Beato Allamano:

Caldo, fuoco e ceneri


L’estate dardeggia ormai sulle nostre povere teste e il desiderio di fuga verso un po’ di riposo e di fresco irrompe ovunque (sindrome, forse, dell’ormai famosa «chiesa in uscita»). Anche i nostri «padri capitolari», dopo il mese di soggiorno romano, sono rientrati nelle sedi più disparate del pianeta, – pardon! – della geografia missionaria. Soltanto alcuni di loro (i «quattro dell’Ave Maria») ripeteranno il cammino inverso per rientrare nell’Urbe e, insieme a padre Stefano, riconfermato padre generale, cercheranno di aiutare i Missionari della Consolata nel non facile cammino della RIVITALIZZAZIONE e della RISTRUTTURAZIONE (le due famose passwords del Capitolo appena concluso). Guidati, in questo, dalla presenza paterna del nostro beato Fondatore, Giuseppe Allamano, e dalla fedeltà al suo carisma, cioè quella destinazione tenace e irrinunciabile ad gentes, che è il succo e il sapore della nostra vita. E, tutto, con il fervore degli inizi, quando lui, il Fondatore, era ancora presente e cercava in tutti i modi di far capire a quei primi giovani, preti e laici, che non aveva senso sognare l’Africa e andarvi, se non si era prima uomini veri, cristiani senza sconti… insomma: santi! Proprio durante il Capitolo, circolava tra i missionari uno strano frammento apocrifo rivolto ai missionari (qualcuno, più addentro alle cose, sosteneva di riconoscervi l’inconfondibile stile di papa Francesco) che diceva pressappoco così: «Dopo più di 100 anni, il vostro carisma originario non ha perso la sua freschezza e vitalità. Però, ricordate che il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù, Gesù Cristo! E, poi, il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata! Fedeltà al carisma non vuol dire «pietrificarlo» o metterlo in un quadro. Il riferimento all’eredità che vi ha lasciato Giuseppe Allamano non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. Comporta certamente fedeltà alla tradizione, ma fedeltà alla tradizione «significa tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri». L’Allamano non vi perdonerebbe mai di perdere la libertà e trasformarvi in guide da museo o adoratori di ceneri. Tenete vivo il fuoco della memoria di quel primo incontro!». Non ci mancava che l’accenno al fuoco, in questa calda e torrida estate! Ma, senza questo fuoco che ci rende «discepoli missionari», non si farà molta strada; altro che rivitalizzazione e ristrutturazione…
Buon cammino, allora, sempre ispirati e trepidamente seguiti da lui, il nostro Padre Fondatore!

Giacomo Mazzotti

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Allamano: L’impronta di Maria


Scriveva uno dei biografi dell’Allamano, nostro Fondatore: «Se alla morte si fosse aperto il suo cuore, vi si sarebbero trovate incise due parole, Consolata e Missioni», i suoi grandi amori, come i due polmoni che diedero il respiro all’intera sua esistenza. Dando inizio a due famiglie missionarie, il Fondatore volle che fossero plasmate dall’impronta di Colei che lui chiamava, con affetto filiale, la «cara» Consolata e di cui si definiva il segretario, «il tesoriere». Non è possibile, allora, parlare dell’Allamano, capirne la spiritualità, stupirsi della sua intensa attività, senza tenere conto della Madonna che per lui era semplicemente… la Consolata. Parlando un giorno ai suoi missionari, gli scappò di dire: «Che volete… È una devozione che va al cuore. Se dovessi fare la storia delle consolazioni ricevute dalla Madonna in questi quarant’anni che sono al santuario, direi che sono quarant’anni di consolazione».

