In America Latina dal 1971, padre Ezio Roattino ha speso la sua vita tra i poveri e gli indigeni. In particolare in Colombia ha vissuto a fianco del popolo Nasa, imparandone la lingua, la cultura e la storia, inculturando il Vangelo.
Padre Ezio Roattino era un uomo di parte: le sue scelte, che viveva con perseveranza e responsabilità, gli hanno procurato non pochi conflitti che cercava sempre di risolvere appellandosi alla carità e alla misericordia, ma senza mai fare un passo indietro.
Alcuni indigeni che non sapevano pronunciare bene il suo nome a causa della zeta, invece di Ezio, dicevano «ecio», o direttamente «necio», che significa, fra le altre cose, testardo.
Forse, proprio per la chiarezza e consistenza delle sue convinzioni, un po’ necio in effetti lo era, ma sempre «ad maiorem Dei gloriam», come avrebbe detto Giuseppe Allamano – il fondatore della famiglia missionaria alla quale lui apparteneva -, o per il «servizio del Regno», che è lo stesso in termini più evangelici e un po’ più latinoamericani.
Perché di una cosa possiamo essere certi, l’America Latina e, in particolare, quella indigena, si era impossessata di lui, che l’ha amata fino all’ultimo dei suoi giorni, il 4 aprile 2024, quando aveva 87 anni e viveva in Italia da due anni, dove era dovuto tornare per accompagnare l’ultimo viaggio di sua sorella.
In una Chiesa missionaria
Quando aveva già superato i trent’anni e cominciava a essere forse un po’ stagionato per le piazze rivoluzionarie del ’68 – era prete da quattro anni ai tempi del maggio francese -, padre Ezio ha vissuto in prima persona proprio a Roma le novità e le speranze dei primi anni subito dopo il Concilio Vaticano II, e anche l’impegno che i Missionari della Consolata hanno profuso nel capitolo straordinario del 1969 per «aggiornare» l’istituto secondo i criteri del Concilio e del suo documento Ad Gentes che metteva in prima linea lo sforzo missionario della Chiesa.
Poveri e indigeni, primo e unico amore
In America latina, dove è arrivato per la prima volta nel 1971, all’età di 35 anni, Ezio ha imparato a vivere la sua «opción por los pobres» (opzione per i poveri) e l’ha fatto in un luogo particolarmente iconico in questo senso, la favela «Morro dos telegrafos» (familiarmente «Telegrafo») a Rio de Janeiro, a pochi passi dal grande stadio del Maracaná, in un contesto di povertà, violenza e ingiustizia. Lì è andato ad abitare, soffrendo non poche penalità, ricorda il suo confratello padre Claudio Fattor, ma fedele alle sue scelte di vita.
Da allora, quello che è stato il suo primo e forse unico amore, l’America povera e, un po’ più tardi, anche quella indigena, non l’ha abbandonato mai, nonostante lui, obbedendo agli ordini dei superiori, qualche volta abbia dovuto allontanarsi da essa per brevi periodi.
Guadalupe di secondo nome
Perché padre Ezio aveva come secondo nome Guadalupe? Nel suo certificato di battesimo c’era scritto Maria, solo che Maria, in America Latina, soprattutto per il mondo indigeno, si dice Guadalupe, in riferimento alla Vergine del famoso santuario di Città del Messico.
Lui ai piedi della guadalupana ha pregato e ci è stato in diverse occasioni. La prodigiosa immagine, secondo la tradizione, si era impressa nel 1531 sulla «tilma», il mantello, di Juan Diego Cuauhtlatoatzin, indigeno convertito al cattolicesimo, mentre stava sul Monte Tepeyac. Padre Ezio l’aveva studiata nei dettagli: le fattezze indie della Madonna, il suo vestito da nobildonna, la sua gravidanza intrisa di Vangelo, l’insuperabile saggio di inculturazione del Nican Mopohua, la narrazione degli eventi del Tepeyac in lingua náhuatl, facevano parte della sua quotidianità.
Dal Brasile alla Colombia
La povertà e le sfide sociali del Telegrafo per padre Ezio non sono state altro che il punto di partenza di un viaggio che, in diversi modi, l’ha portato lontano.
Forse ci sarebbero state buone ragioni per spendere la sua vita per la gente di quella favela di Rio de Janeiro: ancora oggi, infatti, essa continua a essere una zona franca, dominata dal narcotraffico e dalla piccola criminalità, dove la polizia entra solo se in forze e bene armata.
Eppure, padre Ezio ha ripreso il suo cammino missionario ed è sbarcato nella Colombia di fine anni Settanta, di nuovo in mezzo ai poveri, ma questa volta in una zona rurale, non più in una grande città come era Rio, prima fra i campesinos, i contadini, e poi fra gli indigeni.
La sua storia, il suo impegno, forse alcune circostanze un po’ misteriose o perfino provvidenziali, gli hanno aperto gli occhi sugli ultimi degli ultimi, i più poveri di tutti: i popoli autoctoni, quelli che, in cinque secoli, hanno pagato uno dei prezzi più alti della colonizzazione europea che ha fatto pochi ricchi e tante vittime.
Da padroni del continente, i popoli nativi delle Americhe in poche generazioni sono diventati gli ultimi, e ancora oggi stanno al margine della vita, della cultura e della storia dei loro paesi. Proprio loro che sono portatori di una vita, una cultura e una storia millenaria, la più antica del «continente nuovo».
Padre Alvaro Ulcué Chocué e la causa degli indigeni
Padre Ezio si è buttato a capofitto in questa sfida così squisitamente missionaria, e nel suo nome da allora è apparsa la parola «pal» che, nella lingua nasa yuwe, quella parlata dagli indigeni presso i quali sarebbe andato, significa «padre».
L’ha presa in prestito dal padre Álvaro Ulcué Chocué, il primo sacerdote indigeno colombiano che si firmava «Nasa pal», «padre Nasa», il nome della sua etnia nella lingua della comunità nella quale era nato, alla quale apparteneva e per la quale si era fatto ordinare sacerdote.
Padre Álvaro era originario del Nord del Cauca, la regione con la popolazione indigena più grande del Paese. Qui, per la prima volta in America Latina, gli indigeni avevano cominciato a organizzarsi politicamente, anche grazie al lavoro dello stesso padre Álvaro che aveva fondato, assieme alle suore di madre Laura, il «progetto Nasa».
Padre Álvaro ha finito per pagare con la vita il suo impegno: è stato assassinato il 10 novembre 1984. Padre Ezio Roattino era stato uno degli ultimi che lo avevano visto vivo.
Nei primi giorni di novembre lo aveva accompagnato nelle due parrocchie di Toribío e Tacueyó, dove padre Álvaro era parroco, per aiutarlo nelle celebrazioni dei defunti, importanti per la cultura indigena. Poi, la sera prima dell’omicidio, Álvaro aveva accompagnato padre Ezio in macchina fino al bus che l’avrebbe riportato a Bogotá. Quando Ezio è arrivato nella capitale, la notizia della morte dell’amico l’aveva preceduto: era stato freddato al mattino da vari colpi di pistola sulla porta di un convento di suore che lui era solito frequentare, sulla via panamericana che da Santander del Quilichao va verso Popayán.
Padre Ezio, quasi senza dire parola, ha ripreso il bus, ha fatto a ritroso le quasi dieci ore di viaggio ed è tornato nel Cauca.
Da quel momento la sua vita e, in parte, anche quella dei Missionari della Consolata in Colombia, hanno preso una piega nuova.
Padre Rinaldo Cogliati, allora al seminario teologico di Bogotá, ricorda quell’episodio in questi termini: «Padre Ezio aveva finito il suo mandato come superiore regionale un paio di mesi prima e, saputo dell’assassinio del padre Álvaro, aveva telefonato al seminario teologico e ci aveva chiesto di essere noi coloro che raccoglievano la sua bandiera. Fu così che aprimmo immediatamente a Toribío, anche se poi la parte burocratica ci ha visto presenti ufficialmente solo a partire dal 2 febbraio 1985, poco meno di tre mesi dopo la morte di padre Álvaro».
Imparando la lingua nasa
Appena ha potuto, anche padre Ezio si è aggiunto al progetto di evangelizzazione che aveva al centro l’annuncio della Buona notizia del Vangelo alle comunità autoctone che di notizie buone avevano drammaticamente bisogno dopo secoli di abbandono e schiavitù.
Padre Rinaldo ricorda questo periodo, che probabilmente è stato la tappa più fruttuosa e prolungata dell’impegno missionario di padre Ezio: «Io ho vissuto in missione con l’équipe nella zona di Toribío, Tacueyó, Jambaló e Caldono con padre Ezio dall’anno 1989 fino al 2007. Sono stati anni di molto dialogo, di tante difficoltà e anche di frequenti “liti” liturgiche. Uno dei nostri temi fondamentali era l’inculturazione del Vangelo, e siccome padre Ezio si era impegnato a studiare la lingua nasa, che alla fine aveva imparato benissimo, era lui che si era preso la briga di sedersi con pazienza assieme agli anziani, i veri capi spirituali degli indigeni, per capire il loro modo di vedere, e trovare insieme vie che fossero comprensibili e trasparenti per dire e annunciare in quel mondo indigeno che ci aveva accolti con tanta simpatia e generosità».
Anch’io, che a Toribío ho trascorso qualche anno, ricordo con simpatia, ad esempio, la seduta di mezz’ora con il più indigeno dei nostri catechisti, di nome Serafín, per stabilire come si dovesse tradurre in nasa yuwe il titolo del manuale dei catechisti che era «Camminiamo assieme». Mezz’ora per tradurre due parole.
Con il senno di poi, oggi so che non si trattava di due semplici parole, ma di una immersione profonda nel significato di «cammino» e di «assieme» che nella cosmovisione comunitaria degli indigeni avevano una valenza tutta particolare.
Poi c’è stato anche spazio per un «cafesito» («caffettino») e un «pancito» («panino»): i segni della giusta accoglienza nella casa dell’équipe che era e voleva essere anche la casa degli indigeni, come lo era dai tempi di padre Álvaro. Gli ultimi anni a Toribío, padre Ezio li ha dedicati alla traduzione del Vangelo nella lingua nasa yuwe, benché credo non sia andato molto più in là di quello di Marco.
La sua è stata, quindi, una vita dedicata a costruire spazi, pensiero, progetti, sogni, attività nelle quali la comunità Nasa si sentisse a casa e parte degna di quella comunità ancora più grande che chiamiamo Chiesa.
La violenza della guerra
Mentre padre Ezio, i missionari, i catechisti, le autorità indigene costruivano, e lo facevano con pazienza e amore, tutt’attorno c’era chi distruggeva. Il Nord del Cauca era, e in parte continua a essere, uno degli spazi più significativi di frizione e scontro fra Stato e ribelli nell’interminabile guerra civile colombiana farcita di narcotraffico. E anche con i violenti e con la guerra padre Ezio ha avuto molto a che fare.
Padre Rinaldo lo ricorda in questo modo: «Nel 2005, una mattina siamo in chiesa con gli animatori delle comunità, e comincia una sparatoria. Noi, pensando che sia una delle solite scaramucce armate, continuiamo la nostra preghiera. Alla fine entra un guerrigliero in chiesa, armato fino ai denti, e dice che abbiamo cinque minuti per scappare. Noi corriamo subito via e, appena usciti, un ordigno rudimentale cade nei pressi della casa parrocchiale e frantuma tutti i vetri. Il padre Ezio sale in macchina e comincia a evacuare le persone. Fuori dal finestrino la stola bianca indica il fine umanitario di tutto quell’andirivieni».
Oggi il cortile della casa parrocchiale è un museo, in buona parte voluto dal padre Ezio, che racconta e ricorda i fatti violenti che si sono scatenati attorno a esso. Nel corridoio laterale si trova l’asse di un pulmino carico di esplosivo che la guerriglia aveva scaraventato contro la caserma della polizia. L’esplosione era stata così violenta che il veicolo si era disintegrato facendo volare in aria quel notevole pezzo di metallo che era arrivato fino al cortile della parrocchia distruggendo una blocco di bagni. Per fortuna, in quel momento, non c’era nessuno. Attorno a questo «monumento» ci sono, scritti su sassi, i nomi di coloro che hanno perso la vita in quell’attacco.
Verso la «Tierra sin males»
La memoria per padre Ezio era importante. Non che lui avesse particolari doti artistiche, ma nella chiesa di Toribío si conserva una cappella laterale – che, in modo giocoso, noi avevamo chiamato «Roattina», per l’assonanza con la cappella Sistina – nella quale è dipinta la storia del popolo Nasa, con i personaggi centrali della sua emancipazione, padre Álvaro fra di loro. Egli mostra la mano, che è la prima rappresentazione del progetto Nasa, con le cinque dita a indicare i cinque progetti originali. Il primo è l’evangelizzazione indicata dal pollice, poi l’educazione, la salute, la famiglia/casa e lo sviluppo con progetti produttivi. Le altre immagini rappresentano la conquista, i grandi vescovi difensori degli indios, e la violenza che continua fino a oggi. Al centro, con il tabernacolo, «La tierra sin males», la terra senza mali.
Non l’ha dipinta padre Ezio, ma lui l’ha ideata, l’ha progettata fin nei minimi dettagli, poi si è procurato un giovane particolarmente dotato, e questi ha realizzato l’opera.
Un bellissimo murale sopravvissuto a più di un bombardamento.
Potremmo forse dire che è l’immagine plastica, la sintesi del sogno cristiano e umano di padre Ezio, anche lui oggi nella «tierra sin males», uno specchio del suo amore e della sua attenzione alla storia e alle storie di queste comunità etniche, ai loro «primi testamenti», come amava dire. Anche in questi Dio si è manifestato come aveva fatto nel primo testamento della storia del popolo ebraico.
Dall’alto di questa terra fiorita, lussureggiante e bella, «sin males» appunto, ancora oggi lui ci benedice e ci invita a camminare.
Gianantonio Sozzi
Gli indigeni nasa: «Ti ricorderemo sempre»
San Lorenzo de Caldono, 4 aprile 2024
La comunità Nasa del territorio UsWal Nasa Cxhab, si rammarica profondamente per la scomparsa del nostro fratello e missionario Ezio Guadalupe Roattino, che ha prestato servizio nella parrocchia di San Lorenzo de Caldono e ha lasciato in noi un segno indimenticabile.
È stato un sacerdote integerrimo che ha dimostrato il suo amore incondizionato per i più umili, difensore dei diritti delle persone più bisognose.
Durante la sua permanenza come missionario nel comune di Caldono Cauca, ha viaggiato in ogni angolo dei territori indigeni, ha imparato a parlare la lingua nasa yuwe e ha celebrato cerimonie religiose in lingua nasa. Si è sempre contraddistinto per la sua umiltà e il suo servizio agli altri.
Ora si è riunito al fratello Álvaro Ulcué Chocué Nasa Pal, con il quale aveva una bella amicizia e con il quale ha condiviso la vita sacerdotale nelle parrocchie del Cauca.
Dalla Riserva indigena di San Lorenzo de Caldono, Dipartimento di Cauca, Colombia, inviamo le nostre condoglianze alla sua famiglia in Italia e a tutta la comunità dei Missionari della Consolata.
Che possa tornare nel seno della Madre Terra. Invochiamo pace sulla sua tomba.
Ti ricorderemo sempre, Pal Ezio Guadalupe Roattino.
Comunità Nasa del territorio UsWal Nasa Cxhab Territorio ancestrale del popolo Nasa «sa’tama kiwe» resguardo indigeno San Lorenzo de Caldono
Toribío, Cauca, 5 aprile 2024
Cari familiari e amici di padre Ezio Roattino.
È con grande dolore e profonda commozione che vi scriviamo per condividere i nostri sentimenti per la morte di padre Ezio, pilastro fondamentale della nostra comunità toribiana e fonte d’ispirazione per tutti noi.
Padre Ezio era un esempio vivente di amore, compassione e dedizione alla nostra comunità.
La sua instancabile dedizione al servizio degli altri e il suo profondo impegno nei confronti dei principi della nostra fede hanno lasciato un segno indelebile nei nostri cuori e nelle nostre vite.
In questo momento di dolore e tristezza, ci riuniamo come comunità per sostenerci reciprocamente. Ricordiamo con affetto i momenti condivisi con padre Ezio e celebriamo la sua vita esemplare, la sua saggezza e il suo amore infinito per tutti noi, la famiglia che lo ha accolto tre decenni fa e, come disse padre Ezio: «Questo anello sulla mia mano sinistra dimostra che mi sono sposato. Mi sono sposato con una causa e quella causa sono gli indigeni colombiani».
Toribío sarà sempre un popolo grato per la benedizione di avere avuto un fratello maggiore missionario indigeno.
Grato perché padre Ezio ha accompagnato padre Álvaro Ulcué Chocué – fino a quel 10 novembre 1984 in cui lo salutò – nei territori più colpiti dal conflitto nel nostro dipartimento, percorrendoli insieme, a piedi e con la torcia in mano.
Grato perché padre Ezio ha imparato e padroneggiato la nostra lingua, il nasa yuwe, perché ha legato con i nostri anziani, in questa terra che, pur non avendolo visto nascere, lo ha adottato come se fosse stato un figlio del suo grembo.
Grato perché padre Ezio ha innalzato le vostre preghiere nella nostra lingua madre.
Inviamo le nostre più sentite condoglianze alla famiglia e ai cari di padre Ezio, e offriamo le nostre preghiere e i nostri pensieri in questo momento difficile: possiate trovare conforto nei ricordi condivisi e nell’eredità duratura di padre Ezio.
Che Dio e gli spiriti di madre natura ci concedano forza e pace in questo periodo di lutto, e che lo spirito di padre Ezio continui a ispirarci e a guidarci nel nostro cammino spirituale e nella tregua della guerra.
Con profondo amore, gratitudine e solidarietà.
Associazione dei consigli indigeni di Toribío, Tacueyó e San Francisco.
Occupano le pianure della Bolivia orientale. Chiusi nelle loro comunità, vivono di agricoltura. Parlano il plautdietsch, una sorta di dialetto tedesco. Sono i mennoniti, una popolazione anabattista che, per obbligo religioso, vive isolata dal resto del mondo. Un nostro collaboratore e un fotografo hanno visitato alcuni villaggi mennoniti e conversato con gli abitanti. Questo è il loro reportage.
