Niger: la via dei giovani africani
Sommario
- Niger: Migranti, militari, jihadisti. la situazione
- Esther: donna, madre, imprenditrice
- Ami e Aicha: dalla tradizione ai supermercati
- Il nutrizionista e l’alga miracolosa
- Il genio dell’automobile
Introduzione: Nuove speranze per l’Africa
Mentre in Niger (e nel Sahel) la situazione economica e sociale si deteriora, le forze vive della nazione si organizzano e creano lavoro per sé e i loro coetanei.
Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo (secondo i parametri delle Nazioni Unite), ma è diventato anche uno snodo strategico fondamentale, per Europa e Africa. I migranti da Africa dell’Ovest e Africa centrale convergono qui, e tentano l’attraversamento del Sahara passando da Algeria o Libia, diventando merce di traffico per gruppi più o meno armati. In Libia i migranti sono incarcerati e torturati, in Algeria spesso arrestati ed espulsi, abbandonati in pieno deserto, in Niger, appena oltre frontiera.
Il Niger è anche incastrato in un’area a elevata instabilità. Mali, Burkina Faso, Ciad, sono oggi paesi diretti da giunte militari. La Nigeria è il gigante africano più problematico a livello sociale.
In quest’area combattono e occupano porzioni di territorio gruppi armati appartenenti a diverse galassie jihadiste: Al Qaeda, Stato Islamico, Boko Haram (vedi bibliografia sul sito MC). L’Unione europea e i suoi paesi membri firmano accordi con il governo del Niger (un tempo sconosciuto, oggi ben noto a Bruxelles e alle cancellerie occidentali), e inviano truppe, blindati, elicotteri, soldi.
Ma in questo dossier è un’altra la storia che vogliamo raccontare. È quella di giovani africani che, consapevoli di non trovare un impiego nel loro paese, si inventano loro stessi un lavoro. Diventano imprenditori, sovente con un approccio «green» rispettoso dell’ambiente, come solo i giovani sanno fare. Tutti con una grande passione, e un sogno che spinge per realizzarsi. Spesso hanno successo e riescono pure a dare lavoro a loro coetanei. Ci raccontano come sono nate le loro imprese, i primi passi e le difficoltà. E quali sono i loro piani per il futuro.
Che sia questa la via per l’Africa?
Ma.Bel.
Niger: Migranti, militari, jihadisti. la situazione
Il dialogo contro le armi
Crocevia di flussi migratori, terra di scorribande jihadiste, il Niger vede aumentare la presenza di eserciti stranieri (formali e non) sul suo territorio. Paese strategico, cerniera tra l’Africa continentale e gli stati sulla sponda del Mediterraneo, è corteggiato da Unione europea e alcuni suoi paesi membri, tra i quali l’Italia. Ma c’è chi dice: non è l’opzione militare che risolverà la crisi.
Atterriamo a Niamey nel pomeriggio. Per la prima volta, uscendo dall’aereo, non mettiamo il piede direttamente sul suolo africano. L’aeroporto internazionale Diori Hamani, vetrina per il viaggiatore, è oggi completamente nuovo. Una manica chiusa ci porta dall’aereo alla moderna struttura. Manchiamo dal Niger da tre anni e il nuovo edificio ci sorprende. Per fortuna, appena fuori ritroviamo il colore ocra della sabbia e degli edifici, le auto scarburate, gli asini che tirano carretti, e uomini e donne nei vestiti locali a prova di calore. Gli odori e la temperatura ci riportano velocemente a qualcosa di noto.
Il Niger occupa una superficie di 1,2 milioni di chilometri quadrati (quattro volte l’Italia), incastonati tra Sahel e Sahara, dei quali la maggior parte sono prateria arida e deserto. La popolazione, di circa 20 milioni, vive prevalentemente in una fascia a Sud del paese, lungo le frontiere con il Burkina Faso e la Nigeria, e nel tratto in cui scorre il grande fiume Niger.
Secondo l’indice di sviluppo umano del Programma nelle Nazioni Unite per lo sviluppo (che misura speranza di vita, educazione e livello economico), il Niger ha sempre occupato uno degli ultimi tre posti della graduatoria. Nel 2020 era l’ultimo su 191 paesi, l’anno dopo è stato «superato» da Ciad e Sud Sudan, salendo al terzultimo posto. Indici, non assoluti, che però ci danno un’idea grossolana del posizionamento di un paese a livello mondiale.
Sicurezza, sempre meno?
Eppure, in questi anni qualcosa è cambiato, oltre all’aeroporto. I gruppi armati della jihad islamista, che pure erano già sul terreno, oggi sono più vicini alle città e la loro presenza si sente.
Il 9 agosto 2020 in un attacco nei pressi di Kouré, il parco delle giraffe a circa 50 km da Niamey, sono morti sei ragazzi francesi, di età compresa tra i 25 e i 30 anni, operatori dell’Ong Acted, e due nigerini, l’autista di Acted, e il presidente delle guide turistiche. Dopo il massacro, il paese è stato dichiarato «zona rossa» in ambito umanitario, e gli spostamenti via terra sconsigliati o proibiti da ambasciate e Ong.
Oltre questo attacco di livello superiore, in quanto verso stranieri, la situazione si è notevolmente degradata a spese della popolazione locale.
Lungo la strada principale verso il Burkina Faso, a Ovest, si sono verificati diversi attacchi nei confronti dei civili, che fuggono dai villaggi e si radunano in alcune città.