La Consolata fu dunque per lui una presenza dolce e materna che l’accompagnò in tutti i momenti della sua vita: mentre si preparava a diventare sacerdote e perse la sua amatissima mamma; negli anni in cui fu rettore del più famoso santuario di Torino; ma soprattutto quando, aprendo la sua chiesa locale alla Missione in Africa, diede ai suoi figli e figlie, come obiettivo di vita quello di diffondere «la gloria di Maria alle genti», questa donna eccezionale, diventata per l’occasione anche «fondatrice»: «Non è infatti la SS. Vergine, sotto questo titolo, la nostra Madre e non siamo noi i suoi figli? Sì, nostra Madre tenerissima, che ci ama come la pupilla dei suoi occhi, che ideò il nostro Istituto, lo sostenne in tutti questi anni… La vera Fondatrice è la Madonna!».

La Consolata, da lui amata, invocata e annunciata, oltre che modello di vita consacrata per la Missione, diventò così Consolatrice, la Madonna missionaria che, con lo slancio dei discepoli missionari, donne e uomini di Vangelo, cammina sui sentieri dei continenti, visita le case dei poveri, entra nel cuore dei popoli come segno di speranza e di consolazione.

E fu con il suo nome sulle labbra e nel cuore che i missionari aprirono nel Kikuyu (Kenya) il primo campo di apostolato dell’Istituto; fu alla Consolata che dedicarono la prima stazione di Tusu a cui si aggiunsero tutte le altre e che il Fondatore volle fossero dedicate alla Madonna.

Con questa «impronta mariana», voluta e vissuta dal loro Fondatore, anche oggi i missionari e le missionarie della Consolata non si stancano di annunciare Gesù, figlio di Maria e vera consolazione del mondo.

Giacomo Mazzotti

Festa del Beato Allamano 2016, novizie MdC da Capri e studenti IMC da Castenuovo attorno alla tomba del beato Giuseppe Allamano.

 




Allamano: Con fervore pasquale


Colpiscono sicuramente la nostra immaginazione quelle porte sbarrate del Cenacolo e anche la paura che attanaglia il piccolo gruppo dei discepoli di Gesù, morto e sepolto da quasi tre giorni. Eppure, in questa comunità ferita e fragile, il Risorto non teme di entrare, di portare una parola di pace, alitando il suo Spirito di perdono e di vita nuova, senza dimenticarsi di mostrare le sue mani piagate e gloriose, segno inconfondibile di morte e risurrezione. Esplode, allora, in noi la gioia della Pasqua, che arriva dopo gli austeri quaranta giorni quaresimali, trasfigurandoli e rendendo la fatica del vivere “più fervorosa”, come ricordava il beato Allamano: «La Pasqua è una festa che va al cuore. Noi dobbiamo risorgere al fervore. Tutti dicano a se stessi: “Siamo risorti, non vogliamo più morire, vogliamo essere veri missionari”. E non abbiate paura di diventare troppo fervorosi!». E come ci dice Papa Francesco che sembra riecheggiare il nostro Fondatore: «La vita cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri. La missione, alla fin fine, è questo. Di conseguenza, un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale. Recuperiamo e accresciamo il fervore, “la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime…“. Possa il mondo del nostro tempo ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo… Non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione!». La sera oscura lascia il posto a una visita, quella di Gesù. Lui è con noi e ci apre la strada a una gioia che non può essere ingabbiata o trattenuta dalle mura di un tempio chiuso, che non sa più di casa, che non è più luogo di incontro. Il dono del Risorto, che sconfigge «la psicologia della tomba», fa spalancare le porte del nostro cuore un po’ codardo, caso mai fossimo tentati di sprangarle di nuovo, o di costruire altri muri o, peggio ancora, di selezionare chi merita e chi no il nostro aiuto. «Come fa piacere quando uno tira diritto, va avanti, sempre avanti! Vi voglio allegri. Desidero che si conservi e si accresca sempre più lo spirito di tranquillità, di scioltezza, di serenità. Questo è lo spirito che io voglio: sempre gioia, sempre facce allegre». Parole del beato Allamano per noi tutti, in questo tempo pasquale. Fortunati di avere incontrato Gesù, risorti con lui, per poi uscire e andare incontro agli altri, per annunciarlo e testimoniarlo vivente: fervore di Pasqua, gioia missionaria.

