dagli invasori per ripulire l’oro dagli altri sedimenti. Mercurio che poi si disperde nei fiumi contaminando l’ecosistema: un avvelenamento grave e confermato da vari studi. Due degli ultimi sono quelli firmati dalla rivista Toxics (settembre 2023) e dalla prestigiosa Fundación Oswaldo Cruz (aprile 2024): secondo la rivista a Roraima il 40 per cento dei pesci contiene livelli di mercurio superiori alla norma, mentre secondo una ricerca della fondazione nello stesso stato l’inquinamento da mercurio colpisce quasi tutta la popolazione di nove villaggi yanomami.

Bianchi e garimpeiros

Davi Kopenawa Yanomami firma il proprio libro tra gli alberi della foresta del Cansiglio. Foto Paolo Moiola.

Davi va oltre nelle sue accuse. Il maggior pericolo viene da chi sta dietro i garimpeiros, anche grandi imprese di altri stati. Davi non fa nomi, ma l’affermazione trova riscontro nelle cronache giornalistiche che, per esempio, riportano i problemi causati dalle compagnie minerarie canadesi – tra esse Cabral gold, Equinox gold, Belo sun – operanti in Brasile. Tonnellate di oro illegale si confondono con quello legale originando un commercio internazionale dai contorni sempre opachi.

Davi è molto duro nei confronti dei bianchi («napëpë» in lingua indigena, ovvero non Yanomami, stranieri, nemici), che etichetta come «popolo della merce». Tuttavia, è magnanimo nei confronti dei garimpeiros. «Spesso gli invasori – precisa infatti – vengono in terra indigena perché non hanno una loro terra, un loro lavoro. A questo dovrebbe porre rimedio il governo federale».

A Watoriki – Davi ricorda sempre con nostalgia il suo villaggio in foresta – non ci sono garimpeiros: i suoi centocinquanta abitanti vivono ancora come la cultura yanomami insegna.

La mancanza di contatti con gli invasori ha tenuto lontano il pericolo della corruzione. Che, per esempio, è arrivata per una parte dei Kayapó (nel Pará).

Chiediamo a Davi se, al di fuori di Watoriki, ci siano Yanomami che sono diventati garimpeiros. «No», risponde secco, salvo poi precisare: «Una minoranza, soprattutto tra coloro che si trovano a vivere accanto ai garimpos. Si sono fatti convincere da qualche grammo di oro o semplicemente da forniture di alimenti».

Malattie e denutrizione

I garimpeiros sono anche responsabili primi del peggioramento delle condizioni di salute della popolazione indigena, che è molto vulnerabile e priva di vaccinazioni. La prima emergenza è data dalla diffusione della malaria, ma ci sono anche influenze, tubercolosi, patologie intestinali e i molteplici problemi di salute (anche neurologici) prodotti dal mercurio.

Con le malattie è arrivata anche la fame. «Perché – spiega David – gli Yanomami malati non hanno la forza per alzarsi, per andare a caccia, per preparare il cibo.

Personalmente, non ho mai sofferto la fame. Ho avuto la malaria ma non sono morto. Purtroppo, anche in materia di salute il governo è stato assente. Con Bolsonaro siamo stati abbandonati per quattro anni. Con Lula è diverso, ma lui non ha abbastanza appoggio per risolvere la situazione. La stessa Onu parla tanto, ma non fa nulla».

Nell’aprile 2021, una pubblicazione dell’Igarapé institute – noto istituto di ricerca con sede a Rio de Janeiro –  ha calcolato il «prezzo della devastazione»: all’epoca, l’estrazione di un chilo di oro produceva danni ambientali pari a dieci volte il suo valore. Quel calcolo però non includeva gli incommensurabili danni umani subiti dai popoli indigeni.

Un momento della passeggiata tra i boschi del Cansiglio organizzata da «Il mondo di Tommaso» in onore di Davi Kopenawa e Carlo Zacquini. Foto Paolo Moiola.

Abbracciare gli alberi

Al rifugio Vallorch è arrivata molta gente per ascoltare Davi e Carlo. Il leader yanomami ha indossato un «cocar», il copricapo di sgargianti piume di pappagallo ara (così anche la classica iconografia dell’indiano è salva).

Il pomeriggio sarà dedicato a una passeggiata comune tra i boschi di faggi del Cansiglio. Accanto agli ospiti brasiliani, a guidare il gruppo è Toio de Savorgnani, alpinista, scrittore e ambientalista di Mountain wilderness, la combattiva associazione per la difesa delle montagne.

La passeggiata tra i boschi del Cansiglio ritempra il fisico e la testa. Toio propone di chiudere l’immersione nella foresta con quella che i bianchi hanno chiamato «silvoterapia» (con le sue varianti forest bathing e tree hugging). Non basta respirare a pieni polmoni, occorre tornare al contatto fisico tra viventi abbracciando – sì, abbracciando – gli alberi. Pochi minuti per sentire e ascoltare la natura.

Dopo l’abbraccio, alcuni dei presenti si avvicinano a Davi con il suo libro tra le mani. Glielo porgono per un autografo e lui, quasi a giustificarsi, dice: «I bianchi non ascoltano. Per questo ho dovuto scrivere».

Chissà se basterà. Il sogno dello sciamano yanomami – un’Amazzonia senza invasori e il ripristino dell’equilibrio simbiotico tra uomo e natura – dovrebbe essere il sogno di tutti. Dovrebbe, ma purtroppo non è.

Paolo Moiola

SITI WEB

Fratel Carlo Zacquini in una sala del Centro di documentazione indigena (Cdi) di Boa Vista, a Roraima. Foto CDI.

Fratel Carlo Zacquini

Il sogno di Hokosi

Venezia. Dopo la foresta, l’acqua. E cosa meglio di una città che sull’acqua è nata e vive? Questo probabilmente hanno pensato Claudio Corazza (Il mondo di Tommaso) e Raffaele Luise (scrittore e vaticanista) nell’organizzare il convegno sull’Amazzonia a Venezia, nella splendida e affollata cornice del chiostro del Convento San Francesco della Vigna.

Al tavolo dei relatori Davi Kopenawa ricorda il suo ruolo e la sua battaglia, ma Carlo Zacquini detto Hokosi è senza voce. Altri possono tradurre le parole dello sciamano yanomami, ma soltanto lui può tradurne i concetti. Per questo Claudio e Raffaele gli vengono in soccorso dando la parola agli altri ospiti.

Come Marco Tobon, antropologo colombiano che insegna a Leticia, sulla triplice frontiera amazzonica tra Colombia, Brasile e Perù. Il professore parla di interazione tra esseri umani e ambiente, ma soprattutto della sfida che occorrerebbe affrontare: quella del passaggio dall’attuale «antropocentrismo» (l’uomo come centro dell’universo) a un auspicabile «biocentrismo» (al centro c’è la vita di uomini, animali e vegetali).

Verso la fine, si torna a Carlo Zacquini e al «Centro di documentazione indigena» (Cdi), il suo sogno realizzato ma oggi in pericolo. Occorre costruire una nuova sede che metta al riparo il materiale raccolto – settemila libri, riviste, ritagli di giornali, foto, un archivio digitale – da termiti, blatte, umidità, polvere. In questi anni il suo lavoro è stato indirettamente premiato con la progressiva presa di coscienza degli indigeni. Dopo tante umiliazioni, essi hanno finalmente scoperto che possono e devono essere orgogliosi di appartenere a un popolo indigeno. Nel parlare fratel Carlo si commuove: da tempo sostiene di avere un enorme debito di riconoscenza nei confronti degli indigeni. Il Cdi è la sua maniera di ripagarli per quanto ricevuto in quasi sessant’anni di missione in Amazzonia.

Pa.Mo.

Un frame del documentario «A queda do ceu» presentato al festival di Cannes 2024

Un film, una mostra

CONOSCERE L’AMAZZONIA

Torino. Conoscere l’Amazzonia è fondamentale per poter difendere i suoi popoli, le sue ricchezze, il suo essere patrimonio dell’umanità. Per questo, ogni iniziativa che vada in questa direzione va sostenuta. A Torino ne sono in corso due. La prima è stata organizzata da «CinemAmbiente», il più importante festival italiano di tematiche ambientali giunto all’edizione numero 27 (4-9 giugno). Gli organizzatori hanno reso disponibile un vecchio documentario – girato nel lontano 1918, considerato perduto nel 1930, ritrovato nel 2023 – sull’Amazzonia: un film in bianco e nero di grande interesse storico ritrovato dalla Cineteca di Praga e restaurato.

La seconda iniziativa è l’esposizione «Mater Amazonia», allestita presso «Cultures and mission» (Cam), il polo culturale dei Missionari della Consolata, nella nuova sala chiamata Urihi. La casa della terra. Si tratta di una parte della mostra ospitata dai Musei Vaticani durante il Sinodo amazzonico dell’ottobre 2019. La mostra si sviluppa attraverso oggetti, foto e filmati di tre ambienti amazzonici: la foresta, il fiume e la maloca. Inaugurata lo scorso 17 maggio, Mater Amazonia rimarrà aperta fino al 31 ottobre.

Pa.Mo.

Siti web:

 




L’Amazzonia, invasa e avvelenata


Come negli altri paesi, anche in Venezuela nulla sembra fermare la distruzione dell’Amazzonia per mano dell’uomo. È l’attività mineraria illegale a produrre i danni maggiori. Il governo Maduro sembra non avere né la forza né la volontà per cambiare la situazione. Il prezzo di quest’anarchia lo pagano l’ambiente, i popoli indigeni e un esercito di disperati.

Il buco è una voragine gigantesca, profondissima e larga. Una decina di uomini, legati alle corde ma vestiti in modo del tutto inadeguato, sono abbarbicati alle pareti di terra rossa e lavorano di pala per scavare dei gradoni. L’intenzione è di costruire una sorta di via d’accesso alla voragine: non sia mai detto che la natura risulti vincitrice.

La voragine è quello che resta della miniera d’oro a cielo aperto conosciuta con il nome di Bulla Loca («giacimento matto»).

Siamo in località La Paragua, stato Bolívar, Amazzonia venezuelana (conosciuta anche come Guayana). Lo scorso 20 febbraio la miniera è franata facendo una trentina di morti tra le centinaia di minatori che vi lavoravano. Minatori illegali di una miniera illegale come moltissime altre. E gli incidenti sul lavoro sono una tragica consuetudine, come quello che il 3 giugno 2023 ha fatto 12 morti a El Callao, sempre nello stato di Bolívar. El Callao è un villaggio la cui vita gira attorno all’estrazione dell’oro: la maggioranza dei suoi 30mila abitanti partecipa direttamente o indirettamente a questa attività. La località è salita alla ribalta delle cronache anche per l’impiego di bambini (addirittura di soli sei anni) nelle sue miniere.

Virgilio Trujillo Arana, indigeno Uwottüja di 38 anni, attivista ambientale, assassinato a Puerto Ayacucho a fine giugno 2022. Foto Orpia-Coica.

Un’invasione senza fine

Dell’Amazzonia venezuelana si parla poco. Eppure, è importante tanto quanto le Amazzonie più conosciute: quelle del Brasile, del Perù, dell’Ecuador, per esempio. Purtroppo, è anche afflitta dai loro stessi problemi: oltre che dalle attività minerarie, da deforestazione, incendi, inquinamento da mercurio, diffusione della malaria, violazione dei diritti dei popoli indigeni residenti, sfruttamento del lavoro minorile, presenza di gruppi armati.

La regione amazzonica del Venezuela si estende nel Sud del paese attorno al corso del fiume Orinoco (inclusi i suoi affluenti, escluso il delta) e copre quasi interamente gli stati Bolívar e Amazonas più alcune porzioni di altri due (Delta Amacuro e Apure) per un totale di circa 490mila chilometri quadrati (circa metà del Paese, una volta e mezzo la superficie dell’Italia). È abitata da oltre venti popoli indigeni. Secondo il censimento del 2011, gli indigeni sarebbero 54mila in Bolívar e 76mila in Amazonas. Le etnie principali sono i Pemón (30mila), i Uwottüja o Piaroa (20mila), gli Yanomami (15mila) e i Kariña (10mila).

La corsa all’oro uccide

La sfortuna vuole che nel sottosuolo dell’Amazzonia venezuelana si trovino minerali come ferro, bauxite e rame, ma soprattutto oro, diamanti e coltan. Sono questi ultimi tre ad aver scatenato una vera corsa all’attività mineraria, soprattutto quella illegale. Non da oggi, in verità. Da resoconti e cronache dei missionari Cappuccini e dei funzionari dell’epoca, si sa che l’oro venezuelano veniva estratto – con il lavoro forzato degli indigeni – già prima del 1800, e portato in Spagna. Oggi tutti parlano di una presenza di minatori illegali in crescita continua (le stime variano da 50mila a 300mila persone). Una parte importante sono garimpeiros (minatori) brasiliani, soprattutto nell’Alto Orinoco-Casiquiare, straordinaria regione che ospita la Riserva della biosfera dell’Unesco e il Parco nazionale Parima Tapirapeco. Tra l’altro proprio ai minatori brasiliani si deve il massacro di Haximú compiuto nel giugno del 1993 ai danni di un gruppo di Yanomami (anziani, donne e anche bambini) nativi del luogo.

