Allamano. Il dono della vocazione


Nel suo messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni, celebrata nella IV domenica di Pasqua, papa Francesco invitava a «considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita».

Il beato Allamano considerava la vocazione missionaria come un dono straordinario di Dio al punto di ritenere «fortunati» quei giovani che avevano sentito il suo invito a seguirlo sulla via della missione. «Egli – diceva il fondatore dei missionari della Consolata ai suoi – vi ha chiamati all’apostolato per sola sua bontà. L’ha fatta a voi questa grazia, a preferenza di tanti altri che ne erano più degni e che vi avrebbero forse corrisposto meglio. E perché proprio a voi? Perché vi ha amati di un amore particolare. Ha fatto con voi ciò che fece con quel giovane del Vangelo: “E Gesù fissatolo, lo amò e gli disse: vieni e seguimi” (Mc 10,21). Ecco che cosa è la vocazione! È questo sguardo di predilezione di Gesù».

La risposta alla vocazione spinge tante persone a consacrarsi e a offrire la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano.

Annunciare il Vangelo a quanti non lo conoscono, spezzare la propria vita, insieme al pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio: è questo il Dna della vocazione missionaria seminato nel cuore di tanti giovani dal beato Allamano.

La crisi di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa nel mondo occidentale a cui assistiamo oggi, tra le altre cause, è certamente determinata dalla crisi di identità di cui soffre l’uomo moderno che porta a cercare la propria realizzazione in surrogati che alla lunga si rivelano incapaci di soddisfare il desiderio di felicità che abita il cuore delle persone.

«Ascoltare la chiamata divina – scrive ancora papa Francesco – lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso, è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro. La nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo».

Sergio Frassetto

Seminatori di consolazione

Contemplando l’icona della Consolata, come faceva l’Allamano dal coretto del Santuario, suor Maria Luisa Casiraghi evidenzia le caratteristiche, i valori e i sentimenti che noi missionari siamo chiamati a incarnare per essere presenza di consolazione nel mondo.

Dal «coretto» il fondatore la contemplava

Noi missionari e le missionarie ci possiamo definire: «Seminatori e seminatrici di consolazione attraverso vie e modi che lo Spirito e le contingenze della vita ci fanno intravedere». Per fare questo cammino bisogna affidarci alla Consolata, dialogare con lei, accogliere le intuizioni dello Spirito.

Ma come? Quando desideriamo conoscere qualcuno cerchiamo di incontrarlo, parlargli, stare il più possibile in sua compagnia per carpire i suoi segreti, arricchirci della sua esperienza, accogliere i suoi consigli.

Il fondatore in questo ci è modello. Sappiamo infatti quanto tempo lui trascorreva in preghiera nel coretto del santuario della Consolata contemplando l’icona a lui e a noi tanto cara per comprendere meglio la volontà di Dio, il cammino da intraprendere e per avere il coraggio e la forza di realizzare ciò che Dio voleva da lui.

Penso che nel coretto del Santuario della Consolata, mentre contemplava il volto di Maria, il fondatore vedesse tratteggiati gli atteggiamenti e i lineamenti che noi missionarie e missionari avremmo dovuto incarnare per portare la consolazione alle persone nei luoghi e nelle situazioni che avremmo incontrato nel nostro cammino. Contemplando l’icona di Maria il fondatore focalizzava le sue virtù e meditava come noi, suoi figli e figlie, che avremmo portato nel mondo il suo nome, dovevamo viverle.

Come davanti a uno specchio

Mi sono posta più volte davanti all’icona della Consolata come davanti a uno specchio per cogliere qualche particolare che mi suggerisse i passi ancora da fare, i cammini da iniziare, gli atteggiamenti da vivere per divenire sempre di più una presenza di consolazione. E, contemplando questa icona, sono stata colpita da vari particolari, soprattutto dalle mani del bambino Gesù: una mano tiene stretto il pollice della Madre che così s’intreccia con la sua e l’altra indica a noi Maria. In questo intreccio di mani scorgo ciò che il fondatore spesso sottolineava quando ci incoraggiava a rivolgersi e a pregare la Consolata. Egli diceva: «È importante avere fiducia nella Consolata: senza di lei possiamo fare poco o nulla, con lei tutto. Fìdati della Madonna, è tua madre! Voglile bene! Senza di lei non si può volare e camminare nella santità. La nostra ala in più è lei, la madre di Gesù, la Consolata».

Essere «conche» per essere «canali»

Un secondo messaggio che ho visto scaturire contemplando Maria lo collego a un’altra espressione del Fondatore in cui affermava: «A riguardo del prossimo dobbiamo essere conche, non solo canali. Ma riguardo ai beni materiali dobbiamo essere solamente canali e non conche». La prima attitudine di Maria che emerge dai Vangeli è quella dell’accoglienza che fa posto allo Spirito, che si svuota per lasciarsi guidare da lui sulle strade di Dio.

Questo è l’atteggiamento che il fondatore voleva che noi coltivassimo per diventare conche e fonti vive. Essere conche ripiene di Spirito aiuta a comprendere l’importanza poi di divenire canali in cui scorrono generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.

C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la missione in modo autentico ed efficace.

I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare nella corrente, nel canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date». Solo così la missione diventa annuncio della consolazione, del dono che Dio fa al mondo: il suo unico figlio, tanto amato, offerto per la salvezza di tutti, un figlio che Maria ha rivestito della sua natura umana.

Seminare la buona notizia

Ancora: Maria, in questa icona non tiene il bambino stretto a sé, ma lo offre all’umanità. Il suo atteggiamento è rivolto anche a noi: non tenere stretta la buona notizia della salvezza, ma seminarla nelle pieghe del quotidiano per trasformare l’ordinario in straordinario. L’annuncio non nasce da noi, ci viene donato affinché lo condividiamo con parole, gesti, silenzi… come Maria ha fatto nella sua vita: poche parole, molti gesti per aprire cammini e orizzonti nuovi e tanti silenzi, non sterili, ma che hanno generato vita.

E termino con l’augurio fatto parecchi anni fa ai missionari e alle missionarie dall’allora arcivescovo di Torino, il cardinale Anastasio Ballestrero. Diceva: «Quando si è portatori di un annuncio di consolazione non si può esserlo autenticamente senza un entusiasmo che brucia dentro, senza un fervore totale che investe la vita e senza un ardore che non conosce stanchezza. Il popolo di Dio e tutti i popoli hanno bisogno di vedere che i missionari e le missionarie sono così: creature incandescenti che dovunque arrivano accendono il desiderio di Dio e dovunque passano lasciano un segno profetico profondo, efficace e fecondo». E, a questo segno, noi missionari e missionarie della Consolata diamo il nome di «consolazione».

Suor Maria Luisa Casiraghi

Ho speso tutto

Quando nel 1880 l’Allamano assunse la direzione del Santuario della Consolata, questo si presentava brutto e decadente, così, nel 1883 diede inizio a lavori di restauro esterno dell’edificio, su disegno dell’ingegnere Giovanni Battista Ferrante, che riportò il complesso alle linee originarie dell’architetto Filippo Juvarra. I lavori furono ultimati nel 1885. A convincere l’Allamano della necessità di intervenire nuovamente con lavori più radicali sull’edificio fu la prospettiva delle grandiose feste che si sarebbero dovute celebrare nel 1904, in occasione dell’ottavo centenario del ritrovamento dell’immagine della Consolata da parte del cieco di Briançon, avvenuto il 20 giugno 1104, secondo un’antica tradizione. Il progetto dei restauri fu affidato all’architetto Carlo Ceppi e i lavori di trasformazione furono compiuti tra il 1899 e il 1904. Attraverso l’inserimento di quattro cappelle ovoidali, sistemate attorno all’esagono guariniano, e la realizzazione di altri interventi architettonici e decorativi, la chiesa assunse una forma maestosa che dall’esterno si arricchiva di cupolini e volute, a coronamento delle nuove cappelle, mentre all’interno risplendeva di marmi e stucchi dorati così come la conosciamo oggi.

Per preparare il progetto dei restauri fu scelto il principe degli architetti torinesi, il conte Carlo Ceppi. «Ma, mio caro canonico, – fu il preambolo dell’architetto al Camisassa – che cosa possiamo fare qui? Siamo strangolati in tutti i modi». «Signor conte – replicò il Camisassa -,  il Juvarra sfondò le pareti e creò quel magistrale ampliamento dove fece sorgere l’altare della Vittoria. Come ha fatto lui perché non possiamo fare anche noi altrettanto ai fianchi?». «La cosa è fattibile, e la faremo», concluse l’architetto, e si mise all’opera.

All’architetto che gli faceva presente che non sarebbe bastato un milione, l’Allamano rispose: «Ne metteremo due, tre, purché Torino abbia un santuario degno della sua Patrona».

«Quando io facevo restaurare il santuario – confidò l’Allamano – (ebbene, c’è andato un bel milione, sapete) qualcuno diceva: “Uh, che spreco! Perché adoperare del marmo così prezioso? Marmo d’Egitto? Si potrebbe mettere marmo finto come in quell’altra chiesa!…”. Ed io dicevo: “Per il Signore, per la Madonna non è mai troppo, non si spreca mai”. Alcuni mi dicevano: “Perché cambiare il pavimento? Mettere marmo di prima classe? […]. Quando si tratta della Madonna non bisogna aver paura anche di fare dei debiti, di fare delle imprudenze, e poi con la Consolata non si fanno delle imprudenze. Io per la Consolata ho speso tutto».

La riflessione conclusiva dell’Allamano svelò da dove egli prendeva l’ispirazione e il coraggio: «I lavori, con visibile protezione di Maria, furono deliberati proprio il 10 dicembre 1898, festa della S. Casa di Loreto, quasi per farci notare che “Lei stessa si è edificata la casa”. […]. Questa non è opera nostra, ma è proprio opera della Madonna».

Giuseppe Allamano, per le feste centenarie della Consolata, oltre ai lavori di restauro del tempio, volle regalare alla Vergine due preziose corone di brillanti che furono apposte al quadro. Le celebrazioni centenarie iniziarono l’11 giugno 1904 per terminare il 20, festa della Consolata. Il giorno 19 si svolse la processione per le vie della città, con la partecipazione di sei cardinali, 23 vescovi e 104 parroci, oltre alle congregazioni religiose e ai fedeli in numero incalcolabile. Il giornale «La Stampa» fece questo commento: «Certo è riuscita una manifestazione religiosa imponente che non ha precedenti nella memoria dei torinesi».


POSTULATORE > P. GIACOMO MAZZOTTI

Chi ricevesse una grazia per intercessione del beato Giuseppe Allamano è pregato di notificarlo ai seguenti indirizzi:
POSTULAZIONE MISSIONI CONSOLATA
• Viale Mura Aurelie, 11-13 – 00165 Roma
• Corso Ferrucci, 14 – 10138 Torino
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Costa d’Avorio. Addio padre Matteo

Il missionario della Consolata italiano padre Matteo Pettinari, quarantaduenne, nato a Chiaravalle (Ancona) e cresciuto a Monte San Vito, è deceduto nel pomeriggio del 18 aprile 2024, a causa di un grave incidente stradale avvenuto a Niakara, villaggio dell’area centro nord della Costa d’Avorio, quando l’auto che lui guidava si è scontrato con un autobus di linea. Padre Matteo lascia il padre Pietro, la sorella Francesca, il fratello Marco e cinque nipoti. La mamma Roberta è mancata tre anni fa.

Il Papa Francesco, durante i saluti dopo il Regina Caeli, nella domenica del Buon Pastore (21 aprile), ha voluto ricordare la figura del missionario generoso: «Con dolore ho appreso la notizia della morte, in un incidente, di padre Matteo Pettinari, giovane missionario della Consolata in Costa d’Avorio, conosciuto come il missionario ‘instancabile’ che ha lasciato una grande testimonianza di generoso servizio» – ha detto il Pontefice, invitando a pregare per la sua anima.

Un missionario con lo spirito dell’Allamano
Sul terribile incidente che ha causato la morte di padre Matteo, preziosa è la testimonianza di padre Stefano Camerlengo che, dopo aver terminato il suo mandato come Superiore Generale, era stato destinato, pochi mesi fa, alla Costa d’Avorio e proprio con padre Matteo erano insieme responsabili della parrocchia di Dianra.
In un messaggio ha condiviso con noi quegli ultimi momenti vissuti insieme a padre Matteo. «Davanti a una persona giovane, buona e un missionario instancabile, come ha detto il Papa Francesco, non ci sono altre parole da aggiungere. Uno vuole vivere questo momento nel silenzio, come ho detto questa mattina alla nostra gente in chiesa; silenzio nella comunione tra di noi, nella fraternità e nella preghiera», dice padre Stefano e poi racconta cosa era successo giovedì 18 aprile, quando padre Matteo ha avuto il tragico incidente, sulla strada che, attraversando il Paese, collega il Nord con la capitale Abidjan, sulla costa atlantica.
«Di fronte a un triste evento come questo cosa impariamo? – si chiede padre Stefano -. Sono situazioni che non hanno risposta e che capiremo solo quando saremo con il Signore. Abbiamo davanti una persona buona e generosa che si è donata, un missionario della Consolata con lo spirito dell’Allamano: amore e passione per la gente, voglia di promozione umana per fare crescere le persone; oltre a una grande intelligenza che gli ha permesso di essere aperto a tutti e amico di tutti. Celebriamo la morte di un uomo che, come buon pastore, si è speso per le sue pecore che conosceva, con la preoccupazione anche per quelle che non stavano nell’ovile e le cercava. Credo che questo sia il ricordo più bello di padre Matteo».
«In comunione fraterna, preghiamo il Signore per il suo riposo eterno e che, per intercessione della Madonna della Consolata, conceda a noi e alla sua famiglia consolazione e pace. Imploriamo per lui dalla misericordia di Dio la luce della Risurrezione» – si legge nella nota pubblicata venerdì 19 aprile dal Superiore generale, padre James Lengarin e dal segretario imc, padre Pedro Louro.
La notizia ha lasciato una grande tristezza per l’improvvisa scomparsa del giovane missionario, pieno di energia e molto attivo nella missione in Costa d’Avorio, dove lavorava dal 2011 e, nel 2022, era divenuto Superiore Delegato per l’Istituto. «Nel grande dolore, ci ancoriamo alla speranza della risurrezione, testimoniata in modo splendido dalla vocazione e dalla vita di Padre Matteo» – rende noto dalla Diocesi di Senigallia la sua comunità di origine con cui manteneva stretto rapporto con progetti in favore della popolazione ivoriana. Attraverso i social, aggiornava sui progressi e gli aiuti che arrivano per la missione.
«Sei volato in cielo ed ora con mamma vegliate su di noi. Il tuo ricordo sarà sempre nel mio cuore e nessuno potrà portarmelo via» – ha scritto su Facebook la sorella Francesca, postando una foto del fratello Matteo in missione, con una bimba in braccio.
Diversi mezzi di comunicazione in Italia hanno riportato notizie e messaggi di cordoglio. Un punto di riferimento era a Monte San Vito padre Matteo, a cui era molto legato e dove tutta la sua famiglia è conosciuta e apprezzata. «La comunità di Monte San Vito – ha scritto il Comune – si stringe profondamente addolorata attorno alla famiglia Pettinari per l’improvvisa perdita di Padre Matteo. Ogni iniziativa in programma verrà rinviata a data da destinarsi» – ha affermato il sindaco Thomas Cillo -. Solo una grande fede può dare spiegazioni a certi eventi e per chi rimane c’è solo immenso dolore».