  1. Giacomo Mazzotti



Anno santo al rovescio


Abbiamo assistito, con gioia, all’apertura della prima porta santa del Giubileo a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana diventata, per l’occasione, «capitale spirituale del mondo». Un’apertura davvero missionaria. E, il 13 novembre scorso, alla chiusura delle varie porte sante sparse, con non poca fantasia, un po’ dovunque nel mondo. Mi è venuta, allora, in mente una lettera, nella quale don Tonino Bello raccontava: «Quando c’è stata l’inaugurazione dell’anno giubilare, mi sono avvicinato alla porta di ingresso della chiesa, ho battuto tre volte, la porta si è spalancata e io sono entrato nel tempio carico di luci, tutto il popolo dietro di me, la folla esultante. Io vorrei invece poter inaugurare, un giorno, un anno santo al rovescio. Tutti quanti in chiesa, il vescovo vicino alla porta chiusa, con il martello che batte, la porta che si apre e il popolo di Dio che esce sulla piazza per portare Gesù Cristo agli altri. Sì, perché oggi il problema più urgente per le nostre comunità cristiane è quello di aprire le porte che, dall’interno del tempio, diano sulla piazza… I battenti si schiuderanno. E voi, folla di credenti in Gesù Cristo, uscirete sulla piazza per un incontenibile bisogno di comunicare la lieta notizia all’uomo della strada». Questo “anno santo al rovescio”, immaginato dall’indimenticabile vescovo di Molfetta, mi è rimasto nel cuore e si è intrufolato nei sogni che normalmente si fanno all’inizio di un nuovo anno. Un anno da cominciare con la stessa ansia missionaria che viene dritta dal Vangelo e che ci è stata trasmessa dal nostro beato Fondatore, Giuseppe Allamano quando, ad esempio, con un’espressione colorita ma efficace, ci diceva: «Voi dovete essere missionari nella testa, nella bocca e nel cuore». Come dire: la Missione, l’annuncio, la testimonianza, “lo zelo (o passione) per le anime” – come si diceva una volta – sono i fili di una normalissima trama, entro cui dovrebbero scorrere i giorni che il Signore ci concederà in questo nuovo anno di grazia. Uscendo, condividendo, incontrando, facendo vedere, senza timori o paure, che il Signore Gesù è… la cosa più bella che potesse capitarci. E desiderando che gli altri lo sappiano. Per prolungare, così, quell’ondata di misericordia che l’Anno santo appena concluso ci ha spinto ad assumere come Dna della nostra identità cristiana. E per non essere missionari a metà, ma «nella testa, nella bocca e nel cuore». Auguri!

Giacomo Mazzotti

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Allamano santi missionari

Il mese di novembre si apre con la solennità di “Tutti i Santi”, e prosegue con altre celebrazioni rivolte alla santità. Il padre fondatore beato Giuseppe Allamano ripeteva ai suoi missionari e missionarie: «Ricordatevi che l’opera della missione esige grande santità. Non basta una santità mediocre, perché è la continuazione della missione di Nostro Signore Gesù Cristo, degli apostoli e dei santi missionari. Questa vocazione vi eleva sopra i cristiani, i religiosi, gli stessi sacerdoti dei nostri paesi, ai quali non è dato far conoscere e amare Dio da tanti che mai l’avrebbero potuto conoscere e amare». All’eccellenza di questo apostolato deve corrispondere una santità maggiore a quella dei consacrati e religiosi con altre attività pastorali.