Secondo un rapporto dell’organizzazione ambientalista «Sos Orinoco», molti garimpeiros entrano nella zona con elicotteri e piccoli aerei e – ultima novità – hanno iniziato a utilizzare droni per filmare il territorio. Gli invasori distruggono la foresta per costruire piste di atterraggio e basi operative. In cambio della complicità, la Guardia nazionale venezuelana riceverebbe una parte dei profitti.

«Horonami», l’organizzazione degli Yanomami del Venezuela (162 comunità), ha denunciato che membri della sua popolazione sono stati costretti a lavorare come schiavi dai garimpeiros, che, inoltre, hanno violentato e prostituito donne e ucciso membri delle comunità. Nella loro strategia per arrivare al controllo del territorio rientrano i regali alle comunità indigene: cibo, armi, fucili, machete. Alla gravità della situazione si aggiunge l’indifferenza dello Stato centrale e la complicità dei suoi organi locali, che può anche trasformarsi in violenza diretta.

Nel mese di marzo 2022 c’è stata una disputa tra i militari della base area B7 di Parima e membri della locale comunità indigena, che chiedevano l’accesso al servizio internet. L’alterco si è concluso con la morte di quattro Yanomami. Il tragico episodio riflette tensioni e problemi di una difficile convivenza tra indigeni e non indigeni. A due anni di distanza, la richiesta di giustizia da parte della comunità non ha trovato ancora alcuna risposta da parte delle autorità venezuelane.

Nella vasta regione amazzonica la violenza non è un’eccezione, ma una consuetudine sempre più diffusa. A fine giugno 2022, Virgilio Trujillo Arana, un indigeno Uwottüja di 38 anni, è stato ammazzato con tre spari alla testa a Puerto Ayacucho, capitale dello stato di Amazonas. L’uomo era un attivista ambientale. Nel municipio di Autana era, infatti, coordinatore di un gruppo di difesa indigeno contro le invasioni territoriali e le attività minerarie illegali.

Secondo l’Observatorio para la defensa de la vida (Odevida), «tra il 2013 e il 2021, 32 leader indigeni e ambientalisti sono stati assassinati, 21 dei quali da sicari minerari o membri di organizzazioni di guerriglia colombiane, e 11 da membri delle Forze armate nazionali bolivariane (Fanb)».

Tuttavia, non tutti i popoli indigeni dell’Amazzonia venezuelana affrontano il problema delle minerie allo stesso modo.

I Pemónes, il maggiore gruppo indigeno della regione, vivono nei territori di Sud Est dello stato Bolívar, a ridosso del confine con Brasile e Guyana. Il loro territorio è annoverato tra i più ricchi di oro al mondo e per questo estremamente attrattivo. Già un certo numero di indigeni lavora nelle miniere aurifere, altri chiedono al governo centrale di porre fine allo sfruttamento illegale del loro territorio e di istituire miniere legali sotto controllo Pemón.

Un’immagine dall’alto dell’accampamento cresciuto accanto alla miniera illegale «Bulla Loca» (La Paragua, stato Bolívar), teatro di un tragico incidente lo scorso 20 febbraio. Screenshot da filmato TeleSur.

Dall’anarchia all’«Amo»

Dopo la scomparsa di Hugo Chávez (2013), con la presidenza di Nicolás Maduro il Venezuela è precipitato in una crisi infinita. Anche per far fronte alla perdita di gran parte delle entrate petrolifere, nel 2016 il governo di Caracas ha varato il progetto «Arco minero del Orinoco», noto con l’acronimo di Amo. L’Arco minerario occupa un’area di 111.843 chilometri quadrati di territorio nel Nord e nell’Est dello stato di Bolívar, più grande del Portogallo o di Cuba, 12% della superficie del Venezuela.

Sul sito del ministero (dal nome altisonante: Ministerio del poder popular de desarrollo minero ecológico), gli obiettivi propagandati sono «pace, protezione ambientale e prosperità economica» da raggiungere attraverso il «controllo della catena produttiva mineraria» con «una delimitazione delle aree minerarie e la protezione delle zone sacre ancestrali».

A questa narrazione edificante si contrappone una realtà molto diversa. Come riassume «Sos Orinoco»: «I risultati sono stati catastrofici sia per la regione che per la sua popolazione e gli ecosistemi. Avrà effetti tragici e duraturi – forse irreversibili – in Venezuela e oltre i suoi confini». Se è vero che queste critiche sono fatte da un’organizzazione antigovernativa, è altrettanto vero che altri arrivano alle stesse identiche conclusioni. In particolare, Wataniba, gruppo socioambientale venezuelano, la Chiesa cattolica e la Repam (Red eclesial pan amazónica).

A oggi, nell’Amazzonia venezuelana vige l’anarchia con le mafie e i gruppi armati illegali a dettare legge. Gli investitori stranieri millantati da Maduro («35 paesi sono interessati», aveva assicurato il presidente) sono rimasti lontani. Anche la Cina – specialista in business strategici – e sempre privilegiata dal governo di Caracas è rimasta cauta. In compenso, la distruzione ambientale e l’avvelenamento da mercurio si sono diffusi andando ben oltre i confini teorici dell’Arco minero.

Oggi tutti i parchi e le aree protette dell’Amazzonia venezuelana sono sotto attacco. Come il Parque nacional cerro Yapacana (Amazonas) che, a fine 2023, è stato oggetto di una propagandata operazione – nota come Operación Autana – da parte delle Forze armate bolivariane con questi risultati ufficiali: 86 miniere sotterranee chiuse, 241 imbarcazioni sequestrate, 4.450 villaggi improvvisati distrutti, 14mila persone espulse. Tuttavia, come fossero vasi comunicanti, liberata una zona, il problema si ripresenta in un’altra, passando – ad esempio – dal Parco Yacapana a quello di Canaima (Bolívar).

Come quasi sempre accade, la ricchezza di un luogo naturale è anche la sua dannazione perché attrae appetiti umani senza limiti ed eserciti di poveri disposti a tutto pur di cambiare la propria esistenza. Succede in tutta l’Amazzonia e quella del Venezuela non fa eccezione.

Paolo Moiola

L’impressionante devastazione ambientale prodotta dall’attività mineraria illegale attorno a La Paragua, stato Bolívar, Amazzonia venezuelana. Screenshot da filmato TeleSur.

 




Vaticano. Salvare l’Amazzonia per salvare il Pianeta

Davi Kopenawa, lo sciamano e portavoce del popolo Yanomami, ha lasciato la grande casa collettiva nell’Amazzonia brasiliana con una missione importante: portare l’appello dei popoli della foresta agli abitanti della foresta di pietra. «L’uomo bianco delle merci non ci ascolta. Abbiamo bisogno di lanciare le parole come una freccia per toccare il cuore della società non indigena», dice Kopenawa, sapendo bene che chi comanda non ascolta.

Nella sua agenda in Italia, mercoledì 10 aprile, a Roma, il leader indigeno noto a livello internazionale per il suo impegno nella protezione dell’Amazzonia si è incontrato in privato con Papa Francesco, un alleato importante. «Ho chiesto al Papa di aiutare il presidente Lula a rimuovere tutti gli invasori, i cercatori d’oro (garimpeiros) e gli sfruttatori delle terre indigene», spiega Davi ai giornalisti rivelando di aver scritto una lettera a Francisco nel 2020 e che da tempo desiderava parlare con lui.

A questo incontro – avvenuto grazie alla collaborazione con il vaticanista Raffaele Luise  -, Kopenawa è stato accompagnato da fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata a Roraima, in Brasile, suo amico e braccio destro da 50 anni, responsabile assieme alla fotografa e attivista Claudia Andujar della campagna per il riconoscimento del territorio Yanomami nel lontano 1979.

Carlo Zacquini, Davi Kopenawa Yanomami e Raffaele Luise.

David ha già dimostrato in diverse occasioni la sua profonda conoscenza delle minacce per l’intera umanità: salvaguardare la foresta e i suoi abitanti è fondamentale per garantire l’esistenza stessa della nostra Casa comune. Tra le maggiori minacce per i territori indigeni, Kopenawa elenca la contaminazione dell’acqua per l’uso criminale del mercurio (per separare l’oro dal resto, ndr) da parte dei minatori; l’ingresso di allevatori di bestiame con l’appoggio dei governi di tutto il mondo che comprano carne, così come l’espansione della coltivazione della soia sotto la pressione della Cina che ne richiede sempre di più. «La foresta brucia, la terra si esaurisce, gli uccelli, gli animali, i pesci muoiono e il nostro popolo si ammala. Forse qui voi siete protetti da questo, ma ci sono altre malattie», avverte lo sciamano.

Davi Kopenawa ritiene che il nuovo ministero dei Popoli indigeni e la Fondazione nazionale dei popoli indigeni (Funai), entrambi diretti per la prima volta da due donne indigene, Sonia Guajajara e Joenia Wapichana, «hanno bisogno di risorse per proteggere il popolo Yanomami, costruire posti di sorveglianza e per delimitare e riconoscere le terre indigene». Negli ultimi anni, soprattutto sotto la presidenza di Jair Bolsonaro, le risorse sono state tagliate, rendendo impossibile il lavoro.

Il popolo Yanomami conta circa 42mila persone, tra Brasile e Venezuela. Si stima che nel 2023 fossero oltre 20mila i garimpeiros nelle loro terre. Entrano illegalmente nella foresta, tagliano alberi, scavano buche enormi, usano pompe idrauliche, avvelenano i fiumi.

All’inizio dell’anno 2024, sono state diffuse immagini dove si vedevano bambini yanomami malnutriti, uguali o addirittura peggiori di quelle del 2023. Poco più di un anno dopo l’azione delle forze federali brasiliane la Terra yanomami affronta ancora la crisi dell’estrazione mineraria illegale, della fame e della salute. Finora tutto è stato vano. «Molte volte abbiamo richiesto di rimuovere gli invasori dalle nostre terre, di prevenire la deforestazione e l’inquinamento dei fiumi, ma non ci ascoltano perché non sono nostri “parenti” (indigeni come noi, ndr). Abbiamo pochi amici. I politici ascoltano solo la voce del denaro, del mercato. Papa Francesco è diverso. Lui è figlio di Dio e non può mentire. Come leader, non può promettere e non fare», dichiara Davi mostrandosi fiducioso.

Nella lotta per la protezione del Pianeta, la sintonia tra Davi Kopenawa e il Papa Francesco è grande. Ricordando che il Pontefice nel 2015, nell’enciclica Laudato si’ affermava: «La molteplice distruzione della vita umana e ambientale, le malattie e l’inquinamento di fiumi e terre, l’abbattimento e l’incendio di alberi, la massiccia perdita della biodiversità, la scomparsa delle specie, costituiscono una cruda realtà che chiama in causa tutti. La violenza, il caos e la corruzione dilagano. Il territorio è diventato uno spazio di scontri e di sterminio di popoli, culture e generazioni» (LS 23). La preoccupazione con la cura del Creato da parte di Francesco è stata anche dimostrata con la realizzazione del Sinodo per l’Amazzonia nel 2019 e nei suoi vari interventi e documenti.

Il leader Yanomani apprezza lo sforzo di Francesco, ma osserva che «molte persone sono contro la protezione dell’ambiente perché i grandi imprenditori non vogliono sentire quello che lui dice sulla foresta amazzonica, che è in grave pericolo. Loro cercano le ricchezze. Noi siamo per l’ambiente. Se non fosse per gli indigeni, la foresta non ci sarebbe più. Noi Yanomami ci prendiamo cura del polmone del pianeta. Ma questo ai politici, ai fazendeiros, ai garimpeiros non interessa. E l’esercito li sostiene. Dicono che la Terra indigena yanomami (Tiy) sia troppo grande per pochi indigeni, ma non si rendono conto che noi stiamo proteggendo l’intero pianeta».

La Tiy include un’area estesa oltre 9 milioni di ettari nel Nord del Brasile. In questa regione, i fiumi sono preziosi canali di comunicazione che uniscono le diverse comunità. Fu a monte del fiume che i missionari della Consolata italiani, Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi fondarono, nel 1965, la Missione Catrimani, a 250 chilometri da Boa Vista, capitale di Roraima. Nel corso degli anni, la coesistenza di Yanomami con i missionari ha contribuito a rafforzare un modello di missione basata sul rispetto e il dialogo, nella difesa della vita, della cultura, del territorio e della foresta. Tre missionari e quattro missionarie della Consolata sono attualmente impegnati nella Missione Catrimani. Mentre, da Boa Vista, all’età di 87 anni, fratel Carlo Zacquini, instancabile, continua a sostenere la causa di Davi Kopenawa, degli Yanomami e della foresta amazzonica.