Anche la strada che porta in Mali, a Nord Ovest, nella regione di Tillaberi, è diventata molto insicura perché teatro di frequenti blitz dei terroristi, che sconfinano dai paesi vicini e attaccano posizioni militari e villaggi.
Nell’estremo Est del paese nella regione di Diffa, invece, è sempre attivo il gruppo Boko Haram (cfr MC gennaio 2021), sulla frontiera quadrupla con Nigeria, Ciad e Camerun. Sebbene si sia diviso in più fazioni e abbia perso, al momento, aggressività.
Cosa fa la Chiesa
Ci troviamo nell’arcidiocesi di Niamey che si estende per circa 200 chilometri quadrati nell’Ovest del paese. «Il grande problema che abbiamo nell’arcidiocesi di Niamey sono gli sfollati, la gente che scappa dalla zona di Tillaberi (area detta delle tre frontiere, tra Niger, Mali e Burkina Faso, ndr) e anche da Torodi e Makalondi (lungo la strada verso il Burkina Faso, ndr).
I jihadisti arrivano con le moto, ammazzano, bruciano, e costringono la gente ad andarsene. Così sono migliaia che lasciano i propri villaggi e si raggruppano in luoghi più sicuri cercando di andare verso la capitale. Ad esempio, a Makalondi ce ne sono molti accampati come si può». Chi ci parla è don Giuseppe Noli, missionario fidei donum dell’arcidiocesi di Milano, da otto anni presente nel paese. Lo incontriamo nel cortile della sede diocesana, dove si sta svolgendo una chiassosa festa della minoranza anglofona, in gran parte di origine nigeriana.
«Agli sfollati manca cibo, acqua, e anche la casa. La Chiesa cerca di fare qualcosa, dare un minimo di assistenza e risolvere i bisogni di base. Inoltre c’è il problema delle scuole chiuse, alcune oramai da oltre un anno, sempre a causa degli attacchi. Così la Chiesa organizza dei corsi per i bambini fuggiti dai loro villaggi».
Don Giuseppe ci parla dell’impegno di monsignor Laurent Lompo, arcivescovo di Niamey, noto ai lettori di MC (intervista su MC aprile 2019): «Il vescovo è molto attivo sull’emergenza sfollati, e ha due punti a suo favore: è nigerino, per cui parla molte lingue locali ed è ascoltato; è libero, nel senso che non dipende da fondi statali, ma cerca finanziamenti all’estero per la diocesi. Inoltre, è una persona che parla chiaramente, senza paura».
Don Giuseppe ci esprime il suo sconcerto: «Non si capisce che strategia ci sia dietro il modo di operare dei gruppi armati, è distruttivo e non sembra che porti a qualcosa».
Eserciti stranieri
Intanto si rafforza la presenza militare straniera nel paese. Sono infatti diversi gli eserciti presenti in Niger, con la missione di lottare contro il terrorismo jihadista.
Recentemente, anche il contingente principale della missione francese Barkhane e di quella europea Takuba, di stanza in Mali da 10 anni (la prima, chiamata inizialmente Sérval), si è trasferita in Niger, perché non «gradita» all’attuale giunta militare maliana.
All’aeroporto c’è anche una base dell’esercito Usa, che, tra l’altro, impiega droni pilotati da remoto per combattere contro Boko Haram nell’Est del paese. È presente un contingente tedesco, con uomini e mezzi blindati. E, dal 2018 c’è anche una missione militare italiana, attualmente di circa 200 unità (cfr. MC marzo 2018).
Dal 2012, inoltre, è presente Eucap Sahel Niger, missione civile di esperti delle forze di polizia di paesi europei, con la missione di formare le forze di sicurezza nigerine allo scopo di combattere il terrorismo. La missione è stata recentemente prolungata fino al settembre 2024. È composta da un centinaio di esperti e ha una dotazione di 72 milioni di euro.
Una nuova missione, l’Eumpm (Missione di partenariato militare della Ue), è stata istituita dal Consiglio europeo il 12 dicembre scorso, nell’ambito della Politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc) «per sostenere il Niger nella lotta contro i gruppi terroristici armati […] rafforzerà la capacità delle forze armate del Niger di contenere la minaccia, proteggere la popolazione e assicurare un ambiente sicuro e protetto, nel rispetto del diritto in materia di diritti umani e del diritto internazionale umanitario», si legge sul comunicato stampa. Il suo mandato durerà tre anni con un budget previsto di 27,3 milioni di euro.
Insomma, un bel po’ di militari stranieri – e di personale dei servizi segreti dei diversi paesi – che capita di incrociare nei locali di Niamey.
Combattere il terrorismo
«Tutti questi eserciti stranieri stanno perdendo il loro tempo e i loro soldi. Farebbero meglio ad andarsene», ci dice Moussa Tchangari, leader della società civile e fondatore di Alternative espaces citoyens, che incontriamo nel suo ufficio di Niamey. «La gente non vede in cosa siano efficaci, perché non hanno dato risultati, infatti i gruppi jihadisti stanno progredendo. La popolazione vede forze militari straniere, ben equipaggiate, ma non vede cosa fanno. Allora può addirittura pensare che i paesi che le inviano siano dietro a tutto quello che sta succedendo. Purtroppo, è un’idea che sta prendendo terreno. Non solo qui, ma anche in Mali e in Burkina Faso.
