Tre parole magiche


Uno degli studiosi più attenti della vita del beato Giuseppe Allamano, del suo tempo e ambiente, è stato senza dubbio padre Igino Tubaldo. A cent’anni dalla sua nascita, lo ricordiamo con gratitudine, soprattutto per la voluminosa biografia in quattro tomi e altri innumerevoli scritti che ci ha lasciato. Cosciente di quanto sia prezioso l’epistolario per una persona, poiché in esso ognuno esprime al meglio i sentimenti più intimi, padre Tubaldo ha voluto scandagliare con molta attenzione le 1.256 lettere scritte dall’Allamano. Al termine del suo lavoro ci ha svelato che tre brevi parole sono quelle che meglio hanno espresso il cuore del nostro padre verso i suoi figli missionari e missionarie.

La prima parola è «coraggio». Questa espressione poteva significare: avanti, stai tranquillo, stai di buon umore, non preoccuparti. La usa 397 volte nelle sue lettere, soprattutto scrivendo ai suoi figli e figlie nelle lontane missioni dell’Africa. La frequenza di questa parola esprimeva quanto lui quotidianamente coglieva, pregando la «sua» Madonna Consolata. Riconosceva quanto arduo e difficile fosse il compito di aprire una nuova strada all’evangelizzazione e voleva dire loro tutto il suo amore di padre e la protezione materna della Consolata. Un esempio: «Coraggio, dunque. Ti ripeto: coraggio e pensa che io ti amo, anche perché con i voti perpetui sei mio figlio perpetuo. Scrivimi spesso».

La seconda parola è «caro/a», utilizzata 330 volte. Per lui non era un semplice e formale aggettivo con cui aprire le sue lettere. Voleva subito trasmettere con tale espressione la sua vicinanza, condivisione e tutto il suo amore nei riguardi dei suoi figli e figlie. Lui, sempre misurato, con questo termine manifestava tutta la sua carica affettiva, umana e spirituale. E i suoi missionari lo sapevano bene e contraccambiavano con altrettanto affett. Ma questo termine non lo utilizzava solo con i missionari e missionarie: non sono rare le espressioni come: «Cara Consolata», «Cari africani», «Cari defunti», «Caro vicerettore».

La terza parola è «ti benedico» e ricorre, nel suo epistolario, 470 volte. Essa rifletteva non solo il suo dovere di sacerdote, ma anche l’atteggiamento di un «patriarca biblico» che sentiva la sua responsabilità su questo suo «popolo missionario». Scriveva a padre Angelo Dal Canton e a fratel Anselmo Jantet, ritornati dalla loro prigionia in Etiopia nel dicembre 1915: «Tutte le sere senza eccezione vi mandai la mia speciale benedizione con due segni di croce». Dopo la morte dello studente Baldi Eugenio (+14/06/1917) in guerra, scriveva ai missionari: «Nella sua ultima lettera dal fronte mi diceva: “Non so se al giungerle questa mia sarò ancora vivo; in ginocchio le domando la sua santa benedizione”. L’ebbe in tutti i giorni e più volte al giorno». Così anche alle suore missionarie: «La mia benedizione a tutte e a ciascuna».

Tre parole, tre perle, che rivelano il cuore di un fondatore e padre.

padre Piero Trabucco

Periferia di Bonaventura, Colombia


Fiducia nella divina Provvidenza

Padre Lawrence Ssimbwa, missionario della Consolata ugandese, da vari anni lavora in Colombia fra gli afroamericani della costa nella diocesi di Bonaventura, in una realtà di periferia caratterizzata da grande povertà e abbandono dove l’opera di evangelizzazione ha bisogno di appoggiarsi a una profonda fiducia nella Provvidenza.

Tutto nelle mani di Dio

Chiamiamo Divina Provvidenza la preoccupazione di Dio per tutta la creazione o i suoi interventi per mezzo dei quali le creature sono guidate al loro fine. Tutto ciò che Dio ha creato lo conserva e lo governa attraverso la sua Provvidenza.

La fiducia nella Divina Provvidenza è molto evidente nella spiritualità del beato Giuseppe Allamano. Non si può parlare di lui senza metterlo in relazione con essa. Era un esempio di fiducia totale nella Provvidenza perché metteva tutto nelle mani di Dio. Esortava spesso i suoi figli, missionari e missionarie a confidare totalmente del Signore.

Secondo il beato Allamano «fiducia» è sapere che Dio accompagna sempre i piani quotidiani degli esseri umani, e che la vita non dipende solo dai loro sforzi, dalle capacità intellettuali, dalle ricchezze acquisite. Tutto, in larga misura, dipende dalla cura amorevole di Dio che manda la pioggia sui giusti e sui malvagi (Matteo 5,45), per cui noi, come discepoli missionari di Gesù Cristo, lasciamo tutto nelle mani del Signore senza paura.

«Non fondiamo la nostra confidenza nei mezzi umani che sono in noi: talento, forze e virtù ecc., o che sono negli altri. Facciamo sempre quello che possiamo da parte nostra, poi lasciamo tutto nelle mani del Signore, senza timore. Egli lascia mai l’opera a metà» (Così vi voglio, p. 139).

La missione: luogo della Divina Provvidenza

La missione appartiene sempre a Dio e è il suo principale protagonista. Durante tutta la sua vita, Giuseppe Allamano ha chiarito che la missione è la magnifica opera di Dio e dipende interamente dalla sua Divina Provvidenza. I discepoli missionari del Signore sono semplicemente dei collaboratori che agiscono secondo la sua santa volontà.

Lui, come padre e fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata doveva preoccuparsi della loro formazione, ma anche del sostegno materiale dei due istituti in patria e nei luoghi di missione. Tuttavia, non ha mai perso il sonno a causa di questa grande responsabilità perché aveva piena fiducia nella Divina Provvidenza.

Ha detto: «Io non dubito della Provvidenza. Senza questa fiducia ci sarebbe da perdere la testa. Alle volte accade che si arriva a sera e non c’è denaro per una fattura che scade. Ebbene il giorno dopo i denari arrivano e si salda il debito. Vi assicuro che non ho mai lasciato di dormire tranquillamente per questo fastidio» (Così vi voglio, p. 140).

La Consolata è la vera fondatrice

E come riponeva tutta la sua fiducia nel Signore, Giuseppe Allamano confidava anche nella potente intercessione della Consolata. Affermava che Maria Consolata era la vera fondatrice dei due istituti e che lui era semplicemente uno strumento messo da Dio per concretizzare quest’opera. Fondato su questa convinzione attribuiva un po’ tutto all’opera del Signore per intercessione della Consolata.

In innumerevoli occasioni ha parlato dell’amore materno della Consolata per l’istituto: «Sì, noi siamo figli di questa nostra madre tenerissima, che ci ama come pupilla degli occhi suoi, che ideò il nostro istituto, lo sostenne in tutti questi anni materialmente e spiritualmente ed è sempre pronta a tutte le nostre necessità. La vera fondatrice è la Madonna» (Così vi voglio, p. 216).

Come ogni madre si prende cura dei suoi figli e delle sue figlie, così anche la Consolata ha sostenuto gli istituti fondati dal beato Giuseppe Allamano. Ha detto: «Tutto quello che si è fatto è opera della SS.ma Consolata. Ella ha fatto per questo istituto dei miracoli quotidiani: ha fatto parlare le pietre, piovere denari. Nei momenti dolorosi la Madonna intervenne in modo straordinario e questo senza parlare delle grazie concesseci lungo l’anno, anche di ordine temporale, come il pane quotidiano. Sì, anche per questo lascio l’incarico alla Madonna» (Così vi voglio, p. 216).

Il fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata riponeva grande fiducia nell’intercessione materna di Maria Consolata, tanto da affidare tutto alle sue cure. Era convinto che non avrebbe mai smesso di intercedere per i suoi missionari che annunciavano il Vangelo del suo Figlio Gesù, nostro salvatore. Animato da questa fiducia, in diverse occasioni ha detto: «Per le spese dell’istituto non ho mai perso il sonno e l’appetito. Dico alla SS.ma Consolata: pensaci tu!, se fai bella figura sei tu!» (Così vi voglio, p. 217).

Conclusione

Questa è la grande esortazione del beato Giuseppe Allamano ai suoi figli. Con essa ci aiuta a capire che la missione è opera di Dio e dipende interamente da lui. Sta a noi continuare a lavorare, ma con questa incorruttibile sicurezza. La Provvidenza di Dio non ci delude. «Vorrei proprio che i nostri istituti in genere e tutti voi in particolare aveste sempre questa grande fiducia in Dio» (Così vi voglio, p. 141).

padre Lawrence Ssimbwa

Padre Lawrence in visita a una famiglia


Carlo Acutis e Giuseppe Allamano

I missionari e le missionarie della Consolata, ogni anno scelgono un patrono speciale da invocare nella loro preghiera. Quest’anno hanno scelto il beato Carlo Acutis, adolescente morto nel 2006 e beatificato da papa Francesco nel 2020. La sua vita, le sue virtù e i suoi amori evidenziano vari aspetti in comune con la vita e la santità del beato Allamano.

Un giovane di oggi

Il motivo che ci ha indotto a scegliere il beato Carlo Acutis come nostro patrono per l’anno 2023 è stata la sua vita semplice e profonda, l’amore appassionato per l’eucaristia, la frequentazione assidua della Parola, il rapporto intimo e delicatissimo con Maria, l’attualità della sua persona e della sua esperienza, l’approccio fruttuoso e maturo al mondo della comunicazione come dimensione da abitare e nella quale seminare il Vangelo.

Fin da piccolo Carlo manifesta una grande curiosità sul mondo che lo circonda, sul mistero della vita e specialmente riguardo le questioni di tipo religioso. La sua curiosità si accompagna a un’intelligenza viva e propositiva. Carlo si appassiona al mondo del computer, lo studia, legge libri di ingegneria informatica e, quando riesce a carpire i segreti della rete, utilizza la sua conoscenza per aiutare i suoi amici, specialmente i più deboli.

Innamorato dell’eucaristia

All’età di sette anni riceve la prima comunione. Da allora, secondo il racconto della mamma, «non mancò mai alla messa quotidiana e alla recita del santo rosario». È fortemente innamorato dell’eucaristia, tanto da divenirne un vero apostolo, non solo presso i suoi amici, i suoi coetanei e i più piccoli, quando ne diventa catechista, ma anche verso la sua comunità, manifestando una delicata sensibilità cristiana che diventa una delle più affascinanti caratteristiche della sua vita. L’adolescente Carlo Acutis con parole molto significative, amava ripetere, come fosse uno slogan: «L’eucaristia è la mia autostrada per il Cielo».

L’infinito come meta

Purtroppo, la storia terrena del giovane Carlo non dura a lungo. Ai primi di ottobre del 2006 si sente male. Inizialmente si pensa a una semplice febbre o influenza, ma il persistere dei sintomi e le successive analisi mediche portano a una diagnosi infausta: leucemia di tipo M3, incurabile.

Carlo viene ricoverato nell’Ospedale San
Gerardo di Monza. Nei giorni del suo ricovero, nonostante i forti dolori che lo affliggono, Carlo non si lamenta mai, anzi, alle infermiere che gli chiedono come sta, egli sempre risponde: «Bene, qui c’è gente che sta peggio di me». Conscio della sua prossima fine, fa la sua ultima offerta: «Offro al Signore le sofferenze che dovrò patire per il papa e per la Chiesa, per non dover andare in Purgatorio e per poter andare direttamente in Paradiso».

Carlo ama ripetere: «La nostra meta deve essere l’infinito, non il finito. L’infinito è la nostra patria. Da sempre siamo attesi in Cielo», e spesso dice anche: «Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie». Per marciare verso questa meta e non «morire come una fotocopia», Carlo dice che la nostra bussola deve essere la Parola di Dio, con cui dobbiamo confrontarci costantemente.

I suoi funerali sono una scoperta per gli stessi genitori: vi partecipano persone di ogni ceto sociale, soprattutto poveri, immigrati, bisognosi, ammalati, che raccontano un Carlo inedito. Egli è descritto come un giovane che si avvicinava a loro, li aiutava, li faceva sentire amati, ma il tutto nel nascondimento, senza farsi vedere neppure da sua madre. È un atteggiamento tipico dei santi. Chi ama Gesù nascosto nell’eucaristia non può non amarlo sofferente nell’umanità.

Sacramentini

La figura di Carlo Acutis non è legata a miracoli straordinari o atti di romanzesco eroismo. Egli è stato un giovane come tanti altri, tuttavia, nella sua normale giovinezza, ha saputo cogliere qualcosa che la maggior parte dei suoi coetanei ignorano del tutto: il potere e la grazia dell’eucaristia.

Nell’esperienza di Carlo ci sembra di ritrovare alcuni aspetti che il nostro beato fondatore ha vissuto e trasmesso ai suoi figli e figlie. L’Allamano ci esortava ad essere «sacramentini», ad avere un grande amore per l’eucarestia e a celebrarla con devozione e dignità, a identificarci con il Cristo nel suo mistero pasquale.

La recita giornaliera del santo rosario è per Carlo espressione di delicato amore per la santa Madre di Gesù, di cui il nostro fondatore era innamorato, presentandocela come nostra madre tenerissima, la Consolata.

I social al servizio del Vangelo

La passione di Carlo per il mondo della comunicazione è un altro aspetto che, quali missionari e missionarie, ci interpella da vicino. Siamo consapevoli del valore della comunicazione per la nostra famiglia religiosa, che ha come fine specifico l’annuncio del Vangelo ai non cristiani, e di come il mondo digitale possa offrire una grande opportunità di annuncio. In nostro padre fondatore fu un sacerdote convinto dell’importanza della comunicazione e fu aperto e attento ai mezzi del suo tempo. Non c’è dubbio che l’Allamano stimasse e sostenesse con convinzione il giornalismo cattolico.

Papa Francesco, nei suoi messaggi annuali in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, evidenzia in più modi l’importanza della rete come mezzo attraverso il quale il messaggio cristiano può raggiungere nuove frontiere: «Anche grazie alla rete il messaggio cristiano può viaggiare “fino ai confini della terra” (At 1, 8). Aprire le porte delle chiese significa anche aprirle nell’ambiente digitale, sia perché la gente entri, in qualunque condizione di vita essa si trovi, sia perché il Vangelo possa varcare le soglie del tempio e uscire incontro a tutti».

Chiediamo a Carlo di esserci vicino nel nostro cammino missionario e di intercedere presso Dio affinché gli occhi della nostra mente e del nostro cuore si aprano a riconoscere le vie della missione oggi.

padre Stefano Camerlengo e suor Simona Brambilla

 

 




Allamano. Quattro anni con don Bosco


Visitando recentemente i locali utilizzati da san Giovanni Bosco a Valdocco (Torino) all’inizio dell’opera salesiana, mi sono interrogato sull’impronta che il santo educatore dei giovani può aver lasciato sul nostro Giuseppe Allamano che trascorse ben quattro anni nell’Oratorio salesiano (1862-1866). Erano gli anni della giovinezza dell’Allamano,  il quale, infatti, per tutta la vita avrebbe ricordato il tempo trascorso vicino a don Bosco.

creazione digitale

Lo stile educativo di don Bosco si basava fondamentalmente su tre capisaldi: «Ragione, religione, amorevolezza». Per «ragione» egli intendeva la formazione umana e civile dei giovani, tesa a prepararli ad affrontare il futuro come cittadini responsabili. «Religione» significava formazione religiosa, senza forzature, impartita con nozioni di catechesi e soprattutto con l’esempio di vita dei formatori. L’«amorevolezza» era da lui considerata l’elemento caratteristico che doveva accompagnare ogni aspetto della formazione dei giovani. Vicinanza e accompagnamento paterno e affabile nei riguardi dei giovani – asseriva – servono più di ogni altra componente formativa.

Questi tre aspetti sono diventati, a mio parere, parte irrinunciabile del bagaglio personale dell’Allamano, tanto da essere poi da lui utilizzati sia con i sacerdoti del Convitto che con i membri dei suoi due istituti missionari. Egli esortava i suoi giovani missionari non solo allo studio serio ma anche all’esercizio del lavoro manuale. Scriveva a quelli che già lavoravano in territori di missione: «Nelle località in cui sia possibile iniziare a promuovere colture di prodotti necessari od utili al proprio sostentamento, i missionari si adoperino a darvi sviluppo. Il che sarà pure una buona scuola per far apprezzare agli indigeni i benefici di una vita laboriosa e stabile».

Il beato Allamano visse tutta la sua vita nell’impegno senza riserve per diventare santo e ai suoi missionari amava ripetere sovente: «Prima santi poi missionari». Ciò che lui viveva lo volle instillare nei suoi figli e figlie. Diceva loro: «Condizione assolutamente necessaria per tutti e in ogni tempo, è il desiderio, la volontà di santificarsi. Si fa santo colui che lo vuole. Questo si richiede: avere fame e sete della santità».

Ciò che tutti hanno sempre ammirato nell’Allamano era, infine, la sua dolcezza e amorevolezza. Se egli era fermo nei principi, era umanissimo nell’applicarli agli altri. Il forte senso di
paternità ne era il segreto. Il prossimo, prima di essere considerato un individuo da istruire o correggere, doveva essere amato. Verso tutti, soprattutto i giovani, si sentiva veramente un «padre».

padre Piero Trabucco

Missionari presenti all’incontro di Murang’a nel 1905 – AfMC/Filippo Perlo


Murang’a 2

Dal 13 al 16 giugno 2022 si è svolto online il Convegno internazionale della famiglia Consolata «Murang’a 2», un evento per fare memoria della «Conferenza di Murang’a»: la missione del Kenya dove dal primo al tre marzo 1904, i primi missionari della Consolata, pieni di problemi all’inizio della loro esperienza in una terra sconosciuta, avevano deciso di fermarsi a pensare, a pregare, a preparare il futuro (vedi il dossier «Il sogno concreto» in MC 10/2022).

Un sogno realizzato

La Conferenza di Murang’a rappresenta una pietra miliare nella storia degli istituti dei missionari e missionarie della Consolata, in quanto ha elaborato una metodologia che costituisce le basi dello «stile consolatino» fondato sulla promozione umana e l’evangelizzazione, caratterizzato dalla formazione ed educazione tramite le scuole, il catechismo, i catechisti; sulla cura delle persone con i dispensari e gli ambulatori; sull’incontro interpersonale con la visita ai villaggi, lo studio delle lingue locali, la vicinanza ai popoli e alle persone, la formazione all’ambiente.

Murang’a 2 ha visto la partecipazione di 656 persone tra missionari, missionarie e laici della Consolata, e si è svolto nello spazio di quattro giornate imperniate ciascuna su una parola chiave: comunione, carisma, missione e sogno.

Come superiore generale, nel tirare le conclusioni di quel convegno, ne ho parlato come di «un sogno realizzato» che ci aiuta a riscoprire, quasi a reinventare, il carisma della vita consacrata rispondendo più direttamente ai bisogni e alle aspirazioni del nostro tempo pur restando fedeli al carisma del padre Fondatore.

Alla scuola di Allamano

I primi allievi e allieve, discepoli e discepole di Giuseppe Allamano videro sempre risplendere «un alone di santità» o di straordinarietà attorno alla sua figura e ai suoi gesti, anche minimi. Sentendosi amati e amate, «coccolati e coccolate» da lui, si diedero da fare per conservare tutto di lui (anche i capelli e i bottoni della sua veste), soprattutto il suo insegnamento, le sue calde raccomandazioni, lettere o bigliettini che volentieri scriveva a molti e a molte di loro.

Più passa il tempo, più Allamano cresce. Più si scava in profondità, più lo si ritrova ingigantito e presente. Questo prete, defunto da quasi un secolo, affascina e stimola ancora. Per noi, missionari e missionarie della Consolata «fa ancora notizia», non commemorazione, non rievocazione: fa ancora scuola. È lui, anche oggi, la novità, la spiegazione, l’attrattiva. Si va da lui non per visitare un monumento, ma per frequentare una persona viva, per ascoltare «un silenzioso che ha qualcosa da dire» (come lo ha definito suor Gian Paola Mina). Per riscoprire, ogni volta che ne sentiamo il bisogno, qual è la nostra vocazione, il nostro posto nella Chiesa, la nostra presenza nel mondo.

Tre perle

Desidero mettere in evidenza tre perle, tra le tante, dell’insegnamento di Allamano che possono orientare ancora:

  1. «Fare bene il bene»: ossia, ricerca della qualità della vita. La qualità della vita viene indicata da Allamano, come «principio ispiratore» della nostra vita e missione. È soprattutto la qualità nell’essere e nel fare missione che vorremmo assumere come principio ispiratore del nostro futuro.
  2. «Nella discrezione e semplicità»: la vita più che le parole del beato Fondatore ci insegna uno stile fatto di discrezione, semplicità e garbo. Sono atteggiamenti che nascono spontanei nella persona che si dona senza mirare a diventare centro d’attenzione, che punta a essere efficace nella sua azione senza giocare il ruolo di protagonista, che è semplice, accogliente dell’altro, aperta alla dimensione comunitaria.
    Esprime questo stile allamaniano il missionario, la missionaria che ha la coscienza di essere servo e serva, che sa ritirarsi nel tempo opportuno senza pretese, che propone ma non impone, che conosce il valore della gratuità. Basta ricordare quanto di lui disse il giornale «Il Momento» il giorno dopo la sua morte: «Non era l’uomo dell’ostentazione. Non era l’uomo eloquente. Era l’uomo del silenzio operoso. Noi crediamo che la caratteristica di tutta la sua vita sia stata questa».
  1. «L’amore alla gente»: «L’Allamano ebbe a cuore la gente, non tanto le idee. E credo che se tornasse per indicarci qual è la prima cosa che dobbiamo fare, continuerebbe a dirci: “Abbiate cura della gente; abbiate a cuore la gente. Beato te perché, quando verrai a visitarci per presentarci la santità di Dio, ci dirai ancora una volta che la prima cosa che dobbiamo fare è avere tanta tenerezza verso tutti quelli che incontriamo”» (don Dario Berruto, rettore del santuario della Consolata).

Ispirati a Murang’a

Siamo eredi di un passato, responsabili di un presente, costruttori di un futuro dalla nostra povertà. Solidali con i nostri popoli e tra noi, dobbiamo cercare di seguire il passo del Signore nel nostro oggi, qui e ora.