Questa raccomandazione della santità ai missionari è stata richiamata anche dai papi del nostro tempo. Per Giovanni Paolo II: «Vero missionario è il santo». Perciò, «ogni missionario è autenticamente tale se si impegna nella via della santità» (Redemptoris Missio 90-91). Paolo VI ribadisce che soltanto così si può annunciare Cristo in modo credibile. Infatti, l’evangelizzazione scaturisce dall’esperienza di Dio conosciuto e familiare. Ogni missionario deve poter dire: «Ciò che abbiamo visto, ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo a voi» (EN 76). Per questo «occorre suscitare un nuovo “ardore di santità” nei missionari e nei più stretti loro collaboratori». E ribadisce: «La rinnovata spinta verso la Missione esige missionari santi. Non basta rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e cornordinare meglio le forze ecclesiali. Occorre suscitare un nuovo “ardore di santità” nei missionari». Ciò rafforza l’insistenza del beato Allamano sulla necessità della santità per scegliere la vocazione missionaria e per «salvare il maggior numero di anime». Egli non si limita a raccomandare, ma insiste sulla qualità della santità: «Ricordatevi che l’opera della missione esige una grande santità. Non basta una santità mediocre, ci vuole gran santità. L’opera dell’apostolato è opera divina perché è la stessa missione di Nostro Signore Gesù Cristo, degli apostoli e dei santi missionari».

  1. Gottardo Pasqualetti



Dal cielo bene sulla terra


Per il beato Giuseppe Allamano «la missionaria in modo particolare deve avere un cuore largo, grande e generoso, aperto, magnanimo per ogni miseria umana, pieno di amore per Dio» (Conferenze alle Suore 143-144).

E ai missionari raccomandava di essere «Missionari della bontà», di agire con tenerezza, pazienza, umiltà, mansuetudine, affabilità «senza asprezze, con bel garbo, carità e massima dolcezza».

A metà agosto celebriamo l’Assunzione di Maria al cielo, solennità che ricorda come Maria è presso il Figlio e prega per noi come a Cana. Teresa di Gesù Bambino scrisse: «Voglio passare il mio cielo a fare del bene sulla terra». La festa della Assunzione di Maria ci raccomanda di farlo fin d’ora. Così ha fatto il beato Padre Fondatore. «Trattava i convittori come un buon padre, interessandosi delle loro condizioni economiche, e riducendo la già tenue retta di pensione… E in casi pietosi sovveniva le loro famiglie» (F. Perlo). «Si interessava anche delle minime richieste; ascoltava le difficoltà; era tutto per l’individuo con cui trattava». E poi «rispondeva, dava il consiglio, la direzione, ma con un fare così paterno e persuasivo che si usciva dal colloquio con la convinzione di essere stati compresi, e che la via tracciata era proprio quella da seguire» (G. Cappella). Stesso atteggiamento si ritrova nel suo rapporto con i missionari. «Si preoccupava delle minime necessità materiali e spirituali di ognuno. Si interessava grandemente dei parenti dei membri dell’Istituto, specialmente delle loro mamme. E quando avvertiva qualche necessità, senza essee pregato, sovveniva con larga generosità» (G. Barlassina). Attuava così quello che raccomandava alla giovane superiora, sr. Margherita De Maria, sul suo comportamento con le suore: «Abbi grande pazienza, incoraggiando, consolando, sempre correggendo mateamente… Fa coraggio a tutte… Raccomanda sempre grande carità, longanimità…».

Pazientare, compatire, richiamare con dolcezza, curare il contatto personale, proporre ideali per essere all’altezza della propria missione, è il segreto della sua pateità. E raccomandava ai missionari: «Nelle difficoltà pensami vicino e comportati come pensi che ti avrei suggerito di fare». Questo ha un riflesso anche nell’attività missionaria. Quella del missionario è una spiritualità di presenza, rapporti personali, attenzione all’altro. I primi missionari nel Kenya lo calarono nelle loro decisioni pastorali, che prevedevano la visita ai villaggi per conoscere e contattare le persone, prestare attenzione alle loro necessità e sofferenze, portando aiuto e consolazione. È lo spirito ribadito dall’Allamano, che raccomandava: «Spandete il profumo dell’amore, facendo felici le persone».

Gottardo Pasqualetti




La consolata: madonna missionaria


«La Consolata è madre nostra tenerissima e ci ama come la pupilla degli occhi suoi», disse l’Allamano ai suoi missionari nel giugno del 1915. «Lei ideò il nostro Istituto, lo sostenne in tutti questi anni materialmente e spiritualmente, qui e in Africa, ed è sempre pronta a tutti i nostri bisogni. Non v’è dubbio che tutto quello che si è fatto qui, tutto è opera della Consolata. Ha fatto per questo Istituto miracoli quotidiani… Nei momenti dolorosi intervenne in modo straordinario».

