La croce, con tantissimi poveri cristi – Speciale BRASILE

Dall’alto del Corcovado

Inaugurata nel 1931 come segno
della lotta contro il comunismo,
la mastodontica statua del Redentore,
dall’alto della collina del Corcovado,
domina Rio de Janeiro e l’intero Brasile.
Un simbolo, ma non solo.

Una cosa è certa: la chiesa del Brasile non può passare inosservata, con 119 milioni di abitanti che si dichiarano cattolici.
«La storia del Brasile mostra una chiesa identificata con la vita del popolo. Essa è stata presente in maniera decisiva in ogni momento, ma soprattutto nella vita quotidiana, umile e oscura»: hanno scritto i vescovi del Brasile nel 1972, in occasione del 150° anniversario dell’indipendenza.
Non è sempre stato così. E tutto è cominciato 500 anni fa.

Lenti e non facili inizi

22 aprile 1500. Una spedizione portoghese, guidata da Pedro Alvares Cabral, sbarca sulle coste di un paese sconosciuto, battezzato «Vera Cruz». Ma la terra ha già i suoi «proprietari»: 5-6 milioni di indios.
Pochi giorni dopo, padre Henrique da Coimbra, francescano, celebra la prima messa e pianta la croce (per ricordare il gesto, il 27 marzo 1999 Giovanni Paolo II benedisse una riproduzione della croce, che percorse l’intero Brasile).
Insieme alla colonizzazione, inizia così l’evangelizzazione, che assume caratteristiche particolari. La più evidente è un «ritardo brasiliano» (sia nell’organizzazione ecclesiastica, sia nell’annuncio missionario), poiché per tutta la prima metà del 1500 il Brasile è una «colonia di riserva» del Portogallo. Non esiste né un chiaro progetto di dominazione, né una sistematica azione dei missionari. Il cristianesimo penetra lentamente attraverso vari cicli.
Il 1551 è importante: il papa nomina il re Giovanni III e i suoi successori «grandi maestri dell’ordine di Cristo», conferendo loro la responsabilità di propagare la fede, nominare i vescovi, raccogliere fondi per la chiesa, sorvegliare i tribunali ecclesiastici. Il 25 febbraio, con la bolla Super specula, Giulio III erige la prima diocesi, São Salvador de Bahia, con il vescovo Pedro Sardinha.
Questi non è all’altezza della situazione e finisce divorato dagli indios nel 1556. Ha avuto pure gravi contrasti con i gesuiti. Costoro hanno metodi missionari un po’ tolleranti; il vescovo, convinto dell’assoluta negatività dei culti locali (nonché della superiorità portoghese), li obbliga a modificare il loro stile.
Cresce intanto lo scontro tra indigeni e coloni, sempre più avidi di terre e di lavoratori per le piantagioni. Gli indios fuggono verso l’interno, aiutati dai gesuiti che, per proteggerli, creano speciali aldeias (villaggi).
Il villaggio è una «repubblica indigena»: ottiene un’autonomia quasi assoluta e giunge ad avere anche oltre 10 mila persone. Separati dai centri portoghesi, i villaggi degli indios mirano a far rispettare la loro libertà, mutae il nomadismo, evitare la presenza «scandalosa» dei colonizzatori, promuovere lo sviluppo globale.
I missionari trovano non poche difficoltà nell’evangelizzare gli indigeni, radicati anche nel cannibalismo. Simpatico è l’incontro tra un gesuita e una vecchia india, prossima a morire. Dopo averla battezzata, il padre le chiede se desidera qualcosa. «Se ti portassi dello zucchero o saporiti frutti di mare, li mangeresti?» le chiese. «Ah! – risponde la convertita – Il mio stomaco rifiuta ogni cibo. C’è solo una cosa che potrei toccare: se avessi la mano di un tenero bimbo tupuya, potrei piluccarne le piccole ossa; ma non c’è nessuno che vada ad uccidee per me!»…
Per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, arrivano anche schiavi importati dall’Africa. Si calcola che, dal 1500 al 1852 (anno in cui finì la tratta), siano stati introdotti in Brasile 3 milioni e mezzo di schiavi. Proprio nelle piantagioni si diffonde il primo cristianesimo.
Il problema degli schiavi non attira la giusta attenzione evangelizzatrice e liberatrice. I gesuiti tentano, ove possibile, di risparmiare le sofferenze agli indios, ma non ai neri, che sono abbandonati a se stessi.
In ogni piantagione c’è una cappella: ma, anziché simbolo di riscatto, diventa segno obbrobrioso dell’ordine imposto dal padrone. È lui che si sceglie il cappellano, cui spetta celebrare i sacramenti e sedare i conflitti. L’unico controllo è la visita sporadica di qualche missionario. In tale occasione cappellano e proprietario ricevono l’ospite con onore, perché si convinca che la fede viene praticata e… tolga subito il disturbo.
gesuiti all’assalto
Nel 1576 la diocesi di São Salvador viene divisa, dando origine alla prelatura di Rio de Janeiro. Solo nel 1745 (quasi due secoli dopo) sorgeranno altre due diocesi: Mariana e São Paulo. Nel 1822, anno dell’indipendenza, il Brasile conta appena un’arcidiocesi, sei diocesi e due prelature, per 4 milioni di abitanti.
Ciò è una conseguenza del «patronato», diritto che la Santa Sede ha concesso al Portogallo nel 1493, grazie al quale lo stato è responsabile dell’evangelizzazione nei territori non europei conquistati. Attraverso la Mesa de Consciencia e Ordens (organismo creato nel 1532), si decide la creazione di parrocchie e diocesi, l’installazione di ordini religiosi, la fondazione di conventi. Alla Santa Sede rimane solo la conferma delle nomine episcopali.
L’azione pastorale ha i suoi protagonisti negli ordini religiosi, sostituiti dal clero secolare alla fine del xviii secolo: primi i francescani, seguiti da gesuiti (1549), benedettini (1582), carmelitani (1584) e cappuccini (1612). La maggioranza è portoghese, ma non mancano spagnoli, francesi e italiani.
Sono specialmente i gesuiti a porre le fondamenta delle grandi città, aprire scuole, costruire chiese, ponti, strade e… versare il proprio sangue, come i fratelli Pierre Correa e Jean de Souza, primi martiri brasiliani.
Tre figli di Sant’Ignazio rimangono memorabili nella storia del Brasile: Manoel de Nobrega (capo-spedizione del primo gruppo arrivato nel paese), José de Anchieta e Antonio de Vieira.
In Brasile il 9 giugno è la giornata nazionale dell’educazione ed è questa la data di morte di Anchieta (1597), definito «il primo umanista dell’America e il primo americano dell’umanità». Più discusso è Vieira (1608-1697), in cui si mescolano abilità politica (fu ambasciatore in vari paesi), passione in difesa degli indios (per cui fu rispedito in patria), visioni profetiche troppo in favore del re Giovanni iv e gaffe di fronte alla schiavitù nera.
La lotta antischiavista dura 200 anni. I gesuiti si scontrano con fazendeiros e cercatori di schiavi; sono sostenuti anche dalla corte portoghese, che però è distante; per cui le sentenze, boicottate dalle autorità locali, non sempre raggiungono lo scopo. Nel 1640 la lettura pubblica della bolla di papa Urbano (che vieta il traffico di schiavi indios) provoca tumulti a Rio de Janeiro, Santos e São Paulo. I gesuiti vengono espulsi da São Paulo.
È l’anticipo della cacciata dall’intero Brasile nel 1759: 428 gesuiti lasceranno parrocchie e collegi, causando un tonfo alla chiesa. Ristagna la vita religiosa, gli indios si vedono privati dei loro apostoli, riprende vigore lo schiavismo. Oltre alle autorità civili, anche il clero secolare e gli altri ordini non sopportano tanto i gesuiti, perché sono molto ricchi, hanno troppi privilegi e possono appellarsi a Roma e Lisbona.
Uno storico afferma che «senza i gesuiti, la storia coloniale non sarebbe nient’altro che una catena di atrocità senza nome» (Joaquim Nabuco). Ma c’è chi li accusa di aver ridotto gli indios «a regime di collegio, tenuto da preti… in cui andavano distrutti ogni spirito vitale, freschezza e spontaneità» (Gilberto Freyre).
Facendo un bilancio, la «prima evangelizzazione» è contrassegnata da ombre e luci. Dopo 250 anni di pastorale, non esiste alcun prete indigeno e il cristianesimo non è assimilato dalla popolazione. Si è invece diffusa una fede devozionale. Meticci e neri elaborano propri sincretismi religiosi, accogliendo elementi del messaggio evangelico, interpretando a loro modo i contenuti ricevuti e trovandovi conforto e speranza. La gente semplice si identifica con il Crocifisso e, guardando «all’uomo dei dolori», trova inesauribili risorse per resistere a violenze e umiliazioni.

una chiesa «impacciata»
Nel 1822 i grandi proprietari inducono Pedro i, principe ereditario del Portogallo, a proclamarsi imperatore del Brasile indipendente. Lisbona lo accetta. La Santa Sede riconosce al nuovo imperatore il diritto di «patronato».
Al sovrano si chiede persino il permesso di ordinare i preti. E dom Pedro comanda: «Giudicando che non si deve, senza necessità, aumentare il numero dei ministri della chiesa e rubare all’impero braccia che lo possano difendere contro i nemici, ordina che non si ammetta per ora alcuna persona agli ordini sacri, senza licenza previa dello stesso augustissimo signore».
È un fatto assai negativo. In Brasile nel 1872 si conta solo un migliaio di preti, concentrati specialmente nelle città della costa; all’interno, un sacerdote dirige anche 20 e più parrocchie, sparse per migliaia e migliaia di chilometri quadrati!
Sotto il regno di Pedro ii, la chiesa ha delle scaramucce con il governo. Una parte del clero si oppone alla monarchia. È il caso di Diego Feijao: partecipa alla rivoluzione liberale del 1824, viene arrestato e deportato. La rivoluzione produce anche il primo sacerdote martire repubblicano: fra’ Joaquim Caneca. Né si può dimenticare l’influenza della massoneria nella «questione religiosa». L’epilogo è il processo, la condanna e la prigionia dei vescovi di Olinda e Pará, rei di aver difeso i diritti e la libertà della chiesa.
Con Pedro II inizia la «seconda evangelizzazione» del Brasile. I vescovi, insoddisfatti della situazione, riformano le comunità secondo uno stile tradizionalista: origine divina di ogni potere, alleanza fra trono e altare, primato dello spirituale sul sociale, lotta contro le forze sataniche (come la massoneria).
Per attuare il progetto, ci si appoggia a congregazioni straniere: ai lazzaristi si affida la formazione dei preti; ruoli importanti hanno anche cappuccini e gesuiti (rientrati nel 1846, dopo l’espulsione). Nel 1860 i francescani evangelizzano gli indios del Rio delle Amazzoni, mentre i cappuccini operano tra le tribù della costa orientale.
Spazio anche per le suore: le figlie della carità, le francescane olandesi, le suore di San Giuseppe…
Gli agenti ecclesiali dedicano attenzione particolare ai fedeli di provenienza europea (poveri immigrati che sostituiscono, nel lavoro, gli schiavi), per proteggerli dai sincretismi religiosi. Così il «nuovo cristianesimo» trova il suo habitat nelle aree di recente immigrazione: le regioni meridionali, le cittadine sorte grazie allo sviluppo economico.
Emerge una fede abbastanza disincarnata: nessun impegno sociale, ma sopportazione e buon esempio; molta devozione personale e accettazione rassegnata del proprio stato quale strumento per la salvezza dell’anima.
ripensamenti…

Nel 1889 cade la monarchia e viene proclamata la «Repubblica degli Stati Uniti del Brasile».
La nuova costituzione garantisce alla chiesa libertà e diritto di proprietà. Tuttavia, per la legge della «separazione», è vietato l’insegnamento della religione nelle scuole, è riconosciuto solo il matrimonio civile e vengono secolarizzati i monasteri. I vescovi protestano. Però alcuni si rendono conto che la «separazione» è una «liberazione» dalla protezione-oppressione dello stato.
Nel 1922 il cattolicesimo ritorna religione di stato. Precedentemente, nel 1916, Sebastião Leme, vescovo di Rio de Janeiro, aveva scritto che il Brasile è «la maggiore nazione cattolica del mondo, un paese essenzialmente cattolico». Però la religione è mal compresa. Occorre pertanto evangelizzare ogni ambiente e «cattolicizzare» le diverse realtà.
Nascono diverse opere: l’università cattolica; il Centro dom Vital come strumento di cristianizzazione dell’intelligentia brasiliana; A Ordem, la rivista del pensiero cattolico; l’Azione cattolica; le pasque collettive; la Lega elettorale cattolica; la lotta per una legislazione contro il divorzio e la stipulazione di relazioni diplomatiche con la Russia…
Alle prese con la crisi economica, il presidente-dittatore Vargas cerca l’appoggio dei vescovi. Questi fanno eleggere laici fidati nell’assemblea costituente, intervenendo nella stesura del codice civile e penale. Lo stato concede privilegi alla chiesa, ottenendo in compenso il silenzio di fronte al regime autoritario.
Ma, dagli anni ’40, la chiesa ripensa se stessa partendo dalla promozione umana, pur non osando dichiarare che è il sistema da ribaltare: però incomincia a denunciare le disumane condizioni dei contadini, appoggia le aperture riformiste, ma si oppone alle leghe contadine di ispirazione marxista.
Si discute di riforma agraria. Il 10 settembre 1950 il vescovo Inocêncio Engelke pubblica una lettera pastorale di vasta eco: «Con noi, senza di noi o contro di noi si farà la riforma agraria».
I vescovi sentono il bisogno di progettare insieme: tanto che già nel 1952 nasce la Conferenza episcopale dei vescovi brasiliani (Cnbb), più di dieci anni prima del Concilio! Anche la pratica pastorale incomincia a mutare attraverso sperimentazioni innovatrici.
Nel 1948 il movimento di Natal (nordest) avvia una pastorale fondata su équipes di laici volontari, per combattere la miseria della popolazione e con precisi obiettivi: formazione religiosa dei fedeli, alfabetizzazione degli adulti, trasformazione delle strutture socio-economiche. Significativa è l’esperienza di catechesi di Barra di Piaui (affidata a laici) e di Nizia Floresta, dove si affida a suore la responsabilità di alcune comunità.
Dal 1959 ci si interessa ai sindacati rurali e nel 1960 il Fronte nazionale del lavoro inaugura un nuovo sindacato, ispirato da cristiani nel contesto operaio urbano. Nel 1961 nasce il Meb (Movimento di educazione di base) per l’alfabetizzazione e la formazione delle masse contadine: ottiene uno straordinario successo grazie all’uso della pedagogia liberatrice di Paulo Freire.

