La nuova data del primo turno delle elezioni presidenziali in Senegal è stata fissata per il 2 giugno, anche se si aspetta la firma del decreto da parte del presidente Macky Sall. Dopo il Ramadan (10 marzo – 8 aprile), e prima della stagione delle piogge. Ma il mandato del presidente scade il 2 aprile, per cui occorrerà un periodo di interim.
Il presidente aveva rimandato sine die le elezioni previste per il 25 febbraio, ma il Consiglio costituzionale aveva invalidato il decreto. Fatto sta che le elezioni non si sono tenute, per ora. La gente, però, è scesa in piazza per reclamarle.
Il Senegal è uno dei pochi paesi saheliani che aveva ancora mantenuto una certa stabilità e un approccio democratico, ma gli ultimi segnali non sono rassicuranti (ne avevamo parlato qui).
Il tentativo di Sall di modificare la Costituzione per potersi candidare per la terza volta consecutiva, è fallito a causa delle proteste di piazza.
Così il presidente ha cercato di escludere dalla competizione gli oppositori più validi, tra tutto Ousmane Sonko, attualmente in prigione con una condanna a due anni, e di mandare avanti il suo candidato Amadou Ba, l’attuale premier.
Intanto la società civile, con il coordinamento Aar sunu élection (Proteggiamo le nostre elezioni), ha indetto una giornata di sciopero generale mercoledì 28 febbraio, per fare pressioni affinché la consultazione elettorale non sia ulteriormente rimandata.
Nel frattempo, il presidente Macky Sall ha realizzato quello che ha chiamato «Dialoghi nazionali», un incontro con le parti, ovvero società civile, partiti politici, leader religiosi, sindacati e patronato (ma molte organizzazioni e candidati già validati non hanno partecipato), per la ridefinizione del processo elettorale. All’apertura dei lavori, il 27 febbraio, Sall ha annunciato un progetto di legge di amnistia per tutti i fatti accaduti durante le manifestazioni a fini politici tra il 2021 e 2024. Questo potrebbe rimettere in campo Sonko e altri candidati esclusi. Anche Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade (2000-2012), escluso dalle liste, potrebbe essere ripescato.
Inoltre, quindici dei diciannove candidati validi, hanno depositato un ricorso al Consiglio costituzionale chiedendo che le elezioni si tengano prima del 2 aprile.
Marco Bello
Sahel: golpisti contro tutti, ma amici dei russi
Firmato un accordo di alleanza militare tra Mali, Burkina Faso e Niger. Ad alcuni incontri, presenti anche funzionari del ministero della Difesa della Russia.
Il 16 settembre scorso i militari golpisti a capo delle giunte in Burkina Faso, Mali e Niger, hanno firmato a Bamako (Mali) un documento chiamato «Carta del Liptako-Gourma per una nuova alleanza degli stati del Sahel» (dal nome geografico della regione). Il burkinabè Ibrahim Traoré, il maliano Assimi Goita e il nigerino Abdourahmane Tiani hanno così creato una nuova alleanza regionale (Aes, sigla in francese), con «l’obbiettivo di stabilire un’architettura di difesa collettiva e di mutua assistenza a beneficio delle nostre popolazioni», ha scritto in un tweet il presidente di transizione del Mali, ospite dell’evento.
Il giorno precedente, secondo la Radio televisione del Niger (Rtn), a Bamako, si eratenuta una riunione tra i ministri della Difesa di Mali e Niger, alla quale avrebbero partecipatofunzionari del ministro della Difesa della Russia, forse come consulenti. Le delegazioni avrebbero poi incontrato il presidente di transizione Assimi Goita. L’Rtn ha mostrato le immagini della riunione, a cui hanno partecipato anche uomini europei in civile e in divisa militare, e non erano certo francesi.
L’accordo Liptako-Gourma tra i tre paesi saheliani era nell’aria ed era stato anticipato dalla firma, a Niamey, Niger, di un documento tripartito, il 24 agosto scorso.
Sulla carta si parla di mutuo aiuto militare nella lotta ai terroristi, ma anche in caso di ribellioni interne (ad esempioin Mali sta rinascendo la ribellione dei popoli dell’Azawad, nel Nord) e di qualsiasi minaccia all’integrità territoriale di uno dei tre paesi. Si pensi, in questo caso, all’ultimatum della Cedeao, la Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest, nei confronti del Niger, con minaccia di intervento militare se non viene ristabilito l’ordine costituzionale dopo il golpe del 26 luglio.