L’errore fondamentale del governo e dei suoi partner stranieri è di pensare che si possa risolvere il problema del terrorismo con la forza. Partendo da questa idea sbagliata, chi governa ha accettato che venissero eserciti stranieri. Questi sono venuti, perché pensano che la soluzione sia militare, ma anche perché la vedono come un’opportunità. Ma se vieni con uomini e mezzi e non porti risultati, il rischio è un effetto boomerang». Questo è quanto sta succedendo, e si inizia a percepire la diffusione di un sentimento antiimperialista in generale, a fianco di quello antifrancese storico (dovuto alla colonizzazione).
«La colonizzazione stessa è finita perché le grandi potenze non potevano preservare la loro egemonia con la forza delle armi. Sono stati vinti dai popoli colonizzati che non avevano eserciti potenti. L’errore fondamentale è credere che la soluzione sia militare, e trascurare tutte le altre opzioni».
Dialogo, non armi
Secondo Tchangari, i gruppi armati jihadisti sono attori politici, e «il loro obiettivo è prendere il potere». La soluzione per risolvere la crisi, secondo lui, starebbe nel riuscire a intavolare un dialogo con loro: «Se non vuoi la guerra, l’unico modo per risolvere la situazione è la discussione. Si parla con chiunque, quindi si può discutere anche con questi qui, che sono in maggioranza originari di quest’area. In ogni caso, si dovrà arrivare a farlo. Speriamo che, quando si farà, non sia troppo tardi e che non abbiano guadagnato troppo terreno».
Tchangari analizza la situazione sul campo sulla base delle sue informazioni: «D’altronde il popolo discute con loro. Siamo noi delle élite, gente di città, che ha studiato, che abbiamo problemi. La gente dei villaggi fa accordi locali con i gruppi armati. Succede in Mali e in Burkina. Qui capita che un gruppo jihadista controlli un territorio, metta delle tasse, mantenga la sicurezza, permetta agli autobus di circolare». Su questo aspetto abbiamo anche altre testimonianze a conferma: controlli di documenti di passeggeri di minibus, non da parte delle forze dell’ordine, ma di miliziani.
«Pensate che quello che vogliono fare sia un problema per il popolo? Se prendiamo un ladro gli tagliamo un braccio, se vediamo qualcuno che fa adulterio lo lapidiamo, se chiudiamo i bar, se le donne devono portare il velo, e nelle scuole si separano maschi e femmine, tutto questo, per la gente ordinaria fa parte in qualche modo della loro visione. La differenza tra il popolo e i gruppi armati, è che questi ultimi vogliono imporlo con la forza a tutti, mentre il nigerino medio pensa che sia bene, ma non vuole imporlo ai vicini».
Chiediamo allora perché ci sono i massacri e la gente scappa. «Non è sistematico. L’idea dei jihadisti criminali che vanno da un villaggio all’altro uccidendo non è la realtà. Se avessero fatto così, avrebbero fallito da tempo. Sono attori politici, che possono uccidere, ma fanno anche attenzione. In alcuni luoghi hanno commesso violazioni dei diritti, ucciso. Ci sono motivi: presenza di milizie di autodifesa, rifiuto della loro autorità. Quando andate a chiedere alla popolazione: chi vi fa più paura incontrare? L’esercito o i jihadisti? Spesso rispondono: l’esercito».
Strade migranti
La migrazione rimane un tema caldo in Niger, per autorità locali e paesi stranieri. Tchangari ci parla della situazione attuale. Il Niger è ancora il crocevia principale dei flussi dell’Ovest e del Sud, verso Nord: Libia e Algeria, e quindi coste del Mediterraneo. Anche questo è un motivo della presenza militare europea sul suo territorio. «I numeri non sono cambiati negli ultimi anni. Ci sono ancora molte ragioni che spingono la gente a muoversi. Chi viene da Nigeria, Mali o Burkina Faso, parte a causa dell’insicurezza. Ma le motivazioni sono anche altre e i movimenti sono tanti. In generale sono le difficili condizioni economiche o sociali che spingono la gente a partire, ma non è solo materiale la motivazione alla migrazione. C’è gente che si muove perché pensa che sia bene cambiare ambiente, anche culturale. Pure dal paese più ricco la gente migra, va altrove per fare altre cose.
Penso che sia impossibile trovare il modo di tenere la gente a casa loro e fare sì che non parta».
Al momento di salutarci Moussa Tchangari ci accompagna nel cortile della sede di Alternative. Qui vediamo molti giovani indaffarati. Sono ragazzi e ragazze che seguono diverse formazioni, ci spiega il nostro interlocutore: «È bene dare quesat possibilità, ma non basta. Quello che facciamo noi non è niente rispetto alla massa dei giovani che hanno bisogno. Potrebbe diventare un’alternativa solo se si facesse su larga scala».
Marco Bello
Esther: donna, madre, imprenditrice
La regina della moringa
Dopo dieci anni di lavoro per altri, Esther decide di fondare la propra impresa. Si butta sul settore benessere e bio, diventa esperta di erbe e lancia prodotti innovativi. Oggi impiega sette persone e ha aperto un negozio senza aiuti esterni.
Siamo in un quartiere centrale di Niamey, su una strada di terra, non certo commerciale. Arriviamo a una boutique con insegne di colore verde e rosso. A fianco a un logo ben studiato, nel quale appare una figura umana (rossa) accanto a una foglia (verde), c’è scritto: «NutriSat», e sotto «production de produits agroalimentaires pour le bien etre de la famille» (produzione di prodotti agroalimentari per il benessere della famiglia). Un pannello più in basso elenca i prodotti che si possono reperire: «Tisane, infusioni, spezie, succhi naturali, miele puro».