Jaime Carlos Patias




Brasile. Loro sono foresta


La terra è cromosoma essenziale del Dna indigeno. Senza terra i popoli indigeni non sopravvivono in quanto tali. Nelle loro mani, l’ambiente – lo dicono gli studi scientifici – è più rispettato. Per questo non è esagerazione definirli «guardiani della foresta». Né affermare che essi «sono foresta».

La scena è ripresa nella terra indigena Yanomami (regione di Sururucu), in un accampamento di garimpeiros, i minatori illegali tristemente noti. Si vedono le loro tende piantate in uno spiazzo deforestato. Si sente una voce concitata: «Andiamo, andiamo, portateli qui». Non si tratta di animali della foresta, ma di alcuni giovanissimi yanomami, scalzi e in pantaloncini, entrati nell’accampamento degli invasori. I bambini vengono legati (sì, legati) al palo di una baracca venendo accusati dai garimpeiros di essere dei ladri. Il video si chiude così.

L’episodio è raccontato da Hutukara, la principale organizzazione degli Yanomami, che lo ha scoperto tramite Wãnori, un sistema di allarme via cellulare attivato per la prima volta lo scorso luglio. «Dico sempre che il futuro è già oggi –  ha commentato Davi Kopenawa, noto leader yanomami – . Penso che sia importante per noi poter sognare e pensare con altri amici che ci appoggiano, lavorano e combattono insieme. Quelli in città ascoltano, ma non capiscono di cosa hanno bisogno gli Yanomami. Quindi, è fantastico avere questo sistema di allarme per il nostro monitoraggio».

Insomma, anche in piena foresta amazzonica i cellulari sono divenuti strumenti imprescindibili, nel bene e nel male, per vittime e oppressori. A questi ultimi si devono le foto autocelebrative e spaccone postate sulle reti sociali. Alcune di esse sono state pubblicate anche da globo.com.  Si vedono i garimpeiros orgogliosamente in posa con armi da fuoco salde nelle loro mani, davanti a una tavola imbandita con pizze e fusti di birra.

Poco importa se si tratta di voglia di apparire o di una più banale umana stupidità: dimostrano che, nonostante le azioni di sgombero messe in atto dal governo Lula nei primi mesi del 2023 (con la distruzione – stando ai dati ufficiali – di 327 accampamenti, 18 aerei, 2 elicotteri, motori, barche e la riduzione dell’80 per cento dell’area dei garimpo), un numero imprecisato di garimpeiros continua a operare in terra Yanomami.

Secondo «Yamakɨ nɨ ohotaɨ xoa!» (Noi stiamo ancora soffrendo), il rapporto di Hutukara con Seduume e Urihi, uscito a luglio, dopo gli sgomberi delle autorità, si sta assistendo al ritorno di gruppi di garimpeiros sui fiumi Apiaú e Couto Magalhaes e nelle regioni di Papiu, Parafuri, Xitei e Homoxi.

L’insistenza degli Yanomami sull’invasione dei garimpeiros potrebbe apparire esagerata se non si spiegassero gli effetti sconvolgenti che essa produce sulla loro esistenza. Effetti che sono a un tempo ambientali, sanitari, sociali. «La foresta non è contro di noi… chi è contro di noi è l’uomo capitalista», ha spiegato a gennaio a New York Davi Kopenawa.

Secondo il Sistema di monitoraggio delle miniere illegali, da ottobre 2018 a dicembre 2022, l’area interessata dall’attività mineraria è cresciuta di un altro 300%, raggiungendo un totale di 5.053,82 ettari di area devastata, colpendo direttamente quasi il 60% della popolazione Yanomami.

Due giovani Yanomami con un cellulare: da luglio 2023 è stato ativato un sistema di allarme chiamato Wãnori. Foto Evilene Paixao Yanomami – Hutukara.

Conseguenze sulla salute e sulla vita quotidiana

Scrive il citato rapporto di Hutukara: «Oltre alla distruzione delle foreste, del suolo e dei fiumi, che ha un impatto diretto sull’economia delle famiglie indigene, che dipendono dalla pesca, dalla caccia e dalla terra per coltivare, l’attività mineraria influisce direttamente anche sulla salute e sul benessere delle persone e delle comunità».

La situazione sanitaria degli Yanomami vede la grande diffusione di infezioni respiratorie (polmoniti, in primo luogo), parassitosi intestinali, tungiasi (parassitosi epidermica) e – a causa della diffusione della contaminazione da mercurio (utilizzato dai garimpeiros) – ripercussioni pesanti sulla salute riproduttiva delle donne e sullo sviluppo psicofisico dei bambini.

E poi c’è l’esplosione dei casi di malaria, soprattutto nelle zone più vicine ai garimpos.

«Questa malattia, a sua volta, come le infezioni respiratorie, compromette non solo la salute individuale del paziente, ma anche l’economia delle comunità che dipendono dal lavoro familiare per produrre la propria sussistenza. Un uomo che non riesce a curare un campo durante la stagione secca perché indebolito dalla malaria, in futuro avrà maggiori difficoltà a sostenere se stesso e i suoi coresidenti, creando così un circolo vizioso di malaria, crisi economica e fragile socializzazione». Non è – pertanto – un caso se nelle zone a maggior incidenza malarica risultano più alti anche i livelli di denutrizione infantile.

Membri di una comunità indigena osservano gli aiuti alimentari governativi recapitati dall’aviazione militare brasiliana. Foto FUNAI.

Le foto di piccoli yanomami pelle e ossa hanno fatto il giro del mondo. L’esercito brasiliano è intervenuto lanciando da aerei ed elicotteri tonnellate di cibo. Com’è stato possibile arrivare a una simile emergenza?

Secondo varie indagini, il problema della denutrizione è direttamente collegato all’avanzata dei garimpos. Gli Yanomami si sono sempre mantenuti con la raccolta di cibo dalla foresta, con la pesca e la caccia e – in maniera assai minore – coltivando piccoli appezzamenti di terra. Oggi le loro modalità di sussistenza sono state sconvolte dall’invasione dei minatori illegali. L’attività mineraria provoca la deforestazione e distrugge i corsi d’acqua inquinandoli con il mercurio. La selvaggina diventa più scarsa perché gli animali fuggono. Gli indigeni hanno bisogno di trascorrere molto più tempo nella foresta a cacciare e la quantità di cibo portata a casa non arriva più ai livelli di prima.

«La situazione di insicurezza alimentare – spiegano nel loro rapporto le organizzazioni degli Yanomami – non è diffusa nel territorio yanomami, ma è aumentata enormemente negli ultimi anni a causa di una combinazione di fattori, che vanno dalla distruzione delle risorse naturali attraverso lo sfruttamento illegale dei minerali alla disorganizzazione della produzione derivante dalla crisi sanitaria e agli impatti sociali dell’attività mineraria. Nel 2021 e nel 2022, a ciò si sono aggiunti gli effetti del prolungamento della stagione delle piogge, dovuto al fenomeno climatico La Niña, che ha impedito a molte comunità di curare i propri appezzamenti agricoli».

Se questo non bastasse, è possibile trovare notizie che complicano ancora di più il quadro complessivo. Come racconta Repórter Brasil parlando della diffusione dei narcogarimpos. Secondo i dati raccolti dal sito investigativo brasiliano, in sei anni (dal 2017 al 2022) c’è stato un raddoppio delle esportazioni di oro (da 11 a 32 tonnellate) e – dato ancora più inquietante – una triplicazione dei sequestri di cocaina (da 10 a 32 tonnellate).

Indigeni sfilano a Brasilia nella manifestazione che attende la decisione del Stf sul marco temporal (30 agosto). Foto Tiago Miotto – CIMI.

Semplificazioni veritiere

Secondo i dati Inpe (Instituto nacional de pesquisas espaciais), a luglio 2023 la deforestazione dell’Amazzonia brasiliana è scesa del 66% rispetto allo stesso mese del 2022. Merito, ha sottolineato la ministra dell’Ambiente Marina Silva, delle nuove politiche del governo Lula. Tuttavia, il dato non può indurre a uno sciocco ottimismo.  Riduzione non significa salvaguardia.

Secondo una ricerca della Agenzia spaziale europea (Esa, marzo 2023), tra il 2017 e il 2021 la perdita forestale è stata di 5,2 milioni di ettari, una superficie più o meno equivalente alle dimensioni del Costa Rica.

Identicamente a «polmone del mondo» per l’Amazzonia, anche «guardiani della foresta» per i popoli indigeni può apparire come una di quelle affermazioni semplificatorie utilizzate per descrivere situazioni complesse. Tuttavia, almeno in questo caso, non si è lontani dalla verità.

Esiste una relazione tra presenza indigena e preservazione ambientale? L’osservazione ma anche la scienza rispondono che la relazione esiste ed è positiva. Uno degli ultimi studi in proposito – pubblicato da Nature sustainability (3 gennaio 2023) – certifica che, nelle aree indigene, la perdita di foreste è molto più contenuta, a patto che esse vengano rispettate. «Le popolazioni indigene – conclude lo studio – potrebbero impedire il superamento del punto di svolta (tipping point) per la trasformazione degli ecosistemi della foresta amazzonica in ecosistemi di savana».

Una maloca, la casa comune degli Yanomami, nell’Alto Catrimani, nella Terra indigena Yanomami (Tiy). Secondo il governo Lula, l’80 per cento dei garimpeiros sono stati cacciati nelle operazioni iniziate a gennaio 2023. Foto Bruno Kelly – ISA.

Intanto, i Guarani

Anche per merito del carisma e della notorietà internazionale di Davi Kopenawa, negli ultimi due anni si è parlato soprattutto dell’emergenza riguardante gli Yanomami.

In realtà, la situazione è molto difficile per tutti i popoli indigeni e la soluzione pare lontana, nonostante la buona volontà del governo Lula, visto che il parlamento brasiliano è dominato da una maggioranza di politici bolsonaristi (per i quali i popoli indigeni sono semplicemente una palla al piede per lo sviluppo del Brasile).

«La sconfitta di Bolsonaro – scrivono Lucia Helena Rangel e Roberto Antonio Liebgott nell’ultimo rapporto del Cimi – alle elezioni presidenziali è stata fondamentale per rompere con il progetto di morte e distruzione in corso. Tuttavia, non basta affrontare le sfide della causa indigena. La negazione dei diritti, il pregiudizio e il razzismo costituiscono lo scenario di un brutale aggravamento della violenza, che viene alimentata o incoraggiata negli uffici e nei corridoi degli organi statali».

Si consideri che il più consistente gruppo indigeno del paese, quello dei Kaiowá Guarani (che occupa gli stati del Sud, ai confini con Paraguay e Argentina), vive in condizioni estreme. Da anni essi sono costretti ai margini delle loro terre tradizionali dalle quali sono stati espulsi con la forza dai fazendeiros e dalle multinazionali agroalimentari che le hanno occupate per farne piantagioni di soia o di canna da zucchero e pascoli per il bestiame.

Un garimpo sul rio Couto Magalhães, Kayanau, Terra indigena Yanomami (in alto, a sinistra, una pista aerea clandestina). Foto Bruno Kelly – ISA.

L’arma dell’intolleranza religiosa

Proprio negli stessi giorni del giudizio del Supremo tribunale federale (Stf), il Consiglio indigenista missionario (Cimi) pubblicava, sul proprio sito, un durissimo atto d’accusa per l’en-

nesima violenza contro esponenti Kaiowá Guarani del Mato Grosso do Sul, stato in cui l’intolleranza e la violenza verso gli indigeni sono consolidate.

Il fatto risale al 18 settembre scorso quando Sebastiana Galton (di 92 anni) e il suo compagno Rufino Velasquez sono morti in un incendio doloso che ha bruciato la loro casa e i loro corpi. Sebastiana era una nota leader religiosa tradizionale che lottava a fianco della propria popolazione. Questa – spiega il Cimi – vive una tragica situazione di disgregazione sociale «la cui causa continua a essere il risultato dello sfollamento forzato, del processo di confinamento e della mancanza di accesso effettivo di questa popolazione ai propri territori tradizionali». Alla lotta per la terra in questo caso si aggiunge – continua la nota – «una complessa situazione di intolleranza religiosa che ha deriso, diffamato e ucciso – spiritualmente e fisicamente – i Ñanderu e i Ñandesy (rappresentanti religiosi tradizionali, ndr) in tutto il territorio Kaiowá Guarani».