Di fatto, i golpisti di Mali, Burkina Faso e Niger si uniscono in un’alleanza militare con un patto di ferro.
In Mali è già presente il gruppo Wagner da alcuni anni: ha sostituito i francesi dell’operazione Barkhane, e compiuto massacri di civili. In Burkina Faso sta entrando. In Niger, invece, sono presenti basi militari di Francia (circa 1.500 uomini), Stati Uniti (1.500), Germania e Italia (circa 300 effettivi), ma a questo punto, pare chiaro che anche l’idea della giunta Tiani sia di andare verso la Russia.
Il 19 settembre l’Assemblea legislativa di transizione (71 membri) del Burkina Faso ha ratificato l’invio di un contingente militare in Niger, in appoggio delle forze militari di quel Paese. C’è da chiedersi cosa faranno, visto che in patria non riescono a garantire la sicurezza della popolazione dagli attacchi terroristici.
Si tratta, tuttavia, di un via libera politico, nell’eventualità di un’improbabile attacco di truppe dei paesi vicini sotto l’egida della Cedeao.
Intanto, il 24 settembre, il presidente Emmanuel Macron ha annunciatoil ritiro del contingente francese dal Niger da qui a dicembre, viste le pressioni della giunta. Cosa faranno statunitensi, tedeschi e italiani? I primi hanno ripreso le loro attività da giorni, come nulla fosse.
Africa dell’Ovest. Salvatori della patria?
La crisi sociale si fa sentire in Africa dell’Ovest. E il malcontento della popolazione verso chi governa aumenta. Così i militari tornano in auge, prendono il potere con la forza. E la gente, per ora, applaude. Sarà il declino della democrazia nell’area?
L’Africa Occidentale non fa molto notizia in questi tempi. Eppure, nei suoi 5,12 milioni di km2 (17 volte l’Italia) abitano circa 400 milioni di persone. Dell’area fanno parte i paesi del Sahel (Senegal, Gambia, Mali, Burkina Faso, Niger), zona climatica semi arida, cerniera tra il Sahara e la fascia più umida, e i paesi della costa (Guinea-Bissau, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria).
Tutti insieme fanno parte della Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (acronimo Cedeao in francese o Ecowas, inglese), che è un accordo economico regionale. Ha pure una parte di cooperazione sulla sicurezza, l’Ecomog (Economic community of West african states monitoring group). L’Ecomog prevede, tra l’altro, in casi specifici, l’invio di forze militari di interposizione nell’area.
Tra la metà del 2020 e il gennaio 2022 si sono verificati quattro colpi di stato in tre paesi della regione. Le giunte militari che hanno preso il potere e avviato transizioni in regime speciale, hanno tutte dichiarato di voler riportare i paesi a elezioni democratiche. Gli stati interessati sono: Mali, Guinea e, per ultimo, Burkina Faso. Tutti e tre sono stati sospesi dalla Cedeao e il primo è stato sottoposto a embargo e sanzioni.
Vista la concomitanza di questi eventi, ci sembra importante fare il punto sui fatti accaduti e sulle loro conseguenze, senza la pretesa di essere esaustivi. Gettiamo uno sguardo sull’area per fare emergere le tendenze comuni dei singoli colpi di stato, e gli elementi di originalità di ciascuno.
Mali
È il 18 agosto 2020 quando un gruppo di militari, comandati dal colonnello Assimi Goïta, mette bruscamente fine alla presidenza di Ibrahim Boubakar Keita, detto Ibk. Anche in Mali il gruppo di potere è stato fortemente contestato e accusato di corruzione, in particolare dopo le legislative di aprile (ne abbiamo parlato in MC novembre 2020). Le manifestazioni di piazza sono state represse dalle forze di sicurezza, che hanno lasciato sul campo morti e feriti. È stato in particolare il Movimento 5 giugno – Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-Rfp), a guidare il dissenso: una convergenza di elementi della società civile e partiti di opposizione.
I militari hanno approfittato di questo slancio popolare per realizzare il colpo, battezzandosi Comitato nazionale di salute del popolo (Cnsp).