Entriamo. Nel negozietto ci accoglie una giovane donna, vestita in abiti sgargianti di taglio africano e buona fattura. Non porta il velo, come invece la maggior parte delle donne del Niger che hanno superato gli otto, nove anni di età. «Sono Esther Dossa Godo, ho 34 anni e quattro figli. Sono nata e cresciuta a Niamey, ma i miei genitori sono migrati dal Benin. Ho studiato marketing e gestione d’impresa e ho lavorato per 10 anni presso privati, prima di decidere di creare la mia impresa», ci racconta Esther seduta alla sua scrivania, mentre di fronte la sua assistente si occupa della contabilità.
«Il settore che mi è subito interessato è quello della trasformazione agroalimentare di erbe per il benessere, e l’approccio “bio”. In un periodo della mia vita sono stata poco bene, e le tisane di erbe mi hanno molto aiutata. Così nel 2018 ho iniziato a provare la produzione artigianale di tisane, e l’anno successivo ho registrato la mia impresa NutriSat».
Esther ci racconta le difficoltà, avute come donna e come imprenditrice: «Siamo in Sahel, ci sono molti vincoli sociali ed economici sulle donne. Il nostro ruolo è visto come aiuto dell’uomo, in casa per cucinare, occuparsi dei figli. Quando una donna vuole affermarsi come leader o come imprenditrice si deve confrontare con diversi impedimenti a livello sociale. Io ho dovuto impormi, anche con la mia famiglia».
Prodotti naturali
L’elemento base utilizzato da NutriSat è la moringa. Un albero, originario dell’India, che si sta diffondendo rapidamente in Africa, e ha molte proprietà benefiche come integratore alimentare biologico: antiossidante naturale, ricco di vitamine, proteine e calcio. «Trasformiamo le foglie di moringa per farne la polvere che si mette sui cibi, e tisane di diverse qualità. Adesso stiamo studiando un prodotto nuovo da lanciare sul mercato: il succo di moringa.
Realizziamo inoltre prodotti a base di spezie, zenzero, curcuma, polvere di baobab e miele.
NutriSat non ha campi di moringa, ma siamo in partenariato con dei produttori locali e prendiamo da loro la nostra materia prima. Per loro è diventata una fonte sicura di reddito. Attualmente trasformiamo 200 chili di foglie a settimana.
Vorrei far notare che abbiamo portato una rivoluzione nella filiera della moringa. In Niger è un ingrediente di cucina e abitualmente è consumata insieme a un alimento, ma noi l’abbiamo trasformata per presentarla sotto forma di tisana. Questa è stata un’innovazione».
Esther ci tiene a dire che NutriSat punta al riconoscimento bio: «Con i produttori facciamo delle sensibilizzazioni sull’uso dei concimi e i loro effetti indesiderati, e privilegiamo il fatto che i prodotti siano trattati in modo naturale, senza pesticidi chimici. I prodotti sono bio, ma stiamo aspettando una certificazione ecocert».
Generare lavoro
Esther ci spiega che NutriSat impiega oggi sette persone, compresa la fondatrice. Ci sono dei ragazzi che si occupano della trasformazione, e altri che fanno la produzione e vendita. «Sono giovani senza formazione, noi abbiamo insegnato loro un mestiere che gli permette di avere un reddito sicuro.
Oltre a loro, abbiamo dei collaboratori: giovani che vengono a prendere i prodotti per andare a venderli. Alla fine della giornata tornano, ci danno il costo del prodotto venduto e ricavano il loro beneficio. Distribuiamo poi nei negozi che prendono i prodotti e hanno un loro guadagno».
Una finestra di visibilità
«All’inizio non avevamo il nostro punto vendita, e ci siamo chiesti come fare. Montavamo un banchetto allo stadio Seyni Kountché, dove vanno gli sportivi ad allenarsi. Abbiamo offerto delle degustazioni, e così ci siamo creati una clientela. Quindi abbiamo iniziato a vendere sui social
network e abbiamo creato una boutique virtuale, oltre a quella fisica mobile, che allestivamo tutti i giorni allo stadio».
Parte del ricavato ha poi permesso a Esther di costruire la boutique fissa dove ci troviamo: «Interamente fatta reinvestendo fondi dell’impresa – dice con orgoglio -. L’abbiamo lanciata a febbraio 2022».
NutriSat ha anche iniziato a distribuire tramite alcune farmacie partner, che ora sono una decina.
Ci sono poi delle piccole boutique, specializzate nella vendita di prodotti bio o naturali, che ci distribuiscono. «Stiamo andando nei paesi confinanti, e stiamo proponendo i nostri prodotti ad alcuni supermercati. Inoltre, partecipiamo alle fiere internazionali in Africa dell’Ovest, per presentare i nostri prodotti e farli degustare. Quando i clienti apprezzano, indichiamo loro il punto vendita presente nella loro città.
Oltre a questo, facciamo del porta a porta. Con i nostri giovani, andiamo nelle imprese per proporre dei prodotti e spiegarne i benefici».
Chiediamo a Esther un messaggio per i ragazzi che vorrebbero seguire la sua strada: «Non bisogna scegliere di fare gli imprenditori avendo come primo obiettivo i soldi. Se lo fate, non riuscirete. Andate con la passione, fate quello che vi appassiona e a quel punto riuscirete».
Marco Bello
I succhi di Blandine
A rriviamo alla periferia di Niamey. Lungo una strada sterrata ci aspetta una signora ben vestita, davanti a un cancello di metallo. Entriamo in un piccolo cortile con poche piante. Sulla destra uno spazio di pochi metri quadri coperto da una tettoia. Vi vediamo una cucina a gas e alcuni contenitori di metallo.