La miccia è ormai innescata. Siamo alla vigilia del Concilio ecumenico Vaticano II. È l’evento che avrebbe dato il via ad una rivoluzione nella chiesa del Brasile, con la nascita della comunità di base, la teologia della liberazione, la scelta preferenziale per i poveri.
E questa è tutta una storia nuova.

Giacomo Mazzotti




Ascoltare il grido del povero – Speciale BRASILE

Il Concilio ecumenico
Vaticano II ha dato il «là» ad un coro maestoso,
a dispetto di qualche «stecca».
È partendo da questa immagine che accenniamo alla lunga e difficile «caminhada» della
chiesa brasiliana.
La voce più evangelica? Quella dei semplici.

«È questa… un’età in cui la coscienza dell’umanità interroga e scruta con ansiose e drammatiche domande il perché della povertà e il destino dei poveri: dei singoli poveri e di interi popoli poveri, che prendono consapevolezza nuova dei loro diritti… Un’età in cui la povertà di moltissimi (due terzi dell’umanità) è offesa dal confronto con la smisurata ricchezza di pochi…». Queste sono parole del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, durante la prima sessione del Concilio ecumenico Vaticano II. Correva l’anno 1962.
Diversamente da quanto si può pensare, non è un teologo del Sud del mondo a pronunciare quelle espressioni, ma un significativo rappresentante della chiesa del Nord.
E proprio da Roma, centro della cattolicità, iniziamo il percorso della storia contemporanea della chiesa in Brasile. Strano inizio per una riflessione teologica che si farà conoscere per la sua originalità e che, con la Santa Sede, avrà anche seri motivi di incomprensione, se non di aperto scontro.

l’impatto
con i problemi sociali

Il Concilio ecumenico Vaticano II è nuovo nella sostanza e nella forma. Rompe una tradizione secondo la quale, almeno dal secolo XIII, i concili sono la sede privilegiata per affrontare i problemi della decadenza e riforma della chiesa.
Fin dal messaggio di apertura, papa Giovanni XXIII esplicita gli obiettivi speciali del Concilio: apertura al mondo moderno, unione dei cristiani e attenzione ai poveri. È veramente un evento ecumenico, universale, e guadagna nuovi attori: attori, in particolare, nell’America Latina.
Il Vaticano II vuole ridiscutere la risposta ideologica e pratica che la chiesa ha dato alla modeità. Per far questo ha bisogno del contributo di tutti: delle chiese del primo mondo sviluppato, di quelle del secondo mondo (che, all’epoca, vivono l’esperienza del «silenzio imposto»), ma anche di quelle del terzo mondo, che portano al tavolo della discussione i problemi del sottosviluppo. Le questioni sociali approdano a Roma, volenti o meno, grazie ai vescovi del Sud.
L’industrializzazione e l’urbanizzazione hanno già preso piede nell’emisfero nord, mentre in quello sud il cambiamento avverrà più tardi, imposto da regimi populisti e autoritari. È il caso dell’America Latina.
Però anche il contesto socio-ecclesiale latino-americano (che precede il Concilio) è diverso da quello occidentale: mentre, ad esempio, in Europa il cambiamento sociale è avvenuto in modo autonomo, in America Latina si ha una convergenza significativa tra mutamento sociale e rinnovamento ecclesiale.
L’America Latina è nella necessità di cambiare. La «pressione storica» obbliga i vescovi ad occuparsi di povertà e fame, che nella tradizione non sono temi dell’«agenda teologica».
Qui incomincia e prende forza la «novità brasiliana». Una novità che non è frutto di qualche teologo illuminato, ma è un prodotto specifico della realtà locale. Se, infatti, la chiesa europea negli anni ’60 è questionata dal problema «fede-scienza» ed entra in un processo di secolarizzazione, la chiesa brasiliana si confronta con il rapporto «fede-rivoluzione». E l’obiettivo è la liberazione.
In Europa la chiesa è sfidata teologicamente dall’ateismo (prodotto tipico della società modea) e dalla proclamazione della «morte di Dio». In Brasile (e, più in generale, in America Latina) la sfida teologica è rappresentata dal sottosviluppo, causa prima della «morte dell’uomo».

Pensare, volere e agire
cattolicamente

La chiesa brasiliana si interroga sulla «morte dell’uomo». Così facendo si rinnova.
Negli anni ’50 il rinnovamento si attua attraverso il coinvolgimento dei laici. L’Azione cattolica, fondata da Pio XI nel 1922 con l’obiettivo di preparare collaboratori laici della gerarchia all’evangelizzazione del mondo, arriva in Brasile già nel 1935; ma è solo nella decade ’50 che si modifica in Azione cattolica «specializzata». Si costituiscono «rami» giovanili e, per quanto riguarda gli adulti, c’è l’Azione cattolica operaia. Ai lavoratori e agli studenti, riuniti nell’Azione cattolica, la situazione sociale, politica ed ecclesiale del Brasile appare sempre più chiara.
All’inizio c’è l’appello dei vescovi, più preoccupati della loro istituzione che della partecipazione laicale; di fronte al «disordine» della devozione popolare, rispondono con la «romanizzazione» e con un «nuovo ordine» conforme alle nuove esigenze.
La parrocchia, convocando i laici obbedienti al parroco, si propone come il centro propulsore del nuovo ordine. «Dobbiamo essere presenti nelle realtà palpitanti che il mondo suscita. Presenti per realizzare integralmente il nuovo ordine, che è lo stesso ordine perenne della cristianità, riassunto nel programma ideale di Pio XII: pensare, volere, sentire, agire cattolicamente». È quanto si legge nella «Rivista ecclesiastica brasiliana» del 1941.
Ma, alla fine degli anni ’50, i laici nei vari rami di Azione cattolica non si sentono più rappresentati da questa visione e vogliono cambiare il paese reale che gli sta davanti. Anch’essi, insieme ad alcuni teologi e pastori più sensibili, obbligano in qualche maniera l’istituzione ecclesiale a cambiare: dall’«opzione per l’ordine» (nostalgia di un regime di cristianità che non c’è più) all’ «opzione per il progresso», che la modeità sta portando anche in Brasile.
A partire dagli anni ’60, il problema «sviluppo» diventa il tema principale nelle discussioni pastorali. Tema che i latino-americani – come abbiamo accennato – porteranno sul tavolo del Concilio.

In nome del progresso

La nozione di «progresso» appare già nel 1956 nella Dichiarazione dei vescovi del nordest. D’ora in avanti sarà la categoria principale, usata dall’istituzione ecclesiale, per leggere i problemi sociali.
Alla luce anche di importanti encicliche – Mater et magistra (1961), Pacem in terris (1963) e Populorum progressio (1967) -, la chiesa brasiliana, proprio per le caratteristiche sociali in cui vive, rompe i legami con la tradizione rappresentata dai fazendeiros. Finalmente, anche nelle zone rurali più intee, la parrocchia acquista una fisionomia autonoma, indipendente dai «padrini». Questi, però, non si sentono affatto rappresentati dalla «nuova morale» del progresso e dell’industrializzazione che si va espandendo.
L’opzione per il progresso è, nelle intenzioni dell’istituzione ecclesiastica, l’unica capace di spezzare le vecchie relazioni di dipendenza, soprattutto nel mondo rurale. Nello spirito conciliare (con buona pace della oligarchia locale), la chiesa brasiliana intende aderire al mondo moderno che parla di uguaglianza e diritti civili. Il progresso economico appare il treno su cui salire per costruire una società di uguali.
Il progresso non è scelto per motivi economici, bensì per la portata morale che sottornintende. In tale senso, i vescovi (con in testa Helder Camara, grande profeta della chiesa brasiliana negli anni a venire) inizialmente appoggiano il golpe militare del 1964.
I militari sono venuti – parole del segretario della Conferenza episcopale – per «superare l’ostacolo del sottosviluppo e mantenere la pace sociale». L’equivoco sta nel pensare che il mondo moderno, inteso dal regime, sia lo stesso che voglia l’uguaglianza e le pari opportunità. La chiesa, che si è liberata dal liberalismo oligarchico, si allea con lo stato autoritario fino ai primi anni ’70, quando l’alleanza diventa insostenibile.
Intanto la crociata contro il sottosviluppo si fa sempre più accesa. La chiesa vede un pullulare significativo di iniziative, prese dalle singole comunità cristiane, per combattere l’analfabetismo, ma anche per promuovere la sindacalizzazione dei lavoratori. Si crea l’Azione cattolica rurale, sorge il Movimento di educazione di base, aumentano in modo impressionante le radio locali, impegnate nella coscientizzazione di base. Queste ed altre iniziative si avvalgono del patrocinio della chiesa, quando non ne sono un’emanazione.
Insomma il lavoro pastorale deve portare alla «terra promessa» del progresso, perché là finalmente ci sono diritti uguali per tutti. Solo quando il progresso mostrerà la sua faccia elitista e autoritaria, le comunità ecclesiali di periferia prenderanno il coraggio di denunciae la falsità.

La chiesa all’opposizione

Siamo negli anni ’70. Comincia una pagina di storia esaltante per la chiesa brasiliana, che si «converte».
Mentre si assiste al rafforzamento della dittatura militare (visibile anche nella prigionia di qualche vescovo, la tortura di alcuni sacerdoti e molti agenti di pastorale), la chiesa non può più tacere di fronte alle ingiustizie perpetrate dal governo. Se questo non frena lo sviluppo, non si può accettare – scrivono i vescovi del Maranhão nel 1973 – «come vero sviluppo ciò che non rispetta la persona». La concentrazione di terre in poche mani, favorita dalla politica agraria degli anni ’70, costituisce la ragione principale della critica che la chiesa muove al governo.
Sono le comunità cristiane dell’Amazzonia che prendono la parola di fronte ad una realtà sempre più inaccettabile.
Nel 1971 Pedro Casaldaliga, da poco vescovo di São Felix de Araguaia (Mato Grosso), in «Una chiesa in Amazzonia in conflitto con il latifondo e la marginalizzazione sociale», scrive: «Quello che abbiamo visto ci ha reso evidente l’iniquità del latifondo capitalista come prestruttura sociale radicalmente ingiusta e ci ha confermati nella chiara scelta di ripudiarlo». Nell’Acre, nel 1973 la chiesa elabora «Il catechismo della terra» nel quale, basandosi anche sulla legislazione vigente, si foiscono istruzioni per la difesa dei contadini e mezzadri.
L’attacco contro l’ingiustizia non è solo la parola isolata di qualche vescovo di periferia, ma diventa il problema dell’intera Conferenza episcopale. Nel 1976, in «Comunicazione pastorale al popolo di Dio», denuncia che «la cattiva distribuzione della terra in Brasile risale al tempo coloniale. Ma il problema si è accentuato negli ultimi anni come risultato degli incentivi fiscali alle grandi imprese agropecuarie».
È in questo modo che l’opzione evangelica per i poveri, caratteristica dell’azione pastorale della chiesa brasiliana nel post-concilio, diventa scelta politica: la chiesa rompe con lo stato autoritario. Al modello economico introdotto dai militari mancano, secondo i vescovi, i diritti riconosciuti a tutti, in particolare ai poveri. Allora la comunità cristiana fa sua la missione di difenderli e di lottare per la giustizia.
Nel 1980 i vescovi, riuniti in assemblea ordinaria, affermano: «Assumiamo l’impegno di denunciare le situazioni apertamente ingiuste e violente… riaffermiamo l’appoggio a iniziative giuste e alle organizzazioni dei lavoratori… sosteniamo gli sforzi del contadino per un’autentica riforma agraria».
Minacciata dalla repressione militare che investe sempre di più gente di chiesa, l’istituzione ecclesiastica cerca legittimazione non più appoggiandosi allo stato, autoritario e antidemocratico, ma nei poveri, negli esclusi da un progresso che arriva solo per una piccola casta.