San Miguel Gruenwald (Conceptión). Il maestro legge ad alta voce e i bambini – biondi, tutti vestiti uguali, camicia e salopette – ripetono in coro. Le bambine – bionde, tutte vestite uguali, foulard in testa – trascrivono le frasi di un libro. Nella scuola, tra i banchi di legno, la luce del mattino quasi non arriva. Fuori, il sole illumina i campi di mais, i grilli cantano, un calesse trasporta taniche di latte.
San Miguel – 23 famiglie di agricoltori e allevatori, senza acqua corrente né elettricità – è una colonia mennonita nella pianura di Santa Cruz de la Sierra, Bolivia orientale. È qui che, nel 1954, arrivarono una decina di mennoniti, decisi a mantenere unita la comunità e sfuggire alle tentazioni del mondo. Oggi ce ne sono centomila.
Nella scuola di San Miguel è il momento della pausa. Per prendere il sole sul prato, bambini da una parte, bambine dall’altra. Nella sala in penombra, il maestro mi mostra il libro di testo: una bibbia in caratteri gotici, tradotta in plautdietsch, un tedesco antico con influenze olandesi. La lingua di Menno Simons, anabattista e capostipite mennonita. «La sofferenza è la consolazione del fedele», scriveva nel 1539.
Il maestro è un uomo sui 30 anni dal volto caprino. «E qui disegnano i bambini?», chiedo.
Il maestro rimane muto. «Disegnare, arte, pittura», insisto. Provo a spiegarmi, mi metto a gesticolare. E penso che non avevo mai dovuto cercare le parole per definire «disegnare».
Alla fine, risponde in uno spagnolo singhiozzante con i verbi all’infinito: «No, questo no. Qui solo leggere, scrivere e contare».
Abram e l’Apocalisse
Sono arrivato a San Miguel Gruenwald con Fabiomassimo Antenozio, fotografo che dal 2020 porta avanti un progetto sui mennoniti della provincia di Santa Cruz. La colonia è nata tredici anni fa, quando alcune famiglie mennonite abbandonarono altre colonie.
«Dove stavamo prima, i giovani avevano molte tentazioni, la sera si riunivano per bere, andavano con le donnacce», ci dice Enrique Lowen.
È alto, un po’ ingobbito, magro, radi capelli bianchi gli arrivano alle tempie, lunga barba bianca incolta. Nato in Messico, è arrivato in Bolivia quando aveva 11 anni, oggi ne ha 62 ma ne dimostra dieci in più.
Le case di San Miguel sono tutte simili: un pianterreno con muri di mattoni, tetto di zinco, ampio giardino. Attorno ad alcune si trovano cavalli, galline, alberi da frutto, macchine da lavoro. Le porte non hanno serrature, i cani non hanno collari, il terreno non è recintato.
Abram, il gemello di Enrique, è uno dei due capi della comunità, il più anziano. I due fratelli sono identici anche nell’abbigliamento: salopette, camicia logora e cappello da cowboy.
Ci accoglie nel patio di casa, sistema in cerchio alcune sedie di plastica. Il dialogo è un po’ lento, è difficile trasformarlo in un’intervista, bisogna superare lo scoglio dello spagnolo elementare che parlano i mennoniti e trovare temi comuni.
Abram spiega che nella colonia non hanno il telefono, non gli interessa averlo. Nemmeno per le emergenze.
«Non usiamo la tecnologia».
«Anche il pozzo da cui attingete l’acqua è tecnologia», dico, calandomi nel ruolo dell’inquisitore.
«Ho paura di ciò che non si vede. Il telefono non si vede come funziona, il pozzo sì. Abbiamo le carte d’identità scadute, quelle nuove hanno il chip, non vogliamo usarle. Quando arriverà la bestia, nel giorno dell’Apocalisse, noi saremo indipendenti dalla tecnologia, tu no».
Mi parla con pazienza, senza animosità, come se spiegasse ovvietà a uno un po’ lento di comprensione. Poi apre una Bibbia in spagnolo e indica con il dito una pagina: «La conoscenza è il male. Guarda la prima lettera ai Corinzi 1:18-19: “Distruggerò la sapienza dei saggi e distruggerò l’intelligenza degli intelligenti”».
Ritorna il silenzio.
Le donne dei mennoniti
A due case di distanza vivono Abram Klasen, il fabbro, e sua moglie Margaret Enss, che ha lavorato per due anni come assistente in un ospedale di Santa Cruz. Così è diventata farmacista e ostetrica della colonia.
Nel suo studio, una stanza accanto alla casa, c’è un armadio in legno pieno di farmaci: olio di merluzzo, complesso B, paracetamolo, integratori di ferro. Margaret parla a malapena lo spagnolo, capisce un po’ le nostre domande e risponde con poche parole. Prescrive medicine a una donna con il suo bambino in braccio.
Qui le donne non vedono un medico durante la gravidanza. Nessuna fa un’ecografia.
La cena a casa di Enrique viene servita subito dopo il tramonto. Fuori il buio è quasi totale, c’è solo la luce della luna, delle stelle e delle lucciole. A casa, la famiglia si riunisce attorno al tavolo. Nella stanza illuminata dalla lampada a olio si mangiano fagioli, mais, pane integrale, formaggio e maionese del supermercato. Una preghiera silenziosa anticipa il pasto. Dopo cena, le donne puliscono silenziosamente la tavola. Poi tutta la famiglia si riunisce per leggere e chiacchierare. Una delle figlie di Enrique è sordomuta, legge lettere in plautdietsch sul giornale della comunità.
A scuola non si insegna lo spagnolo. Gli uomini lo imparano parlando con i boliviani, serve loro per commerciare. Le donne non hanno quasi contatti al di fuori della colonia. Ma, secondo Enrique, la lingua dovrebbero impararla: «Perché mia moglie non diventi gelosa quando parlo con una donna boliviana».
Bisogna rimanere umili
Affonda nella sedia in legno, sembra avere un peso che lo opprime: «Il mondo è pieno di male, di tentazioni della carne. Un peccato è il desiderio di fare altre cose, di lasciare la colonia. Perché dopo un po’ la Bibbia diventa ripetitiva, le passeggiate per la colonia monotone. Voi avete la televisione e il cellulare, non vi annoiate. Ma non potete vivere senza tecnologia. Qui a volte mi annoio. Questo perché la mia fede è fragile, vorrei che fosse più solida».
Dopo colazione, con una bevanda d’orzo in polvere Nestlé, gli uomini di casa di Enrique legano tre cavalli attorno a una ruota. Il movimento circolare degli animali aziona un meccanismo la cui energia alimenta la lavatrice e il mulino per cereali, ai quali lavorano le donne. San Miguel è una delle colonie più conservatrici, rifiuta non solo la tecnologia, ma anche il diesel, i conti bancari, i prestiti con interesse.
«So che pensate che tutto questo sia una follia, ma noi vogliamo rimanere umili. Dio avrà misericordia degli umili», ci dice Enrique, mentre il figlio scaccia i pappagalli verdi che mangiano il mais, spaventandoli con la fionda, «slang» in plautdietsch.
Nella scuola di San Miguel
Al mattino, torniamo nella chiesa che funge anche da scuola. Biondi, magri e silenziosi, sedici bambini e tredici bambine svolgono i loro compiti. Per rispondere alle domande del maestro, aprono il palmo della mano e lo alzano discretamente. Maria, la figlia appena nata dei due maestri (ma la donna rimarrà in silenzio per tutta la durata della nostra visita), dorme in una culla accanto alla lavagna. Il maestro dal volto caprino chiede al mio collega di smettere di scattare foto.
«Disturba i bambini. Mi fa schifo che tu abbia scattato delle foto», dice amareggiato, nel suo spagnolo stentato.
Ci scusiamo. Risponde scusandosi a sua volta.
Gli edifici di San Miguel – case, chiesa, segheria, officine, caseificio, latrine – si ergono su entrambi i lati di una strada sterrata che percorriamo con la nostra jeep. Di tanto in tanto, dobbiamo accostarla per far passare i carri trainati dai cavalli. Quello condotto da un anziano si accosta al finestrino della jeep. L’uomo ha un dolore al ginocchio, dovrebbe operarsi.
«Non lo farò, devo resistere ancora un po’, sono vecchio. E come va la guerra? Il tuo paese è con la Russia o l’Ucraina?».
A cena da Cornelius
Cornelius Remar ha ventinove anni, cinque figli e quattordici ettari di terreno. Capelli rossastri, barba rada dello stesso colore, pelle bianca madreperla. È uno dei due capi della colonia San Miguel, il più giovane.
«Ti piace essere il capo?», gli chiedo.
Alza le spalle: «Che ci posso fare? Devo rispettare l’obbligo, la decisione della comunità».
Ci invita a sederci nel patio di casa sua, ci mostra il libro con cui ha imparato lo spagnolo.
«È stato difficile, ma lo parlo. Ai miei figli, di tanto in tanto, dico qualche parola in spagnolo. Lo impareranno quando saranno più grandi.
Noi vendiamo tori vivi ai macelli di Santa Cruz, un animale si vende tra i 1.000 e i 1.500 dollari. Una mucca da carne si vende a circa 500. Ho mucche bianche, mi piace il colore».
Ceniamo con la famiglia di Cornelius, attorno ad un tavolo di legno. I bambini non mangiano con noi e ci guardano incuriositi. Ci sono ciotole di mais, spaghetti integrali, insalata di cetrioli, una bevanda dolce alla frutta e un barattolo di maionese fatta in casa.
«Mio suocero fa la maionese, a casa ha un frullatore», racconta Cornelius con una punta di entusiasmo. È preoccupato perché ha sentito che i «paisanos collas» (indigeni boliviani degli altipiani) stanno occupando la terra dei mennoniti.
«Non possiamo fare niente, ce ne andiamo. Siamo preoccupati per questo e per la Mas (dice “la” Mas riferendosi al Movimento verso il socialismo, partito che domina la politica boliviana dal 2006, ndr). Se entra il comunismo abbiamo paura di perdere i nostri privilegi».
Cornelius è nato in Argentina, i suoi genitori in Messico, i suoi nonni in Canada e i suoi figli in Bolivia. I mennoniti sono sempre stati in movimento. L’idea della persecuzione ce l’hanno piantata nell’inconscio.
In un capanno di fianco a casa, Cornelius aziona la ruota trainata da cavalli per macinare chicchi di mais, sorgo, crusca e soia per nutrire i maiali. Il rumore del mulino sovrasta le voci, bisogna gridare per farsi sentire. Uno dei cavalli ha una ferita in bocca che si allarga con il movimento della briglia e dalla quale esce del pus. Cornelius ha provato a pulirla, hanno chiesto a un veterinario, ma non sono riusciti a curarla.
«Cosa ti piacerebbe per il futuro?».
«Non voglio che progrediamo nella tecnologia ma nello sviluppo spirituale», dice mettendosi la mano destra sul cuore.
Martin, salopette e barba da profeta
Martin Brun ci accoglie nel suo giardino, ci sediamo sotto gli alberi da frutto, ci offre acqua e chirimoya (annona). Ha 62 anni, una lunga barba da profeta, il naso aquilino, l’immancabile salopette, il cappello e uno sguardo curioso.
«Ti piacerebbe viaggiare?», chiedo. In verità, più che chiedere cerco una via d’uscita dal ruolo dell’inquisitore. Si sente il canto delle cicale.
Martin guarda gli alberi del giardino.
«Per viaggiare è necessario avere soldi. Viaggio solo se ho qualcosa da fare. Quanti ettari hai nel tuo paese? Il tuo lavoro è scrivere per il giornale? Non capisco come si possa guadagnarsi da vivere solo con il giornalismo». Le notizie volano, penso tra me e me.
Accanto alla casa, il giovane Abram, 17 anni, il figlio più giovane di Martin, ha trasformato un capannone in un magazzino dove vende strumenti da lavoro, collane, grattugie, giochi per bambini, tutto confezionato in buste di plastica con etichette made in China. La produzione cinese ha raggiunto anche la comunità più conservatrice dei mennoniti boliviani.
Il giovane Abram ha un innato senso degli affari e mi convince a comprare un cappello a falde larghe e un barattolo di miele.
Insieme a suo fratello ci chiede di poter usare il nostro telefono per chiamare il loro fratello maggiore, trasferitosi in America Centrale, in Belize. Sognano di poter andare a trovarlo.
«Lì usano le lampade elettriche, uccidono i maiali con la pistola, non usano coltelli».
I due fratelli ci portano su un carro con le ruote di ferro trainato da due cavalli. Con il mio telefono registro un video, gli mostro la macchina fotografica. Con gli adulti non abbiamo usato i nostri dispositivi tecnologici, con i due ragazzi mi sento come se stessi facendo loro assaggiare un frutto proibito.
Disboscatori implacabili
Raggiungiamo una collina di pietra bianca, ricoperta di alberi e cactus.
«La c’era la tana del leone». Indicano una grotta nella roccia. In realtà, qui non ci sono leoni. Si riferiscono ai giaguari, endemici nel bosque seco chiquitano. I giaguari stanno scomparendo man mano che la foresta si restringe: tra il 1986 e il 2019 è diminuita del 16%, circa 5 milioni di ettari; gli incendi del 2019 hanno distrutto due milioni di ettari. La Bolivia è il terzo paese con il più alto tasso di deforestazione al mondo. Essa si concentra a Santa Cruz, dove la frontiera agricola si espande per sostenere la produzione di soia. Furono proprio i mennoniti, negli anni Novanta, a inaugurare la coltivazione della soia boliviana. Oggi ne producono circa il 16% disboscando fino al 90% delle loro aree: è il tasso di deforestazione più alto di qualsiasi altro tipo di produttore nazionale. Ed espandono le loro terre di circa 80mila ettari all’anno. Se la tendenza fosse confermata, potrebbero occupare un terzo della superficie coltivata della provincia di Santa Cruz, come ci ha spiegato Gonzalo Colque, ricercatore della Fundación tierra.
Il sole è brutale, c’è silenzio sulla collina di pietra bianca, tutt’intorno si vede il tetto del Bosque chiquitano. Il giovane Abram si arrampica agilmente su un albero e fa piroette tra i rami.
Abram, 17 anni, che sogna di viaggiare, che sa come vendere agli sconosciuti, che si esercita come un ginnasta professionista, ha il germe della curiosità nel sangue. E ha già capito che c’è un mondo fuori da questo XVI secolo in cui ci siamo incontrati.
Dopo la cena a casa di Martin andiamo a dormire in una costruzione accanto alla casa. Di notte, nel silenzio della campagna, si leva il canto delle tre figlie di Martin, un canto religioso. Fino a quel momento non avevamo sentito le loro voci.
Il giorno dopo Martin ci accompagna nel quartiere vicino, San Cristóbal. Va a trovare un altro figlio, approfitta del passaggio in jeep e ci indica la strada. In mezzo al bosco si apre una radura.
«Qui c’erano le piste d’atterraggio degli aerei del traffico di droga».
Durante il viaggio accidentato in fuoristrada, la conversazione finalmente scorre.
«Deve essere interessante viaggiare per conoscere. I nostri antenati venivano dall’Europa, non credo di poter andare a vederla, l’Europa».
«Festeggiate il Natale, i compleanni, i matrimoni?».
«Non celebriamo la nascita di Cristo ma la sua sofferenza. Figurati se festeggio il mio compleanno».
Storia delle donne di Manitoba
Ci spostiamo a Manitoba. Questa colonia mennonita è stata fondata nel 1993, oggi ci vivono 1.794 persone: 340 famiglie divise in quindici campi distribuiti su 22mila ettari. In ogni campo una chiesa e una scuola.
I carri hanno ruote in gomma, per l’elettricità vengono utilizzati generatori diesel. Le strade diritte e non asfaltate, le case spaziose con cancelli di legno, tetti di lamiera, i pascoli curati, i silos dipinti di fresco, ci dicono che ci troviamo in una colonia ricca. I recinti ai giardini e i lucchetti alle porte dicono invece che siamo arrivati nella prima fase del capitalismo, quella che ha bisogno di delimitare perché si possa dire «questo è mio».
Qui, tra il 2005 e il 2009, centocinquanta donne e ragazze denunciarono di essere state vittime di stupro. In un primo momento, la comunità spiegò alle autorità di polizia che che si trattava di «selvaggia fantasia femminile» o, più probabilmente, della punizione del diavolo per alcuni dei loro peccati. Le donne non si arresero e riuscirono a dimostrare la verità: erano state drogate con anestetici per cavalli prima di essere violentate da un gruppo di mennoniti della colonia, parenti delle vittime, zii, fratelli o vicini di casa. Le donne dovettero affrontare uomini violenti, una morale che le costringeva al silenzio, e lo Stato boliviano che non si era mai occupato di far rispettare le leggi all’interno delle colonie. Otto mennoniti di Manitoba sono stati giudicati colpevoli con condanne tra i 12 ei 25 anni di carcere.
Allontanare i «brutti pensieri»
La casa di Don Juan si trova accanto alla sua officina metallurgica, dove vengono prodotti macchinari agricoli, trattori e aratri. Sono pezzi unici realizzati a partire dai suoi disegni. Gli ordini superano la produzione e si deve sempre aspettare un po’ per la consegna.
«Ma bisogna migliorare e lavorare, altrimenti i giovani si perdono in brutti pensieri», racconta Don Juan.
L’uomo ha circa 60 anni e vive con la moglie, le figlie e i nipoti. Le donne di casa indossano abiti a due o tre colori, con sobri decori floreali, non si depilano le gambe e hanno i fianchi larghi.
Quando Fabiomassimo mostra loro le foto che gli aveva scattato nel 2020, la barriera della diffidenza crolla e tutti accorrono in fretta a guardare le stampe. Nella casa ci sono due frigoriferi giganti, nella sala da pranzo tre statue kitsch in ceramica dai colori pastello: un pappagallo, un cane, un’aquila. Da un sacchetto pieno di oggetti sbuca anche un grattaschiena in plastica color salmone.
Un genero di Don Juan gioca con un bambino e il suo trattore in miniatura. A cena la sala si illumina con lanterne elettriche, si mangiano hamburger con salse, zuppa di pasta e gelatina per dessert.
Rispetto a San Miguel, nella colonia di Manitoba aumenta la tecnologia, la ricchezza e le recinzioni che la proteggono. E anche la varietà della cucina, dell’abbigliamento e dei sorrisi tra genitori e figli sono maggiori.
Pesticidi e tumori
Anita, sei anni, siede sulle ginocchia del nonno, Don Juan. «Anita lava la tina» (la vasca, in spagnolo) scrive il nonno e la invita a leggerlo al contrario. Anita vive con i nonni perché i suoi genitori sono all’ospedale oncologico di Santa Cruz per assistere sua sorella Eva, malata di leucemia.