Amava la preghiera e la Parola di Dio
Padre Alexander Likono, imc, che ha lavorato con padre Pettinari per 13 anni, lo definisce «un uomo di grande fede che amava veramente la preghiera e la Parola di Dio» – dice e aggiunge – «Anche se arrivava stanco, non lasciava mai il suo impegno di preghiera».
Padre Alexander racconta che insieme avevano organizzato la formazione in Costa d’Avorio, poi avevano lavorato nei centri sanitari di Marandallah e Dianra Villaggio. Padre Matteo è stato il suo Vice superiore per tre anni e recentemente erano nella stessa comunità di Dianra.
«Ricordo la sua passione e il suo entusiasmo per la missione, la sua energia e il desiderio di donarsi completamente per il regno di Dio, la salvezza e il benessere di tutte le persone. Era un vero figlio dell’Allamano e della Consolata. Abbiamo perso un missionario molto intelligente e capace di fare tante cose con precisione e ordine» – ricorda padre Alexander.
Altre caratteristiche in lui erano il dialogo e l’amicizia. «Padre Matteo era amato da tutti: dai vescovi, preti, confratelli, religiosi e religiose, autorità civili e tradizionali, dai cristiani e anche dai non cristiani. Aveva un cuore grande capace de vedere i bisogni degli altri, facendo il possibile per aiutarli. Sempre era disponibile, anche quando era stanco, o ammalato» – assicura padre Alexander.

Una chiesa per mostrare la bellezza della fede
Presenti dal 2002 nella diocesi di Odienné (Nord della Costa d’Avorio), in zona musulmana e animista, i Missionari della Consolata accompagnano oggi la crescita della Chiesa locale, arricchendola con edifici per l’istruzione e ospedali sanitari. Nel 2019, a Dianra Village è stata inaugurata la nuova chiesa parrocchiale dedicata a san Joseph Mukasa, uno dei martiri d’Uganda, nato nel 1860, martirizzato nel 1885 e proclamato santo nel 1964. Completata dopo tre anni di lavori, la chiesa è umile, ma bella e fa parte del progetto Pietra rossa. «Se qualcosa deve parlare di Dio, allora deve parlare il linguaggio di Dio, che è la comunione», aveva detto padre Pettinari all’architetto-capo del progetto di costruzione della chiesa, Daniela Giuliani. Lo raccontava lei stessa in una intervista del febbraio 2023 a L’Osservatore Romano. Parole di incoraggiamento, quelle del religioso, che sono state di grande ispirazione per l’architetto, che proviene dalla sua stessa diocesi: «Padre Matteo mi ha insegnato la via della Chiesa».
Nel Dossier sulla Costa d’Avorio, appena pubblicato sulla rivista Missioni Consolata (aprile 2024), padre Matteo così aveva raccontato la missione: «Insieme alle persone con cui condividono questa meravigliosa avventura, i missionari visitano i villaggi per l’annuncio del Vangelo, si aprono alle ricchezze delle culture che li accolgono, realizzano progetti educativi (alfabetizzazione serale e scolarizzazione) e di appoggio all’economia domestica (microcredito per donne e apicoltura). Sperimentano lo stupore della fraternità interreligiosa di cui è intessuto il loro quotidiano e, inoltre, amministrano un centro sanitario che oggi fornisce diversi servizi: dispensario, maternità, studio dentistico, laboratorio analisi, centro trasfusioni, salute mentale, accompagnamento di persone sieropositive e affette da tubercolosi, centro nutrizionale e telemedicina in cardiologia».
Proprio come desiderava il fondatore, il beato Giuseppe Allamano, i missionari «annunciano il Vangelo con opere di promozione umana». La sensibilità e lo sforzo per sviluppare un’evangelizzazione «inculturata» sono confluiti nella costruzione della chiesa di Dianra Village, secondo padre Matteo, «per dire la bellezza della fede» come spiega nel suo articolo. «Questa chiesa è un’ulteriore testimonianza fatta architettura e arte, capace di parlare della bellezza di Dio e della vita nuova in Cristo a chiunque la contempli (…). La sfida di inculturazione che abbiamo raccolto in questo spazio liturgico crediamo possa raccontare la sfida della missione stessa nel mondo».

Breve biografia
Padre Pettinari, dopo un periodo nel seminario di Ancona (Italia), era entrato nell’Istituto dei Missionari della Consolata, dove aveva concluso la sua formazione. Al termine dell’anno di noviziato a Bedizzole (BS), la professione dei voti temporanei, il 27 agosto 2006. Si era poi specializzato in teologia biblica a Madrid, in Spagna. Prima dell’ordinazione sacerdotale, dal 2007 al 2009 aveva svolto uno stage pastorale a Sago, in Costa d’Avorio, Paese che aveva mparato ad amare, scegliendolo poi, più tardi, nel servizio missionario.
Ritornato a Madrid, aveva fatto la professione perpetua l’8 dicembre 2009; ordinato diacono il 28 febbraio 2010, era diventato sacerdote l’11 settembre 2010 nella cattedrale di Senigallia. Da allora aveva trascorso 17 anni di professione religiosa e 13 di sacerdozio.
Dopo un periodo di animazione missionaria in Europa, nel 2011 era stato inviato in Costa d’Avorio, Paese che già conosceva e dove ha trascorso la maggior parte della sua vita missionaria, in particolare a Sago, San Pedro e Dianra Village.
Qualche anno fa, in un’intervista a La voce misena, periodico della diocesi di Senigallia, padre Matteo aveva detto: «Quello che l’Africa mi ha insegnato è di vivere la vita non a partire dai problemi che ci sono o che non ci sono, che potrebbero esserci o non esserci, ma dalle relazioni che, comunque e sempre, sono il sale, la gioia, la ricchezza del quotidiano. Io amo dire quando sono a Dianra – aggiungeva – che abbiamo mille problemi, ma mille e una soluzione, nel senso che le difficoltà, le crisi, la precarietà di ogni tipo non dovrebbero condizionare lo slancio con cui si affrontano le giornate».

La presenza di consolazione in Costa d’Avorio
L’Istituto della Consolata è presente in Costa d’Avorio dall’inizio del 1996. Attualmente lavorano nel Paese 14 missionari nelle diocesi di Odienne e di San Pedro e nell’archidiocesi di Abidjan. Le comunità imc sono in totale sei (San Pedro, Abidjan, Dianra, Grand-Zattry, Marandallah e Sago). La comunità formativa di specializzazione, ad Abidjan, accoglie cinque studenti professi.
L’impegno per la consolazione ha preso forma in alcune opere: la scuola primaria di Sago (2007), i centri sanitari di Marandallah (2007) e Dianra Village (2012), il microcredito per donne e apicoltura a Dianra e Marandallah (2013). A partire dal 2023, a San Pedro, funziona un Centro di Animazione e Spiritualità Missionaria, promozione vocazionale, mediazione culturale e formazione giovanile.
Padre Matteo ha partecipato attivamente a questa storia di consolazione. Nella domenica del Buon Pastore e celebrando la 61ª Giornata Mondiale di preghiera per le Vocazioni, siamo grati a Dio per il dono della sua vocazione religiosa e missionaria. Siamo anche riconoscenti alla sua famiglia per aver «regalato» un figlio alla missione della Chiesa nel mondo e per la presenza arricchente di padre Matteo nella nostra famiglia Consolata.
Il nostro «missionario instancabile» che ha creduto nella Risurrezione e nella vita eterna, e ha compiuto la sua missione come sacerdote religioso della Consolata possa contemplare in eterno la luce di Cristo Risorto e intercedere per noi.

Jaime C. Patias

Pubblicato in: www.consolata.org




Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo


La sola vera religione

Re.mo padre direttore,
desidero da lei un consiglio spirituale. Sono abbonato alla rivista Missioni Consolata e leggo con piacere sulle sue riviste le notizie delle grandi religioni del mondo trasmesse dai Missionari della Consolata nelle diverse parti del mondo.

Le chiedo con precisione e in breve come possiamo noi cristiani confermare che la religione cristiana è l’unica e sola religione [dove] si adora e crediamo in un unico solo Dio e non come le altre religioni che adorano altri dei. Qual è la differenza? A quale religione dobbiamo credere?

In attesa di una sua cortese risposta, ringrazio vivamente e invio cordiali saluti di pace e bene.

Giuseppe, 11/02/2024

Caro signor Giuseppe,
grazie della lettera che ha scritto (a mano). Perdoni se l’ho tagliata un po’  per evidenziare la questione centrale: il cristianesimo è l’unica vera religione?

Credo dobbiamo partire da un principio fondamentale del nostro credo: tutti gli esseri umani sono creati da Dio a sua immagine e somiglianza, che essi lo sappiano o no. La conseguenza è che ogni uomo ha, consciamente o inconsciamente, nostalgia della sua origine. Quindi tutti gli uomini, di tutte le culture e di tutti i tempi, hanno trovato una loro via (legittima e doverosa) per arrivare a Dio e, soprattutto, per rispondere alle domande più profonde che ciascuno porta in sé: il senso della vita, le ragioni del dolore, il futuro dell’universo, le relazioni con gli altri, il perché della morte e tante altre.

Le religioni sono la risposta concreta a questo bisogno interiore degli uomini che hanno cercato a tentoni di dare un volto a un Dio (l’unico Dio di tutti) che non conoscono, spesso facendosi degli dèi a loro immagine e somiglianza. C’è chi ha fatto questo con malizia, usando Dio per dominare gli altri, c’è chi l’ha fatto con fede sincera per dare un volto a quella nostalgia profonda di Dio che sentivano.

Di questa ricerca è stato partecipe anche il popolo di Dio, Israele. La storia di Abramo è emblematica in proposito. Israele lo ha cercato sì, ed è uscito dall’idolatria solo grazie all’autorivelazione di Dio attraverso la parola dei profeti. Ma quanta fatica ha fatto per rimanere fedele e non ricadere nelle forme religiose dei popoli vicini e dominanti. Dio si è, però, rivelato a Israele non per fare di lui un popolo privilegiato e separato dagli altri, ma per realizzare una duplice missione: quella di far conoscere il vero volto di Dio a tutti gli uomini e diventare un «popolo di sacerdoti» che intercede e loda a nome di ogni creatura nel mondo.

Tutti i popoli del mondo sono coscienti che Dio è il creatore del mondo, ma spesso lo ritengono troppo alto e irraggiungibile per quelle povere e cattive persone che possono essere gli uomini; quindi, hanno preferito rivolgersi a intermediari più vicini e simili a noi, come gli spiriti o altri dei.

In questo contesto, perché diciamo che la religione cristiana è l’unica vera, anzi, meglio, che è l’unica che ci fa conoscere e amare il vero Dio?

Perché questa verità ci è stata trasmessa da Dio stesso attraverso Gesù Cristo, suo figlio, che si è incarnato, ha vissuto in mezzo a noi, ci ha comunicato la sua parola di Verità e per questo è stato ucciso e poi è risorto. Di questo sono diventati testimoni i suoi discepoli dopo aver ricevuto lo Spirito Santo.

Gesù, nella sua persona, ha portato a compimento le promesse e le profezie fatte da Dio ad Abramo e ai suoi discendenti, Mosè compreso. Gesù è la testimonianza viva che Dio è uno solo e non esistono altri dei. Solo attraverso Gesù noi possiamo vedere il vero volto di Dio. «Chi vede me, vede il Padre», ha detto.

Tutto bello, mi può dire, ma sono passati duemila anni da quando Gesù è venuto. Come possiamo dimostrare oggi che il Cristianesimo è l’unica vera religione?

Ecco, probabilmente l’unico modo per provarlo davvero è mettere in pratica i principi fondanti di questa religione: vivere cioè secondo l’esempio di Gesù, amando Dio e il prossimo come lui ha fatto. Una vita da santi, cioè da persone che davvero vivono sullo stile di Gesù la loro umanità come immagine di Dio è la prova migliore della verità di Gesù e della religione da lui trasmessa. Forse la prova più bella della verità della fede cristiana sono i martiri, anche e soprattutto quelli di oggi: persone che rispondono alla violenza con il perdono, all’odio con l’amore, all’avidità con la gratuità del dono, alla logica di morte con scelte di vita.