Il nostro metodo missionario è caratterizzato da vicinanza, incontro, dialogo e accompagnamento. La missione con i poveri aiuta a superare i rischi dell’autoreferenzialità, senza mai dimenticare che la missione nasce dall’incontro con Cristo. Il missionario, la missionaria, prima di tutto deve essere audace e creativo, al punto da ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi della missione, perché è necessario ripensare tutto alla luce di ciò che esige lo Spirito.

In questo sforzo per rispondere al Signore, contempliamo Maria, missionaria dei cammini di Dio nella storia, «Vergine magnanima del Magnificat», stella dell’evangelizzazione rinnovata. Ella è per noi modello di autentica missione.

padre Stefano Camerlengo

Gruppo di missionari e missionarie dopo la celebrazione della messa presieduta da padre Stefano Camerlengo nella festa della Consolata 2022 – AfMC/Gigi Anataloni

 


La carità nella verità

La vita e il genio di Giuseppe Allamano si esprimono in uno zelo ardente per vivere la verità di Cristo e promuoverne la presenza nelle persone, nelle culture, nella società e in ogni aspetto della vita quotidiana.

 Nella vita della Chiesa occupa un posto di rilievo la storia delle varie spiritualità che sono come dei «tesori viventi» lasciati da individui arricchiti da Dio con un dono sacro e speciale di intuizione e di convinzione.

Papa Benedetto XVI, nell’enciclica «Caritas in veritate», ha affermato che verità e carità in Gesù «si rendono reciprocamente testimonianza, perché l’una non può stare senza l’altra». Anche Allamano si era già avventurato in un’appassionata ricerca per penetrare il significato di questa relazione in ogni aspetto della vita individuale e sociale. Un profondo e incondizionato amore per la verità è divenuto come l’ancora o il fondamento della sua spiritualità. Ne sono prova le sue parole ai missionari quando ha consegnato loro le prime Costituzioni dell’istituto nel 1923: «Ricevetele, o carissimi, non come dalla mia mano, ma dalla mano del Signore e della SS. Consolata che a questo istituto vi chiamarono, con vivo spirito di fede. Questo vi posso assicurare, che ogni singola regola, e non dubito di dire ogni singola parola, fu oggetto di serio studio, di lunghe considerazioni, specialmente di molte preghiere».

Vivere la carità nella verità è saggezza

La spiritualità allamaniana è l’antitesi della mentalità del «ghetto»: essa è fatta di sorgenti e ponti, non di muri e steccati. Allamano si deliziava a invogliare i suoi missionari a contemplare il vero, a dialogare con la gente, a capire la realtà locale con le sue culture. Uno dei suoi slogan era: «Ci vuole fuoco per essere apostoli». Sicuramente intendeva un fuoco nel dialogo con l’altro, che non sia un semplice scambio di vedute, ma una ricerca appassionata della verità.

In più Allamano era convinto che la ricerca intelligente della verità, quando non è fine a se stessa o sterile soddisfazione intellettuale, si orienta necessariamente alla missione, che ha come parte integrante la formazione e promozione umana degli individui e, di conseguenza, l’autentico progresso della società.

La spiritualità nella «pubblica piazza»

Per evangelizzare le persone nella «pubblica piazza», cioè nella società, ci vuole il vero fuoco missionario, non tiepidezze o mezze verità. Oggi, il secolarismo pervade la maggior parte delle società. Esso respinge la scuola di Dio, pone il Creatore fuori gioco, mettendo al centro la creatura.

Conoscendo lo spirito di Allamano, ecco quale sarebbe la sua denuncia al riguardo: distaccata dalla verità di Cristo, la persona afferra solo mezze verità, opinioni parziali e pregiudizi travestiti da dichiarazioni importanti e imperativi categorici. Così la sua condotta scivola nel compromesso permanente, che ottunde lo spirito. Gradualmente l’autentica libertà umana, che deriva dall’amore alla verità, si riduce a «scelte» parziali compiute in modo indiscriminato, quasi obbligatorie perché in voga, subito sostituite da altre nell’insaziabile ricerca di novità.

In questa mentalità secolarizzata Allamano ci invita ad aderire con tutte le nostre forze a ciò che è vero e buono. «Tutto faccio per il Vangelo» (1 Cor 9,23), e Allamano aggiungeva: «Tutto, tutto! Mi spenderò e mi sacrificherò». E continuava: «Non poniamo riserve o indugi nella dedizione di noi stessi per la salvezza delle anime… Ah, non sarà mai missionario chi non arde di questo fuoco divino!».

Fare il bene bene

Come possiamo realizzare la verità unita all’amore, che si rivela essere il fondamento indispensabile per il bene di ogni famiglia e di ogni comunità? Come ridare speranza alla società perché raggiunga il suo fine?

Allamano ci può aiutare anche in questo. La sua robusta spiritualità lo ha aiutato a dare risposte a queste domande. Egli ha cercato per prima cosa la coerenza e l’integrità della propria persona attraverso ciò che definisce «la necessità della scienza», intesa come continua ricerca della verità su Dio e sull’uomo. Ha così raggiunto una grande maturità, che lo ha reso idoneo a diventare l’uomo dell’amore verso gli altri, cioè l’uomo dell’aiuto e del consiglio.

Allamano ha proposto lo stesso suo percorso anche ai suoi figli: «Essendo voi missionari, la vostra scienza è molto più ampia: dovete attendere principalmente agli studi sacri e secondariamente allo studio ed esercizio dei lavori manuali, e poi del catechismo, delle lingue e di quelle nozioni che possono aiutarvi a fare in missione maggior bene».

Quando parlava di studio, Allamano non intendeva solo un’attività intellettuale, ma un impegno di ricerca e quindi di formazione progressiva e continua, che non fosse fine a se stessa, ma in funzione del servizio del prossimo.

La vera scienza porta a Dio e all’uomo in armonia con la natura. In questa prospettiva si comprende l’importanza che l’Allamano dava anche al lavoro manuale. Educarsi alla comprensione di ciò che costituisce il vero essere spirituale e morale di ognuno entra in quell’impegno che Allamano spiegava con l’espressione «fare il bene bene», in base al quale, mentre si conosce il valore immutabile di ogni persona, la si ama in modo concreto.

Questa intuizione è di grande attualità. Infatti, oggi la questione della verità della persona umana, della sua natura e dignità, si è come eclissata; diverse espressioni dell’amore umano appaiono banali e persino distorte. Al contrario Allamano insegna che l’amore, se si illumina con la fede e la verità, conduce l’uomo a un fine «alto», che garantisce una felicità duratura e indirizza alla società, che nella sua espressione più elevata diventa missione «ad gentes».

Thomas Ishengoma

 

 

 




Castelnuovo Don Bosco


Nella piazza centrale di questo industrioso paese della provincia di Asti, fa bella mostra di sé un’insegna con la scritta: «Benvenuti a Castelnuovo Don Bosco, terra dei santi e del vino». Accostare «santità» e «vino» non appare agli abitanti del paese una dissacrazione. A parte il fatto che Gesù stesso ha fatto uso del vino per darci il più grande regalo che è l’Eucaristia, la coltivazione della vite e l’industria del vino fanno veramente parte della vita della gente e anche dell’infanzia dei loro quattro santi.

Il capostipite dei santi castelnovesi fu san Giuseppe Cafasso che, nel corso del XIX secolo, infuse ad una schiera di sacerdoti della diocesi di Torino la sua spiritualità seria e misericordiosa, favorita da un’attenta relazione con Dio e allo stesso tempo aperta alla carità verso il prossimo, soprattutto ai poveri e agli ultimi. Non per nulla essi vennero chiamati «Santi sociali».
Don Giovanni Bosco fu l’allievo più celebre di san Giuseppe Cafasso, mentre il beato Giuseppe Allamano, nipote di sangue, seppe ereditare in maniera esemplare lo stile di vita e di santità dello zio.

Fin da secoli lontani, l’industria del vino è sempre stata caratteristica di Castelnuovo che, grazie alla sua posizione geografica, si presenta ricca di vigneti che producono principalmente il Malvasia e il Freisa d’Asti. Le sue varie frazioni sorgono infatti su assolate colline, molto favorevoli alla coltivazione di questi vitigni. Introducendo un suo scritto inedito sulla vita del santo zio Giuseppe Cafasso, Giuseppe Allamano così amava descrivere in maniera un po’ poetica il paese nativo: «A dieci miglia circa da Torino, per quella parte che volge a oriente, posa sull’estremo declivio di lunga collina a destra ed a sinistra circondata da ridenti colli ricchi di vigneti che gli fanno nobile corona, con davanti verdeggiante e deliziosa pianura, Castelnuovo d’Asti, paese assai considerevole pel numero dei suoi abitanti e piccolo centro di commercio e di comodità pei molti paeselli che gli stanno vicino».

Giuseppe Allamano non ha mai lavorato nelle vigne, dato che all’età di 10 anni ha lasciato Castelnuovo per Torino per continuare i suoi studi nel Convitto di Don Bosco. Tuttavia i ricordi dei lavori della sua gente sono sempre stati vivi e presenti nella sua mente e hanno plasmato in qualche modo anche il suo carattere e personalità. Per lui la vita dei contadini tra le vigne di Castelnuovo si identificava con laboriosità, lavoro duro e diuturno, e propensione al servizio. Tali caratteristiche avrebbe trasmesso con insistenza ai suoi missionari e missionarie. Diceva loro: «Un missionario che non sappia e non abbia voglia di lavorare, non è un vero missionario». Era sua convinzione che il lavoro rende solidali con le persone umili e attenti ai bisogni dei poveri.

padre Piero Trabucco


La passione di dio

«Abbiate gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo» (Fil 2,5): l’esortazione di san Paolo ai Filippesi si addice bene all’identità del beato Allamano che, come profeta, ha saputo condividere la «passione» di Dio per l’umanità.

Passione e compassione

Sono molti i testi biblici che ci mostrano come Dio provi affetti ed emozioni, partecipi alle vicende umane ed entri nelle peripezie della storia: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (Es 3,7). È un Dio al cui essere appartiene il «pathos». Egli soffre e sperimenta sentimenti, commozioni, passioni. Dio esprime questo suo essere coinvolgendosi nella storia umana, perché la vera passione è «com-passione», assunzione di responsabilità. È così che la passione di Dio per l’umanità porta all’Incarnazione. Gesù Cristo è risposta d’amore e passione per ogni uomo e ogni donna.

I profeti hanno avuto una comprensione di Dio non teorica, ma reale, fino al punto di lasciarsi coinvolgere totalmente nella sua passione per l’umanità, come Geremia: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre. Mi dicevo: non penserò più a Lui, non parlerò più in Suo nome. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente» (Ger 20,7.9). Così il profeta è l’uomo che, in comunicazione con Dio, si identifica con il suo amore per l’umanità, in una partecipazione «appassionata» e «responsabile» agli eventi.

Una vita nella luce del profetismo

L’Allamano è profeta perché è in comunicazione permanente con Dio e da Lui si lascia coinvolgere profondamente. Vive per compiere la sua volontà, come afferma: «Credetemi, c’è niente di più consolante e tranquillo che aver fatto la volontà di Dio».

In forme diverse la Parola di Dio è rivolta all’Allamano, per portarlo alla coscienza di una personale esperienza di Cristo «Missionario del Padre» che è mandato e che manda.

In questa comunicazione, il nostro fondatore viene coinvolto «empaticamente», vale a dire in modo da condividere i sentimenti e la passione di Dio, in un certo senso la sua «sofferenza», per il suo popolo. Alla domanda: «Come dobbiamo amare Dio?», l’Allamano risponde: «Con tutta l’anima. La volontà la diamo tutta a Dio, non volendo che ciò che egli vuole e come lo vuole».

Profeta in ogni attività sociale e apostolica

L’Allamano è attento alle necessità del suo tempo e partecipa alla «passione» di Dio nelle molteplici attività in favore della promozione umana, ispirato dalla celebre enciclica «Rerum Novarum» del papa Leone XIII. Così, attorno al santuario sorgono alcune associazioni che, nella loro denominazione sociale, portano il nome della Consolata, quali: «Pia unione della Consolata fra le operaie-Tabacchi»; «Pia unione della Consolata fra le tessitrici»; «Pia Unione della Consolata fra le operaie del cotonificio Poma»; «Laboratorio della Consolata», per la preparazione professionale e morale di innumerevoli lavoratrici e dirigenti. Inoltre, l’Allamano incoraggia la stampa cattolica, in un momento in cui pochi vi credono, offrendo appoggio morale e aiuti finanziari.

Un altro impulso profetico dell’Allamano lo troviamo nel suo interesse, oltre che per la formazione spirituale e apostolica, anche per quella sociale del clero, che lo porta ad organizzare, nel Convitto Ecclesiastico, corsi di sociologia teorica, diritto finanziario, sociologia pratica. Il periodico «Difesa e Azione» così descrive questa ispirazione: «Possiamo annunziare con viva soddisfazione che il Rev. Can. Allamano, il quale ha sempre avuto un’intuizione precisa dei bisogni dei tempi, intende che il corso di sociologia abbia a formare parte integrante dell’insegnamento del Convitto». Questi corsi hanno la motivazione di fare comprendere ai giovani sacerdoti i grandi movimenti politici, sociali e religiosi del momento, per non rimanere tagliati fuori dai problemi più importanti della diocesi e del mondo.

L’ispirazione profetica più significativa

Gli istituti missionari dell’Allamano costituiscono l’ispirazione profetica più significativa, o meglio, il punto di arrivo di tutte le altre attività che realizza, non tanto come una serie di piccoli progetti, ma come provvidenziale preparazione alla fondazione stessa.

L’ispirazione fondamentale di dare vita agli istituti missionari per l’Allamano non proviene da un’esperienza mistica, o da un’improvvisa illuminazione interiore, ma è frutto della sua capacità di leggere e comprendere le necessità apostoliche del suo tempo (situazione storica sociale e religiosa; persone, avvenimenti, ecc.), e soprattutto della comunione con Dio, centro della sua vita.

L’Allamano è uomo di grande fede e molto realismo. Per esempio, in riferimento alla sua guarigione da molti ritenuta prodigiosa, secondo la testimonianza di padre Lorenzo Sales, l’Allamano confida con semplicità: «Non c’è da pensare che vi siano state rivelazioni; né le cerco né le desidero. Quando ero presso a morire feci promessa, se fossi guarito, di fondare l’Istituto. Guarii e si fece la fondazione. Ecco tutto».

L’Allamano ha le idee chiare ed è convinto che l’opera è di Dio e che è Lui a portarla avanti: «Ecco, questa casa l’ha posseduta fin dal principio Nostro Signore ed è proprio sua, come un campo è del suo proprietario; quindi, non dite goffaggini col dire che il tale o il tal altro l’ha fondata, no, no, è la
Madonna che la fondò, ed il principio è venuto da Nostro Signore».

Figli e figlie dell’Allamano, con gioia continuiamo a contemplare il nostro padre fondatore come «profeta-voce di Dio» che ci invita a condividere con lui la «passione-amore» di Dio in favore di tutta l’umanità.

suor Luz Mery Restrepo González


UMILI, ULTIMI, EUCARISTICI

Domenica 28 agosto, nella casa generalizia delle missionarie della Consolata, le due famiglie fondate da Giuseppe Allamano si sono riunite attorno a mons. Giorgio Marengo, prefetto  postolico di Ulaanbaatar, Mongolia, creato cardinale da papa Francesco nel Concistoro del giorno precedente.

Nella sua riflessione, il neo cardinale, illuminato dalle letture della 22ª domenica del tempo ordinario (ciclo C), ha ricordato aspetti che appartengono all’insegnamento del fondatore, alla tradizione dell’istituto e sono una chiara indicazione su come essere cardinale missionario.

Che avrebbe potuto dire il nostro fondatore se avesse visto un suo figlio, missionario della Consolata, diventare cardinale? La Parola di Dio di questa domenica può rispondere a questa domanda e ci propone tre criteri che non sono affatto lontani dalla spiritualità di Giuseppe Allamano e che devono essere presenti nella vita del cardinale missionario della Consolata.

La prima lettura tratta dal libro del Siracide, parla in modo eloquente dell’umiltà. «Quanto più sei grande, tanto più fatti umi-le perché ai miti Dio rivela i suoi segreti» (cf. Sir 3,18-19); in cambio la condizione dei superbi è descritta come misera. Gesù ha preso l’ultimo posto e, come dice san Paolo, se vogliamo vantarci, dovremmo farlo perché lui ci ha chiamati, e non per altri motivi.

Anche il Vangelo tocca lo stesso argomento quando dice che i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi sono i primi invitati al banchetto del Regno (cf. Lc 14,13), e noi siamo quei poveri che sono i privilegiati del Vangelo. L’umiltà quindi, non può mancare nella vita del missionario della Consolata e nemmeno in quella del cardinale missionario della Consolata.

La seconda lettura, una bellissima pagina tratta dalla Lettera agli Ebrei, la voglio leggere in chiave eucaristica perché ci manifesta un aspetto molto tipico della vita del missionario e missionaria della Consolata. L’autore di questo scritto dice che «Non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità» (Eb 12,18), quelle sono manifestazioni potenti e misteriose del Dio dell’Antico Testamento, ma «vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente… a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova» (cf. Eb 12,22-24). Non dimentichiamo che quando ci avviciniamo all’Eucaristia ci stiamo avvicinando a Gesù in persona. Quello che i nostri occhi vedono sono i segni umili e poveri del pane e del vino nel quale Gesù si fa realmente presente alla nostra vita quotidiana. Lui lo fa rispettando fino a tal punto la nostra libertà che in quei segni diventa piccolo e quasi invisibile.

Giuseppe Allamano tutto questo l’aveva nel cuore: l’Eucaristia è il fine della missione, perché come meta abbiamo la costruzione di una comunità convocata attorno alla Cena del Signore, ma è anche il principio perché nell’Eucaristia trova la sua origine la missione come testimonianza, carità e giustizia.

Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero eucaristici perché dall’Eucaristia nasce il servizio verso i più poveri e l’annuncio del Vangelo nei tanti contesti nei quali siamo chiamati a evangelizzare. Anche questo è un criterio valido per il cardinale missionario della Consolata.

Il Vangelo di Luca forse non ha bisogno di spiegazioni perché stabilisce in modo lampante la logica che lo sottende: i nostri posti sono gli ultimi e non i primi. «Non metterti al primo posto, ma vai a metterti all’ultimo perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (cf. Lc 14,8-11). La logica del Vangelo, che è molto diversa da quella del mondo, si vive stando nell’ultimo posto e non nel primo. E questo vale per tutti noi missionari della Consolata, anche per il cardinale.

Il Signore conclude la pericope con questa frase: «(Al tuo banchetto) invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (Lc 14,13-14). Spesso nella vita finiamo sempre per fare qualche calcolo del tipo: «Se sono una persona buona e onesta ho diritto almeno a qualcosa… se faccio un gesto di carità mi dovranno almeno dire grazie».

Un famoso poeta mongolo, morto non molti anni fa, Dashbalbar, scrisse questo verso in una poesia titolata «Sii come il cielo»: «Qualunque cosa ti succeda, sia che ti applaudano o ti insultino, tu sii amplio come il cielo».

Nella nostra vita missionaria ciò che domina non è il calcolo ma la gratuità, uno dei segni più coerenti con la logica del Vangelo dove tutti siamo figli dello stesso Padre «che fa sorgere il suo sole su cattivi e buoni, e fa piovere su giusti e ingiusti» (cf. Mt 4,45).

Gli esempi di chi vive secondo la logica del Vangelo li abbiamo a casa nostra, nei nostri santi: il beato Giuseppe Allamano e le beate Irene Stefani e Leonella Sgorbati. Nei diari di Leonella si riporta una frase che dice: «… ma quando potrò fare un gesto di gratuità pulito, senza attendere niente in cambio?». Lo Spirito l’ha plasmata e alla fine è stata così somigliante al Cristo da versare il suo sangue mescolandolo anche con quello delle sue guardie del corpo che erano di fede mussulmana; morendo ha detto tre volte «perdono».

Nella tradizione orientale i santi sono chiamati «i somigliantissimi» perché assomigliano in tutto e per tutto a Gesù. La vocazione missionaria ci mette nella condizione degli apostoli e ci porta dove il Vangelo non è ancora conosciuto. Là, dobbiamo essere una chiesa umile, eucaristica, ultima fra gli ultimi e costruita secondo la logica del Vangelo. Dobbiamo essere «somigliantissimi»; santi come diceva il fondatore.

Giorgio cardinal Marengo

 




Giacomo Camisassa 100


La beatitudine di essere secondo

Con la Madonna e la missione nel cuore

Braccio destro del beato Giuseppe Allamano per 42 anni, Giacomo Camisassa è stato un uomo e un prete schivo che non amava far parlare di sé, ma che ha lasciato un segno unico e irripetibile nella Chiesa torinese e nella vita dei Missionari e Missionarie della Consolata. Nato il 26 settembre 1854, quest’anno ricorrono i cento anni dalla sua morte, avvenuta il 18 agosto 1922.

Giacomo Camisassa in Kenya con missionari e suore Vincenzine

ll 18 agosto 2022 ricorre il centenario della morte del canonico Giacomo Camisassa, confondatore dei nostri due Istituti missionari, fraterno amico e strettissimo collaboratore del fondatore Giuseppe Allamano, il quale ben difficilmente avrebbe messo mano all’opera della fondazione senza di lui.

Desideriamo riscoprire la figura di questo vero uomo di Dio, tutto dedito al Regno, alla Chiesa, alla Missione, ai nostri Istituti, capace di vivere «la beatitudine di essere secondo» coltivando un’amicizia profondissima, intensa, fedele, rispettosa con l’Allamano che egli considerava «padre».

Tra l’Allamano e il Camisassa ci fu un’intesa straordinaria, che portò a una stretta collaborazione che si rivelò un dono particolare di Dio, proprio in vista di quanto avrebbero realizzato assieme.

Il segreto della loro profonda amicizia ci pare che si possa trovare nella loro spiritualità. L’Allamano ricevette da Dio la vocazione di fondare i due Istituti missionari. Il Camisassa ricevette la vocazione di essere il collaboratore indispensabile nella realizzazione della missione dell’Allamano. Non è fuori posto pensare che, senza l’apporto continuo e attento del Camisassa, l’Allamano non avrebbe realizzato quanto invece portò a termine in tutte le sue iniziative. Il ruolo specifico del Camisassa non consistette solo nella stima e nel rispetto verso l’Allamano, ma anche nella capacità di capirlo, di interpretare le sue idee e di collaborare stando sempre al proprio posto. Non ci furono momenti nei quali il Camisassa volle sostituirsi all’Allamano, mai.