Un sacerdote torinese disse dell’Allamano: «È un santo che porta la Consolata in saccoccia», in tasca, con sé. Così i suoi missionari: ovunque vanno portano la loro Madonna.

Il 20 giugno si celebra con grande solennità la Consolata nel suo santuario di Torino e in varie parti del mondo dove si trovano i suoi missionari e le missionarie che portano lo stesso titolo mariano. L’Allamano che ha dato all’Istituto il nome della Consolata non si è mai sentito il suo vero fondatore. Ripeteva sempre che «Fondatrice è la Consolata». Ribadiva pure che la Madonna desidera più di tutto che il suo Figlio sia conosciuto e amato, perché è la salvezza dell’umanità. E aggiungeva, come conseguenza: «Per questo ha fondato il nostro Istituto», per la missione evangelizzatrice. A questo scopo l’Allamano ha fatto camminare la Consolata, madre di tutti, per il mondo. Così ha globalizzato l’attività più tipica della festa della Consolata: la grande processione nella città di Torino. L’8 maggio 1902, festa dell’Ascensione in cui si ricordavano le parole di Gesù agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15), l’Allamano inviò in Kenya i primi quattro missionari. E da allora la processione è proseguita, ha raggiunto altri paesi e continua ancora. Così non vi è più un solo santuario della Consolata a Torino, ma molti in tante parti del mondo, ovunque ci sono missionari e missionarie della Consolata. Questo cammino è iniziato appena Maria fu consolata dall’annuncio dell’Angelo che le disse: «Rallegrati. Il Signore è con te». Ricevuto Gesù nel suo seno, non lo tenne per sé. Andò, «corse in fretta», dice il Vangelo, dalla cugina Elisabetta, per parlare con lei delle grandi cose avvenute, magnificare il Signore, aiutare e «consolare» a sua volta. Infatti, quell’incontro provocò un’esplosione di gioia in Elisabetta, Zaccaria e Giovanni Battista che ancora nel seno della madre sentì la presenza di Gesù in Maria. Il beato Allamano raccomandava alle missionarie in partenza per la missione: «Lasciate il sapore dell’amore per Dio e per il prossimo dovunque andate»; e ai missionari: di essere «missionari della bontà». Maria è ispiratrice di una missione consolatrice, che ha di mira l’annuncio del Vangelo, il benessere e la felicità delle persone tramite l’istruzione, la cura della salute, la promozione della giustizia e della pace.

Gottardo Pasqualetti




Allamano sacerdote missionario


La Pasqua che stiamo celebrando riassume tutta l’azione di Dio che per amore ha mandato a noi il suo Figlio. Egli ha portato a compimento la salvezza. È il vertice dell’Antico e del Nuovo Testamento. Per questo la Pasqua è considerata «la festa delle feste», «a cui convergono tutti i misteri della nostra religione» (S. Leone Magno). Ha anche un richiamo esplicito alla Missione. Alle prime persone che incontra, il Risorto dice: «Andate ad annunziarlo»; e agli apostoli: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi»; e prima di salire al cielo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura» (Gv 20,21; Mc 16,15).

beato Giuseppe Allamano

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La Pasqua è anche la «festa della fedeltà». Richiama il battesimo e le promesse a esso collegate, l’ascolto della Parola di Dio e l’invito a farsene annunziatori e testimoni. Per i missionari della Consolata vi è un ulteriore richiamo: a essere fedeli alla loro vocazione secondo il carisma e lo spirito del beato Allamano. Per questo egli ha dato «come speciale protettore» dell’Istituto S. Fedele da Sigmaringen: missionario, primo martire di Propaganda Fide. Il 24 aprile 1900, nel giorno della celebrazione liturgica del Santo, l’Allamano spedì la lettera al Card. Richelmy per la fondazione dell’Istituto, dopo averla posta sull’altare durante la celebrazione della Messa. E a noi raccomanda: «Imitatelo nella fedeltà ai vostri doveri presenti e futuri; fedeltà universale, cordiale e semplice, nelle cose grandi e piccole; nel corrispondere alle grazie di Dio e a lasciarvi formare… per riuscire degni missionari».