Tra i mennoniti si registra un aumento dei tumori, in particolare dei tumori alla pelle e alle vie respiratorie, che sembra legato all’uso di prodotti agrochimici, anche se non esistono ancora prove scientifiche che lo dimostrino, chiarisce Gonzalo Colque, il ricercatore della Fundación Tierra.
Ciò che sembra certo è che i mennoniti non hanno chiari i rischi associati all’uso di prodotti agrochimici, che di solito applicano senza utilizzare protezioni.
«Portatemi al negozio di veleni», ci chiede Don Juan, indicando la nostra jeep. Il magazzino è un grande edificio recintato, con muri di mattoni rossi. Ci sono tonnellate di prodotti chimici per l’agricoltura, sementi geneticamente modificate, macchinari agricoli. Tutto importato. Sul muro di mattoni, un gancio per cavallo.
A Manitoba la modernità dell’agroexport di Santa Cruz convive con il desiderio dei mennoniti di vivere isolati dal mondo.
Jacob, la fede senza rinunce e tristezza
Se la colonia San Miguel rappresenta il tentativo radicale di replicare lo stile di vita di Menno Simons del XVI secolo, la colonia Nuevo Horizonte, dove arriviamo, è l’estremo opposto: 4.400 ettari, 60 famiglie, 300 persone, le strade sterrate hanno le rotonde, i cartelli indicano viale Menno e via Lutero, ci sono cartelli stradali e una pubblicità della Coca-Cola. I mennoniti vestono con jeans e camicia, nessuno indossa cappello di paglia o salopette e si spostano in automobile. Se non ce lo avessero detto, ci sarebbe sembrato di arrivare in una colonia agricola di europei biondi. Nell’emporio della colonia una telecamera punta verso la porta principale e un cartello avverte «Non masticare coca», la foglia della pianta che molti boliviani lasciano macerare in bocca. Jacob Peter, 37 anni, ci accoglie nel suo ufficio al primo piano del magazzino, seduto dietro un computer.
«La Bibbia ci insegna che abbiamo la libertà in Gesù Cristo, non ci dice come dobbiamo essere. Questa colonia è nata con l’idea di fare qualcosa di diverso. Viviamo una vita centrata sulla fede, non sulla rinuncia. Rispetto agli altri mennoniti, abbiamo anche un modo diverso di lavorare, abbiamo fondato un’associazione dotata di personalità giuridica. Guardiamo al futuro, vogliamo che i nostri figli studino per progredire. Vogliamo essere un esempio per gli altri mennoniti, per mostrare loro che è possibile vivere una vita non così sacrificata, che la tecnologia facilita il lavoro, che non è obbligatorio essere tristi. Ho tre figli, le famiglie qui da noi hanno meno figli che nelle colonie tradizionali, dove ce ne sono anche quindici per famiglia».
Jacob ha vissuto fino all’età di 27 anni nella colonia Las Brechas. A 14 anni aveva cominciato a bere, lo faceva di nascosto e aveva continuato fino a diventare alcolizzato. Poi era andato in un centro di riabilitazione.
«È lì ho che incontrato davvero Gesù e la mia vita è cambiata. Quando sono tornato nella colonia Las Brechas ho cercato di spiegare al pastore cosa mi era successo ma non riusciva a capire. Una domenica sono stato espulso dalla chiesa e il lunedì successivo nessun paziente si è presentato nel mio studio di dentista. Mi hanno isolato. Ecco perché sono venuto qui».
Ci porta a fare un giro per Nuevo Horizonte con la sua 4×4. «Qui la terra costa 1.600 dollari per ettaro. Nella zona urbana della colonia, non viene coltivata la soia né è consentito l’allevamento del bestiame».
Nell’abitato spiccano la scuola chiesa, alcune case e qualche silos, ma se non fosse per l’indicazione di Jacob, la differenza con il resto della colonia non si noterebbe. L’auto rallenta a un incrocio: «Ci sono già stati due incidenti stradali qui». Tra me e me penso: chissà come sarebbe una rissa stradale tra mennoniti.
Una scuola diversa
Superiamo incolumi l’incrocio e parcheggiamo davanti ad un edificio moderno con il tetto di lamiera. «Questa è la scuola. Abbiamo insegnanti di spagnolo, tra i docenti ci sono sei mennoniti e un tedesco. Le lezioni sono in spagnolo e tedesco, non in plauditesch. Si insegnano matematica, scienze naturali e musica, si studia dai cinque ai 18 anni. I miei figli devono avere la possibilità di studiare, di essere architetti, ingegneri o medici, qualunque cosa vogliano. Immaginiamo che debbano studiare all’università a Santa Cruz, vivendo in una casa con altri mennoniti, per proteggersi dai pericoli del mondo».
Ci mostra il libro di scienze naturali Las meravillas del mundo sostenido por Dios (Le meraviglie del mondo sostenuto da Dio) di Vara y Cayado, una casa editrice religiosa con sede negli Stati Uniti che distribuisce «testi scolastici con un approccio cristocentrico». Nel corridoio c’è una mappa della Bolivia: è la prima che vediamo nelle colonie che abbiamo visitato.
Accanto alla scuola chiesa ci sono un campo da calcio e due da pallavolo. «La domenica ci incontriamo qui dopo la messa, le donne cucinano, facciamo sport e musica. Qui c’è un matrimonio misto, un mennonita con una donna boliviana, hanno già dei figli. Non vedo i matrimoni misti come una cosa negativa, ma penso che la vita di una coppia con culture così lontane sia difficile», dice Jacob.
Se i figli di Jacob diventeranno medici e andranno a lavorare in città, se la comunità si aprirà al matrimonio misto, cosa accadrà ai mennoniti di Santa Cruz tra tre generazioni? «Solo l’isolamento garantisce di mantenere intatta l’identità, come sanno i pastori che vietano l’insegnamento dello spagnolo e autorizzano solo la lettura della Bibbia».
Pedro, il farmacista
Las Brechas costituiscono un gruppo di colonie nate alla fine degli anni Sessanta fondate da mennoniti provenienti dal Messico. Usano generatori diesel, ma non usano pneumatici.
Quando vai a Las Brechas ti chiedono: che numero? Andiamo a Las Brechas 8 per incontrare Pedro Peter, un uomo sulla settantina, padre di Jacob di Nuevo Horizonte.
Pedro è il farmacista (ma anche dentista) della colonia. Ci riceve nel suo studio, al quale si accede attraverso la sala di un emporio che vende tele monocrome, attrezzi agricoli e saponi. Al centro del suo ufficio si trovano una sedia con poggiatesta che usa per le visite e due scrivanie. Negli armadietti c’è una confezione di Viagra, integratori alimentari, un ossimetro, un cubo di Rubik. «Lo risolvo in meno di tre minuti», dice con un sorriso soddisfatto.
Ci sono pile di libri, riviste, giornali ingialliti. Ci mostra alcuni titoli: «Perché gli uomini hanno i capezzoli?», «Il diritto alla sessualità maschile» (sottotitolo: «Cosa fare quando senti di perdere la capacità sessuale?»); «Abbi cura di te. I risultati sorprendenti della nutrizione orto molecolare».
Su una lavagna, una frase in tedesco: «Una vita senza amore è una tavola apparecchiata con i piatti vuoti».
«Ho imparato lo spagnolo da solo quando avevo 12 anni. Leggevo i fumetti di Condorito, mio padre aveva dei libri a casa e da bambino leggevo come un matto, mi isolavo per leggere. A volte leggo romanzi, ma soprattutto libri di medicina. Leggo in tedesco, spagnolo, un po’ di portoghese e libri di medicina in inglese. Sono sempre tentato nel comprare libri. Quando ne vedo uno sul pensiero positivo non posso resistere. Ho due enciclopedie che utilizzo per parole che non conosco.
I mennoniti non sono interessati alla lettura. Non sono incoraggiati a scuola. Insegnano loro solo a lavorare e a pregare». Lo dice come se parlasse di una comunità alla quale non appartiene.
«I pastori decidono cosa viene insegnato a scuola. E gli insegnanti insegnano ciò che hanno imparato, nel modo in cui è stato loro insegnato. Non sanno nient’altro.
Dovrebbero insegnare lo spagnolo a scuola, anche alle donne. Nel mio studio, alle donne che vengono in gravidanza, dico “andate dal ginecologo, fatevi controllare”. Mi piace il modello della colonia di mio figlio, Nuevo Horizonte. Ma qui a Las Brechas non posso dirlo. Guarda, questo è il mio diario. Scrivo gli avvenimenti principali di ogni giornata. Guarda qui – dice Pedro rivolgendosi a Fabiomassimo -, ho scritto che sei già venuto a trovarmi nel 2020».
«Ti senti più boliviano o più mennonita?», chiedo.
«Mi sento boliviano e mennonita, entrambe le cose. Prima ci riconosciamo come mennoniti e solo successivamente come mennoniti del Paraguay o del Messico».
«Che posto nel mondo ti piacerebbe visitare?».
Silenzio. È un silenzio fruttuoso, Pedro chiude le labbra per pensare alla risposta.
«Le cascate! Vorrei andare a Iguazú. Ma non ho tempo, ho molti pazienti qui. E devo prendermi cura di mia moglie che è malata».
Juan: «Il mondo è pericoloso»
A Las Brechas ci hanno detto che vive un mennonita che ha lavorato per un decennio come guida, accompagnando altri mennoniti in un viaggio di duemila chilometri fino a un ospedale oncologico a San Paolo, in Brasile, che offriva cure a un prezzo inferiore rispetto alla Bolivia. Juan Hildebrand ci accoglie nel patio di casa sua, affacciato su un giardino con carrubi e galline che razzolano tranquillamente.
«Non era un buon lavoro. Troppo tempo lontano dalla famiglia. Non ho insegnato il portoghese ai miei figli, non voglio che facciano il mio stesso mestiere».
Juan però guadagnava abbastanza per non coltivare la terra. Lavorava molto, accompagnava tante persone in Brasile, faceva fino a sei viaggi in un anno.
«Il mondo è pericoloso – ci spiega -. Se la colonia cambia, noi ce ne andiamo. Stiamo già vedendo diversi segnali di cambiamento, cose che non mi piacciono. Mio figlio è uno degli otto leader che si riuniscono nel consiglio dei capi delle colonie a Santa Cruz, è il rappresentante di Las Brechas. Qui non insegniamo lo spagnolo per non avere troppi contatti con il mondo, la lingua è la porta perché le cose cambino. E non voglio che cambino. I mennoniti di San Miguel sono radicali, ma li rispetto. Loro li riconosci dalla barba».
Con la mano fa un gesto per indicare le barbe lunghe e incolte che abbiamo visto a San Miguel.
«Quegli altri, quelli di Nuevo Horizonte, si riconoscono dai loro vestiti, non usano la salopette. Ma sono di un’altra religione. Jacob, il figlio del farmacista Pedro Peter, ha abbandonato la nostra religione. Non posso dire che pecchino, ma secondo me non andranno in paradiso. La Bibbia è la verità. Io ci credo».
Juan Hildebrand ha adottato una ragazza orfana:
«Il loro padre era un alcolizzato, è stato assassinato dalle prostitute, la comunità si è presa cura dei suoi figli. I bambini li devi punire, per evitare le tentazioni», dice chiarendo la sua idea di educazione paterna.
Storia dei fratelli Jacob, artigiani
Parcheggiamo la jeep nel giardino della casa del pastore in Las Brechas 9. Lui non si fa vedere, manda i suoi figli a dirci che è occupato, non vuole riceverci nemmeno più tardi. È così che guida la comunità, rifiutandosi di vedere il mondo.
«Allora, adesso andiamo a visitare i fratelli anarchici della colonia – suggerisce Fabiomassimo. Hanno dei pannelli solari nascosti sul tetto, per non essere scoperti e costretti a rimuoverli». Devia la macchina e si dirige verso una grande casa.
Pedro Jacob, il fratello maggiore, ha un magazzino dove lavora marmo e granito. Produce piani di lavoro per cucine e bagni, e tavoli. Ha 29 anni, occhi azzurri, mani grandi, è bassino con spalle larghe, capelli neri ricoperti di polvere. Non indossa la salopette, ma pantaloni neri, una camicia bianca con strisce azzurre e bretelle bianche e rosse.
«Ho imparato questo mestiere da solo, prima lavoravo la terra, da quattro anni mi dedico a questo».
Ci mostra le sue macchine da lavoro: una per tagliare il marmo in linea retta, l’altra serve per eseguire tagli concavi. Le ha inventate e costruite lui stesso, «perché in Bolivia non si trova nulla».
Per realizzare i tagli concavi utilizza una macchina sulla quale ha installato dei tubetti di plastica che schizzano acqua, per abbassare la temperatura e controllare il turbinio della polvere.
«In Europa rideranno di questa macchina», dice con un po’ di vergogna.
Pedro Jacob ha più richieste di quante ne possa soddisfare. Non vuole assumere più persone ma vorrebbe aumentare il parco macchine. Gli serve un tetto più grande e una gru, ma ha bisogno di soldi che non ha.
«Le banche mi offrono credito, ma io non voglio rischiare», ci dice mentre continua a lavorare.
Il figlio di sette anni gli porge una chiave inglese senza che il padre debba chiedergliela.
Juan Jacob, il fratello minore, vive nel terreno adiacente. Ha 26 anni e tra pochi mesi diventerà padre. Nel suo laboratorio costruisce mobili: acquista compensato e tavole di legno. Ha una macchina italiana che taglia le assi, l’ha adattata alle sue esigenze. Un’altra mette una patina di vernice bianca sui mobili. Il fratello maggiore gli fa notare un’imperfezione sull’anta di un armadio.
Lui ci mostra il suo allevamento di polli. Seimila volatili, divisi in due gabbie tra maschi e femmine. Mangiano un composto che li fa ingrassare velocemente, più ne mangiano, più hanno fame. Sono le sei e mezza, ora del tramonto. Juan accende dei neon bianchi per illuminare le gabbie. «Così non distinguono il giorno dalla notte e continuano a mangiare».
Ha acquistato pulcini da 40 grammi e dopo sette settimane con questo regime arrivano a pesare 2,5 chili e sono pronti per il macello.
«Ma noi non li mangiamo, sono solo per la vendita», chiarisce.
Mostro ai due fratelli il video che ho registrato a casa di Cornelius nella colonia San Miguel, con i cavalli che si muovono in tondo per azionare la ruota che macina il grano.
«Poveri animali. E che spreco di tempo!».
Ridono i due fratelli.
Federico Nastasi
Una storia svizzera e olandese
Dai protestanti agli anabattisti
L’ epoca della riforma protestante (1517) è segnata da conflitti politici, sociali e religiosi. In questo contesto, gli «anabattisti» (da anabattismo, «immergere di nuovo», «ribattezzare») emersero come una corrente radicale che rifiutava i compromessi fatti dai leader riformatori, come Lutero, con la Chiesa tradizionale e i governanti. Questo gruppo riteneva che il battesimo amministrato ai bambini fosse invalido e, pertanto, lo prevedeva soltanto per adulti capaici di libero arbitrio e moralmente retti. Questa scelta li portò a essere perseguitati e chiamati dispregiativamente «anabattisti» dalle autorità ecclesiastiche e statali. La persecuzione degli anabattisti fu particolarmente brutale in Svizzera, dove molti leader furono giustiziati o mandati in esilio. Questo portò alla dispersione del movimento, ma rafforzò anche la solidarietà tra i suoi seguaci.
Nel 1536, il prete cattolico olandese Menno Simons lasciò la Chiesa e divenne leader delle giovani comunità anabattiste ribelli del Nord. Personaggio carismatico e predicatore rispettato, nel 1539 pubblicò il suo «Libro dei fondamenti» che divenne – insieme ai «Sette articoli di Schleitheim» – una sistematizzazione dottrinale della nuova Chiesa. Sulla base della diffusione dei «Fondamenti», nonché del vasto lavoro del predicatore Menno, il movimento ricevette il nome di mennoniti.
A causa delle persecuzioni, fin dall’inizio della loro storia, i mennoniti furono costretti a fuggire. La maggior parte cercò rifugio in territori con governanti tolleranti all’interno dell’Impero germanico. Tuttavia, a partire dal XVI secolo, le migrazioni iniziarono in tre direzioni principali: verso il Nord America, verso l’Europa orientale (Prussia, Polonia e Russia) e dall’Europa orientale verso il Nord, il Centro e il Sud America. Queste migrazioni, inizialmente spontanee, divennero imprese collettive più organizzate a partire dal XVIII secolo. Sorsero le prime colonie mennonite, unità socio-religiose contadine.
Secondo i dati della Conferenza mondiale mennonita, nel 2022, esistevano 109 chiese nazionali e un’associazione internazionale mennonita. Della popolazione totale registrata, il 56% è originario dell’Africa e dell’Asia. Il secondo posto è occupato da Stati Uniti e Canada, con il 30%, divisi più o meno equamente tra mennoniti «moderni» integrati nella società e agricoltori tradizionali. I paesi d’origine, Svizzera, Olanda e Germania, ospitano meno del 3% della popolazione mennonita totale. La popolazione dei coloni in America Latina rappresenta poco meno del 10% del totale.
Fe.N.
Anno 1527, le sette regole e il sermone
Essere anabattisti
Sono sette le regole fondamentali degli anabattisti e sono note come «articoli di Schleitheim» dal nome della località svizzera (Canton Sciaffusa) dove il 24 febbraio del 1527 vennero sottoscritti. Essi rappresentano il primo credo del movimento mennonita che, pur evolvendosi nel tempo, trova in essi la propria Magna carta. In sintesi, essi trattano di:
Battesimo – Solo per gli adulti coscienti. Nessun battesimo per i bambini perché non hanno ancora coscienza del bene e del male e quindi del peccato. Per questo non trarrebbero alcun vantaggio dal battesimo.
Scomunica – La disciplina interna delle comunità mennonite prevede l’espulsione in caso di reiterata e accertata violazione delle norme (errori o peccati) da parte di un membro.
Cena del Signore – Solo ai credenti battezzati è permesso di partecipare alla Santa Cena del Signore.
Separazione dal mondo – Dio ci esorta a uscire da Babilonia e dall’Egitto. Pertanto, è richiesta una vita separata dal mondo rifuggendo la partecipazione a qualsiasi tipo di istituzioni politiche, sociali e religiose.
Pastori – Ogni comunità elegge un proprio pastore, che legge le Scritture, insegna, ammonisce, spezza il pane.
