Casa comune, problemi comuni

Testo di Chiara Giovetti | foto di padre Andrés Fernández da Bayenga RD Congo


Nel mondo i popoli indigeni contano circa 370 milioni di persone: il 5% della popolazione mondiale ma il 15% dei poveri del pianeta. Quanto ai migranti, sono circa 300 milioni e uno su dieci è un rifugiato o richiedente asilo.

L’equazione è piuttosto semplice: i popoli indigeni proteggono con la loro stessa presenza l’ambiente naturale in cui vivono, a cominciare dalla foresta. Se i popoli indigeni scompaiono, anche le foreste scompaiono e i disastri ambientali aumentano. Su tutto il pianeta. Anche nel cortile di casa nostra. Quindi, a ben guardare, casa nostra è tutto il mondo.

Questo breve ragionamento è probabilmente la risposta più lineare alla domanda: «Perché mai dovrebbe interessarmi l’Amazzonia?», quesito che ha fatto da sottofondo a tutto il Sinodo dei vescovi per la regione Panamazzonica, celebrato lo scorso ottobre a Roma. Non è difficile trovare esempi di questo ruolo di custodi che i popoli indigeni hanno nei confronti dell’ambiente nel quale vivono: la nostra rivista ne ha illustrati diversi in un dossier dell’agosto 2017 che riportava analisi di Survival International. Da quelle analisi emergeva chiaramente che i popoli indigeni – non solo quelli dell’Amazzonia, ma anche quelli del resto delle Americhe, dell’Africa e dell’Asia – «sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni» e che la loro presenza incrementa la biodiversità, controlla gli incendi e il bracconaggio, ferma la deforestazione e lo sfruttamento eccessivo. Il loro sostentamento, viceversa, deriva da attività come la caccia svolte in modo del tutto non dannoso per l’ambiente@.

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Un’emergenza silenziosa

Difficile è piuttosto far capire l’urgenza di proteggere questi gruppi umani e i biomi in cui vivono. Perché l’ipotesi che i popoli indigeni scompaiano appare lontana a chi, specialmente da questo lato del mondo, non è addentro alle questioni ambientali o a quelle della solidarietà internazionale.

Eppure il rapporto 2018 del Consiglio indigenista missionario (Cimi)@, ente legato alla Conferenza episcopale brasiliana, racconta una storia che ha tutti i caratteri dell’urgenza. Presentato dal Cimi l’11 ottobre presso la casa generalizia dei missionari della Consolata a Roma, il documento sottolinea che nel 2018 in Brasile i casi di invasioni a scopo di accaparramento delle terre indigene, esplorazione illegale delle risorse naturali e danni vari al patrimonio sono stati 109: 13 in più dell’anno precedente. Ancora più preoccupante è il fatto che i dati preliminari del 2019 – cioè quelli relativi ai primi nove mesi – riportano 160 casi, testimoniando per il triennio una tendenza al rialzo.

Il rapporto raccoglie e racconta con grande precisione i singoli episodi. Vediamone uno, relativo al popolo indigeno dei Waimiri Atroari di Roraima, a titolo esemplificativo: «La deforestazione nella terra indigena ha raggiunto i 1.372 ettari. In un’area che ospita diverse specie di fauna e flora ancora sconosciute, sono stati sequestrati 7.387 tronchi, volume sufficiente per caricare un migliaio di camion […]. Dopo 37 giorni dal sequestro, il Fronte di protezione etno-ambientale dei Waimiri Atroari della Funai (ente pubblico che si occupa della protezione degli indigeni) ha riferito che i tronchi venivano rubati dentro la sede della polizia federale. È stata aperta un’inchiesta per indagare sul caso».

Il rapporto segnala anche diverse situazioni che contraddicono l’affermazione di grandi agricoltori e politici «complici» secondo la quale c’è «troppa terra per troppi pochi indigeni». Al contrario, si legge nel rapporto, nello stato del Mato Grosso do Sul, per fare solo un esempio, «ciò che è troppo è il numero di aree degradate», cioè aree le cui caratteristiche sono state modificate oltre il limite del naturale recupero del suolo.