Ma la Pasqua richiama un’ulteriore fedeltà, anch’essa testimoniata dall’Allamano: essere fedeli alla vocazione sacerdotale. Tutto quello che ha fatto, ha nel sacerdozio la motivazione. Per lui il sacerdote è missionario di natura sua. Anche se incardinato in una diocesi, il sacerdote non può preoccuparsi soltanto dei problemi del suo territorio, deve aprirsi a tutto il mondo. È la qualifica data all’Allamano dal Decreto sulle sue virtù eroiche: «Nella mirabile schiera di Servi di Dio fioriti nella Chiesa Torinese… si distinse per aver percepito il dovere di ogni Chiesa locale di aprirsi alla missione universale». Una missione che, come ribadisce il Concilio Vaticano II, riguarda ogni sacerdote. L’ordinazione sacerdotale, infatti, «non destina a una missione limitata e ristretta, ma a una vastissima missione, fino ai confini del mondo, come quella di Cristo». Lo hanno ripetuto i Papi più recenti ed è un richiamo insistente di Papa Francesco sulla «Chiesa in uscita» verso le periferie non solo geografiche, ma anche umane.

padre Gottardo Pasqualetti

Sezioni: Presenza Viva | Cammino di santità | La voce dei testimoni | Preghiamo | Riconoscenza




Beato Giuseppe Allamano

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CAllamano logoari amici lettori,
è con piacere che vi presento questa edizione rinnovata della pubblicazione dedicata al beato Allamano. Non stamperemo più l’allegato che ricevevate tre volte all’anno, sostituito da ora in avanti da questo inserto che manterrà una sua precisa identità e apparirà cinque volte all’anno alternandosi con l’inserto «Amico».
Non vogliamo sia solo una operazione di risparmio, pur necessaria di questi tempi, ma speriamo sia un modo efficace per farvi avvicinare con più familiarità a un santo che per noi significa molto, il beato Giuseppe Allamano, il quale ha ispirato e cambiato la nostra vita con il suo stile semplice che insegna a essere «santi e missionari».

Gigi Anataloni




Pillole «Allamano» 7: Canali e conche


Siate conche, non canali, con i beni spirituali
Siate canali, non conche, con i beni materiali

Un medico cinese (ma sarebbe stato d’accordo con lui anche il mio vecchio pediatra) direbbe che la medicina ha bisogno di un approccio «olistico» se vuole essere efficace e portare a un benessere effettivo dell’individuo. Detto in parole povere, essa deve coinvolgere ogni aspetto riguardante l’essere umano, tanto materiale quanto spirituale.

La pillola di questo mese è un medicamento antico che punta a offrire una cura completa, un ritrovato che il nostro «farmacista» Giuseppe Allamano ha ereditato da una tradizione lontana. Antico non significa necessariamente antiquato, superato o, per usare un termine farmaceutico – visto che si parla pur sempre di pillole – scaduto. I rimedi della nonna rivelano, talvolta anche oggi, la loro efficacia, nonostante noi, gente super sofisticata del 21° secolo, facciamo fatica a crederlo.

Lo spunto per riflettere su questo consiglio che l’Allamano ci offre lo troviamo in un passo del Sermone 18 al Cantico dei Cantici di san Beardo da Chiaravalle. In esso il santo, dottore della Chiesa e maestro di spiritualità medievale, mette in guardia coloro che vogliono effondere lo Spirito prima che esso venga in loro infuso. In breve, secondo Beardo, lo Spirito Santo compie in noi una duplice operazione: infusione ed effusione. La prima ci fortifica interiormente, a nostro vantaggio e per la nostra crescita spirituale. Attraverso l’infusione dello Spirito in noi, riceviamo doni come fede, speranza e carità, doni che sono nostri, che servono alla nostra salvezza. Altri doni (per esempio, scienza, sapienza, profezia, guarigione, lingua, ecc.) li riceviamo per il bene spirituale del prossimo, per donarli a chi ne ha bisogno. Di fatto, ricorda Beardo, essi non sono indispensabili per la nostra salvezza, ma ci sono concessi a beneficio altrui, per compiere verso il nostro prossimo un atto di misericordia che serva da aiuto in un cammino di crescita spirituale.