È bene ricordare che il Mali, dal 2012, vive una guerra interna contro i movimenti indipendentisti e jihadisti nati nel Nord del paese, anche a causa di influenze straniere dell’islam radicale, e propagatisi nel centro prendendo una rischiosa piega di tipo etnico. Conflitto che vede l’intervento esterno francese nel gennaio 2013, poi affiancato dalla presenza di un contingente di caschi blu dell’Onu (Minsuma), una delle missioni con maggiori perdite tra gli effettivi (cfr MC giugno 2017). Nel 2015 sono stati firmati degli accordi di pace tra il governo e una parte dei gruppi in conflitto.
La giunta, che prende il potere nell’agosto 2020, sotto pressioni della Cedeao e in negoziazione con M5-Rfp, insedia un presidente civile Bah N’Daw (ex militare ed ex ministro in pensione) e un primo ministro civile, Moctar Ouane, per il governo di transizione. Goïta, che rimane l’uomo forte, mantiene la carica di vicepresidente.
Golpe su golpe
Qualcosa si incrina quando, nel maggio 2021, il primo ministro pensa di cambiare i due responsabili dei dicasteri chiave di difesa e sicurezza. La giunta reagisce il 24 maggio, facendo arrestare presidente e primo ministro di transizione e imponendo altri due militari come ministri. Si parla di secondo colpo di stato, questa volta contro le istituzioni di transizione, quindi non democratiche. Di fatto è un ribadire, chi comanda effettivamente nel paese, già in stato di emergenza.
«Sembra che la Francia avesse fatto pressioni sul governo per cambiare questi due ministri e metterne due più favorevoli alla propria politica. I due licenziati avevano studiato in Russia e stavano interagendo per creare una relazione con quel paese. È stata un’operazione un po’ maldestra», ci dice un cooperante che da anni vive nel paese saheliano.
Già da un po’ di tempo Goïta stava percorrendo la pista russa, nell’ottica di avere militari (o miliziani) in grado di realizzare anche lavori «sporchi». La tendenza è quella di sostituire l’appoggio militare dell’ex colonizzatore francese, in un certo senso fallimentare, con quello russo.
Allo stesso tempo già dal 2019, la Francia, per ragioni anche interne, aveva optato per un disimpegno sul terreno (ritiro graduale della missione Barkhane con 5mila uomini e mezzi), promuovendo la creazione della Task force Takuba (estate 2020), una forza a base di militari della Unione europea (tra cui da marzo 2021 un contingente italiano di circa 200 uomini con elicotteri), con compiti di consulenza e assistenza.
Via i colonialisti
Nel paese il sentimento antifrancese, che sempre cova sotto le ceneri, era cresciuto già nel periodo della presidenza Ibk, accusato di essere troppo sottoposto agli interessi transalpini. Il potere golpista ha poi iniziato un’operazione di propaganda, puntando sull’identità maliana, per spingere questa dinamica di intervento dei russi.
Secondo fonti di Radio France internationale (Rfi), nel gennaio di quest’anno, uomini del gruppo Wagner avrebbero già preso possesso della base militare di Tombuctu, lasciata dai militari francesi, anche se il governo maliano continua a negare. Wagner è una milizia di mercenari russi, vicina al Cremlino, della quale si è parlato per la prima volta a livello internazionale nel 2014, per il suo appoggio ai separatisti del Donbass, in Ucraina. Il gruppo Wagner, in Africa, è già presente in Repubblica Centrafricana (cfr Mc maggio 2021), Nord del Mozambico, Libia e, pare, in Sudan (torneremo prossimamente su Wagner con un approfondimento).
La tensione tra le autorità di Bamako e quelle di Parigi aumenta. Il 31 gennaio di quest’anno l’ambasciatore di Francia viene espulso dal paese. Stessa sorte era toccata al contingente danese della Takuba.
Il ritiro di Barkhane e della Takuba viene deciso. Parte dei militari vengono ricollocati in Niger, lungo la frontiera con il Mali, dopo l’accordo con il presidente nigerino Mohamed Bazoum, avvenuto a metà febbraio di quest’anno.
«Sono stati visti militari bianchi, con la divisa russa. Ufficialmente non ci sarebbero, ma qualcuno di loro, ferito, è già stato curato in ospedale. Non è chiaro il loro dislocamento. Quello che si sa per certo, è che da gennaio è ripresa un’offensiva importante contro i jihadisti, e ci sono state più vittime civili in quel mese che in tutto il 2021», dice la nostra fonte.
A metà marzo Human rights watch e Rfi riportano esecuzioni sommarie di civili a opera dei militari della Fama (Forze armate maliane). Anche Michelle Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’Onu, fa una dichiarazione di denuncia l’8 marzo.