Si possono fare tutte le discussioni possibili sulle varie religioni, ognuna delle quali porta in sé un germe della verità di Dio, ma non c’è prova migliore di una vita d’amore per garantire che il Cristianesimo è la vera religione e che Gesù non è morto e risorto invano.


Beato Allamano, grazie

Vorrei condividere con voi una cosa bella successa proprio oggi, 16 febbraio 2024, festa del beato Giuseppe Allamano.

Il 13 novembre del 2022 hanno diagnosticato un tumore ad un ragazzo che conosco: Simone (nome di fantasia), 30 anni. Era un tumore molto brutto con due metastasi, una sulla spalla e l’altra sulla schiena, e inoperabile in quanto molto grande e troppo vicino alla colonna vertebrale. Pochi giorni dopo è stato operato con urgenza per asportare la metastasi sulla spalla. L’operazione è riuscita bene, ma l’istologico ha confermato la gravità della massa non operabile.

I medici purtroppo non hanno dato molte speranze perché sostenevano che, trattandosi di un ragazzo così giovane, il tumore sarebbe stato galoppante. Decisero comunque di iniziare la chemioterapia. All’inizio di gennaio 2023 era comparsa un’altra metastasi sulla spalla. Altra operazione d’urgenza con poche speranze di miglioramento. La situazione era sempre più critica. Sembrava non reagire alle cure.

La settimana successiva abbiamo accompagnato padre Francesco Peyron a Torino (da Fossano) per il terzo sabato del mese. Prima della messa ci ha accompagnati nella cappella del beato Allamano. Prima di entrare aveva detto: «Quando si visita per la prima volta una chiesa con la tomba di un santo o di un beato si può chiedere una grazia».

Abbiamo sostato un po’ sulla tomba dell’Allamano. Ho pensato a Simone. Non ho chiesto niente, ho soltanto detto: «Stai con lui e la sua famiglia». Poi qualche settimana dopo, a febbraio dell’anno scorso, il primo giorno del triduo dell’Allamano nella casa dei missionari a Fossano, all’inizio della messa, padre Francesco ha detto: «Il triduo è un momento di grazia. Ora faremo un momento di silenzio nel quale ognuno di voi può presentare al Signore, con l’intercessione del beato Allamano quello che sente più vero nel cuore». Io ho di nuovo pensato a Simone. Non ho chiesto nulla. Ho solo detto: «L’affido a Te, Tu hai guarito l’Allamano». E ho detto un’Ave Maria.

Nel frattempo Simone proseguiva con la chemioterapia, senza miglioramenti ma neanche peggioramenti. Il 5 aprile (mercoledì santo) i medici gli hanno comunicato che avrebbero sospeso la chemioterapia due settimane prima del previsto perché inaspettatamente i valori si erano normalizzati. Gli esami successivi hanno confermato che i valori erano rientrati. I medici erano stupiti e sorpresi. Non riuscivano a spiegare l’accaduto. L’11 maggio (mese di Maria), dopo ulteriori accertamenti, Simone, ha ricevuto una telefonata dall’oncologo che lo seguiva. Gli ha detto: «Simone, sei seduto?». E lui ha subito pensato al peggio. Ha proseguito dicendo: «Inspiegabilmente sei guarito, gli esami sono perfetti, i linfonodi quasi completamente rientrati». Gli ha detto che non aveva mai visto una reazione del genere, assolutamente inaspettata.

Il linfonodo nella schiena c’è ancora, ma non risulta più pericoloso. Altra cosa che i medici non sono riusciti a spiegare: dal mese di giugno 2023 si è sottoposto periodicamente ad esami e controlli, risultati tutti ok. A fine di gennaio di quest’anno aveva i primi esami di controllo generale: tutti ok.

Lode a Dio e a Maria e un grazie immenso e specialissimo al beato Allamano.

Ultima cosa che vorrei ancora raccontarvi per lodare e ringraziare è questa. Durante i mesi della terapia, nonostante fosse debole e sofferente, spesso diceva: «Sto male, ma mi sento sereno». In quei mesi abbiamo pregato tanto, l’ho portato ogni giorno nella messa. L’Allamano è proprio stato con lui. «Il bene va fatto bene» e lui è stato di parola. Gesù con Maria sono andati oltre, sorprendendo come sempre. Che bello.

Nadia Luciano,
Villanovetta, Cn, 16/02/2024


Nelle steppe di Gengis Khan

Alla fine del 2023 è uscito in libreria, pubblicata dalla Effatà editrice, il corposo libro (oltre 270 pagine) intitolato «Nelle steppe di Gengis Khan» di Pier Giuseppe Accornero, un sacerdote giornalista di Torino che si occupa di informazione sociale ed ecclesiale.

Più che un semplice libro, quello di Accornero è quasi un’enciclopedia dedicata alla vita missionaria della Chiesa piemontese. Partendo dal cardinal Giorgio Marengo, e quindi anche dal beato Giuseppe Allamano che ha fondato i Missionari della Consolata di cui il cardinale è parte, l’autore ci conduce per mano a scoprire la vitalità missionaria della regione fin dai tempi del Regno di Sardegna. Pagine piene di informazioni e curiosità di estremo interesse e poco conosciute.

Ma lascio la parola a padre Stefano Camerlengo che ne ha scritto la prefazione.

«Il libro di Pier Giuseppe Accornero si prefigge di offrire ai lettori lo spaccato di una realtà, per certi versi, ignota al grande pubblico. Nei primi capitoli illustra come nell’immensa distesa della Mongolia, un figlio della terra pedemontana guida con mano sicura e con grande apertura di cuore e di intelligenza il suo «pusillus grex, piccolo gregge» di cristiani e riesca a intessere relazioni fraterne e fruttuose con uomini e donne di altre fedi religiose. Un seme che sta spuntando e che annuncia un futuro promettente. La fecondità del Piemonte per la sua poliedrica personalità merita attenzione e diffusione. Un attore giovane ha raggiunto quella terra e vive ora nella lontana Mongolia.

Questa terra dalle dimensioni enormi merita attenzione anche perché ha attirato l’amore apostolico di papa Francesco. […]

Dal capitolo terzo l’autore continua la sua opera con mano decisa e con un linguaggio svelto e leggero a presentare i grandi protagonisti, principalmente subalpini, che hanno segnato le tappe più importanti della diffusione del Vangelo, sotto il patronato di grandi papi che si sono succeduti nella Sede apostolica […].

In questa sezione del libro, l’autore presenta in sequenza un grandissimo numero di grandi missionari, tutti, eccetto qualcuno, figli e figlie della terra pedemontana. La loro azione missionaria abbraccia l’intero globo terraqueo. Si va dalle numerose nazioni latinoamericane alle molte nazioni africane e ad alcune regioni dell’Asia. Il loro idioma piemontese si riverbera su molte latitudini e longitudini del globo e semina nel cuore dei popoli il seme della Parola eterna del Padre, la quale darà frutto a suo tempo perché irrorata anche dal sangue di molti che hanno pagato la loro testimonianza a Cristo risorto con la loro vita. Tertulliano ha detto: “Il sangue dei martiri è il seme di nuovi cristiani”. Il Piemonte ha dato anche questo meraviglioso contributo alla propagazione del Vangelo.

Ci permettiamo di raccomandare questo libro a tutti coloro che amano essere edotti del cammino, anche se faticoso, della Chiesa di Cristo. Tra le pagine di questo libro, che raccoglie la testimonianza di gente generosa infiammata dall’amore del Vangelo, si respira un’aura di fede e uno sviscerato amore per la Parola del Vangelo. A un lettore attento germoglierà nel cuore, oltre che l’ammirazione di tanta fedeltà al Vangelo anche una timida preghiera per coloro che consumano ogni giorno la loro esistenza nei diversi angoli della terra».

padre Stefano Camerlengo
superiore generale emerito

Si può ordinare il libro direttamente su https://editrice.effata.it


Settimana biblica a Caserta

Egregio Direttore,
anche quest’anno la diocesi di Caserta organizza la Settimana biblica, giunta alla XXVII edizione, con il patrocinio dell’Associazione biblica italiana, in collaborazione con l’Istituto superiore di Scienze religiose interdiocesano «SS. Apostoli Pietro e Paolo» e con la segreteria del Centro apostolato biblico diocesano.

La Settimana biblica si terrà a Caserta da lunedì 1° luglio 2024 e fino a venerdì 5 luglio 2024.

Tema della XXVII edizione sarà «La comunità e i discepoli nel Vangelo secondo Matteo», con i biblisti Giulio Michelini e Francesco Filannino.

Questa esperienza di conoscenza del testo biblico ci pone davanti il cammino sinodale della Chiesa aperta all’ascolto della Parola di Dio per discernere secondo lo spirito del Vangelo, il cammino da seguire tutti insieme. Tutto il popolo di Dio è convocato in assemblea per ascoltare ciò che lo Spirito dice alla Chiesa.

Sul sito del Centro apostolato biblico trovate tutte le notizie utili per iscriversi e partecipare alla Settimana biblica di Caserta.

Cordiali saluti

don Valentino Picazio,
Caserta, 25/02/2024

Per partecipare alla settimana biblica vai al sito
www.centroapostolatobiblicocaserta.it
email: centroapostolatobiblicogmail.com




Allamano. Una passione nascosta


A Torino, al Museo dei missionari della Consolata (Cam), fa bella mostra di sé uno strano oggetto, classificato come «macchina fotografica». L’aveva voluta il fondatore Giuseppe Allamano per donarla ai suoi primi missionari partenti per l’Africa, ed essi ne fecero buon uso, realizzando fotografie di ottima fattura. Tali fotografie furono poi ampiamente utilizzate dalla rivista del santuario della Consolata per far conoscere ai numerosi lettori le attività dei missionari in Kenya, e così suscitare nuove vocazioni missionarie e anche offerte a favore delle missioni.

Scopriamo questo interesse dell’Allamano per la fotografia già nel 1899, quando prese l’iniziativa di affidare al celebre fotografo della Sindone, l’avvocato Secondo Pia, il compito di ritrarre per la prima volta il quadro della Consolata. Con la stessa macchina fotografica servita per la sacra Sindone, l’avvocato Pia impiegò tre giorni per riprendere il più fedelmente possibile il volto della Vergine Consolata (cfr MC 06/2023). L’immagine, riuscita in modo ottimo, venne ampiamente utilizzata non soltanto dalla rivista del santuario, ma anche per fare riproduzioni di ogni tipo e dimensione. Ai benefattori del santuario e delle missioni, l’Allamano amava farne dono apponendovi la propria firma, accompagnata sovente da quella dell’arcivescovo di Torino, il cardinale Agostino Richelmy.

La riproduzione fotografica del quadro della Consolata suscitò varie iniziative pastorali che ebbero allora grande successo, come la consacrazione delle abitazioni alla Consolata tramite il suo collocamento ai muri o alle porte.

Se l’Allamano aveva mostrato tale zelo nel diffondere l’immagine della Vergine Consolata, e anche nel far conoscere le attività dei suoi missionari in Kenya attraverso le fotografie, altrettanto non si può dire circa la sua disponibilità a lasciarsi fotografare. Rare volte l’Allamano ha accettato di mettersi in posa davanti alla macchina fotografica, per l’innata e ricercata tendenza a non voler apparire. Mentre lo troviamo sempre in prima linea quando si tratta di favorire iniziative di bene e di apostolato, non così quando si trattava di giocare lui stesso il ruolo di protagonista.

Alle solenni celebrazioni centenarie della Consolata nel 1904, ad esempio, vediamo la partecipazione di importanti personalità civili ed ecclesiastiche: raramente l’Allamano appare, anche se è stato lui il primo promotore di quest’importante evento. Era il suo stile costante: fare e non apparire. Il suo unico intento: «Tutto per la gloria di Dio e della Vergine Consolata».

padre Piero Trabucco


Protettore annuale

I missionari e le missionarie della Consolata hanno la bella tradizione, ereditata dal beato Allamano, di affidarsi ogni anno a un protettore speciale al quale rivolgersi nella preghiera e del quale imitare le virtù. Quest’anno, e per tre anni di fila, è stato scelto proprio lui, il beato Allamano, come protettore dei nostri due istituti. Di seguito la lettera di presentazione inviata dai nostri superiori a tutti i missionari e missionarie

 «Nella carità consiste essenzialmente la santità… la carità è santità: amare e farsi santi è la stessa cosa… La carità verso Dio è necessaria in modo particolare a noi che abbiamo ricevuto la vocazione e la missione di comunicarla alle anime».

Beato Giuseppe Allamano

 Carissimi missionari e missionarie,

è con il cuore colmo di gratitudine che ci rivolgiamo a voi per comunicarvi che il beato Giuseppe Allamano sarà il protettore per i prossimi anni 2024, il 2025 e anche 2026 (in quest’ultimo celebreremo il centenario della sua morte).

Ci ha spinti a proporvi l’Allamano come protettore per tre anni consecutivi il nostro desiderio di offrirvi l’opportunità di vivere un tempo privilegiato per stare a contatto con il fondatore da veri figlie e figli. Siamo certi che il fondatore è vivo, presente in mezzo a noi, nella nostra storia, nella missione, e continua a donarci il suo spirito se noi rimaniamo in comunione con lui.

Su un biglietto ritrovato dentro il suo sarcofago nel 1989, durante la ricognizione della salma, era scritta questa invocazione: «Padre donaci il tuo spirito… nelle piccole e grandi cose, facci figlie/i disponibili, perché il tuo spirito, che è in Dio, si prolunghi oggi e sempre a ogni popolo».