I primi doni, quelli infusi, sono condizione affinché i secondi possano convertirsi in strumenti di salvezza. È necessario essere ripieni dello Spirito prima di poterlo effondere, sostiene Bernardo. A poco servirebbero il dono della parola o quello della scienza se per mancanza di carità non li condividessimo con il nostro prossimo; ugualmente sterile sarebbe però la persona che volesse condividere i suoi talenti senza fondarli su una solida base spirituale. Solo in questo modo i doni condivisi saranno in grado di dissetare, sanare, esortare, far crescere nella fede, dare speranza, riempire di amore. Bernardo teme la superficialità e per questa ragione definisce la persona saggia come colei che è capace di essere conca, vasca, piuttosto che canale. Il canale, infatti, nel momento in cui riceve riversa, mentre la conca raccoglie, aspetta di essere piena e comunica della sua abbondanza. Purtroppo, è l’amara constatazione di san Bernardo, si hanno nella Chiesa molti più canali che conche; molte più persone che vogliono trasmettere ciò che non hanno, insegnare quanto non hanno imparato, parlare prima di ascoltare, indicare ad altri cammini che non si sono mai percorsi, né si saprebbe come iniziare a esplorare. Dai tempi di Beardo, passando per quelli di Giuseppe Allamano fino ad arrivare ai giorni nostri, le cose non sono cambiate più di tanto. Risuonano profetiche ed attuali le parole dell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, scritta ormai quasi 40 anni fa e giustamente riproposta con insistenza in questi ultimi tempi, in cui papa Paolo VI ricordava a tutti come, in materia di evangelizzazione, il mondo fosse molto più interessato all’ascolto dei testimoni piuttosto che dei maestri (EN 41).

Le persone che incontriamo sono completamente disincantate nei confronti di parole pur belle ma vuote. Le parole piene, al contrario, sono quelle che non girano semplicemente nella bocca, ma ricevono la loro forza dal cuore. La conca in cui sono custodite le rende cristalline e pure, permette ai detriti di depositarsi sul fondo lasciando che le mani che si racchiudono per bere attingano all’acqua più pura. A volte anche le buone azioni possono essere piene di detriti e persino l’esercizio della misericordia corre il rischio di essere frainteso, equivocato e abusato se non scaturisce da una fonte profonda e ricca.

Giuseppe Allamano raccoglie le parole di Bernardo e le fa sue. Professore di morale per molti anni, sa per esperienza che il bene è un oggetto fragile e va trattato con dolcezza e delicatezza. Se lo si porge con poco garbo si può rompere facilmente e solo con difficoltà può essere riparato. Lo vediamo anche noi oggi. Ne facciamo esperienza quotidiana entrando in contatto con persone ferite dalla banalità di un cristianesimo di facciata, raccogliendo storie che narrano promesse di grazia tradite, incontri col nulla camuffati da esperienze di fede, bisogni reali affrontati a colpi di bla bla bla e mai soddisfatti. A volte sono le nostre stesse debolezze a fare strage delle speranze altrui, a tradie le aspettative; non lo si può evitare, è lo scotto che si deve pagare al fatto di essere umani e fallibili. Questa fragilità può essere però limitata. L’apertura allo Spirito è la prima attitudine da coltivare se si vuole essere fonti vive. Tuttavia, sappiamo bene che tale apertura non potrà aver luogo se non si ricercano momenti di preghiera, silenzio e incontro con Cristo in grado di permetterci di accogliere il dono del suo Spirito. Occorre trovare spazi che permettano l’echeggiare della Parola nel profondo di noi stessi, anche se ciò potrà essere causa di sofferenza. La Parola, infatti, è spada a doppio taglio, che penetra e purifica, divide, pota, converte (cf. Eb 4,12).