Un pullulare
di esperienze

Il cambiamento di «luogo sociale» provoca anche un mutamento nell’organizzazione ecclesiale. Si apre, così, un’altra stagione feconda, non priva di ambiguità e limiti, per la storia della chiesa in Brasile. Secondo i teologi, è una rinascita, un modo nuovo di essere chiesa.
Sorgono le Comunità ecclesiali di base: recano una ventata di freschezza non solo alla chiesa brasiliana, ma anche a quella universale.
Insieme ad esse, si strutturano altre iniziative note come «pastorali sociali»: la Commissione pastorale della terra (Cpt) per la riforma agraria; il Consiglio indigenista missionario (Cimi) in risposta all’annoso problema indigeno; il Movimento nero (Mo) per i discendenti degli schiavi. Si organizza la pastorale operaia, quella della gioventù e dell’ambiente popolare; prende corpo l’impegno per i pescatori, la donna emarginata, ecc.
Si tratta di organismi non confinati nelle strutture ecclesiali, ma, per il lavoro che si prefiggono e il contesto sociale in cui operano, destinati (alcuni più di altri) a recitare un ruolo rilevante nella storia recente del Brasile.
La conquista della democrazia, raggiunta formalmente nel 1986, è avvenuta anche grazie a questi organismi ecclesiali.

tre esperienze
significative

Fra le numerose esperienze, che caratterizzano la chiesa brasiliana del post-Concilio, ne presentiamo tre: il Centro studi biblici, le Comunità ecclesiali di base e la Teologia della liberazione.

Il Centro studi biblici (Cebi)
Il movimento biblico in Brasile (che fa da riferimento anche per la ricerca biblica latino-americana) si propone un nuovo modo di leggere la bibbia.
Dato il particolare contesto socio-politico che caratterizza la società brasiliana nel 1960-70, la parola di Dio viene letta secondo tre angoli: bibbia, realtà, comunità. In tale triangolo l’obiettivo non è interpretare la bibbia, ma, con la bibbia, interpretare la vita.
Questa novità metodologica reca in sé un modo diverso di usare la scienza esegetica. C’è la preoccupazione di cogliere il contesto del testo biblico: prima ancora di studiarlo, si cerca di conoscere i problemi della società in cui è nato quel testo. In tale modo appaiono con facilità le analogie con l’attualità. La bibbia feconda la vita dei suoi lettori e si evita la tentazione del fondamentalismo.
È così che, alla fine degli anni ’70, nasce il Cebi come centro ecumenico: riunisce cattolici e protestanti. Inizia le proprie attività con tre tipi di corsi biblici: di formazione (4 settimane a livello nazionale); di attualizzazione (2 settimane a livello regionale); di base (3-4 giorni a livello locale).
Il Cebi diventa un patrimonio importante dell’intera comunità cristiana, e non solo brasiliana. Lo prova il fatto che, pure in Italia, alcuni gruppi di lettura popolare della bibbia vi fanno riferimento.
Negli anni ’90 la lettura popolare della parola di Dio si rinnova, per rispondere alla sollecitazione di un approfondimento non tanto biblico, quanto delle fonti e della storia in cui vengono a trovarsi oggi i lettori della bibbia. Bisogna – dicono i teologi latino-americani – ritornare a «bere l’acqua del proprio pozzo».
È la riscoperta della dimensione mistica della «parola». Con questo, anche la dimensione ecumenica si fa più matura: leggere la bibbia a servizio della vita aiuta a relativizzare le differenze confessionali e riporta al centro il dialogo ecumenico. Il servizio alla vita (non all’istituzione) esige la conversione di tutti e crea un’unità profonda, senza per questo eliminare le diversità.

Le Comunità ecclesiali di base (Cebs)
Nascono nello spirito conciliare, allorché la Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb), ancora nel 1966, ne appoggia la formazione e strutturazione come importante proposta pastorale. A partire dal 1974, i vescovi le indicano come una delle priorità. Le stesse Conferenze episcopali latino-americane, a Medellin (1968) e specialmente a Puebla (1979), ne parlano in termini di assunzione istituzionale.
La chiesa cattolica conferisce alle Comunità di base un riconoscimento ufficiale quando, specie nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975), ne parla come di «una speranza per la chiesa universale».
Dal 1975 gli incontri interecclesiali delle Cebs, in Brasile, sono – al dire di alcuni teologi – dei concili di base, al punto che la stessa Conferenza episcopale afferma: «le Cebs non sono un movimento, ma una nuova forma di essere chiesa».
Oggi le Comunità ecclesiali di base non sembrano vivere più con la vivacità degli inizi, quando la loro dimensione religiosa e politica era così evidente da essere temuta e citata persino dai rapporti di geopolitica statunitensi. Tuttavia restano un’eredità ecclesiologica da annoverare tra i contributi più originali della chiesa brasiliana contemporanea.

La Teologia della liberazione (Tdl)
È doveroso ricordare la riflessione teologica che ha permesso e matura le esperienze citate. Ci riferiamo alla Teologia della liberazione. È un fenomeno che va al di là della chiesa brasiliana, ma che in essa trova una delle protagoniste della sua ideazione e realizzazione.
Anche la Teologia della liberazione non nasce per caso, ma è frutto di un processo storico. Si possono distinguere tre fasi: la preparazione (1962-68), la formulazione (1968-’75), la sistematizzazione (dal 1976).
La Tdl nasce da «un’indignazione etica di fronte alla povertà e all’emarginazione delle masse»: così il teologo Leonardo Boff. Però fin dall’inizio, essa non si pensa come la teologia politica europea, bensì come un nuovo modo di fare teologia. Il suo problema non è un «oggetto specifico» (fosse anche la povertà), ma un «orizzonte» significativo per il pensiero teologico. Da una teologia, quale funzione critica dell’azione pastorale, si vuole passare ad una teologia quale riflessione critica della realtà sociale.
Il concetto di liberazione serve, meglio di altri, ad indicare il fine del pensare e dell’agire ecclesiale. Vegliando sulla teologia per non farla divenire una semplice branchia delle scienze sociali, la Tdl rinnova la riflessione cristologica ed ecclesiologica.
Presentando la figura di Gesù, soprattutto come liberatore, la cristologia evidenzia il primato dell’essere antropologico, utopico, critico e sociale… Spostando l’interpretazione della chiesa, non più ad intra ma ad extra, l’ecclesiologia che ne deriva si preoccupa dello sviluppo, della giustizia, ecc. Un’ecclesiologia che si confronta con la propria efficacia storica, o meno, e che misura i propri risultati in rapporto al cambiamento della società.
Il che è anche discutibile.

E c’è dell’altro…

La chiesa brasiliana del dopo-Vaticano II è un dono alla chiesa universale; un dono reso più ricco dagli incontri dell’episcopato latino-americano a Medellin (1968), Puebla (1979) e Santo Domingo (1992).
Ma non è tutto. Se siamo disposti a guardare extra muros ecclesiali, incontreremo altre novità.
C’è un complesso mondo religioso (sciamanismo amazzonico, teologia e ritualità afro, religiosità popolare), che ha ancora molto da dire e offrire alla vita religiosa di tutti. Si tratta di una ricchezza che, spesso, non appare nei documenti ufficiali; eppure è parte significativa della vita spirituale e materiale di tanti brasiliani.
Un campo di ricerca ancora aperto è quello che investe la religiosità popolare: qui si balbetta appena qualche ipotesi. Non si può fare un resoconto della vita cristiana e, più in generale, religiosa del Brasile senza, almeno, ricordare il patrimonio dell’esperienza popolare.
Se esiste una teologia erudita, razionale ed ufficiale, c’è pure un pensiero teologico popolare con un’altra razionalità. Ci riferiamo al complesso mondo religioso dell’uomo e della donna brasiliani. Vi si incontra un pensiero sincretico, che non ubbidisce al «principio di identità» (proprio del filosofare occidentale), ma al «principio di partecipazione». Non esclude il «tuo», perché diverso dal «mio», ma lo incorpora, proprio perché differente.
Questa è una logica non ancora del tutto esplicitata dagli studi accademici: la logica della vita, dell’emotività, del simbolo, della simultaneità; si contrappone alla logica della ragione, della forma, della linearità. La stessa Teologia della liberazione, almeno nella sua versione ufficiale, si muove su una logica distante da quella popolare, pur volendo e avendo in mente il popolo.

Lo Spirito soffia dove vuole: anche là dove le illuminazioni teologiche non arrivano, l’organizzazione ecclesiastica è precaria e le conferenze non si fanno.
Alla comunità universale dei credenti, quella brasiliana offre qualcosa di autenticamente evangelico. Se ascoltata (ma non inquadrata), controllata e anche illuminata, la fede dei semplici è un grande contributo per costruire un’alternativa. O soltanto per continuare il cammino verso il Regno.

Marco dal Corso




I supermercati della religione – Speciale BRASILE

Ogni anno la Chiesa cattolica perde 600 mila fedeli, che aderiscono a movimenti pentecostali. In genere si tratta di persone povere, che tuttavia vuotano il loro modestissimo portafoglio alla nuova «chiesa», che non fa politica. E si inchina al padrone vincente e conservatore.

Il turista inesperto o il missionario impreparato, che per la prima volta mette piede in Brasile, resta sconcertato dalla molteplicità dei movimenti religiosi in cui si imbatte.
Alcuni provengono dall’Europa, come lo Spiritismo kardeciano; altri dall’Asia, come il Seicho-no-ie, la Perfetta Libertà e gli Hare Krishna; altri dal Nordamerica, come i Testimoni di Geova, i Mormoni, i vari movimenti pentecostali e la Chiesa dell’unificazione, nata in Corea e approdata negli Stati Uniti col suo fondatore Moon.
Vi sono movimenti religiosi alternativi di carattere autoctono, cioè nati in Brasile, come le Chiese cattoliche apostoliche brasiliane, Santo Daime, União Espiritualista Seta Branca, Vale do Amanhecer. Esiste il mondo dei culti afrobrasiliani (candomblé, xangò, jurema, casa de Minas, macumba, quimbanda, umbanda): raccolgono un numero enorme di persone e affondano le radici in Africa.
Nel 1930 le statistiche affermavano che il 95% dei brasiliani era cattolico. Oggi, secondo il Calendario Atlante De Agostini 2000, i cattolici si sono ridotti al 70%.
Il presente articolo affronta solo il movimento più macroscopico, che cresce in tutti i paesi dell’America Latina con una forza d’urto impressionante: è il mondo dei pentecostali. Si calcola che sottragga ogni anno al cattolicesimo brasiliano circa 600 mila membri.

L’Evoluzione
dei pentecostali

Il pentecostalismo giunge in Brasile al principio del 1900 e, precisamente, a Belém come Assembleia de Deus e a São Paulo come Congregação Cristiana no Brasil. Esso però, fino al 1930, si sviluppa lentamente senza creare allarmismo.
Con l’industrializzazione del paese e l’immigrazione intea, il movimento incomincia a mettere radici soprattutto nella fascia più povera della gente: perde il carattere di religione straniera ed assume gli elementi culturali tipici dell’ambiente, rompendo con l’élite e la dicotomia, presente nella religione ufficiale, tra chi «sa» e chi «è ignorante».
Fra i nuovi adepti si nota un fattore costante: il devozionale. Però è avvenuta la seguente trasformazione: il mezzo di comunicazione col divino non è più un santo, ma la bibbia, che nelle mani di analfabeti può diventare una sorta di amuleto e talismano.
Oggi il Brasile conta almeno un centinaio di denominazioni pentecostali. I sociologi della religione le suddividono in due categorie.
n Le chiese pentecostali più antiche, come l’Assemblea di Dio e la Congregazione cristiana in Brasile, che si presentano con una forte identità di gruppo.
n Le chiese neo-pentecostali, come la Chiesa universale del regno di Dio, Deus é Amor, Graça de Deus, che sono piuttosto di tipo clientelare. Tra i membri non vi è una forte coesione. Di regola sorgono sotto l’influenza di un leader carismatico, danno molta importanza alle guarigioni e usano molto i mezzi di comunicazione sociale, come radio e televisione.
Questi gruppi appaiono come uno specchio della società dei consumi del nostro tempo. Alcuni sociologi, anziché considerarli «chiese», li presentano come «agenzie». Secondo la logica commerciale odiea, il «tempio» diviene una specie di supermercato, dove si esibiscono «prodotti religiosi» di vario tipo.