Tra il Camisassa e l’Allamano la fiducia era totale. Si comunicavano idee, sentimenti, intuizioni, impressioni, informazioni, situazioni e notizie, anche sul personale, sicuri della reciproca confidenzialità.

L’Allamano ebbe l’abilità di scegliersi un collaboratore che lo completasse. Aveva potuto conoscere le qualità del Camisassa durante il periodo del seminario, trovandolo adatto e affine, pur nella diversità.

Durante i 42 anni di convivenza al Santuario della Consolata, il Camisassa fu sempre il «Vicerettore» ed economo. Giuseppe Allamano, il Rettore, l’aveva richiesto come «coadiutore» e tale il Camisassa rimase per tutta la vita. Un binomio inossidabile ed esemplare di vita e di apostolato, che niente riuscì a spezzare, nemmeno le varie proposte di promozioni a incarichi più autorevoli, quali l’episcopato in diocesi piemontesi.

La profonda sintonia tra il Camisassa e l’Allamano maturò nella continua ricerca del dialogo, cibo quotidiano per sostenere i loro molteplici impegni apostolici e per crescere nella mutua comunione.

Il Camisassa non aveva segreti per l’Allamano.

L’Allamano e il Camisassa si erano impegnati a «dirsi sempre la verità», e lo fecero. Un mezzo che avevano appreso dagli anni del Seminario e che non tralasciarono mai era la cosiddetta «correzione fraterna».

Cento anni dopo la morte del Camisassa, siamo qui a commemorare la sua straordinaria figura di uomo di Dio, uomo di comunione, uomo di acuta intelligenza e profondissima umiltà, uomo di alacre operosità e intensa vita interiore, che ebbe una parte essenziale e insostituibile nella nascita e sviluppo dei nostri Istituti. In comunione,

suor Simona Brambilla
 e padre Stefano Camerlengo

(Testo adattato e ridotto dalla lettera dell’8 dicembre 2021, Anno del Camisassa nel centenario della sua morte, dei due superiori generali ai Missionari e Missionarie della Consolata e loro amici e benefattori)

12/11/1916. Visita del cardinal Giovanni Cagliero – nel mezzo tra l’Allamano e il  Camisassa – alla Casa Madre dei Missionari in Torino.


«Non dimenticate quest’uomo!»

Giacomo Camisassa, il gregario ideale

Ricordare una persona, nel senso etimologico, è «riportarla al cuore», ravvivandone una riconoscente memoria. Giacomo Camisassa, sacerdote di Torino, fu un uomo di Dio, lavoratore instancabile e umile, con grandi capacità di relazione. La sua amicizia con il beato Giuseppe Allamano segnò la vita di entrambi e dei due istituti missionari di cui fu confondatore.

«Non potremmo certo dimenticarlo e dimenticare il bene che fece per l’Istituto, per il quale tutto si sacrificò fino all’ultimo respiro della sua preziosa e santa vita» (Beato G. Allamano, lettera circolare ai Missionari, 20 giugno 1923).

Personalità armoniosa

Prima foto di Giacomo Camisassa. Risale al 1884.

Prima di raccontare la vita del Camisassa e il bene da lui realizzato, è utile riflettere sul fatto che la sua fu una personalità armonica e armoniosa, nella quale maturità, responsabilità, equilibrio e stabilità si seppero intrecciare mirabilmente. Le numerose doti, le molteplici attività intraprese, la grande capacità di relazioni, la vita cristiana vissuta in modo missionario e lo spirito di fede per essere in sintonia con il progetto di Dio su di lui, si fusero in una grande unità e caratterizzarono la solidità della sua personalità.

Per essere veramente ben compreso, ogni atto della sua vita va letto alla luce della totalità della sua esistenza. Che egli fosse un «lavoratore» indefesso e geniale tutti l’ammettono facilmente. Anzi, monsignor Gaudenzio Barlassina, allora vescovo della Prefettura apostolica del Kaffa in Etiopia, commemorandolo nel primo anniversario della morte, mise in guardia coloro che del Camisassa coglievano soltanto questa dimensione: «Quelli che lo guardano con un occhio solo, non vedono in lui che una meravigliosa operosità. Ma noi, che abbiamo avuto agio di rimirarlo con due, abbiamo potuto scorgere e contemplare la sua eccelsa virtuosità, non inferiore alla capacità tecnica, alla sua costante attività».

Uomo concreto

Il canonico Camisassa, di costituzione robusta e tendente all’obesità, fornito di rara intelligenza e di ferma volontà, era un uomo eminentemente pratico e sempre in moto. Fu un artista della tecnica e dell’esecuzione delle opere materiali.
Architetti, ingegneri, pittori, decoratori, marmisti, muratori, ditte industriali, impresari, appaltatori, notai, ragionieri, avvocati, professionisti in genere, trovavano in lui l’esperto.

Con facilità e sveltezza abbozzava prospetti, stendeva relazioni, redigeva progetti, scriveva articoli, faceva bilanci, saldava parcelle, rivedeva conti, calcolava l’ampiezza di un locale e le sue giuste proporzioni in comodità, estetica, igiene, solidità, economia. Esaminava il materiale da impiegarsi, la portata della tubatura dell’acqua e della conduttura del gas, il telaio di una finestra, la serratura di una porta, la qualità di una stoffa, la foggia di un vestito, l’arredamento di una camera, l’imballaggio di una cassa. Le sue erano giornate piene, costruttive, in cui non si perdeva tempo e si verificavano pochi sbagli.

«L’Allamano aveva in grande stima il canonico Camisassa e un alto concetto delle sue virtù e dei talenti di lui. Lo trattava paternamente con modi rispettosi e squisitamente educati; aveva riposta in lui la sua piena fiducia e colla massima tranquillità attendeva da lui ogni più valido aiuto; di lui si serviva come Iddio deve servirsi degli Angeli, come la Madonna a Nazareth, per le proprie faccende doveva servirsi di Gesù adolescente» (Tommaso Gays, 16 febbraio 1942, 16° anniversario della morte del veneratissimo Padre Fondatore).

Uomo di Dio

Era un uomo di fede perché tutto compiva sotto gli occhi di Dio e nulla altro temeva. Era questo il segreto della sua inalterabile calma, anche in mezzo alle contraddizioni e alle prove.

Il denaro per lui fu sempre e unicamente il mezzo per procurare la maggior gloria di Dio. Visse e morì povero. La prebenda canonicale (Prebenda: una specie di rendita che gli era dovuta per il suo ruolo di canonico della diocesi di Torino, ndr), quando l’ebbe dal 1892, la donò sempre per il bene dei missionari e per i restauri del santuario. Avrebbe potuto esser ricco, invece visse poveramente.

«Era assolutamente schivo dagli onori che evitava. Era alieno da qualunque parata e con studio spontaneo si eclissava ovunque vi fosse da fare bella figura» (padre Borda Bossana – Testi citati nella lettera dei superiori generali dell’8 dicembre 202).

Era cortese, affabile e, «a tavola era molto parco nel cibo; durante il pasto non beveva mai, solo in fine beveva un bicchiere di vino, diceva, per digerire». «In contrario al suo aspetto serio e chiuso, quando alcuno aveva occasione di parlargli, allora egli manifestava la grande bontà del suo cuore», perché «in lui batteva un cuore sempre pronto alle necessità altrui, anzi a niuno secondo per finezza di discernimento delle miserie della povera umanità» (da testimonianze di vari confratelli).

Gentile e cortese con i sani, lo era maggiormente con gli infermi. «Quando alcuno della casa era malato se ne interessava tosto, riferiva al Rettore e disponeva per tutto quanto occorreva con larghezza di cuore. Ammirai in lui delicatezza e cuore. Aveva proprio un cuore di padre; per rimettermi bene in salute mi aveva procurato un liquore da prendersi giornalmente a bicchierini, che mi fece tanto bene; infatti, poco dopo ripartivo per l’Africa» (fratel Anselmo Jantet).

Chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno fondamentale e unico della sua vita e del suo sacerdozio.

Coloro che volessero vedere nel canonico Camisassa puramente l’uomo dell’azione esteriore, sbaglierebbero. Fu uomo di azione senza dubbio, ma soprattutto un sacerdote.

Tenera e sentita fu la sua devozione a Maria: «Mi abbandono tra le braccia di Dio ed in quelle di Maria». Viene spontanea la conclusione che è di tutti quelli che l’hanno conosciuto: la sua attività fu manifestazione del suo zelo e della sua pietà, prova ed effetto della sua santità.

Il certificato di battesimo di Camisassa Giacomo Francesco. Secondo questo certificato il battesimo fu fatto il 27 settembre 1954 alle ore 7 di mattina e la nascita avvenne alle ore 11 di notte del 26.

La giovinezza

Giacomo Camisassa nacque a Caramagna (Cuneo) il 27 settembre 1854, quintogenito di Gabriele Camisassa e Agnese Perlo. Era il tempo in cui il Piemonte vide fiorire una meravigliosa schiera di santi e di anime apostoliche e contemplative: Giovanni Bosco, Giuseppe Cafasso, Maria Mazzarello, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Luigi Orione, Leonardo Murialdo, i fratelli Luigi e Giovanni Maria Boccardo, Pier Giorgio Frassati, Callisto Caravario, Guglielmo Massaia, Giuseppe Marello, Ignazio di Santhià, Maria Cristina di Savoia, e molti altri.

Fattosi più grande, frequentò le scuole elementari del comune con assiduità e impegno, dando sempre prova di spiccata inclinazione allo studio, di chiara intelligenza e di esemplare condotta. Imparò presto il catechismo, e, come chierichetto, a servire bene la messa e tutte le altre funzioni religiose. Gli piaceva cantare e fu, per tutta la vita, un grande innamorato della musica sacra.

Da ragazzo lavorò come apprendista nella bottega di un fabbro, e nel 1868 entrò nell’Oratorio di S. Francesco di Sales, iniziato dopo tante peripezie e contrarietà da Don Bosco con l’aiuto di san Giuseppe Cafasso, zio materno dell’Allamano. Frequentò poi il seminario di Chieri per gli studi filosofici e, nel 1873, studiò teologia nel seminario di Torino, dove incontrò Giuseppe Allamano che, nonostante fosse appena tre anni più vecchio di lui, divenne la sua guida spirituale per cinque anni, dal 1873 al 1879.

Fu ordinato sacerdote nel 1878 e, in seguito, completati i suoi studi, fu aggregato fra i dottori delle Facoltà di Teologia e di Diritto di Torino.

Promotore di sinodalità

L’amicizia tra l’Allamano e il Camisassa fu caratterizzata da uno spirito di sinodalità molto vivo. Pensavano e realizzavano tutto insieme, dialogando e dicendosi le cose con verità. La loro amicizia e collaborazione sacerdotale, durata tutta la vita senza alcuna incrinatura, nel rispetto vicendevole dei loro ruoli e nella condivisione di ideali, rimane un esempio mirabile.

Oggi ci si può meravigliare quando si scopre che l’Allamano e il Camisassa si diedero del «lei» per tutta la vita. Se da una parte questo era un uso più comune e normale allora rispetto a oggi, dall’altra non era assolutamente necessario comportarsi in tal modo tra amici.

Tutto nacque da un vero atto di fede nella volontà di Dio espressa dal comando di monsignor Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino dal 1871 al 1883, che aveva assegnato prima l’Allamano alla formazione in seminario e poi nel settembre 1980, con il Camisassa, al Santuario della Consolata e all’annesso Convitto ecclesiastico. Ne seguì un lungo cammino di vera comunione di intenti, di progetti, di azione che produsse una incredibile mole di opere al santuario prima e all’Istituto dopo.

«Insieme sulla scia della volontà di Dio», così termina la lettera che l’Allamano scrisse al Camisassa informandolo del suo nuovo incarico come rettore del santuario della Consolata e invitandolo a essere suo aiutante come economo e vicerettore: «Faremo d’accordo un po’ di bene, eserciteremo la carità […], procureremo di onorare il culto della nostra madre Consolata; in questo nuovo ufficio avrà campo di esercitare il santo ministero, sia nel predicare che nel confessare».

«Ci siamo promessi di dire sempre la verità», disse l’Allamano in un’altra circostanza, svelando uno dei segreti per camminare insieme sulla scia della volontà di Dio.

L’Allamano iniziò il suo servizio al santuario il 2 ottobre 1880, raggiunto il giorno dopo dal Camisassa.

Ma la realtà più bella, nata dallo spirito di collaborazione tra i due, fu l’eredità di testimonianza che essi ci hanno lasciato, mostrandoci come si deve lavorare nella Chiesa e nell’Istituto, qual è lo spirito che lo permea, come cioè si deve evangelizzare. La loro collaborazione e amicizia aveva una solida base in Dio. «Erano 42 anni che eravamo insieme; eravamo una cosa sola; ci siamo sempre amati in Dio», confessò il fondatore alla morte dell’amico (Sr. Chiara Strapazzon, Deposizione, vol. 11, p. 854).

Sebbene essi avessero personalità e doti molto differenti, seppero tuttavia allacciare una relazione profonda e costante, nel rispetto della diversità, nel desiderio della complementarità. Crebbero come persone, come sacerdoti, come uomini di Dio. La pratica del dialogo fu fondamentale per rinsaldare e rendere efficace l’amicizia che legò il Camisassa al Fondatore.

Il canonico Camisassa (al centro) con un gruppo di sacerdoti del Convitto ecclesiastico.

Dirsi tutto

Una bella pagina del volume dei fratelli Giuseppe e Gian Paola Mina, dal titolo «La beatitudine di essere secondo» (Giuseppe e Gian Paola Mina, La beatitudine di essere secondo, Emi, Bologna 1982; riedizione riveduta e ridotta con ampio apparato fotografico, Editrice Velar, Golle [Bg] 2021), che è la biografia del Camisassa, presenta efficacemente la realtà di comunione tra l’Allamano e il suo più stretto collaboratore: «Dopo pranzo, nell’ufficio dell’Allamano, i due amici prendono una tazzina di caffè insieme e parlano. Più che un parlare, è un comunicarsi gli eventi grandi e piccoli, per un bisogno di confronto, sempre tesi come sono l’uno e l’altro alla ricerca della verità per scoprire i segni dei tempi […]. Dopo la cena, si ritrovano per vagliare quanto nella giornata è emerso e quanto il domani sembra prospettare. Niente di formale, niente di rigido, ma tutto è chiarezza, ricerca, gioia di camminare insieme […]; non ritengono sprecato quel tempo speso per chiarirsi le idee, per approfondire problemi, per giungere a conclusioni. Pregano, vivono nella stessa direzione. L’uno è sicuro dell’agire dell’altro e ciascuno conserva mirabile autonomia».

Ogni idea, ogni proposta, ogni progetto veniva esaminato, vagliato, controllato da ambedue insieme: nulla fu mai fatto o da uno solo di essi o indipendentemente uno dall’altro.

Frutto di questo dialogo fu la nascita e la crescita dei due Istituti missionari. A noi è rimasto uno spirito, una eredità. «Unità di intenti» era, infatti, l’ideale proposto dal fondatore ai suoi missionari.

Il santuario della Consolata da Via Consolata

Nell’abbellimento del Santuario

Il 3 ottobre 1880 arrivò al santuario don Giacomo Camisassa, chiamato dall’Allamano per coadiuvarlo. Qui fu vicerettore ed economo del santuario e del Convitto ecclesiastico a esso connesso (Fondato nel 1817 per i sacerdoti appena ordinati, che per due anni approfondivano la teologia – soprattutto quella morale – e la pratica pastorale. San Cafasso vi aveva insegnato fino al 1860. Nel 1876 il vescovo Gastaldi lo chiuse per contrasti sull’insegnamento della morale. L’Allamano lo fece riaprire nel 1880 nei locali annessi al santuario – ndr).

Nei 42 anni successivi (1880-1922) alla Consolata, l’Allamano e il Camisassa diedero inizio a tutta la serie di attività che avrebbero riempito la loro vita e li avrebbe resi grandi agli occhi di Dio e della Chiesa: riapertura del Convitto ecclesiastico, restauri del santuario, sviluppo della devozione alla Consolata, beatificazione di san Giuseppe Cafasso presentato quale modello del clero, fondazione di due Istituti missionari.

Insieme decisero di intraprendere i restauri necessari al santuario in vista anche della celebrazione dell’ottocentesimo anniversario del 1904, ma toccò al Camisassa seguire puntualmente i molteplici lavori. Il santuario allargato e ristrutturato fu benedetto il 20 giugno 1904, con la partecipazione di un legato pontificio, cardinali, arcivescovi e vescovi.

Insieme all’Allamano, fondò e diresse la rivista «La Consolata» (1899), per far conoscere la vita del santuario, i lavori di restauro e, in seguito, la vita e lo sviluppo dell’Istituto e delle missioni.

Nel 1892 il Camisassa fu anche nominato canonico della cattedrale di Torino.

Rivoli (To), 8 maggio 1902- Allamano e Camisassa con i primi quattro partenti. Da sx: fratel Celestino Lusso, padre Tommaso Gays, padre Filippo Perlo, fratel Luigi Falda. Di fronte Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa. Foto dell’8 febbraio 1902, conservata nell’Archivio generale IMC a Roma, n. 245

Nella fondazione dell’Istituto

Nel 1897 il cardinal Agostino Richelmy, compagno di seminario di Giuseppe Allamano, fu nominato arcivescovo di Torino. Lo speciale rapporto di fiducia e confidenza con il nuovo vescovo, consolidò l’idea della fondazione dell’Istituto missionario che l’Allamano coltivava da tempo, e il 29 gennaio 1901 nacque l’«Istituto della Consolata per le Missioni Estere» del quale Giuseppe Allamano non volle mai essere chiamato «fondatore», convinto profondamente che fondatrice fosse solo la Consolata.

Il Camisassa, dunque, chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno centrale della sua vita e del suo sacerdozio. Sentì che il programma dell’Allamano era pure il suo, non solo per un dovere di contratto, ma per un obbligo di elezione divina.

Ambedue si dedicarono alla preparazione dei futuri missionari. Nel 1902, l’8 maggio, partirono per il Kenya in Africa i primi quattro, due sacerdoti e due laici, seguiti poi da altri quattro il 15 dicembre. Altri sei, affiancati da otto suore Vincenzine del Cottolengo, arrivarono a destinazione in Kenya il 17 giugno 1903.

Il terreno in Via Circonvallazione(514-516) di 12.000 mq venne acquistato dall’Allamano nel 1905. I lavori iniziarono il marzo 1905 o poco dopo. La nuova Casa Madre venne inaugurata il 23 ottobre 1909. E’ da considerarsi come il memoriale del patto vicendevole intercorso tra l’Allamano ed il Camisassa. – Disegno e direzione sono dell’Ing. E.Ruffoni. Ditta: Fratelli Faia – La facciata é di 90 m – I due fabbricati minori erano adibiti a parlatori, museo, ì segheria … – Nella parte di mezzo avrebbe dovuto sorgere, col tempo, la ì nuova chiesa. Così secondo un “vivo desiderio del Fondatore”. (La Consolata – ottobre 1909, pp.160-161).

Nella costruzione della Casa Madre

Quando la prima casa dell’Istituto in corso Duca di Genova (l’attuale corso Stati Uniti) a Torino, denominata «la Consolatina», non fu più sufficiente a ospitare gli aspiranti missionari che vi studiavano, vivevano e lavoravano, l’Allamano acquistò un terreno di 12mila m2 in via Circonvallazione 514-516 angolo corso Oporto (ora corso Francesco Ferrucci, dal 12 al 18). Nel marzo 1905, sotto la guida del Camisassa, si iniziarono i lavori di quella che sarebbe diventata la Casa Madre.

In Kenya, durante uno dei molti viaggi da una missione all’altra.

Nel provvedere per le missioni

Tutta l’organizzazione materiale delle prime missioni (preparazione del corredo per i missionari, spedizione di casse, progetti per la costruzione di case, fornitura di attrezzi di lavoro, ecc.) dipendeva da Giacomo Camisassa.

Come già per il Santuario aveva studiato progetti, trattato con impresari, tenuto sedute con architetti, assistito a lavori, scelto i materiali, cercato persone idonee, concluso contratti, sempre attento alla perfezione della riuscita; così fu per il compito che assolse per le missioni.

Il canonico Allamano non era fatto per questo genere di preoccupazioni e di occupazioni. Il primo a riconoscerlo e manifestarlo fu egli stesso, come scrisse padre Sales: «Era solito dichiarare che non si sarebbe deciso al grave passo – di fondare l’Istituto – se non si fosse trovato al fianco un uomo della tempra e dell’abilità del Camisassa».

Il Camisassa, di fatto, era il dinamismo in persona, con una competenza spiccata per le «cose pratiche».

Testimonia padre Antonio Borda Bossana, membro del secondo gruppo partito per il Kenya: «Il salone del Convitto sopra la sacrestia divenne un bazar di ogni cosa necessaria alla vita dei missionari. È lui (il Camisassa, ndr) che pensava a tutto e tutto provvedeva, lui che si recava nei negozi a scegliere e contrattare le merci. L’economo e i preti addetti al Santuario alle sue dipendenze erano tutto il giorno di corsa per eseguire le sue commissioni, massime quando s’approssimava il tempo di spedizione delle merci».

Incontro con un capo che gli presenta il figlio per farlo ammettere nella scuola detta «Collegio dei principini» per la formazione dei giovani leaders del futuro.

Nella visita alle missioni del Kenya

Dieci anni dopo la partenza dei primi missionari, e poco dopo la fondazione delle Missionarie della Consolata nel gennaio 1910, i missionari in Kenya reclamavano una visita del fondatore perché conoscesse bene la situazione, valutasse risultati, chiarisse problemi per poi affrontare insieme il cammino da fare. L’Allamano non era in condizione di lasciare il Santuario e la sua salute non gli permetteva un viaggio così impegnativo. Mandò così il suo più fedele collaboratore che partì da Torino l’8 febbraio 1911. Giunto in Kenya a marzo 1911 vi restò fino ad aprile 1912, rientrando a Torino il 26 di quel mese. Scopo del viaggio: aumentare l’entusiasmo dei missionari, rinsaldare la loro buona volontà, approfondire la loro spiritualità e confortarli con la sua presenza, sostenendoli nelle difficoltà e negli insuccessi. A sessant’anni circa, era arzillo come un giovane, con il largo cappello di sughero, in abiti rurali, pronto al lavoro e sempre fresco, come nulla gli mancasse.