Non resistenza – La spada è bandita. È respinto ogni tipo di violenza perché «non bisogna resistere al male». È escluso, di conseguenza, ogni servizio militare.
Giuramento – Cristo vieta qualsiasi giuramento ai suoi discepoli. Cristo è semplice: sì o no. Tutti quelli che lo cercano con semplicità, intenderanno la sua parola. Non è, pertanto, consentito alcun giuramento verso qualsiasi autorità civile o religiosa.
Gli articoli esprimono quanto il movimento si fondi non solo sulle sacre scritture in generale, ma in particolare sul «Sermone della Montagna» del Vangelo di San Matteo letto come un’esortazione alla buona condotta quotidiana: ricerca della giustizia, purezza di cuore, amore verso i nemici e, soprattutto, predisposizione alla sofferenza.
Fe.N.
Pacifismo radicale e fuga dal mondo
La scelta mennonita
Fin dalla loro nascita, in Europa occidentale, intorno al 1525 come corrente radicale nel mondo protestante, gli anabattisti sono stati perseguitati dalle chiese ufficiali e dai decreti governativi. Alla violenza, rispondono con la fuga. Pacifisti radicali, non usano violenza nemmeno per difendersi. Fuggono alla ricerca di posti più tranquilli.
Credono nel battesimo degli adulti e nell’isolamento dal mondo, dove il peccato si nasconde sotto ogni pietra. Non partecipano alla vita politica né hanno una gerarchia ecclesiastica: i pastori sono eletti dalla comunità. Ma la reputazione di agricoltori disciplinati e versatili interessa i governi che vogliono colonizzare terre vergini. Così è successo in Polonia nel XVIII secolo, quando il re li invitò a stabilirsi nelle paludi del fiume Vistola. Oggi qualcosa di simile accade in alcune zone della foresta amazzonica peruviana. In cambio, i mennoniti chiedono di poter vivere secondo i loro principi e firmano accordi con gli Stati ospitanti per garantire quelli che chiamano privilegi: non votare, non pagare le tasse, libertà di insegnamento ed esenzione dal servizio militare.
Oggi la corrente anabattista dei mennoniti conta circa 1,5 milioni di fedeli presenti in 80 paesi. Le migrazioni l’hanno portata dalla Svizzera, dall’Alsazia e dal Sud Ovest della Germania, a passare, con il tempo, attraverso l’Olanda, per stabilirsi in Russia su invito della zarina Caterina II, attraversare la Cina, coltivare le terre del Canada e del Messico dopo la rivoluzione del 1920, sostenere la colonizzazione del Chaco in Paraguay e, infine, raggiungere anche le pianure della provincia di Santa Cruz in Bolivia negli anni Cinquanta. I mennoniti boliviani discendono dagli «Altkolonier», la corrente più conservatrice nata in Russia alla fine del XVIII secolo, che rifiutano l’uso della luce elettrica, degli pneumatici e dell’istruzione pubblica. Gli Altkolonier si sono sparsi nel mondo secondo una dinamica tipica dell’espansione mennonita: quando le controversie dentro la comunità diventano irrisolvibili, la comunità si divide. L’altro motore dell’espansione è garantire la terra ai tanti figli che le famiglie mennonite mettono al mondo.
Fe.N.
A Santa Cruz, conservatori e autonomisti
Bolivia, «Collas» contro «Cambas»
Il latte, i raccolti, gli animali di San Miguel e delle altre decine di colonie vengono venduti al mercato agrario di Santa Cruz. Tutti contribuiscono al settore agricolo della provincia orientale della Bolivia. La produzione di Santa Cruz rappresenta la metà della produzione agricola nazionale. Il modello, implementato dai governi neoliberisti del XX secolo e sostenuto dal capitale straniero e dalla Banca mondiale, è concepito per l’esportazione. Un prodotto più di ogni altro rappresenta il modello di agroexport: la soia. Nella provincia ci sono un milione e quattrocentomila ettari coltivati a soia, dieci volte la superficie di Città del Messico. Il 99% della soia boliviana viene prodotta a Santa Cruz. Questo legume e i suoi derivati rappresentano l’11% delle esportazioni totali del Paese. E furono i Mennoniti, negli anni Novanta, a inaugurare la coltivazione della soia boliviana, oggi ne producono circa il 16%. Il resto è prodotto da imprenditori brasiliani e nazionali.
Nei duemila ettari dell’azienda «La Morita» ci sono campi di soia, ordinati, identici tra loro, e qualche mucca da carne. Il proprietario, Esteban, 33 anni, arriva con un aereo privato e subito sottolinea la sua appartenenza: «Qui siamo discendenti degli europei».
È di origine italiana e sua madre aveva sangue camba, gli indigeni delle pianure boliviane. È alto, capelli neri con i primi fili bianchi, camicia di marca, jeans e scarponcini da trekking, robusto, spalle larghe, sicuro di sé. Ha studiato all’estero, ci tiene a farlo sapere, usa parole in inglese e portoghese. «Perfetto!», dice con entusiasmo prima di rispondere a ogni mia domanda, usa modi amichevoli per dimostrare la sua autorità. Ci porta a fare un giro tra i campi, ci fermiamo davanti a un campo di soia.
«Ruotiamo le colture, facciamo tre raccolti all’anno. Nelle pause mettiamo il bestiame, per smuovere la terra. Non facciamo monocolture e lasciamo il 40% della superficie boschiva, ci protegge naturalmente dal vento, dal gelo e da alcuni insetti, lo facciamo perché è conveniente. E ovviamente – lo dice per ultimo e suona come qualcosa da non dimenticare – per difendere l’ambiente. Io sono la quinta generazione di agricoltori in Bolivia. Voglio che mia figlia, che ora ha tre anni, possa lavorare questa terra.
Non tutti sono come noi. Gli estrattivisti puntano alle produzioni a breve termine. Se ci sono aree abbandonate, vengono utilizzate solo per assegnarle a persone legate a un partito politico. Vedi quella terra laggiù? Il governo l’ha affidato a una comunità indigena dei Collas, lasciano la terra improduttiva. Guarda quella cisterna, deve avergliela data una Ong, non c’è nemmeno un pozzo».
Si riferisce, senza citarlo, al progetto del governo Mas per favorire la migrazione dei contadini colla, popolazione indigena delle montagne, verso la provincia orientale.
Il giudizio sul governo del Mas, il risentimento del proprietario terriero di quinta generazione, fanno parte delle fratture Est Ovest, pianura montagna, e dell’antagonismo tra gli indigeni dell’altopiano, i Collas, con gli abitanti della Bolivia orientale, i Cambas.
Santa Cruz è il bastione conservatore della Bolivia. Con i governi Mas, le spinte autonomiste sono aumentate. Nel dicembre 2022 è stato incarcerato il governatore del dipartimento, Luis Fernando Camacho, leader religioso e di destra, che è diventato l’antitesi del Mas e di Evo Morales e ha infiammato le manifestazioni di piazza del 2019, alimentandole con promesse di autonomia dal potere centrale di La Paz, la capitale costruita a 3.600 metri sulle Ande, la più alta del mondo.
Camacho è stato accusato di aver pianificato il colpo di stato che ha deposto il governo di Evo Morales. La popolazione di Santa Cruz è scesa in piazza, ha bloccato l’aeroporto e ha bruciato edifici pubblici per chiedere la liberazione del leader cruceño da quello che considerano un sequestro. Nel mercato cittadino, un diavolo dipinto su un muro dice «Arce, ti cerco, assassino», in riferimento all’attuale presidente della Bolivia ed esponente del Mas, Luis Arce.
Fe.N.
Donne che parlano
Un libro, un film
La brutta storia delle donne mennonite di Manitoba è stata raccontata nel libro «They speak» (Donne che parlano, nella traduzione italiana del 2018) di Miriam Toews e nell’omonimo film («Women talking») del 2022, con due nomination agli Oscar.
Hanno firmato il dossier:
Federico Nastasi
Ricercatore e giornalista indipendente. Collabora con El Pais, l’Espresso e il Manifesto. Attraverso periodi trascorsi sul campo, ha raccontato i principali avvenimenti politici latinoamericani recenti (in Uruguay, Cile, Ecuador e Brasile). È con MC da marzo 2021.
Fabiomassimo Antenozio
Fotografo romano con la passione per il reportage. Nel 2013 e 2014 i primi viaggi in Bolivia, in particolare nelle regioni dello Yungas, Potosì e La Paz. Il suo progetto fotografico «Verde mennonita» è arrivato secondo a Portfolio Italia 2023 Fiaf, inserito nel festival ReWriters, e ha ricevuto la menzione d’onore al Prague Photo 2023. Inoltre, è stato pubblicato su El Pais Semanal e online su TravelGlobe e Berlino Magazine.
A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC (cfr. Lontani dal mondo, Viaggio tra i mennoniti, MC maggio 1999).
Fonti principali
Adalberto J. Kopp, Las colonias menonitas en Bolivia: antecedentes, asentamientos y propuestas para un diálogo, La Paz, Fundación Tierra, 2015; Mennonite world conference: mwc-cmm.org; Fundación Tierra: www.ftierra.org.
Il sogno dello sciamano
Il sogno è difendere l’Amazzonia e i suoi popoli nativi. Senza farsi illusioni: cambiare una condizione sedimentata nei secoli e portata avanti dal potere dei bianchi è una lotta lunga, complicata e lastricata di speranze e sconfitte. Eppure, Davi Kopenawa Yanomami non si arrende.
Pian del Cansiglio (Belluno). La nebbia mattutina d’inizio aprile viene dissipata dai primi raggi del sole. Poco dopo, l’altopiano si mostra nella sua veste migliore: aria fresca, colori e il silenzio della natura. Attorno si apre la foresta – dicono sia la seconda d’Italia per estensione – e in lontananza si stagliano le montagne ancora innevate. L’ospite – Davi Kopenawa Yanomami – apprezzerà?
Lui arriva al tavolo della colazione preparata dalla signora Franca, la gestrice del rifugio Vallorch, indossando jeans, felpa blu e scarpe da ginnastica. Un abbigliamento che ci aiuta subito a vedere le cose nella giusta prospettiva. Troppo spesso, infatti, nella nostra testa ecomiti e stereotipi occidentali resistono come licheni sulla roccia. Mai dimenticare che un indigeno rimane tale anche se usa il cellulare, il computer o se gioca a calcio, come ricorda una preziosa campagna di sensibilizzazione – Menos preconceito mais índio (Meno preconcetti, più indigeni) – dell’Instituto socioambiental (Isa), trent’anni compiuti proprio quest’anno.
Al suo quarto viaggio in Italia, Davi è arrivato assieme a Carlo Zacquini, missionario della Consolata che con lui ha attraversato oltre mezzo secolo di lotte indigene condividendo speranze, vittorie e sconfitte.
Ovviamente, quella del Cansiglio non è la foresta amazzonica, e il rifugio Vallorch non è la casa comune di Watoriki, l’aldeia di Davi. Premesso questo, il leader degli Yanomami ha trovato qui un ambiente più familiare al suo e, comunque, certamente migliore rispetto a quello offerto da una città e da un albergo. Un’idea originale – oltre che un simbolico gemellaggio tra due foreste – uscita dal cappello degli organizzatori de «Il Mondo di Tommaso», la vitalissima associazione di Vittorio Veneto che ha portato in Italia i due ospiti.
Raccontare gli Yanomami: da Cannes al Giappone
A tavola chiediamo a Davi se sia contento di viaggiare, di essere qui. «Più o meno», risponde con disarmante sincerità e con il suo consueto, tranquillo sorriso. Precisa: «Lo faccio per la causa del mio popolo».
Il suo libro A queda do ceu (La caduta del cielo) è stato tradotto in più lingue e adottato in molte facoltà universitarie. Da esso è stato tratto un documentario selezionato per il festival di Cannes 2024. Eppure, tutto ciò non basta: la realtà rimane complicata, drammaticamente complicata. Gli Yanomami del Brasile (ma la situazione è identica anche per quelli del Venezuela) stanno conoscendo anni molto difficili che possono mettere a rischio la loro stessa sopravvivenza come popolo indigeno autonomo e orgoglioso.
È una crisi dalle molte facce, tutte feroci e tutte tra loro collegate: sociale, sanitaria, ambientale, climatica. Per questo Davi non vuole tirarsi indietro. Pur avendo una moglie (Fatima) e cinque figli (Dario, Guiomar, Denisi, Tuila e Vitorio), continua a girare il mondo – dopo questo viaggio in Italia (con il clou di un incontro privato con papa Francesco) partirà subito per il Giappone – per perorare la causa degli Yanomami e dell’Amazzonia.
La maledizione dell’oro
Dopo colazione, ci incamminiamo verso il massiccio del monte Cavallo, ancora innevato (la cima supera di poco i 2.200 metri). La cosa che più attrae Davi è proprio la neve, l’unico elemento veramente nuovo rispetto all’ambiente amazzonico dal quale lui proviene.
«Mi piace questa foresta – dice mentre camminiamo lungo i sentieri -. Io non sono nato in casa, sono nato in foresta. Per questo è mia sorella».
Nulla di strano in queste parole: nella visione indigena, la foresta è viva, gli alberi sono vivi. E gli sciamani sono il tramite tra gli uomini e gli spiriti della foresta.
«Sì, mi piace – ripete Davi -. Anche se, a differenza della nostra, non è nativa ma piantata. Anche gli alberi sono differenti». E, vedendo gli abeti, aggiunge: «Pure le foglie sono diverse. Queste sembrano capelli» (riferendosi agli aghi). Quando passiamo a camminare su un tratto di sentiero pavimentato, Davi osserva con un sorriso: «Questo è il vostro “garimpo”».
Da tempo garimpos (miniere) e garimpeiros (minatori) sono l’ossessione di Davi Kopenawa. Perché rappresentano – con ragione – il peggio dell’uomo bianco: la violenza verso madre natura e i popoli indigeni.
L’invasione è dovuta alla ricerca dell’oro, che – purtroppo – è presente in abbondanza come già avevano scoperto i conquistatori spagnoli e portoghesi.
I garimpeiros cominciarono ad arrivare negli anni Settanta, quando iniziò la costruzione della Perimetral Norte (o strada federale Br-210, mai completata) e Davi era un bambino.
Con il ritorno di Lula alla presidenza del paese, gli invasori sono diminuiti di oltre il 60 per cento, ma ne rimangono almeno altri settemila (e molti altri sono pronti a entrare o rientrare nel territorio yanomami). L’ultima operazione militare allestita per cacciarli – chiamata Operação Catrimani II – ha avuto luogo in aprile.
Davi riconosce il ruolo positivo del presidente: «Lula è una buona persona, però è solo». La solitudine è dovuta a un Congresso brasiliano dominato da uomini dell’ex presidente Jair Bolsonaro, nemico dichiarato dell’Amazzonia e dei popoli indigeni.
Oggi il mercurio si acquista su internet
Lo sciamano yanomami amplia il concetto di garimpeiros. Spiega: «Io considero garimpeiro anche chi compra l’oro dai garimpeiros e chi nei paesi dei bianchi lo vende». Purtroppo, la realtà racconta che la domanda di oro non pare destinata a ridursi visto che è considerato un bene rifugio e il prezzo dello stesso rimane molto alto (attualmente, oltre 70 euro al grammo).
Davi passa a elencarci tutto ciò che il garimpo porta con sé: «Si mettono sui fiumi con draghe e motori. Poi hanno bisogno di combustibile, cibo e alcol, mezzi di trasporto, armi da fuoco per sparare agli indigeni. Hanno schermi televisivi e soprattutto hanno internet».
Non sono esagerazioni di una vittima arrabbiata. Risponde al vero che i satelliti di Starlink – la società di telecomunicazioni di Elon Musk (tra l’altro, molto vicino all’ex presidente Bolsonaro) – hanno favorito soprattutto i garimpeiros che possono comunicare con tutto il mondo anche dalle zone amazzoniche più isolate. Tramite internet gli invasori possono interloquire con i propri referenti e acquistare tutto ciò che serve alla loro attività.
Per esempio, Infoamazonia ha scoperto che sulle piattaforme brasiliane Olx e Mercado livre si possono tranquillamente comprare balsas (draghe), mercurio liquido e ogni tipo di attrezzatura mineraria.
Chiediamo a Davi del mercurio e lui smette di camminare per mostrarci anche a gesti come viene utilizzato dagli invasori per ripulire l’oro dagli altri sedimenti. Mercurio che poi si disperde nei fiumi contaminando l’ecosistema: un avvelenamento grave e confermato da vari studi. Due degli ultimi sono quelli firmati dalla rivista Toxics (settembre 2023) e dalla prestigiosa Fundación Oswaldo Cruz (aprile 2024): secondo la rivista a Roraima il 40 per cento dei pesci contiene livelli di mercurio superiori alla norma, mentre secondo una ricerca della fondazione nello stesso stato l’inquinamento da mercurio colpisce quasi tutta la popolazione di nove villaggi yanomami.
Bianchi e garimpeiros
Davi va oltre nelle sue accuse. Il maggior pericolo viene da chi sta dietro i garimpeiros, anche grandi imprese di altri stati. Davi non fa nomi, ma l’affermazione trova riscontro nelle cronache giornalistiche che, per esempio, riportano i problemi causati dalle compagnie minerarie canadesi – tra esse Cabral gold, Equinox gold, Belo sun – operanti in Brasile. Tonnellate di oro illegale si confondono con quello legale originando un commercio internazionale dai contorni sempre opachi.
Davi è molto duro nei confronti dei bianchi («napëpë» in lingua indigena, ovvero non Yanomami, stranieri, nemici), che etichetta come «popolo della merce». Tuttavia, è magnanimo nei confronti dei garimpeiros. «Spesso gli invasori – precisa infatti – vengono in terra indigena perché non hanno una loro terra, un loro lavoro. A questo dovrebbe porre rimedio il governo federale».
A Watoriki – Davi ricorda sempre con nostalgia il suo villaggio in foresta – non ci sono garimpeiros: i suoi centocinquanta abitanti vivono ancora come la cultura yanomami insegna.
La mancanza di contatti con gli invasori ha tenuto lontano il pericolo della corruzione. Che, per esempio, è arrivata per una parte dei Kayapó (nel Pará).
Chiediamo a Davi se, al di fuori di Watoriki, ci siano Yanomami che sono diventati garimpeiros. «No», risponde secco, salvo poi precisare: «Una minoranza, soprattutto tra coloro che si trovano a vivere accanto ai garimpos. Si sono fatti convincere da qualche grammo di oro o semplicemente da forniture di alimenti».