Corrutela de garimpo no rio Uraricoera, Terra IndÌgena Yanomami

«In tutte le società umane il fenomeno religioso consiste nella mobilitazione delle forze spirituali, siano esse considerate buone o meno (benedizione e maledizione), secondo i bisogni, i desideri e le speranze di un popolo, come strategia per vincere sfide, pericoli e crisi. […] Così, nel caso delle pratiche religiose tradizionali dei Kaiowá Guarani, si può osservare un atto di resistenza di fronte ai molteplici processi di sterminio perpetrati contro le loro comunità».

Senza usare mezzi termini, il Consiglio indigenista missionario accusa le Chiese neopentecostali e i loro metodi.

«Da decenni il Cimi denuncia la presenza e gli effetti distruttivi che queste sette fondamentaliste rappresentano e promuovono tra i Kaiowá Guarani, soppiantando un intero sistema di credenze, screditando leader religiosamente costituiti e, favorendo, penalmente, la distruzione di ambienti e oggetti considerati sacri da questi popoli».

È cosa nota che, da sempre, le potenti Chiese neoevangeliche brasiliane hanno un approccio alla questione indigena completamente diverso da quello della Chiesa cattolica. Per loro i popoli indigeni debbono adeguarsi alla «visione bianca» dell’esistenza.

Riparare il male

Dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e, fino a poche settimane fa, presidente del Cimi, conclude la sua introduzione all’ultimo rapporto Violência contra os povos indígenas do Brasil con parole che sanno di preghiera e speranza: «Possano i nuovi governanti cercare di riparare il male, garantendo ai popoli indigeni il loro diritto fondamentale alla terra e ai loro modi di essere e vivere nelle differenze».

Paolo Moiola

Nel fotogramma pubblicato sui social un gruppo di garimpeiros mostra orgogliosamente armi pesanti e una tavola imbandita con pizze e birra.


Il Congresso contro il Supremo tribunale federale

«Marco temporal»: bocciato ma promosso

La vittoria giuridica presso il massimo organo giudiziario del Brasile non pare dare certezze ai popoli indigeni. In parlamento e nel paese, l’offensiva anti-indigena della «bancada ruralista» non si ferma. Che farà il presidente Lula?

Il 21 di settembre il Supremo tribunale federale (Stf) vota contro il marco temporal (in sostanza, è incostituzionale considerare terre indigene soltanto quelle occupate al 5 ottobre 1988, data di entrata in vigore della nuova Costituzione). L’entusiasmo per la decisione – sicuramente prematuro, spesso esagerato – dura però lo spazio di qualche giorno. Forse meno. Non è un «indietro tutta», ma quasi. Dopo l’approvazione alla Camera (30 maggio), la proposta sul marco temporal passa – infatti – anche al Senato (27 settembre). A questo punto, la domanda diventa: chi vince in caso di contrasto tra Stf e Congresso?

Carlo Zacquini, missionario della Consolata e grande esperto di Yanomami e popoli indigeni, è caustico: «Le leggi sono una cosa, i legislatori un’altra. Può anche darsi che sia impossibile approvare una legge, ma i politici non smetteranno mai di tentare nuovi o vecchi metodi per fare quello che “è conveniente per loro”. Sono ormai più di cinque secoli che si ammazzano indigeni, non sarà per una decisione del Stf che smetteranno di farlo o di tentare nuove forme per farlo. In fin dei conti la maggioranza dei brasiliani non è Indigena. Nella minestra ci puoi mettere molti prodotti, ma c’è ne sta sempre ancora uno. Se una legge stenta a trovare consenso o trova qualche ostacolo per essere approvata, si fa un’altra proposta, assieme ad altri richiami per le allodole. Tante volte quante necessario perché, alla fine passi, magari per la disattenzione di qualcuno. Se si vuole che i popoli indigeni abbiano una chance di sopravvivere, in Brasile non ci si può permettere alcuna distrazione. La spinta dell’industria agricola e mineraria è fortissima».

Il clima di contrapposizione tra poteri dello stato è palese. Per esempio, un deputato bolsonarista ha presentato una proposta di emendamento alla Costituzione (Pec 50/2023) che conferirebbe al Congresso il potere di sospendere le decisioni del Supremo tribunale federale che «superano i limiti costituzionali».

In base alle proprie prerogative, il presidente Lula potrebbe (e dovrebbe) mettere il veto sulla legge del marco temporal emanata dal Congresso. Tuttavia, come appare evidente, il clima per i diritti dei popoli indigeni rimane pessimo*.

Paolo Moiola

* Per gli aggiornamenti sul tema, seguiteci sul sito: www.rivistamissioniconsolata.it.

Brasilia, una seduta del Supremo tribunale federale (Stf) per decidere sul «marco temporal». Foto: Antônio Cruz – Agência Brasil.

 

 




Perù. Popoli indigeni ancora isolati. Per fortuna.


In Perù, una parte del Congresso voleva depotenziare una legge che protegge i popoli indigeni isolati. Pericolo scampato. Per il momento.

Secondo i dati del ministero della Cultura del Perù, nel paese andino ci sono 55 popoli indigeni, di cui 51 vivono in Amazzonia e 4 sulle Ande. Si parla di circa 4 milioni di persone, pari al 26% della popolazione totale. Di queste all’incirca settemila vivono in isolamento, cioè volutamente separate dal resto della società. Ad esse ci si riferisce con il termine di «Pueblos indígenas en situación de aislamiento y contacto inicial» (Piaci, in sigla).

Lo scorso 23 giugno, una commissione (Comisión de descentralización) del Congresso peruviano ha «fermato» (momentaneamente) il progetto n. 3518 presentato da Jorge Morante Figari, esponente di Fuerza popular, il partito fujimorista. Il progetto legislativo mira a modificare radicalmente la norma 28736, nota come «Ley Piaci», che dal 2006 difende (almeno in linea teorica) l’esistenza e l’integrità dei popoli indigeni isolati.

Qualora la proposta venisse approvata, la competenza in materia di Piaci passerebbe dal ministero della Cultura ai governi regionali i quali potrebbero riconoscere o meno l’esistenza stessa dei popoli isolati, cancellare riserve indigene già riconosciute e sospenderne la creazione di altre.

Contro le riserve indigene e, in generale, contro i diritti dei popoli indigeni sono in campo forze poderose, di solito guidate da imprenditori bianchi. Una delle più note è la «Coordinadora por el desarrollo sostenible de Loreto» (Cdl). Loreto è la regione amazzonica del Perù che ospita il maggior numero di popoli indigeni: ben 32. Secondo Christian Pinasco Montenegro, presidente della Cdl, nella regione non esistono popoli indigeni isolati e, pertanto, le riserve non hanno ragione di esistere. Per Belvi Gelith Saldaña Calderon, vicegovernatrice di Loreto, la legge Piaci va modificata perché è un ostacolo allo sviluppo della regione. Sul lato opposto, a difesa dei popoli isolati e della legge del 2006 c’è l’organizzazione che raggruppa i popoli indigeni dell’Amazzonia peruviana («Asociación interétnica de desarrollo de la selva peruana», Aidesep). Infine, tra i più rispettati difensori dei diritti dei popoli indigeni s’incontra anche mons. Miguel Ángel Cadenas, vescovo di Iquitos, con una lunga esperienza missionaria tra i Kukama (il maggiore gruppo indigeno di Loreto).

Per il momento l’offensiva anti indigena è stata bloccata. Ma c’è da scommettere che i fautori di essa torneranno alla carica, magari sotto altre insegne o in altre forme. In Perù come altrove, le terre indigene fanno gola.

Paolo Moiola

Indigeni peruviani isolati (foto Ministerio de Cultura – Aidesep)




Colombia. Mai fare tabula rasa


Un missionario racconta come è cambiata la propria percezione delle popolazioni autoctone. Un nuovo atteggiamento che ha dato buoni frutti. Per esempio, con il popolo dei Nasa, in Colombia, nella regione del Cauca, dove l’Imc è presente da quasi quarant’anni.

Quando, nel novembre del 1986, arrivai nel seminario internazionale dei Missionari della Consolata a Bogotá, in Colombia, il formatore era padre Antonio Bonanomi. Prima di conoscere questo paese multietnico, con una grande biodiversità ecologica, visitandone i luoghi, attraversandone le strade, padre Bonanomi fece a me e ai miei cinque compagni un’introduzione sulla complessa realtà latinoamericana e colombiana a livello sociale, politico, religioso, storico e culturale. Padre Bonanomi fu la mia guida nei primi quattro anni colombiani durante gli studi di teologia, terminati con l’ordinazione diaconale (poi, nel dicembre 1990, rientrai in Italia per un periodo di animazione missionaria).

Quei giorni sono rimasti nel mio cuore perché mi aprirono gli occhi su un nuovo mondo. C’è una frase, in particolare, che mi è rimasta nel cuore e nella testa come un tarlo: «Il futuro d’America è nei popoli originari».

Per anni ho cercato di capire cosa volesse dire. Oggi quell’affermazione ha trovato delle risposte nelle esperienze con i popoli indigeni e nel lavoro realizzato dai nostri missionari in tutti paesi dove siamo presenti. Non posso non ricordare la bella e difficile esperienza Imc in Brasile, a Catrimani o tra gli indigeni delle pianure amazzoniche di Roraima per il recupero della loro terra.

Penso anche a Licto Riobamba, nelle Ande dell’Ecuador, dove le comunità indigene sono impegnate nelle attività e i missionari le accompagnano nella formazione e nelle celebrazioni. Qui, padre Giuseppe Ramponi ha lavorato per molti anni imparando la lingua e apportando alle comunità molti elementi di formazione umana e recupero della loro cultura.

In Colombia, con i popoli dell’Amazzonia, condividiamo un dialogo interreligioso molto profondo: la nostra esperienza di fede cristiana e cattolica si è incontrata con la loro spiritualità che ha molti punti d’incontro con la fede in Cristo. E abbiamo anche conosciuto il loro amore e rispetto per la Madre Terra che noi bianchi finora abbiamo concepito soltanto come un luogo di sfruttamento senza limiti.

Nel 1991 la nuova Costituzione colombiana ha rivalutato i popoli indigeni. Prima di essa, essere indigeno era sinonimo di inferiorità. Per questo motivo molti hanno abbandonato la propria identità e si sono uniformati alla cultura occidentale.

Toribío e il progetto Nasa

Lo scorso settembre sono stato alcuni giorni a Toribío, nella regione andina del Cauca, per un incontro con i rappresentanti dei Nasa. È stata l’occasione per toccare con mano come un popolo originario che recupera la propria identità e ne è fiero, può contribuire a dare uno stile alternativo al nostro modo di vivere.

In quei giorni ho compreso il grande accompagnamento realizzato da oltre cinquanta missionari che, in 38 anni di presenza dell’Istituto della Consolata, hanno vissuto con il popolo nasa. È stata realizzata un’evangelizzazione che non partiva dal principio della «tabula rasa» per imporre la «nostra religione», ma dall’identità di questo popolo, nel recupero della sua storia, della sua cultura, spiritualità, organizzazione politica, venendo a creare così un interscambio molto interessante tra i Nasa e gli altri soggetti (lo Stato, la Chiesa, il mondo).

A Toribío noi Missionari della Consolata siamo arrivati dopo la morte violenta (nel 1984) di padre Alvaro Ulcué Chocué, primo sacerdote indigeno di questa etnia, ordinato nella Chiesa dell’arcidiocesi di Popayan. Per venti anni i padri Antonio Bonanomi ed Ezio Roattino, assieme a un’équipe missionaria e all’associazione Nasa hanno animato il territorio.

Come missionari e missionarie che vivono attualmente con le comunità indigene, il motivo dell’incontro dello scorso settembre è stato quello di una verifica critica e propositiva, per poi riprendere alcuni elementi che potrebbero essere utili per l’accompagnamento del cammino dei popoli originari non solo in Colombia, ma anche in Perù ed Ecuador.

Ci siamo trovati con un nutrito gruppo di indigeni «mayores» (capi, anziani del popolo nasa) catechisti e coordinatori di diverse aree del progetto Nasa. La grande maggioranza delle persone presenti sono state formate dall’équipe missionaria e hanno condiviso il significato della presenza dei Missionari della Consolata nel territorio, che è stata una grande ricchezza per tutti.

Abbiamo realizzato il primo giorno dell’incontro nella scuola agroecologica del Cecidic, un Centro di studio e formazione in difesa della cultura del territorio, fondato da padre Antonio Bonanomi.

Il secondo giorno è stato scandito da tre momenti: il refresco, la limpieza e il trueque. Ai piedi di una meravigliosa cascata, i vari capi anziani delle comunità Nasa hanno voluto pregare per noi. «Voi – hanno spiegato – avete pregato molte volte per noi, adesso noi vogliamo pregare per voi», e ci hanno coinvolti in un rito di purificazione con canti, benedizioni e offerte di frutta alla madre terra.

Dopo la «limpieza», abbiamo avuto la gioia di partecipare a un evento annuale noto come «trueque», lo scambio di sementi e di prodotti agricoli che ha coinciso con i 42 anni del progetto Nasa e i 38 della nostra presenza come Consolata nel territorio nasa.