Nonostante la lentezza della posta a quei tempi, tenne costantemente informato l’Allamano sulle sue attività, creando una fitta corrispondenza e chiedendo i suoi consigli su situazioni difficili.

Parlando del programma della visita all’Africa del Camisassa, l’Allamano avrebbe ricordato che: «Vi andò per parlare ai missionari, sia in privato nelle singole stazioni, sia in pubblico durante i Santi spirituali esercizi, ed intendersi con essi sulle Costituzioni, Regolamento, esercizi di pietà, vita comune, ecc., secondo un formulario che avevamo preparato di comune accordo».

Il Camisassa diede grande impulso e aiuto ai lavori materiali. In diverse sue lettere autografe ai missionari si notano, tracciati a penna, rapidi schizzi di macchinari o di attrezzi di lavoro. Prima di spedire il materiale in Africa, a volte progettato sulla base delle indicazioni dei missionari stessi, il Camisassa si preoccupava di istruire per lettera gli interessati che lo avrebbero adoperato. Sono particolarmente dense di questi disegni le lettere che scrisse nel 1911, durante la sua visita alle missioni del Kenya, perché poteva constatare di persona le necessità e controllare i lavori.

Camisassa a Gaighanjiru con (da sx) suore vincenzine, padre G Perlo, fratel Umberto Arossa, suora cottolenghina, padre Angelo Bollani, canonico Camisassa, padre T Gays, padre G Cavallero, fratel Bezzole Luigi, padre Vignoli e suor Scolastica del Cottolengo

Nella segheria installata nella foresta di Tuthu, sotto la guida del coadiutore Benedetto Falda, si costruirono diverse case prefabbricate, che furono le prime abitazioni in legno per il personale delle missioni.

Provvide a realizzare gli altarini portatili perché i missionari potessero sempre celebrare la messa, anche durante i viaggi. Nell’archivio dell’Istituto è conservata copia del disegno, opera sua, di un altare portatile composto da 22 pezzi smontabili e facili da assemblare per la celebrazione.

La più bella conclusione a questo punto siano le due lettere scritte dal Camisassa e dall’Allamano al termine della visita in Africa.

Scrisse il Camisassa: «Le accoglienze cordialissime da parte vostra eran cose che poteva già aspettarmi ben conoscendo quanto affetto avete sempre nutrito verso la mia povera persona, quale debole cooperatore di quell’anima santa che tutti siam fortunati di chiamare col dolce nome di Padre».

Scrisse l’Allamano: «Il felice ritorno del sospirato Vice Superiore fu un momento di gioia per me e per tutti nell’Istituto. […] Vi rinnovo i ringraziamenti per le festose accoglienze che gli avete fatte e per la docilità con cui avete accettato quanto egli credette di dirvi pel vostro maggior bene».

Confondatore

Non c’è dubbio che gli Istituti fondati dall’Allamano ritengono, con ragione, il Camisassa loro «confondatore», come era già denominato quando l’Allamano era vivo, il quale per primo, volle dargli il più ampio riconoscimento chiamandolo confondatore egli stesso, vale a dire: «Fondatore con lui, fondatore unitamente a lui».

In due documenti ufficiali datati 2 ottobre 1909, si parla di «due fondatori» e sono firmati da entrambi i canonici Allamano e Camisassa.

Il primo è la supplica al Papa per ottenere l’approvazione dell’Istituto, di modo che divenisse di diritto pontificio. Essa incomincia: «Beatissimo Padre, i sottoscritti fondatori dell’Istituto della Consolata […]» (cfr. Lett., V, 278).

Il secondo è la petizione alla Congregazione dei religiosi, per lo stesso motivo.

«Aveva l’arte di nascondersi»

L’umiltà fu la sua virtù prediletta. Nascondeva costantemente se stesso per mettere gli altri in luce. Mai parlava di sé e di quanto faceva. Pochi lo conoscevano di nome, pochissimi di vista (Da Giuseppe Ronco, Il confondatore aveva l’arte di nascondersi, in https://giuseppeallamano.consolata.org). «Ho sempre ammirato in lui una umiltà profonda, si faceva uno studio di nascondersi sempre dietro l’ombra del Rettore. La sua preoccupazione era di scomparire, di essere ignorato» (mons. Rostagno).

Sperimentava la beatitudine di essere secondo.

Quanto l’Allamano stimasse il Camisassa, oltre ad averlo dimostrato con tutta la vita, appare da queste sue affermazioni proferite durante la malattia e dopo la morte dell’amico: «Per lui ho offerto la vita, ma vale niente»; «Senza di me potete fare, ma senza di lui, no»; «Tocca a me fare i suoi elogi. Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà».

Ciò che colpisce non è solo la collaborazione, ma anche lo stile con cui questa collaborazione venne attuata per così tanti anni. Uno stile indicato dalle parole dell’Allamano già citate: «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto». Si comprende allora perché diceva: «Non dimenticate quest’uomo!» (Padre Aquileo Fiorentini, Missionari di Gesù Cristo per la gioia del mondo, come Paolo e i suoi collaboratori, Bollettino ufficiale 125, gennaio 2009).

Con il gruppo dei futuri catechisti.

Tessitore di fraternità

Conosciamo bene l’attaccamento sincero e il servizio incondizionato che il Camisassa dedicò ai due Istituti missionari, con particolare attenzione a quello delle suore.

La nuova casa dei missionari fu inaugurata il 23 ottobre 1909, mentre il 29 gennaio 1910, si diede inizio alle suore «Missionarie della Consolata».
Si preoccupò che anche le suore avessero una casa e si prese cura della sua costruzione. Il 4 settembre 1922 la comunità delle Missionarie della Consolata poté entrare nella propria Casa Madre.

Nella Lettera Circolare del 26 agosto 1922, il fondatore, comunicando ai missionari la dolorosa notizia della morte del Camisassa, così si esprimeva: «Egli viveva per voi e per le nostre missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Le sue ultime parole, che disse nel suo testamento, furono di unione fra i missionari e le missionarie». La sua vita fu la testimonianza più bella di quell’unione. Il suo amore era per tutti senza distinzione.

Fu un umile maestro di vita che si prodigò per il bene dei due Istituti, affinché vivessero in comunione. Il suo servizio fu caratterizzato dalla sincerità, dalla fiducia e dalla correzione fraterna, dal vivere l’unità di intenti nella collaborazione e corresponsabilità, quello che oggi chiameremmo lo spirito della sinodalità.

Il beato Allamano e il canonico Camisassa con i sacerdoti convittori.

La morte

Il 18 agosto, verso sera, come svegliandosi da un sogno, il canonico Giacomo Camisassa si guardò intorno e fece cenno a suor Virginia Barra, che lo assisteva, di dargli il suo Crocifisso, lo stesso fece con padre Carlo Francesco Sciolla che la aiutava. Legò insieme i lacci dei due Crocifissi e li tenne sul cuore mentre guardava intensamente il padre e la suora. Cercò di parlare e dire qualcosa, ma non riuscendo lo aiutarono: «Significa che i padri e le sorelle devono restare uniti nell’amore reciproco?». «Sì; sì; questo è tutto…», rispose. Poi, continuando a tenere lo sguardo sui presenti, disse: «È il padre (Allamano, ndr) che vi ha legati». «E lei desidera che noi rimaniamo sempre così uniti; è giusto?». «Sì, è il mio desiderio, ma è il padre che lo vuole». Continuò a baciare i Crocifissi, stringendoli al cuore.

In quel momento, l’Allamano entrò nella stanza. Non capì cosa stesse accadendo e, così, chiese loro di sciogliere i Crocifissi. Il malato dimostrò di soffrire per questo.

Appena venne a conoscenza di ciò che era capitato, l’Allamano disse: «Se solo avessi saputo, non avrei mai chiesto di slegare i due Crocifissi. Li avrei tenuti com’erano a testimonianza delle sue intenzioni».

Scrisse ai missionari in Kenya: «Le ultime parole del nostro caro defunto furono sull’unione tra i nostri missionari, gli uomini con le donne».

Più tardi scrisse ancora: «Quell’azione fu un’ultima volontà d’amore. Sta a noi essere fedeli a essa: è sacra».

Erano circa le 20, una sera calda e umida. Tutti erano a cena, tranne suor Emerenziana e suor Ambrosina che assistevano il malato che era preso dalla smania di alzarsi per «andare all’Istituto». Nel suo delirio, all’improvviso, il Camisassa riuscì ad alzarsi dal letto, fece alcuni passi barcollanti e cadde: era morto.

Funerale del Canonico Giacomo Camisassa il 21/08/1922,

«Era maturo per il cielo»

«Carissimi e carissime in N. S. G. C. (Nostro Signor Gesù Cristo, ndr)

Mi trema la mano, il cuore si gonfia e gli occhi versano lacrime nell’indirizzarvi questa breve lettera. Il nostro caro Vicerettore e Vice Superiore non è più tra noi e non lo rivedremo che in Paradiso. Spirò placidamente la sera del 18 corr. mese, con tutti i conforti religiosi e le cure più affettuose. Quale perdita per il santuario e più per l’Istituto e le Missioni! Vedevamo necessaria la sua esistenza e pregammo la nostra SS. Consolata a prolungargli per qualche tempo la vita. Molti, io pure, hanno offerto la propria vita perché fosse conservata quella del nostro caro.

La SS. Consolata non credette di esaudire le comuni preghiere. Era maturo per il cielo. Aveva compiuto la sua santa e laboriosa giornata e poteva dire con san Paolo: Cursum consummavi, in reliquo reposita est mihi corona justitiae (ho terminato la corsa, … mi resta solo la corona di giustizia, ndr). Pronunciate con me il fiat all’imperscrutabile volontà di Dio, e sia in suffragio della bell’anima.

In tanto dolore ci consolarono le prove di stima e di affetto che tutta Torino diede a Lui umile e da molti sconosciuto. La sepoltura fu un trionfo. Egli viveva per noi e per le nostre Missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Pregate per Lui ed anche per me desolatissimo che nel nome della SS. Consolata vi benedico».

Così scrisse l’Allamano ai missionari e missionarie per dare l’annuncio della morte di Giacomo Camisassa, per la quale soffrì molto (Lettera n. 1580, da Candido Bona (a cura di), Quasi una vita, lettere scritte e ricevute dal beato Giuseppe Allamano, Vol IX/1 p. 448). Allora confessò umilmente che, in quel momento, aveva come «perduto tutte due le braccia». «Se non avessi avuto al mio fianco il canonico Camisassa, non avrei fatto quello che ho fatto».

La morte del Camisassa fu un colpo molto sentito, così per dodici mesi consecutivi, nel giorno 18 di ogni mese si celebrò in Casa Madre una messa solenne. Nella nona ricorrenza, il 18 maggio 1923, la santa messa fu cantata da monsignor Gaudenzio Barlassina, tornato dal Kaffa, in Etiopia. Il venticinque luglio, festa di san Giacomo, tutte le comunità di Casa Madre andarono al cimitero a celebrare una santa messa e a visitarne la tomba.

«Proruppe in un pianto dirotto»

Il canonico Nicola Baravalle così espresse la propria ammirazione per l’Allamano, con il quale aveva collaborato molti anni: «Ricordo quella sera nella quale eravamo tutti addoloratissimi, sia per la perdita del grande canonico Camisassa, come per la ripercussione che tale dipartita avrebbe avuto sul Servo di Dio. Assistette all’agonia ed alla morte senza una lacrima. E poi, portatosi in chiesa, appena inginocchiato, proruppe in un pianto dirottissimo e restò parecchio assorto in Dio. Rialzatosi, prese le disposizioni del caso; restò per qualche tempo impressionato, ma non ebbe più una lacrima, e non ritornò più sul fatto. Solo si rese più appartato, dovendo supplire a quanto faceva il Camisassa».

Anche le Missionarie della Consolata colsero le reazioni dell’Allamano dopo la morte del suo amico. Nel breve incontro alla Consolata del 3 settembre 1922, l’amanuense annotò, tra parentesi «(Andiamo noi alla Consolata perché pioveva)», e poi al termine delle poche righe: «(Ritornando a parlare del Sig. Vicerettore) Sì, non mi sembra vero che non ci sia più, ma penso che c’è il suo spirito. Pensate a far tutto come voleva lui, e pregate per lui».

I suoi figli e figlie, anche quelli lontani, compresero perfettamente e condivisero lo stato d’animo del loro padre. A nome di tutti loro, così scriveva dal Kenya il vicario apostolico monsignor Filippo Perlo all’Allamano: «[…] il suo buon esempio non può non apportare anche a noi conforto e incoraggiamento. Grazie anche per questo».

L’urna con i resti del Camisassa sullo sfondo, a sinistra, della tomba di Giuseppe Allamano nella chiesa santuario dedicato al beato Allamano in Torino.

Uno accanto all’altro

Dal 2001, le spoglie mortali del Camisassa riposano accanto a quelle dell’Allamano. L’urna di zinco è contenuta in un elegante cofano di legno. Dietro il cofano, in lettere d’oro, si possono leggere queste parole: «Un amico fedele è un balsamo (Si 6,15). Tale è stato Giacomo Camisassa per l’Allamano. Di lui ha detto l’Allamano: “Ci siamo sempre amati in Dio”. “Abbiamo promesso di dirci sempre la verità e lo abbiamo sempre fatto”. “Viveva per noi e per le nostre missioni”. “Ha sempre e solo lavorato per amor di Dio”. “Non dimenticate quest’uomo”». L’Allamano e il Camisassa, che ora riposano l’uno accanto all’altro, sono meta di filiali visite da parte dei Missionari e delle Missionarie della Consolata e di molta gente.

Giuseppe Ronco

Funerale del Canonico Giacomo Camisassa il 21/08/1922, davanti al santuario della Consolata


Apostoli con la parola e il lavoro

Lettera a fratel Benedetto Falda nella segheria della missione di Tuthu

Torino, 8 marzo 1904

Carissimo fratel Benedetto,
ho ricevuto ieri la tua lettera del 3 febbraio scorso. Non puoi credere quanto mi abbia fatto piacere sapere che l’andamento alla segheria procede benissimo e tu sei sempre felice del tuo lavoro. Persuaditi che quello è un vero apostolato, tanto quanto il sacerdote che predica. L’impressione che il lavoro fa sugli Akikuyu, il movimento febbrile delle macchine, onora presso di loro il lavoro e sveglia la brama di imitarvi, d’imparare affin di migliorare le loro condizioni di vita. […]

Sai, Benedetto, perché ti dico queste cose? Perché tu e quanti sono con te vi persuadiate che, come coadiutori, siete veri missionari, anche facendo il falegname, il muratore, il contadino o altro. Per fare bene la vostra parte dovete lavorare con spirito di fede, volentieri, allegri, concordi e sempre intenti al pensiero che Dio vi vede, intenti a dare il buon esempio.

Con spirito di fede: col pensiero che Dio vede, fare le cose come se aveste accanto Gesù e dovesse esaminarvi se fate bene e se vi approvi.

Volentieri: cioè, come foste mai stanchi; mai perdere tempo!

Allegri: sempre col sorriso sulle labbra, mai di cattivo umore. Qualche volta può darsi che non lo siate, ma non fatelo trasparire. E poi, mai tratti duri con gli Africani!

Concordi: trattarvi a vicenda con carità, aiutandovi scambievolmente; insomma essere un cuore solo, un’anima sola, come veri fratelli nel Signore Gesù.

Buon esempio: gli indigeni hanno occhi semplici, ma tutto vedono, tutto osservano, fanno ciò che voi fate. […] Guai se scandalizzaste uno di loro! Applicate le parole di Gesù al vostro ambiente. […] Finisco!

Voglio solo aggiungere che il Signor Rettore, leggendo la tua lettera, è rimasto molto contento, gioisce quando gli dici che i tuoi ti vogliono bene. Ciò significa che si vanno affezionando a te, a tutti. Sì, cerca di affezionarteli, per poter dire, anche sul lavoro, brevi parole di esortazioni, su Dio che premia i buoni… Sono parole e, dice il Signor Rettore, che, se dette con fede, ti fanno apostolo. Così dice il Rettore: «essere apostolo con la parola e con il lavoro».

Can. G. Camisassa

La turbina installata a Tuthu da fratel Benedetto con materiali e istruzioni fornite dal Camisassa.

Un uomo dalla fede adamantina

Testimonianza di fratel Benedetto Falda sul Camisassa, Torino, 2 giugno 1944

Rev.mo Padre Gays,
In referenza alla sua domanda di mettere in carte quel che ricordo del nostro amatissimo Can. Camisassa, mi permetto di scriverle quel che più mi si impresse nella mia mente.

Conobbi il Rev.mo Sig. Vicerettore, così nominato da tutti i confratelli all’Istituto, dal primo giorno che ebbi la fortuna di essere posto a contatto col Rev.mo Nostro Fondatore. Mi ricordo che mi colpì la sua affabilità, non dico paterna, ma fraterna, anzi, quasi di compagno. Essendo in quei giorni preoccupato di cercare un meccanico per inviare in Africa con le nuove macchine mi ebbe subito caro e mi pose a parte dei suoi progetti condivisi completamente da me, entusiasta dei suoi ideali che feci miei.

Lettera autografa del Camisassa al fratel Luigi Falda.

Stante la scarsità del tempo (4 mesi in tutto, per la mia preparazione e quella delle macchine) si occupò personalmente a farmi avere conoscenze per aver occasione di impraticarmi di segheria di cui ero affatto digiuno. Ebbi modo di constatare con quale praticità e facilità e accuratezza trattava gli affari […] dal trattare con l’ingegnere per l’amplificazione del Santuario [al dare] ordini all’economo, don Gunetti, per riguardo al vino in cantina e […] vedere se le lime che io avevo comperato erano del giusto taglio per affilare le seghe di acciaio […]. Aveva tracciato progetti d’impianti che poi ai disegni che ne facevo, correggeva colla medesima cura e competenza, come correggerà le bozze del Periodico, andando fino alle minuzie, non con pedanteria, ma con la competenza che lo rendeva atto a correggere anche i disegni dei marmi dell’impresario Catella.

Quell’che più mi impresse si fu che la sua attività lo faceva avaro del tempo […].

Quando arrivai in Missione, ebbi campo di mettere in pratica i consigli praticissimi che Egli mi aveva dato alla partenza, ma pochi mesi dopo il mio arrivo colà mi scriveva una lettera, mi pare del mese di settembre (1904), che la S. V. R. ricevette da me qualche mese fa. In quella mi ammoniva amorevolmente che io mi tenevo troppo riservato nello scrivere e mi diceva: «Come va che dopo tanto combinato per quel macchinario, non mi fai parola? Riguardo allo spirituale scrivi sovente al Sig. Rettore, ma pei lavori voglio da te lettere particolareggiate e lunghe e frequenti». […]

Dopo qualche mese, mi giunsero disegni e particolari di una casa a due piani, che voleva come modello, fosse eseguita per l’abitazione dei Missionari. Ma i particolari erano così minuziosi e copiosi ed eseguiti con tale perizia, che pensavo dove avesse fatto gli studi per essere così pratico di falegnameria e di accorgimenti propri solo a tecnici provetti. Nell’1908, nella mia venuta a Torino, ebbi agio di osservare la costruzione della Casa Madre di Corso Ferrucci (allora chiamato via circonvallazione, ndr), lavoro colossale che egli concepì e diresse con una diligenza e competenza non comune. […]

Lo rividi nel 1911-1912 nel Kenya, nella sua visita che fece colà. […]

Per il lavoro di Missione, poi, aveva un culto speciale – interessandosi della vita nostra di Missione come se non avesse avuto altro scopo nella sua vita. […] E nelle sue lettere non si riservava solo di parlarmi di lavori, ma conservai per lungo tempo una sua lunga lettera di quattro pagine in cui mi animava nel proseguire con lena nel servizio della Missione, con parole tanto infiammate di amore per Dio e per le anime che ne fui tocco al cuore!

Lo rividi nel 1920 nella mia venuta in Italia; dopo 18 anni, mi accorsi che il lavoro e gli anni cominciavano a contare sulla sua forte fibra, ma il suo sguardo e la sua parola era[no] ancora quelle di tanti anni addietro, tutto vivezza e tutto slancio per quel che riguardava l’Istituto, che certamente considerava come parte sua creatura […]. Ebbi per Lui sempre un’affezione speciale e un’ammirazione illimitata; lo considerai sempre un uomo dalla fede adamantina […]. Credo che il suo motto fosse «Tutto per la gloria di Dio». Gradisca, Rev.mo Padre i miei più affettuosi saluti nel Signore.

 Coad. Benedetto Falda


Date essenziali

27 settembre 1854
Nascita di Giacomo Camisassa a Caramagna Piemonte (Cn) – Italia.
(data registrata in comune; nel registro del battesimo risulta invece nato alle ore 23 del giorno 26 settembre, ndr)

Ottobre 1868
Entra all’Oratorio di don Bosco, a Torino, per i corsi ginnasiali.

22 ottobre 1871
Veste l’abito chiericale nella chiesa parrocchiale di Caramagna.

15 giugno 1877
Ordinato sacerdote nel duomo di Torino, da mons. Lorenzo Gastaldi.

8 luglio 1879
Si laurea in Teologia, a pieni voti.

3 ottobre 1880
Su invito del can. Giuseppe Allamano, diventa economo nel Santuario della Consolata.

15 giugno 1887
Il card. Gaetano Alimonda, lo nomina uno dei sette membri della Facoltà di Diritto canonico e civile.

7 luglio 1892
Nominato «Canonico onorario».

20 ottobre 1895
Viene confermato membro aggiunto della Facoltà legale, col titolo di «avvocato».

Gennaio 1899
Esce il primo numero del periodico «La Consolata», ideato e fondato dal Camisassa.

10 maggio 1902
Accompagna, fino a Marsiglia, la spedizione dei primi quattro Missionari della Consolata per il Kenya.

19 giugno 1905
È nominato «Canonico effettivo».

8 febbraio 1911
Inizia la visita alle missioni del Kenya.

26 aprile 1912
Rientra a Torino dal viaggio in Kenya, dopo una sosta a Roma.

18 agosto 1922
Muore presso il Santuario della Consolata.

15 novembre 1976
La sua salma viene trasferita nella cappella mortuaria dell’Istituto (Camposanto generale di Torino).