Malattie e denutrizione
I garimpeiros sono anche responsabili primi del peggioramento delle condizioni di salute della popolazione indigena, che è molto vulnerabile e priva di vaccinazioni. La prima emergenza è data dalla diffusione della malaria, ma ci sono anche influenze, tubercolosi, patologie intestinali e i molteplici problemi di salute (anche neurologici) prodotti dal mercurio.
Con le malattie è arrivata anche la fame. «Perché – spiega David – gli Yanomami malati non hanno la forza per alzarsi, per andare a caccia, per preparare il cibo.
Personalmente, non ho mai sofferto la fame. Ho avuto la malaria ma non sono morto. Purtroppo, anche in materia di salute il governo è stato assente. Con Bolsonaro siamo stati abbandonati per quattro anni. Con Lula è diverso, ma lui non ha abbastanza appoggio per risolvere la situazione. La stessa Onu parla tanto, ma non fa nulla».
Nell’aprile 2021, una pubblicazione dell’Igarapé institute – noto istituto di ricerca con sede a Rio de Janeiro – ha calcolato il «prezzo della devastazione»: all’epoca, l’estrazione di un chilo di oro produceva danni ambientali pari a dieci volte il suo valore. Quel calcolo però non includeva gli incommensurabili danni umani subiti dai popoli indigeni.
Abbracciare gli alberi
Al rifugio Vallorch è arrivata molta gente per ascoltare Davi e Carlo. Il leader yanomami ha indossato un «cocar», il copricapo di sgargianti piume di pappagallo ara (così anche la classica iconografia dell’indiano è salva).
Il pomeriggio sarà dedicato a una passeggiata comune tra i boschi di faggi del Cansiglio. Accanto agli ospiti brasiliani, a guidare il gruppo è Toio de Savorgnani, alpinista, scrittore e ambientalista di Mountain wilderness, la combattiva associazione per la difesa delle montagne.
La passeggiata tra i boschi del Cansiglio ritempra il fisico e la testa. Toio propone di chiudere l’immersione nella foresta con quella che i bianchi hanno chiamato «silvoterapia» (con le sue varianti forest bathing e tree hugging). Non basta respirare a pieni polmoni, occorre tornare al contatto fisico tra viventi abbracciando – sì, abbracciando – gli alberi. Pochi minuti per sentire e ascoltare la natura.
Dopo l’abbraccio, alcuni dei presenti si avvicinano a Davi con il suo libro tra le mani. Glielo porgono per un autografo e lui, quasi a giustificarsi, dice: «I bianchi non ascoltano. Per questo ho dovuto scrivere».
Chissà se basterà. Il sogno dello sciamano yanomami – un’Amazzonia senza invasori e il ripristino dell’equilibrio simbiotico tra uomo e natura – dovrebbe essere il sogno di tutti. Dovrebbe, ma purtroppo non è.
Venezia. Dopo la foresta, l’acqua. E cosa meglio di una città che sull’acqua è nata e vive? Questo probabilmente hanno pensato Claudio Corazza (Il mondo di Tommaso) e Raffaele Luise (scrittore e vaticanista) nell’organizzare il convegno sull’Amazzonia a Venezia, nella splendida e affollata cornice del chiostro del Convento San Francesco della Vigna.
Al tavolo dei relatori Davi Kopenawa ricorda il suo ruolo e la sua battaglia, ma Carlo Zacquini detto Hokosi è senza voce. Altri possono tradurre le parole dello sciamano yanomami, ma soltanto lui può tradurne i concetti. Per questo Claudio e Raffaele gli vengono in soccorso dando la parola agli altri ospiti.
Come Marco Tobon, antropologo colombiano che insegna a Leticia, sulla triplice frontiera amazzonica tra Colombia, Brasile e Perù. Il professore parla di interazione tra esseri umani e ambiente, ma soprattutto della sfida che occorrerebbe affrontare: quella del passaggio dall’attuale «antropocentrismo» (l’uomo come centro dell’universo) a un auspicabile «biocentrismo» (al centro c’è la vita di uomini, animali e vegetali).
Verso la fine, si torna a Carlo Zacquini e al «Centro di documentazione indigena» (Cdi), il suo sogno realizzato ma oggi in pericolo. Occorre costruire una nuova sede che metta al riparo il materiale raccolto – settemila libri, riviste, ritagli di giornali, foto, un archivio digitale – da termiti, blatte, umidità, polvere. In questi anni il suo lavoro è stato indirettamente premiato con la progressiva presa di coscienza degli indigeni. Dopo tante umiliazioni, essi hanno finalmente scoperto che possono e devono essere orgogliosi di appartenere a un popolo indigeno. Nel parlare fratel Carlo si commuove: da tempo sostiene di avere un enorme debito di riconoscenza nei confronti degli indigeni. Il Cdi è la sua maniera di ripagarli per quanto ricevuto in quasi sessant’anni di missione in Amazzonia.
Pa.Mo.
Un film, una mostra
CONOSCERE L’AMAZZONIA
Torino. Conoscere l’Amazzonia è fondamentale per poter difendere i suoi popoli, le sue ricchezze, il suo essere patrimonio dell’umanità. Per questo, ogni iniziativa che vada in questa direzione va sostenuta. A Torino ne sono in corso due. La prima è stata organizzata da «CinemAmbiente», il più importante festival italiano di tematiche ambientali giunto all’edizione numero 27 (4-9 giugno). Gli organizzatori hanno reso disponibile un vecchio documentario – girato nel lontano 1918, considerato perduto nel 1930, ritrovato nel 2023 – sull’Amazzonia: un film in bianco e nero di grande interesse storico ritrovato dalla Cineteca di Praga e restaurato.
La seconda iniziativa è l’esposizione «Mater Amazonia», allestita presso «Cultures and mission» (Cam), il polo culturale dei Missionari della Consolata, nella nuova sala chiamata Urihi. La casa della terra. Si tratta di una parte della mostra ospitata dai Musei Vaticani durante il Sinodo amazzonico dell’ottobre 2019. La mostra si sviluppa attraverso oggetti, foto e filmati di tre ambienti amazzonici: la foresta, il fiume e la maloca. Inaugurata lo scorso 17 maggio, Mater Amazonia rimarrà aperta fino al 31 ottobre.
Carissimi amici,
ho in mano la rivista di aprile e sfoglio il dossier sulla chiesa a Dianra (Bellezza che evangelizza. Una chiesa inculturata in Costa d’Avorio), ricordando la gioia di padre Matteo Pettinari quando gliel’abbiamo inviata in anteprima.
Contemplo la Gerusalemme del cielo, dove la vita di comunione non ha fine, e chiedo aiuto al Signore per tutti noi, straziati dal dolore: padre Matteo, il 18 aprile scorso, ha avuto un tragico incidente stradale ed è entrato in quell’abbraccio d’oro. Ci siamo arrabbiati col Signore, ci siamo sentiti soli e persi, abbiamo pianto, di rabbia e dolore.
È il dolore della famiglia Pettinari per la perdita del caro Matteo, figlio e fratello amato, è il dolore della nostra Chiesa diocesana di Senigallia e di tutti gli amici di oggi e di sempre, è il dolore dei Missionari della Consolata, è il dolore di tutta la comunità di Dianra, mentre il volto di Matteo torna al cuore, con tutta la sua straordinaria bellezza di pastore innamorato: innamorato del Signore, della Chiesa, della sua missione, di ogni uomo e ogni donna che incontrava sul cammino. Il volto di Dio che si fa accanto, che dà la vita per tutti, che ci viene a cercare.
E allora attraversiamo con Matteo questo tempo di dolore, e dopo la rabbia e la disperazione, dopo l’assenza che sentiamo, piano piano arriva la Consolazione per ciascuno di noi. E Matteo manda segni in ogni momento tanto da farci esclamare: Matteo c’è! Continua a essere tra noi in modi e forme che scopriamo ogni giorno. Ci sorprende venendo ancora a «scomodare» le nostre vite e a non farci fermare.
È lui stesso a donarci parole per trasformare il dolore in una strada che ci fa sentire sorelle e fratelli del mondo intero. Condivido con voi uno stralcio di un audio che padre Matteo ha inviato a una amica per Pasqua.
«A me fa tanto bene sprofondarmi in questo pensiero:
Cristo ha trasformato la morte da un sepolcro chiuso, sigillato, in una porta spalancata.
La pietra che rotola via, quindi, il sepolcro aperto, sono il segno del fatto che con Lui, in Lui, e per Lui, per chi crede in Lui, per chi vive veramente gettando il cuore dentro la Sua vita, cercando di accoglierla giorno dopo giorno, la morte è una porta spalancata
verso un futuro tutto da scoprire, tutto da vivere.
Allora è bello pensare, e credere, e anche fare l’esperienza
che tutti i nostri cari che bruscamente o dopo una malattia,
in maniera per noi incomprensibile, ci hanno lasciato,
è bello sapere che per loro si è spalancata questa porta
ed è iniziato un nuovo percorso, una nuova vita, tutta da vivere,
da gustare, da scoprire, una vita che non muore, che non finisce.
Questo il pensiero in cui sprofondare.
È bello che Paolo dica (cfr. 1 Tess 4,13-18): “Non voglio fratelli che siate privi di speranza come tutti gli altri”.
Questo per noi è da sapere: che vivremo sempre con Cristo.
Questa speranza non ci cancella l’assurdità di questa vita in alcune sue sfaccettature, in alcune sue esperienze, però ci apre a un senso.
Anche dentro il sepolcro, da lì dentro, si può fare esperienza di un nuovo inizio: dentro le nostre paure, quindi, dentro quello che non
capiamo, dentro l’assurdo, c’è qualcosa che va aldilà di quello che ci è dato con la nostra testa di capire.
Anche lì dentro si può fare strada, si può fare spazio, anche in maniera non percettibile, non sensibile,
una possibilità nuova di amare. Non c’è da capire, c’è da amare, c’è da darsi tutto fino in fondo.
La fede cristiana non dà
risposte razionali a certe domande.
La fede cristiana propone
di amare sempre,
amare comunque, amare per primi,
amare fino a dare tutto,
amare fin quando fa male,
amare anche quando non si capisce
perché si deve amare
o perché si è chiamati ancora
a riscommettere sul dono di sé.
Questo vorrei chiedere
come dono per me,
per te, per le persone
che amiamo,
per le persone
che incontriamo».
padre Matteo
Grazie amico grande, portiamo con noi il tuo sguardo e il tuo sorriso, la tua energia, la fede in Dio Padre buono, che comunica la vita indistruttibile e l’Amore sempre. Ora rendici testimoni credibili del tanto amore che ci hai donato.
Daniela Giuliani Senigallia, 26/04/2024
Lettera aperta
A partire dal mese di aprile, MC si è presentata ai lettori con una impaginazione, a primo impatto, più sobria e una qualità di carta differente. Marco Bello, direttore editoriale, ci ha spiegato che il cambiamento è dovuto, in termini di denaro, a favorire investimenti anche per la rivista online, che ultimamente compare settimanalmente, con aggiornamenti, sui nostri schermi dei computer. E che sicuramente è seguita più agevolmente da un pubblico di lettori giovani o comunque da chi ha dimestichezza con la digitalizzazione, se non addirittura la preferisce.
«Missioni Consolata» ha una sua storia importante, legata all’istituto missionario dell’Allamano, ed io, oltre che leggerla, ho avuto anche il privilegio di collaborarvi anni addietro. Sono quindi felice delle novità positive, che la rendono sempre più fruibile attraverso nuove rubriche, tenute da esperti dei diversi settori, e articoli che offrono la possibilità di argomentare con intelligenza soprattutto di politica estera. Questo è importante, a mio parere, perché i nostri missionari si calano, per svolgere il servizio, in parecchi Paesi del villaggio-mondo e noi che li seguiamo dall’Italia abbiamo così cognizione delle effettive problematiche che essi si trovano a dovere affrontare, giorno dopo giorno, e il nostro aiuto a loro diventa un aiuto mirato.
Inoltre «Missioni Consolata» offre molte letture di spiritualità che favoriscono la crescita interiore della persona in un panorama, per quanto riguarda la carta stampata, decisamente povero di questo genere di contenuti, se non rare eccezioni. E la guida del lettore avviene attraverso un linguaggio comprensibile ai più. E ciò non è poca cosa. È facile salire in cattedra, difficile è farsi comprendere da molti. Importante è il dialogo con i lettori (le lettere alla rivista) che, da sempre, è stato uno spazio privilegiato, molto curato dai direttori che si sono avvicendati. E continua a esserlo.
Interessante è anche la presenza delle diverse agenzie stampa che ci fanno conoscere gli eventi della Chiesa nel mondo ma ci fanno prendere dimestichezza con l’utilizzo delle stesse, in modo di avere a nostra volta, come lettori interessati, un’informazione puntuale in qualunque altro momento. Insomma «Missioni Consolata» è scuola se sappiamo leggerla. Un grande «grazie» a tutti coloro che vi lavorano e lo fanno senza mai risparmiarsi. Un «grazie» sentito, che può leggersi tranquillamente come gratitudine.
Marianna Micheluzzi Olbia 26 aprile 2024
Grazie dell’incoraggiamento. Uno dei vantaggi della nuova carta è che la lettura dei testi è più facile, anche se la qualità delle immagini ne risente un po’, ma stiamo lavorando per ottenere i risultati migliori.
I tempi che viviamo richiedono vigilanza e discernimento per servire davvero la missione e i poveri anche con la comunicazione. A volte non è facile scegliere il meglio tra chi pensa che il digitale sia l’unica strada ormai da seguire e chi ritiene che la carta sia ancora lo strumento più efficace per una comunicazione profonda che stimoli la riflessione, il coinvolgimento, e aiuti le persone a una presa di responsabilità che vada oltre l’emotività di pochi momenti. Noi ci stiamo provando. È un’avventura interessante e sfidante. Grazie per il sostegno e l’incoraggiamento che riceviamo da molti. Benvenute anche le critiche che ci aiutano a riflettere e stimolano a cercare vie nuove.
Certo, il desiderio sarebbe che queste pagine restassero un luogo di incontro, di riflessione e di scambio, ma siamo anche coscienti che oggi il digitale esige immediatezza, cosa che qui non è possibile, avendo il processo di stampa tempi più lunghi. Buona lettura.
Eccezionale
Direttore buongiorno,
non trovo le parole per ringraziare Lei ed i suoi collaboratori per il numero di marzo della rivista. Quanta ricchezza di informazioni, quanti temi trattati, con la consueta competenza e passione, che non si leggono da nessuna parte.
Non che i precedenti fossero «scarsi», anzi, ma quello di marzo 2024 lo trovo davvero un numero eccezionale: Palestina, Brasile, Congo, Cina. Quante notizie sconosciute ci avete dato. E prezioso anche il dossier sulla rete di scuole con Penny Wirton (altro che le stupidaggini che continuiamo a sentire in questi giorni sul limite del 20% di alunni non italiani in classe).
Voglia il Signore dare a lei e ai suoi collaboratori tanta vita e tanta energia per continuare in questa vostra preziosa opera di informazione. E che la Madonna della Consolata vi assista sempre. Un grande Grazie, ma proprio grande.
Alfio Bolzonello 02/04/2024 (Treviso)
Il mistero della @
Buongiorno,
da parecchi anni sono un sostenitore della vostra rivista. Apprezzo in modo particolare servizi sulla socialità, rispetto dei diritti umani e l’obiettività dei queste informazioni. Mi incuriosisce il significato della chiocciolina (@) che ogni tanto viene inserita in certi articoli. Non ho ancora trovato qualcuno che me ne dia una spiegazione. Complimenti ancora per i contenuti sociali della rivista. Per certi versi la definirei, (come complimento) di una sinistra onesta e sincera. Grazie e Cordiali saluti
Sergio Lanfranconi 02/04/2024
Grazie di cuore del vostro incoraggiamento. Di questi tempi ne abbiamo proprio bisogno.
Quanto alla chiocciolina (@) che appare nella rubrica «Cooperando», è un simbolo per ricordare che c’è un link a un testo che si trova nell’internet, a cui uno può accedere, se interessato, dalla nostra edizione digitale. Mettiamo quel simbolino perchè i riferimenti sono così tanti che stampati occuperebbero diverse colonne di testo, mentre sul web sono lì, immediatamente accessibili.
Kwaheri Guka
In pochi giorno il Signore si è preso il più giovane e il più vecchio dei missionari della Consolata italiani, il 14 aprile padre Antonio Bianchi, classe 1922, da Verbania (Vco), e il 18 aprile padre Matteo Pettinari (vedi pagina precedente), nato a Chiaravalle (An) nel 1981.
Padre Bianchi, detto Guka (nonno), ordinato nel 1945, dopo essere stato diversi anni in Portogallo, era arrivato in Kenya nel 1955, all’età di 33 anni, durante la lotta per l’indipendenza. Lì ha trascorso la maggior parte della sua vita missionaria, lavorando in varie missioni e dedicandosi soprattutto alla pastorale e all’evangelizzazione, facilitato da una memoria raffinata e dalla perfetta conoscenza della lingua kikuyu. Assegnato inizialmente a Ngandu-Murang’a, oggi diocesi, ma all’epoca terreno favorevole ai combattenti Mau Mau, in seguito, venne mandato a Ichagaki, sempre nella diocesi di Murang’a. Negli anni ‘90 è stato nella nuova missione di Rumuruti, nella diocesi di Nyahururu, e poi nella parrocchia di Makima, nella diocesi di Embu.
Ritirato ormai da diversi anni nella casa centrale di Nairobi, dove curava l’orto con passione e competenza, è morto due mesi prima del suo 102° compleanno, proprio nella III domenica di Pasqua, giorno in cui il Vangelo ci invitava a testimoniare il Cristo vivo, Cristo risorto. Questa è stata senza dubbio la sua vita missionaria e apostolica. Ha vissuto la sua vocazione in modo esemplare, tutto per Gesù, tutto per il Vangelo. Che riposi in pace, tra le braccia del buon Dio, che ha tanto amato e servito.
adattato da Cisa news, Nairobi
Il santo che non faceva rumore
La notizia era nell’aria. C’era chi diceva entro l’anno. Ci si aspettava una conferma per il 20 giugno, la festa della Consolata. E invece, ieri 23 maggio, il Papa ha approvato il miracolo del beato Giuseppe Allamano. È stata una grande gioia, anche se, per molti di noi, il fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, santo lo era già da un pezzo.