Nel 2019, prosegue il rapporto, il numero di pascoli degradati raggiunge i 14 milioni di ettari (pari alla superficie di tutte le regioni del Nord Italia più la Toscana) su un totale di 28 milioni esistenti. Nel frattempo, migliaia di indigeni vivono in una situazione di isolamento e, nella riserva indigena di Dourados, circa 13mila indigeni abitano su meno di 3.500 ettari: per numero di abitanti la riserva si colloca più in alto nella lista rispetto a 32 città dello stato. A detta di diversi esperti, questa situazione è la causa principale degli alti tassi di suicidio tra gli indigeni Guaraní e Kaiowá. Secondo il distretto sanitario indigeno locale, negli ultimi 13 anni circa 611 indigeni di questa popolazione si sono suicidati: 1 ogni 7,7 giorni.

Alfabetizzazione di bambini pigmei

Non solo Amazzonia

Ma non è solo l’area amazzonica a destare preoccupazione. Nella Rift Valley del Kenya è in atto l’ennesimo braccio di ferro per l’occupazione di intere aree della Mau Forest. Non si tratta di una foresta qualsiasi: è un complesso di 400 mila ettari che custodisce la più grande delle cinque maggiori riserve idriche del Kenya, per questo ribattezzate water towers (serbatoi d’acqua). È la fonte di 12 corsi d’acqua che sfociano in tre laghi, fra cui il Lago Vittoria, e si calcola che circa 10 milioni di persone dipendano da questo complesso idrogeologico. Human Rights Watch segnalava lo scorso settembre@ che nel 2018 il governo del Kenya nel tentativo, anche lodevole, di preservare la Mau Forest ha effettuato sfratti forzati, violenti e senza compensazione di chiunque avesse occupato il territorio della foresta. Inclusi gli Ogiek, popolo indigeno locale che ha nella foresta il proprio territorio ancestrale, nel quale ha sempre vissuto sostenendosi grazie alla caccia e all’apicoltura. I tentavi di rimuovere gli Ogiek dalla foresta si sono succeduti sin dall’epoca coloniale, precisa Survival International@, con il pretesto che la loro presenza degrada la foresta. In realtà succede esattamente il contrario: «Quando gli Ogiek vengono rimossi, la loro foresta non viene protetta ma piuttosto sfruttata dal disboscamento e dalle piantagioni di tè, alcune di proprietà di funzionari governativi».

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Via da casa, per non morire

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

A volte, anche la decisione di restare nella propria terra è un suicidio. È il caso degli indigeni Warao che, insieme ad altri connazionali venezuelani, hanno abbandonato le loro case e stanno emigrando in massa verso Colombia, Perù, Brasile e altri paesi latino americani. Secondo la Bbc@, che cita dati dell’Organizzazione internazionale per migrazioni (Iom) e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) lo scorso giugno le persone che avevano lasciato il Venezuela avevano raggiunto i 4 milioni, facendo di quella venezuelana la seconda crisi a livello mondiale dopo la Siria, che ha visto quasi 6 milioni di sfollati@.

Secondo l’Acnur, ad oggi sono quasi 71 milioni le persone sul pianeta che sono state costrette a lasciare il luogo dove vivevano a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o violazioni dei diritti umani. Di questi, quasi 26 milioni sono rifugiati, 41 milioni sono sfollati interni e 3 milioni e mezzo sono richiedenti asilo, cioè sono in attesa di una decisione sulla loro richiesta di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato o un’altra forma di protezione internazionale. Nel 2018 ci sono stati 37mila di questi spostamenti forzati ogni giorno, uno ogni 2 secondi.

In 4 casi su 5 i rifugiati vivono in paesi confinanti; a ospitare più rifugiati è stata per il quinto anno consecutivo la Turchia, con 3,7 milioni di persone accolte. Seguono il Pakistan (1,4 milioni), l’Uganda (1,2 milioni), il Sudan e la Germania (entrambi 1,1 milioni di rifugiati ospitati).

Chiara Giovetti

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei


Il nostro lavoro per le terre ancestrali e i popoli che le abitano

IN RD CONGO

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Da decenni lavoriamo con i pigmei bambuti, tradizionali custodi della foresta pluviale dell’Ituri, nel Nord Est paese.

Minacciati da Mobutu Sese Seko, che già negli anni Ottanta li forzò a lasciare la foresta e a sedentarizzarsi, emarginati dalla maggioranza bantu che li considera esseri subumani, oggi vedono la loro foresta e se stessi minacciati anche dalle attività estrattive condotte da grandi imprese e da minatori artigianali.