5 ottobre 2001
Le spoglie mortali del Camisassa vengono solennemente collocate accanto al sepolcro dell’Allamano, nella chiesa santuario di Casa Madre a Torino.

Preghiera per l’anno del Camisassa

Foto classica del canonico Giacomo Camisassa

Grazie, Signore, per aver donato
alla nostra famiglia missionaria
la presenza discreta, operosa e benedicente
del canonico Giacomo Camisassa.

Egli, uomo di Dio,
uomo di comunione e collaborazione,
in sintonia con il beato Giuseppe Allamano
sostenne la nascita e lo sviluppo
degli Istituti missionari della Consolata.

Donaci, Signore, di imparare dal nostro Confondatore
l’arte della vera amicizia fraterna,
la silenziosa operosità,
l’umiltà di chi cerca Dio con tutto il cuore
e la dedizione entusiasta alla missione
nella quale Dio, nella sua bontà, ci coinvolge.

Lo chiediamo a Te, Signore Gesù,
il Figlio missionario del Padre,
che vivi e regni con Lui e lo Spirito Santo
nei secoli dei secoli. Amen!

 

 


Hanno firmato questo dossier:

Giuseppe Ronco, missionario della Consolata. Ha servito due periodi in Zaire – Rd Congo (1973-1977 e 1985-1987). Formatore dei teologi a Rivoli (1977-1985). In Canada, a Montréal, dal 1987 al 2007. A Roma dal 2007 al 2018. Ora è in Casa Madre a Torino. Per questo dossier si è avvalso anche di lettere e comunicazioni interne dei superiori generali delle missionarie e dei missionari della Consolata.

A cura di Gigi Anataloni, direttore di MC dal 2010.

Foto di questo dossier

Dall’Archivio fotografico Missioni Consolata (AfMC) a Torino. Quelle scattate in Kenya sono di monsignor Filippo Perlo.

Testi

Nei dossier ci sono molte citazioni di testimonianze di Missionari e Missionarie della Consolata e altri sacerdoti della diocesi di Torino. Gli originali sono nell’archivio generale dei Missionari della Consolata a Roma, spesso frutto delle ricerche e degli studi del compianto padre Francesco Pavese.

P Pavese a Tuthu con la ruota idraulica che faceva funzionare la segheria di fratel Benedetto Falda .

 




Orsola e Marianna


Marianna Cafasso, sorella di San Giuseppe Cafasso e mamma del beato Allamano.

A Roma, dal 22 al 26 giugno si è svolto il Convegno mondiale della Famiglia. Si è giunti al decimo appuntamento imperniato, quest’anno, sul tema: «L’amore familiare: vocazione e via di santità». Papa Francesco ritorna sovente sul tema della famiglia, rimarcando i tratti fondamentali che fanno una famiglia felice: «Quello che ci è chiesto è di riconoscere quanto è bello, vero e buono formare una famiglia, essere famiglia oggi; quanto è indispensabile questo per la vita del mondo, per il futuro dell’umanità».

Prendendo lo spunto dal tema della santità e della famiglia, ci potremmo chiedere come sono riuscite varie famiglie di Castelnuovo d’Asti, nel 1800, a diventare autentiche fucine di santità, dando vita a ben quattro santi canonizzati (Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Domenico Savio e Giuseppe Allamano). Qual è stato il loro segreto? Non potendo qui offrire una risposta adeguata mi soffermo brevemente su due madri, Orsola e Marianna, madre e figlia, diventate poi, la prima, madre di san Giuseppe Cafasso e la seconda, del beato Giuseppe Allamano.

Nate a Castelnuovo d’Asti, hanno vissuto la loro infanzia in famiglie semplici di estrazione contadina, sono diventate madri dedite pienamente al sostentamento familiare e all’educazione cristiana della loro numerosa prole, senza trascurare un’attenzione speciale per le persone bisognose del circondario. Entrambe hanno perso presto il marito e senza esitazione hanno saputo prendere in mano le redini della propria azienda agricola, il cui reddito serviva al sostentamento della famiglia. Educatrici sagge, hanno saputo seminare in famiglia i germi di quelle virtù civiche e cristiane che si sarebbero riscontreranno copiose nella vita dei loro figli «celebri». Verso i poveri, sempre numerosi anche nei borghi di campagna, Orsola e la figlia Marianna nutrivano venerazione ed esercitavano cura e amore. C’era sempre una scodella di minestra per chi bussava alla loro porta e i figli, a turno, gliela portavano imparando così ad avere rispetto e considerazione per gli indigenti. Non c’era nascita, malattia o morte nelle famiglie del borgo di Castelnuovo che non vedessero la loro presenza e offerta di aiuto. La nipote, Pia Clotilde Allamano, descrive la casa di Marianna come «ospitale ed elemosiniera».

Cosa dire della formazione cristiana offerta ai figli attraverso il loro esempio e il buon consiglio? Animatrice efficace della confraternita dell’Addolorata, Orsola Cafasso ha avuto un impatto non indifferente sulle donne del paese. Nelle loro famiglie i momenti giornalieri di preghiera non mancavano mai. Il rapporto con la parrocchia era sempre attivo e costante.

Così in Castelnuovo nascevano e crescevano i santi.

padre Piero Trabucco


Giuseppe Allamano si racconta

Per comprendere la personalità umana e spirituale di Giuseppe Allamano, così semplice, serena e concreta, si deve necessariamente partire dall’ambiente che lo vide nascere e crescere: la famiglia, prima di tutto e, in particolare, la mamma Marianna, sorella di S. Giuseppe Cafasso.

La mamma, rimasta vedova ancora giovane quando stava per nascere l’ultimo figlio, dovette prendere in mano con determinazione le sorti della famiglia sia come sostentamento che come educazione dei figli.

Di lei hanno detto: «Mai che mandasse via un povero o non l’alloggiasse. Quando una donna povera dava alla luce un bimbo, ella si offriva a preparare gran parte del corredino; così pure si recava dagli ammalati e li aiutava in tutti i modi».

«Quando poi si portava il Viatico a qualcuno era lei che si recava a vedere se tutto era in ordine nella casa per ricevere Nostro Signore». Ecco il suggerimento del parroco ai figli: «Dovreste baciare la terra dove passa vostra madre».

«La mia buona mamma»

Alla mamma, che da anziana era diventata cieca e sorda, l’Allamano era legato da tenerissimo affetto. Diceva: «Non tocca a me fare un elogio di mia madre…». «Io facevo il suo interprete nella confessione quando mi trovavo a casa; sembra impossibile: aveva due occhi di paradiso, eppure non vedeva e non sentiva; ed io mi spiegavo facendo segni sulla mano, e c’intendevamo benissimo». «Certe volte la mia buona mamma mi diceva: “Io sono vecchia, tutti gli altri mi dimenticheranno, ma tu mai, dici Messa tutti i giorni, pregherai poi per me”. Difatti nella S. Messa c’è sempre un posto per lei».

«Io non ho mai saputo quello che mi piaceva o non mi piaceva – confidava l’Allamano – perché la mia buona madre, bastava che dicessi che una cosa non mi piaceva, che subito me la faceva prendere. Non mi dava altro finché non l’avessi mangiata». La sorella Orsola, secondogenita della famiglia Allamano, raccontò: «Gli altri fratelli si vedevano sul piazzale a giocare, ma Giuseppe no, mai! Le ore libere, durante le vacanze, le occupava a starsene vicino alla mamma ammalata. Tanto che questa, commossa, alle volte gli diceva: “Ma adesso va a prendere un po’ d’aria!”, ed egli: “Oh, lasciami un po’ star qui vicino a te”».

«Parlerò della mia nascita – raccontava lui stesso -. Il buon Dio, decretando di crearmi, stabilì nel tempo l’anno, il giorno in cui mi avrebbe dato l’essere, ed ogni altra circostanza. Prima dei parenti, prima ancora che fosse il mondo, Dio già pensava a me con pietà e amore. “Mi ha amato di amore eterno”. Ed eccomi nato il 21 gennaio del 1851, alle ore sei e mezzo di sera. Deo gratias!».

L’Allamano celebrava con gioia e riconoscenza l’anniversario della nascita e accettava volentieri gli auguri. Diceva: «So che quest’oggi avete pregato per me e ve ne ringrazio». Abitualmente passava il giorno del compleanno in preghiera: «Quest’oggi ho fatto il ritiro mensile, naturalmente ho ringraziato il Signore e l’ho supplicato a perdonarmi quando dovrò rendere conto di tutte le grazie che ho ricevuto. Ne avrò tanti rendiconti da rendere io, sapete! Tuttavia non mi affliggo. Ho sempre fatto la volontà di Dio, di questo non dubito; dunque, Signore, supplite voi!».

Era felice di essere stato battezzato subito, il giorno dopo la nascita: «Nacqui tanti anni fa… la sera del 21 e, verso le 10,30 del mattino dopo, fui battezzato. Sicuro, subito il giorno dopo fui battezzato. Stetti una notte sola non cristiano. Non credevo mai più di vivere tanto! Ero il più meschino di tutti; il Signore si è servito di una “ula ruta” [vaso rotto]».


 


Bisogna essere sempre allegri

Una fugace spigolatura nel vasto campo del pensiero dell’Allamano coglie un aspetto importante della sua spiritualità: la sua allegria.

Il vero carnevale

L’allegria fu la componente classica della formula «Don Bosco» per raggiungere i giovani e quanti a lui si avvicinavano. L’Allamano amava il santo dei giovani, ma se ne allontanò per il «rumore» che trovava all’oratorio. Soleva dire che «il bene non fa rumore e il rumore fa poco bene». Senza dubbio, il silenzio fu un pilastro del «metodo preventivo» di Don Bosco. La «buona notte» che augurava alla sera ai giovani prima del riposo ebbe anche momenti di profezia, che fecero storia. I santi con la «S» maiuscola si differenziano, ma non si contraddicono.

L’Allamano diceva: «In tempo di carnevale abbiamo fatto penitenza. Ora, a Pasqua, facciamo carnevale. La festa di Pasqua è una festa goduta fin da ragazzi, è una festa che va al cuore». Quanto all’allegria, interrogava i giovani in Casa Madre: «Sapete perché san Francesco di Sales operò tanto bene? Perché era sempre affabile, dolce, allegro». Ancora: «Sapete perché Nostro Signore attirava tanto i fanciulli? Perché era sempre affabile». E notava: «L’allegria attira alla virtù e, talora, convince a consacrarsi a Dio».

Allegri, ma non sguaiati

Precisando il proprio pensiero, l’Allamano spiegava: «L’allegria non deve essere mai smodata; essa non consiste nella dissipazione, nel far rumore, nel gridare forte, né nel mettere sossopra la casa. Bisogna parlare, sorridere, ma tutto con modestia, con moderazione. Il riso sguaiato non va: bisogna pensare che siamo sempre alla presenza di Dio. Il Signore ci dice: “State allegri”, ma se ce lo vedessimo innanzi, rideremmo forse sguaiatamente? L’allegria smodata è stoltezza, quella vera è virtù: state attenti che non degeneri!».

«L’allegrezza non è un male – diceva ancora – ma un bene. Non si è mai troppo allegri. Dobbiamo essere allegri tutti i giorni, tutto l’anno». Citando la sacra Scrittura, sottolineava: «Il Signore ama chi dà lietamente (cfr. 2Cor 9,7). Anche san Paolo lo afferma: “State allegri nel Signore”. E come se non bastasse dirlo una volta, lo ripete: “State allegri nel Signore” (Fil 4,4)».

Citando il poverello d’Assisi, annotava: «Guai se san Francesco vedeva un suo frate non allegro! Il Signore vuole che siamo allegri sempre, anche… dormendo: come i bambini, che dormono con aria sorridente». Concludendo, diceva con un po’ d’arguzia: «Non addormentatevi mai col broncio, ma con pensieri di santa letizia».

Frutto della sua esperienza di uomo di Dio, affermava: «Se si vuole fare del bene, bisogna essere sempre allegri. Quanti ci osservano possano dire: “guardate questi missionari: hanno lasciato casa, parenti, tutto, eppure sono sempre allegri”: il prossimo ne resta edificato ed è attratto alla virtù».

La casa dell’allegrezza

«Non voglio che questa casa – si riferiva alla Casa Madre – sia malinconica, ma che sia la casa dell’allegrezza. In Africa, se non vi saprete vincere, se non saprete frenare i malumori, i disappunti inevitabili, farete solo del male, del male… Questa è la casa dell’allegrezza, perciò non si deve mai fare il “muso” [broncio]. Fare il muso è segno che o non si sta bene, o che si hanno pene spirituali. Taluni, però, che si dicono disposti a faticare, a vivere, a morire da missionari, se il Signore manda loro un maluccio, si abbattono. Bisogna avere pazienza e, poco alla volta, passerà. Con la malattia o senza la malattia, il Signore ci farà morire quando piace a lui.

A me piacciono quelli che stanno sempre nella volontà di Dio, che trovano la loro sicurezza nelle mani di Dio e tirano diritto. Avanti così. Vi voglio sempre allegri. Qui bisogna stare bene di anima e di corpo. Talvolta non vi vedo tanto allegri, e invece io desidero che in questa comunità si conservi e si accresca sempre più lo spirito di scioltezza, di allegrezza. Conosco comunità religiose che hanno una pietà amabile: tutti i membri sono tranquilli in se stessi e danno agli altri questo spirito, che è precisamente lo spirito che voglio in questa casa: sempre in gioia, sempre con facce allegre».

Il mite sorriso del padre

Le fotografie dell’Allamano che più ci sono care sono quelle che lo ritraggono con il volto atteggiato a sorriso mite, pacificante. Dicono di lui più di quanto potrebbe dirci un libro.

Ho conosciuto confratelli come i padri Giuseppe Bonaudo, Vladimiro Bazzacco, Domenico Feyles, che incontrarono il fondatore fin da piccoli, nel nostro seminario minore. Tutti lo ricordavano e me lo descrivevano vividamente, magari ad occhi lucidi, presi da quel mite sorriso del padre, dallo sguardo che ti leggeva fino in fondo, senza condizionarti. Ciascuno si sentiva amato come un beniamino. Tutti mi hanno ripetuto che, anche se ormai anziani, lo ricordavano con riconoscenza e nostalgia e continuavano a volergli quel grande bene che li aveva resi perseveranti e sereni fino a tarda età. Mi dico: a questa scuola voglio trarne profitto.

padre Giuseppe Mina

Giuseppe Allamano è stato per i suoi missionari e missionarie un padre, nel senso più profondo e bello. Molti libri hanno raccolto le sue parole paterne, tramandando la sua saggezza e testimoniando il suo affetto verso i suoi figli. Nella raccolta delle «Conferenze» alle suore (raccolte tra il 1913 e il 1925), c’è una particolarità che impreziosisce il suo ritratto: alcune sorelle, particolarmente abili e veloci nel prendere nota, oltre a registrare le sue parole, hanno annotato i suoi atteggiamenti, con semplici espressioni messe tra parentesi.

«Sorride»: questa è la nota più ricorrente nel descrivere gli atteggiamenti del fondatore; del resto il sorriso è uno degli elementi più cari della sua persona, testimoniati anche nelle fotografie e nelle deposizioni.

suor Stefania Raspo

Terracotta raffigurante l’Annunciazione custodita nella casa del beato Allamano a Castelnuovo (At)


La maternità spirituale di Maria

Durante la novena della Consolata, festa che si celebra il 20 giugno di ogni anno, alcuni
missionari e alcune missionarie si sono alternati all’ambone nell’offrire una riflessione sulla relazione del beato Allamano con la Madonna. Padre Giuseppe Ronco ha affrontato il tema della maternità spirituale di Maria.

Sotto la croce Maria diventa madre

Il fondamento biblico della maternità spirituale di Maria si trova nel cap. 19 di san Giovanni che descrive Maria sotto la croce: «Donna ecco tuo figlio, figlio ecco tua Madre». L’esegesi sottolinea come questo brano non sia un semplice racconto di un fatto capitato alla fine della vita di Gesù, ma sia una vera rivelazione. È volontà esplicita di Gesù che sua madre diventi madre spirituale di tutti i discepoli e quindi di tutta la Chiesa.

Questo significa che per Maria l’avvenimento del Calvario non era semplicemente il dramma di una madre che vede soffrire e morire il proprio figlio, ma il compimento di una missione. Ella era entrata nella prospettiva della missione redentrice di Cristo.

Il modo di esercitare la sua maternità spirituale lo troviamo ben descritto nel Vangelo, in modo particolare nel cap. II di Giovanni: «le nozze di Cana», dove due aspetti sono importanti.

Anzitutto la funzione materna di Maria attenta ai bisogni dell’uomo e della donna in caso di necessità. La mancanza di vino fa vedere Maria attenta ai bisogni dell’umanità. Nel secondo aspetto la vediamo anche come discepola e come tale invita gli altri discepoli a fare quello che Gesù vuole: «Fate quello che vi dirà».

Il testo greco dice letteralmente: «Non hanno vino» e il senso è che Maria si rivolge a Gesù dicendogli: «Non ti accorgi che questa umanità va alla malora? Non ha vino, non ha il tuo vino, non ha l’alleanza, non ha la gioia?». «Bisogna che tu dia il vino nuovo dello sposalizio».

Il magistero della Chiesa

La dottrina ufficiale della maternità di Maria è formulata nel cap. 61 della Lumen Gentium, dove il Concilio fa vedere che Maria ci è madre nell’ordine della grazia, cioè ha partecipato con Cristo, ha cooperato all’opera di salvezza operata dal Signore. E lo ha fatto per restaurare la vita soprannaturale delle anime.

Anche il magistero ne ha parlato abbondantemente. Se il Concilio di Efeso nel 431 aveva proclamato Maria «Madre di Dio», Paolo VI ha proclamato Maria «Madre della Chiesa», ponendo come base biblica Maria sotto la croce. È lì che Maria diventa la madre della Chiesa, la madre di tutti i fedeli. Importante è anche l’esortazione apostolica «Signum Magnum» del 1967 dove si dice che «la maternità di Maria è una consolantissima verità che per libero beneplacito del sapientissimo Iddio fa parte integrante dell’umana salvezza. Essa, perciò deve essere ritenuta per fede “Madre di tutti i cristiani”».

Sullo stesso tema è intervenuto papa Giovanni Paolo II, in modo particolare nell’enciclica «Redemptoris Mater» dove presenta Maria madre spirituale nello Spirito Santo. Si tratta di un altro aspetto che si aggiunge a quelli citati.

L’Allamano e la maternità di Maria

L’Allamano ha parlato della maternità spirituale di Maria molte volte e con insistenza. A questo tema ha dedicato il secondo giorno della novena scritta da lui per il santuario della Consolata. Dice così: «Maria è nostra madre poiché come tale ci fu data da Gesù sul Calvario, quando pendente dalla croce voltò lo sguardo a lei e al discepolo e li affidò l’uno all’altra: “ecco tua madre, ecco tuo figlio”». E conclude: «Prega questa buona madre per ottenerti un cuore di figlio, per non essere ingrato e meritare i salutari e consolanti effetti del suo cuore…».

La seconda volta in cui ha parlato di Maria nostra madre nello Spirito lo ha fatto ispirandosi alla dottrina del Cafasso e vedendo in lei la perfezione pratica della vita portata da Cristo. La vedeva, cioè, come un modello di vita perfetta.

Il terzo aspetto in cui il fondatore considerava Maria è quello di madre che lui qualificava col titolo di «tenerissima». Aveva perso sua madre in giovane età ed era stato un grande dolore non partecipare ai funerali, anzi, venendo a sapere della sua morte giorni e giorni dopo… fu per lui una grande sofferenza. E a questa sofferenza supplì la maternità spirituale di Maria. Prese Maria con sé durante tutto il percorso di rettorato al santuario della Consolata. Non solo, ma la consegnò anche ai suoi missionari, affinché diffondessero in tutto il mondo la gloria di Maria tra le genti, da cui nacque quel lemma che è proprio dell’Istituto: «Et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (Annunceranno la mia gloria alle genti).

padre Giuseppe Ronco

Padre Ronco ha concluso esortando a rivolgersi alla Madonna come nostra madre con la preghiera di sant’Alfonso Maria de Liguori che lo stesso fondatore proponeva:
«O Maria, non mi proibite di potervi chiamare “madre mia”».

La seconda grande preghiera dedicata alla maternità spirituale di Maria è l’invocazione del «Monstra te esse matrem» che troviamo nell’Ave Maris Stella. È un’invocazione che chiede alla Madonna: «Fammi vedere in modo concreto come tu sei la mia mamma».

 

 




Un santuario al centro di una vita


Il «santuario» è quello della Madonna Consolata di Torino e la «vita» è quella del sacerdote Giacomo Camisassa. Così il biografo annota la venuta del giovane e attivo sacerdote Giacomo Camisassa al santuario da tutti considerato il cuore pulsante della spiritualità mariana del popolo torinese. Siamo nel 1880. Lo ha invitato don Giuseppe Allamano, appena nominato rettore, con una lettera dal tono familiare ma che sa vedere lontano: «Veda mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene […] e procureremo di onorare il culto della cara nostra Madre la Consolata».

Di indole e carattere diverso, i due sacerdoti si completano mirabilmente nell’avventura di rendere nuovamente il santuario della Vergine Consolata quello che, per secoli, pur tra alti e bassi, è sempre stato considerato la casa della Madonna del popolo torinese, dove in tempi di calamità si prega per ottenere la guarigione, in tempi di guerre si supplica per la pace, e ogni giorno nella preghiera la gente trova consolazione e coraggio, avvicinandosi a Dio attraverso la Vergine Maria.

I primi anni assieme risultano per i due sacerdoti di intenso lavoro e i risultati si notano subito, come afferma Lorenzo Sales nella biografia del beato Allamano: «Sante Messe a tutte le ore; confessionali provvisti sempre di confessori; comunione distribuita ai fedeli quasi di continuo; cerimonie ben fatte; pulizia della chiesa curata fino allo scrupolo; nella sacrestia, per turno, sempre un sacerdote a ricevere i fedeli; poi ordine e puntualità massima; poi ancora e soprattutto preghiera e santità di vita». E la gente accorre numerosa al santuario, non solo in occasione delle festività, ma tutti i giorni.