Tre movimenti
significativi

Oggi in Brasile tre sono i movimenti pentecostali significativi, che si caratterizzano per una forte espansione: Assemblea di Dio, Congregazione cristiana in Brasile e Chiesa universale del regno di Dio.
Assemblea di Dio. Gioia e spontaneità sono espresse con canti popolari; si promuovono lunghe adunanze di preghiera con glossolalia (fenomeno già legato ai movimenti messianici: consiste nel parlare lingue sconosciute in stato di trance). Questa «chiesa» propone una morale esigente: proibisce di fumare, bere, cadere nei vizi; stimola a darsi totalmente a Cristo e impegnarsi in una attività religiosa.
Nel luogo di culto non vi è una rigida separazione dei sessi; entrando o uscendo ci si saluta calorosamente e si frateizza. Tutti si impegnano nella costruzione del tempio e nella diffusione del movimento.
La predicazione non è monopolio di una sola persona, ma può essere fatta da chiunque si senta ispirato a prendere la parola.
È ormai notorio che alcuni membri di questa «chiesa» hanno collaborato alla stesura del Documento di Santa Fé (New Mexico – USA), redatto nel maggio 1980 da esperti del Partito repubblicano quale piattaforma elettorale del presidente americano Reagan. Nella proposta n. 3 del capitolo «Sovversione intea» si legge: «La politica estera latinoamericana deve incominciare ad affrontare la teologia della liberazione, per sapere come è utilizzata in America Latina dal clero che aderisce a questa corrente teologica».
La maggior parte dei membri dei movimenti pentecostali, fino a poco fa, era costituita da gente povera. Però negli ultimi anni notiamo una tendenza inversa. Per attirare le persone benestanti non si organizzano culti, ma pranzi e cene.
Nel Mensageiro da Paz, giugno 1986, organo mensile dell’Assemblea di Dio, leggiamo: «I pranzi hanno la forza di attrarre persone danarose che in nessun’altra circostanza hanno avuto modo di ascoltare il vangelo».
Congregazione Cristiana in Brasile. È la prima chiesa pentecostale: sorge nel 1910 nel quartiere «Bras» di São Paulo per opera di un italiano, Luigi Francescon, proveniente dagli Stati Uniti. Nel barrio si parla e si predica unicamente in italiano. Nonostante che Francescon cerchi di attirare i connazionali alla sua chiesa, questi si dimostrano refrattari.
A quell’epoca l’80% degli operai di São Paulo è costituito da stranieri; di questi, il 65% è italiano. Tale classe sociale ha un atteggiamento diametralmente opposto a Francescon, perché proviene da dure lotte sociali in Europa.
A differenza di tutte le altre chiese pentecostali, la Congregazione cristiana in Brasile non è caratterizzata da un forte impegno per il proselitismo; non si serve dei mezzi di comunicazione sociale e sono rarissime le pubblicazioni. Fatto sintomatico: il movimento non ha mai permesso che fosse pubblicata la vita del fondatore, sebbene sia ritenuto santo.
È una «chiesa» che non combatte né il cattolicesimo né lo spiritismo. Al termine del culto, non pratica il rituale di benedizioni di «cura divina», come accade invece in molte comunità pentecostali; né ricorre ad esorcismi per cacciare i demoni.
Si caratterizza per una rigida separazione dei sessi durante la celebrazione del culto ed è completamente estranea ad ogni impegno di carattere sociale.
Chiesa universale del regno di Dio. Nasce nella decade 1970 ad opera del pastore Edir Macedo, che si stacca dalla Casa da Benção e si proclama «vescovo». Essa, come altri movimenti neopentecostali, dà particolare importanza alla radio e televisione; inoltre pubblica un numero impressionante di libri, riviste e giornali. Gestisce in proprio una casa editrice e una televisione di notevoli proporzioni.
Il Vangelo
secondo Macedo

Uno dei tratti fondamentali della Chiesa universale del regno di Dio è il ricorso massiccio agli esorcismi. Il fondatore Macedo è convinto che sia la maniera più efficace per combattere il male. «Nostro compito – afferma Macedo – non è solo predicare che Gesù Cristo salva e battezza nello Spirito Santo, ma innanzitutto e soprattutto che egli libera le persone che sono oppresse dal diavolo e dai suoi angeli».
Nella chiesa pentecostale di Copacabana in Rio de Janeiro, ad esempio, il venerdì è dedicato in modo speciale ai «culti di liberazione». In tale giorno gli incontri sono sette a ore diverse; quello di mezzanotte è il più importante per ottenere la liberazione dal demonio.
Nel suo impegno di «liberazione» Macedo ha trovato i «capri espiatori»: sono i culti afrobrasiliani e lo Spiritismo kardeciano. Nel libro «Dei o demoni?» (nel 1993 era già alla 13ma edizione) si legge: «Se il popolo brasiliano tenesse gli occhi ben aperti e si rendesse conto della magia e stregoneria che vengono propagandate da candomblé, umbanda, quimbanda, dallo spiritismo kardecista e da altri movimenti che stanno distruggendo molte vite e famiglie, certamente saremmo un paese molto più sviluppato».
Tra gli avversari della Chiesa universale del regno di Dio figurano anche i cattolici. Ne è prova il gesto teatrale e provocatorio, compiuto da Von Helder (da non confondersi con il vescovo cattolico dom Helder), nei confronti di una immagine della Vergine Maria, presa a calci durante una trasmissione televisiva.
La «teologia della prosperità» è un altro tema fondamentale della Chiesa universale del regno di Dio. Macedo in «La vita in abbondanza» scrive: «Non avremo mai fede sufficiente nelle promesse di Dio per riuscire a possedere quello che desideriamo, fino a che le nostre labbra parleranno unicamente di sconfitte. Per il cristiano non esiste “non posso” e neppure “questo è difficile”. No, no e no. Tu puoi avere tutte le cose, se ne sei convinto. “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4, 13) deve essere la nostra parola d’ordine».
«Prosperità» è l’argomento-chiave nelle riunioni di tutti i lunedì. Sono numerosi i templi in cui si realizza «la catena degli impresari». In simili riunioni si sottolinea con molta enfasi che «la prosperità» è un diritto di ogni cristiano. Per Macedo, essere cristiano significa essere figlio di Dio e coerede di Gesù Cristo. Questi, per eredità, è proprietario di tutte le cose che esistono sulla faccia della terra, essendo il re dell’universo. Ancora: «Dio non vuole che i suoi figli siano poveri e bisognosi». Essi sono «figli ricchi» di un «Padre ricco», perché «l’uomo fu posto sulla terra per condurre una vita nell’abbondanza. Adamo non aveva scarsità di acqua, di alimenti e non aveva bisogno di condurre sua moglie Eva dal medico. Essi godevano della perfezione di Dio, senza che gli mancasse nulla». Il paradiso terrestre in cui vivevano Adamo ed Eva non è perso del tutto. Esso è a disposizione di quanti accettano il «Gesù della Chiesa universale».
Frequentare un suo tempio significa assumere un impegno con Dio, entrare in alleanza con Lui, riprendere il cammino delle origini e ritornare nel seno della «famiglia della prosperità», nella quale vi è «una vita abbondante», garantita da Dio per mezzo di Gesù Cristo.
Secondo Macedo, l’«alleanza con Dio» deve essere intesa in questo senso: per mezzo di essa ciò che ci appartiene (vita, forza e denaro) passa in proprietà di Dio. E ciò che appartiene a Dio (benedizione, pace, prosperità, gioia) diventa proprietà dell’uomo.
Macedo non solo invita a pagare la decima, ma fa un passo avanti: oltre la decima, il fedele deve dare a Dio (cioè alla Chiesa universale del regno di Dio) tutte le cose preziose che possiede.
Nella società capitalista il denaro e le cose materiali sono le più importanti per la persona. Nell’offrire i propri beni a Dio, l’essere umano strappa, in un certo senso, le stesse sue viscere, soprattutto se offre tutto ciò che possiede. Però Macedo avverte: «Dio non vede i valori che una persona gli offre, vede invece quelli che restano nella borsa… È necessario dare anche ciò che non si vorrebbe. Il denaro, messo a frutto in una banca per realizzare un sogno futuro, questo sì che è importante e deve essere dato. Invece quel denaro che viene dato perché è superfluo, non ha valore né per il fedele e né tanto meno per Dio».
Occhio chiesa cattolica!

Un aspetto peculiare, nei movimenti pentecostali di data più antica, è l’attenzione alla persona: accoglienza calorosa di coloro che intervengono nel culto e possibilità di partecipazione come veri attori, sia nell’eseguire i canti sia nel prendere la parola durante la cerimonia.
Questo è un dato positivo e deve far riflettere i cattolici, ai quali la costituzione Lumen Gentium del Vaticano II e il documento di Puebla ricordano che la chiesa deve essere una comunità di comunione e partecipazione. Ciò che maggiormente dovrebbe preoccupare i cattolici non è la crescita dei templi pentecostali, ma l’atteggiamento di quanti vi entrano: lo fanno come se entrassero in un supermercato per acquistare beni di consumo. Preoccupa anche il loro disimpegno in campo sociale e politico.
Le comunità ecclesiali di base, che in Brasile sono una realtà consolante della Chiesa cattolica, hanno il potere di vaccinare i loro membri e di renderli guardinghi verso i metodi manipolatori praticati da numerosi movimenti pentecostali.
Moltissimi pentecostali sono poveri; ma le loro comunità, a differenza della Chiesa cattolica, non hanno mai fatto l’opzione preferenziale per i poveri. Si ebbe un esempio chiarissimo nel nordest, al tempo delle Leghe contadine, quando parecchi fedeli pentecostali furono imprigionati, ma le loro chiese non si mossero in loro difesa.
In Brasile, nelle ultime elezioni politiche, vari movimenti recenti di indirizzo pentecostale, hanno buttato la maschera e si sono schierati apertamente a favore dell’ala politica conservatrice, il cui impegno non è affatto sulla linea della promozione delle classi povere.
E questo fa paura.

Pietro Canova




Danzando con gli dei – Speciale BRASILE

– Cos’è il candomblé, madre mia?
– È danza e musica, figlia mia!
Così rispose «mãe Teresinha», quando
iniziai la ricerca su questa religione
afro-brasiliana. Per comprenderne
il fascino occorre aggiungere: ricchezza
di colori e simboli, ricerca di armonia, equilibrio e consolazione, memoria storica e impegno di solidarietà.

All’inizio di tutto – racconta la leggenda – non c’era separazione tra l’orum (l’inconoscibile), sede degli orixás (dei), e l’aiê, la terra degli esseri viventi. Uomini e divinità si facevano reciprocamente visita e vivevano insieme felici.
Ma gli esseri umani, fin da allora, non rispettavano niente e nessuno: con arroganza sporcavano l’orum, infischiandosi delle raccomandazioni di Olorum, il dio supremo.
Ma un giorno, vedendo l’orum tanto mal ridotto, il Signore del cielo e della terra si adirò: scagliò il bastone sacro e divise il cielo dalla terra. Così nessun uomo poteva più raggiungere l’orum e gli orixás rimanevano nel proprio mondo. Ma questi si intristivano; avevano nostalgia dei loro incontri con gli esseri viventi. Gli uomini, a loro volta, non riuscivano più a vivere senza la gioia e allegria trasmessa dagli orixás.
Olorum, stanco di tanti lamenti e in fondo stufo della situazione, permise alle divinità di andare ogni tanto in visita alla terra. Gli esseri umani facevano offerte agli orixás, che arrivavano e danzavano, danzavano, danzavano… al suono degli atabaques (tamburi).
E toò, finalmente, armonia e felicità.

RADICI AMARE
Il racconto esprime chiaramente l’essenza del candomblé: esso è un messaggio di felicità; è ricerca degli aspetti più giorniosi della vita. La sua storia, però, non affonda le radici nella gioia, ma nel dolore: in quella tragedia immane di milioni di neri ridotti in schiavitù.
Considerati come popoli selvaggi, privi di cultura, gli africani venivano catturati dai bianchi e, una volta trasportati in Brasile, dovevano essere civilizzati, istruiti e convertiti al cristianesimo con una rapida evangelizzazione. In realtà, gli schiavi furono i principali artefici della costruzione del Brasile, non solo sotto l’aspetto economico. Alcune popolazioni possedevano un elevato grado di civiltà, come alcuni gruppi yoruba (Nigeria e Benin) eccellenti scultori in avorio e metallo.
Creazione tipicamente brasiliana, il candomblé affonda le radici nelle tradizioni africane. Esso si formò nel segreto della senzala, quando schiavi e schiave sfruttavano ogni opportunità per riorganizzare i loro culti.
Coltivato di nascosto, il candomblé ebbe grande sviluppo quando la chiesa cominciò a convogliare le varie etnie africane nelle irmandades, (confrateite). A Salvador, all’inizio del 1800, nacque la confrateita di Nossa Senhora da Boa Morte, formata da africane libere, in maggioranza provenienti da Ketu (Benin).
Il fatto di potersi ritrovare rese più facile agli schiavi liberati di riorganizzare il culto verso gli antenati. Sacerdotesse e sacerdoti con posti di rilievo nei candomblé, entravano nelle irmandades. Esisteva, infatti, un legame molto stretto fra chiesa e candomblé; spesso i preti cattolici venivano chiamati a celebrare la messa nei terreiros (centri di culto). Ancora oggi, presso alcuni candomblé, tale usanza di partecipare alla messa è in vigore come memoria storica.

RICERCA DELLE ORIGINI
Si è soliti etichettare i movimenti religiosi afro-brasiliani come sètte sincretiste, miscuglio di tradizioni religiose africane e cristiane. Ma in una riunione del 1983, le iyalorixá (sacerdotesse) più tradizionali della Bahia presero posizione contro il sincretismo e rivendicarono per il candomblé la dignità di religione. «Iansã (divinitá dei venti e lampi) non è santa Barbara» disse mãe Stella de Oxossi, leader di Axé Opô Afonjá, uno dei gruppi più conservatori. Con questa frase essa voleva dire chiaramente che il candomblé non è una sètta sincretista né dipendente dal cristianesimo.
I culti afro-brasiliani si differenziano pure dalle religioni tradizionali africane, pur avendo in esse la loro base originaria e molti punti di contatto. Nei territori yoruba ogni città aveva un antenato da tutti venerato. In Brasile, a causa dei lunghi secoli passati in schiavitù, gli afro-discendenti hanno scordato il luogo di provenienza. Per questo nei terreiros di candomblé è stata ricostruita una specie di “yorubaland” in miniatura, inserendo nel culto tutte le divinità e figure mitiche che la schiavitù non è riuscita a cancellare dalla memoria.
Nella storia di questa religione, alcune sacerdotesse delle irmandades sono diventate figure quasi mitiche, come quelle che organizzarono un terreiro di candomblé chiamato Ìyá Omi Àse Àirá Intilè. Una delle fondatrici, Iyalussô Danadana, ritoò in Africa e vi morì. La seconda, Iyanassô, fatto un viaggio nel continente d’origine, toò accompagnata da un sacerdote chiamato Bangboxé, diventato figura leggendaria del candomblé di Bahia.
Questo centro religioso ha dato origine ad altri due grandi terreiros di tradizione ketu: Iyá Omi Ase Iyámasse, comunemente conosciuto come Gantornis, il cui leader religioso fu la famosa mãe Menininha, e Axé Opô Afonjá, fondato nel 1910 da mãe Aninha e oggi guidato da mãe Stella de Oxossi, figura carismatica e simbolica per tutti gli afro-americani. Molti neri degli Stati Uniti vengono nel terreiro dell’Axé Opô Afonjá per riavvicinarsi alle proprie radici culturali e religiose.