Desideriamo continuare a pregarlo perché ci trasmetta il suo spirito, il suo zelo, perché dalla sorgente del suo insegnamento e del suo esempio possano continuare a scaturire sorelle e fratelli capaci di donazione a Dio e a ogni persona.

Crediamo che il nostro fondatore abbia ancora da dirci molte cose, che possa illuminare la nostra vita di donne e uomini consacrati e che possa aiutarci a vivere in profondità la vita delle nostre comunità e quella dei nostri istituti.

L’Allamano più volte ha ribadito che sarebbe stato vicino ai suoi missionari e missionarie anche dopo la morte: «Quando sarò poi lassù, vi benedirò ancora di più; sarò poi sempre dal balcone [per guardarvi, benedirvi e seguirvi]».

«Per voi sono vissuto tanti anni e per voi consumai roba, salute e vita. Spero morendo di divenire vostro protettore in Cielo».

Un padre che amava intensamente ciascuno

Contempliamo con amore di figlie e figli questo nostro padre. Che diventi sempre più padre per noi. L’esperienza più forte che i nostri missionari e missionarie ebbero dell’Allamano fu soprattutto quella della sua paternità: lo sentivano come un padre che amava intensamente ciascuno, così tanto da lasciare un ricordo indelebile fin dal primo incontro: «Sono passati otto giorni da quando sono ritornata da Rivoli dove sono stata 15 giorni con il nostro amato padre – scrisse suor Emilia Tempo l’11 settembre 1925. Sono stati giorni meravigliosi. Il padre mi sembrò più che mai “padre”, e, credimi, specialmente alle sere abbiamo goduto immensamente della sua compagnia… il padre si sedeva sul sofà e noi ci inginocchiavamo ai suoi piedi e chiacchieravamo con lui fino alle 10».

Padre Alfredo Ponti nel 1906 racconta:

«Una sera a Tosamaganga (Iringa, Tanzania), mentre sulla missione si scatenava un terribile temporale, mi rifugiai nella stanza di padre Nazareno… Quasi spontaneamente… il discorso cadde sugli anni felici della nostra giovinezza… Rivivemmo per qualche istante i nostri primi anni di vita di Istituto… Il discorso cadde naturalmente su colui che di quella famiglia era il vincolo, sostegno, guida, padre. Ricordammo tutto di lui: la bontà verso di noi, la grande comprensione e la felicità nostra di poter convivere con lui. Il ricordo palpitante dell’amato padre ci aveva commossi entrambi. Congedandoci padre Nazareno esclamò: “Era veramente un padre; nostro padre”».

Sostiamo dunque accanto al nostro padre e insieme a lui vogliamo riflettere e meditare sui suoi grandi amori: «L’Eucarestia, la Consolata, la carità fraterna, la santità, la Chiesa, lo zelo, la salvezza delle anime…». Contempliamo la sua santità e sentiamoci stimolati a vivere sempre più secondo il suo cuore, le sue scelte, il suo esempio.

Ascoltare e vivere la sua parola

In questo triennio i due Istituti saranno impegnati a camminare nella luce del nostro padre fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Sia nostro impegno ascoltare e vivere la sua parola. Sentiamolo mentre ci incoraggia a essere sempre più come lui ci voleva, preghiamolo perché ci renda famiglia missionaria chiamata ad annunciare il Vangelo e a vivere «la carità a qualunque costo». Continuiamo a pregare il fondatore per i nostri Istituti e per tutta l’umanità nella speranza di poterlo venerare presto come «Santo» insieme a tutta la Chiesa.

Beato Giuseppe Allamano, prega per noi.

La benedizione del fondatore possa avvolgerci e accompagnarci in questo cammino:

«Vi benedico come foste a me presenti, desideroso d’infondervi colla benedizione della nostra Consolata quanto un padre vi desidera in Domino».

«Sii forte nella prova; la Consolata ti accompagnerà e ti aiuterà. Il padre ti ricorda ogni giorno. Ti benedico. Padre».

A nome delle due Direzioni generali, fraternamente vi salutiamo
suor Lucia Bortolomasi Mc – Superiora generale
padre James Bhola Lengarin Imc – Superiore generale


L’Allamano e il Convitto ecclesiastico

LAllamano, appena nominato rettore alla Consolata, dovette affrontare il problema del convitto ecclesiastico. Per disposizione dell’arcivescovo, il convitto, che era presso il santuario, era stato chiuso quattro anni prima, e i convittori erano stati ospitati in seminario. Monsignor Gastaldi aveva preso questa decisione a motivo dell’insegnamento della teologia morale, che seguiva una linea da lui non condivisa. Se ne era addirittura assunto personalmente l’insegnamento, componendo dei trattati appropriati. Questa situazione aveva creato un po’ di sconcerto, specialmente tra il clero.

L’Allamano ben presto si vide pressato da varie parti perché convincesse l’arcivescovo a riportare il convitto ecclesiastico presso il santuario. Così il 24 giugno 1882, appena due anni dopo il suo ingresso alla Consolata, scrisse dal santuario di Sant’Ignazio una lunga lettera all’arcivescovo. Senza giri di parole, gli domandò se non fosse giunto il momento di fare tornare i giovani convittori alla Consolata.

L’arcivescovo venuto a Sant’Ignazio a predicare un corso di esercizi spirituali fu d’accordo nel riaprire il convitto ecclesiastico presso il santuario della Consolata a condizione che l’Allamano fosse il capo delle conferenze di morale.

Il convitto ecclesiastico

Era proprio quello che l’Allamano non si sarebbe aspettato. La condizione era molto gravosa. A nulla valsero le sue obiezioni, non si sentiva portato alla scuola, ed era gravato già da tante altre occupazioni. L’arcivescovo fu irremovibile: «O tu, o non se ne fa niente». «Monsignore – disse con molta franchezza -, assumo la scuola, ma non adotterò i suoi trattati». «Non importa, fa come credi, di te mi fido», rispose monsignor Gastaldi.

L’Allamano si immedesimò subito con la nuova missione e fece il possibile per tenere vivo lo spirito del Cafasso tra i sacerdoti del convitto. Proponeva senza mezzi termini l’ideale della santità sacerdotale. Commentando il testo paolino: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1Ts 4,3), diceva ai convittori: «Voi dovreste già essere santi… ma giacché, senza far torto a nessuno, non lo siete ancora, procurate di divenirlo».

Quando doveva riprendere qualcuno, lo faceva con semplicità e chiarezza, terminando sempre con un incoraggiamento: «Là! Ora mettiamo una pietra su tutto. Si metta d’impegno e procuri di essere un buon sacerdote».

Per curare meglio la dimensione spirituale della formazione, fin dal 1886, l’Allamano chiamò come direttore spirituale dei convittori il beato Luigi Boccardo, del quale era stato direttore spirituale in seminario. Questa scelta fu molto apprezzata. Un biografo del Boccardo commentò: «Se si tiene conto della cura con cui l’Allamano studiava i suoi convittori, e della fama che godeva di profondo conoscitore di giovani sacerdoti, si tratta di una scelta significativa». E riportò compiaciuto il pensiero di un altro sacerdote: «La diocesi torinese deve perenne riconoscenza al can. Allamano per questa scelta, che intrecciò gli splendori di due astri riverberanti sul convitto ecclesiastico della Consolata».

«Con questa schiera di giovani sacerdoti che preparava per il sacro ministero – affermò il can. G. Cappella – il Servo di Dio portò il santuario ad uno sviluppo veramente eccezionale. Come superiore del convitto ecclesiastico lasciò un’orma imperitura, dimostrando ottime qualità di formatore del clero».

 




Congo Rd. Padre Flavio, i Pigmei e i «verdi fratelli silenziosi»

«Qui davanti alla missione c’è la piccola piantagione di caffè che coltivo con i pigmei. È in piena fioritura, un esercito di api nella gioia e un profumo immenso. Come quello che si fa con il cuore e profuma la nostra vita». Flavio Pante, missionario della Consolata, ci manda le foto degli arbusti nel verde. Considera la natura una preziosa collaboratrice nel lavoro a Bayenga.

Le api ronzanti sui fiori a grappoli sono una benedizione. Per il miele? Quanto al miele, «ancora non ci siamo. I pigmei lo raccolgono in foresta sugli alberi e non pensano agli alveari. Con il tempo, troveremo un apicoltore che ci introduca un po’ alla volta. Ma la funzione di questi insetti è importantissima già di per sé: garantiscono l’impollinazione, delle papaie, degli avocado, di altre piante nutrienti».
Nell’ottica delle produzioni locali, la piantagione di caffè che qui chiameremmo «a chilometro zero» è una buona idea: «La bevanda serve alla missione, ma anche alla gente del posto. La tostatura è artigianale, su griglie con la brace sotto. Per i bantu il caffè mattutino, senza zucchero (non lo hanno), è normale. Anche i pigmei lo bevono, ma meno; forse per loro è un’usanza acquisita».

Alcuni Pigmei alle prese con il lavoro agricolo, a Bayenga, Rdc.

Padre Flavio precisa che le piantagioni commerciali in zona sono sparite: «Con tutte le guerre e invasioni degli ultimi decenni si è verificata una situazione di instabilità e insicurezza. Così gli investitori, soprattutto greci e ciprioti, che tenevano le piantagioni con la collaborazione di congolesi, hanno pensato che questo settore non fosse più sicuro. Aggiungiamo la svalutazione e altri fattori economici. Le piantagioni (di caffè e altro) non più curate, sono state “conquistate” dalla foresta. E le strade, cessato il traffico dei camion, si sono ristrette a piste».

Quale è il rapporto dei pigmei, popolo della foresta, con gli alberi, che padre Flavio chiama «verdi fratelli silenziosi che regalano frutti e ombra»? Ecco: «I pigmei non piantano gli alberi, non è nella loro cultura; è la foresta stessa che si rigenera. E allora, è importante avviarli (con un compenso per quanto piccolo) a queste attività. Per esempio, un vivaio in cui pianti i semi di caffè, poi li trapianti, e quando crescono gli arbusti devi togliere l’erba sottostante – sennò le piante ingialliscono e non producono. Coinvolgiamo le persone in tutte le fasi, nell’ottica della pedagogia del fare».

Fra le attività della missione, con le popolazioni bantu e i pigmei, padre Flavio spiega di aver introdotto un’altra pratica: «Procurare loro piccole piantine o semi, di papaie, di avocado che piantano non lontano dalla loro capanna per avere con il tempo i frutti. Anche solo due o tre alberi per famiglia. Ma è l’inizio di un cammino che magari ci porterà in futuro ad avere un frutteto in comune».
Padre Flavio illustra i numerosi altri servizi dei «grandi e silenziosi fratelli verdi»: «Per noi, almeno nella mia zona, dove non c’è la segnaletica, gli alberi secolari sono un riferimento negli spostamenti. C’è anche un’altra funzione. La nostra zona è molto soggetta a fulmini. Ebbene sono questi grandi alberi a proteggerci, sono loro che pagano e si bruciano sotto i fulmini…» Non solo: «Attenuano la forza del vento – qui la pioggia viene sempre portata dal vento – proteggendo i tetti delle nostre case e capanne. Ci aiutano veramente». Infine, «nella foresta i tronchi caduti possono fare da ponte sui torrenti tumultuosi e fangosi».

Marinella Correggia

Pubblichiamo questo articolo oggi, 16 gennaio, festa del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata.

Piante di caffè piantate dai pigmei di Bayenga. In questo periodo sono in piena fioritura.




Allamano. Giubileo sacerdotale


Il 20 Settembre 2023 ricorrevano i centocinquanta anni dell’ordinazione sacerdotale del beato Giuseppe Allamano. Mentre stiamo ancora godendo la notizia dell’approvazione, da parte della commissione medica del Dicastero per le cause dei santi (manca ancora quella della commissione teologica), del miracolo che dovrebbe portarlo alla canonizzazione, è motivo di riflessione ricordare questo giubileo che segna la fedeltà di Dio nella vita del beato.

Il sacerdote è una persona che si dona generosamente nel servizio al popolo di Dio, che offre fedelmente il sacrificio eucaristico e la preghiera per il bene della Chiesa, portando speranza e consolazione alle persone nelle quali il calore dell’amore di Dio si è spento.

Giuseppe Allamano si era preparato a essere consacrato durante il tempo del seminario con un impegno sistematico verso la perfezione e la santità attraverso sacrifici ed esercizi ascetici quotidiani. La sua vita sacerdotale fu notevole: si distingueva per l’unità, l’armonia e l’equilibrio con cui teneva assieme contemplazione e azione. Era un riflesso della sua vita interiore e del suo intimo rapporto con Dio alimentato dalla preghiera. Era centrata nell’Eucaristia e nell’amore per la Consolata.

L’Allamano parlava del sacerdozio secondo la visione teologica del suo tempo che concepiva la dignità della vita ordinata come regale, angelica e divina; tuttavia, non ha mai espresso in senso trionfalistico il suo ministero, quanto piuttosto in una forma dinamica che si concretizzava nell’impegno per la santificazione personale prima, e per il lavoro pastorale in mezzo al popolo di Dio poi. Il nostro fondatore capì questo segreto, e continuava a ricordare ai suoi figli e figlie che se non fossero stati buoni religiosi, sarebbero diventati dei pessimi missionari: «Senza santità non sarete che ombre di missionari, e farete più male che bene».