Il nostro lavoro con loro consiste nel proteggerne la cultura e lo stile di vita e, al tempo stesso, di sostenere il loro tentativo di relazionarsi con gli altri popoli, ad esempio attraverso l’istruzione, e di garantire loro l’assistenza sanitaria essenziale.

(vedi Marco Bello, Sempre nomadi, ma fino a quando, MC 10/2019 e anche Chiara Giovetti, Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile, MC 6/2017)

NELL’AMAZZONIA

Visita al rifugio dei Warao in Pacaraima (Roraima – Brasile

Il nostro impegno per i popoli indigeni e la salvaguardia delle terre ancestrali giunge anche all’Amazzonia, sia quella brasiliana che quella colombiana ed ecuadoregna.

Nell’Amazzonia del Brasile sosteniamo la lotta per i diritti del popolo yanomami insediati nella foresta attorno al rio Catrimani e quelli dei popoli (Macuxi, Wapichana, Taurepang e altri) della terra indigena Raposa Serra do Sol nello stato di Roraima.

In Colombia siamo attivi nel Caquetá, dove, con i gruppi di giovani delle nostre parrocchie e delle scuole secondarie, sosteniamo le iniziative locali di formazione alla cura dell’ambiente sia nei quartieri dei centri abitati della zona che nelle zone del fiume vicine a questi centri, e progetti alternativi alla produzione della coca.

Aiutaci a coprire i costi per l’iscrizione di un bambino pigmeo alla scuola primaria nella foresta del Congo o a realizzare corsi di formazione e iniziative di salvaguardia dell’ambiente in Amazzonia.


Il nostro lavoro accanto ai migranti e ai warao

Dal maggio 2018 un’équipe itinerante dei missionari della Consolata è attiva a Boa Vista (Brasile)  nell’accoglienza dei rifugiati venezuelani, in particolare del popolo warao.

Boa Vista sta affrontando un’emergenza senza precedenti: quella di assistere migliaia di migranti e richiedenti asilo venezuelani, 40mila secondo le fonti ufficiali e oltre il doppio secondo conteggi informali. Per ora sono disponibili solo 13 centri di accoglienza che ospitano 6.500 persone, mentre tutti gli altri vivono in 16 occupazioni se non addirittura per strada.

Gli sforzi dei missionari della Consolata si concentrano sulle persone più vulnerabili che vivono nello spazio di Ka Ubanoko, un complesso sportivo abbandonato occupato la scorsa estate. Lì vivono circa 650 venezuelani, la maggior parte Warao, alcuni indigeni E’ñepa e oltre un centinaio di persone che non hanno avuto la possibilità di essere assistiti da un centro di accoglienza e vivevano all’ombra degli anacardi nel quartiere di Pintolândia.

Fra questi rifugiati i bambini sono circa 250 e i missionari cercano di fornire loro cibo e un minimo di istruzione, visto che nella loro condizione frequentare la scuola è impossibile.

Aiutaci a coprire i costi per l’istruzione dei bambini venezuelani rifugiati.


Natale di solidarietà 2019

UNA CASA PER TUTTTI

Per aiutare tramite MC
vai al sito della Onlus

oppure vai alla nostra pagina «aiutaci-donazioni»




Tutti «a casa loro», ma quale casa?


Circa un miliardo di persone sul pianeta vive in una baraccopoli, 100 milioni sono senzatetto e altrettanti sono i bambini e ragazzi di strada. Dal 2008 a oggi una media di 24 milioni di persone all’anno ha perso la propria casa per inondazioni, tempeste, terremoti o siccità.

«Come ci si sente / ad essere senza una casa / un completo sconosciuto / proprio come un vagabondo (o, alla lettera, una pietra che rotola)». Così Bob Dylan cantava nel 1965, raccontando nei versi della sua celeberrima@ Like a Rolling Stone, la triste storia di una giovane donna nata ricca e finita poi a vivere per strada, dopo essersi lasciata illudere, sfruttare e infine abbandonare da un mondo luccicante ma spietato.

L’ultima volta in cui si tentò di quantificare le persone sul pianeta che non avevano una casa era il 2005@: le Nazioni Unite stimarono che i senzatetto veri e propri fossero circa cento milioni, mentre un miliardo di persone mancavano di un alloggio adeguato. Studi più recenti fotograferebbero una situazione nettamente peggiorata: le persone senza una casa degna di questo nome sono stimate oggi in 1,6 miliardi.