ARMONIA CON LA NATURA
Oltre ai motivi di carattere religioso, questa comunità è diventata particolarmente famosa per avere ricostruito, col passare degli anni, un villaggio africano con abitazioni per i fedeli e case per gli stessi orixás. All’entrata degli edifici e in vari punti del terreiro crescono giganteschi alberi sacri.
Il candomblé si fonda sul culto della natura: cose, alberi, animali, persone sono sacre. Un’energia vitale, chiamata axé, circola in tutti gli esseri animati e inanimati, collegandoli insieme come una sottile onda. Questa axé può essere immagazzinata e distribuita mediante vari rituali pubblici e privati. Per questo il candomblé, come le religioni africane in generale, è stata dispregiativamente definita animista. Ma non c’è niente di negativo nel percepire la vita delle piante o persone.
Nei testi sacri yoruba, racconti tramandati oralmente, è chiaramente sottolineato che al di sopra di tutti e tutto c’è un essere supremo, chiamato Olorum o Olodumaré. Questi, col suo respiro, ha dato inizio al principio maschile (obatalá) e femminile (odudua); questi due principi hanno dato origine al mondo, alla natura e agli esseri viventi. A fare da tramite fra gli esseri viventi e Olorum sono gli orixás, divinità-energie della natura, di cui i mortali sono figli.

POSSEDUTI DALLA DIVINITÀ

Il candomblé è basato su una sofisticata conoscenza dell’animo umano: la mitologia ne descrive pregi e vizi e, al tempo stesso, spinge l’uomo a rispettare e venerare il sacro e a compiere ogni sforzo per avvicinarsi al divino. Le divinità, infatti, sono sentite vicine nel vivere quotidiano.
Tale vicinanza si manifesta in modo particolare con la «chiamata» di alcune persone da uno degli orixás. Essa può avvenire in molti modi, come sogni e malattie inspiegabili. Tale chiamata viene verificata con una lettura della situazione spirituale, eseguita con le conchiglie di Ifa, divinità della sapienza e divinazione. Ogni mãe-de-santo (sacerdotessa) ha acquisito con l’esperienza una grandissima sensibilità al riguardo e, attraverso la caduta e i disegni formati da tali conchiglie, essa rievoca eventi mitologici e analizza la situazione energetico-spirituale del consultante. In base a tale analisi, inizierà una serie di rituali per avvicinare il fedele al proprio orixá.
La comunione col divino diventa sempre più profonda col passare del tempo. Il fedele offre doni alla divinità e riceve in cambio forza vitale, energia e protezione. Se la divinità lo richiede, si passerà a una vera e propria iniziazione, che prevede un periodo di reclusione e allontanamento dal quotidiano, per entrare in più stretto contatto con l’orixá.
Non si è ancora sottolineato abbastanza come le religioni africane si fondino su un percorso mistico profondo e significativo, che si snoda per tutta la vita. Nel candomblé tale cammino è accompagnato da rituali riservati alle persone della casa e da altri che si svolgono nelle pubbliche assemblee. Così spiega Ceci, sacerdotessa iniziata da 29 anni in uno dei terreiros più tradizionali e famosi di Salvador: «La lunga preparazione delle sacerdotesse per potere ricevere le divinità culmina con la festa pubblica. Tale festa richiede una preparazione immediata di due o tre giorni, nei quali è necessario adempiere una serie di riti per i soli fedeli della casa, per dare forza alla parte spirituale e per preparare materialmente la cerimonia, il cui fulcro è la possessione».

MUSICA, CANTO, DANZA
L’unione con la divinità, seppure temporanea, avviene in momenti specifici e ritualmente organizzati tramite il trance. Anche questo fenomeno, tanto maltrattato dalle teorie psicologiche, merita rispetto. Esso è patrimonio dell’umanità: lo si incontra in vari paesi del mondo, dall’Oriente all’Africa, dalla Siberia alla… Puglia. L’antropologo De Martino ha dimostrato che il fenomeno del tarantismo è un rito di possessione, dove la musica e la danza vengono usate con scopi terapeutici, proprio come in Africa e nel candomblé. Il disprezzo verso tale fenomeno è dovuto al fatto che esso è visto come qualcosa d’«insalubre», di difficile comprensione per il mondo occidentale, sempre più lontano dal mondo della percezione sensoriale.
Il candomblé si basa sulla conoscenza di se stessi; conoscenza ottenuta attraverso vere e proprie tecniche con cui raffinare sempre più la percezione del proprio essere, delle capacità e limiti personali. Il contatto con la propria parte interiore e sacra, porta le sacerdotesse all’unione con il divino. I mezzi per arrivare a tale unione sono: musica, canto e danza. Nei suggestivi riti del candomblé le sacerdotesse diventano strumento delle divinità da cui sono state scelte per portare agli esseri umani energia, conforto e felicità.
Le sacerdotesse, la sera della festa, preparate accuratamente nei loro bellissimi vestiti, sintesi dell’incontro forzato fra Africa e Europa, aprono il rito formando la ruota sacra. Spiega ancora mãe Ceci: «Prima della festa pubblica c’è il padê, celebrazione per Exu, il dio messaggero: la sua funzione è importante; senza di lui non è possibile fare niente. Erroneamente questi è stato identificato con il diavolo dei cristiani; ma il concetto di bene e male dei yoruba non si identifica esattamente con quello della teologia cristiana.
Seguono canti e preghiere per gli antenati. Si canta e si danza tre volte in onore di tutte le divinità; infine, col suono di strumenti musicali, si invitano gli orixás a scendere tra i fedeli. E arriva il momento dell’incorporazione: le sacerdotesse indossano gli abiti sacri, ricchi di simboli e allusioni mitologiche. Da questo momento esse impersonano la divinità. Riprendono le danze sacre. Ballando, gli orixás raccontano ai fedeli la storia sacra, la mitologia e la propria funzione nel cosmo, nell’interno del pantheon e nella comunità».

RICERCA DI EQUILIBRIO
La liturgia si snoda attraverso una serie di canti con uno schema più o meno fisso, che le sacerdotesse accompagnano con specifiche gestualità del corpo e coreografie. Per i non iniziati è difficile decifrare e compredere i messaggi espressi con tale linguaggio non-verbale, come pure l’insieme dei riti e la loro ricchezza di simbolismi. Ogni casa di candomblé, infatti, possiede un proprio repertorio di 400-500 arie musicali, coreografie, simboli e colori specifici corrispondenti alle varie divinità.
Inoltre, i messaggi del trascendente espressi dal candomblé non sono affidati alla logica del ragionamento, ma all’arte e alla percezione sensoriale. Già Susan Langer aveva sottolineato: «Solo l’arte riesce a trasmettere i messaggi profondi all’anima umana. Il linguaggio verbale non è sufficiente per trasmettere tutta la gamma di sfumature e valori dei sentimenti umani, come mateità, amore, aggressività, rabbia».
Attraverso i movimenti e fluidità del corpo, le vecchie sagge percepiscono l’armonia delle persone. Il candomblé, infatti, è ricerca di armonia: prima di tutto con se stessi e poi necessariamente con gli altri. «Io sono perché tu sei» dice un detto africano, sottolineando l’importanza del gruppo. Ognuno deve adempiere a una funzione a livello spirituale-individuale e a livello di comunità; come i cerchi che si formano nell’acqua quando vi cade un sasso: tutto è collegato, dal più piccolo al più grande e viceversa.
Mãe Beata, da 28 anni leader di un terreiro, spiega: «Il candomblé è carità. Io vi sono entrata perché dovevo; dopo aver raggiunto il mio equilibrio, ho dovuto iniziare ad aiutare gli altri. Noi mãe o pãe-de-santo dobbiamo sempre dare una parola di conforto a tutti quelli che ne hanno bisogno. E non solo i brasiliani, figlia mia, tu lo sai».
Qui a Bahia, infatti, arrivano molti europei; alcuni sono alla ricerca di un contatto con il «mondo magico», con cui risolvere in un batter d’occhio ogni loro problema; altri, però, cercano un contatto più spontaneo con gli altri e con se stessi; vogliono riscoprire il proprio ritmo e equilibrio interiore e quella autenticità che hanno perso nella vita frenetica delle grandi città.
Mãe Stella non si stanca di sottolineare: «Orixá è equilibrio. Tutto inizia da lì. Tutti dobbiamo vivere con dignità e in pace».
Molti pensano che sia facile trovare la base dell’equilibrio interiore; spesso, invece, si richiede un percorso travagliato e difficile. Eppure molte persone, e non solo brasiliane, sono state aiutate a ritrovarlo; o per lo meno hanno ricevuto una spinta in questa direzione. È come se il candomblé riuscisse, attraverso il sacerdozio e l’amore per se stessi e gli altri, a riorganizzare la frammentazione umana e a dare un filo conduttore ai suoi fedeli.

MEMORIA E SOLIDARIETÀ
Il candomblé ha avuto, ed ha ancora, un’importanza fondamentale nella storia degli afro-discendenti: grazie al lavorio solerte delle sacerdotesse, essi hanno recuperato l’identità culturale e la dignità personale che la schiavitù aveva brutalmente distrutto.
«Se non ci si ricorda degli antenati, dei nostri defunti, non sappiamo chi siamo» spiega l’antropologo De Martino. È ciò che hanno fatto, per quanto hanno potuto, queste sacerdotesse: mantenendo viva la memoria degli antenati e i culti africani nelle comunità del candomblé, hanno dato a milioni di persone, distrutte dalla deportazione, la possibilità di ritrovare se stesse a livello spirituale, psicologico e politico. I fedeli delle religioni afro-brasiliane non si sono arresi alla sofferenza e al dolore, ma li hanno superati con la coscienza della propria storia.
Con l’iniziazione al candomblé, i mali del singolo vengono ri-organizzati e ri-orientati a livello spirituale-energetico; la frequenza ai riti rafforza in loro la volontà di trasformarli in punti di partenza per un nuovo passo verso una maturazione personale.
Secondo la filosofia del candomblé la vita è sacra; il nostro corpo è un tempio, a cui viene trasmessa la forza dell’orixá e con cui partecipare alla vita nella vita, cioè dando valore alle cose e alle situazioni quotidiane.
Molta importanza è data ai problemi sociali. È sempre più frequente vedere le comunità organizzarsi intorno ai problemi dell’infanzia carente e bisognosa. Il progetto «Mobilitazione sociale», per esempio, organizzato da una delle figlie dell’Axé Opô Afonjá, pone al centro dell’esperienza religiosa l’impegno personale e la creazione di nuove prospettive a favore dei bambini della comunità e del quartiere. Tale progetto ha soprattutto lo scopo di aiutare i più giovani a riavvicinarsi alle radici africane, animandoli a frequentare la biblioteca e museo del terreiro, organizzando lezioni su cultura e storia afro-brasiliana, corsi di percussione, danza e capoeira (arte marziale d’origine angolana). Tali iniziative stimolano i bambini nell’approfondimendo e riappropriazione della propria cultura e li aiutano nel processo di auto-stima e apertura all’altro.
Non si pensi, infine, che il candomblé sia frequentato solo da afro-discendenti; sono molti tra la borghesia bianca e gli intellettuali coloro che frequentano i terreiros, abbagliati dalla bellezza di riti e alla ricerca di conforto, equilibrio ed energia.

Susanna Barbara




E per il santo minacce ed improperi – Speciale BRASILE

La religiosità popolare non è superstizione, ignoranza
o fanatismo.
È manifestare la fede attraverso il vissuto personale e quotidiano.
Nel corso dei secoli si è cercato di emarginarla,
a vantaggio di un cattolicesimo più formale, dove sacro e profano rimangono distinti. Poi, grazie al Concilio Vaticano II, i pregiudizi sono venuti meno…

La tematica della religiosità popolare è avvincente. La gente comune si pone davanti al problema di Dio in modo spontaneo ed emotivo. E vuole affrontare in forma diretta e semplice i grandi interrogativi che da sempre interessano l’umanità: il senso della vita, il perché della sofferenza, come vincerla, che cosa ci attende dopo la morte.
Prima di addentrarci nel tema, dobbiamo, in primo luogo, liberarci da preconcetti e pregiudizi che, già in partenza, riducono la religiosità popolare a fenomeno impregnato di superstizione e ignoranza. Le valutazioni aprioristiche hanno sempre condizionato le riflessioni su questo argomento.
La religiosità popolare aiuta a creare e conservare l’identità individuale e collettiva, divenendo anche una risorsa di evangelizzazione originaria e tipica. In molti casi, essa ha funzionato come reazione e pretesto contro l’oppressione politica e culturale dominante. Altre volte, ha reagito a situazioni di appiattimento religioso. Certamente la religiosità popolare è stato ed è un fenomeno che alterna segni di speranza per una vita in un mondo felice ad altri caratterizzati da anacronismo e alienazione.
Per capire la fede vissuta dal popolo, è necessario ripercorrere alcune fasi storiche che seguono l’evangelizzazione dell’America Latina e capire come la religione cattolica si è diffusa nel continente.