Celebrando i 150 anni del suo giubileo sacerdotale, abbiamo ricordato come, per Giuseppe Allamano, la messa fosse «il tempo più bello» della sua vita: «Anche se dovessimo prepararci per 15 o 20 anni per celebrare un’eucaristia, come saremmo felici!». E aggiungeva: «Vi voglio sacramentini, uniti a Gesù sacramentato. Questo titolo dovrebbe valere per tutti i cristiani, religiosi e sacerdoti, e ancor più per i missionari». E, precorrendo i tempi, vedeva nell’apostolato missionario il grado superlativo del sacerdozio: «Ogni sacerdote è missionario di natura sua perché non c’è differenza tra la vocazione sacerdotale e quella missionaria. Tutto ciò che serve è un grande amore per Dio e per le anime. Non tutti potranno realizzare il desiderio di recarsi in missione, ma tale desiderio dovrebbe essere di tutti i sacerdoti».

padre Jonah Mulwa Makau


Una spiritualità feconda

Nella sua prima lettera ai Corinzi San Paolo scrive: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti» (1 Cor 12,4-6). Questa pericope paolina permette di parlare di frutti e di spiritualità al plurale in Giuseppe Allamano. San Paolo afferma che ci sono molti doni diversi, ma sempre lo stesso Spirito; quindi, una stessa persona animata dallo Spirito può vivere la spiritualità in molti modi, producendo molte spiritualità che si traducono in frutti diversi. Vediamo alcuni dei frutti che le spiritualità di Giuseppe Allamano hanno prodotto anche oltre i confini della vita religiosa missionaria.

La formazione e la direzione spirituale di sacerdoti

Le parole pronunciate dall’arcivescovo Lorenzo Gastaldi durante l’ordinazione sacerdotale di Giuseppe Allamano non solo sono entrate nella sua anima e nella sua mente, ma hanno anche costruito una casa permanente in esse. Nel suo sermone, l’arcivescovo disse: «Dedicatevi a Dio, a lavorare e a soffrire per la sua gloria e per la salvezza del vostro prossimo. Vi aspettano grandi sacrifici, ma con l’aiuto di Dio li supererete. E quale consolazione potete aspettarvi? Abbiate fede e siate generosi con il Signore; ora date solo un posto d’onore al duro lavoro; non pensate che questo sia il momento di riposare, il nostro riposo sarà in cielo».

La realtà di queste parole dell’Arcivescovo si riflette perfettamente nella vita del beato Allamano ed emerge come una delle caratteristiche principali della sua spiritualità espletata nell’impegno posto nella formazione e nella direzione spirituale.

Il primo incarico che Giuseppe Allamano ricevette subito dopo la sua ordinazione sacerdotale fu quello di tornare in seminario come primo assistente o prefetto, con il compito, quindi, di seguire individualmente gli studenti di teologia, nei loro studi e nelle loro altre attività, intervenendo anche per correggere errori e negligenze. Il secondo incarico arrivò poco dopo il primo, quasi completandolo, quando Giuseppe Allamano fu nominato direttore spirituale nel seminario.

Padre Igino Tubaldo riassumeva così la sua personalità: «Era molto dedito a tutto ciò che poteva servire a formare lo spirito degli studenti secondo le regole stabilite da Gesù Cristo e dalla Chiesa per i suoi ministri… per abituarli a giudicare tutto alla luce della fede, per mantenere l’unione con Dio ed essere pieni dello spirito di preghiera».

Domenico Agasso afferma che il suo stile è visibile perfino nella lettura di alcuni degli «avvisi» con cui Giuseppe Allamano richiamava l’attenzione degli studenti, come dovevano prestare attenzione durante le prediche o condividere con fede le preghiere in cappella o a Messa. I sacerdoti che formò furono sono uno dei frutti della sua spiritualità, e in loro si vide la nobiltà e la responsabilità con cui valutava l’idoneità di ognuno al sacerdozio.

Queste caratteristiche così spiccate dell’Allamano sono certamente frutto della sua spiritualità e lo distinguono come maestro di formazione e direzione spirituale.

L’accompagnamento spirituale dei laici

Nei dialoghi con i suoi missionari, l’Allamano ricordava un fatto accaduto nel 1881: una donna di Loranzè (diocesi di Ivrea), fu inviata alla Consolata dal suo vescovo nella speranza di vederla liberata da una «ossessione diabolica». All’Allamano fu chiesto di andare a esorcizzarla per ordine dell’arcivescovo Gastaldi. L’Allamano le mise la medaglia della Consolata contro la bocca e disse: «Riconosci il tuo amante!». La donna guarì e in seguito ogni anno faceva un pellegrinaggio al santuario Consolata per ringraziare la Madonna. Anche quella guarigione fu un frutto della spiritualità dell’Allamano che cercava l’incontro con persone che erano interiormente tormentate in vari modi.

Giuseppe Allamano fu anche rettore del santuario di Sant’Ignazio sulle colline di Lanzo Torinese: con la sua presenza il santuario divenne una casa di ritiro di «prima classe». «Non c’era mai una stanza vuota».

La causa di beatificazione di Giuseppe Cafasso

Rispetto al processo di beatificazione di Giuseppe Cafasso, l’Allamano diceva: «Non avrei mai fatto tutto questo se fosse stato solo perché don Cafasso faceva parte della mia famiglia. Invece posso dire onestamente che ho introdotto questa causa, non per motivi di affetto o di relazione, ma per il bene che può venire dall’esaltazione di questo santo sacerdote».

La Chiesa è immensamente grata all’Allamano, poiché è solo a lui che si deve la beatificazione di don Cafasso. Questa era l’opinione del cardinale Carlo Salotti, che aveva seguito tutto il processo. In risposta a ciò, l’Allamano ammise che, in alcune notti, era sfinito dalla fatica di frequentare gli uffici romani. L’avvenuta beatificazione di san Giuseppe Cafasso fu certamente frutto della spiritualità dell’Allamano.

La fondazione dei due istituti missionari

Come affermano le Costituzioni dei missionari della Consolata: «Un’intensa vita spirituale e un ardente zelo apostolico permisero al nostro Fondatore di accettare e approfondire il suo carisma». L’enfasi è posta sulla frase: «Vita spirituale intensa».

La fondazione dei due istituti è un altro frutto della spiritualità dell’Allamano e della centralità che in essa ha la vita apostolica con le sue due finalità: la santificazione dei membri e la cura del popolo di Dio. Da allora i Missionari e le Missionarie della Consolata si sono sparsi nel mondo portando la buona notizia della consolazione di Dio ai popoli e condividendo così i frutti spirituali dell’Allamano.

Possiamo ricordare particolarmente due missionarie della Consolata che sono state a loro volta beatificate: Irene Stefani e Leonella Sgorbati. Queste due suore portavano in sé i frutti spirituali dell’Allamano in modo così speciale che oggi tutta la Chiesa le celebra come «beate». Anche questo è un frutto molto significativo della spiritualità dell’Allamano.

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice ai suoi discepoli: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,7-8). I frutti spirituali di Giuseppe Allamano trovano pienamente il loro posto in queste parole di Gesù.

padre Charles Orero


L’Allamano e l’Addolorata

La festa della Consolata che si celebra il 20 giugno è preceduta dalla novena durante la quale i missionari e le missionarie si alternano all’ambone per offrire una riflessione sulla relazione del beato Allamano con la Madonna. Suor Tiziana Fabbri si è soffermata sull’immagine della Madonna Addolorata che il beato fondatore esortava a invocare per trovare aiuto nelle fatiche e sofferenze della missione.

L’Addolorata sostiene nella sofferenza

Nella conferenza tenuta alle suore il 14 aprile 1916, l’Allamano, a proposito della Madonna Addolorata, diceva: «Questa devozione è utile in vita e in morte. È utile in vita perché come missionari abbiamo tutti da soffrire, chi più chi meno, ma chi ci sosterrà? L’aiuto migliore è quello di questa madre che ci aiuterà a soffrire, ci sosterrà quando abbiamo dei sacrifici da fare che adesso sono piccoli, ma ne avremo di grossi».

Nei suoi incontri con le missionarie e i missionari ritornò più volte sul mistero dell’Addolorata. Suggeriva l’attenzione ai dolori di Maria come modello per essere poi in grado di sostenere le sofferenze fino al martirio connessi con la vita di missione.

Il 19 settembre 1920 disse alle suore: «Ricordate sempre che la devozione all’Addolorata serve tanto per aumentare nello spirito. Quando sarete insidiate contro la carità o da qualche altra passione e avrete ripugnanze o altre cose, la Madonna vi darà aiuto e vi dirà: “Ma sii un po’ generosa, io sono stata più generosa”, allora vi scuoterete».

Consolare la Madonna

L’Allamano, più che al sentimento mirava alla volontà, all’impegno coerente della vita. La sua pietà mariana era molto calda e delicata e in occasione di alcune celebrazioni dedicate a Maria Addolorata, ha suggerito di «consolare la Madonna».

Nella conferenza ai missionari il 25 marzo 1910 disse: «Noi, poi, che siamo figli della Consolata, abbiamo speciale dovere di consolare nostra madre perché sia da noi veramente consolata. Non è per nulla che portiamo sì bel nome». Consolare la Madonna per l’Allamano significava essere coerenti nei propri doveri. È per questo che ci diceva e ci ripete: «Il nome che portate deve spingervi ad essere quello che dovete essere».

Un’esperienza significativa

Quando ero missionaria in Argentina e lavoravo nella parrocchia della Consolata di Mendoza, in occasione della festa patronale si decise di celebrare la novena in un quartiere lontano dalla parrocchia in cui vi erano problemi di violenza e di droga, dove nessuno voleva andare per paura. Era una sfida per tutti. Cercammo delle famiglie disponibili ad accogliere la statua della Madonna nelle loro case, e queste, nella loro semplicità e povertà offrirono il meglio che avevano: un posto di riguardo ben preparato, con fiori, candele, tovaglie ricamate e altre cose.

Una mattina portammo la statua in una casa e, con mia sorpresa, la signora non aveva preparato nulla, anzi era occupata per cui non ci accolse neppure. Disse alla figlia di dirci di lasciare la Madonna davanti alla porta d’entrata su di un tavolino. Mi sembrava un affronto alla presenza di Maria, una mancanza di accoglienza, il tavolino spoglio, senza neppure una tovaglietta. Io guardavo le donne che mi accompagnavano e non riuscivo a dire nulla, ma dentro di me sentivo una grande tristezza. Tra di noi il silenzio regnava, ma ad un certo punto una delle signore che abitavano in quel quartiere mi chiese molto delicatamente: «Non sei contenta di aver lasciato la Madonna lì?». Non sapevo cosa rispondere e le dissi che sentivo qualcosa in me che mi provocava tristezza. E lei mi rispose: «Sai, questa è la tristezza di tante mamme di questo quartiere che vedono il proprio figlio o il proprio marito in carcere per ingiustizie o per essere stati vittime degli abusi degli spacciatori. Ciascuna di loro sente l’impotenza di non essere stata una buona mamma e che non hanno saputo proteggere il loro figlio».

Coraggio, ci sono io!

Questo mi scosse e mi resi conto che il Signore mi chiedeva di vivere quella novena in una maniera differente, non fatta di sentimenti, ma della richiesta a Maria di essere coerente con il nome che portavo, senza pregiudizi nei confronti degli altri, senza condannare, ma semplicemente facendo sentire loro che nonostante tutto sono creature amate da Dio.

La mia sorpresa fu alla sera quando andammo per la preghiera: la signora che aveva accolto la Madonna condivise il suo dolore e il dramma che portava nel suo cuore, e disse: Questa Madonna mi ha dato forza. La guardavo e sembrava che mi dicesse: «Coraggio, ci sono qua io che come te ho sofferto e so cosa vuol dire il dolore. Guardando questa bella statua ho incontrato una mamma al mio mio fianco che mi ha aiutato a rialzare la testa e andare avanti».

Questa esperienza che porto nel cuore mi ha fatto capire che dalla sofferenza nasce la consolazione vera, dall’accoglienza del proprio dolore nasce la possibilità di una vita nuova. Non importa se non ci sono i fiori, le candele e la tovaglia, perché ci siamo noi, sue figlie e figli che facciamo onore al suo nome.

suor Tiziana Fabbri

 

 




Inizia il Triennio dedicato al Beato Allamano


All’attenzione di chi è interessato a conoscere di più del Beato Giuseppe Allamano.

Fra pochi giorni inizieremo il Triennio dell’Allamano che le due Direzioni Generali dei Missionari e Missionarie della Consolata hanno proposto come preparazione al Centenario della morte del Fondatore che cadrà nel 2026.

Dalla Casa Natale dell’Allamano vorremmo offrire ai confratelli, consorelle e laici missionari la possibilità di riscoprire, un pezzo alla volta, porzioni della grande mole di riflessioni e studi sul Fondatore e sul nostro carisma. I Missionari e le Missionarie del passato ci hanno lasciato tale grande ricchezza che però non è sempre facile rintracciare nei nostri siti e archivi. Accogliamo anche studi e riflessioni più recenti che ci saranno segnalati…

Apriamo ora un “gruppo mail” chiamato: “Dalla casa natale”. Chi desidera ricevere tale materiale, oppure avere indicazioni per accedere ad esso, ce lo segnali al seguente indirizzo mail: casanatale.allamano@consolata.net
Inizieremo con 2-3 invii settimanali di materiale, poi vedremo se l’iniziativa funziona ed è utile…

I Missionari e le Missionarie della Consolata – Castelnuovo Don Bosco


Qui trovate la lettera che lancia il triennio dell’Allamano: Giuseppe Allamano. Cuore di Padre

Clicca qui per il sito ufficiale del sul Beato  Giuseppe Allamano


Il beato Giuseppe Allamano nella casa di Rivoli, fotografato dagli studenti diel seminario durante una loro visita. – 1920 ca. (AfMC)




Sintonia spirituale e missionaria


Il 7 giugno 2023, in piazza San Pietro a Roma, all’udienza di papa Francesco sono presenti i membri dei Capitoli generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata. In quel giorno sono esposte davanti al Papa e a tutti i pellegrini le reliquie di santa Teresa di Gesù Bambino. E papa Francesco la presenta come modello di missionarietà a tutta la Chiesa. Lei che in missione non ci era mai stata, – ha sottolineato il Papa – è stata proclamata patrona delle missioni. Perché?