La reazione del governo di transizione è durissima: le trasmissioni in Mali di Rfi e della televisione France24 (entrambe dello stato francese) vengono sospese. In un comunicato ufficiale del governo, Rfi viene paragonata alla famigerata Radio mille colline, che nel Rwanda del 1994 incitava al genocidio.
«In questo momento, in generale, la popolazione maliana sembra favorevole ai golpisti. Forse perché occorreva dare un taglio alla dipendenza dalla Francia.
Una parte della popolazione non condivide il golpe, ma solo perché getta discredito sul paese a livello internazionale. Ma se aumentano gli attacchi militari e quindi le vittime civili, bisogna vedere se questo consenso terrà», ci dice ancora il nostro interlocutore da Bamako.
Intanto la giunta, il 21 febbraio, fa approvare la Carta di transizione, che prevede una durata del regime fino al 2027.
Repubblica di Guinea
Alpha Condé, oppositore storico, vince finalmente le elezioni nel 2010 e diventa presidente della Repubblica. Si ripete cinque anni più tardi, confermandosi per un secondo mandato. La Costituzione non ne prevede di ulteriori, ma lui indice un referendum costituzionale nel maggio 2020, che la modifica per potersi ricandidare. I partiti di opposizione, e in generale, la società civile, non sono contenti di questa forzatura (peraltro comune a diversi capi di stato africani), e il malcontento sfocia in manifestazioni di piazza che vengono violentemente represse. Condé si fa così eleggere per un terzo mandato, nell’ottobre 2020.
I problemi crescono con l’aumento dei prezzi dei beni essenziali. La goccia è l’aumento del carburante, il 3 agosto del 2021, da 9mila a 11mila franchi guineani al litro. La gente scende in piazza.
«La popolazione soffriva perché i prezzi stavano aumentando, ma allo stesso tempo i ministri e politici al governo si costruivano dei “castelli” (delle grandi case, ndr) in modo molto evidente», ci racconta Djéneba, una sociologa guineana che lavora per una Ong internazionale.
Il 5 settembre 2021 un gruppo di militari, guidati dal tenente colonnello Mamadi Doumbouya, arresta il presidente Condé e prende il potere. La giunta si fa chiamare Comitato nazionale per la riconciliazione e lo sviluppo (Cnrd, sigla in francese). Il primo ottobre Doumbouya si autoproclama presidente. La gestione è opaca e a tutt’oggi non è chiaro chi siano esattamente i componenti del Cnrd.
«La gente diceva: “I ladri sono partiti”. La giunta al potere ha subito abbassato il prezzo del carburante, portandolo a 10mila franchi. La popolazione comprende solo la questione dei prezzi dei beni di prima necessità. Il presidente ha poi incontrato i grandi operatori economici per cercare di tenere a freno l’aumento dei prezzi. Ma è complicato, perché dipendono anche dall’estero», continua la nostra interlocutrice, raggiunta telefonicamente. Così a inizio marzo i prezzi riprendono a salire, mentre la giunta cerca di calmierare almeno quelli dei prodotti nazionali.
Viene nominato un governo di transizione, un parlamento di transizione, e redatta una Carta di transizione, che dovrebbe regolamentare questi organi, le relazioni tra gli stessi e la durata.
Quest’ultima in particolare, dettaglio molto delicato, dovrebbe essere determinata da una concertazione tra il Cnrd e le «forze vive della nazione». Una coalizione di 58 partiti politici denuncia, invece, una «visione unilaterale del Cnrd», e il tentativo di tenere la politica lontana dalla transizione.
Una speranza
La gente comune, invece, ha ancora una certa speranza: «Sì, perché vediamo trasparenza e la maturità con le quali stanno gestendo il paese».
Anche i responsabili religiosi appoggiano la transizione. L’arcivescovo di Conakry, Vincent Koulibaly, durante la messa dello scorso Natale, ha detto: «Per servire il nostro paese, occorre amare la verità. Se noi amiamo la Guinea, niente ci impedirà di attaccare su tutti i fronti i mali che frenano il suo sviluppo. È in questo senso che gli sforzi del Cnrd e del suo governo sono orientati in questo momento. Meritano di essere sostenuti da tutti i guineani, non solo nei discorsi, ma anche nelle azioni» (africaguinee.com).