IL CATTOLICESIMO
DELLA GENTE

È un cattolicesimo formatosi tra gli immigrati portoghesi, durante la colonizzazione del Brasile.
Esso ha avuto una presenza significativa nelle zone rurali, dato che le città ancora non esistevano. La popolazione era formata da contadini che emigravano dall’Europa verso le terre nuove: portoghesi poveri, ma anche piccoli proprietari ed ex-galeotti ai quali veniva offerta la libertà di andare a popolare le nuove colonie; più tardi, si aggiunsero indios, strappati alle loro tribù, ed ex-schiavi.
Questa mescolanza di razze ed esperienze ha dato origine a un cattolicesimo tradizionale popolare, basato su elementi specifici che non passavano attraverso un catechismo programmatico e didattico, ma su una fede vissuta e mnemonica.
Possiamo presentare alcuni elementi diventati punti base della religiosità popolare: il santo, l’oratorio, la cappella e il santuario.

IL SANTO,
L’AMICO DELLA VITA

Il santo è uno degli elementi fondamentali del cattolicesimo popolare. Tutto gira intorno a lui. È oggetto della devozione personale; è motivo di raduno del piccolo nucleo familiare (oratorio); è l’occasione per la festa patronale nei piccoli centri (cappella); è meta di pellegrinaggi per grandi moltitudini (santuario).
La vita di ogni persona ha come centro e riferimento la devozione specifica e prorompente per il santo del cuore, che comprende aspetti personali e collettivi.
Ogni fedele si relaziona per tutta la vita con il santo. Conversa con lui, gli chiede protezione, lo ringrazia per le grazie ricevute. Ma è, perfino, contemplato il momento dell’arrabbiatura: quando il santo indugia o ritarda la grazia per la quale è stato sollecitato, il devoto può passare alle minacce, girando l’immagine di spalle, oppure declassandolo nella gerarchia dei santi, riempiendolo anche di improperi.
Il santo lo si interpella attraverso l’immagine, ma non si identifica con essa. L’immagine riassume sempre un potere sacrale e per questo, dopo che è stata benedetta, non la si compra, né si vende e tanto meno la si può gettare via come qualsiasi oggetto logoro, ma solo la si può scambiare con altri oggetti affini. È segno di grande rispetto riporre l’immagine rovinata dal tempo all’entrata della cappella, affinché sia responsabilità del sacerdote determinae la… «rottamazione».

L’ORATORIO FAMILIARE

L’oratorio è un piccolo altare dove viene appoggiata l’immagine del santo. Esso occupa un posto di particolare importanza, normalmente all’entrata della casa ed è centro della devozione familiare.
Attoo all’altarino, la famiglia si riunisce per pregare o per altre devozioni, tradizioni e abitudini. Particolare enfasi viene dedicata alla recita del rosario, condotto dal capo famiglia, con le litanie e varie giaculatorie. Quasi tutte le preghiere sono registrate nella memoria delle persone, anche perché un tempo pochissimi sapevano leggere o possedevano libri appropriati.
La casa è il luogo della tranquillità e della pace e tra le mura domestiche regna la protezione del santo.

DALLE CASE ALLE STRADE

La strada porta con sé un carattere profano e presenta situazioni di grandi pericoli. Il santo, racchiuso in una nicchia speciale, domina gli incroci o sorveglia le vie principali. È una presenza rassicurante per tutti i devoti, anche per coloro che vivono più lontani dal culto ufficiale. Le persone, che vi passano davanti prima di andare al lavoro, alzano gli occhi e incrociano lo sguardo benevolo del patrono, chiedendo protezione. Al ritorno lo ringraziano per i pericoli scampati, offrendo fiori o rami decorativi. Tutta la vita pubblica quotidiana è permeata dalla figura del santo e accompagna i fedeli in tutte le loro relazioni.
A volte, vicino al santo sono raffigurate le anime del purgatorio (a ricordo dei defunti che hanno subito una morte violenta per omicidi o incidenti) o anime di persone non battezzate. Secondo il detto popolare, queste sono «anime inquiete».
La figura del santo garantisce serenità ai passanti, esorcizzando il luogo dalle dicerie popolari che incutono disagio. La giaculatoria è sempre il lasciapassare più sicuro.
Ci sono, infine, degli oratori ambulanti. Si tratta di nicchie portatili che i vari eremiti portano con sé girovagando nei vari quartieri e contrade. Ci sono pure persone che hanno fatto voto al santo di divulgare la devozione e si affidano a questo girovagare per ottenere la grazia richiesta. Il popolo, attraverso questi incontri casuali, si mette in contatto con il santo, specialmente attraverso l’elemosina, che serve per edificare altri luoghi di devozione. Il tutto sempre accompagnato dalla preghiera interiore.

LA CAPPELLA

Quando si costituisce un nucleo di case o una piccola comunità paesana nasce pure l’esigenza di uno spazio sacro: è la cappella.
È quasi sempre costruita con un lavoro d’insieme, poiché tutti i membri della comunità sono tenuti a dedicarvi del lavoro e fare donazioni. È il luogo della devozione comune, dove il popolo fa le proprie preghiere, organizza le novene, decora la cappella e le adiacenze. Nella cappella si aspetta il missionario per celebrare la messa e distribuire i sacramenti. È in essa che si trova l’immagine del patrono con più poteri divini.
Il momento più significativo arriva con la festa annuale. I preparativi cominciano molto prima, con novene e devozioni. Circolano liste di offerte secondo le possibilità di ognuno. Tutti diventano persone che al santo sanno chiedere, ma sanno anche dare. La festa rappresenta la rottura con la monotonia della quotidianità e si entra con euforia in un nuovo tempo; anche il mangiare, il bere e perfino ballare aumentano la familiarità del gruppo e fanno sentire con più forza la protezione del divino.
È un cattolicesimo poco clericale e l’organizzazione della festa è lasciata nelle mani delle confrateite laiche, elette dalla comunità di appartenenza. Normalmente e, soprattutto nel tempo coloniale, la presenza del missionario era sporadica («pastorale di visita»). Eredità che si può constatare ancora nelle comunità rurali dell’interno, dove uomini (ma soprattutto donne) cornordinano preghiere, organizzano feste patronali. La presenza del sacerdote era richiesta solo per la celebrazione della messa.

I SANTUARI

Per le devozioni di massa, esistono i centri per grandi incontri: sono i santuari. In essi si trova l’immagine più importante del santo che esige il pellegrinaggio annuale da parte dei fedeli.
Attraverso questi pellegrinaggi, molte volte compiuti a piedi, tantissima gente prima sconosciuta, a poco a poco si trasforma in compagni di cammino con una meta comune: andare a conoscere il santo. Ritrovarsi nel santuario significa dimenticare tutta la sofferenza e i sacrifici sopportati per raggiungerlo. Tutte le tristezze e i problemi sono allontanati. Arrivare in quel luogo segna la speranza per una vita che ricomincia e si rinnova.
La forza del santuario è dovuta al lavoro dei laici, riuniti in confrateite. Essi non si sentono meri assistenti del luogo sacro, ma veri promotori della fede, assumendo la responsabilità del santuario, delle feste paesane, delle preghiere tradizionali: una vera mescolanza di sacro e profano.
Le confrateite di laici, iniziate nei tempi del «patronato», sono la colonna portante nell’area religiosa. Ancora oggi, con dovute trasformazioni, sono presenti ed efficaci nelle «Comunità ecclesiali di base».

L’ETICA PERSONALE
E SOCIALE

Tra il devoto e il santo vige un’etica di comportamento. È composta da precetti e leggi che regolano lo scambio di benefici ed aiuti reciproci. In quest’ottica, esiste anche (come abbiamo spiegato) la possibilità di «rivolta», quando il santo non rispetta le promesse fatte, dopo che il fedele ha fatto vari sacrifici per ottenere le grazie richieste.
Questo cattolicesimo ha un’etica anche per regolare le relazioni sociali. Nella sua concezione di ordine, esso cerca di riprodurre, in terra, l’ordine celeste. Se in cielo i protettori sono i santi, in terra il povero cerca protezione nei grandi e potenti.
La protezione dei ricchi è data in cambio della sottomissione e obbedienza da parte dei poveri. Si constata, pertanto, che il cattolicesimo popolare tradizionale non offre un modello di società egualitaria. Secondo questa mentalità, Dio ha creato gli uomini in forma differente, ricchi e poveri. Però il ricco e il potente hanno l’obbligo di proteggere il povero e di aiutare il debole, proprio come fanno i santi dal cielo.
Lo studioso Pedro de Oliveira afferma: «Questo modello di ordine sociale, in cui i santi controllano le forze naturali e dove Dio è Signore di tutto (come un buono e grande fazendeiro), è un modello pre-capitalista. Sulla terra, i deboli si appoggiano e ricorrono al più forte e gli sono riconoscenti per la protezione che guadagnano. Questo modello mantiene l’ordine sociale com’è, sancendo la dominazione dei grandi proprietari sulla massa contadina».

LA STORIA CAMBIA

L’abolizione della schiavitù nel 1888 e la proclamazione della Repubblica nel 1889 costituiscono gli elementi basilari per la trasformazione strutturale del Brasile.
La chiesa cattolica, tradizionalmente legata alla classe signorile, deve ristrutturarsi per rendersi capace di affrontare la nuova situazione emergente del capitalismo agrario. I vescovi si allontanano dal potere del padronato e si legano più strettamente alla Santa Sede, decidendo di seguire la linea pastorale che conforma il cattolicesimo popolare tradizionale sul modello romano.
Lo stato vedeva nella tradizione una resistenza al nascente capitalismo agrario. La chiesa, pur riconoscendo certi valori, vi scorgeva troppa indipendenza; per cui decise di inviare i suoi missionari in forma più massiccia dall’Europa. L’obiettivo era di impiantare un cattolicesimo che rispondesse maggiormente alle regole che si stavano imponendo a partire dal Concilio Vaticano I, dove le varie forme tradizionali popolari erano denigrate per far spazio a catechismi ufficiali.
LA CHIESA POPOLARE
SOTTO STRETTO CONTROLLO

Il cattolicesimo romanizzato dà particolare enfasi ai sacramenti come mezzo di salvezza individuale. Poiché questi sono amministrati dal clero. A poco a poco la vita religiosa passa sotto il monopolio della gerarchia ecclesiale.
Anche il cattolicesimo popolare, decisamente più laicale nelle sue origini, viene incamerato nella struttura parrocchiale. Si rafforza lo spiritualismo attraverso una pietà privata, rivolta maggiormente alla salvezza della «propria» anima.
Le differenze sono tangibili: il cattolicesimo popolare è marcato dalla forza del santo e dell’impegno laicale; il cattolicesimo romano insiste maggiormente sulla obbligatorietà dei sacramenti e sulla presenza del padre cornordinatore.
Il popolare comincia ad essere trattato come fanatismo e frutto dell’ignoranza religiosa. Le nuove relazioni sono basate sull’impersonale nel campo religioso, denigrando tutto quello che si riferisce al popolare, mentre si continua lo sfruttamento nel campo sociale.
Si può ricordare la vicenda di Antonio Conselheiro nel sertão baiano che, con i suoi seguaci, venne represso dall’esercito, con l’appoggio del vescovo di Salvador. Più recentemente, ci sono state le sanzioni contro padre Cicero del Ceará, che sosteneva il cattolicesimo popolare creando movimenti religiosi che la chiesa ufficiale non riusciva a controllare.
Per combattere il cattolicesimo popolare, vennero importate dall’Europa devozioni per nuovi santi, legati alle congregazioni religiose. Queste proponevano una fede e stili di vita religiosa lontani dalla vita del popolo, enfatizzando più gli aspetti celestiali che le caratteristiche umane, reputate troppo banali e limitate per poter percorrere il cammino che conduce al Regno.