Altre indagini si concentrano sui luoghi simbolo dell’emergenza abitativa, le baraccopoli: secondo il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, Un Habitat, nel 2014 erano oltre 880 milioni di esseri umani a vivere in una baraccopoli.

È difficile contare in maniera oggettiva queste persone: ad esempio, ricorda l’Onu in un documento con principi e raccomandazioni per i censimenti@, «la definizione di senzatetto può variare da paese a paese, si tratta essenzialmente di una definizione culturale basata su concetti come alloggio adeguato, standard abitativo minimo della comunità o certezza del diritto fondiario».

Per farsi un’idea più immediata è forse più utile citare alcuni esempi: secondo il sito Homeless World Cup Foundation, in Nigeria ci sono 24,4 milioni di senzatetto; nella sola città di Manila, capitale delle Filippine, se ne contano circa tre milioni. La Germania ha fra i 335mila e i 420mila senzatetto, che salgono a 860 mila se si includono i rifugiati, la Francia ne conta 141mila e l’Italia 50.724@.

I bambini e ragazzi di strada sono un’ulteriore declinazione del fenomeno. Nel 2003 Unicef riportava stime secondo cui erano 100 milioni le ragazze e i ragazzi che non avevano raggiunto l’età adulta, privi di protezione o guida da parte di responsabili adulti e per i quali «la strada (nel senso più ampio della parola, comprese le abitazioni o i terreni abbandonati, ecc.) è diventata dimora abituale e/o fonte di sostentamento» (definizione ufficiale Unicef)@.

Come si finisce in strada o in una baraccopoli?

I motivi per cui ci si trova senza casa o in un contesto abitativo degradato sono diversi. Le Nazioni Unite citano fra questi la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, speculazioni su case e terreni a fini di investimento, privatizzazione dei servizi pubblici, ad esempio il trasporto, conflitti etnici e armati e una rapida quanto mal programmata urbanizzazione. Questi elementi poi si sovrappongono e incrociano con altri, come la perdita del lavoro, l’abuso di alcol, l’uso di droga, le malattie mentali.

A complicare notevolmente le cose vi sono poi le prospettive per il trentennio che abbiamo davanti: secondo le proiezioni Onu, nel 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, contro il 55% odierno pari a 4,2 miliardi di persone. Questo significa che «il graduale spostamento della popolazione umana dalle aree rurali a quelle urbane, combinato con la crescita complessiva della popolazione mondiale potrebbe aggiungere altri 2,5 miliardi di persone alle aree urbane entro il 2050, con circa il 90% di questo aumento concentrato in Asia e Africa»@.

Uno dei falsi miti sugli slum (inglese per baraccopoli) è l’idea che non sia possibile prevedere quanto cresceranno, spiegava al The Guardian@ nel 2016 William Cobbett, della rete globale per lo sviluppo sostenibile delle città, Cities Alliance, e la cosa è affrontata in modo inadeguato specialmente in Africa. «Si pensa che le popolazioni degli slum stiano crescendo principalmente a causa della migrazione urbana. Non è così. In tutto il continente, il grosso dell’aumento di abitanti delle baraccopoli deriva dalla crescita naturale della popolazione». Le proiezioni Onu sul secolo 1950-2050, continua Cobbett, dicono che la popolazione dell’Uganda in un secolo aumenterà di venti volte, la Tanzania di 18 e la Nigeria di 10,5.

Un secondo mito è quello che gli abitanti di una baraccopoli, se potessero, sceglierebbero sempre di vivere in un alloggio «vero». In questo caso la risposta è ni: dipende da quanto bene le autorità competenti pianificano la ricollocazione delle persone. Anche nelle situazioni di degrado più grave spesso si formano delle reti sociali che forniscono servizi informali di solidarietà come il guardarsi a vicenda casa e bambini mentre si è al lavoro. Ricollocare le persone significa strappare queste reti e rendere più difficile la vita sia di chi viene spostato sia di chi resta. Un caso citato dal The  Guardian è quello della baraccopoli di Kibera, a Nairobi: molti abitanti dello slum, inizialmente entusiasti dell’opportunità di trasferirsi in un complesso di appartamenti chiamato The Promised Land, hanno finito per lasciare le nuove sistemazioni perché vi erano disservizi idrici, mentre altri hanno fiutato l’affare decidendo di dare le loro nuove case – in cambio di un affitto molto più alto rispetto a quello agevolato richiesto a loro – ai keniani della classe media. Anche chi era rimasto a Promised Land continuava comunque a fare la spesa nella baraccopoli, perché lì il cibo costava meno.