L’attività si è svolta proprio nel luogo dove è nato questo progetto promosso e animato da padre Alvaro Ulcué per recuperare l’identità del suo popolo che rischiava di perdere le proprie origini. Hanno partecipato circa tremila indigeni. È stata una festa, con cibo per tutti, come espressione di un popolo che è cresciuto in comunione, in organizzazione e partecipazione.

L’incontro di settembre è servito per scoprire che la vita «offerta» in équipe trasforma l’ambiente, le persone con la presenza del Signore che motiva, dà forza, sostiene e si fa consolazione.

In quei giorni, i Nasa ci hanno fatto sentire parte di loro e ci hanno chiesto di continuare ad accompagnarli.

Ci hanno hanno anche proposto di collaborare nella missione verso altri popoli indigeni dove siamo presenti perché tutti possano sperimentare il processo realizzato nel Cauca. Oggi, qui operano due missionari Imc: padre John Wafula Wamalwa del Kenya e Francis Gerard Shau del Tanzania.

Ci siamo lasciati con l’impegno di continuare il dialogo e di realizzare, in futuro, un nuovo incontro con il popolo nasa e altri popoli indigeni che vogliono continuare ad approfondire e conservare la propria identità.

Dopo i giorni dell’incontro, siamo tornati ai nostri rispettivi luoghi di fede, comunione e vita. Siamo rientrati «a casa», con la soddisfazione di essere stati testimoni dei frutti di un’evangelizzazione che parte da un’équipe di vita, dove si sperimenta la spiritualità, la fraternità e si lavora in comunione.

Angelo Casadei


L’esperienza Imc nel Cauca sulla strada di padre Alvaro

Al centro di tutto c’è il popolo dei Nasa, un insieme di famiglie indigene in lotta fra di loro ma che, per difendersi dai nuovi invasori, si unisce per non perdere le proprie terre e tradizioni.

Fondamentale diventa la figura del padre Alvaro Ulcué Chocué, sacerdote diocesano di origine nasa che presta il servizio pastorale in mezzo alla sua gente e, al tempo stesso, elabora con la comunità il progetto Nasa per il recupero dell’identità indigena. Questa nuova consapevolezza porta la gente a lottare per la propria cultura, spiritualità e recupero del territorio.

I potenti della zona non ci stanno: sono loro i mandanti dell’assassinio di padre Alvaro, che viene ucciso da sicari il 10 novembre del 1984. Il Progetto però non muore. Anzi, prende più forza perché la popolazione ha ormai preso coscienza.

Il padre Ezio Roattino (oggi residente ad Alpignano, Torino, ndr), a quel tempo a Bogotà come provinciale dei Missionari della Consolata ed amico del padre Alvaro, appena appresa la notizia della sua morte si precipita a Toribío e accompagna il popolo Nasa in lutto.

Quando rientra A Bogotà, fa la proposta ai Missionari della Consolata di continuare il progetto di padre Alvaro. Padre Armando Olaya risponde «A la orden» (sono disponibile) e, con alle spalle un solo anno di sacerdozio, parte per il Cauca. Senza sapere più di tanto della realtà di quel popolo, si mette in cammino con loro. Anche padre Ezio Roattino, terminato il suo mandato come superiore, partirà per questa terra ed è l’unico missionario che imparerà la lingua «Nasa Yuwe».

Dopo tre anni di permanenza a Toribío padre Armando viene richiamato a Bogotá come formatore del Seminario filosofico Imc, ma è subito pronto a sostituirlo padre Antonio Bonanomi che realizza così il sogno della sua vita: vivere la missione con un popolo autoctono. Rimarrà a Toribío per 16 anni.

In questo tempo, grazie all’équipe missionaria formata da missionari, sacerdoti, laici locali delle varie parrocchie affidate ai Missionari della Consolata e presa a cuore da padre Antonio Bonanomi, le comunità autoctone del Cauca crescono moltissimo mediante una formazione che è, a un tempo, spirituale, sociale, politica e culturale. Sempre senza forzare ma scoprendo i valori del Vangelo dentro la cultura locale, attraverso la conoscenza della Parola di Dio, con l’eucaristia e partecipando ai riti di purificazione («limpieza») proprie della cultura nasa.

In questo impegno missionario s’inserisce anche la presenza silenziosa di padre Rinaldo Cogliati che, oltre ad accompagnare le comunità, è di grande aiuto come amministratore dei progetti di padre Antonio, che lo riconosce come suo braccio destro.

In seguito, molti altri missionari arrivano nel Cauca: colombiani, latinoamericani, nord americani e africani. L’impegno è apprezzato dalle comunità indigene, che lo vedono come un’apertura verso di loro e un’opportunità di raccontare se stessi.

An.Ca.

 


La Colombia e il riscatto indigeno, dalla fuga al ritorno alle origini

Per trovare i popoli ancestrali della Colombia occorre salire sulle alte catene montuose o giù verso il bacino amazzonico. Questa posizione è in parte spiegabile con il fatto che gli invasori spagnoli si appropriarono delle terre migliori, quelle delle valli e delle colline pedemontane.

Per i popoli invasi, una delle forme di resistenza è stata quella di occupare i luoghi geografici di difficile accesso: le montagne e la foresta.

L’indipendenza dall’oppressione della Spagna, a cui parteciparono i popoli nativi, i popoli afro e i meticci, non portò loro grandi guadagni. In verità, non c’è stata una vera indipendenza. Piuttosto, essa ha lasciato il posto a nuove modalità di oppressione, esilio, esclusione ed emarginazione.

La storia però non si ferma. La mente si illumina ed esce dal letargo. Ed è così che, da qualche anno, si è generata un’altra dinamica: il ritorno alle origini, alle sorgenti d’acqua ancora fresche, ma nascoste.

Non è un ritorno anacronistico. Tiene conto di tutte le implicazioni sociali, politiche, economiche e culturali del mondo di oggi. Il ritorno alle fonti è una discesa verso i tesori più preziosi che gli invasori non potevano portare via o distruggere:  «Hanno raccolto i nostri frutti, tagliato i nostri rami, bruciato i nostri tronchi, ma non hanno potuto uccidere le nostre radici» (Popol Vuh, libro sacro dei Maya).

È necessario scendere in profondità per ascoltare gli spiriti degli antenati, ascoltare la Madre Terra, il canto degli uccelli, il mormorio del vento, la voce dei più grandi viventi, le voci degli alleati delle cause liberatrici.

Così come l’uscita è stata un volo doloroso, il rientro di questi ultimi anni è piena di speranza: scendere per liberare la spiritualità, la terra usurpata, i luoghi sacri, le voci degli anziani, dei giovani e dei bambini, e unirsi alle voci e al canto di tutti i popoli: neri, contadini, tutti gli esclusi.

È una discesa per una liberazione totale, tra musica, canti, danze, mingas…, con il fertilizzante del sangue dei martiri. In questo andare su e giù c’è la conquista della fraternità, lo stare insieme.

La montagna non sarà più un luogo nel quale fuggire; le valli non saranno più i territori dei grandi proprietari terrieri. La terra liberata sarà il luogo dell’incontro fraterno, del baratto dove brulica la vita, dove il bambino potrà scambiare il suo bel cavolo per un delizioso gelato e la nonna potrà scambiare la sua jigra (tipica borsa indigena portata al collo, ndr) per qualche chilo di riso…

È il Sumak Kawsay, è il buon vivere, il sogno possibile della terra senza mali. È un’utopia. È il sogno di un Dio, manifestatosi in Gesù Cristo.

È il sogno che i Missionari della Consolata hanno accompagnato e continueranno ad accompagnare scalando le montagne e entrando nella bellissima e oltraggiata Amazzonia. Essi hanno raccolto alleati e continuano a essere alleati del Regno del Padre buono, Padre di tutti, del Regno in cammino insieme ai discepoli di Gesù.

Questo è qualcosa che abbiamo visto e sentito nel nostro incontro con alcuni dei sognatori combattenti del popolo nasa-páez a Toribío. Queso è ciò che ci incoraggia a continuare a condividere con loro le lotte per la costruzione di un’umanità autentica.

Armando Olaya
(formatore nel Centro alternativo per la formazione di missionari – Caf a Medellín)


La Colombia su Mc

Joaquín H. Pinzón Gũiza con Angelo Casadei, Dieci anni di sogni e sognatori, gennaio-febbraio 2023.

 




Idrogeno in Amazzonia


Una centrale elettrica a idrogeno nel cuore della foresta pluviale guianese. In nome della transizione energetica si rischia di devastare l’ambiente e uccidere l’identità originaria dei popoli indigeni.

Transizione energetica, crisi climatica, green new deal e nuovi patti per il clima. Ne abbiamo sentite tante di possibili «soluzioni» e «politiche rivoluzionarie» da parte di governi e imprese per affrontare i problemi ambientali.

Una di queste è l’idrogeno, considerato una fonte energetica pulita e abbondante. Soprattutto se si tratta di idrogeno «verde», prodotto a partire da fonti rinnovabili. Ma è proprio così?

L’opposizione indigena

Nel momento in cui scriviamo, dall’altra parte dell’Oceano, presso il villaggio Prospérité, nella zona nord ovest della Guyana francese, quasi al confine con il Suriname, si stanno preparando azioni di protesta per fermare la distruzione di una vasta area di foresta pluviale destinata alla più grande centrale solare a idrogeno del mondo, la Centrale électrique de l’Ouest Guyanais (Ceog).

La popolazione indigena locale e molte organizzazioni della società civile hanno espresso a più riprese la loro opposizione al progetto, o almeno la loro perplessità sulla sua sostenibilità, ma le autorità lo hanno approvato ugualmente, e persino adoperato metodi repressivi per eseguire la deforestazione.

Un pezzo di Unione europea

La Guyana francese è un dipartimento d’oltremare della Francia, situato sulla costa settentrionale del Sud America.

Confinante con il Suriname a ovest e con il Brasile a est e a sud, la Guyana francese ha una popolazione di circa 300mila abitanti, la metà della quale vive nella capitale Caienna.

È la seconda regione più grande della Francia e la più grande regione ultraperiferica dell’Unione europea. Il 98,9% del suo territorio è coperto da foreste.

Il parco amazzonico presente sul suo territorio, che rappresenta il più grande parco nazionale dell’Unione europea, copre il 41% della superficie del Paese.

La centrale solare a idrogeno

Il progetto prevede la costruzione di una centrale solare collegata a un elettrolizzatore alcalino ad alta pressione da 16 Mw (megawatt) che divide l’acqua per produrre idrogeno. L’accumulo di energia avverrebbe durante il giorno e il suo sfruttamento durante la notte.

La capacità di stoccaggio, sotto forma di serbatoi di idrogeno, sarà di 128 Mwh (megawattora), che sarà convertita in elettricità da una cella a combustibile.

Secondo il progetto, la centrale potrà consegnare alla rete 10 Mw di giorno e 3 Mw di notte. Dovrebbe entrare in funzione nel 2024, e durerà 25 anni.

Il progetto fu presentato nel 2020 nei pressi del villaggio Prospérité da Meridiam, fondo d’investimenti vicino a Macron, Sara e Hydrogène de France.

La Ceog promette di ridurre le emissioni di CO2 e di porre fine alle frequenti interruzioni di elettricità nella zona con una fornitura stabile per 70mila persone, soprattutto alla vicina città di Saint Laurent du Maroni.

Perché le proteste?

Sembrerebbe un progetto buono e poco contaminante, ma i leader indigeni locali, conosciuti come yapoto, appartenenti alla popolazione dei Kali’na, l’hanno rifiutato fin dall’inizio.

La comunità di Prospérité che abita la terra interessata ha lottato per più di 30 anni per ottenere la tutela consuetudinaria del proprio territorio e la delimitazione di una Zona protetta a uso collettivo (Zduc, Zone de droit d’usage collectifs). Essa denuncia che la Ceog ha impiegato meno di un anno per ottenere i permessi necessari a disboscare 76 ettari di foresta per impiantare i pannelli solari.

Gli abitanti del villaggio temono che la costruzione del parco solare impedirà loro l’accesso a un vicino torrente, loro fonte d’acqua, e ai loro tradizionali territori di caccia e coltivazione.

Se questo dovesse accadere, il loro rapporto con la terra e la trasmissione delle pratiche tradizionali alle generazioni future verrebbero compromessi.

In sintesi, i Kali’na considerano il progetto come un attacco alla loro identità di popolo originario e al loro modo di vivere.

Distruggere la foresta significa per loro affermare l’oppressione della cultura occidentale sulle culture indigene.

Ascoltare la Terra

Nel dicembre scorso, «Reporterre», sito d’informazione indipendente sui temi ecologici con sede a Parigi, ha intervistato Roland Sjabere, lo yapoto di Prospérité, e il portavoce della Jeunesses autochtones de Guyane (Gioventù indigena della Guyana), Christophe Yanuwana Pierre, in occasione di una loro visita di denuncia in Francia.