L’EVOLUZIONE
DELLA DEVOZIONE

Lo storico padre Oscar Beozzo fa una analisi delle devozioni facendo riferimento a tre fasi: il cattolicesimo popolare, il cattolicesimo romano e il cammino attuale della chiesa.
Si prenda, ad esempio, la devozione alla Madonna. Nella prima fase, è la madre dei dolori, Maria di Nazaret, la donna popolare incinta o con il bambino in braccio, tipico dell’essere mamma. Nel cattolicesimo romano, la Vergine diventa Madonna della gloria, Madonna delle apparizioni con vestiti celestiali, e non ha più in braccio il bambino. Diventa insomma una donna che vive fuori dalla realtà del popolo.
Oggi è ridiventata la madre morena dell’America Latina, compagna di viaggio nella vita di tutti i giorni. Riprende in braccio il suo bambino e lo presenta al mondo diventando la «stella dell’evangelizzazione».
Quanto a Gesù, nella prima fase, è il servo sofferente nella preghiera nell’orto degli olivi; il Gesù della flagellazione, che porta la croce. Nella seconda, diventa il Gesù ieratico del Sacro Cuore con una devozione che lo allontana dalla vita di tutti i giorni. E, oggi, il Gesù della liberazione, che proclama i diritti dell’umanità, spezza le catene del peccato e dell’ingiustizia.
La devozione dei santi passa per lo stesso schema. Al tempo della colonia, si incontrano i santi pellegrini che incarnano le sofferenze del popolo che vive un continuo esodo (come S. Gonçalo, S. Pietro degli zoccoli, Santiago, S. Rocco e tanti altri). Poi si passa ai santi delle congregazioni religiose, lontani dalla realtà e dal modo di vivere la fede in America Latina. Infine, nella fase attuale, si ricordano di più i martiri della fede, coloro che danno la vita per difendere i poveri della terra.
L’elemento fondamentale che differenzia il cattolicesimo popolare da quello romano è questo: il primo cerca di unire, di creare un tutt’uno tra fede e vita; il secondo cerca la dicotomia tra vita normale e vita ecclesiale, distinguendo il divino dall’umano, dividendo lo spirito dal corpo, separando il sacro dal profano. Sono elementi, che i teologi figli latino-americani sottolineano con particolare forza e cercano di far scaturire un nuovo cristianesimo adatto e incarnato nelle realtà, dove si cerca l’unità della vita vissuta in una profonda fede.
LA PRIMAVERA
DEL CONCILIO VATICANO II

Arriva il Concilio Vaticano II. Nascono le Comunità ecclesiali di base. Esse, con il loro nuovo modo di essere chiesa, rappresentano anche una rottura della devozione individuale ai santi patealisti della fase coloniale, ai quali era delegata la soluzione dei problemi personali; diventano pure rottura con la pratica individuale dei sacramenti e la dimensione privata della spiritualità, dove ognuno ha l’alibi della salvezza solitaria, senza tenere troppo in conto l’impegno comunitario.
Attraverso il nuovo modo di essere chiesa c’è, senza dubbio, un ricupero dell’elemento tradizionale cattolico e la partecipazione dei laici come agenti dell’annuncio del vangelo e animatori della comunità cristiana. Si fa strada la forza della coscienza personale per arrivare a un impegno collettivo. Una presa di coscienza e una nuova etica religiosa, dove perfino l’ordine socio-politico è contestato.
I numeri e le statistiche sono ancora lontani per un capovolgimento copeicano. La grande massa appartiene ancora al cattolicesimo che trova più comodo un impegno religioso personale rispetto a quello comunitario.

PARTENDO DAI POVERI
(E DA SANTO DOMINGO)

Molte volte la religiosità popolare è stata messa alla gogna come manifestazione di immaturità, intravvedendovi minacce di eresie e soprattutto di sincretismo, fenomeno con il quale non si è avuto il coraggio di dialogare.
Si riconosce che, a volte, alcune devozioni necessitano di una purificazione; ma si ha la percezione che proprio dal popolo derivano le possibilità più immediate e profonde per inculturare ed incarnare la fede nella vita.
Il punto di partenza di Cristo è sempre la sua «opzione per i poveri, per i piccoli, per gli ultimi del mondo…» (Lc, 18-19).
L’attualità della vita ecclesiale deve fare i conti con le sfide dell’evangelizzazione del nostro tempo. Sfide che debbono percorrere il processo di inculturazione del vangelo. È un cammino che deve includere la religiosità popolare, ma anche recuperare i valori indigeni e africani che sono componenti fondamentali dell’antropologia brasiliana.
Nel 1992, a Santo Domingo, davanti ai vescovi latinoamericani, Giovanni Paolo II parla di una nuova evangelizzazione nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni di fede. È una proposta che richiede immaginazione e creatività, affinché il vangelo possa arrivare a tutti in una forma appropriata e convincente. Nel terzo capitolo il documento sottolinea la necessità per ogni cristiano di conoscere e penetrare gli ambienti socio-culturali, come protagonista della propria storia alla luce del vangelo. La stessa America Latina non deve guardare solo alle proprie necessità, ma deve sempre avere la sensibilità di aprirsi e condividere la propria fede con il resto del mondo.
Ad ogni istante è necessario rifare «l’esperienza di Dio» che continua a rinnovare l’alleanza con il suo popolo attraverso un «cammino» che non rimane prigioniero nel tempio dell’immobilità, ma richiede sempre più di abitare «la tenda del divenire».
Ecco ciò che significa «camminare con gli uomini del nostro tempo».

Orazio Anselmi




Finale a più voci – Speciale BRASILE

Voi siete dentro la nostra casa. Siete dentro il cuore del nostro popolo, che è la terra che tutti state calpestando. Questa è terra nostra. Quando voi siete arrivati qui, questa terra era già nostra…
Per questo esigiamo la demarcazione dei nostri territori, il rispetto per le nostre culture, condizioni per la sopravvivenza, educazione, salute… e punizioni dei responsabili delle aggressioni ai popoli indigeni.
Siamo in lutto. Fino a quando? Non vi vergognate di questa memoria che sta nella nostra anima e nel nostro cuore? La racconteremo di nuovo per la giustizia, la terra e la libertà.
Matalawê, indio pataxó
(messa di commemorazione dei 500 anni)

Il grande errore è pensare che il Brasile abbia avuto inizio con la venuta dei portoghesi. Pare che la storia del Brasile sia cominciata nel 1500 e che, prima, ci sia solo preistoria. Purtroppo la storia ufficiale è quella dei vincitori e non dei vinti.
Dal punto di vista della mia fede, lo Spirito del Signore aveva già seminato i valori del vangelo, anche se in forma implicita, nella storia dei popoli indigeni, nelle loro sofferenze e tradizioni religiose. Quando sono arrivati i missionari, con la mentalità di quell’epoca e l’assenza dell’antropologia culturale, che ancora non era nata, essi pensarono di essere di fronte al demonio e distrussero tutto. Ma ora siamo in condizione di dire che in quei valori era già presente lo Spirito del Signore…
mons. Franco Masserdotti
vescovo di Balsas e presidente del Cimi

Nonostante gli aspetti positivi del passato, sono rimasti segni negativi, frutto anche di errori dei cristiani. Senza incolpare i nostri antenati, sentiamo la necessità di chiedere perdono per ciò che è andato contro il vangelo e ha ferito gravemente la dignità umana e molti nostri fratelli e sorelle.
Agli indios furono tolte le terre, la vita e persino la ragione di vivere. Ai neri fu negata la libertà e ostacolata la conservazione della loro cultura e della loro memoria e fino ad oggi non è stata restituita loro la condizione di piena cittadinanza.
Inoltre la situazione di estrema povertà del popolo. Essa ha radici nella storia di esclusione della società brasiliana. La popolazione povera, insieme a indios e neri, è creditrice di un immenso debito sociale, accumulato durante i secoli della formazione del nostro popolo.
Cnbb
(documento dei vescovi brasiliani)

C i sono diversi modi di vedere il fenomeno storico della conquista. Alcuni lo vedono dalle caravelle e per essi tutto è gloria… La prospettiva che io difendo consiste nel vedere il processo dalla spiaggia, integrandolo con quello che è il risultato di questo scontro di civilizzazione, che è culminato in un sincretismo, in una mescolanza di razze e religioni.
Siamo il figlio «non voluto» dell’Europa. Volevano arrivare alle Indie e ci hanno trovato sulla loro strada, accidentalmente. E forse per questo siamo i più ribelli. Siamo una mescolanza di indigeni, neri, asiatici, europei, ma ci sentiamo brasiliani e latinoamericani, non europei.
Leonardo Boff
teologo della liberazione

Indipendentemente dalle ragioni che portarono i portoghesi ad approdare in Brasile e iniziare la colonizzazione-dominazione, il fatto è che abbiamo ricevuto con essi la buona novella di Gesù Cristo.
Da loro ereditiamo un tesoro più grande di quello che portarono via di qui: ereditiamo la fede, il vangelo, l’eucaristia, la salvezza, Nostra Signora. Ed è per questo motivo che dobbiamo celebrare i 500 anni della scoperta, che sono anche 500 anni di evangelizzazione.
mons. José Edson Santana
vescovo di Eunápolis

Non è possibile tracciare il profilo storico del Brasile, senza considerare la presenza della chiesa cattolica. Chi più aiutò a civilizzare le popolazioni indigene che il lavoro missionario? Chi più ha fatto per l’istruzione del popolo che la chiesa? Chi più si è adoperato per la moralizzazione della famiglia, per la pace e la concordia dei cittadini che la stessa chiesa? Come non ricordare la chiesa come colei che ha difeso la dignità umana e i valori culturali dei popoli indigeni presenti in epoca coloniale e la sua tenace opposizione alla schiavitù? Quello che sono oggi i brasiliani lo devono alla generosa dedizione di numerosi cristiani che si sono consacrati alla causa della fede, a volte anche a costo della vita.
card. Angelo Sodano
segretario di stato del Vaticano

L a sfida è la disuguaglianza sociale. Il Brasile ha un’unità territoriale, ma non una condizione di uguaglianza. Nascondere e negare i conflitti interessa ai dominatori, non ai dominati. I conflitti rivelano che c’è insoddisfazione sociale, lotta reale o potenziale e possibilità di mutamento. A chi si avvantaggia del potere non interessa il cambiamento. Il giusto criterio per giudicare i governi e i tempi della storia dovrebbe essere: hanno essi contribuito o meno a superare le disuguaglianze nel paese?
In questi 500 anni il nostro popolo povero ha conquistato il diritto di gridare che ha fame, ma non ha ancora conquistato il diritto di mangiare.
Luis Inacio Lula da Silva
tre volte candidato alla presidenza della repubblica

aa.vv.




BRASILE – Una gatta da pelare

Consacrato vescovo della prelazia di Itacoatiara
il 19 marzo scorso, padre Carillo Gritti, missionario della Consolata, non nasconde le difficoltà
e responsabilità che dovrà affrontare come pastore
di una chiesa povera di risorse e personale,
dispersa su un territorio vasto e impervio.
Una sfida accettata con fede,
cui intende rispondere con coraggio,
pazienza e simpatia.

Il nome stesso, Itacoatiara, per abituarsi a pronunciarlo senza inciampare o balbettare, richiede non poca ginnastica di mascelle e muscoli facciali. Ritagliata dal territorio della diocesi di Manaus, la prelazia fu eretta nel 1963 da Paolo VI. Misura 92.000 kmq di estensione, poco meno di un terzo dell’Italia. Conta appena 153.000 abitanti, in buona parte raccolti in villaggi disseminati, per 600 km, lungo il Rio delle Amazzoni; il resto è sparso in un territorio vastissimo e ricoperto di foresta tropicale.
La sede della prelazia, Itacoatiara, è unita a Manaus da 300 km di asfalto in pessime condizioni. Gli altri centri abitati, sia lungo il fiume che nell’interno, sono raggiungibili solo mediante imbarcazioni. In tempo di secca i corsi dei fiumi sono chiaramente delineati; durante il periodo delle piogge le acque ricoprono chilometri e chilometri di foresta, e gli itinerari sono tutti da inventare, zigzagando tra gli alberi, alla ricerca di percorsi navigabili; spesso bisogna abbandonare la barca per proseguire a piedi e a cavallo.
La gente è molto povera: vive quasi esclusivamente di pesca, grazie ai numerosi affluenti del Rio delle Amazzoni che solcano il territorio. L’agricoltura è quasi inesistente. Ad aggravare la situazione sono sopraggiunte varie compagnie che monopolizzano il commercio del pesce e hanno ridotto i pescatori a semplici braccianti. Coloro che continuano a svolgere la loro attività in modo indipendente sono spesso vittime di pressioni e ricatti mafiosi: per non ributtare il pesce in acqua, devono svenderlo a basso prezzo.
Molte comunità mancano di scuole e servizi sanitari. La chiesa è l’unica organizzazione che si interessa dei loro problemi. Ma anche la prelazia è povera in canna. Divisa in 10 zone pastorali, ha appena sette preti: un brasiliano proveniente dal sud del paese, un canadese, due spagnoli e tre messicani. Neppure un prete locale. Alla scarsità del personale si aggiunge quella delle strutture: la liturgia del mercoledì delle ceneri fu celebrata all’aperto, perché la chiesetta che funge da cattedrale è troppo piccola.
Padre Carillo ha avuto bisogno di un forte soffio dello Spirito Santo per accettare la guida di una prelazia così scomoda e difficile; e ne avrà bisogno ancora di più quando inizierà la sua nuova missione.