Risponde il Papa stesso: «Nel suo “diario” Teresa racconta che essere missionaria era il suo desiderio e che voleva esserlo non solo per qualche anno, ma per tutta la vita, anzi fino alla fine del mondo. Teresa fu “sorella spirituale” di diversi missionari: dal monastero li accompagnava con le sue lettere, con la preghiera e offrendo per loro continui sacrifici. Senza apparire, intercedeva per le missioni, come un motore che, nascosto, dà a un veicolo la forza per andare avanti…».

«I missionari, infatti – aggiunge papa Francesco -, di cui Teresa è patrona, non sono solo quelli che fanno tanta strada, imparano lingue nuove, fanno opere di bene e sono bravi ad annunciare; no, missionario è anche chiunque vive, dove si trova, come strumento dell’amore di Dio; è chi fa di tutto perché, attraverso la sua testimonianza, la sua preghiera, la sua intercessione, Gesù passi».

In questa felice circostanza i Missionari e le Missionarie della Consolata presenti all’udienza certamente si sono ricordati dell’insegnamento del loro fondatore che in varie occasioni proponeva la Santa di Lisieux come modello di vita per la loro vocazione missionaria. Ancora prima della beatificazione di Teresa avvenuta il 29 aprile 1923, l’Allamano volle indicarla come «protettrice dell’anno» per i missionari e le missionarie. Di lei amava mettere in evidenza che non aveva fatto «nulla di grande ma tutto piccolo» e che «si era fatta santa nelle piccole cose con volontà di ferro».

L’anno seguente, Giuseppe Allamano volle che i Missionari e le Missionarie celebrassero un solenne triduo di preghiera e di riflessione per ricordare la beatificazione della Carmelitana di Lisieux e prepararsi alla sua canonizzazione.

Il timbro spirituale e missionario della Santa di Lisieux, papa Francesco lo propone anche oggi a tutta la Chiesa: non si può essere cristiani autentici senza vibrare di zelo per l’annuncio di Cristo Gesù a tutti, con la preghiera, nella valorizzazione degli impegni quotidiani, accogliendo come moneta preziosa le croci che non mancano mai nella vita di ogni persona.

padre Piero Trabucco


Spiritualità al femminile

Formato dalla mamma, Marianna Cafasso, e dalla maestra, Benedetta Savio, donne di fede solida e squisita carità, Giuseppe Allamano ha trasfuso nelle fondazioni dei Missionari e delle Missionarie della Consolata una spiritualità impregnata delle caratteristiche e dei valori di cui è ricca la donna.

Il volto della spiritualità

La spiritualità femminile è molto diversa dalla spiritualità femminista. Essa si riferisce al volto della spiritualità divina che si relaziona con il corpo, con la natura e con i cicli della creazione. Il concetto di spiritualità femminile non riguarda il genere, ma piuttosto l’energia spirituale creativa e vivificante che dà forma a ciò che ci interessa e in cui mettiamo la nostra energia.

Marianna Cafasso

La spiritualità femminile di Giuseppe Allamano cresceva in lui come lui cresceva in sua madre; in qualche modo è parte di una esperienza vissuta a partire dalla sua infanzia. Parlando della spiritualità femminile dell’Allamano, due figure principali vengono in evidenza: sua madre Maria Anna Cafasso e la sua maestra Benedetta Savio.

Sappiamo che il padre dell’Allamano morì quan-do lui aveva meno di tre anni. Marianna si trovò quindi vedova, con cinque figli piccoli e affrontò la situazione con la risolutezza caratteristica dei tempi facendosi carico del lavoro, come racconta l’Allamano stesso parlando di lei: «Con il nostro modesto patrimonio, riuscì a mandare a scuola tre di noi, e ancora aumentò i nostri beni di circa 1.200 lire (ca. 6mila €) e poi non si dimenticava dei bisogni degli altri, poveri del luogo altrimenti trascurati, e interveniva con pronta efficienza».

La nipote Pia Clotilde ha detto: «Lei lavorava molto, e faceva lavorare molto gli altri. Aveva abbastanza roba per vestire un ballo (espressione tipicamente piemontese, nda) e così quando qualche povera donna aveva un figlio, preparava per lei gran parte del corredino. I poveri e i malati li aiutava nei loro molti bisogni».

Benedetta Savio

La maestra elementare di Giuseppe Allamano divideva il suo tempo tra i bambini dell’asilo, la sua famiglia e una intensa vita di pietà. Le testimonianze del suo gioioso fervore nella preghiera, anche in età avanzata e nella malattia, hanno molto in comune con quelle che descrivono esempi più famosi di santità.

L’Allamano è stato molto influenzato da queste due figure femminili: la loro tenerezza, la loro generosità, la loro laboriosità e santità. Tutto ciò ha segnato l’inizio della sua spiritualità femminile in cui la donna ha uno spazio centrale non solo nella sua vita, ma nella vita della Chiesa e dell’intera società. Lo spirito di duro lavoro, la generosità e la precisione che l’Allamano aveva li vediamo perfettamente presenti in tutta la sua vita e con essi affrontava le sfide di ogni giorno.

La trasmissione dei valori materni

Nei suoi scritti spirituali, l’Allamano desidera tutte queste virtù per i suoi missionari e tra queste la generosità, il lavoro duro, lo spirito di preghiera e la carità verso Dio e verso il prossimo: «Nostro Signore vuole la generosità», «Chi non si adatta ai lavori manuali non ha lo spirito missionario»; «Non bisogna aver paura di sporcarsi le mani»; «Dovremmo essere felici di morire nel campo del nostro lavoro». Secondo lo stile che era proprio di sua madre, inviava frequenti aiuti ai poveri.

Nei suoi scritti, inoltre, vediamo un uso frequente di espressioni materne e femminili. La prima casa dei missionari è chiamata, ad esempio, la Casa Madre, «di conseguenza, amate questa casa come una vera madre, essa vi ha accolto tra le sue braccia e vi nutre e vi prepara all’apostolato». Paragona, quindi, la famiglia religiosa da lui fondata a una madre affettuosa e tenera, la cui attenzione è rivolta ai suoi figli: «Questa casa è la tua Gerusalemme»; «Questa casa è stata costruita per la tua formazione»; «In questa casa, Dio fornisce molte grazie solo per te, per la tua santificazione, grazie che non dà ad altri fuori di questa casa».

La madre dei missionari

L’apice della spiritualità femminile dell’Allamano la troviamo in tre aspetti principali: l’intitolazione dell’Istituto alla santissima Madre Consolata, il coinvolgimento di molte donne nella sua opera missionaria di evangelizzazione e la fondazione delle Suore missionarie della Consolata. Come molti altri fondatori, l’Allamano avrebbe potuto scegliere un titolo diverso per le sue comunità missionarie e invece decise di intitolare i suoi Istituti alla Madonna che poi chiama «fondatrice», la Consolata, sottolineando così anche il ruolo che lei ebbe nella storia della Chiesa e della salvezza dell’umanità. Riteneva che Maria fosse davvero una madre per noi e che noi fossimo cari figli per lei.

Nella terza spedizione, arrivata il 13 maggio 1903, ci fu una novità inaspettata: insieme ai sei missionari partivano anche otto suore del Cottolengo, le prime donne chiamate all’opera delle missioni della Consolata. Seguirono poi le Missionarie della Consolata che l’Allamano fondò nel 1910 dietro espresso invito del papa Pio X «È il papa Pio X che vi ha volute, è lui che mi ha dato la vocazione di fare delle missionarie», e queste missionarie le chiamava giocosamente «papali». Papa Francesco, in occasione del tredicesimo Capitolo generale le ha giustamente chiamate il «ramo femminile dell’Istituto».

Il ruolo della donna nell’evangelizzazione

La spiritualità femminile dell’Allamano riunisce i due rami dell’Istituto, i Missionari e le Missionarie della Consolata, come una sola famiglia, dedicata al servizio della Chiesa e di tutto il genere umano con la fiamma ardente della carità verso Dio e il prossimo. Questa spiritualità riconosce il ruolo della donna nella missione evangelizzatrice della Chiesa, nella società e nella famiglia.

Rafforza anche il nostro impegno a promuovere la dignità e il ruolo della donna nella società; ce lo ha ricordato anche papa Francesco durante il tredicesimo Capitolo generale: «Un’attenzione speciale è data all’impegno di promuovere la dignità delle donne e i valori della famiglia» e permette di apprezzare il valore delle donne consacrate che, sull’esempio di Maria, si aprono con ubbidienza e fedeltà al dono dell’amore di Dio.

padre Charles Orero


Tenerezza paterna di Giuseppe Allamano

Un giovane sacerdote missionario e un laico missionario della Consolata, in occasione della festa del beato Allamano (16 febbraio) hanno condiviso un aspetto peculiare della personalità del padre fondatore: la sua tenerezza paterna.

Testimonianza di padre Piero Demaria

L’Allamano aveva a cuore il bene dei suoi figli e figlie. Due episodi mostrano la sua tenerezza paterna verso di loro.

Il primo si riferisce a fratel Benedetto Falda, partito col secondo gruppo di missionari per il Kenya nel 1903. Era un tipo molto attivo e creativo e, trovandosi nella missione di Tuthu, attraversava un momento di tristezza e nostalgia.

L’Allamano scrivendogli non lo ha esortato a farsi coraggio e a darsi da fare, ma ha pensato a come aiutarlo per farlo star meglio ed essere contento. Si è ricordato che fratel Benedetto suonava il mandolino, lo faceva nelle feste e anche nelle balere e allora ha cercato per tutta Torino un mandolino e glielo ha fatto spedire con una delle navi che portavano aiuti ai missionari in Kenya, scrivendogli: «Prendi questo mandolino, suona e canta e starai meglio».

L’Allamano aveva veramente a cuore che i suoi missionari e missionarie stessero bene e fossero contenti del loro lavoro. Prima ancora dell’efficenza era interessato alla gioia delle persone.

Un altro episodio riguarda una suora che stava male: il fondatore era andato a trovarla e le aveva chiesto che cosa le avrebbe fatto piacere. La suora gli aveva risposto che avrebbe mangiato volentieri un grappolo d’uva. Non era ancora la stagione, ma l’Allamano non le ha detto che non ce n’era. Ha cercato invece l’uva per tutta la città e, trovatala, l’ha portata alla suora soddisfacendo il suo desiderio.

I due episodi mostrano che, più che il grappolo o il mandolino in sé, ciò che ha fatto stare meglio queste due persone è stato vedere come il fondatore le avesse a cuore, spendesse il suo tempo per loro, appunto, come farebbe un padre pieno di tenerezza per i suoi figli.

Testimonianza di Mauro Brucalassi missionario laico della Consolata

L’incontro con l’Allamano ha in un certo senso orientato la mia vita. Cosa c’entra quel pretino umile e un po’ malaticcio con la mia vita? C’è un prima e c’è un dopo questo incontro. Un prima, quando le vicissitudini della vita (positive e negative) le consideravo dovute al caso, alle circostanze, tutt’al più al destino; e c’è un dopo, quando tutto è dovuto a un disegno che Dio ha per ognuno di noi al quale difficilmente si può sfuggire, ecco il messaggio.

Ho conosciuto l’Allamano 24 anni fa facendo parte del nascente gruppo Lmc (Laici missionari della Consolata) di Grugliasco guidato dalle suore della Consolata che hanno voluto condividere il carisma di consolazione anche con persone non consacrate. Confesso che mi ci sono voluti mesi di formazione per aprirmi a questa nuova realtà.

Nel partecipare a questi incontri, oltre agli insegnamenti sul carisma che ci venivano forniti, ho avuto occasione di leggere alcuni libri sul beato Allamano scritti da padri e da suore della Consolata. Alcuni di loro l’avevano conosciuto personalmente e le loro memorie mi hanno appassionato. I loro scritti, infatti, non si limitavano a descrivere la vita, le azioni, i suggerimenti del fondatore ma c’era qualcosa in più, si evidenziava un affetto filiale nei suoi confronti.

Inoltre, ho avuto modo di leggere alcune lettere che l’Allamano scriveva ai suoi «figli e figlie» in missione e devo dire che erano, e restano, messaggi colmi di affetto, di tenerezza e di amore profondo. Anche quando rimproverava coloro che avevano commesso qualche errore, lo faceva sempre con delicatezza senza mai eccedere nell’ammonire.

Questo modo di agire mi ha colpito in modo significativo, ho trovato nell’Allamano un’umanità straordinaria, un uomo concreto con una devozione smisurata nei confronti della Vergine Consolata.

Era un uomo che non dava risposte preconfezionate come solitamente si sentono dare, ma ciò che diceva proveniva dal cuore. È stato un vero testimone del Vangelo.

I suoi insegnamenti potevano, e possono sembrare difficili da mettere in atto, basti pensare alla frase: «Prima santi e poi missionari», con quel «Essere santi» che sembra di difficile attuazione. Ma subito dopo spiegava in che modo attuare il concetto: «Fare lo straordinario nell’ordinario», in altre parole, fare quello che si deve fare giornalmente nel migliore dei modi possibile.