Adesso c’è l’ufficializzazione e «l’onore delle cronache». Ma Giuseppe Allamano, pur essendo un precursore nella stampa cattolica – aveva fondato «La Consolata» (1899), che ha dato origine alla nostra testata, «Missioni Consolata» -, non amava essere messo in prima pagina.
«Fai bene il bene e senza fare rumore», quindi senza mettersi in evidenza, era infatti il settimo dei suoi dieci «comandamenti». Ma un altro comandamento, il nono, era proprio: «Dai il primo posto alla santità». Realizzato, oggi, più che mai.
La redazione
Riportiamo qui parte dell’articolo di Jaime Patias, direttore del Segretariato generale per la comunicazione, pubblicato integralmente su consolata.org.
Nell’udienza concessa questo giovedì 23 maggio 2024 al cardinale Marcello Semeraro, Prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, Papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del Decreto che attesta un miracolo attribuito all’intercessione del beato Giuseppe Allamano, Fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata.
Il Papa nello stesso tempo ha deciso di convocare un Concistoro, che riguarderà la canonizzazione dell’Allamano, insieme a Marie-Léonie Paradis, Elena Guerra e Carlo Acutis.
La missione, il sogno di Giuseppe Allamano
l miracolo che porterà alla canonizzazione il beato Giuseppe Allamano, è successo in Brasile, nello stato di Roraima, in piena foresta amazzonica, una delle frontiere della missione, dove dal 1948 i missionari e le missionarie della Consolata lavorano con la gente e annunciano il Vangelo, realizzando il sogno dell’Allamano, che dalla Consolata li aveva inviati nel mondo intero.
Nato a Castelnuovo Don Bosco (Torino) il 21 gennaio 1851 l’Allamano muore a Torino il 16 febbraio 1926. Da ragazzino Giuseppe è cresciuto fra i salesiani, a 22 anni è sacerdote coltiva il sogno di partire in missione, ma la salute cagionevole non glielo permette. Alla età di 29 anni lo mandano a dirigere il più grande Santuario mariano di Torino dedicato alla Madonna Consolata che riporta agli splendori di un tempo. Il fuoco per la missione, ancora vivo nel suo cuore, l’Allamano lo trasmette a giovani preti che dovutamente formati alla scuola del loro rettore si preparano a salpare per le terre lontane.
Ai piedi della Consolata, in questo modo, l’Allamano getta le basi per una grande opera, l’Istituto Missioni Consolata (Imc), che fonda nel 1901 e su richiesta di Pio X ne costituisce anche un ramo femminile con le Suore Missionarie della Consolata (Mc) nel 1910.
Il miracolo dell’indigeno Sorino Yanomami
Il miracolo attribuita alla intercessione di Giuseppe Allamano riguarda la guarigione miracolosa dell’indigeno Sorino Yanomami, popolo della foresta amazzonica nello stato di Roraima, Nord del Brasile. Sorino il 7 febbraio 1996 viene aggredito da un giaguaro che gli causa la frattura della scatola cranica. Sorino rimane in questa gravissima condizione per otto ore senza cure adeguate, finché un piccolo aereo bimotore riesce a trasportarlo all’ospedale di Boa Vista, la capitale dello Stato.
La scena per i medici è terrificante, l’indigeno viene operato di urgenza e poi ricoverato in terapia intensiva. Accanto a lui, oltre alla moglie, ci sono sei suore della Consolata, un sacerdote e un fratello missionario sempre della Consolata. Tutti invocano il beato Allamano e mettono una sua reliquia sotto il cuscino del letto di Sorino. Proprio in quel giorno inizia la novena del Beato. Sorino si risveglia dieci giorni dopo l’intervento senza mostrare nessuna conseguenza di carattere neurologico. Il 4 marzo viene trasferito presso una casa di cura e quattro giorni dopo è in grado di rientrare al suo villaggio completamente guarito, riprendendo la sua vita di un abitante della foresta, A tutt’oggi non ci sono conseguenze delle gravi lesioni subite.
Un’esperienza di un mese nel paese saheliano è stata per lui una «folgorazione». Da allora non ha più smesso di viaggiarci e ne ha fatto il suo Paese di adozione. Fino ad andarci a vivere. La sua è, in tutti i sensi, una famiglia missionaria. Paolo ci racconta la sua storia.
«Io sono tornato molto fiducioso da questo viaggio in Burkina Faso, con tanta voglia di ripartire e fare investimenti nel Paese». Chi parla è Paolo Turini, classe 1969, di Montevarchi (Arezzo). È tornato da qualche settimana dal paese saheliano. Ma la sua non è una butade, è una constatazione suffragata da una lunga esperienza.
Il primo viaggio come esperienza di missione lo ha fatto nel 1994, proprio in Burkina Faso. È successo quasi per caso. Poi si è creata una profonda relazione con quei luoghi.
Lì ha conosciuto Caterina Piu, pure lei volontaria, e da quel momento il rapporto con i burkinabè è stato prima di coppia e poi di famiglia.
Ma andiamo con ordine.
1994. L’inizio di tutto
«Don Gabriele Marchesi era il mio parroco, ma anche il responsabile dell’ufficio missionario diocesano di Fiesole – ci racconta Paolo -. Il 2 novembre del 1994, dopo la messa dei morti gli chiesi: “Come posso fare una esperienza missionaria?”. Lui mi parlò dei corsi di preparazione dei giovani che poi ad agosto avrebbero fatto un’esperienza di missione. Ma mi disse anche: “Però ho un biglietto per un muratore, per andare a posare delle piastrelle in un dispensario in Burkina Faso. Chi doveva andare si è infortunato, e devo trovare qualcuno per il 10 dicembre”».
Il giovane pensò subito al suo capo scout che faceva quel mestiere. «Corsi da lui, ma mi disse che aveva molto lavoro e non poteva partire. Gli chiesi se mi avrebbe insegnato a posare le piastrelle se fossi andato tutti i sabati e le domeniche a lavorare con lui. Si mise a ridere, ma annuì». Paolo fece subito la proposta a don Gabriele, non c’era un minuto da perdere. E il sacerdote: «Guarda che poi là sei da solo, devi essere bravo!». Ma gli diede fiducia, e Paolo, in alcuni fine settimana, imparò a fare il lavoro.
«Una settimana prima della partenza facemmo una riunione con altri due ragazzi che sarebbero pure partiti e con don Carlo Donati, sacerdote fidei donum, che seguiva questa missione. Fui presentato come muratore esperto!».
Arrivati a Ouagadougou, la capitale, il giorno dopo si trasferirono nella città di Koupela. Il lavoro da fare era in un villaggio, Kanougou. «Eravamo su un fuoristrada su una pista di terra e don Carlo mi disse: “Guarda: a questo sasso svolti a destra e a quell’albero a sinistra. Impara perché da domani ci vieni da solo”. E così è stato. Per venti giorni da solo, prima a portare tutti i materiali e poi a posare piastrelle. Con i bambini che venivano a prendere i ritagli per fare i presepi. Altri dieci giorni sono andato in motorino, perché l’auto non era più disponibile». Paolo conclude: «Come prima esperienza in Africa è stata folgorante».
Quell’esperienza, Paolo l’aveva cercata intensamente, ma non sa neppure lui perché. Inoltre, aveva dovuto rinunciare allo stipendio in Italia, perché aveva già fatto le ferie. Il datore di lavoro lo aveva aiutato, tenendogli il posto.
Oltre a un primo assaggio di Africa, Paolo conobbe così il gruppo missionario di don Carlo con il quale iniziò a fare volontariato. Ogni anno tornava in Burkina a svolgere compiti diversi. Nei restanti mesi, in Italia, era attivissimo: usava il suo tempo libero per le diverse attività di promozione della missione sul territorio.
1977. Un’infermiera
«Nel 1997 ero in Burkina per il mese di missione che facevo tutti gli anni. Mi dissero di andare all’aeroporto a prendere tre volontari. Scesero dall’aereo una signora, una ragazza e un ragazzo. La giovane aveva l’orecchino al naso e i tacchi alti. Ho subito pensato: ma chi l’ha mandata in Burkina? Poi iniziai a interessarmi, mi piaceva l’attenzione che dava ai malati. Così ho approfondito la conoscenza».
Caterina è un’infermiera di Nuoro, ed era andata a fare un’esperienza da una suora sarda in missione a Koupela.
«L’anno successivo siamo riusciti a fare insieme due mesi in Burkina, accumulando ferie e altri permessi. Due anni dopo ci siamo sposati».
Fu in quel periodo che Paolo e Caterina maturarono l’idea di passare più tempo nel Paese. «Quando abbiamo deciso di partire per un tempo più lungo, è stato perché, dopo tanti anni di permanenze di un mese, avevamo capito che, se ci si voleva immedesimare nella cultura e aiutare meglio, occorreva vivere sul posto. Una volta compreso questo, abbiamo cercato in tutti i modi di realizzare il nostro sogno, mettendo a disposizione i nostri talenti».
1999. Il primo anno
Il primo passo è stato ottenere per entrambi un’aspettativa di un anno dal lavoro. Paolo nel 1999 lavorava per le ferrovie come manutentore (aveva passato il concorso pubblico), mentre Caterina faceva l’infermiera.
«Io ho sempre creduto nella formazione tecnica dei giovani – continua Paolo -, affinché abbiano le competenze per realizzare essi stessi il cambiamento. Ero in linea con il metodo dei Fratelli della Sacra famiglia, e c’era il modello di Goundi (villaggio nel centro ovest del Paese) di fratel Silvestro Pia: formare i giovani e dare loro gli strumenti per iniziare l’attività».
Quell’anno di aspettativa lo passarono proprio con fratel Silvestro, con l’intento di costruire una permanenza più stabile.
«Cercammo diverse possibilità: congregazioni religiose, Ong. Nessuno si interessò al nostro progetto. A un certo punto ci eravamo accordati con il gruppo missionario di don Carlo: saremmo rimasti nel Paese a seguire i suoi progetti. Il gruppo aveva aperto tre centri per bambini malnutriti e creato diversi orti moderni. Era quasi tutto pronto, ma una telefonata che ci raggiunse proprio in Burkina durante l’anno di aspettativa ci gelò: “Mi dispiace, non possiamo permettercelo economicamente”.
Don Gabriele conosceva tutta la questione. Ci disse: “Se mi garantite di rimanere cinque anni, trovo una formula”. E trovò quella dei missionari laici, che all’epoca era molto complicata. La diocesi di Fiesole ci avrebbe dato un rimborso per pagarci i contributi, circa 500 euro a testa al mese. Avremmo pagato solo i miei, perché gli altri ci sarebbero serviti per vivere. Non possiamo smettere di ringrazialo perché ci permise di partire».
2001. E missione sia
Paolo e Caterina partirono nel marzo del 2001. Iniziarono dando un aiuto ai padri Camilliani, alla periferia di Ouagadougou, in un centro dove accoglievano malati di Aids. Si occupavamo di completare la formazione degli infermieri neo diplomati e di altre attività. «Non era esattamente il nostro sogno, ma ci permise di partire. Prendemmo un impegno di un anno, poi ci saremmo spostati».
Arrivò la soffiata che una sezione dei Lions (organizzazione filantropica, ndr) voleva finanziare progetti di formazione professionale nel Sud del mondo. Paolo, preso a modello il centro di formazione professionale di Goundi, scrisse un documento da presentare all’associazione. La cifra necessaria era di 75mila euro: «Volevamo realizzarlo nella diocesi di Koupela, perché c’era l’accordo con la diocesi di Fiesole. Parlando con il vescovo, questi ci suggerì proprio Kanougou, perché c’era una struttura, il dispensario delle suore dove anni prima avevo messo le piastrelle, che aveva alcune stanze libere. Inoltre c’era il pozzo per l’acqua».
Le cose non andarono bene: «Anche questa volta arrivò una telefonata che ci lasciò di stucco: i Lions stavano ristrutturandosi e non avrebbero finanziato alcun progetto».
Ma la coppia missionaria era tenace. Lavorando dai Camilliani avevano conosciuto un medico italiano, che si impegnò a trovare loro un primo finanziamento. «Abbiamo deciso di cominciare con una cifra molto più bassa, poi via via si sono aggiunti altri contributi: dal centro missionario di Montevarchi, dallo stesso gruppo di don Carlo e da tanti altri ancora. Lavorando un po’ alla volta, siamo riusciti a realizzare tutto, tranne la sala polivalente, che avevamo capito non essere necessaria. Ci abbiamo messo più tempo, ma abbiamo avuto una spesa totale di 65mila euro».
Riflessioni
I due missionari laici si resero conto che vivere sul posto la missione ha un valore aggiunto molto importante: «L’idea di missione che si ha facendo viaggi periodici nel paese per brevi periodi non sempre è adattata al contesto. Per questo io e Caterina abbiamo deciso di stare a vivere in Burkina. Gli anni passavano, il Paese cambiava, cresceva, ma in Italia era rimasta l’idea dell’Africa dei container. Vivendo lontani si rischia di avere un approccio di aiuto di vecchio stile». Certo, lasciare tutto e partire è molto più complicato che mettere a disposizione le proprie ferie ogni anno: «Abbiamo dovuto entrambi licenziarci dal lavoro. Devo dire che le nostre famiglie ci hanno sempre supportati. A Caterina hanno detto: “Basta che tu sia felice”. E mia mamma ha chiosato: “Tanto tu alle ferrovie non sei mai andato volentieri”».
Ripensando al periodo di residenza in Burkina, Paolo ricorda che non era sempre tutto facile, anzi: «Qualche batosta c’è stata. Alcuni problemi che ti fanno dire: ma chi me lo ha fatto fare. Ma poi ci sono le motivazioni di fondo che ti aiutano ad andare avanti».
Nel frattempo arrivarono i primi due figli, Samuele e Francesco, e la famiglia missionaria si era allargata.
2006. Il ritorno
Il 12 agosto del 2006 arrivò una di quelle telefonate che impongono decisioni importanti. «Il provveditorato agli studi mi informava che ero passato di ruolo. Avevo dato il concorso per la scuola molti anni prima. In 48 ore avrei dovuto decidere se prendere il posto o lasciare. Partire o restare in Burkina.
Quella notte non riuscivo a dormire. Mi giravo e mi dicevo: ma chi ce lo fa fare di tornare in Italia? Stiamo qui. Poi mi rigiravo: abbiamo già due figli e quando cresceranno cosa si farà? Don Gabriele era andato in missione in Brasile. Non si sapeva se la diocesi ci avrebbe rinnovato il contratto. Le incognite erano tante. Apro gli occhi e vedo una lucina rossa nel buio della stanza. Penso al tabernacolo. Sento che mi dice: torna in Italia poi semmai ritorni in Burkina.
Al mattino mi sveglio e dico a Caterina: si è deciso, si riparte. Poi mi accorgo che la lucina era lo zampirone contro le zanzare. Ma oramai si era deciso».
In Italia Paolo e Caterina diventarono l’anima del centro missionario Bakonghe, che si costituì come associazione. Furono, inoltre, nominati entrambi responsabili del Centro missionario diocesano di Fiesole, primi laici a svolgere questo servizio. Paolo continuava a seguire il progetto di Kanougou e, una volta all’anno, andava in Burkina.
Ma ci confessa: «Non sempre siamo contenti della scelta di tornare in Italia. Adesso Samuele ha 20 annie sta già lavorando. Francesco e all’ultimo anno delle superiori, e Petra, nata dopo il rientro, al terzo. Vediamo quando saranno autonomi se tornare in Burkina».
2024. Nuove idee
Nel gennaio di quest’anno Paolo è tornato dall’ultimo viaggio missionario con una nuova idea. «Voglio realizzare una fabbrica di motozappe. Se funziona, può migliorare la vita dei contadini burkinabè, e anche darci un piccolo introito che ci permetta di tornare a vivere in Burkina per seguire le attività del centro di formazione a Kanougou».
Paolo ci dice che l’attuale governo vuole favorire l’agricoltura e quindi cercherà di contattare il ministero. «Prevedo una parte per l’assemblaggio delle motozappe e una parte per la vendita. Il prezzo deve essere accessibile a una famiglia del posto. Servono circa 50mila euro, ma non tutti insieme, si può iniziare con una prima parte e poi andare avanti. Ma in tre anni la fabbrica deve essere produttiva. Devo iniziare a cercare i finanziamenti».
Nel frattempo Paolo sta contattando aziende italiane produttrici di motozappe per proporre eventuali collaborazioni, sia tecniche che finanziarie. Intanto con Caterina continua l’attività missionaria con il centro Bakonghe e con la diocesi.
«Lascerei il Cmd anche ad altri, ma purtroppo in Italia adesso c’è poco interesse per la missione», si lamenta. E fa un commento su come è stato vissuto il loro rientro dalla missione: «Quando siamo venuti via dal Burkina, temevo che i burkinabè ci accusassero di essere dei traditori. Cosa che non è mai accaduta. Piuttosto, ci hanno sempre detto: “Voi potrete aiutarci anche dall’Italia”. Invece qui da noi c’è gente che ci ha detto: ma cosa siete tornati a fare, abbiamo bisogno di voi in Burkina. Voglio dire che abbiamo avuto più difficoltà da parte degli italiani che dagli africani».
Dopo trent’anni di missione in Burkina Faso, seppure con modalità diverse, Paolo è più motivato che mai. Neanche la difficile situazione sociopolitica del Paese lo scoraggia. E con lui, la sua famiglia missionaria.
Marco Bello
L’Amazzonia, invasa e avvelenata
Come negli altri paesi, anche in Venezuela nulla sembra fermare la distruzione dell’Amazzonia per mano dell’uomo. È l’attività mineraria illegale a produrre i danni maggiori. Il governo Maduro sembra non avere né la forza né la volontà per cambiare la situazione. Il prezzo di quest’anarchia lo pagano l’ambiente, i popoli indigeni e un esercito di disperati.
Il buco è una voragine gigantesca, profondissima e larga. Una decina di uomini, legati alle corde ma vestiti in modo del tutto inadeguato, sono abbarbicati alle pareti di terra rossa e lavorano di pala per scavare dei gradoni. L’intenzione è di costruire una sorta di via d’accesso alla voragine: non sia mai detto che la natura risulti vincitrice.
La voragine è quello che resta della miniera d’oro a cielo aperto conosciuta con il nome di Bulla Loca («giacimento matto»).