Intanto il Cnrd organizza gli incontri delle Assises nationales, per dare corpo al cosiddetto «dialogo nazionale». A oggi si attende di sapere ufficialmente quanto durerà la transizione, mentre voci parlano di 36 mesi.
Burkina Faso
Il «paese degli uomini integri» aveva vissuto un’insurrezione popolare terminata con la cacciata del presidente Blaise Compaoré, al potere da 27 anni, nell’ottobre 2014. Si era poi rivoltato contro un tentativo di colpo di stato del suo fidato generale Gilbert Dienderé un anno dopo, il 15 settembre.
Ma dopo le elezioni e l’arrivo al potere di Roch Marc Christian Kaboré (cfr MC dicembre 2018 e gennaio 2019) il Burkina Faso aveva visto un peggioramento della situazione di sicurezza interna con l’arrivo sul suo territorio di gruppi islamisti radicali e la nascita di altri gruppi autoctoni, che oggi controllano porzioni del territorio. Così quando il 24 gennaio di quest’anno, un commando militare depone il presidente, al suo secondo mandato iniziato a gennaio 2021, e prende il potere, la popolazione non insorge, anzi scende in strada a gridare il suo sostegno.
Vengono rapidamente convocate delle assise nazionali, delle quali fanno parte diversi settori della società burkinabè (partiti, sindacati, società civile, giovani), inclusi i rappresentanti degli sfollati interni, per approvare gli organi di transizione e la durata.
Presto fatto, il presidente di transizione è il capo della giunta (Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione), il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba. Viene poi designato un primo ministro di transizione, Albert Ouderaogo, che formerà il suo governo il 6 marzo, e un’assemblea legislativa di transizione di 75 membri. La transizione è prevista di una durata di 36 mesi. Gli obiettivi principali dell’esecutivo sono la lotta al terrorismo per riportare la sicurezza nel paese, e il rinforzo della governance tramite la lotta alla corruzione.
Il sociologo ex ministro
Chiediamo il parere sulla situazione ad Antoine Raogo Sawadogo, sociologo, già ministro dell’Amministrazione territoriale e sicurezza, padre del decentramento amministrativo in Burkina, e fondatore del Laboratoire Citoyenneté (laboratorio di cittadinanza attiva), che raggiungiamo telefonicamente.
«Viviamo oggi una grave crisi della sicurezza, che sottende diverse altre crisi. La crisi alimentare, perché i contadini cacciati dai loro territori a causa degli attacchi jihadisti, non hanno potuto coltivare. Inoltre la stagione delle piogge è stata scarsa, per cui abbiamo un grosso deficit alimentare. Una crisi della casa, in quanto gli sfollati, che sono oggi circa 1,5 milioni (su una popolazione di 21 milioni, nda), sono andati a ingrossare le città, che non erano preparate ad assorbirli. Una crisi sanitaria, perché le stesse città non hanno servizi di base sufficienti per tutte queste persone, per cui osserviamo una recrudescenza delle malattie veicolate dall’acqua o causate dalla malnutrizione. Poi c’è la crisi scolastica perché abbiamo circa 4mila scuole chiuse o distrutte a causa degli attacchi terroristici, e i bambini sono lasciati all’abbandono.
Tutto questo fa sì che la situazione in Burkina sia deleteria. E purtroppo la crisi della sicurezza continua o, addirittura, è peggiorata, dopo il colpo di stato che avrebbe dovuto fermarla».
E continua, con voce grave: «Il golpe non è che la conclusione di una serie di malfunzionamenti, quelli riguardanti la sicurezza, ma anche la governance del paese. La popolazione aveva l’impressione che nessun organo dello stato fosse in piedi per servirla, ma piuttosto, che quelli che erano responsabili di dirigere il paese fossero lì per servire se stessi».
L’ex ministro cita il caso delle miniere d’oro, metallo del quale il paese è diventato grande produttore nell’ultimo decennio. Sembra infatti che la metà dell’oro estratto sparisca a causa dell’opacità delle aziende di estrazione. «Se lo stato non spiega ai cittadini cosa succede, l’opinione pubblica vive di voci. C’era un grande problema di dialogo tra i cittadini e coloro che devono rappresentarli. Inoltre, l’Assemblea nazionale (il parlamento) non svolgeva il suo ruolo di controllo sui governanti tramite le interpellanze sulle questioni fondamentali».
