Il nostro cervello e il frigo intelligente
testo di Rosanna Novara Topino |
Siamo circondati e spesso sommersi da onde elettromagnetiche. Quasi sempre nell’indifferenza, anche per mancanza d’informazioni comprensibili e affidabili. Adesso arriva la tecnologia detta del 5G e l’«internet delle cose». Quali sono le conseguenze per l’ambiente e la salute? Siamo certi che questo futuro così pubblicizzato sia una rivoluzione positiva?
Salgo su un’auto che si guida da sola, per portarmi al lavoro in un’azienda 4.0 (nel mio reparto siamo solo quattro umani, tutti gli altri sono robot) e intanto mi arriva sullo smartphone un messaggio dal mio frigorifero intelligente, che mi comunica un suo certo vuoto interiore, a cui posso porre immediato rimedio ricorrendo all’app del mio ipermercato. Con essa posso scegliere i miei prodotti preferiti e concordare l’orario per l’arrivo del drone, che me li porterà direttamente sul terrazzo di casa. Sembra fantascienza, ma invece l’«internet delle cose» è già realtà, magari a livello di prototipo, come nel caso delle auto a guida da remoto.
La tecnologia 5G
L’espansione della tecnologia wireless (senza fili) 5G (5th Generation) per le telecomunicazioni – che consente l’«internet delle cose» – è attualmente in fase sperimentale in alcune smart city italiane come Milano, l’Aquila, Matera, Prato, Bari e Torino – quest’ultima è la prima città d’Italia con la rete live 5G Edge («Edge computing» è un sistema di elaborazione delle informazioni ai margini della rete servita, che riduce i tempi di latenza dei dati, permette risposte in tempo reale e risparmio di banda) con droni connessi, utilizzabili per il monitoraggio ambientale e la sicurezza dei cittadini. Questa tecnologia migliorerà enormemente anche la telemedicina. Peccato che quest’ultima potrebbe ritrovarsi a curare proprio le patologie eventualmente indotte dalle radiofrequenze su cui è basata la tecnologia 5G. Già, perché la sua sperimentazione è partita nelle suddette città e in un centinaio di comuni italiani minori verrà effettuata nei prossimi due anni, senza minimamente mettere in conto i possibili rischi per la salute umana e animale e per l’ambiente, non essendo stati coinvolti né il ministero della Salute, né quello dell’Ambiente. Ma che tecnologia è il 5G e a quali rischi possiamo andare incontro con la sua diffusione?
Le radiazioni e le frequenze
La tecnologia 5G, come le tecnologie wireless di grado inferiore, che l’hanno preceduta e che tuttora usiamo, impiega onde elettromagnetiche, in particolare onde radio, cioè onde non ionizzanti di frequenza di gran lunga superiore a quella delle tecnologie precedenti ed è caratterizzata da lunghezze d’onda millimetriche. In particolare le bande di frequenza utilizzate per il 5G sono inizialmente comprese in tre fasce da 700 MHz, 3,4-3,8 GHz, 26 GHz (in fisica l’Hz è l’unità di misura della frequenza; 1 Hz = un impulso al secondo; 1 MHz = 1.000.000 Hz e 1 GHz = 1 miliardo Hz) e successivamente verranno utilizzate bande comprese tra 24-25 e 86 GHz (secondo l’Agcom, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Considerando le tecnologie 2G, 3G, 4G attualmente in uso (che non verranno sostituite, ma affiancate dal 5G), le loro frequenze vanno complessivamente da 800 a 2600 MHz.
Il fatto che per il 5G le radiofrequenze abbiano una lunghezza d’onda millimetrica implica che sono necessarie migliaia di stazioni radio base e un numero molto elevato di mini-antenne sul territorio, che permetteranno il collegamento tra loro di circa un milione di oggetti per chilometro quadrato, con una iperconnessione permanente e ubiquitaria e una velocità di trasferimento dati da 100 a 1.000 volte superiore, rispetto all’attuale. Per implementare l’iperconnessione, le società di telecomunicazioni (supportate dai governi) non si limiteranno all’uso di stazioni radio terrestri, ma nelle previsioni arriveranno ad utilizzare circa 20mila satelliti posizionati nella magnetosfera. L’obiettivo è quello di arrivare ad un cambiamento tecnologico su scala globale per avere case, imprese, autostrade, città di tipo «smart», cioè «intelligenti» e auto a guida autonoma. In Italia è prevista una copertura del 5G del 99,4% del territorio entro giugno 2023.
Studi e rapporti: a chi credere?
Cosa comporta tutto questo per la salute e per l’ambiente?
La risposta a questa domanda vede schierati su fronti opposti i sostenitori di questa tecnologia: da un lato solitamente fisici, informatici, ingegneri, matematici spesso legati alle società di telecomunicazione, e dall’altro medici e biologi che portano i risultati di almeno 10mila studi peer review (la procedura di selezione di articoli e progetti operata dalla comunità scientifica, ndr) i quali dimostrano effetti biologici avversi a seguito dell’esposizione a campi elettromagnetici (Cem).