Siamo in località La Paragua, stato Bolívar, Amazzonia venezuelana (conosciuta anche come Guayana). Lo scorso 20 febbraio la miniera è franata facendo una trentina di morti tra le centinaia di minatori che vi lavoravano. Minatori illegali di una miniera illegale come moltissime altre. E gli incidenti sul lavoro sono una tragica consuetudine, come quello che il 3 giugno 2023 ha fatto 12 morti a El Callao, sempre nello stato di Bolívar. El Callao è un villaggio la cui vita gira attorno all’estrazione dell’oro: la maggioranza dei suoi 30mila abitanti partecipa direttamente o indirettamente a questa attività. La località è salita alla ribalta delle cronache anche per l’impiego di bambini (addirittura di soli sei anni) nelle sue miniere.
Un’invasione senza fine
Dell’Amazzonia venezuelana si parla poco. Eppure, è importante tanto quanto le Amazzonie più conosciute: quelle del Brasile, del Perù, dell’Ecuador, per esempio. Purtroppo, è anche afflitta dai loro stessi problemi: oltre che dalle attività minerarie, da deforestazione, incendi, inquinamento da mercurio, diffusione della malaria, violazione dei diritti dei popoli indigeni residenti, sfruttamento del lavoro minorile, presenza di gruppi armati.
La regione amazzonica del Venezuela si estende nel Sud del paese attorno al corso del fiume Orinoco (inclusi i suoi affluenti, escluso il delta) e copre quasi interamente gli stati Bolívar e Amazonas più alcune porzioni di altri due (Delta Amacuro e Apure) per un totale di circa 490mila chilometri quadrati (circa metà del Paese, una volta e mezzo la superficie dell’Italia). È abitata da oltre venti popoli indigeni. Secondo il censimento del 2011, gli indigeni sarebbero 54mila in Bolívar e 76mila in Amazonas. Le etnie principali sono i Pemón (30mila), i Uwottüja o Piaroa (20mila), gli Yanomami (15mila) e i Kariña (10mila).
La corsa all’oro uccide
La sfortuna vuole che nel sottosuolo dell’Amazzonia venezuelana si trovino minerali come ferro, bauxite e rame, ma soprattutto oro, diamanti e coltan. Sono questi ultimi tre ad aver scatenato una vera corsa all’attività mineraria, soprattutto quella illegale. Non da oggi, in verità. Da resoconti e cronache dei missionari Cappuccini e dei funzionari dell’epoca, si sa che l’oro venezuelano veniva estratto – con il lavoro forzato degli indigeni – già prima del 1800, e portato in Spagna. Oggi tutti parlano di una presenza di minatori illegali in crescita continua (le stime variano da 50mila a 300mila persone). Una parte importante sono garimpeiros (minatori) brasiliani, soprattutto nell’Alto Orinoco-Casiquiare, straordinaria regione che ospita la Riserva della biosfera dell’Unesco e il Parco nazionale Parima Tapirapeco. Tra l’altro proprio ai minatori brasiliani si deve il massacro di Haximú compiuto nel giugno del 1993 ai danni di un gruppo di Yanomami (anziani, donne e anche bambini) nativi del luogo.
Secondo un rapporto dell’organizzazione ambientalista «Sos Orinoco», molti garimpeiros entrano nella zona con elicotteri e piccoli aerei e – ultima novità – hanno iniziato a utilizzare droni per filmare il territorio. Gli invasori distruggono la foresta per costruire piste di atterraggio e basi operative. In cambio della complicità, la Guardia nazionale venezuelana riceverebbe una parte dei profitti.
«Horonami», l’organizzazione degli Yanomami del Venezuela (162 comunità), ha denunciato che membri della sua popolazione sono stati costretti a lavorare come schiavi dai garimpeiros, che, inoltre, hanno violentato e prostituito donne e ucciso membri delle comunità. Nella loro strategia per arrivare al controllo del territorio rientrano i regali alle comunità indigene: cibo, armi, fucili, machete. Alla gravità della situazione si aggiunge l’indifferenza dello Stato centrale e la complicità dei suoi organi locali, che può anche trasformarsi in violenza diretta.
Nel mese di marzo 2022 c’è stata una disputa tra i militari della base area B7 di Parima e membri della locale comunità indigena, che chiedevano l’accesso al servizio internet. L’alterco si è concluso con la morte di quattro Yanomami. Il tragico episodio riflette tensioni e problemi di una difficile convivenza tra indigeni e non indigeni. A due anni di distanza, la richiesta di giustizia da parte della comunità non ha trovato ancora alcuna risposta da parte delle autorità venezuelane.
Nella vasta regione amazzonica la violenza non è un’eccezione, ma una consuetudine sempre più diffusa. A fine giugno 2022, Virgilio Trujillo Arana, un indigeno Uwottüja di 38 anni, è stato ammazzato con tre spari alla testa a Puerto Ayacucho, capitale dello stato di Amazonas. L’uomo era un attivista ambientale. Nel municipio di Autana era, infatti, coordinatore di un gruppo di difesa indigeno contro le invasioni territoriali e le attività minerarie illegali.
Secondo l’Observatorio para la defensa de la vida (Odevida), «tra il 2013 e il 2021, 32 leader indigeni e ambientalisti sono stati assassinati, 21 dei quali da sicari minerari o membri di organizzazioni di guerriglia colombiane, e 11 da membri delle Forze armate nazionali bolivariane (Fanb)».
Tuttavia, non tutti i popoli indigeni dell’Amazzonia venezuelana affrontano il problema delle minerie allo stesso modo.
I Pemónes, il maggiore gruppo indigeno della regione, vivono nei territori di Sud Est dello stato Bolívar, a ridosso del confine con Brasile e Guyana. Il loro territorio è annoverato tra i più ricchi di oro al mondo e per questo estremamente attrattivo. Già un certo numero di indigeni lavora nelle miniere aurifere, altri chiedono al governo centrale di porre fine allo sfruttamento illegale del loro territorio e di istituire miniere legali sotto controllo Pemón.
Dall’anarchia all’«Amo»
Dopo la scomparsa di Hugo Chávez (2013), con la presidenza di Nicolás Maduro il Venezuela è precipitato in una crisi infinita. Anche per far fronte alla perdita di gran parte delle entrate petrolifere, nel 2016 il governo di Caracas ha varato il progetto «Arco minero del Orinoco», noto con l’acronimo di Amo. L’Arco minerario occupa un’area di 111.843 chilometri quadrati di territorio nel Nord e nell’Est dello stato di Bolívar, più grande del Portogallo o di Cuba, 12% della superficie del Venezuela.
Sul sito del ministero (dal nome altisonante: Ministerio del poder popular de desarrollo minero ecológico), gli obiettivi propagandati sono «pace, protezione ambientale e prosperità economica» da raggiungere attraverso il «controllo della catena produttiva mineraria» con «una delimitazione delle aree minerarie e la protezione delle zone sacre ancestrali».
A questa narrazione edificante si contrappone una realtà molto diversa. Come riassume «Sos Orinoco»: «I risultati sono stati catastrofici sia per la regione che per la sua popolazione e gli ecosistemi. Avrà effetti tragici e duraturi – forse irreversibili – in Venezuela e oltre i suoi confini». Se è vero che queste critiche sono fatte da un’organizzazione antigovernativa, è altrettanto vero che altri arrivano alle stesse identiche conclusioni. In particolare, Wataniba, gruppo socioambientale venezuelano, la Chiesa cattolica e la Repam (Red eclesial pan amazónica).
A oggi, nell’Amazzonia venezuelana vige l’anarchia con le mafie e i gruppi armati illegali a dettare legge. Gli investitori stranieri millantati da Maduro («35 paesi sono interessati», aveva assicurato il presidente) sono rimasti lontani. Anche la Cina – specialista in business strategici – e sempre privilegiata dal governo di Caracas è rimasta cauta. In compenso, la distruzione ambientale e l’avvelenamento da mercurio si sono diffusi andando ben oltre i confini teorici dell’Arco minero.
Oggi tutti i parchi e le aree protette dell’Amazzonia venezuelana sono sotto attacco. Come il Parque nacional cerro Yapacana (Amazonas) che, a fine 2023, è stato oggetto di una propagandata operazione – nota come Operación Autana – da parte delle Forze armate bolivariane con questi risultati ufficiali: 86 miniere sotterranee chiuse, 241 imbarcazioni sequestrate, 4.450 villaggi improvvisati distrutti, 14mila persone espulse. Tuttavia, come fossero vasi comunicanti, liberata una zona, il problema si ripresenta in un’altra, passando – ad esempio – dal Parco Yacapana a quello di Canaima (Bolívar).
Come quasi sempre accade, la ricchezza di un luogo naturale è anche la sua dannazione perché attrae appetiti umani senza limiti ed eserciti di poveri disposti a tutto pur di cambiare la propria esistenza. Succede in tutta l’Amazzonia e quella del Venezuela non fa eccezione.
Paolo Moiola
Vaticano. Salvare l’Amazzonia per salvare il Pianeta
Davi Kopenawa, lo sciamano e portavoce del popolo Yanomami, ha lasciato la grande casa collettiva nell’Amazzonia brasiliana con una missione importante: portare l’appello dei popoli della foresta agli abitanti della foresta di pietra. «L’uomo bianco delle merci non ci ascolta. Abbiamo bisogno di lanciare le parole come una freccia per toccare il cuore della società non indigena», dice Kopenawa, sapendo bene che chi comanda non ascolta.
Nella sua agenda in Italia, mercoledì 10 aprile, a Roma, il leader indigeno noto a livello internazionale per il suo impegno nella protezione dell’Amazzonia si è incontrato in privato con Papa Francesco, un alleato importante. «Ho chiesto al Papa di aiutare il presidente Lula a rimuovere tutti gli invasori, i cercatori d’oro (garimpeiros) e gli sfruttatori delle terre indigene», spiega Davi ai giornalisti rivelando di aver scritto una lettera a Francisco nel 2020 e che da tempo desiderava parlare con lui.
A questo incontro – avvenuto grazie alla collaborazione con il vaticanista Raffaele Luise -, Kopenawa è stato accompagnato da fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata a Roraima, in Brasile, suo amico e braccio destro da 50 anni, responsabile assieme alla fotografa e attivista Claudia Andujar della campagna per il riconoscimento del territorio Yanomami nel lontano 1979.
David ha già dimostrato in diverse occasioni la sua profonda conoscenza delle minacce per l’intera umanità: salvaguardare la foresta e i suoi abitanti è fondamentale per garantire l’esistenza stessa della nostra Casa comune. Tra le maggiori minacce per i territori indigeni, Kopenawa elenca la contaminazione dell’acqua per l’uso criminale del mercurio (per separare l’oro dal resto, ndr) da parte dei minatori; l’ingresso di allevatori di bestiame con l’appoggio dei governi di tutto il mondo che comprano carne, così come l’espansione della coltivazione della soia sotto la pressione della Cina che ne richiede sempre di più. «La foresta brucia, la terra si esaurisce, gli uccelli, gli animali, i pesci muoiono e il nostro popolo si ammala. Forse qui voi siete protetti da questo, ma ci sono altre malattie», avverte lo sciamano.
Davi Kopenawa ritiene che il nuovo ministero dei Popoli indigeni e la Fondazione nazionale dei popoli indigeni (Funai), entrambi diretti per la prima volta da due donne indigene, Sonia Guajajara e Joenia Wapichana, «hanno bisogno di risorse per proteggere il popolo Yanomami, costruire posti di sorveglianza e per delimitare e riconoscere le terre indigene». Negli ultimi anni, soprattutto sotto la presidenza di Jair Bolsonaro, le risorse sono state tagliate, rendendo impossibile il lavoro.
Il popolo Yanomami conta circa 42mila persone, tra Brasile e Venezuela. Si stima che nel 2023 fossero oltre 20mila i garimpeiros nelle loro terre. Entrano illegalmente nella foresta, tagliano alberi, scavano buche enormi, usano pompe idrauliche, avvelenano i fiumi.
All’inizio dell’anno 2024, sono state diffuse immagini dove si vedevano bambini yanomami malnutriti, uguali o addirittura peggiori di quelle del 2023. Poco più di un anno dopo l’azione delle forze federali brasiliane la Terra yanomami affronta ancora la crisi dell’estrazione mineraria illegale, della fame e della salute. Finora tutto è stato vano. «Molte volte abbiamo richiesto di rimuovere gli invasori dalle nostre terre, di prevenire la deforestazione e l’inquinamento dei fiumi, ma non ci ascoltano perché non sono nostri “parenti” (indigeni come noi, ndr). Abbiamo pochi amici. I politici ascoltano solo la voce del denaro, del mercato. Papa Francesco è diverso. Lui è figlio di Dio e non può mentire. Come leader, non può promettere e non fare», dichiara Davi mostrandosi fiducioso.
Nella lotta per la protezione del Pianeta, la sintonia tra Davi Kopenawa e il Papa Francesco è grande. Ricordando che il Pontefice nel 2015, nell’enciclica Laudato si’ affermava: «La molteplice distruzione della vita umana e ambientale, le malattie e l’inquinamento di fiumi e terre, l’abbattimento e l’incendio di alberi, la massiccia perdita della biodiversità, la scomparsa delle specie, costituiscono una cruda realtà che chiama in causa tutti. La violenza, il caos e la corruzione dilagano. Il territorio è diventato uno spazio di scontri e di sterminio di popoli, culture e generazioni» (LS 23). La preoccupazione con la cura del Creato da parte di Francesco è stata anche dimostrata con la realizzazione del Sinodo per l’Amazzonia nel 2019 e nei suoi vari interventi e documenti.
Il leader Yanomani apprezza lo sforzo di Francesco, ma osserva che «molte persone sono contro la protezione dell’ambiente perché i grandi imprenditori non vogliono sentire quello che lui dice sulla foresta amazzonica, che è in grave pericolo. Loro cercano le ricchezze. Noi siamo per l’ambiente. Se non fosse per gli indigeni, la foresta non ci sarebbe più. Noi Yanomami ci prendiamo cura del polmone del pianeta. Ma questo ai politici, ai fazendeiros, ai garimpeiros non interessa. E l’esercito li sostiene. Dicono che la Terra indigena yanomami (Tiy) sia troppo grande per pochi indigeni, ma non si rendono conto che noi stiamo proteggendo l’intero pianeta».
La Tiy include un’area estesa oltre 9 milioni di ettari nel Nord del Brasile. In questa regione, i fiumi sono preziosi canali di comunicazione che uniscono le diverse comunità. Fu a monte del fiume che i missionari della Consolata italiani, Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi fondarono, nel 1965, la Missione Catrimani, a 250 chilometri da Boa Vista, capitale di Roraima. Nel corso degli anni, la coesistenza di Yanomami con i missionari ha contribuito a rafforzare un modello di missione basata sul rispetto e il dialogo, nella difesa della vita, della cultura, del territorio e della foresta. Tre missionari e quattro missionarie della Consolata sono attualmente impegnati nella Missione Catrimani. Mentre, da Boa Vista, all’età di 87 anni, fratel Carlo Zacquini, instancabile, continua a sostenere la causa di Davi Kopenawa, degli Yanomami e della foresta amazzonica.
Jaime Carlos Patias
Marocco. Il pane brucia
C’è una siccità che brucia i campi e l’esistenza delle persone. C’è stato il terremoto più devastante nella storia del Paese. Non c’è lavoro né futuro per i giovani. Ecco perché quasi tutti cercano di fuggire all’estero. Costi quel che costi.
Ouled Kichou. È un piccolo villaggio agricolo nei dintorni di Beni Mellal, capoluogo dell’omonima regione del Marocco centrale, tra le più colpite dalla siccità che sta mettendo in ginocchio il Paese. Dal minareto di una moschea, udiamo un muezzin dalla voce sgraziata richiamare gli abitanti alla preghiera dell’alba (salat-al-fajr).
La gente del posto rimpiange il suo predecessore che si cimentava in virtuosismi canori – prima si diventava muezzin per fede, e non per lo stipendio, seppur modesto, che attualmente ricevono – e il tempo in cui l’acqua, che scendeva abbondante dalla diga di Ben Ouidan (realizzata dai francesi nel 1955), sull’antistante catena dell’Atlante, rendeva fertile la terra e nei campi c’era lavoro.
Una siccità mai vista e l’abbandono dei campi
A Ouled Kichou oggi manca anche l’acqua potabile e la quotidianità è fatta di donne e bambini che si alternano davanti alle poche cisterne allestite nel douar («villaggio» in darija, il dialetto marocchino). I campi sono quasi abbandonati e il sidr, albero del deserto citato nel Corano (chiamato «spina-christi» da ebrei e cristiani che l’associano alla corona di spine di Cristo), sembra tornare ad avere la meglio sugli ulivi centenari, in uno scenario apocalittico che un anziano descrive come il «giudizio universale».
I pochi che hanno risorse economiche provano a scavare un pozzo profondo almeno cento metri ma non è detto che si trovi la falda. Per questo si affidano ancora ai poteri divinatori del moul Al ouidet (letteralmente «il padrone delle bacchette di legno»), il rabdomante.
Qualcun altro presagisce il ritorno delle piaghe d’Egitto e sette anni di carestia.
In effetti i segni ci sarebbero tutti, visto anche il terremoto devastante, il più forte della storia del Paese, che nel settembre dello scorso anno ha colpito la provincia di Al Haouz e il suo capoluogo Marrakech, provocando almeno 2.900 morti (il bilancio non è ancora definitivo).
La zona dell’epicentro, svantaggiata dal punto di vista geografico ed economico, era nota per ospitare siti con una forte connotazione culturale e spirituale, come Tinmel, antica capitale della dinastia amazigh (berbera) degli Almohadi, e il mausoleo di Moulay Ibrahim, un santo locale.
A Tinmel, oltre al villaggio, è stata distrutta anche la moschea risalente all’XI secolo e appena ristrutturata, mentre il santuario, meta di pellegrinaggio e luogo di ricovero per persone con disturbi psichiatrici, è stato gravemente danneggiato.
Due testimoni di Ijoukak, uno dei villaggi lungo la strada R203, tornata solo da poco percorribile, raccontano: «Il terremoto è venuto a darci la caccia», paragonando il boato che ha preceduto la prima scossa al rumore sordo provocato dagli spari dei cacciatori.
Malgrado la perdita di familiari, compaesani e di tutti i propri beni, malgrado i contributi ricevuti siano modesti (le indennità statali ammontano a 14mila euro per chi ha perso la casa e a 4mila euro per chi ha subito danni, più 250 euro mensili per un anno elargiti, secondo alcuni testimoni, in modo casuale), questa gente di montagna, in tende adibite anche a scuole e moschee (solo alcuni villaggi hanno ricevuto container), resiste grazie a una fede incrollabile e alla solidarietà dei cittadini accorsi da ogni angolo del Paese.