E conferma: «Quindi il colpo di stato è venuto a dare un punto finale, a fermare tutto questo, e ha dato speranza alla popolazione».
Ma oggi la delusione e la disperazione sono già palpabili, perché la situazione, invece di migliorare, è ancora peggiorata.
Chiediamo a Raogo cosa pensa la gente di una transizione – annunciata da parte dei golpisti – di 36 mesi. «Penso che la durata della transizione non sia una preoccupazione della popolazione. La preoccupazione sono le crisi che abbiamo elencato. Alla gente oggi non importa di essere governati da un regime democratico o da un regime di emergenza, non è questo il problema. D’altronde non sono stati serviti bene durante il lungo periodo democratico. La democrazia all’occidentale è un problema di secondo ordine, adesso la questione è la sopravvivenza».
Ovviamente ci sono settori che non sono contenti: «I partiti politici non sono d’accordo, ma cosa hanno ancora da dire? Non hanno portato il benessere della popolazione. Così come certe associazioni, penso a Le Balai citoyens, che hanno cavalcato l’insurrezione del 2014, e i cui membri hanno poi preso soldi dall’estero. Alcuni sono entrati in politica ma sono allo stesso livello degli altri. Tutti loro sono inascoltabili oggi».
La Cedeao, dopo aver sospeso Mali e Guinea a causa dei rispettivi colpi di stato, ha sospeso a fine gennaio anche il Burkina Faso: «La Cedeao non ha più credito agli occhi di nessuno. Da quando siamo in crisi non ha spedito un solo sacco di viveri, né medicine. Solo parole. Nessuno ha più orecchie per ascoltarli».
Democrazia a rischio?
«La dinamica in generale dei colpi di stato nell’area è inquietante. Iniziano a esserci situazioni stabili di regimi non democratici», ci ha detto il cooperante italiano a Bamako.
Abbiamo chiesto a Enrico Casale, giornalista esperto di Africa e collaboratore di MC, cosa hanno in comune questi eventi. «Da un lato vediamo una grande fragilità delle istituzioni di questi paesi, che faticano a intraprendere la strada per la democrazia. Dall’altro ci sono delle minacce esterne, come l’integralismo islamico che porta a tensioni fortissime dal punto di vista militare (specie per Mali e Burkina), e poi la malavita. Questa ha un peso dalla Guinea fino al Nord Africa per traffici di droga, sigarette, migranti. Va notato che entrambi questi fenomeni si alimentano con il malcontento stesso.
Quest’area sta poi vivendo un forte cambiamento climatico che causa tensioni tra pastori e agricoltori».
E quindi: «Tutto ciò porta a instabilità, in paesi con istituzioni fragili la reazione sono spesso colpi di stato che forniscono soluzioni solo temporanee perché non risolvono nulla o molto poco».
E continua: «Poi c’è un altro elemento, che è l’insofferenza nei confronti della Francia, ex paese colonialista. Questi paesi ne stanno prendendo le distanze, e si buttano tra le braccia di altri attori, come Russia e Cina. E la Francia stessa si sta ritirando».
Abbiamo visto come, nei tre casi esaminati, la popolazione abbia acclamato i colpi di stato.
«Questo perché la fragilità istituzionale si è tradotta in mancanza di sicurezza e incapacità di dare soluzioni ai problemi epocali di questi paesi. Di fronte a una democrazia fragile, la gente preferisce un governo forte. Ma questo è molto rischioso per la tenuta democratica di tutta l’area. Anche a causa delle nuove alleanze, perché Cina e Russia, che hanno i loro interessi, non hanno nessuna attenzione per la democrazia in questi paesi. Quindi queste giunte militari rischiano di durare a lungo».
Casale allarga il discorso al continente: «Più in generale, in Africa, fino a tutti gli anni 2000 eravamo abituati a uno schema semplice, in cui si manteneva una struttura di influenza postcoloniale. Adesso ci sono tanti nuovi protagonisti, quelli citati, ma anche India, Turchia, Vietnam e la struttura delle influenze si è notevolmente complicata».
Marco Bello
Processo Sankara
Il 6 aprile scorso, nell’ambito del processo per l’assassinio di Thomas Sankara e 12 suoi collaboratori (15 ottobre 1987), sono stati condannati all’ergastolo l’ex presidente Blaise Compaoré, il suo addetto alla sicurezza Hyacinthe Kafando (entrambi in contumacia) e il generale Gilbert Diendéré.