Sjabere ha affermato di non volersi opporre allo «sviluppo» in quanto tale, ma di criticare piuttosto uno sviluppo frettoloso e orientato al profitto, «l’écolonialisme», l’ecocolonialismo, basato su infrastrutture giganti che non tengono conto della presenza dell’altro nei territori destinati alla loro costruzione.

Il popolo kali’na chiede che la centrale venga trasferita lontano dai loro insediamenti, o quantomeno che le autorità chiedano il consenso alla comunità indigena; ma l’azienda sostiene che i fondi sono già stati impegnati e che andrebbero persi se si dovesse sviluppare un nuovo progetto.

In sostanza, le decisioni sono già state prese senza le consultazioni che le convenzioni internazionali prevedono per i territori indigeni (ad esempio la 169 dell’Organizzazione mondiale del lavoro).

Nelle parole dei due leader intervistati da «Reporterre», il popolo kali’na ha «stretto un’alleanza con la foresta. Se essa è minacciata, noi dobbiamo aiutarla. Questa è la nostra missione in cambio della felicità che la foresta ci offre.

È una necessità per l’equilibrio della nostra comunità e della nostra civiltà. Non possiamo vivere senza la foresta. Le apparteniamo. Attaccandola, le autorità ci danneggiano. […] Sentiamo come una minaccia che aleggia perché i nostri territori spirituali sono colpiti.

Certo, abbiamo anche molti argomenti legali e razionali per lottare contro questi progetti aberranti, ma la nostra lotta è alimentata da molte altre cose, radicate nella nostra cultura. La Terra ci parla e noi dobbiamo imparare ad ascoltarla».

Associazioni in campo

La posizione delle popolazioni indigene viene sostenuta anche da gruppi di ambientalisti. Questi ultimi denunciano in particolare l’impatto sugli habitat di specie rare e in via di estinzione, come l’opossum d’acqua.

Nel febbraio 2022, le associazioni Maiouri nature guyane, Village Prospérité Atopo WePe, Kulalasi e l’Association pour la protection des animaux sauvages hanno intentato una causa contro le autorità della Guyana francese chiedendo la revoca della licenza ambientale per il progetto della Ceog, a causa della scarsa valutazione di impatti sulle specie minacciate.

Tuttavia, a luglio, il tribunale amministrativo del Paese ha confermato l’autorizzazione.

Una seconda causa, tuttora in esame, è stata intentata dagli abitanti del villaggio insieme all’Association nationale pour la biodiversité nel novembre 2022.

Dal canto loro, i promotori del progetto affermano che esso non minaccia la biodiversità o le pratiche tradizionali della popolazione locale e aggiungono che gli abitanti del villaggio sono stati debitamente consultati fin dall’inizio, e che è stato loro offerto il passaggio gratuito alle loro terre abituali e un progetto di sviluppo comunitario.

Tuttavia, esiste una forte asimmetria di potere tra i soggetti in causa che si esprime, ad esempio, nel fatto che tali consulte e i materiali informativi sono stati fatti in lingua francese, ignorando che essa non è la lingua madre degli abitanti locali.

Il riconoscimento della specificità dei gruppi umani e delle loro culture è un principio chiave della giustizia ambientale. La sua mancanza è una strategia molto diffusa nello sviluppo di infrastrutture e progetti estrattivi.

Nel caso della Ceog, l’impossibilità da parte delle comunità locali di comprendere i documenti disponibili ha portato alla firma di accordi indesiderati.

Ancora colonialismo

Oltre ai documenti non tradotti, le forti e ripetute pressioni sullo yapoto affinché accetti il progetto in cambio di una compensazione economica, sono metodi collaudati che fanno parte della lunga storia coloniale, non ancora finita, della Guyana francese: un territorio che subisce da secoli la spoliazione delle sue terre, lo sterminio dei suoi abitanti originari, la deportazione di schiavi, le piantagioni intensive, l’uso del suo territorio come colonia penitenziaria, le miniere, gli impianti industriali nel cuore della foresta.

Sui libri di storia si studia il colonialismo come una forma di dominazione oramai passata. Per gli abitanti della Guyana francese il colonialismo non è mai finito, lo vivono in un continuum storico nel quale cambia le sue vesti e il suo linguaggio, ma applica drammaticamente gli stessi meccanismi.

AmaZone a Défendre

La costruzione della centrale è iniziata nel settembre 2021. A gennaio 2023, sedici ettari erano già stati disboscati, con il taglio di numerosi alberi di valore spirituale per il popolo kali’na.

Nell’ultimo anno, a fronte della sordità delle autorità, la mobilitazione si è radicalizzata e ha adottato la nozione della zone autochtone à défendre (Zad), «zona indigena da difendere», coniata in Francia da comunità di agricoltori e attivisti in opposizione all’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes nel 2010.

Il concetto di zone autochtone à défendre è stato, dunque, adattato al contesto guianese e modificato in AmaZone a Défendre.

Nell’intervista ai due leader, il sito «Reporterre» riporta: «Usiamo un linguaggio comprensibile in Francia per dimostrare che siamo determinati a difendere le nostre terre e a condurre una forte resistenza […]. I promotori del progetto della centrale si aspettavano che ci saremmo indignati solo con la bocca e con la parola. Credevano che noi indigeni fossimo deboli, incapaci di sollevarci. Noi dimostriamo loro il contrario. Ci opponiamo fisicamente con le nostre braccia, i nostri corpi, i nostri figli, le nostre famiglie e riusciamo a respingere le macchine. Le autorità hanno la polizia e l’amministrazione, noi abbiamo la nostra conoscenza ancestrale, il legame con la Terra e l’amore per i vivi. Sono forze da non sottovalutare».

Proteste e repressione

Nell’ottobre 2022 la protesta ha alzato i toni, spinta dalla mancanza di volontà politica per una negoziazione giusta.

Gli abitanti mobilitati contro il progetto hanno cercato di sabotare il magazzino delle attrezzature di costruzione con bombe molotov, e hanno costruito capanne nell’area destinata alla centrale.

I rifugi, alla stessa maniera di quelli impiantati dalle tante famiglie e attivisti francesi nella zona dell’aeroporto, vogliono ribadire il messaggio che la foresta è la loro casa e che sono determinati a non cederla.

La protesta ovviamente si è scontrata con l’apparato repressivo dello Stato. La polizia ha usato gas lacrimogeni sui manifestanti e ha arrestato due abitanti del villaggio, un ambientalista e persino Roland Sjabere, lo yapoto di Prospérité, prelevato dal villaggio all’alba e portato in custodia a 150 km di distanza, senza rispettare il suo diritto di parlare con la famiglia.

In risposta agli arresti, le famiglie hanno organizzato una mobilitazione molto più ampia per l’11 novembre 2022, invitando i sostenitori di tutta la Guyana francese ad «andare fino alle ultime conseguenze» per difendere Prospérité.

Con tristezza, ma determinazione, lo yapoto ha dichiarato di «non essere più per il dialogo» e ha ribadito la richiesta di uno spostamento equo del progetto.

Anche il presidente della Jeunesses autochtones de Guyane, ha risposto alla repressione della polizia: «Le persone chiedono rispetto, fanno valere i loro diritti millenari, ma sono considerate criminali. Abbiamo fatto il gioco dello Stato per un po’, ma se vogliono affrontare la resistenza, ci solleveremo. Siamo pronti a combattere».

La montagna d’oro

Oltre che con la Ceog, il popolo kali’na deve fare i conti anche con altri progetti industriali: enormi centrali a biomassa, siti di estrazione dell’oro, miniere come la Montagne d’Or, promossa dal consorzio russo-canadese della Columbus Gold e Nordgold. Riguardo quest’ultima, dopo forti opposizioni, nel 2019 il governo ha annunciato l’abbandono del progetto a causa della sua incompatibilità con i requisiti ambientali. Tuttavia, una miniera d’oro fa gola a troppi, e finché la Francia non tornerà a negoziare il codice minerario e non porrà dei limiti chiari su che cosa e dove può essere estratto, ogni progetto sarà soggetto a possibili riattivazioni.

La protesta arriva in Francia

La mobilitazione ha fatto appello anche alla Francia metropolitana. Il presidente del Ceog e fondatore di Meridiam è un uomo vicino a Macron. Una sua donazione alla prima campagna elettorale del presidente ha alimentato la preoccupazione per un possibile trattamento di favore nei suoi confronti da parte delle autorità francesi.

Per quanto riguarda Macron, recentemente è stato criticato per aver permesso la deforestazione dell’Amazzonia in Guyana mentre stigmatizzava sulla scena mondiale quella brasiliana con toni severi contro Bolsonaro.

Lo yapoto di Prospérité aveva già visitato Parigi ed era intervenuto alla manifestazione per la giustizia climatica durante la Cop 26 nel novembre 2021.

Una delegazione di Kali’na è stata invitata a presentare il proprio caso all’Assemblée nationale – il parlamento francese – lo scorso dicembre 2022.

Nel gennaio 2023, Jean-Luc Melenchon, leader del partito di sinistra La France insoumise, ha visitato il cantiere della Ceog in Guyana e ha dato il suo sostegno alla lotta per fermarne la costruzione.

In una tribuna di «Le Monde» indirizzata a Macron, una rete di associazioni indigene della Guyana e i loro sostenitori hanno chiesto che il progetto venga delocalizzato: «Questo progetto viola il nostro diritto a dare un consenso libero, preventivo e informato, protetto anche dal diritto costituzionale, all’informazione e alla partecipazione pubblica».

E hanno avvisato ulteriormente: «Vi ricordiamo che un fondo di investimento, prima di produrre elettricità, cerca di ottenere un profitto. Corriamo il rischio che quella che chiamate “transizione energetica” diventi solo una nuova schiavitù dei popoli e degli ambienti naturali».

Daniela Del Bene


ATLANTE DELLA GIUSTIZIA AMBIENTALE

Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas) nell’ambito della quale portiamo a conoscenza dei nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante.
Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.
www.ejatlas.org
www.envjustice.org
http://cdca.it (atlante conflitti ambientali italia).




Dieci anni di sogni e sognatori


È un giovane vicariato posto in una regione amazzonica tanto affascinante quanto difficile. In queste pagine, mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza, il vescovo che lo guida, ne ricorda il decennale (2013-2023) della nascita.

Puerto Leguízamo. Ricordare è qualcosa di essenziale nella vita umana. La memoria è alla base della nostra identità e del rapporto con il mondo in cui viviamo. È la mappa dei nostri ricordi che ci dice chi siamo e dove siamo. Basta, infatti, un blackout della memoria per perdere la nozione di noi stessi, del mondo e del nostro posto in esso, come succede a volte alle persone anziane.

Questo febbraio celebriamo i dieci anni (febbraio 2013 – febbraio 2023) di vita e storia del vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. E, quando parliamo di celebrare, ci riferiamo a quel «ri-cordare» che, etimologicamente, significa riportare al cuore il sognato, il vissuto, ciò che abbiamo raccolto («cor-cordis», cuore, il muscolo che dagli antichi era ritenuto sede della memoria). Anche se pare ridondante ripassare attraverso il cuore ciò che dal cuore è uscito e ciò che è stato fatto mettendoci il cuore, è così che possiamo contemplare ciò che abbiamo vissuto in questi dieci anni di storia, sfide e opportunità.

Un buon punto di partenza per la commemorazione del nostro vicariato è il ricordo delle persone che hanno sognato questa Chiesa particolare: da chi non è più tra noi, come mons. Luis Augusto Castro e padre Bruno del Piero, fino a mons. Francisco Javier Múnera e padre Gaetano Mazzoleni, e a tutti i missionari della Consolata che, assumendo lo «ius comissionis», hanno generosamente sostenuto e continuano a sostenere questo progetto.

Mappa della regione del fiume Putumayo con Puerto Leguizamo e la triplice frontiera (Colombia, Ecuador e Perù).

Partendo dai nostri fiumi

Padre Angelo Casadei, parroco nella Parrocchia «Nuestra Señora de las Mercedes» e coordinatore della «Zona de las Mercedes» composta da quattro parrocchie e mons. Joaquin Humberto PInzón Güiza, vescovo del Vicariato Apostolico di Puerto Leguizamo-Solano dal 2013. Foto Angelo Casadei.

Questa commemorazione ci spinge, anzitutto, a ripercorrere attraverso la memoria il cammino fatto, guardando all’esperienza fondante, alle nostre origini, allo scopo di dare slancio al cammino futuro, rivitalizzando ciò che rischia di perdere il suo significato. È un’altra cosa da imparare dalle dinamiche dei nostri fiumi: nelle origini c’è sempre la freschezza dell’acqua: più si sale verso la sorgente, più se ne percepisce la purezza.