Ci aspetta una ragazza vestita all’africana, con un sorriso particolare.
«Mi chiamo Blandine Akitan e sono nata a Niamey. Sono la promotrice della micro impresa Yalis succhi naturali», ci dice subito molto soddisfatta. «Mia madre mi ha sempre insegnato che bisogna lavorare duro per prendere in mano la propria vita.
Quando ero piccola, vendevo caramelle in strada, così mi sono subito fatta una mentalità commerciale. Da giovane studentessa, nel tempo libero vendevo succhi prodotti da altri, ma poi ho pensato a diventare io stessa imprenditrice».
Era il 2019 e Blandine aveva 28 anni, quando ha dato forma alla sua idea.
«Si tratta di una start up e, al momento, ci lavoriamo io, mia madre e mio fratello. Trasformiamo tutto quello che è frutta e verdura in succhi naturali. Facciamo anche dei mix tra frutti e verdure diversi. La gente ama queste bevande, prive di conservanti, che fanno bene alla salute. Ma la prima difficoltà che abbiamo incontrato è stata la loro conservazione.
Mia zia è stata in Burkina Faso a seguire alcune formazioni e le hanno insegnato delle tecniche. È così che abbiamo imparato a fare la pastorizzazione. Oggi produciamo i nostri succhi qui e li commercializziamo in tutto il Niger. Li mandiamo in diverse città con gli autobus di linea, ben imballati in casse».
Un’altra problematica è stata l’approvvigionamento dei contenitori: «Le bottigliette sono riciclabili, ma in Niger non le troviamo. Le facciamo arrivare dal Benin. Così anche i tappi a corona. Mentre le etichette si troverebbero, ma costano più care. Ora, alcuni clienti, ci hanno chiesto i tappi a vite, e vediamo come organizzarci».
La Yalis, attualmente, nel piccolo spazio che ha a disposizione, produce tra i 45 e i 60 pacchi da 24 bottiglie ogni settimana. Con il desiderio di aumentare il volume: «I nostri clienti sono alberghi, ristoranti e privati che organizzano cerimonie varie, come matrimoni, battesimi, incontri tra amici e tornei sportivi».
Questa piccola impresa famigliare ha grandi ambizioni: «Vogliamo ingrandirci, produrremo in locali più grandi che stiamo sistemando, li attrezzeremo con strumenti di trasformazione più moderni e acquisteremo un mezzo per le consegne in città. L’idea è poi vendere anche in altri paesi della regione».
Blandine ci lascia un messaggio per i più giovani, che sono interessati a iniziare un’attività: «Questa è una terra vergine per la nuova imprenditoria. Quello che i giovani cercano all’estero, si trova già qui in Niger. C’è la terra da coltivare, ci sono molti prodotti da trasformare. Con molta tenacia e coraggio, insieme cambieremo della nostra società».
Ma.Bel.
Ami e Aicha: dalla tradizione ai supermercati
La via del formaggio
Ami viene da una famiglia di veterinari. Ha studiato diritto e marketing, ma decide di fondare la propria impresa. Sceglie il settore caseario e ha in programma una forte espansione.
Niamey. Arriviamo in un quartiere ai limiti della città, dove si trovano grandi case con ampi cortili e terreni non edificati pieni di immondizia e sacchetti di plastica.
Entriamo in una di queste abitazioni, dove ci accolgono due giovani donne. Siamo nella sede di Amansi, micro impresa produttrice di formaggio.
Le due donne, velate con hijab, ci ricevono con un largo sorriso. La responsabile prende la parola: «Mi chiamo Ami Bickou. Sono nata nel 1990 a Tanout, dove il deserto incontra la savana, nel Niger profondo. La mia è una famiglia di veterinari, per questo motivo conosco gli animali e il latte. Dopo gli studi in diritto e marketing, iniziare a lavorare era complicato. Per questo motivo ho scelto di fare l’imprenditrice e mi sono interessata al settore caseario, nel quale avevo già qualche competenza e alcuni contatti. Ho iniziato nel 2020 e oggi siamo in tre: io, la mia assistente, Aicha, qui presente, e un collaboratore».
Ci raccontano che producono tre tipi di formaggio, dei quali uno fresco, un formaggio peul (etnia di allevatori, ndr) e un altro tradizionale, chiamato «chuku», molto consumato nella zona.
La produzione la fanno in una piccola costruzione con il tetto di lamiera, in un angolo del cortile, nella quale ci sono tutte le attrezzature di Amansi.
Arriva un uomo con un bidone di latte sulla bicicletta e lo passa ad Aicha che lo filtra accuratamente. Poi le due donne iniziano per noi una lavorazione. Fanno bollire il latte, ne misurano temperatura e densità. Intanto Ami ci descrive il processo: «Acquistiamo il latte fresco da gruppi peul oppure da una fattoria moderna non lontano da qui. La prima operazione è filtrarlo e verificarlo con un latto-densimetro per controllarne la qualità».
Sul volume lavorato precisa: «Attualmente trasformiamo 1.400 litri a settimana. Abbiamo molte prenotazioni, ma non possiamo produrre grandi quantità perché non abbiamo spazio in ambienti idonei alla conservazione. Quindi talvolta, facciamo la lavorazione due volte al giorno. Inoltre, durante la stagione calda, ci sono problemi di elettricità, per cui vorremmo mettere dei pannelli solari per alimentare alcuni frigoriferi».