Incoraggiati dall’arcivescovo, i nostri due sacerdoti mettono poi mano, con entusiasmo, ai lavori di ristrutturazione del santuario che necessita di un restyling radicale e non solo di un abbellimento superficiale. I fedeli aumentano e c’è anche bisogno di un ampliamento, impresa non facile dato il sito angusto in cui si trova la chiesa. E don Camisassa, che segue ogni cosa, suggerisce, progetta con le maestranze perché il risultato sia il migliore possibile. Anche le offerte non vengono a mancare perché la gente nota subito in quei due sacerdoti zelo, impegno e tanto amore alla Vergine Consolata.

L’Allamano e il Camisassa sanno pure guardare lontano. Non solo Torino ma tutto il mondo ha bisogno di avvicinarsi a Dio, passando per la mediazione della Vergine Maria. Ai due Istituti Missionari, che essi fondano all’ombra del santuario, danno il nome di «Consolata» con la missione di annunciare Cristo a tutti i popoli e la consolazione di Dio ai più poveri.

Anche ora dal Cielo continuano a intercedere e proteggere.

padre Piero Trabucco


Anno del Confondatore

I missionari e le missionarie della Consolata hanno dedicato l’anno 2022 al ricordo riconoscente del canonico Giacomo Camisassa, confondatore dei loro istituti, nel centenario della sua morte (18 agosto 1922). Egli fu vicerettore del Santuario della Consolata, amico e fedele collaboratore, compagno nel cammino del rettore, il beato Allamano, per ben 42 anni.

Giacomo Camisassa (1854-1922)

Nacque a Caramagna Piemonte (To). Dopo aver frequentato la bottega di un fabbro, nel 1868 entrò nell’oratorio salesiano di Torino, quindi nel seminario diocesano di Chieri per gli studi filosofici e, nel 1873, passò al seminario di Torino per la teologia. Qui ebbe assistente e direttore spirituale Giuseppe Allamano. Fu ordinato sacerdote nel 1878. Dal 1880 fu accanto all’Allamano come economo, poi come vicerettore del santuario e del convitto ecclesiastico della Consolata. Collaborò con l’Allamano alla fondazione dei missionari e delle missionarie della Consolata (1901 e 1910). Insieme all’Allamano fondò e diresse la rivista «La Consolata» che servì per far conoscere la vita del santuario e delle missioni. Dopo una breve malattia, morì il 18 agosto 1922. A buon diritto è riconosciuto «confondatore» degli Istituti dei missionari e delle missionarie della Consolata.

Amico al suo fianco

Così si sono espressi i superiori generali dei nostri Istituti parlando del Camisassa: «Egli fu un vero uomo di Dio, tutto dedito al Regno, alla Chiesa, alla Missione, ai nostri Istituti, capace di vivere “la beatitudine di essere secondo” coltivando un’amicizia profondissima, intensa, fedele, rispettosa con colui che egli considerava “padre”, il beato Giuseppe Allamano».

Il Camisassa è una figura importantissima nella vita del fondatore e, di conseguenza, anche per la nostra storia missionaria; merita, perciò, di essere ricordato e celebrato con speciale riconoscenza. È lo stesso fondatore a ricordarcelo: «Se non avessi avuto al mio fianco il can. Camisassa, non avrei fatto quello che ho fatto».

«Faremo d’accordo un po’ di bene»

Sono parole scritte a Giacomo Camisassa, nella lettera del settembre 1880, con la quale Giuseppe Allamano lo invitava e lo incoraggiava ad accettare l’incarico come economo nel santuario della Consolata. Il delicato incarico come rettore del santuario della Consolata, il fondatore lo aveva accettato con la condizione di poter lui stesso scegliere un collaboratore. La scelta del Camisassa non gli fu difficile, conoscendo il giovane sacerdote da quando l’Allamano era direttore spirituale in seminario.

«Faremo d’accordo un po’ di bene»: un’espressione che porta in sé un programma su come avrebbero portato avanti insieme l’incarico a loro affidato di guardarsi attorno e cogliere i bisogni e i movimenti dello Spirito, per dare risposte concrete non rimanendo solo in quello che era il loro dovere. I due non hanno fatto solo «un po’ di bene» ma attraverso la loro grande intesa e profonda comunione, hanno compiuto tanto bene nei 42 anni alla Consolata (1880 – 1922), intraprendendo iniziative di vario rilievo sempre nella ricerca della volontà di Dio, attenti ai segni che provenivano dalla realtà, dalla chiesa, dalla missione, nella realizzazione del «bene fatto bene senza rumore», e così facendo hanno portato frutti che perdurano nel tempo.

Confondatore

Ciò consente di riconoscere e riflettere sul suo ruolo nella fondazione e sviluppo dei nostri due Istituti. Egli ha lavorato costantemente e in maniera accuratissima per aiutare a «fondare» i nostri Istituti; era attento, premuroso e delicato nel suo rapporto con ogni missionario e missionaria. Non era solo un collaboratore, ma un vero fratello di cui l’Allamano ha potuto fidarsi, confidandogli preoccupazioni, gioie, desideri e anche la sua stessa vita spirituale… e tutto ciò era vicendevole, perché del fondatore il Camisassa aveva una stima e una fiducia illimitata.

Il Camisassa era la persona che stava sempre a fianco dell’Allamano con la sua genialità inventiva, la sua ampiezza di vedute; mai attirava l’attenzione su di sé, ci teneva ad essere secondo in maniera umile e discreta, anche se l’Allamano lo incoraggiava a portare avanti le sue intuizioni e progetti, sia nella giovane missione del Kenya come a Torino dove aveva tanti impegni.

Un progetto pensato e realizzato insieme

Il Camisassa ha visto nascere e crescere i nostri due Istituti e si è impegnato con tutte le sue forze fisiche e spirituali perché si realizzasse quello che era il sogno dell’Allamano; anzi, hanno sognato, insieme, pianificato, pregato e valutato, prima di prendere ogni decisione; ma lui fece tutto questo, senza mai passare davanti al fondatore.

Nella sua visita in Kenya, effettuata fra il 1911 e il 1912, il Camisassa informava dettagliatamente l’Allamano sullo sviluppo e tutto ciò che accadeva nelle missioni, in modo che il fondatore potesse valutare l’operato dei suoi missionari, il loro stato di salute, il livello spirituale, i sentimenti, le reazioni nelle varie situazioni missionarie, sia nel progresso e nei successi, come anche nelle difficoltà, che non sono mai mancate.

Sicuramente l’Allamano, nei primi passi della missione in Kenya, trovò nel Camisassa la persona sicura per portare avanti l’esecuzione delle varie imprese dei missionari, un esecutore intelligentissimo, rapido, pratico, risoluto, instancabile, una persona che si intendeva di tutto, non trascurava niente e incoraggiava i missionari a fare le cose nel migliore modo possibile.

L’unità dei due era così profonda, da poter affermare che abbiano percorso le strade della missione insieme, anche se l’Allamano non ha mai potuto visitare le missioni a causa della sua fragile salute; ma, attraverso il Camisassa, ha trovato il modo di essere presente nella vita dei suoi missionari e missionarie.

Costoro, riconoscenti per la sua opera, chiedono al Signore che il confondatore interceda per loro e li guidi dal cielo in quello zelo missionario e fedeltà a Dio e alla missione, che mai gli sono mancati in vita.

Direzioni generali Imc/Mc


Due olivi e due lampade

Nell’anno centenario della morte del canonico Giacomo Camisassa (18 agosto 2022), confondatore delle famiglie dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, padre Giuseppe Ronco, nella festa del beato Allamano celebrata il 16 di febbraio di quest’anno, ha parlato della loro amicizia durata tutta la vita.

Da sx: fratel Celestino Lusso, padre Tommaso Gays, padre Filippo Perlo, fratel Luigi Falda.Di fronte Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa. Foto dell’8 febbraio 1902, conservata nell’Archivio generale a Roma, n. 245

La vita del beato Allamano fu sempre orientata al Signore nell’ascolto della sua Parola, tesa alla realizzazione della sua volontà, per essere strumento del programma missionario che lo Spirito e la Consolata gli avevano stampato nel cuore. Fondò due istituti missionari per l’evangelizzazione dei popoli.

Gli fu accanto, nell’opera, il canonico Giacomo Camisassa, chiamato «Confondatore» quando l’Allamano era ancora vivo. Anzi, l’Allamano stesso attribuì al Camisassa la qualifica di «Fondatore» insieme con lui dell’Istituto missioni Consolata, e mons. Perlo, scrivendo al card. Willem Marinus Van Rossum definì l’Allamano e il Camisassa «Venerati Fondatori».

Mi pare opportuno, nell’anno centenario della morte del canonico Camisassa, riflettere sull’amicizia, fondata su Cristo, che si stabilì tra lui e l’Allamano. «Ci siamo sempre amati in Dio», diceva l’Allamano.

Tra loro, infatti, ci fu un’intesa straordinaria, sorgente di una stretta collaborazione che portò i due canonici alla realizzazione di opere grandiose. Il segreto di questa profonda amicizia è da ricercare nella loro spiritualità, fatta di concretezza e di carità semplice, ispirata alle intuizioni e agli esempi del Cafasso e volta al bene dei vicini e dei popoli lontani.

Fu un’amicizia che il canonico Nicola
Baravalle, nella sua testimonianza per il processo di beatificazione dell’Allamano, illuminò con un versetto biblico tratto dall’Apocalisse, descrivendone il senso più profondo: «Sunt duo olivae et duo candelabra lucentia ante Dominum», «Sono due olivi e due lampade che stanno davanti al Signore della terra» (Ap 11,4).

È risaputo come nella Chiesa l’amicizia spirituale tra due santi abbia sovente prodotto opere grandiose e tracciato itinerari di santità. Basti pensare ai legami di amicizia tra san John Henry Newman e Ambrose St. John. Entrambi inglesi e anglicani, insieme si convertirono al cattolicesimo, insieme entrarono nell’Oratorio di Filippo Neri, insieme vennero a Roma per studiare teologia e insieme furono ordinati sacerdoti. Insieme ritornarono in Inghilterra a lavorare, collaborando in tutto e abitando la stessa casa. La loro amicizia durò 32 anni e Newman volle essere sepolto nella stessa tomba di Ambrose.

Per l’Allamano e il Camisassa, l’amicizia fu uno stile di vita a cui sempre si ispirò il loro concreto modo di vivere e la loro attività.

Leggendo le lettere del Camisassa risulta che tra lui e l’Allamano l’intesa era piena. Nel loro vivere insieme si vedeva la complementarietà tra colui che pensa e colui che è capace di tradurre il pensiero nella vita quotidiana. Erano ambedue umili e tendenti a nascondersi.

Quanto l’Allamano stimasse il Camisassa, oltre ad averlo dimostrato con tutta la vita, appare anche dalle affermazioni proferite durante la sua malattia: «Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà».

Sperimentava la beatitudine di essere secondo!

L’amicizia tra l’Allamano e il Camisassa fu caratterizzata da uno spirito di sinodalità molto vivo. Pensavano e realizzavano tutto insieme, dialogando e dicendosi «sempre la verità». La loro amicizia e collaborazione sacerdotale, durata tutta la vita senza alcuna incrinatura, si manifestò in modo particolare nella fondazione dei due Istituti, rispettando ognuno il proprio ruolo, pur nella condivisione dello stesso ideale. C’era un desiderio ardente di comunione e di dialogo in vista di arrivare all’unità di intenti. Agivano insieme e concordi per il bene della missione e dei missionari. Ogni sera si incontravano e si comunicavano gli avvenimenti della giornata, non solo per un semplice scambio di notizie, ma nel desiderio di scoprire la volontà di Dio su di loro e sui loro progetti apostolici.

«Passavamo in questo mio studio lunghe ore… Qui nacque il progetto dell’Istituto, qui si è parlato di andare in Africa… insomma tutto si combinava qui». Dopo aver affiancato e sostenuto per 42 anni il canonico Allamano, il canonico Giacomo Camisassa fu il primo a cedere con la salute, e la sua sofferenza maggiore era quella di recare pena all’Allamano.

Erano circa le 20.00 del 18 agosto 1922; faceva caldo e umido: davvero estivo. Tutti erano a cena, quando nel suo delirio, all’improvviso, il Camisassa riuscì ad alzarsi dal letto, fece alcuni passi, barcollò e cadde: era morto.

Dice il canonico Nicola Baravalle: «Il canonico Allamano assistette all’agonia ed alla morte dell’amico senza una lacrima. E poi, portatosi in chiesa, appena inginocchiato proruppe in un pianto dirottissimo e restò parecchio assorto in Dio». È bello vedere l’Allamano piangere la morte dell’amico, portando davanti a Dio la ricchezza di una vita vissuta nell’amore.

Il 26 agosto 1922 ne diede notizia ai missionari in Kenya: «Le ultime parole del nostro caro defunto furono sull’unione tra i nostri missionari, gli uomini con le donne. Fu un’ultima volontà d’amore. Sta a noi essere fedeli a esso: è sacro! Egli viveva per noi e per le nostre missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto».

padre Giuseppe Ronco




Compagni di viaggio


In questi mesi tutte le comunità diocesane e parrocchiali sono impegnate ad approfondire i temi che i vescovi Italiani hanno sottoposto alla nostra riflessione. Si tratta dell’attuazione di quel Sinodo di tutta la Chiesa, voluto da papa Francesco, per offrire a ogni comunità cristiana l’opportunità per una conversione pastorale in chiave missionaria ed ecumenica.

Colpisce come il primo passo proposto dai vescovi per realizzare questo cammino sinodale sia quello di sentirci tutti «compagni di viaggio», persone in cammino non solo con coloro che si dicono credenti e praticanti, ma con ogni membro della società. Pare di risentire il mandato di Gesù ai primi discepoli: «Andate ovunque e annunziate che il Regno di Dio è presente tra noi». Non si tratta tanto di mettere in atto alcune iniziative, ma di fare crescere in noi un «sentire» di fraternità e di solidarietà verso tutti, come di viandanti che battono lo stesso cammino, fianco a fianco e sanno fare propri le gioie e i dolori, le fatiche e i successi dei loro compagni di viaggio.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, questo invito a una partecipazione sinodale rimanda all’esemplarità dei due sacerdoti che sono stati protagonisti nella nascita dei nostri due Istituti: il beato Giuseppe Allamano e il canonico Giacomo Camisassa. Di quest’ultimo ricordiamo quest’anno il centenario della morte. Veramente essi sono stati compagni di viaggio, camminando fianco a fianco per ben 42 anni. Una vicinanza e collaborazione che oggi leggeremmo come autentica «sinodalità». Il padre Domenico Fiorina, già superiore generale dell’Istituto, ha saputo descrivere efficacemente il loro «camminare insieme»: «Vi era impegno nei due di studiare personalmente i problemi in tutti gli aspetti, mettendo poi in comune i risultati a cui ciascuno era giunto. Tutto era visto in senso unitario, quasi come l’azione di una persona sola in cui l’intelligenza, la bontà, la volontà si fondevano in unità. Ognuno portava in questo studio se stesso con tutta libertà, senza costrizioni o timori. Ognuno però teneva il suo posto. Così che non mancava all’Allamano la serena e libera necessità di dovere prendere e fissare una decisione, né mancava al Camisassa la sincera e voluta accettazione di questa decisione e l’impegnata volontà e azione per eseguirla». Questo è un passo importante che tutti noi siamo chiamati a compiere, in questo cammino sinodale. Possa l’esemplarità dei nostri due fondatori essere luce nel discernimento e spinta all’impegno.

padre Piero Trabucco


L’Eucaristia: pane della vita

Il beato Giuseppe Allamano trovava nell’eucaristia il nutrimento della sua vita spirituale
di sacerdote e missionario e voleva che i suoi missionari fossero dei «sacramentini» nel senso
che proprio dall’eucaristia quotidiana dovevano trarre la forza e l’entusiasmo di svolgere l’opera missionaria a cui si erano consacrati.

Comunione con Gesù

Nel discorso sull’Eucaristia, riportato dall’evangelista Giovanni, Gesù si autodefinisce «il pane della vita» (Gv 6,35) e spiega: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). In sostanza, Gesù promette e illustra il mistero che realizzerà nell’ultima cena: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo…» (Mt 26,26.27), che a sua volta anticipa il mistero della morte e risurrezione del Signore. Ecco perché la Messa non è solo «sacrificio», ma anche «banchetto» e «comunione».

Il significato e l’importanza della comunione eucaristica, collegata con il sacrificio eucaristico, sono stati illustrati da san Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica «Mane nobiscum Domine» (Signore rimani con noi), che ha accompagnato la Chiesa durante l’anno dell’Eucaristia (ottobre 2004-2005): «Alla richiesta dei discepoli di Emmaus che Egli rimanesse con loro, Gesù rispose con un dono molto più grande: mediante il sacramento dell’Eucaristia trovò il modo di rimanere in loro. Ricevere l’Eucaristia è entrare in comunione profonda con Gesù. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4)».

Nutrimento indispensabile

L’Eucaristia è un pane del quale non si può fare a meno: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6,53). Sull’Eucaristia come cibo, cioè nutrimento e forza per la vita spirituale, come pure sulla sua necessità per la vita, l’Allamano è molto esplicito. Non guarda tanto alla dignità della persona che riceve l’Eucaristia, quanto alla forza vitale che promana da essa in favore della persona.

Il 6 dicembre 1912, inaugurando la cappella della prima casa madre delle suore missionarie, così si espresse: «Gesù si pose stamane in questo santo Ciborio anche per farsi cibo delle anime vostre; anzi questo è il fine principale della sua dimora. Da quest’altare Egli vi ripete: venite e mangiate il mio pane, che è pane di vita».

L’incontro con Gesù nella comunione eucaristica è un momento importante. L’Allamano insegna a desiderarlo ardentemente e a prepararsi, perché sia realizzato nel modo più fervoroso possibile. I suoi suggerimenti sono semplici, pratici, e sicuramente risentono della sua esperienza personale: «Se ci svegliamo di notte, e al mattino appena alzati, immaginiamo che il Signore ci dica come a Zaccheo: “Scendi presto, perché oggi devo fermarmi nella tua casa”; e discesi in Cappella, al più presto possibile, diciamo al Signore: “Stamane starò e ti vedrò, ti conoscerò, o Signore”. Queste sembrano piccolezze, ma servono molto; siamo tanto materiali che abbiamo bisogno di queste cose».

«Tre atti servono a infervorarci. L’atto di fede: pensare che proprio là c’è Gesù. Proprio Gesù in corpo, sangue, anima e divinità, proprio vivo com’è in cielo. Avere questo pensiero di fede. Poi umiltà: “Signore, non sono degno”, le parole del centurione, ed esamino le mie miserie. E poi desiderio, amore: “Vieni Signore, non tardare”, desiderarlo di cuore, il Signore vuole amore. Questi tre atti si potrebbero cominciare dalla sera, facendo la preparazione remota alla Comunione. Questi tre atti ci aiutano a fare la comunione con più devozione».

Nutrimento quotidiano

Per l’Allamano l’Eucaristia è «pane da mangiare ogni giorno». Egli era fautore convinto della comunione frequente, giornaliera, pur vivendo in un periodo in cui ciò era poco o quasi nulla attuato anche negli ambienti religiosi. Secondo le testimonianze dei sacerdoti che erano stati in seminario con lui, l’Allamano era tra i pochi seminaristi che frequentavano la comunione ogni giorno. Questa sua esperienza l’ha trasmessa ai suoi missionari e missionarie, pur lasciando ovviamente piena libertà. L’Eucaristia non solo nutre per la vita, ma crea unità. Anche questo aspetto è sviluppato nella già citata Lettera Apostolica «Mane nobiscum Domine»: «Questa speciale intimità (con Gesù) che si realizza nella “comunione” eucaristica non può essere adeguatamente compresa né pienamente vissuta al di fuori della comunione ecclesiale. In effetti, è proprio l’unico pane eucaristico che ci rende un corpo solo. Lo afferma l’apostolo Paolo: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,17).

Nel mistero eucaristico Gesù edifica la Chiesa come comunione, secondo il supremo modello evocato nella preghiera sacerdotale: “Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Se l’Eucaristia è sorgente dell’unità ecclesiale, essa ne è anche la massima manifestazione. L’Eucaristia è epifania di comunione».

Centro di unità

L’Allamano, a sua volta, immagina l’Eucaristia come centro di unità, all’interno dell’Istituto, specialmente in due modi. L’Eucaristia (il tabernacolo vivo) è centro della casa, a cui tutto tende. Ovviamente per casa intende non i muri, ma la comunità.

Inoltre, l’Eucaristia crea e garantisce l’unità perché è Gesù che dal tabernacolo forma i missionari e dà loro una fisionomia unica secondo l’ispirazione originaria. Nella conferenza del 21 dicembre 1919, l’Allamano afferma: «Non dovete accontentarvi di divenire religiosi, sacerdoti, missionari solo per metà; ci vuole proprio il superlativo. E per questo dobbiamo pregare molto Gesù nel tabernacolo; è Lui che deve formarci. I superiori sono solo delle paline che indicano il viaggio per andare a Lui; è Gesù che deve poi fare. Egli ci formerà».

padre Francesco Pavese


Preti, cioè missionari

L’esempio è… Allamano

Presentiamo una sintesi della tesi* di dottorato in missiologia di padre Luca Bovio, missionario della Consolata e segretario nazionale della Pontificia unione missionaria in Polonia, dove lavora dal 2008. Partendo dalla vita e dal pensiero del beato Giuseppe Allamano, sacerdote diocesano di Torino e fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata, l’autore vuole dimostrare che la missione universale fa parte del Dna costitutivo di ogni sacerdote o, più semplicemente, che «prete e missionario» sono… la stessa cosa.

Sono molti gli studi, gli approfondimenti e gli articoli scritti su Giuseppe Allamano dai suoi missionari e missionarie in oltre un secolo di storia, così come esiste una solida bibliografia su di lui, scritta da persone non appartenenti all’Istituto.

L’idea portante della mia tesi di laurea è nata mettendo insieme «la lettura delle Conferenze del Fondatore, raccolte da padre Igino Tubaldo, e il servizio che da anni svolgo in Polonia per le Pontificie opere missionarie, incontrando centinaia di seminaristi, e i numerosi contatti coi sacerdoti nelle parrocchie». Dall’insieme è nato il tema di questo lavoro, che si potrebbe riassumere così: «Ogni sacerdote per sua natura è missionario. Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano».