La nuova evangelizzazione, di cui tanto si parla in questi ultimi tempi, altro non è che un modo credibile di presentare la Buona Notizia di sempre. Oggi, in effetti, la gente non ha bisogno di tante parole. Bastano 64 battute per lanciare un tweet nel ciberspazio ed essere letto da centinaia, migliaia, milioni di followers (Papa Francesco ha 14 milioni di persone che lo seguono su Twitter). La differenza la fanno il contenuto e ciò che sta sotto a esso. Le banalità possono risultare interessanti e anche divertenti, ma alla fine stancano. C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la propria missione in modo autentico ed efficace.

 

Trattenere i beni spirituali, arricchirsi di essi è un atto di misericordia e non di egoismo. Chi si fa conca dei doni dello Spirito automaticamente dona con generosità, perché è lo Spirito stesso che, infuso, effonde grazia su grazia, annunciando ciò che deve e non ciò che vuole, senza risparmiare le verità scomode, senza ammiccare al mondo per paura di non piacere.

Giuseppe Allamano prende il consiglio di San Bernardo, lo completa e lo propone ai suoi missionari in una versione riveduta e corretta che ci fa vedere la sua originalità di pensiero: «S. Bernardo dice che noi a riguardo del prossimo dobbiamo essere conche e non solo canali […], ma in questo [beni materiali] dobbiamo essere solamente canali e non conche, e questo lo dico io» (Conferenze IMC, III, pagg. 46-47).

«E questo lo dico io!». Giuseppe Allamano è un sacerdote che desidera fortemente che i suoi siano persone spiritualmente ricche; vuole però anche che la loro spiritualità non si converta in uno spiritualismo eccessivo, avulso dalla realtà. I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare alla corrente del canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». La missione è annuncio di un dono, del regalo che Dio fa al mondo tanto amato: l’unico suo Figlio offerto per la salvezza di tutti (Gv 3, 16). Un mondo scettico, qual è quello di oggi, deve essere aiutato a credere, e per questa ragione deve poter vedere il dono. Non possiamo trattenerlo, nascondendolo alla vista di chi lo cerca, a volte con ansia o con disperazione. Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero sacramentini, che avessero uno spirito eucaristico, che fossero pane spezzato per calmare la fame delle genti. Per decenni i Missionari e le Missionarie della Consolata ne hanno seguito l’invito e si sono fatti essi stessi dono, aiutati dalla generosità di tanti amici e benefattori che, pur senza partire fisicamente per la missione, ne hanno sostenuto lo svolgersi e lo sviluppo, talvolta a prezzo di grandi sacrifici.

Giuseppe Allamano ha parlato al cuore di molti, con il suo spirito semplice e diretto, e oggi continua a parlare anche a noi, invitandoci a essere segni di uno stile di vita alternativo a quello che il mondo propaganda, esortandoci a non stancarci di dare. La crisi che stiamo vivendo suggerirebbe forse di trasformarci in conca anche per quanto riguarda i beni materiali, perché «non si può mai sapere …». In effetti oggi il cristiano è chiamato a fidarsi maggiormente della Provvidenza anche nel nostro Occidente che, fino a poco tempo fa, dispensava i più dal doverlo fare con radicalità. Del resto, la vita stessa di Giuseppe Allamano è stata un canto alla Provvidenza, la storia di un uomo che si è fidato di Dio, investendo tutto quanto aveva nel progetto missionario al quale si sentiva chiamato. «Bisogna fidarsi della Provvidenza e meritare i suoi aiuti», sosteneva. «Mai ho perso il sonno per questioni di denaro», ha detto più volte ai suoi missionari, testimoniando con la sua esperienza che il dare senza risparmio, senza se e senza ma, paga i suoi dividendi nel modo misterioso che solo Dio conosce.

Inutile dire che essere una conca ripiena di spirito aiuta a comprendere la sapienza nascosta dietro alla necessità di essere anche canale in cui scorrono copiosamente e generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli