Mondo disuguale. Morire di parto nel Sud

 

Tra il 2000 e il 2023 la mortalità materna è diminuita del 40% a livello mondiale.
Una buona notizia che, però, va tenuta insieme a un’altra: nel 2023 le donne che hanno perso la vita per cause legate alla gravidanza e al parto sono state 260mila. Il tasso di mortalità registrato (197 decessi ogni 100mila nati vivi) è ancora troppo alto per raggiungere l’obiettivo stabilito dall’Agenda 2030 (70 ogni 100mila).
Infine, anche tramite i dati sulla mortalità materna, si può certificare il divario che divide i paesi ricchi da quelli poveri. Due decessi su tre, infatti, sono avvenuti in Paesi fragili o colpiti da conflitti, il 70% in Africa subsahariana.

 

«Non si dimentica mai l’esperienza di quando una donna ti sta scivolando via tra le mani e sai che è troppo tardi», dice all’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) la dottoressa Hadiza Galadanci, docente di ostetricia e ginecologia all’Università Bayero di Kano, in Nigeria.
Parla di una donna che muore di emorragia mentre partorisce un bambino. Muore, cioè, a causa di una complicazione del parto che è frequente, ma, quando affrontata in modo adeguato, non mortale.
Tuttavia, i decessi per emorragia rappresentano il 27% dei casi di mortalità materna, e avvengono quasi tutti in Africa subsahariana, dove persistono numerose sfide, tra cui la mancanza di accesso all’assistenza prenatale, ad assistenti al parto qualificati, a farmaci e a strutture sanitarie.

Nel 2023 sono state 260mila le donne che nel mondo hanno perso la vita per cause legate alla gravidanza e al parto, un tasso di mortalità pari a 197 ogni 100mila nati vivi, troppo alto per raggiungere nel 2030 l’obiettivo di 70 ogni 100mila stabilito dall’Agenda 2030.
Il 92% di tutti i decessi si sono verificati nei Paesi a basso e medio reddito, e la maggior parte di essi si sarebbero potuti prevenire. Il 70% del totale è avvenuto in Africa subsahariana.

Il Paese della dottoressa Galadanci, la Nigeria, è stato nel 2023 il Paese «peggiore» nel quale diventare madre. Il tasso di mortalità materna e il numero assoluto di decessi sono stati i più alti al mondo (993 ogni 100mila nati vivi: circa 75mila donne, 205 ogni giorno).

Dopo la Nigeria, il tasso più alto si è registrato in Ciad (748, per 6mila decessi), poi in Sud Sudan e in Centrafrica (entrambi con un tasso di 692, per 2.300 e 1.700 decessi).
Il primo paese non africano per tasso era l’Afghanistan, con 521 donne morte ogni 100mila nati vivi. Il primo per numeri assoluti era, invece, l’India, con 19mila decessi (e un tasso, inferiore alla media mondiale, pari a 80).

Per fare un confronto: in Italia i decessi per cause correlate alla gravidanza e al parto sono stati 25 nel 2023, per un tasso pari a 6 ogni 100mila nati vivi.

Il nuovo rapporto delle Nazioni Unite, Trends in maternal mortality, lanciato il 7 aprile in occasione della Giornata mondiale della salute, mette sul piatto questi dati.

Lo fa sottolineando che, grazie al miglioramento dell’accesso ai servizi sanitari essenziali in molti Paesi, tra il 2000 e il 2023 il tasso di mortalità materna è diminuito del 40%. Ma lo fa soprattutto denunciando la riduzione graduale dei fondi globali che hanno fatto registrare un notevole rallentamento nei progressi dal 2016 in poi, e che, secondo Unicef Italia, anche alla luce dei recenti tagli agli aiuti, «minacciano i fragili progressi nel porre fine alle morti materne».

La Giornata mondiale della salute ha dato il via a una campagna annuale intitolata «Inizi sani, futuri di speranza», per spronare i governi e la comunità sanitaria a intensificare gli sforzi per porre fine alle morti materne e neonatali prevenibili, e a dare priorità alla salute e al benessere a lungo termine delle donne.

Leggendo il rapporto Onu sono molti i dati interessanti che offrono un’immagine plastica delle disuguaglianze tra paesi ad alto reddito e quelli a basso reddito, e tra quelli con istituzioni stabili, e quelli coinvolti in conflitti di vario genere.

«Tra il 2000 e il 2023 – si legge sul sito dell’Organizzazione mondiale della sanità -, l’Europa orientale e l’Asia meridionale hanno ottenuto la maggiore riduzione complessiva del tasso di mortalità materna: un calo, rispettivamente, del 75% (da 38 a 9) e del 71% (da 405 a 117). […] La maggiore riduzione del rischio di mortalità materna durante questo periodo si è verificata nella regione dell’Asia centrale e meridionale, con un calo dell’83%, da 1 donna su 71 nel 2000 a 1 su 410 nel 2023. […].
L’elevato numero di morti materne in alcune aree del mondo riflette le disuguaglianze nell’accesso a servizi sanitari di qualità ed evidenzia il divario tra ricchi e poveri. Nel 2023, il tasso di mortalità materna nei Paesi a basso reddito era di 346 su 100mila nati vivi, contro 10 su 100mila nati vivi nei Paesi ad alto reddito.

Nel 2023, 37 Paesi sono stati classificati come in conflitto o in fragilità istituzionale/sociale, e rappresentavano il 61% delle morti materne globali, nonostante rappresentassero solo il 25% dei nati vivi.
Il tasso di mortalità materna è significativamente più alto nelle aree colpite da conflitti (504 decessi ogni 100mila nati vivi) rispetto ai contesti fragili (368) e ai contesti non in conflitto né fragili (99)».

Le donne nei Paesi a basso reddito hanno un rischio di mortalità materna più elevato: 1 su 66 contro 1 su 7. 933 nei Paesi ad alto reddito. «Le donne povere nelle aree remote – prosegue l’Oms – hanno meno probabilità di ricevere un’assistenza sanitaria adeguata. Questo è particolarmente vero per le regioni a basso reddito con un numero troppo piccolo di operatori sanitari qualificati […]. Gli ultimi dati disponibili suggeriscono che, nella maggior parte dei Paesi ad alto e medio reddito, circa il 99% di tutte le nascite beneficia della presenza di un’ostetrica, un medico o un’infermiera qualificata, mentre solo il 73% nei Paesi a basso reddito, e l’84% in quelli a reddito medio-basso».

La maggior parte delle morti materne è prevenibile, poiché le soluzioni sanitarie sono ben note. La salute materna e quella del neonato sono strettamente collegate. Per quanto riguarda le morti neonatali, si stima che ogni anno siano oltre 2 milioni i bambini che muoiono nel primo mese di vita, e circa altri 2 milioni che nascono morti. Per questo «è importante – dice l’Oms – che tutti i parti siano assistiti da operatori sanitari qualificati, poiché una gestione e un trattamento tempestivi possono fare la differenza tra la vita e la morte delle donne e dei neonati».

«Nel contesto degli Obiettivi di sviluppo sostenibile – conclude l’Oms -, i Paesi si sono uniti sull’obiettivo di accelerare il declino della mortalità materna entro il 2030. […] “ridurre il tasso di mortalità materna globale a meno di 70 per 100mila nascite […]”. Il tasso globale nel 2023 era di 197 per 100mila nati vivi […]. Tuttavia, le conoscenze scientifiche e mediche sono disponibili per prevenire la maggior parte delle morti. […] è il momento di intensificare gli sforzi coordinati e di mobilitare e rinvigorire gli impegni a livello globale, regionale, nazionale e comunitario […]».

Luca Lorusso




Urbanizzazione e sicurezza alimentare

 

Nel mondo soffrono la fame tra i 690 e i 783 milioni di persone. In Africa una persona ogni cinque. In Asia una ogni 12. L’obiettivo della «fame zero» entro il 2030 appare irraggiungibile.

Fame zero entro il 2030. È questo il secondo obiettivo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.

Man mano che passano gli anni, però, la speranza di riuscire a raggiungerlo entro i tempi previsti è sempre più risicata e un recente report dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) lo conferma. Nel 2022, il 9,2% della popolazione mondiale (tra 690 e 783 milioni di persone) era in una condizione di fame, ovvero non consumava la quantità minima di cibo necessaria per disporre dell’energia essenziale per una vita attiva e salutare.

Una percentuale in crescita rispetto al 7,9% registrato nel 2019. Cosa che rende evidente l’impatto negativo sul settore agroalimentare della pandemia da Covid-19 – che ha causato un rallentamento dell’economia mondiale – e del conflitto in Ucraina – che ha reso difficile reperire beni alimentari di prima necessità e ha provocato un’impennata dell’inflazione fino al 9% (2022).
Persistono inoltre altri fattori destabilizzanti come cambiamento climatico, conflitti e diseguaglianze.

Ricerche complementari al report sono scese nel dettaglio, analizzando i livelli di fame nel mondo dal punto di vista geografico e temporale.
Dalla comparazione dei loro risultati emerge come l’Africa registri i valori più elevati del pianeta: nel 2022, il 19,7% degli abitanti del continente (282 milioni di persone) soffriva la fame. Ma non solo. Sempre in Africa si è verificato l’incremento maggiore dell’insicurezza alimentare, cresciuta di più del 4% in soli due anni tra il 2020 e il 2022.

Considerando i valori assoluti, invece, è l’Asia a raccogliere più della metà della popolazione mondiale in condizione di fame: 402 milioni di persone (l’8,5% degli asiatici, in leggero calo rispetto all’8,8% del 2021).

Basandosi sui dati raccolti nelle diverse aree del mondo, la Fao stima che entro il 2030 la fame nel mondo si ridurrà, ma non si azzererà, dato che coinvolgerà ancora 600 milioni di persone. La maggior parte dei progressi dovrebbe avvenire in Asia con un dimezzamento dei valori, mentre al contrario in Africa si prevede un ulteriore incremento dell’insicurezza alimentare che dovrebbe arrivare a coinvolgere 300 milioni di persone.

Significativa è la decisione degli autori del report di studiare la correlazione tra la sicurezza alimentare – e, nello specifico, l’accesso a una dieta sana – e il fenomeno epocale dell’urbanizzazione. Infatti, se nel 1950 viveva nelle città il 30% della popolazione mondiale, nel 2021 la cifra era salita al 57% e le stime per il 2050 prevedono il 70%. In particolare, Africa subsahariana e Asia meridionale sono le due regioni dove le città stanno crescendo più rapidamente, con tassi tre volte superiori alla media mondiale.

Il report evidenzia come l’espansione delle città – combinata a fattori come l’aumento di reddito e di opportunità lavorative fuori casa, oltre al cambiamento degli stili di vita – stia profondamente influenzando il sistema agroalimentare. Da un lato, si assiste a una modificazione della dieta della popolazione mondiale; dall’altro, la catena produttiva diventa sempre più lunga e complessa.

Cresce la domanda di latticini, carne e pesce, ma anche quella di cibi già pronti, altamente processati, ad alto contenuto energetico ma privi di nutrienti. I sistemi agroalimentari devono quindi produrre e distribuire quantità sempre maggiori di beni. La catena produttiva si allunga, creando una profonda interconnessione tra aree rurali, periurbane e urbane: il sistema agricolo non si basa più sul piccolo mercato locale, ma guarda alle città. Ne deriva una catena sempre più complessa, caratterizzata da una produzione maggiore in termini quantitativi e qualitativi – grazie a migliori input e tecnologie provenienti dalle città – e da forme di processazione e trasporto più efficienti e articolate.

Tendenzialmente, secondo gli autori del report, la relazione tra urbanizzazione e sicurezza alimentare è positiva: man mano che la popolazione si sposta nelle città, si riducono gli indici di fame. Tuttavia, persistono ostacoli all’accesso a una dieta sana, come ad esempio l’inflazione – che negli ultimi anni ha eroso il potere d’acquisto della popolazione mondiale, spingendola verso cibi più economici – e i «deserti alimentari» – aree spesso periferiche dove i prodotti alla base di una dieta sana sono difficilmente reperibili.

Dunque, la strada verso l’eliminazione della fame nel mondo resta ancora lunga e tortuosa.

Aurora Guainazzi




Poveri assoluti: nel mondo uno ogni dodici

 

Una persona ogni 12 nel mondo oggi vive con meno di 2,15 dollari al giorno.

Secondo gli ultimi dati del 2023 raccolti dalla Banca mondiale e resi pubblici nella Poverty and inequality platform sono, infatti, 690 milioni le persone che stentano sotto la soglia della povertà assoluta, l’8,61% della popolazione mondiale.

Un numero enorme che si moltiplica se alziamo anche di poco la soglia: 1,846 miliardi di persone vivono con meno di 3,65 dollari al giorno, il 23% del totale; 3,682 miliardi con meno di 6,85 dollari quotidiani: il 45,9%, quasi una ogni due.

Vale la pena, avendo un po’ di tempo e pazienza, andare a consultare i dati messi a disposizione dalla Banca mondiale.

Si può mettere in relazione, ad esempio, il dato che riguarda la povertà odierna con quello di dieci anni fa o venti o trenta. Nella home page del portale, infatti, un grafico mostra la forte riduzione della povertà nel mondo a partire dal 1990, quando i poveri assoluti, quelli sotto la soglia dei 2,15 dollari, erano 2 miliardi su una popolazione totale di 5,3 miliardi, il 37,7%, uno ogni 2,6 persone.

Si può conoscere, poi, la situazione della povertà e delle diseguaglianze per aree geografiche e per i singoli paesi. In questa prospettiva è interessante notare la riduzione drastica dei poveri negli ultimi 30 anni nell’area del Sud Est asiatico – da 1 miliardo nel ’90 a 26 milioni nel 2020, soprattutto grazie alla diminuzione dei poveri assoluti in Cina, passati da 816 milioni nel 1990 a 1,56 milioni nel 2020 – e, allo stesso tempo, l’aumento del numero di poveri assoluti in Africa subsahariana: da 277,9 milioni nel 1990 a 397 milioni nel 2019 (ultimo dato disponibile).

Altro dato interessante è quello che mostra quanta povertà ha generato la pandemia: i poveri assoluti, infatti, sono aumentati nel 2020 in tutto il mondo.

I dati raccolti dalla Banca mondiale attraverso le agenzie statistiche governative e i dipartimenti nazionali della stessa, per quanto debbano essere letti con una certa cautela (pensiamo ad esempio a quelli riguardanti paesi certo non trasparenti come la Cina) sono utili, tuttavia, per misurare i progressi compiuti verso l’obiettivo dell’eliminazione totale della povertà assoluta formulato dall’Onu nell’Agenda 2030.

Di certo la lotta alla povertà globale nei decenni sta portando a risultati positivi. È altrettanto certo che la strada da fare è ancora molto, troppo lunga.

Luca Lorusso