Missionario… a chilometro zero

Indipendentemente dal lavoro e dal servizio pastorale svolto, la vita dell’Allamano e il suo insegnamento dicono a tutti e, in modo particolare ai sacerdoti, che occorre vivere in pienezza il proprio sacerdozio, uniti misteriosamente per partecipazione a Cristo, sommo e unico sacerdote (Eb 8,1-9). Questa chiamata al sacerdozio trova nella missione la sua naturale realizzazione, non nel senso stretto che tutti i sacerdoti devono partire per la missione (anche se una parte, certamente, dovrebbe farlo), ma che tutti devono avere in sé uno spirito missionario.

L’Allamano, pur nutrendo un sincero desiderio (ancora da seminarista) di partire per le missioni, non riuscì mai a realizzare questo progetto, a causa dei noti problemi di salute. Tutta la sua vita sacerdotale è stata vissuta nella città di Torino, tra il santuario della Consolata (di cui era rettore) e l’adiacente Convitto per i giovani sacerdoti, le conferenze settimanali ai missionari in Casa Madre e gli esercizi spirituali al clero nelle Valli di Lanzo, presso il santuario di S. Ignazio. I viaggi più lunghi che intraprese nella sua vita furono quelli a Roma, per incontrare il papa e recarsi alla congregazione di Propaganda Fide. Mai uscì dai confini dell’Italia.

Mancano completamente i viaggi nelle missioni. Eppure, il suo sacerdozio, vissuto in tanti e diversi incarichi, ha in sé una straordinaria prospettiva missionaria.

Come Cristo, sacerdoti per l’umanità

Come Segretario nazionale della «Pontificia unione missionaria» in Polonia, ho visitato quasi tutti i seminari diocesani polacchi e alcuni di quelli dei religiosi dove ho presentato la vocazione missionaria evidenziando il legame tra sacerdozio e missione lasciandomi ispirare dall’insegnamento di Giuseppe Allamano.

Nonostante gli eventi tragici che hanno toccato la storia della Polonia negli ultimi secoli e il secolarismo che avanza, la Chiesa in questo paese è una presenza significativa.

Nel paese ci sono molti sacerdoti e dal confronto con la figura dell’Allamano, potrebbero trovare aspetti arricchenti per la loro vita sacerdotale, e scoprire che la missione non è un elemento lontano o aggiuntivo al sacerdozio, ma è quell’orizzonte di santità a cui tutti i sacerdoti sono chiamati.

Nel pensiero dell’Allamano la dimensione missionaria è profondamente unita al suo sacerdozio. La missione, per lui, è anzitutto un modo di essere sacerdote prima che fare delle opere, le quali lui stesso non disdegnava, essendone attivo promotore.

La chiave per comprendere il suo essere sacerdote missionario è la sua apertura di cuore e di mente. Egli fu un sacerdote che desiderò profondamente donarsi a Dio e ai fratelli, unendo in sé la dimensione particolare con quella universale. Proprio servendo in verità e profondità le persone incontrate ogni giorno, restò aperto al richiamo dell’umanità intera per la quale Cristo ha donato la sua vita.

Il rapporto tra sacerdozio e missione non è immediato, anzi spesso appare separato nel modo di pensare di chi distingue tra «sacerdoti diocesani» e «sacerdoti missionari». Tuttavia da un punto di vista teologico non c’è differenza tra sacerdozio e missione: ogni sacerdote è per sua natura missionario. Ogni sacerdote, infatti, partecipa dell’unico e universale mistero della salvezza e da questa ampia prospettiva, scaturisce una profonda unità tra sacerdozio e missione.

Occorre, perciò, superare questa divisione e trovare un’unità, fondata su un punto vista teologico e non solo pastorale; quella stessa unità che si può vedere, in modo evidente, nella vita dell’Allamano.

La forma del sacerdozio (o il servizio pastorale) presenta delle differenze: abbiamo sacerdoti diocesani, ci sono sacerdoti missionari, altri professori e insegnanti, o impegnati ancora in vari campi caritativi, o pastorali. Tuttavia, la forma esterna non può mai essere ridotta o separata dalla natura interna, dall’orizzonte universale salvifico di Cristo a cui ogni sacerdote partecipa.

padre Luca Bovio

* Ogni sacerdote è per sua natura missionario.
Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano
, IMC, Varsavia 2020.

 

 




Correva l’anno del Signore 1922


In quell’anno moriva presso il santuario della Consolata, in Torino, il canonico Giacomo Camisassa. Ancora giovane sacerdote, non esitò a mettersi al fianco di colui che era stato suo direttore spirituale nel seminario, il canonico Giuseppe Allamano, e che era appena stato nominato rettore del santuario della Consolata, per offrire la sua collaborazione fedele e operosa. E lì  rimase per ben 42 anni, amico e aiuto prezioso del giovane rettore. Ad un gruppo di missionarie, giunte nel suo ufficio per porgergli le condoglianze, il canonico Allamano disse, con le lacrime agli occhi: «Tutte le sere passavamo qui lunghe ore… qui nacque il progetto dell’Istituto, qui si è parlato di andare in Africa… insomma tutto si combinava qui. Ora non c’è più, cosa farò io?».

L’eredità lasciata da Giacomo Camisassa alla chiesa torinese e ai missionari e missionarie della Consolata è ancora oggi un tesoro a cent’anni di distanza. La sua testimonianza di vita interpella e stimola tutti ad aprirsi con coraggio verso la missione evangelizzatrice della Chiesa e a una solidarietà generosa nei confronti degli ultimi e degli emarginati. Per questo motivo, ritorneremo nel corso dell’anno 2022 a presentare aspetti esemplari della sua figura, sicuri di offrire ai lettori proposte capaci di rinfrancare i cammini che papa Francesco ci invita a intraprendere come «discepoli» e «missionari».

In questi giorni la Chiesa universale e quella italiana invitano a compiere un «cammino sinodale» fatto di coinvolgimento e dialogo, di collaborazione e operosità all’interno delle nostre comunità cristiane per risvegliare in tutti lo zelo missionario e attirare coloro che dalla Chiesa si sono allontanati. Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa, pur in epoche lontane, hanno saputo essere esempio di dialogo e discernimento, collaborazione e spinta ai lontani, mossi da un intenso fervore di vita spirituale. Utilizzavano soprattutto mezzi semplici, ma quanto mai efficaci. Leggiamo, ad esempio, nella sua biografia: «Dopo cena [i canonici Allamano e Camisassa] si trovano per vagliare quanto nella giornata è emerso e quanto il domani sembra prospettare. Niente di formale, niente di rigido, ma tutto è chiarezza, ricerca, gioia di camminare insieme. Due ore al giorno passano così nel dialogo. Quei due che si fanno scrupolo di non perdere un minuto, non ritengono sia sprecato quello speso per chiarirsi le idee, per approfondire problemi, per giungere a conclusioni. Gli incontri danno tranquillità al Fondatore, perché chi gli sta accanto è un uomo sincero, capace di contestarlo per farlo riflettere, ma attento e fedele ai suoi cenni come se venissero da Dio» (Mina, «La beatitudine di essere secondo», pp. 73-74).

Che il beato Giuseppe Allamano e il canonico Giacomo Camisassa aiutino anche noi ad essere oggi persone capaci di discernimento, dialogo e fattiva intraprendenza a favore dei poveri e dei lontani dalla Chiesa.

padre Piero Trabucco


Chiedete e vi sarà dato

«Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto» (Mt 7,7): questo invito di Gesù ha suscitato una profonda eco nello spirito del beato Giuseppe Allamano, il quale lo ha trasmesso ai suoi figli e figlie, esortandoli a pregare con fiducia e a vivere l’eucaristia in unione al sacrificio redentivo di Cristo.

Pregare con fiducia

La vera preghiera, sembra suggerire l’Allamano, nasce da un rapporto positivo con Dio. Nessuna paura, nessun dubbio, tanta confidenza e fiducia: sono atteggiamenti interiori che creano un clima di vera sintonia tra noi e Dio. L’Allamano ci fa capire che il Signore ci conosce nell’intimità, di conseguenza è logico fidarsi. Lo dice sotto tutti i toni: «Pensare sovente al Signore che può, sa, e vuole aiutarci». «Bisogna avere molta confidenza in Dio e voler sempre quello che egli vuole».

«Se uno domanda le grazie senza speranza d’ottenerle, non le ottiene sicuramente. Bisogna domandarle con fede, con quella confidenza da far miracoli. Bisogna importunarlo, nostro Signore, fare come quel tale della parabola del Vangelo che andò durante la notte a domandare del pane all’amico… a forza d’importunarlo glielo diede».

Pregare con perseveranza

L’Allamano insegnava a pregare con perseveranza, fidandosi senza tentennamenti, anche quando le circostanze sembravano suggerire il contrario. Di ritorno da Roma, dopo la beatificazione dello zio materno, Giuseppe Cafasso, riferì agli allievi che i cardinali, entusiasti del nuovo beato, gli avevano detto: «Ora tocca a voi farlo far santo, ottenendone i miracoli». Ma aggiunse subito un suo commento sapiente e concreto: «Questo è un buon principio. E voi domandate grazie spirituali, queste piacciono più a lui e le fa più volentieri. Ma siccome queste non bastano, domandate pure grazie materiali, soprattutto miracoli di chirurgia (si fa una novena, poi una seconda, una terza senza mai stancarsi). Soprattutto domandate vero spirito religioso».

Alle suore, nella conferenza del 9 maggio 1915 sulla «preghiera», così si espresse: «Generalmente quando per ottenere una grazia si fa una novena ai santi, non si ottiene subito dopo questa grazia (non sembra che sentano la prima volta); se ne fa una seconda (e il santo comincia a sentir di più); se ne fa una terza (ed il santo apre e ci ottiene la grazia). Quando non riceviamo quello che abbiamo chiesto, pensiamo che neppure un filo, una parola della nostra preghiera è caduta nel vuoto».

L’Allamano al santuario della Consolata (fotomontaggio)

La messa, primo amore dell’Allamano

L’Allamano sottolinea che l’eucaristia è il centro del culto della Chiesa, specificando che è proprio la santa messa la fonte di tutto il mistero eucaristico: «Certamente la prima, la più eccellente e potente orazione è la santa messa. In essa parliamo all’Eterno Padre con Gesù; è Gesù che si offre e prega per noi; e soddisfa ai nostri debiti. Guai al mondo se non vi fosse la santa messa. Al sacrificio della messa tendono come al centro tutte le altre orazioni dei sacerdoti».

Rivolgendosi ai suoi missionari diceva: «La santa messa, la comunione e la visita al Santissimo Sacramento devono essere i nostri tre amori»; «Gesù è veramente con noi là nel santo tabernacolo; e vi è come vittima, cibo ed amico; vittima nella santa messa, cibo nella santa comunione, ed amico nelle visite al Santissimo».

L’Allamano, secondo la fede della Chiesa, ha evidenziato il significato sacrificale della  messa: «Nella messa si ripete sempre il sacrificio della croce tale e quale; se nostro Signore non fosse morto sulla croce, morirebbe ogni giorno sull’altare. Il Signore si sacrifica all’eterno Padre per i nostri peccati, per ottenere le grazie di cui abbiamo bisogno; si offre al Padre ed è sempre una vittima, un olocausto».

Nella teologia eucaristica ha un valore essenziale l’aspetto dell’offerta di Gesù al Padre come vittima in favore nostro e di tutta l’umanità. Ora, il dono di Gesù al Padre coinvolge la Chiesa chiamata a offrirsi assieme a Gesù. L’Allamano ha percepito bene questo significato dell’offerta sacrificale, vivendolo personalmente ed insegnando ai suoi missionari e missionarie a offrirsi al Signore con generosità, come «olocausti».

Sul Calvario con Maria

C’è da aggiungere un altro suggerimento interessante che l’Allamano ci offre: vivere la messa come se si fosse sul Calvario con Maria. Emerge qui il senso mariano dell’eucaristia. Non si dimentichi che al vertice dei misteri della luce del santo Rosario c’è proprio l’istituzione dell’eucaristia. Il papa Giovanni Paolo II così conclude la sua lettera apostolica per l’Anno (2004-2005) dell’Eucaristia Mane nobiscum Domine: «La Chiesa, guardando a Maria come a suo modello, è chiamata ad imitarla anche nel suo rapporto con questo mistero santissimo. Il Pane eucaristico è la carne immacolata del Figlio: Ave verum corpus natum de Maria Virgine» (n. 31).

La pietà mariana dell’Allamano lo ha portato a comprendere bene la partecipazione di Maria alla redenzione e, quindi, il suo speciale coinvolgimento nel mistero eucaristico. Nel suo quaderno spirituale da seminarista leggiamo: «Voglio assistere alla messa in compagnia di Maria Santissima sul Calvario ed accostarmi alla comunione con gli stessi sentimenti di Maria SS. al Verbum caro factum est» .

E, parlando della messa alle suore, disse: «La santa messa è certo la più gran cosa e per essere degna bisognerebbe che Dio stesso la celebrasse. È lo stesso sacrificio della croce; il sacerdote è solo ministro secondario; Gesù è la vittima e il primo ministro: è lui che si offre, che domanda perdono, che ringrazia, che impetra grazie! Dobbiamo figurarci di assistere al Calvario con la Madonna e san Giovanni».

Condividendo i sentimenti della Madonna – sembra dirci l’Allamano – si partecipa alla messa non solo con la testa, ma anche con il cuore.

padre Francesco Pavese

Mons Martinacci (al centro) con i missionari della Consolata che celebrano i loro giubilei di ordinazione e professione religiosa


Maestro del clero

Monsignor Giacomo Maria Martinacci, rettore del santuario della Consolata, qualche tempo fa, ha incontrato i missionari che celebravano i 25 anni di ordinazione o professione religiosa e ha parlato loro del beato Giuseppe Allamano come «Maestro del clero». Di seguito riportiamo una sintesi del suo intervento.

Mi sembra importante, guardando al beato Giuseppe Allamano, vederlo inserito – pur con la sua inconfondibile originalità – nel contesto di un clero e di una intera comunità diocesana torinese segnato – particolarmente nei due ultimi secoli – da itinerari di santità esplicitamente riconosciuta dalla Chiesa stessa.

L’Allamano nasce a Castelnuovo d’Asti nel 1851, dove prima di lui erano nati lo zio san Giuseppe Cafasso (1811) e san Giovanni Bosco (1815) e dove concluderà la sua breve vita san Domenico Savio (1857): una coincidenza storica davvero unica per un paese non grande come appunto era ed è tuttora Castelnuovo (Provincia di Asti e Arcidiocesi di Torino).

È certamente curioso che un sacerdote, il quale mai è stato addetto a una parrocchia venga affiancato ai giovani sacerdoti per aiutarli a diventare buoni viceparroci e parroci; altrettanto stupefacente è che uno che mai era stato nelle missioni e mai vi è poi andato, fondi due Istituti missionari e sia formatore e maestro di missionari e di missionarie. Eppure, questa è la storia del beato Giuseppe Allamano. A lui, dopo alcuni anni nel seminario teologico dell’Arcidiocesi – prima come assistente (1873-76) e poi come direttore spirituale (1876-80) -, fu affidata la responsabilità del Santuario mariano più importante di Torino, a cui si aggiunse due anni dopo quella di rettore del rinato Convitto ecclesiastico per i giovani sacerdoti e successivamente divenne fondatore di due famiglie religiose missionarie.

Padre Pavese, riferendo gli insegnamenti dell’Allamano come maestro nella formazione del clero diocesano nel Convitto ecclesiastico, nota una evidente differenza tra le conferenze ai sacerdoti del Convitto ecclesiastico e quelle tenute ai missionari e alle missionarie.

«Le prime sono di carattere ascetico, ma soprattutto pastorale. L’Allamano intendeva preparare i sacerdoti al ministero, insegnando loro come agire e come evitare i difetti che purtroppo si riscontravano. Le seconde, cioè quelle ai missionari, sono piuttosto di carattere ascetico. Intendeva preparare missionari “santi”, sicuro che il metodo dell’apostolato l’avrebbero poi imparato in loco».

Ai sacerdoti convittori (quelli dei primi anni del Convitto li aveva conosciuti nel seminario in quanto era stato il loro direttore spirituale, ma successivamente sarebbero stati sacerdoti che incontrava per la prima volta) manifestava accoglienza cordiale e aperta, presentando anche il Regolamento del Convitto, con cui intendeva mettere le basi alla vita di comunità. Insegnava poi ad essere fedeli al ritiro mensile e agli esercizi spirituali annuali; sulla necessità della meditazione quotidiana era irremovibile, la faceva precedere a qualsiasi altra preghiera, santa Messa esclusa. Privilegiava poi la visita al santissimo Sacramento: un tema ricorrente nei suoi interventi. Prendendo lo spunto da circostanze diverse, insegnava ai convittori come vivere certi avvenimenti ecclesiali, come compiere alcuni atti propri dei sacerdoti e, in particolare, quali fossero le virtù da curare, che indicava come «sacerdotali».

Circa le virtù sacerdotali raccomandava: l’ardore apostolico o zelo, come si diceva allora; l’educazione e la modestia; la castità; il disinteresse e il distacco dai parenti. Circa il modo di vivere certi eventi sottolineava: la novena del Natale e quella dello Spirito Santo; la presenza della Madonna e la pietà mariana; la consacrazione delle chiese. Per il modo di compiere gli atti propri del sacerdote insisteva su: celebrazione della santa Messa e della liturgia; visita al santissimo Sacramento; benedizione eucaristica. Non mancava di evidenziare la necessità dello studio, dell’esame di coscienza e della lettura spirituale.

Per parte mia devo riscontrare che tutte queste indicazioni e sottolineature io, che sono stato ordinato sacerdote 55 anni fa, le ho ancora riscontrate praticamente pari pari negli anni del nostro seminario e nell’anno trascorso qui al Convitto ecclesiastico. Se guardiamo al clero torinese, formato nel Convitto a partire dal fondatore teologo Luigi Guala – iniziato nel 1817 – e dal suo primo successore san Giuseppe Cafasso, per giungere al beato Allamano e al beato Luigi Boccardo che fu suo diretto e principale collaboratore per trent’anni nel Convitto (mentre il canonico Giacomo Camisassa lo fu per il Santuario e successivamente anche per missionari e missionarie), dobbiamo rilevare che la straordinaria fioritura di santità sacerdotale degli ultimi due secoli non può non essere anche conseguenza di quanto i sacerdoti avevano ricevuto nella formazione seminaristica e nel Convitto.

Non è mio compito entrare nel campo degli insegnamenti offerti dall’Allamano ai missionari e alle missionarie, tuttavia come attuale rettore del Santuario (qui sono il decimo successore del beato), desidero farmi eco dell’Allamano ricordando a voi, proprio in questo luogo santo, la caratteristica assolutamente indispensabile da lui costantemente richiesta e ribadita ai missionari e alle missionarie: la vostra santificazione.

Monsignor Giacomo Maria Martinacci


Pensando di fare cosa gradita ai nostri lettori, a cominciare da questo numero, presentiamo alcune pagine del volume «Giuseppe Allamano – uomo per la missione», edito da Edizioni Missioni Consolata a cura del defunto padre Francesco Pavese con l’apporto sostanziale di suor Angeles Mantineo, Missionaria della Consolata.

Il volume, che ha visto la luce nel 2009, è una sorta di autobiografia in cui l’Allamano comunica se stesso, raccontandosi volentieri e con semplicità, come un padre che si intrattiene con i figli, sicuro di essere capito e accettato. Per questo mantiene tutta la sua freschezza e immediatezza anche oggi.

Il testo è corredato da una ricca documentazione fotografica in cui vengono presentate tutte le foto del Fondatore assieme ai luoghi in cui è vissuto e le persone con le quali si è interfacciato.

Il titolo del volume «Uomo per la missione» è parso il più espressivo per caratterizzare l’identità profonda dell’Allamano fondatore di due istituti missionari, che voleva farsi missionario fin da quando era seminarista. Il sottotitolo «Adesso voglio parlarvi un po’ di me» riporta sue parole e indica il criterio con cui è stato realizzato il libro.

Giuseppe Allamano si racconta

Il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata, educava alla missione i giovani dei suoi due Istituti comunicando loro il proprio spirito con l’insegnamento e la testimonianza di vita. Il suo metodo pedagogico valorizzava grandemente l’esperienza quotidiana. In genere, la sua dottrina veniva esemplificata con fatti e vissuto personali. Ecco perché ai suoi figli e figlie parlava spesso di sé. Sono simpatiche e accattivanti certe espressioni con le quali introduceva o giustificava le sue confidenze, quali: «Adesso voglio parlarvi un po’ di me»; «Vi dico tutto come un padre di famiglia»; «Stasera voglio farvi il mio panegirico, a gloria di Dio».

Sono pure significative le parole con le quali invitava i suoi giovani a imitarlo: «Provate anche voi»; «Fate così»; «Felici voi se farete così».

A questa facilità di comunicazione fa contrasto la sua ritrosia a lasciarsi fotografare. Le sue fotografie sono relativamente poche e la maggior parte di esse sono in gruppo. Tuttavia servono per accendere la fantasia di chi lo ascolta e rendere più concrete le sue confidenze. Fa piacere vederlo, oltre che ascoltarlo.

Il presente volume offre la possibilità di ascoltare e vedere questo grande «Uomo per la missione». Esso può definirsi un’autobiografia fotografica dell’Allamano, proprio perché raccoglie e integra armonicamente moltissime espressioni dove egli parla di sé o manifesta il proprio pensiero, assieme a un gran numero di fotografie sue e di personaggi e luoghi a lui strettamente collegati. In certo

senso, l’Allamano si racconta e assieme si presenta e continua a proporre un particolare cammino di santità in vista della missione universale della Chiesa.


POSTULATORE – P. GIACOMO MAZZOTTI

Chi ricevesse una grazia per intercessione del beato Giuseppe Allamano è pregato di notificarlo ai seguenti indirizzi:

POSTULAZIONE MISSIONI CONSOLATA
• Viale Mura Aurelie, 11-13 – 00165 Roma
• Corso Ferrucci, 14 – 10138 Torino
E-mail: postulazione@consolata.org
https://giuseppeallamano.consolata.org




L’estate del nostro scontento

Sì, l’estate di questo (non proprio felice) anno – parafrasando il noto romanzo di J. Steinbeck, l’inverno del nostro scontento – è stato dolorosamente percorso da una parola evocatrice di tristissimi scenari di guerra e violenza, Afghanistan. Con immagini, commenti, interviste, titoli di giornali che hanno lacerato il nostro cuore missionario: «Sull’Afghanistan regna il terrore»; «Dopo cento anni, l’Afghanistan resta senza i missionari cattolici»; «Cristo è presente ancora in Afghanistan»; «Kabul, quei bambini dati oltre il muro»; «L’inarrestabile guerra lampo dei talebani e il fallimento dell’Occidente»; «Il papa: No, per l’Afghanistan serve il dialogo».