Progetti futuri
Mentre parliamo, Ami e Aicha procedono con la trasformazione, ottenendo del formaggio fresco e del chuku. Per quest’ultimo dispongono delle forme rettangolari sopra una rete per sgocciolare. Il formaggio, alla fine, avrà la forma di fogli sottili.
«Nel nostro business plan è previsto l’acquisto di materiale che ci permetta di lavorare meglio rispetto al processo che utilizziamo ora che è molto artigianale. Vogliamo fare un controllo più completo del latte e produrre maggiori quantità di formaggio. Lo spazio per la lavorazione è piccolo, per cui vogliamo estendere la formaggeria Amansi costruendo nuovi locali. La domanda è molta e i prezzi del prodotto finito stanno aumentando. In tre anni vorremmo essere a regime con la nuova struttura».
Per la distribuzione si appoggiano ad alcuni negozi, ma non solo: «Portiamo i nostri formaggi in diversi negozi di alimentari in centro città e in altri quartieri. Inoltre abbiamo iniziato una vendita online. Abbiamo un sito web dove il cliente può prenotare il prodotto, oppure con Facebook o Whatsapp. Ci indica dove portarlo e paga alla consegna. Stiamo inoltre attivando il sistema di pagamento tramite cellulare».
Chiediamo ad Ami le difficoltà che ha incontrato: «Come donna imprenditrice ci possono essere più ostacoli nella nostra società. Occorre viaggiare, assistere a riunioni. Ma non è così difficile quando la famiglia ti sostiene, e io ho un marito molto comprensivo. Poi ho tre figli maschi e un quarto in arrivo. Spero che sia una bambina!».
Marco Bello
Yogurt, che passione!
«Mi chiamo Arrafat Abdourahamane, ho 32 anni, e nel 2019 lavoravo in un incubatore (società che aiuta le micro imprese, ndr) con altri amici. Accompagnavamo giovani a creare la propria impresa. A un certo punto ci siamo detti: anche noi dovremmo fare gli imprenditori, se vogliamo davvero accompagnare gli altri. Ci è venuta l’idea di lavorare sulla filiera del latte.
All’inizio eravamo in tre. Ci siamo informati e abbiamo fondato la microimpresa Sudu-kossam. Facevamo tutto: raccolta del latte, produzione, consegna. Abbiamo cominciato trasformando 20 litri al giorno, abbiamo sempre incrementato a piccoli passi. Oggi siamo a 300-400 litri, e vogliamo arrivare fino a mille.
Le mie socie sono Saratou Abdou, che si occupa dell’amministrazione, e Adama Mahamadou, responsabile della produzione. Io seguo gli aspetti finanziari. Adesso abbiamo una decina di collaboratori che lavorano nella produzione, pulizia, trasporto e ricerca clienti. Noi associati, per ora, non abbiamo salario. Quando c’è del margine, lo reinvestiamo nell’impresa, per espandere l’attività. Siamo convinti che quando questa decollerà, avremo i nostri benefici.
I n un paese come il nostro ci sono grossi gruppi nel settore del latte. Dovevamo quindi smarcarci da essi. Abbiamo dunque scelto di produrre yougurt al naturale al 100%, e questa è la nostra eccellenza. Stiamo mantenendo questo standard, ma adesso vorremmo fare un salto quantitativo di produzione. Per fare questo dobbiamo anche migliorare la comunicazione.
Per la distribuzione abbiamo ottanta punti vendita in città: supermercati, negozi e anche privati. Usiamo pure Whatsapp per prendere le prenotazioni. Clienti che fanno cerimonie come matrimoni e battesimi ci ordinano i prodotti. Abbiamo anche una strategia di ricerca di nuovi clienti.
Per promuovere la micro imprenditoria, occorre fare un lavoro di fondo con i nostri giovani. Prima di tutto far capire loro l’importanza di essere imprenditori. Chi va a scuola deve sapere che non è detto che qualche azienda lo assumerà.
Poi, nel Sahel, abbiamo un problema di sicurezza. Avere un lavoro è una questione primordiale: chi ha un lavoro non penserà tanto a migrare e neppure a fare il terrorista. Ed essere imprenditore è un’opzione, non semplice, ma percorribile».
Ma.Bel.
Il nutrizionista e l’alga miracolosa
Mister spirulina
Laureato in biochimica e nutrizione e studente di dottorato, Amadou crea prodotti altamente nutritivi per grandi e piccoli. Si basano sulla spirulina, alga che coltiva lui stesso. La sua micro impresa è appoggiata dall’incubatore dell’Università.
Lasciamo il centro di Niamey e inforchiamo il ponte Kennedy, immersi in un traffico di motorini e auto scarburate. Questo ponte fu il primo a collegare le due sponde del fiume Niger nella capitale nel 1970, ed è stato poi seguito da altri due, realizzati con fondi e da imprese cinesi. L’ultimo di questi, chiamato ponte Generale Seyni Kountché, già capo di stato, è stato inaugurato due anni fa.
Sulla sponda destra del fiume si è sviluppata l’Università Abdou Moumouni, ed è lì che ci stiamo dirigendo.
Da alcuni anni è stato creato il Centre incubateur, ovvero un incubatore di microimprese. Il suo motto è «Per l’accompagnamento efficace alla creazione e allo sviluppo di imprese innovative in Niger». Il centro offre servizi a giovani universitari talentuosi che si lanciano nel mondo dell’impresa. Fornisce uno spazio per lavorare con uffici e sale riunioni, una sala computer, formazioni in gestione d’impresa, contabilità e molto altro. Organizza fiere per le imprese innovative.