Perdere la casa per gli eventi naturali

C’è un ulteriore modo per rimanere senza casa: che un ciclone se la porti via. È successo quest’anno in Mozambico, quando il ciclone Idai – seguito dal ciclone Kenneth – ha rovesciato in poche ore la pioggia che di solito cade in mesi. Il ciclone e le successive inondazioni hanno ucciso più di 600 persone e ne hanno ferite circa 1.600. Un milione e 800mila sono state variamente toccate dai danni, pari a 773 milioni di dollari, provocati da Idai a edifici, infrastrutture e coltivazioni@.

Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre@, che monitora le popolazioni sfollate, dal 2008 a oggi una media annuale di 24 milioni di persone ha perso la casa a causa di un evento naturale estremo improvviso, a fronte dei sette milioni e mezzo di sfollati all’anno a causa dei conflitti. Anche quest’anno le cose non sembrano andare molto meglio: nella prima metà del 2019 gli sfollati a livello mondiale sono stati 10,8 milioni, di cui 7 milioni dovuti a catastrofi naturali.

Lo scorso giugno Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, ha avvertito che gli effetti del cambiamento climatico potrebbero creare altri 120 milioni di poveri, vanificando gli ultimi 50 anni di sforzi per ridurre la povertà. «Rischiamo uno scenario da apartheid climatico» ha dichiarato Alston, «in cui i ricchi pagano per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti mentre il resto del mondo è abbandonato alla sofferenza»@.

Il problema del cambiamento climatico si interseca con quello dell’urbanizzazione: il disastro di Freetown, in Sierra Leone, del 2017, in cui 1.141 persone morirono a causa degli allagamenti e smottamenti legati alle forti piogge, ha mostrato che cosa succede quando un evento meteorologico estremo colpisce un agglomerato urbano costruito deforestando ed edificando in maniera informale@.

Chiara Giovetti
[continua a dicembre]


Il nostro impegno con i ragazzi di strada

  • Familia ya ufariji (Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di strada fondata nel 1996 dai missionari della Consolata a Nairobi, Kenya. Ospita fino a ottanta bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Familia ha anche alcune attività agricole che aiutano la struttura a produrre parte del proprio cibo e permettono ai ragazzi ospitati di imparare e praticare l’orticoltura.

  • La Faraja House (Casa della Consolazione) apre nel 1993 a Mgongo (Iringa, Tanzania) per iniziativa dei missionari della Consolata con l’obiettivo di assistere e reinserire i ragazzi di strada. La struttura, in grado di accogliere fino a 100 persone, sorge accanto a una scuola tecnica – nella quale i ragazzi ricevono formazione professionale – e a un dispensario che fornisce loro le cure fondamentali.

Aiutaci a coprire i costi per dare una casa a un bambino di strada perché possa mangiare, studiare e ricevere le cure necessarie alla sua età.


Il nostro lavoro accanto a chi ha perso la casa per un evento naturale estremo

Lo scorso marzo il ciclone Idai si è abbattuto sul Mozambico. Le inondazioni che ne sono seguite hanno colpito anche diverse zone in cui sono presenti i missionari della Consolata, fra cui Cuamba e Tete. In quest’ultima località Missioni Consolata Onlus, grazie alla generosità di diversi donatori, ha contribuito alla ricostruzione di 12 case.

  • Sarà possibile sostenere questo progetto anche visitando la mostra di solidarietà che gli Amici Missioni Consolata organizzano ogni anno in occasione della festa dell’Immacolata.
    La mostra sarà aperta dal 4 all’8 dicembre nei locali della parrocchia Maria Regina delle Missioni, a Torino, in via Cialdini 20, vicino al Provveditorato.

  • Si può anche sostenere il progetto con donazioni attraverso Missioni Consolata Onlus.

Aiutaci a ricostruire le case distrutte da eventi climatici estremi.