La prima contestazione dei sanitari riguarda il limite, secondo loro troppo elevato, della potenza massima di trasmissione attestato in Italia sui 6 V/m (6 volt/metro misurati in una media di 6 minuti), limite stabilito dall’Icnirp (International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection), un organismo non governativo, basato in Germania e riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che si occupa di ricercare i possibili effetti nocivi sul corpo umano dell’esposizione a radiazioni non ionizzanti. Questo organismo ha elaborato linee guida, cioè delle raccomandazioni ai governi nazionali per l’adozione di limiti di esposizione per la protezione delle persone (pubblico e lavoratori). Sulla base di tali linee guida, nel 1999 l’Unione europea ha emanato una raccomandazione, affinché gli stati membri adottassero una normativa comune per la protezione del pubblico basata sui dettami dell’Icnirp e nel 2004 è seguita una direttiva per la protezione dei lavoratori. I medici contestano i valori limite dettati dall’Icnirp, perché ottenuti studiando gli effetti dei Cem su manichini riempiti di gel, i phantom, come modelli umani, senza considerare che tali modelli non possiedono le stesse proprietà dielettriche del corpo umano. Essi inoltre affermano che sono stati presi in considerazione unicamente gli effetti termici delle radiofrequenze, ma non quelli biologici, le cui conseguenze sono state dimostrate dagli studi sunnominati, che sono in parte epidemiologici ed in parte sperimentali.
Secondo il rapporto indipendente sui campi elettromagnetici e diffusione del 5G dell’Isde (International society of doctors for environment, l’Associazione dei medici per l’ambiente) pubblicato il 10 settembre 2019, la maggior parte degli studi che rassicurano sul rischio per la salute da esposizione a radiofrequenze, tra cui il progetto Interphone, sul quale si basano le posizioni dell’Oms, hanno ricevuto finanziamenti da soggetti privati, tra i quali i gestori della telefonia mobile. Per quanto riguarda l’Icnirp, la quale afferma che sotto i limiti da essa fissati per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti non vi sono rischi per la salute umana, in un’inchiesta pubblicata il 16 gennaio 2019 da il Fatto Quotidiano si legge che diversi membri di questa commissione collaborano a vario titolo con le società di telecomunicazione e da quel settore ricevono compensi.
Le patologie indotte
Nel 2015 scienziati di 41 paesi hanno informato le Nazioni Unite e l’Oms che molti studi scientifici dimostrano che i campi elettromagnetici colpiscono gli organismi viventi a livelli anche molto più bassi rispetto a quelli indicati come sicuri dalla maggior parte delle linee guida internazionali e nazionali (già da 0,6 V/m). Oltre agli effetti termici da esposizione acuta, i Cem determinano effetti biologici da esposizione cronica. Tra i principali effetti biologici, indipendenti da quelli termici, ci sono i danni alla barriera ematoencefalica, con un aumento del rischio di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, l’infertilità soprattutto maschile (lesioni strutturali e funzionali del testicolo, alterazione dei parametri dello sperma e della sua concentrazione nell’epididimo), disturbi neuro-comportamentali, danni alle cellule neuronali, danni al feto e alterazioni del neuro-sviluppo, aumento dello stress ossidativo, danni al Dna, disturbi metabolici e del sistema endocrino, alterazioni del ritmo cardiaco. In particolare l’aumento dello stress ossidativo e i danni al Dna si traducono in un aumentato rischio di tumori. A seguito di esposizione prolungata a radiofrequenze è stato osservato l’aumento dei gliomi cerebrali soprattutto ipsilaterali, dei neurinomi acustici, dei linfomi, dei tumori del pancreas, del cuore e delle ghiandole surrenali.
Nel 2011, la Iarc (International agency for research on cancer) inserì le radiofrequenze in classe 2B (possibile cancerogeno), ma, alla luce delle nuove evidenze scientifiche di numerosi studi, tra cui quelli compiuti su modelli animali da due autorevoli e indipendenti gruppi di ricerca, l’Istituto Ramazzini in Italia e il National toxicology program negli Stati Uniti, essa ha deciso di rivedere la classificazione delle radiofrequenze, che potrebbero passare in classe 2A (probabile cancerogeno) o addirittura in classe 1A (cancerogeno certo).