La storia ci porta al 2013, anno in cui il contesto sociale del territorio era carico di grandi aspettative per i negoziati di pace tra il governo centrale e le Farc-Ep. Tutti sognavamo tempi migliori per i nostri popoli. Tre anni dopo, nel 2016, abbiamo apprezzato l’armonia dell’accordo e le nuove dinamiche sociali che il post accordo ha generato, ma abbiamo anche assistito all’emergere di altri attori armati che, ancora una volta, hanno messo in ombra quella pace che tutti aspettavamo.

Un altro ingrediente che ha generato dinamiche di vita e morte è stata l’attività mineraria che ha letteralmente ferito e dissanguato i nostri fiumi, con l’illusione di migliori condizioni per le persone e le comunità. Senza dimenticare la pandemia di Covid 19 e le sue conseguenze.

Il contesto ecclesiale ispirava molta speranza. La proposta di papa Francesco per una Chiesa in uscita, una Chiesa in cammino missionario, è sorta come un flusso di vita. Nella gioia del Vangelo ci ha proposto:

«[…] Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: “Sarete beati se farete questo” […]» (Eg 24).

È in questo contesto che abbiamo intrapreso l’avventura: tre laici, sette religiose (due suore domenicane della Presentazione e cinque Missionarie della Consolata), un sacerdote diocesano (padre José María Córdoba Rip, mandato da mons. Francisco Múnera, vescovo dell’allora vicariato di San Vicente Puerto
Leguízamo poi diviso per costituire questo secondo vicariato), otto missionari della Consolata, un missionario di San Juan Eudes e il vescovo di questa nuova giurisdizione.

Con tanti sogni nello zaino, ci siamo dati il compito di assumere il progetto, di lanciare la nuova giurisdizione, e semplicemente sognare la strada, con la ferma convinzione di camminare e costruire insieme. Per fare questo, il 7 ottobre di quello stesso 2013 ci incontrammo per vivere la prima Assemblea pastorale che aveva come obiettivo: «Avvicinarsi al progetto del nuovo Vicariato», e lo abbiamo fatto con un sentimento di novità. Da quell’assemblea sono nati tanti sogni, accompagnati da creatività e impegno missionario. Da allora, altri evangelizzatori si sono uniti, mettendo il cuore nel dare il meglio di sé a questo progetto.

Comunità lungo il fiume Putumayo. Foto Fernando Florez.

Dalla Laudato Si’ al Sinodo amazzonico

Quasi non bastasse la sfida di una Chiesa in uscita, il pontefice ci ha rallegrati con un altro grande dono per noi come giovane Chiesa in Amazzonia: l’enciclica Laudato si’, con l’invito a una conversione integrale, che ci rende responsabili della cura della «casa comune». Per noi che, proprio in quel momento (era il novembre del 2017), stavamo preparando la prima Minga amazonica y fronteriza (incontro tra popolazioni dell’Amazzonia e della frontiera), è stato un balsamo che non solo ci ha fatto sentire di navigare nella giusta direzione con una causa risolutamente assunta dalla Chiesa, ma ci ha anche spinti a rispondere fedelmente all’impegno con il nostro contesto amazzonico.

La sintonia e l’impegno si sono ulteriormente rafforzati con la convocazione nell’ottobre 2017 del Sinodo sull’Amazzonia, con il quale Francesco ha inteso: «Metterci alla ricerca di nuovi cammini per la Chiesa in Amazzonia e per un’ecologia integrale». Negli anni, abbiamo camminato in questo flusso di ricerca, discernimento e costruzione collettiva.

In mezzo a tante sfide sociali e all’abbondante ricchezza ecclesiale, è nato il nostro primo progetto pastorale, ispirato dal Vangelo del buon Samaritano (Lc 10, 25-37). È lì che abbiamo sognato una Chiesa dal volto, dal pensiero e dal cuore amazzonici. Come, in seguito, verrà affermato nell’esortazione apostolica Querida Amazonía del sinodo per l’Amazzonia: «È la Chiesa dei seguaci di Gesù» che s’incarna in questo contesto e acquista un volto con le seguenti caratteristiche: è difensore della Casa comune; è senza confini; è fraterno, perché l’altro che cammina con me è mio fratello; è arricchito dalle spiritualità dei popoli che la abitano; è servo al servizio della comunità; è celebrante la vita e il cammino delle persone e delle comunità; è aperto all’universalità, in comunione con tutta la Chiesa.

Anche la riflessione ecclesiale e l’animazione vocazionale fanno parte dei raccolti ottenuti lungo il cammino. Tra i più recenti frutti raccolti in questo percorso, c’è senza dubbio la riflessione che si è sviluppata a partire dalle quattro opzioni missionarie (indigena, contadina, urbana e afrodiscendente) che oggi ci permette di fare chiarezza sul modo in cui dovremmo camminare con ognuno di quei quattro gruppi umani. Poi, come espressione di partecipazione al processo sinodale, abbiamo formato un’équipe interecclesiale in comunione con il fratello Vicariato di San José del Amazonas (Perù), per navigare sognando tra le due sponde. E ancora: l’équipe intercongregazionale, il gemellaggio missionario con la provincia ecclesiastica di Bucaramanga, la creazione delle nuove parrocchie (Nuestra Señora la Consolata, San Francisco de Asís e Nuestra Señora de la Asunción), per essere più vicini a paesi e comunità, e il «Centro amazzonico per il pensiero interculturale», che sta nascendo e si sta rafforzando.

Tutto questo raccolto è stato possibile grazie allo spirito di famiglia che abbiamo creato fin dall’inizio; una famiglia che si rafforza e cresce e che accoglie tutti coloro che entrano a far parte del progetto.

Alcuni partono e altri arrivano: le suore Serve dello Spirito Santo, le Missionarie della Speranza, l’Arcidiocesi di Bucaramanga, la Diocesi di Málaga-Soata, le
Carmelitane missionarie, le suore della Compagnia di Maria, le suore Missionarie dell’Immacolata Concezione, le suore Domenicane di Santa Caterina da Siena, le suore Missionarie del Buon Pastore, alcuni missionari laici, la diocesi di Ismina Tadó, i paesi, le comunità e le persone con cui camminiamo e, naturalmente, i benefattori.

Comunità indigena del fiume Putumayo. Foto Fernando Florez.

In attesa della seconda «Minga amazonica»

L’assemblea pastorale, svoltasi a Puerto Leguízamo dal 7 all’11 novembre dello scorso anno, ha fatto da cornice all’inizio dei festeggiamenti. Sotto il motto: «Dieci anni di cammino insieme perché in Cristo abbiamo la vita». Viviamo questa celebrazione nel contesto in un altro momento ecclesiale molto importante, un’altra proposta di papa Francesco, il sinodo della sinodalità, dove ci viene chiesto di tornare su tre aspetti importanti ed essenziali della Chiesa: comunione, partecipazione e missione. Indubbiamente, questo quadro o meglio questa spiritualità ci permetterà di leggere i primi dieci anni di storia e continuare il cammino.

Questo 2023 chiuderà i festeggiamenti per il decennale del Vicariato con l’esperienza della seconda «Minga amazonica», che avrà il titolo di: «Un modello di vita dal e per il contesto». Partendo dall’«ecologia della speranza», uno sguardo interdisciplinare e interistituzionale per sognare insieme un nuovo modello di vita.

Per una storia plurale

La celebrazione dei nostri primi dieci anni ci ha permesso di avere una visione retrospettiva del cammino fatto e una proiezione verso il futuro, verso nuovi tempi e nuove mete, avendo come obiettivo una buona vita per una buona convivenza. Tutti siamo incoraggiati a continuare a forgiare percorsi per i nuovi tempi, armonizzando metodi e strategie. In altre parole, la storia che sta scrivendo il Vicariato Apostolico di Puerto Leguízamo-Solano è una storia plurale, costruita a più mani, contemplando un ampio orizzonte, camminando insieme affinché i popoli e la gente di questo territorio abbiano la vita in Cristo.

Joaquín H. Pinzón Güiza

 

Durante l’assemblea del Vicariato, si svolge una dinamica per ubicare le missioni su una grande mappa stesa in mezzo al salone. Foto Angelo Casadei.


Il Vicariato e l’opzione indigena

Campesina di San Antonio, nel comune di Puerto Leguizamo. Foto Angelo Casadei.

Il «rostro indigeno»

Il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano si trova in un territorio amazzonico bagnato dai fiumi Caquetá e Putumayo. Territorio e fiumi nascondono diversità di specie che, intrecciate, proteggono l’ecosistema e danno speranza al mondo. Questa zona racchiude una varietà di volti tra i quali molti popoli indigeni: Murui, Koreguaje, Inga, Kichwa, Siona, Kofane, Nasa.

Sono popoli originari che alla Chiesa chiedono un’evangelizzazione differenziata che, attraverso il dialogo interreligioso, rispetti le loro conoscenze ancestrali e la loro visione del mondo. Sono indigeni che chiedono l’accompagnamento della Chiesa per affrontare le nuove sfide dell’epoca attuale, segnata dall’ondata di violenza, dalla difesa dei propri territori e dal continuo esodo migratorio verso le aree urbane.

Eduardo Reye Prada (Imc)


Il Vicariato e l’opzione contadina

Il «rostro campesino»

In questa immensa, bella e sorprendente Amazzonia troviamo anche il volto contadino. La stragrande maggioranza proviene da altri luoghi della Colombia spinta da ragioni diverse: per occupare terre abbandonate, per cercare guadagno, per fuggire alla violenza che purtroppo affligge il nostro paese. Sono venuti qui con la loro cultura e le loro tradizioni cercando di ricostruire la loro vita.

La Chiesa rende visibili i bambini contadini, i giovani e gli anziani prematuramente invecchiati a causa delle difficili condizioni di vita. Hanno vissuto e vivono realtà molto dure: come possiamo aiutarli? Tra le difficoltà che incontriamo ci sono l’isolamento, la mancanza di opportunità in materia di istruzione, sanità, comunicazione, strade di accesso, pagamento equo per i loro prodotti, abusi da parte di diversi gruppi armati.

Le comunità campesine rivendicano e apprezzano la presenza della Chiesa. Noi rispondiamo con una pastorale di presenza incarnata nelle popolazioni rurali, con un essere con loro. Questo ci ha richiesto lo sforzo di conoscere la storia del mondo contadino, d’incarnarci come Gesù, di scendere nel profondo, ascoltarli, cercare di vedere il mondo, la realtà dal loro punto di vista, uscire, camminare con e verso di loro, cercandoli.

Consapevoli che la pastorale contadina deve abbracciare l’ecologia integrale mettendo in relazione tra loro Dio, i fratelli, il creato; consapevoli che Gesù ha parlato ai contadini della terra, del seme, del frutto, del raccolto, del- la zizzania; consapevoli che il cristianesimo è nato in ambiente contadino, nel nostro essere missionario noi coltiviamo una disposizione umile, semplice e vicina; una vita sobria, vivendo la spiritualità del presepe, del lievito, del piccolo. Impariamo da loro riconoscendo e rafforzando i loro valori: lavoro, pazienza, perseveranza, rispetto dei processi, accettazione, spirito di sacrificio, tenacia, capacità di ricominciare.

Nella nostra visita permanente alle famiglie e alle scuole contadine, promuoviamo iniziative che migliorino la loro qualità di vita (come la coltivazione di prodotti regionali) e contribuiamo a sensibilizzare alla cura della Casa comune. E, soprattutto, aiutiamo tutti a riscoprire valori, come la Parola di Dio, la preghiera, la celebrazione dei sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e maturazione nella fede. Cerchiamo leader e collaboriamo alla formazione dei nostri agenti di evangelizzazione al fine di fornire un catechista a ogni comunità contadina, perché in Cristo tutti abbiamo la vita.

Maria del Carmen López (Cm)

Il Vicariato e l’opzione afro

Il «rostro afroamazonico»

Il popolo afroamazzonico apprezza la vicinanza e il sostegno che, in questi dieci anni, ha trovato nel Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. Vicinanza e sostegno nella ricerca per rafforzare la propria identità e soprattutto per cercare uno spazio in questa Amazzonia, dove gli afrodiscendenti sono arrivati in momenti diversi della storia recente e per circostanze diverse. Gli afrodiscendenti sono consepevoli che stanno crescendo in questo territorio di pari passo con la Chiesa e sono disposti a continuare a partecipare alle dinamiche pastorali che si stanno portando avanti.

Essi chiedono al Vicariato di continuare ad accompagnare i loro processi. Vogliono sentirsi parte delle dinamiche ecclesiali. Chiedono sostegno per poter acquisire uno spazio dove costruire la loro casa ancestrale: è essenziale avere uno spazio per rafforzare la cultura e la spiritualità. Vogliono continuare a partecipare e ad animare le celebrazioni della fede cattolica che li identificano come comunità afro: la festa di Nuestras Señora de la Candelaria (2 febbraio) e la festa di San Francesco d’Assisi («San Pacho», 4 ottobre).