Qui incontriamo un giovane vestito con una lunga tunica bianca, alla nigerina. È Amadou Abdoul
Razak, 31 anni, laureato in biochimica, con un master in nutrizione e studente di dottorato sullo stesso tema. Amadou, con l’aiuto dell’incubatore, ha fondato la Nutrisev+ una micro impresa che produce integratori alimentari.
Ci porta in un campo vicino, dove un recinto racchiude alberi e arbusti cresciuti su un suolo arido. Qui ci mostra il suo tesoro: una grande vasca di cemento, protetta da un telo dal forte sole saheliano. L’acqua non è limpida, ma verdastra. Amadou ne preleva un po’ con una paletta e vediamo in dettaglio una schiuma verde. Sono alghe: è la famosa spirulina, dalle proprietà sorprendenti.
Un prodotto speciale
«Quest’alga è molto ricca di ferro. Fa molto bene a persone anemiche o con emoglobinopatia. Grazie alle mie ricerche ho sviluppato anche un altro prodotto, oltre alla polvere di spirulina essicata. Si tratta di una farina nutrizionale per bambini da 6 mesi a 5 anni, sia per bimbi malnutriti che per lo svezzamento. È composta da spirulina, mais, soia, e altri elementi nutritivi».
Da queste ricerche è nata appunto Nutrisev+, che produce farine pediatriche e prodotti terapeutici come integratori per donne incinte e per bambini. Ma anche per gli sportivi o chi ha carenze di ferro, vitamine o elementi nutritivi in genere.
Amadou si racconta: «Facevo pratica negli ospedali e nei centri nutrizionali, e ho potuto constatare che i prodotti utilizzati normalmente non raggiungono l’obiettivo del recupero nutrizionale. Da qui l’idea di trovare qualcosa che la gente possa utilizzare senza problemi, e di creare una farina di svezzamento. Era il 2019. Volevo valorizzare il risultato dei miei studi di master in nutrizione. Ho formulato una farina, e l’ho messa a disposizione di alcuni bambini malnutriti all’ospedale, e ha dato dei risultati molto interessanti».
Incubato
Così Amadou ha presentato un progetto d’impresa all’incubatore dell’università, e il suo progetto è stato selezionato tra molti altri. Così viene «incubato»: ha uno spazio per lavorare e riceve formazione per imparare a fare il piano d’affari, i piani strategico di marketing, relazionale e commerciale, lo studio di mercato, su come affrontare il pubblico selezionato per il prodotto e avere feed back sullo stesso.
«Vogliamo valorizzare ancora di più la spirulina producendo delle compresse, per permettere alle persone che non possono usare la farina di assumerla comunque.
Abbiamo fatto lo studio di mercato, il business plan dell’impresa e identificato i prezzi per i prodotti. Oggi siamo in tre a lavorarci, ma in futuro dovremmo essere di più. Penso a operatori per le macchine di essiccazione, un contabile, un guardiano, e alcuni ambulanti che vadano a distribuire il prodotto. Vorremmo, inoltre, mettere chioschi di vendita nei comuni, e creare dei punti di distribuzione nei dispensari e nelle farmacie. Faremo una campagna di sensibilizzazione nutrizionale, per far conoscere questi prodotti. Apriremo un ufficio in centro, lasciando dunque l’incubatore».
Intanto Amadou ci ha condotti in un piccolo stabile dove la spirulina e gli altri prodotti vengono lavorati e dove si realizzano le miscele di farine. Ci mostra alcuni imballaggi, dicendo che sono dimostrativi e che stanno studiando, con una ditta specializzata, quali contenitori utilizzare per il mercato.
Perseverare
Passare dalla ricerca all’impresa è complesso: «Non è facile valorizzare i propri studi. Quando proponiamo la nostra idea a qualcuno, questo inizia a dire che è troppo complicato, non può funzionare, ti servono tutte queste macchine, non hai tutti questi mezzi. Insomma, cercano di distruggere la tua idea. È una prima difficoltà. Alcuni vogliono rubarti il sogno usando parole che ti scoraggiano. Non bisogna lasciarsi abbattere, bisogna perseverare».
E ai giovani nigerini che vedono il loro futuro altrove, Amadou dice: «Tutti i paesi che si sono sviluppati, lo hanno fatto grazie alla gioventù. Il sapere che i giovani hanno acquisito lo hanno materializzato nei loro paesi. Oggi, in Niger, molti studenti finiscono gli studi e hanno il diploma, ma vanno a cercare il lavoro altrove. Lo stato non riesce più a impiegarli, come neppure le imprese e le Ong. Allora perché non valorizzare il loro sapere, producendo qualcosa che si tocca con mano e va a profitto loro e della popolazione?».
Marco Bello
Passata «made in Niger»
«M i chiamo Ramatou Chaibou, sono nata a Niamey nel 1996 e sono la promotrice di Ram’s agrobusiness, un’impresa di trasformazione agroalimentare. La Ram’s trasforma prodotti orticoli con metodi naturali, in particolare la cipolla in polvere e purea, e il pomodoro fresco in passata e polvere.
L’idea è nata dalla constatazione che in Niger si consuma molta cipolla, e si coltiva una varietà particolarmente rinomata, la Violet de Galmi. Quando è tempo di raccolta, il prodotto invade il mercato e i prezzi sono di circa 6mila franchi al sacco (9 euro, ndr). Passato il periodo, le cipolle iniziano a scarseggiare, e quelle che si trovano arrivano a costare fino a 16mila franchi il sacco (24 euro, ndr). Per la gente comune diventa proibitivo continuare e consumare cipolla. La trasformazione ci permette di avere questo prodotto tutto l’anno a prezzi ragionevoli.
Ho avuto l’idea nel 2016, quando ero al primo anno di università. Così ho partecipato a formazioni sulla gestione d’impresa, fornite dalla camera di commercio e varie associazioni. Volevo darmi degli strumenti. Devo dire, inoltre, che fin dal liceo ho gestito piccole attività commerciali. Cucinavo cavallette e le vendevo, insieme a caramelle, biscotti, sigarette.
Nel 2020 sono riuscita a iscrivermi all’incubatore dell’università di Niamey. Qui ci hanno messo a disposizione dei mentori, persone esperte. E la mia è stata Esther Godo (vedi pag. 41).
Intanto, studiavo gestione commerciale e poi ho affrontato un master in gestione dei progetti, con l’ambizione di avere le competenze necessarie per gestire una grande impresa.
Adesso siamo tre: io, la mia assistente, e mio marito che ci dà una mano nell’uso delle macchine. Non vogliamo indugiare troppo sull’aspetto start up ma, in due o tre anni, vorremmo crescere e tessere dei partenariati con grandi strutture di distribuzione, sia a Niamey, sia in altre regioni, e magari in città dei paesi confinanti.
Ma occorre fare degli investimenti. Ci servono attrezzature di trasformazione per aumentare le quantità, avere un punto vendita in centro città, per mostrare e vendere i prodotti e, inoltre, ci serve un mezzo di trasporto per approvvigionamento e distribuzione.
Al momento non abbiamo diffusione nei grandi supermercati. Sono io che porto i prodotti negli uffici e nelle case dei nostri clienti e una parte nei negozi di quartiere.
Devo dire che abbiamo un’attenzione particolare verso i clienti. Chi prova i nostri prodotti riceve un messaggio per sapere se sono di loro gradimento, commentare e dare suggerimenti per migliorare. Stiamo ricevendo apprezzamenti sulla nostra qualità.
Vorrei ricordare ai giovani che la prima cosa è credere in se stessi, in quello che si vuole fare ed essere molto motivati. Perché fare impresa è qualcosa che richiede tanta perseveranza, pazienza e motivazione. Se si hanno queste tre cose, si può riuscire, non si ha bisogno di cercare fortuna altrove».
Ma.Bel.
Il genio dell’automobile
«Sono Abdoul Razak Halidou. Ho studiato ingegneria elettromeccanica a Niamey e, fin da bambino, sono appassionato di automobili. Ho lavorato un po’ nell’energia solare, ma poi ho preferito seguire la mia passione. Ho capito che sarebbe stato necessario andare a fare pratica da un vero meccanico. Qui la meccanica dell’auto si impara sul campo, con un riparatore esperto. Non si studia a scuola.
Ma le auto di oggi hanno anche molta elettronica. Con le mie conoscenze ho capito cosa occorreva sviluppare per migliorare il lavoro, perché a volte i meccanici non riescono a identificare il guasto e cambiano i pezzi un po’ a caso.
Ho anche capito che dovevo formarmi ancora, assumere altre competenze, per poi creare qualcosa di solido. Così ho continuato a seguire corsi di formazione specialistici.
Mi sono associato con un meccanico e abbiamo creato la Sonix, Société nigeriénne d’expertise automobile. Il nostro motto è: «Il genio dell’automobile», una frase che deve incuriosire e attrarre il cliente.
Io verifico il motore con uno strumento collegato a una App del telefono, faccio il diagnostico, indico con esattezza il problema e poi il meccanico lo ripara. Non andiamo più a caso. Inoltre faccio la riprogrammazione delle centraline e altri interventi sulla parte elettronica.
In programma c’è l’acquisto di un apparecchio diagnostico completo e altra strumentazione per migliorare ancora. Adesso non ho abbastanza strumenti per soddisfare tutte le richieste.
Il mio sogno è che tra cinque anni Sonix sia presente in tutto il paese, e poi voglio separare l’area della meccanica da quella dell’elettronica, perché hanno esigenze diverse, di spazio e di pulizia.
Usiamo la comunicazione su Facebook e gruppi Whatsapp per promuoverci. Senza dimenticare il passaparola dei nostri clienti soddisfatti.
Io sono nigerino di Niamey e ho trent’anni. Con il mio socio abbiamo cominciato nel 2019, e funziona».
Ma.Bel.
Ha firmato il dossier:
Marco Bello, Giornalista redazione MC.
Archivio MC sul Niger:
Marco Bello, Africa «coast to coast», aprile 2019.
M. Bello, Siamo in un mondo al contrario, maggio 2019.
M. Bello, Ci legavano con corde e catene, aprile 2018.
M. Bello, Niger, frontiera d’Europa, marzo 2018.
Si ringraziano:
Filippo Acasto e Issa Yacouba dell’équipe Cisv Niger, Giada Martin raccolta fondi e comunicazione Cisv, e tutti i giovani imprenditori e imprenditrici nigerini che ci hanno dedicato il loro tempo.
Il progetto:
Le microimprese presentate in questo dossier sono sostenute dal progetto «Obiettivo lavoro», realizzato dalle Ong Cisv e Africa70, con il supporto del ministero dell’Interno italiano. www.cisvto.org