Con il coordinatore italiano di Pax Christi, don Renato Sacco, che rincarava la dose: «In tanti anni non abbiamo capito come funziona questo paese e non abbiamo lavorato davvero per farlo crescere. Se avessimo “bombardato” non con le bombe, ma coi quaderni o col pane, non avremmo dato ai talebani la possibilità di farsi i paladini degli interessi del loro paese… Ci riuniremo per il nostro Congresso annuale e il titolo sarà: “Abbi cura delle relazioni. Preparerai la pace”, prendendo spunto dal messaggio del papa per la giornata della pace dello scorso primo gennaio. Credo che avremo bisogno, proprio parlando di Afghanistan, prima che di strategie, tattiche e calcoli politici, di riprendere il valore della cura intesa come avere attenzione dell’altro che ci deve disarmare nella politica, nella società, nella cultura e nell’ambiente».

Ho la fortuna di visitare due famiglie di profughi afghani (una con tre e l’altra con quattro bambini), ospitate dalle nostre Suore missionarie della Consolata, ascoltando racconti di paura e lacrime che fanno rabbrividire, mentre i ragazzini più piccoli scorrazzano sulle bici, regalate loro dagli abitanti della cittadina che li ospita, circondandoli di affetto sconfinato. Che ne sarà di loro? E dei parenti e amici rimasti nel paese, ritornato nelle mani dei talebani? Cosa fare per «aiutare davvero» questo infelice paese? E mi torna in mente un particolare curioso: l’Afghanistan è presente con un suo prezioso prodotto, il lapislazzuli, in moltissime delle nostre chiese; infatti, l’azzurro di tanti quadri e affreschi (compreso il cielo del Giudizio universale della Cappella Sistina), proviene proprio da quella che allora si chiamava «India Superior».

Possa, allora, la Vergine Santa, la nostra Consolata e Consolatrice, portare l’aurora, per un cielo più sereno, anche per il martoriato popolo afghano.

padre Giacomo Mazzotti


Prima santi, poi missionari

Tra le convinzioni del beato Giuseppe Allamano, come educatore di missionari, quella che forse più emerge può essere così riassunta: «Prima santi, poi missionari». Solo chi è santo può essere vero missionario. Il nostro fondatore era così convinto di questo principio, che univa i due termini
«santità» e «missione» quasi fossero un binomio.

Missionari santi

Nell’Allamano troviamo un principio molto chiaro: non basta impegnarsi nel lavoro, ma bisogna essere idonei per compierlo bene. Seguendo la dottrina dello zio materno, san Giuseppe Cafasso, amava ripetere: «Il bene deve essere fatto bene». Questo è diventato un criterio pedagogico per l’Allamano, fin dai primi anni. Ai missionari del Kenya, all’inizio del 1905, mentre comunicava il magnifico esito delle feste centenarie del santuario della Consolata, assicurava di aver chiesto alla Madonna non tanto «l’incremento materiale dell’Istituto, quanto la grazia che continuasse anzi crescesse in voi la volontà e l’impegno di santificare voi stessi, mentre zelate la conversione degli infedeli». E questo è diventato quasi un ritornello.

Ecco un’altra lettera del 1907: «Fra poco vi radunerete per i santi spirituali esercizi, ed io a voi presente in spirito, v’invito a studiare i mezzi più idonei alla vostra santificazione ed alla conversione di cotesto popolo». E ancora, dopo gli esercizi spirituali: «Ne sia ringraziato il Signore, e la sua grazia faccia sì che il frutto ricavatone sia duraturo a vostra santificazione ed a bene degli africani».

Parole simili l’Allamano scriveva anche al primo gruppo di missionarie partenti per il Kenya nel 1902: «Anzitutto tenete sempre in cima ai vostri pensieri il fine per cui vi siete fatte suore-missionarie, ch’è unicamente di farvi sante e di salvare con voi tante anime».

Prima l’essere, poi l’operare

L’Allamano ha esplicitato il criterio pedagogico di essere santi per poter essere veri missionari indicandolo come una priorità più logica che temporale: la santità precede per importanza l’azione missionaria. C’è un prima e un poi nelle intenzioni e nei valori: prima santi, poi missionari. Praticamente il fondatore manifestava un principio di vita, valido per tutti i cristiani, che il Concilio Vaticano II avrebbe poi sottolineato con enfasi: «Prima l’essere e poi l’operare».

Anche su questo particolare aspetto le sue espressioni sono chiare e abbondanti. Così scriveva confidenzialmente al padre Angelo Dal Canton, missionario in Kenya, nel 1913: «Tu ben sai quale spirito io desideri dai nostri missionari. Che siano ben fondati nello spirito di fede, sicché operino per Dio, e nella condotta rappresentino Dio stesso in faccia agli africani». E concludeva la lettera con queste significative parole: «Io prego ogni giorno il Signore perché tutti vivano costantemente quali degni missionari, e lavorino prima alla propria santificazione, e poi alla conversione di codesti cari neri».

Al padre Giovanni Chiomio, testimone ricchissimo delle parole del fondatore, in una lettera del 1920, scriveva: «Sempre coraggio in Domino, conservando e propagando il buon spirito fra i confratelli. Prima santi voi, poi fate del bene ai neri: in tutto N. S. Gesù Cristo!».

Nelle conferenze agli allievi e alle suore questo ritornello ritornava spesso, specialmente quando spiegava i fini per cui erano entrati nell’Istituto: «Primo: siamo per farci santi in questa casa: non solo per farci missionari, ma per farci santi e poi missionari». «È questo il fine primario del nostro Istituto. Non siete qui venuti solo per farvi missionari, ma per farvi santi; allora solamente adempirete bene il secondo fine di essere missionari».

È lo Spirito che converte

La santità, per l’Allamano, è una premessa necessaria all’apostolato, perché chi converte è lo Spirito, che si ottiene non con belle parole, ma con la fede e la preghiera. Più uno è unito a Dio e più accompagna i fratelli verso il bene. E, convinto, diceva: «Qualcuno crede che l’essere missionario consista tutto nel predicare, nel correre, battezzare: no, no! Questo è solo il fine secondario: santifichiamo prima noi e poi gli altri. Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà». «Dobbiamo prima essere buoni e santi noi, dopo faremo buoni gli altri; altrimenti, non saremo buoni né per gli altri, né per noi». «Se non si è santi… non si fa niente! Chi non arde non incendia. Si fa ridere il demonio». «Non come dicono: “Oh, tanto se salvo un’anima salvo la mia”. Sì, ma prima bisogna essere santi: se non saremo santi non saremo buoni né per noi, né per gli altri». «Teniamo a mente che il primo scopo è quello di farci santi noi. È inutile voler convertire gli altri, se non siamo santi noi». «Questa deve essere la cura principale vostra perché se non sarete santi, invece di convertire gli altri in missione vi pervertirete persino voi». «Fine primario dell’Istituto è la nostra santificazione, cui dobbiamo attendere anche pel fine secondario di salvare gli infedeli. Lo dicono i nostri missionari: “Certe conversioni non si ottengono se non si è santi”. Non aspettate di esserlo in Africa».

Così ragionano i santi

I missionari e le missionarie della Consolata hanno fatto tesoro di questo principio di vita trasmesso loro dal fondatore. La missione, oggi, richiede una nuova comprensione, una diversa strategia, dei metodi differenti dal passato. L’Allamano sarebbe d’accordo su tutto ciò, proprio lui che dovette soffrire certe critiche per la novità e la lungimiranza del metodo apostolico maturato con i suoi missionari. Una cosa, però, rimane immutata e ci ripeterebbe come ci ha detto mille volte in passato: «Prima santi, poi missionari»!

È risaputo quanto all’Allamano stesse a cuore la «qualità» dei suoi missionari e, confidando alle suore le continue richieste di personale che giungevano dall’Africa, un giorno disse: «Voi dovreste essere 500 almeno. Voi mi avete detto che non guardo il numero ma la santità; ma più grosso è il numero dei santi e meglio è…». Così ragionano i santi!

Padre  Francesco Pavese

 




Nodi da sciogliere

È da poco passata la bella festa della nostra Consolata, mentre mi accingo a stendere queste note per il prossimo mese. E mi ritorna alla mente la «Maratona di preghiera» voluta da papa Francesco per pregare Maria, nel mese di maggio, in una trentina di santuari sparsi per il mondo. Ho cercato di collegarmi, ogni sera, in quasi tutte queste tappe, commovendomi, ogni volta, nel vedere i diversi modi con cui ogni comunità di credenti (anche nei paesi più lontani, piccoli, o poveri) si rivolgeva alla Madre del Signore per chiedere protezione, conforto e… guarigione in questa interminabile pandemia di Covid-19.

Dunque, un vero tour missionario, «di quelli che non trovi tanto sulle carte geografiche – ha scritto qualcuno – ma disegnato sulle pareti del cuore; una “mappa” dello spirito, incorniciata da due sole linee: una orizzontale a unire i compagni di strada, l’altra orientata verso l’alto, a legare la terra al cielo in quel dialogo di vita che si realizza nella preghiera».

E la maratona si è (ovviamente) conclusa a Roma, nella casa (o meglio, nei giardini) del Papa che, in un gesto di profondo affetto filiale, ha anche voluto incoronare l’immagine della «Madonna che scioglie i nodi», di cui egli è particolarmente devoto.

Nodi che sono stati evocati col loro nome preciso: la nostra relazionalità ferita dalla solitudine e indifferenza; il dramma della violenza, scatenata soprattutto in famiglia durante il coronavirus; la disoccupazione crescente, con particolare attenzione a quella giovanile e femminile; la ricerca scientifica, capace di scoperte da rendere accessibili a tutti, soprattutto ai più deboli e poveri; una pastorale nuova, che renda più dinamiche le comunità ed entusiasmi i giovani a costruirsi una famiglia e un futuro migliore. Cinque nodi, come i misteri del Rosario, anche se ce ne sarebbero molti altri…

Che bello, allora, pensare che nei nostri piccoli, ma tenaci sforzi per sciogliere questi nodi, siamo accompagnati dallo sguardo e dal cuore di Maria, per noi la Consolata, che è diventata «un po’ più missionaria» grazie alla tenace fiducia di Giuseppe Allamano, nostro padre e fondatore, il quale, con il suo esempio e i suoi insegnamenti, spinge tutti noi, suoi figli e figlie (ma anche i tanti suoi amici e devoti), a non stancarci mai di portare consolazione e speranza, proprio nel nome di Maria e «fino agli estremi confini della terra».

Sciogliendo nodi, per tessere legami di vera e universale fraternità.

padre Giacomo Mazzotti


Un nome che impegna

Giuseppe Allamano era convinto, e lo diceva apertamente, che la spinta per dare il via ai suoi due istituti missionari era partita dalla Madonna, alla quale attribuiva, senza nessuna esitazione, il titolo di «Fondatrice». Per questo, è stato un atto spontaneo e logico per lui chiamarli col nome di «missionari e missionarie della Consolata». Egli, tuttavia, non concepiva questo nome come un semplice titolo, ma, come lui stesso ha spiegato, come l’indicazione di un’identità e di un programma di vita dei suoi figli e figlie.

Due nomi, ma uno solo basterebbe

Un giorno, incoraggiando gli allievi a fare bene la novena della Consolata, l’Allamano ebbe a dire: «Ne portiamo il titolo come un nome e cognome». Sappiamo che, almeno nella nostra cultura, il nome e il cognome identificano una persona e, quando diventano una firma, la impegnano. Per l’Allamano il nome e il cognome dei suoi missionari, vale a dire ciò che li identificava e li impegnava, coincidevano con un unico termine: «Consolata».

Pochi giorni dopo, accingendosi a spiegare le Costituzioni, come è logico, incominciò dal titolo dell’Istituto. Ecco come si espresse: «Possiamo gloriarci di avere due titoli: quello della Madonna (Consolata) e quello del fine (missionari), ciascuno dei quali basterebbe».

Questa idea dell’Allamano ha uno spessore notevole: due titoli, ma uno solo sarebbe sufficiente. Quale dei due? Il nostro fondatore non si dilunga a spiegarlo, ma è ovvio che nella qualifica mariana l’Allamano comprendeva anche quella missionaria e viceversa. Ciò non stupisce, se consideriamo come lui abbia insistito perché i suoi figli e figlie fossero totalmente mariani e totalmente missionari. Oltre tutto, nel parlare familiare, li chiamava volentieri «missionari», ma qualche volta anche «Consolatini». Il che è tutto dire.

Spiegando alle suore questa duplice identità mariano-missionaria ebbe a dire: «Il nostro istituto si chiama: “Istituto missionarie della Consolata”, cioè noi siamo della Consolata e, tra quelli della Consolata, siamo i missionari. Il titolo di “missionari” è quello che determina il nostro istituto».

Come motto posto all’inizio del primo regolamento, l’Allamano aveva scelto il testo del profeta Isaia 66,19: «Et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (E annunzieranno la mia gloria alle genti). Ovviamente, non ignorava che il profeta parlava della gloria di Dio che Israele avrebbe dovuto promuovere in mezzo ai popoli nei quali era stato disperso. Tuttavia, nella sua filiale pietà mariana, egli si permise di fare un’interpretazione devozionale, riferendo queste parole alla Madonna, a motivo della sua indissolubile unione con il Figlio per la redenzione dell’umanità. Dunque, i Missionari della Consolata, nella convinzione dell’Allamano, avrebbero dovuto impegnarsi per la gloria di Dio, e congiuntamente e subordinatamente per la gloria di Maria, attraverso l’annuncio del Vangelo e la salvezza delle anime.

Diventare ciò che il nome esprime

Portare il nome della Madonna è sicuramente un onore. L’Allamano ci ha invitato a sentirci orgogliosi di avere tale nome, ma non si è fermato lì. Forte della sua esperienza di educatore e concreto com’era, egli ha indicato dei percorsi di crescita proprio in forza del nome che la Consolata «si è degnata di imprestarci».

Scrivendo il 16 maggio 1914 a sr. Margherita Demaria, superiora delle missionarie in Kenya, concluse la lettera con queste incoraggianti parole: «Vi benedico ai piedi della nostra Patrona: dimostratevi sempre degne del nome che portate». Questa esortazione ad essere degni del proprio nome, perché era un dono della Consolata, è stata ripetuta altre volte. Per esempio: «Noi siamo un miracolo vivente delle grazie della Madonna; cerchiamo di meritarci ogni giorno di più il bel titolo che ci ha dato e state attente che un giorno o l’altro non ce lo tolga e ci dica: “non siete più Consolatine”, no, no, per carità».

Commentando la festa della Consolata appena celebrata, in una conferenza domenicale, disse: «Voi dovete essere santamente superbe di essere sotto la protezione della Consolata: il nome che portate deve spingervi a divenire ciò che dovete essere». Divenire ciò che indica e richiede il proprio nome per lui voleva dire che i suoi missionari e missionarie dovevano essere semplicemente dei «consolatori» di prima qualità, impegnati a portare ai fratelli e sorelle dei paesi di missione la vera «consolazione» che è la salvezza in Gesù.

Che questo modo di riflettere sia esatto, lo ha confermato il Sommo Pontefice nel messaggio che ci ha inviato per il centenario di fondazione dell’Istituto nel 2001, quando ci scrisse: «Con l’aiuto della Consolata, carissimi fratelli, diffondete la vera consolazione, la salvezza cioè che è Cristo, salvatore dell’uomo».

Figli prediletti e felici

Leggendo quanto ha detto l’Allamano sul rapporto dei suoi missionari e missionarie con la Consolata c’è da rimanere stupiti. Ha usato, infatti, espressioni così intense, che si possono spiegare solo se pensiamo al suo specialissimo rapporto con la Madonna che sognava di trasmettere, allo stesso livello, a quanti intendevano seguirlo.

Ed ecco qualcuna di queste belle espressioni, rivolte dall’Allamano alla Consolata, che possono valere per tutti coloro che seguono la sua spiritualità: «Non è infatti la SS. Vergine, sotto il bel titolo di Consolata, nostra madre, e noi suoi figli? Sì, madre nostra tenerissima, che ci ama come pupilla dei suoi occhi»; «Quando le diciamo (con S. Bernardo): “mostrati madre”, non ci potrebbe rispondere: “e tu ti regoli da figlio?”. Ci regoliamo noi da figli, da veri teneri figli?»; «Quanti ci vogliono bene perché ci chiamiamo: Missionari della Consolata»; «Siamo fortunati, perché la gente non può nominare noi senza nominare la Madonna Consolata».

Essere «della Consolata» è davvero un grande onore, ma anche un forte impegno che ci lega direttamente alla missione.

padre Francesco Pavese

 


Domenico Agasso, Fare bene il bene.
Giuseppe Allamano, Ed. Paoline, Milano 1990, pp. 198

Dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo

È morto la notte di San Silvestro del 2020, Domenico Agasso, giornalista originario di Carmagnola (To), dove era nato nel 1921, per molti un maestro, un precursore, un narratore di tempi, uomini e luoghi. Fu caporedattore a «Famiglia Cristiana», divenne poi direttore di «Epoca» e del settimanale diocesano torinese «Il Nostro Tempo». Nel 1978, aveva pubblicato una «Storia d’Italia» in otto volumi; autore di libri su papa Roncalli («Mi chiamerò Giovanni»), su papa Montini («Paolo VI. Le chiavi pesanti») e… per noi missionari/e della Consolata, nel 1990, sul beato Giuseppe Allamano, nostro fondatore: «Fare bene il bene».

Vogliamo, allora, ripresentare questa biografia, come segno di gratitudine all’autore che, con questo suo lavoro ha diffuso la conoscenza del fondatore dei Missionari della Consolata, rendendo più simpatica la sua figura e più accessibile la sua santità.

Biografia divulgativa

È una prima caratteristica di questo volume. Esso rappresenta un contributo prezioso di conoscenza, soprattutto sul piano della divulgazione. Il libro è scritto in uno stile essenziale e, nello stesso tempo, confidenziale, aderente alle cose, ma ricco di sfumature. Perciò, si lascia leggere come «un’appassionante avventura dello spirito».

Storia di un santo, nella storia di un tempo Un’altra caratteristica percorre tutte le pagine della biografia, la figura del canonico Allamano viene inserita nel suo contesto storico: quello delle colline monferrine di Castelnuovo e poi quello della Torino fine Ottocento, ricca di fermenti sociali e di santità. E Agasso riesce subito a far cogliere un dato importante: e cioè quanto siano strettamente intrecciate con le avventure terrene dei grandi santi sociali torinesi del secolo scorso.

L’autore, infatti, con pennellate essenziali ma sicure, inserisce la vita di Giuseppe Allamano nel contesto storico e religioso dei suoi tempi, ricostruendo con rara schiettezza le condizioni di vita del seminario, della Consolata, del Convitto, della diocesi, del mondo piemontese, della stessa Chiesa universale. Con misura e discrezione fa poi emergere le virtù coltivate con fedeltà inalterata da questo prete dotto e schivo, paziente e deciso, preciso e autorevole, obbediente e profetico, ordinato nello studio e nella vita, fisicamente gracile e instancabilmente creativo di opere e di fondazioni.

Il «mondo» torinese dell’Allamano

Nei suoi 46 anni di servizio come rettore del santuario della Consolata l’Allamano si ritrova al centro di un universo vivo, popolato di personaggi che hanno lasciato un segno profondo nella storia di Torino e in quella della chiesa. Diventa, così, uno dei protagonisti della «piccola Torino» del suo tempo, e una figura di riferimento per il clero della sua epoca.

L’autore sottolinea che, con Giuseppe Allamano, la Torino dei mestieri e delle botteghe artigiane, ora affacciata sul futuro industriale, apprende (o ri-apprende) il gusto di sentirsi a casa propria sotto le volte sacre del santuario della Consolata. La molta gente che, sempre più numerosa, affolla il santuario è attratta dall’aria nuova che vi spira. L’Allamano rinnova e amplia le strutture, ma anche lo «stile» delle celebrazioni, della pietà e, soprattutto, dell’accoglienza. Molti lo aspettano al confessionale; altri lo cercano in sacrestia per un consiglio, un aiuto, o mettono nelle sue mani un problema di famiglia. È questa folla che lo aiuta a far nuova la Consolata.

Apertura missionaria

Egli, però, non si è accontentato: ha saputo mettere questa «marea di gente» in stato di missione. Lo sottolinea il cardinal G. Saldarini, nella prefazione: «Sacerdote diocesano, formatore di preti secolari, canonico della cattedrale, presente e attivo in tutte le iniziative spirituali, caritative e sociali della diocesi, dai giornali cattolici alle società operaie, l’Allamano porta nella chiesa che è in Torino la coscienza che essa deve essere missionaria, in senso universale, proprio perché è chiesa, chiesa cattolica, e la “missione” è la sua identità e quindi la condizione della sua vitalità».

Gran parte del volume è così dedicata all’azione dell’Allamano come fondatore di due istituti missionari e come organizzatore, assieme al fedele canonico Giacomo Camisassa, delle spedizioni missionarie e responsabile ultimo della direzione da imprimere al lavoro di evangelizzazione. I problemi delle missioni e dei missionari sul campo affluiscono alla sua stanza al santuario della Consolata. Ed egli vi si immerge, li fa suoi e per questo perviene a una comprensione dei problemi di missione in Africa con la sicurezza di chi vi si è preparato con anni di studio; è l’uomo della missione moderna, con la straordinaria capacità di vedere, e in qualche modo vivere, le situazioni e i problemi senza muoversi dalla sua terra: andando dalla Consolata al duomo, dalla Consolata alla casa madre, dal confessionale agli esercizi spirituali. Il libro di Agasso è la testimonianza di questo cammino silenzioso, che porta dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo.

Questa biografia del beato Allamano, afferma ancora il cardinale, «ha tutta la capacità di far ritrovare la “bella immagine del prete”, ridestare nei giovani l’entusiasmo dei grandi ideali apostolici, tener viva in tutto il popolo di Dio la coscienza e la cooperazione missionaria… Per questo mi sento di augurare che questa biografia del nuovo beato Giuseppe Allamano… sia conosciuta da tanti, preti e laici, dai giovani soprattutto. Sono convinto che molto può derivare da questo incontro. Perciò non temo di esortare i giovani a leggerla».

padre Giacomo Mazzotti