Come Chiesa del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano dal volto amazzonico, noi ci sentiamo felici di avere la ricchezza (anche) del volto afro e vogliamo diventare partecipi delle loro ricerche e dei loro processi affinché insieme possiamo avere la vita in Cristo.

Lelia Yaneth Márquez (Op)

Campesinos di San Antonio, nel comune di Puerto Leguizamo. Foto Angelo Casadei.

Il Vicariato e l’opzione urbana

Il «rostro urbano»

Nel contesto urbano, il Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano ha potuto conoscere una serie di realtà che, essendo particolarmente diverse, richiedono uno speciale programma di evangelizzazione.

Inizialmente, al loro arrivo in questa regione, i primi missionari e missionarie avevano una visione generica del modo di vivere degli abitanti nel settore urbano.

La realtà in cui vivono le famiglie in questo «giardino esotico» che è l’Amazzonia, si riassume sostanzialmente nelle poche opportunità di lavoro per la loro sussistenza. Si può osservare che vivono a malapena di pesca e di lavoro nei campi da cui ricavano prodotti come manioca, piantaggine, papaya, mais, tra gli altri frutti che questa buona terra permette loro di raccogliere.

Come Vicariato ci troviamo in contatto anche con il mondo giovanile, che diventa una grande sfida per svolgere la nostra opera di evangelizzazione. Ai giovani mancano le opportunità per realizzare il loro progetto di vita. E questo causa problemi come droga, alcolismo, prostituzione e alcuni stili di vita che possono addirittura spingere molti giovani a entrare nelle fila dei gruppi armati clandestini che fanno parte del tessuto sociale di questa regione.

La popolazione fluttuante, invece, include tutti quegli abitanti giunti sul territorio in cerca di nuove opportunità, di una nuova strada, e che, nella maggior parte dei casi, fuggono dalle incertezze del passato. È proprio qui, nella ricerca di una direzione inedita, che con il nostro lavoro essi possono trovare un modello per cristianizzare la loro vita, evitando con ciò che le realtà negative della loro nuova casa diventino troppo gravose.

In conclusione, guardare al settore urbano richiede una visione ampia attraverso un servizio vocazionale e di evangelizzazione per andare alla ricerca di uno sviluppo per ogni volto che questo contesto amazzonico ospita. Ci riferiamo ai volti urbano, afro, contadino e indigeno che compongono questo paradiso multiculturale.

Fernando Ramirez e Ricardo Bocanegra (Imc)

Archivio MC

Paolo Moiola, È l’Amazzonia, dossier, marzo 2018.
È il reportage sulla prima «Minga amazonica y fronteriza» del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. La seconda edizione si svolgerà quest’anno.

 

 

 




Brasile. «Ma il futuro è indigeno»


Questo mese il Brasile sceglierà il proprio presidente tra Bolsonaro e Lula. Gli ultimi quattro anni sono stati drammatici per il paese. Anche per questo, la «Commissione pastorale della terra» (Cpt) e il «Consiglio indigenista missionario» (Cimi) sono sempre stati in prima linea.

È prassi consolidata che le promesse fatte durante le campagne elettorali vengano dimenticate o sminuite appena la tornata elettorale sia terminata. Come sempre, ci sono però delle eccezioni. Nel 2018, il candidato Bolsonaro promise «di non demarcare un altro centimetro di terre indigene» (não demarcar mais nenhum centímetro de terras indígenas). Dopo quattro anni di governo, non soltanto quella sua promessa è stata mantenuta, ma è andata ben oltre. Infatti, è stata permessa e incentivata l’invasione delle terre indigene da parte di garimpeiros, grileiros, latifundiários e madeireiros. Sempre nel 2018, il candidato Bolsonaro disse: «Per l’amor di Dio, oggi un indigeno costruisce una casa in mezzo alla spiaggia e arriva la Funai a dire che ora lì c’è una riserva indigena. Se sarò eletto, darò alla Funai un coltello, ma al collo. Non c’è altro modo».

Anche questa promessa è stata mantenuta: la «Fondazione nazionale per l’indio» (Funai) è stata smantellata e trasformata in una organizzazione anti indigenista (Ina-Inesc, Fundação anti-indígena. Un retrato da Funai sob o governo Bolsonaro, giugno 2022).

Un arcobaleno illumina il cielo sopra la aldeia Xihopi (Tiy, Amazonas, maggio 2022). Foto Christian Braga – ISA.

«Dio, patria e famiglia»

Bolsonaro si è presentato alle elezioni del 2022 forte dell’appoggio dei suoi due eserciti: quello ufficiale dei militari (suo vice designato è il generale Braga Netto) e quello ufficioso delle Chiese neoevangeliche (o evangelicali).

Tanto che, alla convention per il lancio della candidatura alla rielezione (lo scorso 24 luglio), il primo intervento è stato quello di Marco Feliciano, deputato federale e pastore evangelico, che ha parlato di una battaglia del bene contro il male e della vittoria di Bolsonaro in nome di Gesù. Insomma, la campagna del presidente uscente è ripartita da «Dios, patria e familia», seguendo il canovaccio scelto anche dall’ex presidente Donald Trump e da molti politici europei.

Abituata a un dibattito interno e ad assumere posizioni più scomode, la Chiesa cattolica del Brasile non ha dato indicazione su chi votare, ma è intervenuta sui temi specifici. Detto questo, alcuni suoi organismi non hanno fatto mistero di non volere la rielezione di Bolsonaro. La Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt), nella sua Carta pública. Manifesto sobre as eleições 2022, ha parlato della gravità del momento e denunciato con parole chiare l’autoritarismo del governo uscente, guidato da «un ex capitano espulso dall’esercito». E ha dichiarato di appoggiare «candidature contadine o  candidati impegnati nell’agenda della riforma agraria, della demarcazione delle terre indigene e dei territori dei popoli e delle comunità tradizionali, dell’ecologia e dell’agroecologia e della vita dignitosa nelle campagne, nelle acque e nelle foreste».

La copertina del rapporto 2022 del CIMI.

Per parte sua, il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista missionário, Cimi) non si è smentito continuando a dare un contributo essenziale alla causa indigena e amazzonica, sempre cercando di evitare posizioni neocolonialiste o paternalistiche. Per esempio, l’arcidiocesi di Porto Velho, guidata da dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, a luglio ha ospitato leader indigeni e rappresentanti di Cimi, Cpt, Via campesina e Caritas brasiliana per l’incontro «Ascolto sinodale, riflessioni e prospettive di azioni in difesa dell’Amazzonia». L’obiettivo era quello di riflettere – si legge nel documento finale – «sull’attuale congiuntura delle politiche pubbliche di natura genocida, ecocida, etnocida e della persecuzione e criminalizzazione dei movimenti e delle organizzazioni sociali, nonché dei leader indigeni e rurali e dei difensori dei diritti umani, sociali e ambientali». Si parla di una «legalizzazione dell’illegalità» da parte del governo Bolsonaro, come sta accadendo per l’attività mineraria nelle terre indigene o l’utilizzo di agrotossici cancerogeni, proibiti fuori dal Brasile.

A metà agosto è invece uscito l’annuale rapporto del Cimi, Relatório – Violência contra os povos indígenas no Brasil, Dados de 2021. Come previsto, contiene tantissime notizie negative: d’altra parte, sotto il governo Bolsonaro la situazione non poteva che peggiorare. Tuttavia, scrive Antônio Eduardo Cerqueira de Oliveira, segretario esecutivo del Cimi, il movimento indigeno non è rimasto a guardare scendendo in strada a Brasilia e in tutto il Brasile.

Da parte sua, il presidente Dom Roque chiude la propria presentazione con queste parole: «Dobbiamo denunciare la brutalità e la codardia dei tiranni che mutilano le vite sulla madre terra, che profanano e assaltano i luoghi sacri dei popoli. Continueremo a protestare e combattere, senza risparmiare gli sforzi, per la fine della violenza e il rispetto della vita. Basta con le atrocità».

L’aldeia Xihopi in una spettacolare vista dall’alto. Foto Christian Braga – ISA.

«Sì, anch’io posso agire»

Come abbiamo visto, informarsi in maniera seria sull’Amazzonia e sui popoli indigeni è possibile. Tuttavia, come sempre, l’enormità delle questioni può spaventare e far dire: «Ma io come posso essere utile?». Le strade ci sono. Per esempio, l’ultimo rapporto (è del luglio 2022) pubblicato dall’«Osservatorio dell’agroimpresa in Brasile» (De olho nos ruralistas. Observatório do agronegócio no Brasil) indica con nome e cognome le imprese, brasiliane e internazionali, che finanziano l’allevamento bovino causa primaria del disboscamento dell’Amazzonia, casa dei popoli indigeni e scrigno naturale del mondo.

Un’altra inchiesta condotta da Repórter Brasil (25 luglio) ha seguito il percorso compiuto dall’oro estratto illegalmente in Amazzonia (Terra indigena Yanomami e Terra indigena Kayapó). È stato scoperto che quell’oro passa per le imprese di raffinazione Chimet (Italia) e Marsam (Brasile) e finisce nei prodotti (cellulari e computer) di Apple, Microsoft, Amazon e Google.

Informarsi compiutamente e rifiutare i prodotti delle imprese non etiche e non trasparenti sarebbe già un’utile scelta politica e un concreto comportamento ambientalista. Indipendentemente da chi, tra Lula o Bolsonaro, entrerà nel Palácio do Planalto, a Brasilia.

Paolo Moiola


Il libro

Laboratorio Amazzonia

La copertina di «Amazzonia. Viaggio al tempo della fine» (giugno 2022).

Da qualche anno l’Amazzonia è divenuta argomento di discussione a livello globale (*). La ragione è presto detta. «L’Amazzonia è una terra chiave, è un luogo simbolo, è un laboratorio in cui sperimentare l’ecologia integrale. Purtroppo, fino ad ora, il bilancio è negativo, gravemente negativo. Saremo in grado di invertire la tendenza?». Sono le parole preoccupate con cui papa Francesco conclude la sua breve prefazione ad «Amazzonia. Viaggio al tempo della fine», un diario di viaggio del vaticanista Raffaele Luise (Edizioni Appunti di Viaggio, giugno 2022).

Il viaggio del giornalista si snoda tra Belém a Tabatinga, passando per Manaus, sempre accompagnato da missionari che, da molto tempo, operano nella regione amazzonica. Come mons. Carlo Verzeletti, che dice: «Oggi l’Amazzonia è di moda. Ma non esiste una sola Amazzonia. Ce ne sono molte – puntualizza -. Prima di tutto, certamente la grande foresta e i suoi popoli originari. Solo salvando loro possiamo difendere tutte le realtà amazzoniche» (pag. 34). I nemici più prossimi sono i diversi invasori: fazendeiros, garimpeiros, madeireiros. Tanto che dom Carlo non esita a parlare di «biocidio» ed «ecocidio» (pag. 28).

Nel capitolo dedicato alla Vale do Javari (la valle del fiume Javari, lungo il confine con il Perù), recentemente (giugno 2022) uscita anche sui media internazionali a causa dell’assassinio del giornalista britannico dom Phillips e dell’indigenista brasiliano Bruno Araújo Pereira, l’autore parla anche dell’invasione e dei danni causati dai missionari appartenenti alle nuove Chiese evangeliche e pentecostali, ricche di soldi, arroganza e fondamentalismo religioso.

Interessante è il parallelo che Luise fa tra la figura dello sciamano e quella dello scienziato: «Non può non colpirci l’inquietante consonanza della profezia cosmoecologica sciamanica con i teorici del cambiamento climatico e dell’Antropocene» (pag. 212). Per concludere che la sfida più impellente è quella di passare dall’Antropocene (l’era attuale in cui l’uomo ha modificato l’ambiente) all’Ecozoico (un’era che abbia al centro l’ecologia).

«Amazzonia. Viaggio al tempo della fine» è un libro che ha il pregio di essere molto scorrevole (anche perché quasi senza note, fonti, date) e di proporre al lettore una visione complessiva e, soprattutto, empatica dell’Amazzonia brasiliana. Con alcuni limiti: utilizza ancora un termine ormai giustamente desueto come «indios», altri termini inaccurati (come «riverinhos» invece di «ribeirinhos»); fa un uso smodato di aggettivi, superlativi e punti esclamativi; spesso l’autore indulge troppo in annotazioni da diario personale. Detto questo, il lavoro di Raffaele Luise merita di essere letto perché ogni informazione in più può aiutare a capire e difendere quel che resta del laboratorio Amazzonia e dei suoi popoli indigeni.

Paolo Moiola

 (*) A conferma di come l’Amazzonia sia argomento di grande interesse, è uscito un altro lavoro: «Viaggio sul fiume mondo. Amazzonia» di Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini, Mondadori, agosto 2022.