C’è anche chi grida al miracolo. Uicha («piccola Aïcha») è uscita illesa dal crollo del mausoleo di Moulay Ibrahim; la bottega di Baha, lo speziale, è rimasta intatta. Si dice che a Tajghaout si sia salvato solo l’imam.
Inoltre, il sisma ha innescato un fenomeno geologico straordinario: con la frattura e lo spostamento delle rocce, le acque sotterranee hanno trovato nuovi spazi per fluire e salire in superficie e così in diversi luoghi, compreso l’epicentro, Ighil, dalle montagne anch’esse asciutte per l’assenza di pioggia e neve, sono sgorgate sorgenti d’acqua pura che gli abitanti hanno interpretato come una benedizione.
Calamità presenti e future
Il presente è grigio: scarsità d’acqua, post terremoto da gestire, aumento dei prezzi, sistema sanitario e scolastico a pezzi (da settembre è in corso uno sciopero dei maestri a contratto), disoccupazione, soprattutto giovanile (15-24 anni), ai massimi storici (38,25% nelle zone rurali e 49,7% in quelle urbane). E il futuro all’orizzonte è ancora più fosco: lunghi periodi di siccità e conseguente avanzata della desertificazione. Per questo non sorprende che la gente comune paragoni le calamità, naturali e non, che stanno colpendo il Paese a quelle bibliche. Ma è l’ultima delle piaghe d’Egitto, la morte dei primogeniti maschi, quella che più si presta a una lettura attualizzata se messa in relazione con l’esodo dei più giovani che, intraprendendo il viaggio migratorio lungo rotte sempre più pericolose, accettano implicitamente il rischio di morire.
D’altronde un detto popolare recita «il pane brucia» (kkubz hār in darija) e per guadagnarselo bisogna soffrire, mettendo anche a repentaglio la vita.
I giovani in fuga, una scelta obbligata
Nei villaggi non si parla di altro. Della pioggia che non arriva, delle preghiere nelle moschee per invocarla, e dei giovani che vanno via. Solo Ouled Kichou, villaggio con una popolazione stimata di duemila persone, negli ultimi sei mesi ne sono partiti più di sessanta, tutti tra i ventiquattro e i trent’anni. Un primo gruppo, composto da una quarantina di persone, è arrivato a destinazione (l’Italia). Il secondo, composto da ventiquattro, ha avuto meno fortuna: quattro hanno desistito lungo il viaggio, diciassette sono stati rimpatriati. Tre, avendo in mano dei passaporti falsi, sono bloccati in Turchia.
Scartata la rotta del Mediterraneo orientale (dopo l’intensificazione dei respingimenti in mare da parte della Grecia dal 2019) e quella del Mediterraneo occidentale verso la Spagna, vista l’ulteriore stretta del Marocco nel controllo delle frontiere a seguito della nuova pioggia di finanziamenti europei (500 milioni di euro, stanziati dopo la tragedia – era il 22 giugno 2022 – a Melilla in cui morirono 37 persone), sempre più marocchini tentano – assieme a iracheni, afghani, pachistani, bengalesi, siriani e palestinesi – la rotta balcanica.
Arrivati con l’aereo in Turchia (per i marocchini non c’è l’obbligo di visto), i migranti devono attraversare ben sette frontiere: turco-bulgara, serba, bosniaca, croata e slovena-italiana.
Raggiungere la prima, con la Bulgaria, è la parte più difficile e rischiosa. Quelli più fortunati sono accompagnati in auto a pochi km dal confine anche se poi è difficile superarlo per via della border police che non esita a impiegare armi da fuoco, cani e mazze da baseball e a denudare le persone.
Altri, come il gruppo dei 24 di Ouled Kichou, sono lasciati anche a decine di km di distanza. Devono dunque proseguire a piedi, nei boschi, guidati da un rehber («guida», in turco).
Il rehber – come il ra’ìs, il capitano o «scafista» che guida la barca sulla rotta mediterranea – è un connazionale, spesso coetaneo che, dopo vari tentativi, conosce i punti di controllo e di incontro per essere presi in consegna dal successivo gruppo di trafficanti. Se riuscirà a passare, non dovrà pagare nulla (secondo le testimonianze, il viaggio può costare sino a ottomila euro).
Mentre si attraversa il bosco si può, inoltre, cadere nelle imboscate di banditi curdi che estorcono denaro, anche sotto forma di riscatto.
L’odissea di chi fugge
Se si viene intercettati dalla polizia turca, si viene condotti in centri di detenzione amministrativa (sarebbero almeno 30, secondo asylumineurope.org), gestiti dalla Direzione generale per la gestione della migrazione, dove attendono – per un tempo indefinito – il rimpatrio.
I giovani rimpatriati che abbiamo intervistato a Ouled Kichou, sono stati portati nel centro di Kirklareli, al «Pehlivanköy Reception and Removal Centre».
Finanziato nel 2011 all’85% da fondi europei, per accogliere 750 richiedenti asilo, in seguito dell’accordo Turchia-Ue del 2016, esso è stato trasformato in centro per il rimpatrio che ospiterebbe circa 5mila persone. I testimoni lo descrivono come una vera e propria prigione: i cellulari vengono sequestrati, non si può uscire e non possono entrare organizzazioni umanitarie o legali.
«Nel centro – raccontano i giovani – si dorme almeno in otto per stanza. Non ci sono interpreti o mediatori per cui puoi ottenere informazioni sulla tua situazione solo tramite connazionali che stanno lì da tempo. Abbiamo visto anche persone con le gambe in cancrena per il freddo o lacerate dai morsi dei cani o doloranti per i lividi provocati dalle bastonate, non ricevere assistenza medica adeguata. Ci sono anche delle celle sottoterra e ci hanno detto che lì sono detenuti i terroristi».
Il sogno europeo resiste
Per coloro che sono stati rimpatriati, la legge marocchina prevede che non possano lasciare il Paese per cinque anni. I giovani di Ouled Kichou però non vogliono mollare.
Seppur nessuno si sogna di intraprendere una seconda volta il viaggio lungo la rotta balcanica, qualcuno come Y., che di tentativi via terra e via mare ne ha già fatti una decina, sta già pensando ad altre vie di fuga: «Magari la prossima volta prendo un biglietto per il Brasile. Poi nello scalo esco e scappo». Per qualcuno non sono che degli incoscienti, per altri degli eroi.
Per Mohammed, studente di diritto all’università di Marrakech, i giovani nascono già con l’idea di migrare e quindi non sviluppano un senso di appartenenza al Paese, mentre è ancora forte, malgrado i fallimenti o le fatiche delle generazioni precedenti che sono emigrate, l’idea che l’Europa sia un posto pieno di opportunità, e per raggiungerla sono pronti a tutto.
«È anche vero che qui un laureato guadagna non più di 400 euro al mese e che per studiare all’università, o diventare giudice, come sogno di fare io, devi corrompere qualcuno. Quindi, se il Paese non lo puoi cambiare, lo devi solo lasciare. Se le frontiere fossero aperte, qui non rimarrebbero che donne e vecchi».
Silvia Zaccaria
Se l’arte salverà il Burkina
Silvia è una ragazza tranquilla. Un’intuizione le dice che vivrà lontana dalla sua città di provincia. Studia, poi lavora nel sociale. Ha un’innata propensione all’aiuto agli altri, e una importante vena artistica. Invece di aspettare l’occasione, se la costruisce. E la sua vita sboccia.
Silvia Ferraris è nata nel 1977 ad Asti, e da oltre dieci anni vive a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. «Fino da ragazzina – ci confida al telefono – qualcosa mi diceva che avrei vissuto molto lontano dalla mia città. E questa intuizione ha attraversato tutta la mia vita».
Silvia si trasferisce a Torino per studiare Scienze della comunicazione nel 2000. «In quel periodo feci un viaggio con amici in India, e questo mi fece venire l’idea di lavorare nella cooperazione internazionale». Ma le opportunità sono altre e Silvia fa un anno di servizio civile presso l’ufficio minori stranieri: «Lavoravo in comunità con i cosiddetti baby pusher e le ragazze rumene sfruttate. Nel cuore avevo sempre il desiderio di scoprire i luoghi da dove venivano questi ragazzi».
Nel frattempo, continua a formarsi e consegue una seconda laurea triennale in Scienze dell’educazione. Silvia ha una sua «parte artistica» che non trascura: «Facevo i ritratti ai ragazzi delle comunità. Ho poi deciso di iscrivermi alla scuola di arte terapia, a Milano, della durata di tre anni. Questo percorso mi ha dato la possibilità di coniugare due desideri: spendere le mie competenze in una attività di aiuto, e lavorare nel settore dell’arte».
Il grande salto
In quegli anni conosce anche l’associazione Wai Brasil di Torino (oggi Relamondo), e realizza con alcuni soci un viaggio in Brasile.
Ma tutto questo non basta. Silvia segue anche un master in cooperazione «nei week end, così potevo continuare a lavorare». Capisce che deve fare un’esperienza di lungo periodo: «Ho cominciato a preparare questa idea nel 2010 e due anni dopo sono riuscita a partire. Avevo 33 anni».
Silvia ha pensato a un progetto di arte terapia, da attuare in un Paese africano: sarà il tirocinio della sua formazione. Bussa a diverse porte di Ong, ma non trova un appoggio. Poi, una mattina, durante una sua ricerca su internet, appare il nome di una piccola Ong francese: Hamap humanitaire. «Ho scritto loro. Hanno valutato la mia idea e si sono detti interessati a fare un crowd funding per finanziarla. E così parto, con la metà del finanziamento coperto da una raccolta popolare francese».
Silvia vive un anno in Burkina Faso, dove applica quanto ha appreso nella scuola di arte terapia. «In quell’anno ho capito che il popolo del Burkina Faso è permeato dall’arte. La mia proposta di arte terapia era molto simile a tante pratiche locali, ma si trattava di cambiare prospettiva. Ho anche capito che un anno non sarebbe bastato: volevo continuare a scoprire delle cose».
La vita professionale s’intreccia con quella sentimentale: nel Paese conosce il burkinabè che sarebbe diventato suo marito. Dopo un breve rientro in Italia, decidono di stabilirsi a Ouagadougou nel 2014. Intanto nasce la prima figlia. Qualche anno dopo sarebbe arrivato anche il fratellino.
Una nuova famiglia
«La mia vita è diventata la routine dell’organizzazione famigliare, sebbene in Burkina. Le priorità sono cambiate. Ho iniziato a fare diverse collaborazioni nell’ambito educativo. Intanto mio marito si occupava di una fattoria biologica. Ma anche l’arte terapia era un lavoro che volevo fare crescere».
In Burkina Silvia conosce altre persone impegnate nel sociale e nell’arte. Sono Alice Ouedraogo che lavora con un’associazione per i diritti delle donne e dei bambini, e suo marito, l’italiano Stefano Dotti. Poi c’è Véronique, sorella di Alice, impegnata nell’arte dei tessuti burkinabè. Successivamente incontra l’attore di teatro e regista Sie Palinfo, che subito si trova in sintonia con le sue idee. Anche Elisa Chiara, italiana che lavora nella cooperazione, integra il gruppo, che diventa di tre italiani e tre burkinabè, quattro donne e due uomini.
Insieme, danno vita a un’associazione, «Waga studio», dove Waga suona come Ouaga, il diminutivo famigliare con cui è chiamata la capitale del Paese.
«Le prime attività risalgono al 2015, mentre a livello giuridico è registrata dal 2021. L’obiettivo è promuovere il savoir faire locale nell’ambito della cultura, delle arti e del benessere. Ma un’altra finalità è valorizzare l’aspetto “terapeutico” delle arti. Ovvero usare le varie forme d’arte come strumento di sviluppo personale, soprattutto con persone bisognose. Ad esempio, i ragazzi e le donne in situazioni difficili. Questo aspetto è anche frutto della mia esperienza personale, in quanto arte terapeuta».
Il Paese in crisi
Intanto la situazione sociopolitica del Burkina peggiora. Dal 2016 gruppi armati islamisti imperversano nell’interno del Paese, costringendo molte scuole a chiudere e i centri sanitari a evacuare. La popolazione di molte aree fugge e si riversa in capitale, in improvvisati campi di sfollati che vanno a gonfiare i quartieri periferici. Il governo del presidente Roch Marc Christian Kaboré non riesce a mettere un freno. Tale situazione di instabilità porta a un primo colpo di stato militare, il 24 gennaio del 2022 (cfr MC maggio 2022) e a quello successivo del settembre dello stesso anno. La giunta militare è oggi guidata dal capitano Ibrahim Traoré, giovane ufficiale dell’esercito, e demagogo. Di fatto la situazione della sicurezza è peggiorata mentre si sono intensificati gli arresti arbitrari e le sparizioni politiche, perpetrati da emissari del governo militare.
Il Burkina Faso, insieme a Mali e Niger, anch’essi guidati da giunte militari, ha costituito la coalizione «Alleanza dei paesi del Sahel», che ha voltato le spalle agli alleati storici, come la Francia, e si è avvicinata alla Russia di Vladimir Putin.
«Oggi in molti incroci di Ouagadougou hanno messo quattro bandiere: oltre a quella nazionale, quelle di Niger, Mali e Russia», ci dice Silvia, aggiungendo: «è quasi grottesco». Il Paese vive una situazione molto difficile di instabilità, insicurezza e aumento della povertà, acuita dall’incremento dei prezzi dei generi alimentari, oltre che a una grave regressione del processo democratico e del rispetto dei diritti umani.
In tutto questo Silvia non si scoraggia: «Io credo sempre nella saggezza dei burkinabè».
Arti per la vita
Il gruppo di Waga studio scrive un progetto, «Le arti per la vita, appoggio alla gioventù vulnerabile», che viene presentato alla Tavola valdese nel 2022 ed è finanziato nel 2023. Silvia ci descrive le attività: «Il cuore del progetto è una delle finalità di Waga studio, realizzare dei percorsi artistici dedicati ai ragazzi per fare loro conoscere le proprie potenzialità e aiutarli nello sviluppo personale». L’équipe di Waga studio ha lavorato con venti giovani, alcuni dei quali studenti universitari, che erano fermi per una delle tante sospensioni della didattica.
«Abbiamo proposto loro momenti bisettimanali, atelier di alcune ore, di diverse discipline artistiche, secondo un tema. Si trattava, in una prima fase, di un momento di espressione corporea: danza libera con ritmi particolari, ascolto del proprio corpo, esercizi vicini al teatro e alla danza terapia. Seguiva una parte di arte visiva: dopo che ci si è espressi con il corpo, si mette il vissuto sul foglio, oppure sull’argilla. Parliamo di sviluppo personale, perché questo metodo, attraverso l’arte, fa venire fuori qualcosa, un vissuto, da dove vengo, il presente qui e ora, un’idea di futuro.
Una ragazza ha disegnato il suo villaggio, e poi ha pianto. Dovrebbe servire anche per dare risposte, ad esempio a un’idea da realizzare, oppure a un passato che fa male, a un trauma che continua a riemergere».
A questo progetto hanno partecipato anche l’associazione italiana Relamondo e la belga Nyangazam. Poi il finanziamento è finito e così anche il progetto.
Oggi l’équipe di Waga studio segue diverse attività, da atelier di arte terapia con bambini affetti da noma (malattia che colpisce i più piccoli e ne deturpa il volto), al lavoro con un gruppo di donne sfollate, per il recupero della plastica nel quartiere dove sono accampate. In questo caso il fine è il riciclo per realizzare oggetti di utilità o piccole opere artistiche.
Il sogno
Ma il grande sogno di Silvia, che condivide con gli altri membri dell’associazione è la creazione di un centro culturale permanente a Ouagadougou.
«L’idea è quella di valorizzare il potenziale artistico presente in Burkina – ci spiega -, prendendo spunto dal progetto “Le arti per la vita”, utilizzando le competenze artistiche per formare gruppi di giovani all’arte della performance nei vari settori, con l’obiettivo di permettere loro di scoprire il proprio potenziale e di coltivarlo. È come un coaching, attraverso esperienze artistiche». E continua: «Alla fine della scuola ci sono le restituzioni in performance, ciascuno avrà la sua reazione, ma l’importante è il processo di presa di fiducia in se stessi, di consapevolezza del proprio potenziale».
Il centro vuole essere uno spazio la cui «finalità principale è quella di agire da volano di cambiamento sociale attraverso le arti, per promuovere la cultura della pace e del rispetto reciproco in un processo di costruzione di valori comuni», recita il testo che descrive il progetto. E si tratterà di un centro italo-burkinabè, non solo perché realizzato da un gruppo misto, ma perché vedrà una commistione delle arti dei due paesi.
Tante attività
Avrà un ristorante con cucina delle due culture, italiana e burkinabè, e la fusion tra esse, inoltre ci sarà un coworking. Queste due attività dovranno servire anche all’auto sostentamento economico.
Il centro sarà basato su una scuola di performance: «Questo perché la performance racchiude tutte le arti e permette di comprendere al meglio qual è il campo d’azione privilegiato degli allievi. Inoltre ha potenti ricadute arte terapeutiche: il miglioramento dell’autostima, della fiducia in sé stessi, della capacità di ascolto ed espressione davanti a un pubblico».
Nel centro si realizzeranno anche tutte le attività già svolte nel progetto «Le arti per la vita», con atelier di sviluppo personale in coaching e arte terapia, e formazioni professionali di tipo artistico nei diversi ambiti. Si potranno fare anche dei coach a distanza con professionisti in Italia e Belgio.
E poi sarà uno spazio per corsi di fotografia per ragazzi svantaggiati, esposizioni fotografiche e artistiche, atelier di lettura, spettacoli di vario tipo e festival e molto altro.
La questione resta sempre il finanziamento per partire. Silvia e gli altri stanno presentando il loro progetto a diversi enti, ma sono rari quelli disposti a promuovere la cultura. Anche se, in questo contesto, può voler dire occupare giovani, riempire loro un vuoto e toglierli dalle grinfie dei gruppi armati che li stanno reclutando in gran numero.
Silvia, inoltre, sta portando avanti diversi progetti personali, legati alla danza e all’arte visiva.
La scuola di performance è proprio frutto di questo percorso di formazione artistica.
«A volte, l’idea del centro culturale mi sembra un sogno irraggiungibile. Nel periodo storico che sta vivendo il Burkina è ancora più difficile. Però è stato il frutto di una riflessione profonda, e più immagino cosa vorrei realizzare, più vedo quello. Sia per la mia storia personale, sia perché ci sono tanti artisti bravi in questo Paese».