Come laico missionario dalla Consolata non mi prefiggo di andare in missione ad gentes, tuttavia sono impegnato nel volontariato prestando servizio nella mia parrocchia, ma soprattutto nel Centro di ascolto «Pier Giorgio Frassati» di Collegno e Grugliasco dove ho modo di incontrare persone in difficoltà, sole, giovani e anziani che chiedono aiuto, ed è qui dove posso mettere in atto, con i miei limiti e le mie fragilità, gli insegnamenti dell’Allamano. Lui diceva che: «Non tutti possono andare alle missioni, per svariati motivi, ma tutti siamo apostoli nelle nostre case, nei nostri paesi. Tutti siamo chiamati e dobbiamo essere apostoli e, ciascuno nella sua sfera di azione, far conoscere e amare Gesù»: questo è ciò che mi propongo di fare.

a cura di Sergio Frassetto

 

 




I laici non mancheranno mai


Siamo nel 1891, dieci anni precisi prima della fondazione dell’Istituto missioni Consolata, Giuseppe Allamano, sebbene impegnato in Torino come rettore del Santuario della Consolata e nel Convitto ecclesiastico, pensa, prega e si consulta per capire se la fondazione di un istituto esclusivamente missionario in Piemonte sia nella volontà di Dio e nei disegni della Chiesa. Scrive a questo riguardo al padre Carlo Mancini, religioso lazzarista residente a Roma, perché esplori presso la congregazione di Propaganda fide la possibilità e l’opportunità di questa nuova avventura missionaria. Nella lettera così si esprime: «Anche oggi ho un certo numero di sacerdoti (i laici poi non mancheranno) che mi stanno ora giornalmente attorno sollecitandomi di metter mano a quest’opera».

Questo primo discreto accenno alla presenza dei laici diventerà sempre più chiaro nella mente di Giuseppe Allamano e dieci anni dopo, nel 1901, fonda l’Istituto missioni Consolata che accoglie parimenti sacerdoti e laici. Nel 1902 la prima spedizione missionaria verso il Kenya è formata da quattro missionari: due sacerdoti e due laici. Tale formula si dimostra subito vincente, poiché essa è capace di integrare in maniera armonica lo sviluppo umano portato avanti dai laici con il ministero pastorale dei sacerdoti e, in seguito, con i preziosi servizi delle Suore missionarie.

L’Istituto, con il passare degli anni, si sviluppa e tutti i suoi membri fanno i voti religiosi. Così, assieme ai sacerdoti, nasce il ramo dei «Fratelli»: sono laici che si votano per sempre alla missione con la professione religiosa. La loro presenza si dimostra preziosa e indispensabile, soprattutto quando si tratta di aprire nuovi campi di evangelizzazione in Africa.

Arriviamo poi al Concilio Vaticano II che richiama tutti i battezzati alla loro responsabilità di rispondere alla chiamata evangelizzatrice e missionaria. Ne fa eco l’enciclica Redemptoris Missio che esorta i laici a «impegnarsi, sia come singoli, sia riuniti in associazioni, perché l’annuncio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo e in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora di più in quelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il Vangelo e conoscere Gesù se non per mezzo loro» (71).

Anche oggi non mancano al nostro Istituto i laici che, rispondendo all’invito del beato Allamano e ai costanti richiami di papa Francesco, offrono la loro collaborazione all’opera missionaria, sia in patria che in altri continenti, esercitata soprattutto nel campo educativo e sanitario, senza escludere attività prettamente pastorali per l’annuncio del Vangelo. Stimolare e sostenere il prezioso contributo dei laici nel campo missionario dovrebbe essere l’impegno di tutti coloro che amano l’opera missionaria della Chiesa.

padre Piero Trabucco

La spiritualità del «di più»

Per l’Allamano, il missionario è l’uomo del di più, deve strafare, non può accontentarsi del minimo indispensabile: bisogna fare tutto bene, «il bene va fatto bene».

Un «di più» per la gloria di Dio

«Magis» è un avverbio latino che significa di più o più grande. È implicito nella frase latina legata ai missionari della Consolata ad maiorem Dei gloriam, che significa «per la maggior gloria di Dio». Magis descrive chi fa di più per Cristo, o di più per gli altri. Indica l’aspirazione o l’ispirazione collegata alla formazione di una spiritualità centrata su Gesù Cristo.

Definito in termini più semplici, magis descrive l’eccellenza o la qualità di una impresa: non c’è scuola o impresa sulla terra che non rivendichi l’eccellenza nella descrizione della sua missione. Il magis ci ricorda costantemente che tutte le decisioni che prendiamo, per quanto personali o private possano sembrare a prima vista, hanno ampie implicazioni nella vita della comunità, e quindi il bene comune è un valore da tenere sempre presente.

La spiritualità del magis

In questo contesto, una spiritualità guidata dal magis è quella che cerca il di più, la qualità e l’eccellenza: non si accontenta del minimo indispensabile, ma è incessantemente incline a cercare qualcosa di più grande.

Negli scritti del beato Giuseppe Allamano, questo magis può essere visto in diversi modi:

  1. È la spiritualità che cerca la qualità e l’eccellenza per la maggior gloria di Dio e per il servizio all’umanità. Lo ricorda con chiarezza quando parla di quei missionari che rispondono con poca generosità e senza esagerare; nella sua spiritualità non c’è spazio per il minimo indispensabile.
  2. Lo vediamo anche quando, in modo attivo, invita ad approfittare delle circostanze. Per Giuseppe Allamano non si tratta di aspettare le occasioni d’oro, ma di trovare l’oro nelle occasioni a portata di mano.

Questa ricerca dell’eccellenza, questo fare di più, questa spiritualità, questo magis, Giuseppe Allamano lo vuole vedere nella vita dell’Istituto e nella vita dei suoi missionari.

Nella vita dell’Istituto

In occasione del decimo anniversario della fondazione morale dell’Istituto (24 aprile 1910) Giuseppe Allamano diceva che questa comunità era stata fondata non per lui ma ad maiorem Dei gloriam (per la maggior gloria di Dio). Tutto ciò che l’Istituto ha fatto in passato, tutto ciò che fa attualmente e tutto ciò che farà in futuro, è per la maggior gloria di Dio che si manifesta nella sua missione e nel servizio all’umanità.

Quindi, tutte le attività e tutti gli strumenti di promozione umana scelti per l’evangelizzazione dei non cristiani hanno a che vedere con questo: le fattorie agricole, i laboratori industriali, le scuole, le visite a domicilio, gli orfanotrofi, i collegi e l’assistenza medica… tutto rivela il di più, la ricerca minuziosa della qualità dell’opera.

Lo riconosce anche il cardinale Van Rossum, prefetto di Propaganda fide, che in un incontro con Giuseppe Allamano continuava a ringraziare per tutto il buon lavoro che l’Istituto stava facendo sottolineando che «questo che voi fate va al di là di quello che si deve fare, non si è obbligati a fare tutto questo». In tutta risposta, l’Allamano aggiungeva: «Abbiamo fatto solo il nostro dovere; uno non dovrebbe essere prete se non sente zelo per le anime». Ecco evidente il magis che l’Istituto ha ricevuto dal Fondatore come eredità.

Nella vita del missionario

La spiritualità guidata dal magis dell’Allamano la vediamo anche nella vita di ogni missionario.

Nella risposta alla propria vocazione il magis è molto presente: non basta essere chiamati, non basta rispondere alla chiamata, non basta entrare nell’Istituto e non basta nemmeno andare in missione. Tutte queste cose hanno un senso se contengono una risposta piena, generosa e costante alla grazia di Dio.

Il magis riappare nel lavoro, nella preghiera e nella carità. Il lavoro deve essere fatto con spirito di generosità: «I missionari – diceva – sono generosi e possono lavorare per molti». E nella preghiera un missionario non può dire di pregare troppo: «Lo dico a voi, non si può mai dire di pregare troppo».

Nella carità desiderava in ogni comunità non una semplice carità, ma una carità sempre attenta all’altro, una carità che sopporta tutto, una carità capace di amare secondo la misura di Dio. «Il nostro cuore – diceva – è così piccolo che non lo possiamo dividere tra Dio e le creature. Dio vuole tutto il nostro cuore e quindi dovremmo amare con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutta la nostra mente, con tutte le nostre forze».

Sull’esempio di Cristo

Quindi, con la spiritualità del magis e infondendo uno spirito di generosità e costanza, l’Allamano aiutava ogni missionario a rispondere bene alla sua vocazione, ad amare e servire Dio con zelo, a mettersi con generosità al servizio di Dio e del prossimo e a rivitalizzarsi.

San Paolo esorta i suoi cristiani a vivere una vita piena di amore, seguendo l’esempio di Cristo che «ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2) e ricorda loro che questa vita ci trasforma in ambasciatori di Cristo perché «per mezzo nostro, è Dio stesso che esorta» (2 Cor 5,20).

È proprio la spiritualità del di più che ci permette di essere apostoli zelanti, veri ambasciatori di Cristo.

padre Charles Orero

UNA SCUOLA CON SPIRITO MISSIONARIO

Il 7 ottobre 2022, anniversario della beatificazione di Giuseppe Allamano, avvenuta nel 1990, i 1.705 studenti della scuola bilingue «Giuseppe Allamano» di Bogotá (Colombia), hanno celebrato la Giornata missionaria mondiale evidenziando il carisma del fondatore dei Missionari della Consolata e titolare della loro scuola.

Eucaristia a più voci

Per una di quelle sincronicità che avvengono lungo i cammini della missione, hanno concelebrato l’eucaristia nel cortile della scuola tre missionari della Consolata che hanno condiviso con gli studenti le loro diverse esperienze di vita e di missione.

Il primo, padre Im Sang Hun (Marcos), attuale superiore dei missionari della Consolata in Argentina, con il suo inconfondibile accento coreano (Corea del Sud), ma supportato da un eccellente spagnolo, ha interloquito con sette giovani della scuola che studiano il coreano. Il secondo, padre Francisco Pinilla, preside della scuola, con una lunga esperienza di missione in Etiopia, ha rivolto ai presenti alcune parole in amarico, una delle cinque lingue parlate nel Paese.

Il terzo, padre Salvador Medina, missionario in Colombia e Brasile, ha fatto lo spelling del proprio nome «Sal-va-dor», per spiegare il significato della missione, che in sintesi parla della partenza degli inviati per svolgere un compito: «sal», imperativo del verbo partire;  «va», imperativo del verbo andare; «dor», nel dolore in portoghese. Lasciare se stessi e il proprio mondo – cultura, geografia, religione e posizione sociale -, andare nel mondo dell’altro diverso ma uguale ed essere «sale» per dare sapore e gusto, per preservare e guarire il dolore «dor».

«Così ha fatto Dio – ha continuato padre Medina -, attraverso il suo missionario e inviato, Gesù (Dio salva) come Emmanuele (Dio-con-noi), per la potenza dello Spirito che ci rende comunione e comunità. Questo è ciò che tutti noi, studenti, maestri e servitori della vita, possiamo e dobbiamo fare, in nome del Dio della vita, per servire la vita in tutte le sue manifestazioni, specialmente là dove è più minacciata o ferita. Tutto perché la vita non muoia e valga la pena di essere vissuta».

Commemorazione del beato Giuseppe Allamano

«Proprio in un giorno come oggi, 32 anni fa, il nostro fondatore è stato riconosciuto a Roma, da papa Giovanni Paolo II, come una persona che ha compreso la missione di Dio e vi ha dedicato la sua vita, i suoi studi e i suoi beni. La scuola porta il suo nome, che ne ispira la spiritualità, la pedagogia e la dimensione missionaria universale.

Come disse il Papa all’Angelus di quel giorno, il 7 ottobre 1990, in piazza San Pietro: «I nuovi beati, Giuseppe Allamano e Annibale Maria Di Francia (beatificati lo stesso giorno), entrambi formatori di sacerdoti e apostoli dell’animazione vocazionale, intercedono anche per noi».

Per questo motivo la loro beatificazione durante lo svolgimento del «Sinodo per la nuova evangelizzazione» acquista un significato particolare.

«Sono, infatti, testimonianza vivente delle meraviglie che lo Spirito Santo opera in coloro che rispondono generosamente alla chiamata divina. Con il loro esempio, ricordano a tutti l’urgenza di chiedere “al padrone della messe di mandare operai nella sua messe” (Mt 9, 38), e incoraggiano i sacerdoti, i seminaristi e i loro formatori, apostoli della nuova evangelizzazione, a percorrere senza dubbio e con gioia la via della santità, che è l’abbandono fiducioso alla volontà di Dio e il servizio senza riserve ai fratelli.

Insieme a loro, ci rivolgiamo ora alla Madre del Salvatore, venerata dal beato Allamano con il titolo di Consolata, e dal beato Annibale Maria Di Francia con il titolo di Maria Fanciulla».

Il viaggio e la missione continuano

Nelle aule gli studenti e gli insegnanti hanno proseguito la giornata delle missioni ricordando e aggiornando le loro conoscenze e lasciando volare la loro immaginazione attraverso i cinque continenti, con i loro diversi colori, visitando culture, balbettando lingue, conoscendo usi, tradizioni e religioni per organizzarli, artisticamente ed esteticamente nel cosiddetto «Angolo missionario», che poi è stato oggetto di pellegrinaggio e scambio tra tutti.

La giornata si è conclusa con la realizzazione di un «salvadanaio missionario» in ogni aula, riempito con il dono della loro solidarietà, che è stato inviato a Cuba, una bellissima isola che si è «spenta» a seguito dell’uragano Ian, il 28 settembre, quando il suo sistema elettrico è crollato, lasciando 11 milioni di cubani senza elettricità.

Conclusione

In questo modo, la comunità educativa Giuseppe Allamano di Bogotá si è unita al resto dei luoghi dove il 7 ottobre è stata ricordata e celebrata la vita e l’eredità di colui che continua a essere maestro di missionari, un’opera iniziata in Africa e che si è estesa in tutto il mondo grazie a fratelli, sacerdoti, suore e laici che continuano ad «annunciare la gloria di Dio alle nazioni».