Accade nelle nostre scuole
Diversi studi hanno evidenziato una particolare vulnerabilità alle radiofrequenze nei bambini e nelle donne in gravidanza. In particolare uno studio svedese di Hardell et al., 2013, ha dimostrato che l’uso del cellulare prima dei 20 anni porta a un rischio di glioma ipsilaterale quattro volte superiore, rispetto ai controlli. Questo dato è particolarmente importante, se si pensa che ormai bambini e adolescenti sono costantemente immersi nei campi elettromagnetici, che tutti insieme vanno a costituire l’elettrosmog. Non solo i bambini e ragazzi ormai dispongono quasi tutti di un cellulare, pc o tablet, ma passano parecchie ore delle loro giornate in scuole sempre più connesse, per le quali il cosiddetto «Bando Wi-Fi» del luglio 2015 ha stanziato un finanziamento di circa 90 milioni di euro per la realizzazione o il miglioramento delle reti wi-fi all’interno delle scuole del I e II ciclo d’istruzione. Purtroppo, nei bambini e nei ragazzi, la capacità di assorbimento delle radiofrequenze è superiore rispetto agli adulti a causa del maggiore contenuto di acqua dei loro tessuti e del minore spessore delle ossa craniche. Questo espone i ragazzi ad un maggiore rischio di contrarre patologie importanti come il cancro.
Del resto, si può immaginare il livello di esposizione in una classe dove siano contemporaneamente presenti 25-30 cellulari (liberalizzati dalla ex ministra all’Istruzione Fedeli, che ha sostenuto il Byod, Bring your own device, «Porta il tuo dispositivo», nell’ambito del progetto Buona scuola), alcuni pc o tablet, la lavagna elettronica (detta Lim) e la connessione wi-fi della scuola.
Nel 2017 l’Isde italiana (il suo sito: www.isde.it) ha chiesto una moratoria al governo, per interrompere la sperimentazione del 5G in atto, finché non si sappia qualcosa di più circa la sua pericolosità o innocuità. Tutti i dati scientifici a disposizione si riferiscono a frequenze di gran lunga inferiori a quelle utilizzate dal 5G e di fatto ci ritroviamo a fare da cavie umane in questa sperimentazione. Sarebbe perciò doveroso applicare il principio di precauzione ed evitare di esporre la popolazione a inutili rischi, in assenza di studi mirati.
Nell’agosto 2019 l’Istituto superiore di Sanità ha emesso il rapporto Istisan 19/11, nel quale gli autori, dopo avere escluso dalla loro analisi importanti studi sia epidemiologici, che sperimentali in modo del tutto arbitrario, con motivazioni errate come la mancanza di significatività statistica o pretestuose come la non ancora avvenuta pubblicazione su riviste peer review, sono giunti a conclusioni rassicuranti sugli effetti delle radiofrequenze e sull’utilizzo dei cellulari. Addirittura essi sostengono che, alla luce dei dati attuali, l’uso comune del cellulare non sia associato all’aumento del rischio di alcun tumore cerebrale, mantenendo un certo grado d’incertezza per un uso molto intenso soprattutto dei vecchi modelli di cellulare con maggiori potenze di emissione rispetto a quelli di ultima generazione. Anch’essi inoltre affermano di non potere fare previsioni sull’impatto del 5G sulla salute. Poiché il rapporto Istisan è stato stilato a seguito di un esame incompleto della letteratura scientifica, senza la valutazione delle più recenti evidenze sperimentali, per cui esso tiene in conto solo gli effetti termici delle radiofrequenze e non quelli biologici (in linea con l’Icnirp), l’Isde italiana ha chiesto il ritiro di questo documento all’Istituto superiore di Sanità ed una sua rielaborazione più ampia.
Ne vale la pena?
Il 2 ottobre 2019 è terminata l’asta per l’assegnazione delle frequenze 5G. Le offerte per le bande messe a disposizione hanno superato i 6,5 miliardi di euro, superando la cifra minima stabilita dalla legge di bilancio. Il 5G inizialmente funzionerà con elementi emittenti nella fascia 3,5-3,6 GHz e antenne phase array, cioè a «schiera in fase». Sarà necessaria l’installazione nelle aree urbane di moltissimi micro-ripetitori, con conseguente aumento della densità espositiva, poiché i molti palazzi e piante rappresentano un ostacolo alla trasmissione lineare (in teoria le piante non dovrebbero superare i 4 m di altezza, quindi potranno verificarsi generose potature, se non addirittura eliminazioni). Quando la tecnologia 5G sarà potenziata, ogni operatore dovrà installare stazioni base ogni 100 m in ogni area urbana del mondo e ricorrerà anche a satelliti in orbita, che emetteranno onde millimetriche a fasci focalizzati e orientabili, con una potenza effettiva irradiata di 5 milioni di watt. Secondo i meteorologi, tutto ciò potrebbe interferire pesantemente sulle previsioni dei gravi eventi atmosferici, con grande rischio per le popolazioni delle aree interessate.
Siamo sicuri che valga la pena di correre tutti questi rischi per avere case, auto, industrie, oggetti «intelligenti», che probabilmente renderanno noi sempre più stupidi? Ma soprattutto, tutto questo ci rende felici o schiavi della tecnologia imperante e di chi la controlla?
Rosanna Novara Topino