équipe di Animazione missionaria giovanile e vocazionale Imc Colombia

 

 




Giuseppe Allamano e la guerra


Un libro di recente pubblicazione, dal titolo «Un’enciclica sulla pace in Ucraina», (Terra santa edizioni, 2022) raccoglie gli appelli accorati e gli inviti alla pace rivolti da papa Francesco nell’ultimo anno ai responsabili delle nazioni e a tutta l’umanità. Il testo richiama tutti, particolarmente i cristiani, a essere donne e uomini di pace, a supplicare il Dio della pace, dell’amore e della speranza affinché illumini i governanti e questi si impegnino a fare cessare la guerra nel cuore dell’Europa e in ogni altra parte del mondo. Più volte il Papa si chiede a quante tragedie l’umanità deve ancora assistere prima che si convinca che ogni guerra è soltanto una strada di morte e che attraverso di essa si hanno soltanto vinti e vittime e nessun vincitore.

Sappiamo che la guerra è un male che accompagna il cammino dell’umanità dai tempi più antichi. Giuseppe Allamano e il suo collaboratore Giacomo Camisassa hanno partecipato indirettamente alle nefaste vicende della guerra del 1915-1918, sia in Italia come in Africa, attraverso le peripezie dei loro missionari e missionarie. I prodromi della Grande guerra iniziarono già nel 1914 e si manifestarono pienamente l’anno successivo nelle gravi ristrettezze economiche e poi nel richiamo alle armi di molti studenti missionari e giovani sacerdoti. Nel 1915 complessivamente 38 missionari vennero chiamati alle armi. Confessò l’Allamano stesso, parlando confidenzialmente alle missionarie: «Dopo la partenza del primo scaglione stavo discorrendo con il can. Camisassa, ed egli, tanto più sensibile quanto meno lo dimostrava all’esterno, esclamò: “Povero Istituto!” e proruppe in pianto».

L’Allamano seguì i suoi giovani «militari» con una corrispondenza fitta, calda e paterna. Consigliò loro di arruolarsi nella sanità, offrì suggerimenti pratici per la loro vita spirituale, infuse in loro fiducia e coraggio. La nuova casa delle missionarie, non ancora totalmente terminata, venne sequestrata come deposito di medicinali per i soldati in guerra. La prima vittima del conflitto fu lo studente Baldi (+1917), costretto a combattere in prima linea. Anche tra le missionarie si ebbero alcune vittime a motivo delle ristrettezze nel vitto, per il freddo invernale e a causa delle continue trepidazioni. In Kenya, dove c’era una mortalità altissima tra gli oltre 300mila portatori locali (carriers) arruolati a forza dagli inglesi per sostenere le loro truppe contro i tedeschi del Tanganyka, i missionari e le missionarie offrirono la loro prestazione spirituale e medica a favore degli africani nei molti ospedali da campo. Ne partirono circa una quarantina, tra cui suor Irene Stefani, ora beata. Erano accompagnati anche da alcuni dei primi cristiani offertisi come volontari.

Nel novembre1918, con un solenne Te Deum cantato al Santuario della Consolata, i fedeli di Torino poterono ringraziare il Signore che l’orrenda follia della guerra era terminata. Anche l’Allamano, con cuore riconoscente, poté finalmente riabbracciare i suoi missionari ritornati dalle armi.

padre Piero Trabucco

Le spiritualità dell’Allamano

La spiritualità dell’Allamano può essere paragonata alla casa di un fabbricante di tamburi africano. In essa si trovano tamburi realizzati con diverse pelli di animali. Ogni tamburo produce un suono diverso con un proprio significato e una propria funzione.

Spirito di comunità

Definita in termini molto semplici, la spiritualità si riferisce al modo con cui viviamo la nostra vita. Essa è composta da diversi elementi che corrispondono ad altrettante scelte consapevoli fatte da individui o gruppi per vivere la propria vita in modo più profondo. Quindi la spiritualità riguarda la vita vissuta in profondità.

Se la spiritualità riguarda le scelte consapevoli, allora possiamo parlare di spiritualità al plurale perché scegliamo di vivere la nostra vita secondo vari stili.

Sulla base di quanto detto, possiamo parlare della spiritualità di Giuseppe Allamano?

Il padre fondatore parla frequentemente dello spirito di comunità. Lo faceva, per esempio, quando diceva: «Dimostri di essere veramente un missionario della Consolata se hai lo spirito della comunità e regoli la tua vita quotidiana secondo esso»; e poi ancora: «Lo spirito dà vita alle singole comunità così come a ciascun membro»; e in un’altra occasione: «Devi possedere lo spirito dei Missionari della Consolata nei tuoi pensieri, parole e azioni».

Spiritualità al plurale

Leggendo gli scritti spirituali dell’Allamano e considerando che la spiritualità ha a che fare con i modi in cui viviamo la nostra vita, possiamo riconoscere diverse spiritualità ben articolate ed espresse nella sua vita:

  1. la spiritualità mariana, che pone Maria al centro del nostro apostolato missionario come nostra madre;
  2. la spiritualità eucaristica, che ci ricorda la centralità dell’Eucaristia come fonte e culmine della nostra vita cristiana;
  3. la spiritualità missionaria che è la caratteristica distintiva di un vero missionario della Consolata;
  4. la spiritualità dell’autorità che parla del ruolo dei superiori come padri spirituali e pastori di anime;
  5. la spiritualità femminile, che sottolinea il ruolo della donna nel lavoro missionario di evangelizzazione, con Maria come modello;
  6. la spiritualità economica, che parla dell’uso corretto dei beni temporali, dei possedimenti e della loro amministrazione, basata sul voto di povertà.

Spiritualità ecologica

Un cenno particolare per la sua attualità merita la spiritualità ecologica dell’Allamano (la numero 7): essa si intravede nei suoi scritti per l’uso frequente che fa di immagini che appartengono alla natura; per lui esiste uno stretto legame fra la vita della natura e la vita delle persone e dei missionari. Così come la natura sostiene la vita nel mondo, allo stesso modo la missione sostiene la vita di un missionario della Consolata. Poi, così come la natura ha la sua origine in Dio, lo stesso succede con la missione di un missionario della Consolata.

Questo linguaggio ha profonde radici bibliche che possiamo trovare in alcune analogie proprie di San Paolo, ad esempio nella Lettera ai Romani quando, scrivendo della relazione fra Ebrei e Gentili, Paolo afferma che «se tu, infatti, dall’olivo selvatico che eri, secondo la tua natura, sei stato tagliato via e, contro natura, sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo!» (Rm 11,24).

Giuseppe Allamano, per esempio, applica questo linguaggio ecologico paolino quando parla dei doveri dei superiori e della necessità della formazione. Per lui i Missionari della Consolata sono come «piante tenere o delicate» nel giardino della chiesa. Ai superiori spetta allora il ruolo del «taglio e potatura» perché il Signore desidera che loro crescano bene, retti e prosperi; «tagliano tutto ciò che è difettoso» nei missionari affinché un giorno possano produrre abbondanti frutti di santificazione e lavoro apostolico.

La stessa allegoria la troviamo con l’immagine, anche questa molto biblica, della vite. «Prima che cominci la primavera, è opportuno che il contadino poti la vite. La vite piange, ma pensa ai bei rami che cresceranno, e allora lui non si pente».

Oggi, quando l’umanità sta affrontando una grave crisi ecologica, questi dettagli della spiritualità di Giuseppe Allamano sono importanti perché, anche se Dio ha creato tutto da sé, ci ha lasciato in eredità la missione della cura della Casa comune. Questa visione è pienamente in linea con l’ecologia integrale proposta da papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’.

Come il suono di tamburi diversi

La parola «Spirito» non è sinonimo di spiritualità: lo spirito è ciò che è nel profondo, il principio vitale, ciò che definisce un’identità particolare. La spiritualità si riferisce alla nostra relazione con questo spirito, come riconosciamo e siamo aperti a uno spirito particolare. In questo senso, la nostra spiritualità si riferisce a come viviamo in relazione allo spirito che Dio ha ispirato al padre Allamano quando questi ha fondato la sua comunità.

Quindi a cosa possiamo paragonare la spiritualità dell’Allamano? Può essere paragonata alla bottega di un fabbricante di tamburi africano. Nel suo laboratorio si trovano tamburi fatti con pelli di animali diverse. Ogni tamburo produce un suono diverso con significati e funzioni diverse: c’è quello che avvisa la gente della morte di un membro importante della comunità; c’è quello che chiama a un raduno urgente e quello che annuncia il principio o la fine di un conflitto. Anche se questi tamburi sono differenti, tutti, in diverso modo, contribuiscono alla vita della comunità.

padre Charles Orero


Disponibilità, Presenza, Carità

Padre Franco Gioda, missionario per trent’anni in Mozambico dove ha conosciuto la povertà, la fame e la guerra civile che ha devastato quel paese per lunghi anni, era un grande innamorato della Consolata e del fondatore. Riportiamo alcuni suoi pensieri espressi nell’ultima omelia pronunciata poco tempo prima della sua morte avvenuta il 17 ottobre 2021.

Due icone mariane

Nel Vangelo abbiamo due icone che ci parlano della Madonna che consola: Maria che va da Elisabetta a portare Gesù, e Maria ai piedi della croce. Le contempliamo in relazione a Giuseppe Allamano, rettore del santuario della Consolata per 46 anni e formatore del clero della diocesi a cui trasmetteva «la spiritualità della Consolata», cioè non solo una devozione, ma uno stile di vita da imitare.

Questo stile di vita si caratterizza per disponibilità, presenza e delicatezza nella carità. Troviamo queste tre caratteristiche molto ben scolpite in Maria di Nazaret e anche nell’Allamano.

L’annunciazione

Maria di Nazaret nell’annunciazione vive un’esperienza profonda di Dio che si inserisce nella sua vita e dà la sua disponibilità piena alla sua richiesta. Capisce ben poco di quanto le viene chiesto, ma una cosa la intuisce e cioè che deve mettersi nelle mani di Dio e fidarsi completamente di lui.

Con la forza dello Spirito parte, quindi, e va a incontrare Elisabetta. Non va semplicemente a salutarla, ma ad aiutarla per tre mesi finché si compie la sua maternità. Ecco la disponibilità di Maria.

Poi Maria ritorna nel suo mistero di Nazaret. E qui immaginiamo il suo colloquio con Gesù, fatto di delicatezza, di carità e di dolcezza. Notiamo bene che Maria ha capito chi fosse veramente Gesù solo nella Pentecoste.

Maria sotto la croce

Nella seconda icona contempliamo Maria nel Calvario: cosa fa Maria sotto la croce? Umanamente niente. Non estrae i chiodi dalla croce, ma è presente. Lì possiamo vedere anche spiritualmente il nostro cammino di missionari: chi può cammina, va, non si ferma, e chi è anziano e non può andare rimane fermo ai piedi della croce, rimane vicino a Cristo che sta soffrendo. Cosa fa? Niente e tutto. A una persona che sta morendo si tiene la mano affinché senta che qualcuno le vuole bene. Questo è quello che fa Maria.

Disponibilità

Disponibilità, presenza e carità: tre caratteristiche che sono espressione di una spiritualità allamaniana e nostra. Innanzitutto, la disponibilità a compiere la volontà di Dio con ottimismo sapendo che è lui che dirige tutto, e lui «ha scelto te che sei peccatore, quindi fidati del Signore!».

Ci sono molte difficoltà nella vita missionaria, ma non bisogna essere pessimisti dicendo che «tutto va male», dimenticando la parabola del seminatore che «esce» non per seminare, ma per «gettare» il seme e dove cade fruttificherà, oggi e domani forse no, ma il terzo giorno forse sì.

Io stesso ho constatato in Mozambico che, dopo tanti anni, si ricordavano di «quel missionario» che era stato «in quella missione» solo poche volte e poi avevano dovuto chiuderla per la guerra… il seme è rimasto. Non giudichiamo il seme, ma affidiamoci alla forza di Dio.

Ricordiamo la comunità di Efeso che nel digiuno e nella preghiera ha sentito la voce dello Spirito: «Riservate per me Barnaba e Paolo». Quella era una comunità ottimista che riteneva valido il partire per annunciare Cristo a popoli che non lo conoscevano.

E così oggi: vale ancora il fatto che persone lascino tutto e vadano a incontrare i miliardi di persone che non conoscono Cristo.

Presenza

In tempo di guerra in Mozambico molti missionari sono andati via. Noi della Consolata siamo rimasti: è un orgoglio religioso giusto. Ed è anche grazie a questa presenza che in quel paese è nata una Chiesa nuova fondata sul lavoro dei catechisti, una Chiesa che nasce dalla base e che sta portando molti frutti di vita cristiana. Il missionario, quindi, non dice: «Qui non c’è nessuno, qui non vale la pena lavorare». La sua presenza viva, attiva, positiva è seme di nuovi frutti.

Carità

Da giovane ho parlato con alcuni preti del mio paese che avevano conosciuto l’Allamano e mi raccontavano che lui, quando in chiesa vedeva un po’ di gente, aspettava e poi si accostava a questa e a quella persona e le chiedeva se avesse bisogno di qualcosa, se voleva che pregasse per lei. Emerge, cioè, la sua dimensione personale che era «il fiore della carità», stare vicino, accompagnare, aiutare. Una dimensione che trasmetteva ai missionari con il «comando» di amare gli africani.

Le tre perle dell’evangelizzazione

Ecco, dunque, l’importanza di vivere l’icona di Maria che va a portare Gesù a Elisabetta e quella di Maria che sta ai piedi della croce. Se siamo giovani, chiediamo la grazia dell’ottimismo che cancella la sedentarietà e, se siamo anziani, chiediamo la grazia di essere come Maria ai piedi della croce che fa tutto anche se sembra che faccia niente.

In questa prospettiva noi viviamo le tre perle dell’evangelizzazione. La disponibilità: «Fai di me ciò che vuoi»; la presenza: il samaritano che si fa carico dell’uomo che giace mezzo morto lungo la strada, e il fiore della carità che lo spinge a pagare per lui.

padre Franco Gioda