E lo Spirito deve essere disceso con abbondanza durante la liturgia della consacrazione episcopale. La gente che gremiva la cattedrale di Manaus lo ha invocato con entusiasmo, insieme alla protezione di tutti i santi, mentre il neo eletto giaceva prostrato a terra. Sul suo capo i vescovi consacranti hanno premuto forte e a lungo le loro mani.
Prostrazione, unzione del capo col sacro crisma, consegna del libro dei vangeli, dell’anello episcopale e del pastorale sono stati riti pieni di suggestione, che la gente ha seguito con gli occhi fissi, con attenzione e commozione, per esplodere in un applauso finale, quando tutti i vescovi presenti hanno accolto il neo consacrato con un abbraccio festoso e caloroso, con sonore pacche sulle spalle, secondo lo stile brasiliano.
Con altrettanta commozione sono state accolte la benedizione e le parole pronunciate da mons. Carillo alla fine della cerimonia. Ricordando Elia, stanco e sfiduciato, seduto all’ombra di un ginepro, mons. Carillo ha accennato alle croci che lo attendono nella nuova missione episcopale, alla guida della chiesa di Itacoatiara. «A differenza di Elia – ha concluso – il missionario non ha tempo né può permettersi il lusso di stancarsi».
La croce figura anche nello stemma episcopale. Sulla sua lunga asta poggia uno scudo in cui è raffigurata una grande barca, sospinta dallo Spirito Santo, che soffia su una vela a forma di Cristo dalle braccia spalancate. Ai piedi dell’asta il motto: «Memoria Jesu dulcis».
Mons. Carillo ne spiega il significato: «La memoria degli apostoli, ricordo vivo e affettuoso del Cristo risorto, è radice e ragione della chiesa. Memoria che lo Spirito mantiene viva e dilata fino agli estremi confini della terra e fino agli ultimi tempi, quando la chiesa entrerà nella comunione definitiva col Padre, il Figlio e lo Spirito Santo».
Alla fine della cerimonia, quando depone i paramenti episcopali, la talare bordata di rosso di mons. Carillo è zuppa di sudore, da capo a piedi, come se fosse uscito dal Rio delle Amazzoni.

È sera. Complimenti e festeggiamenti sono terminati. Finalmente posso incontrare il nuovo vescovo a quattrocchi e carpire qualche notizia sulle sfide della prelazia e i progetti per affrontarle.
– Le informazioni prese prima di accettare la nomina mi dicono che avrò una bella “gatta da pelare”.
– Il personale soprattutto: sette preti per quante parrocchie?
– La prelazia non è organizzata in parrocchie, ma in comunità: ce ne sono 242. Tutto il lavoro burocratico “parrocchiale”, come la registrazione di battesimi, è fatto nella curia. Ufficialmente i preti risiedono a Itacoatiara, da cui si spostano per servire la varie comunità. Inoltre, ci sono tre suore impegnate nella pastorale e un monastero di benedettine, che rischiano di chiudere i battenti perché non riescono a mantenersi. Farò di tutto perché la chiesa di Itacoatiara non perda una testimonianza forte, in cui credo fermamente.
– Si dice che c’è tutto da rifare.
– La prelazia è poverissima. Le strutture quasi inesistenti. L’amministratore mi ha detto che lo scorso anno si è chiuso in pareggio; ma rimane qualche “debituccio”. La maggior parte del bilancio è prosciugato dagli spostamenti dei missionari. Per tale scopo la prelazia ha i due barconi, con elevati costi di manutenzione e carburante. Alcuni fedeli mi hanno già chiesto di costruire subito la cattedrale. Nella situazione attuale sarebbe un suicidio economico, di tempo e personale.
– E sotto l’aspetto pastorale?
– Non partirò da zero. Il mio predecessore, il canadese mons. George Marskell, morto di tumore due anni fa, era un uomo di Dio, venerato da quanti lo hanno conosciuto. Mi sembra, però, che anche lui sia rimasto in qualche modo ostaggio della mentalità creata dalla cosiddetta «teologia della liberazione», che ha influenzato le linee pastorali della chiesa brasiliana. Per cui, anche a Itacoatiara, l’evangelizzazione ha assunto una tinta ideologica e politicizzata. Mi è stato riferito che, in prossimità delle ultime elezioni presidenziali, un prete della prelazia abbia iniziato la predica sbattendo sul leggio un ciclostilato del partito dei lavoratori, dicendo: «Oggi è questa la parola di Dio». Una forma certamente estrema, ma indice di una certa mentalità.
– Ha progetti in proposito?
– Per un anno vorrò conoscere il clero e gli altri collaboratori pastorali; parlare poco e ascoltare molto. Per cui non ho in tasca né progetti né soluzioni prefabbricate. Però ho qualche idea.
– Per esempio?
– Vorrei costruire un certo presbiterio, anche se non sarà possibile radunare insieme tutti i preti. Cercherò di stare loro il più vicino possibile, per dare coraggio, sostanza e maggiore spiritualità. Voglio che i preti lo capiscano: tutti i ministeri sono importanti; nessuno è escluso, ma nessuno è privilegiato.
– Niente privilegio per il sociale?
– È mia intenzione impegnarmi nel sociale, come ho fatto qui a Manaus, organizzando corsi non di formazione ideologica, ma di specializzazione in informatica, riparazione di condizionatori d’aria, parrucchieri e manicure… Preparare, cioè, professionisti in grado di entrare nel nuovo mondo del lavoro, quando anche a Itacoatiara arriveranno industrie, commercio e mode.
– Ci sono prospettive di sviluppo?
– Oggi il pesce è ritenuto un prodotto industrializzabile al cento per cento. Non sarà la chiesa a costruire industrie; ma dobbiamo aiutare la gente a guardare al futuro, frenare la corsa verso la città e accogliere coloro che ne ritornano delusi. Per fare questo bisogna rendere l’ambiente vivibile con scuola, sanità, lavoro. Tanti piccoli centri ne sono totalmente sprovvisti. Mi sono incontrato col governatore dello stato dell’Amazzonia e mi ha promesso tutti gli aiuti di carattere sociale di cui avrò bisogno. Confidandomi che ormai ha fiducia solo della chiesa, perché spende i soldi negli scopi cui sono destinati e ne rende conto, ha concluso: «Qui sono tutti dei grandi ladroni». Parole testuali del governatore; non so se alludesse anche a se stesso.
– Buona notizia. Ce ne sono altre?
– Troverò un popolo buono, semplice, cordiale, come sono le comunità di pescatori. Me l’hanno garantito in molti. Farò di tutto per non deluderlo. Provo già una profonda simpatia per questa gente e prego Dio che me la conservi, perché la ritengo importante per una convivenza cordiale e costruttiva.
– A proposito di simpatia, hai piuttosto fama di “duro”.
– Il più grande sacrificio che dovrò affrontare è tenere a freno il mio carattere. Non ho mai avuto un grande bagaglio di pazienza. Vuol dire che, d’ora in poi, dovrò recuperae qualche dose, sperando di riuscirvi. Cercherò di tenere i miei problemi per me stesso, di diluirli nella preghiera e nell’amicizia con i miei preti. E poi non sono così “duro”. È vero che quando mi saltano i nervi volano parolacce; ma è altrettanto vero che sono capace di giocare con i bambini.

Benedetto Bellesi




Pochi, tanti, troppi: il dilemma demografico


I paesi africani e l’India spingono verso l’alto la popolazione mondiale. Questa continuerà a crescere fino al 2100. Allo stesso tempo, molti paesi stanno sperimentando una rapida decrescita. Proviamo a dare un senso ai dati e a capirne le conseguenze.

Quando si parla di popolazione, lui – Thomas Malthus (1766-1834) – viene sempre evocato. Economista, demografo e anche pastore anglicano, il suo An essay on the principle of population, uscito per la prima volta nel 1798, rimane un caposaldo della tematica demografica. L’incremento della popolazione – spiegava il reverendo Malthus – andrebbe regolato perché esso eccede l’incremento delle risorse disponibili. Utilizzando le sue parole: «La popolazione, se non controllata, aumenta in proporzione geometrica. La sussistenza aumenta solo in proporzione aritmetica». Successivamente, si vide che calcoli e previsioni di Malthus erano errati, ma era corretto e antesignano il suo ragionamento di base: la correlazione tra popolazione e risorse disponibili.

Santiago Cilemauro-mora-unsplash

Numeri che parlano

All’epoca di Malthus la popolazione mondiale era stimata tra uno e 1,2 miliardi di persone. Oggi siamo arrivati a 8,2 miliardi e tale cifra raggiungerà un picco di 10,3 miliardi verso il 2085 per iniziare poi a decrescere. Non è però questo il dato fondamentale per comprendere quanto i tempi siano cambiati.

Quello su cui concentrarsi è il tasso di fertilità, che esprime il numero medio di figli per donna in età feconda (15-49 anni). Ebbene, a livello mondiale il tasso è passato da 5 figli per donna nel 1960 a 2,2 nel 2024.

Questo numero è vicinissimo a un altro chiamato tasso di sostituzione, che indica il numero di figli per donna necessario per sostituire i morti con nuovi nati e mantenere stabile la popolazione complessiva. Attualmente, il numero è pari a 2,1 figli per donna.

Venendo all’Italia, negli anni fra il 1955 e il 1975 sono nati ogni anno fra 800mila e un milione di bambini. Nel 2024 sono stati 374mila, segnando un nuovo record negativo.

Il tasso di sostituzione è stato raggiunto per l’ultima volta nel 1976. Poi è iniziata una rapida discesa arrivando all’attuale 1,2 figli per donna. Questo dato è ulteriormente distinguibile in 1,1 per le mamme italiane e 1,9 per le mamme straniere residenti in Italia. Queste ultime stanno però seguendo lo stesso percorso delle donne italiane con il loro tasso di fecondità in lenta ma costante riduzione (era 2,8 nel 2002).

La bassa fertilità è stata accompagnata da un graduale rinvio della genitorialità, come mostra l’aumento dell’età media delle donne che diventano madri per la prima volta, che oggi si situa sui 32 anni per le italiane e sui 29 per le madri straniere. D’altra parte, in tanti paesi del Sud del mondo avviene anche l’opposto: si diventa madri troppo presto.

«Nel 2024 – racconta il rapporto Onu World population prospects -, 4,7 milioni di bambini, ovvero circa il 3,5% del totale mondiale, sono nati da madri di età inferiore ai 18 anni. Di questi, circa 340mila sono nati da ragazze di età inferiore ai 15 anni, con pesanti conseguenze negative per la salute e il benessere sia delle giovani madri che dei loro figli».

Le motivazioni del calo delle nascite nei Paesi più sviluppati sono plurime, ma forse quella principale è una: la profonda modificazione di quella che un tempo veniva chiamata «famiglia tradizionale» (la donna vista soprattutto per il suo ruolo di madre e meno come soggetto con proprie ambizioni), a cui si aggiunge la motivazione economica («i figli costano»).

Un cimitero; nel 2023, ci sono stati 6 nati e 11 decessi ogni 1.000 abitanti (dati Istat). Foto Patricia Prudente – Unsplash.

«Sostituzione etnica»?

Si parla – soprattutto a livello giornalistico – d’«inverno demografico», o di «tempesta demografica perfetta». È sicuramente vero che un Paese con un tasso di fertilità inferiore al tasso di sostituzione avrà problemi importanti perché meno lavoratori e più anziani cambiano la società e il suo funzionamento.

In altri termini, un simile livello di denatalità potrebbe produrre una doppia conseguenza: da una parte una mancanza di lavoratori, dall’altra un’insufficienza di risorse per pagare le pensioni a una platea sempre più vasta di persone e sostenere le spese sanitarie e assistenziali per una popolazione più anziana e, quin- di, più fragile.

Appurato questo, soluzioni se ne possono trovare, visto che nel mondo di esseri umani non ne mancano e ci sono aree nelle quali il sistema sociale ed economico non regge la crescita numerica della popolazione.

Per esempio, dove ci fossero carenze demografiche si potrebbero indirizzare maggiori flussi migratori, anche se in questo caso – lo sappiamo bene – la questione diventerebbe soprattutto politica. In particolare, verrebbe paventato il fenomeno della «sostituzione etnica». Come, in un convegno dell’aprile 2023, ha sostenuto il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. «Non possiamo – ha spiegato – arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada».

Invece, la strada è proprio quella visto che fare risalire il tasso di fertilità è un’impresa difficile e, comunque, di lungo periodo.

Popolazione e ambiente

Attorno al tema demografico ruota anche un’altra questione, sempre più attuale.

Può essere riassunta in un quesito: più popolazione significa più pressione antropica? Sicuramente sì, ma la risposta non può esaurirsi qui.

Secondo uno studio scientifico (Environmental research letters del 12 luglio 2017), nei paesi sviluppati fare un figlio in meno ridurrebbe, in media, l’impronta ecologica di 58 tonnellate di CO2 all’anno.

Questo risultato non deve però indurre a conclusioni frettolose. Affrontiamo il problema da un punto di vista diverso, comparando la percentuale delle emissioni di anidride carbonica (il maggiore tra i cosiddetti gas serra) tra Paesi poveri ad alta crescita demografica e Paesi ad alto reddito con una crescita della popolazione bassa o nulla.

Scopriamo così che la Nigeria – paese africano con una popolazione in forte aumento – contribuisce alle emissioni mondiali di CO2 soltanto per lo 0,73 per cento e la Repubblica democratica del Congo, altro paese africano in crescita demografica, per lo 0,05 per cento. Molto diversi sono i dati dei paesi sviluppati. Per esempio, gli Stati Uniti (secondo paese più inquinante dopo la Cina) sono responsabili del 14,45 per cento delle emissioni e l’Italia del 5,32 (fonte: Statista, 2023).

Questo significa che, oltre alla pressione antropica, risulta determinante il modello economico e di consumo adottato ed è su quello che sarebbe necessario intervenire.

In caso contrario, se i Paesi del Sud globale (dove la popolazione cresce) volessero avere – come loro diritto – il livello di consumi di quelli del Nord, la crisi ambientale (già molto grave) esploderebbe.

La demografia modella il mondo

Secondo l’Onu, sono quattro le grandi tendenze demografiche che modellano il mondo: la crescita della popolazione, il suo invecchiamento, l’urbanizzazione e le migrazioni internazionali.

La sua lettura della situazione rimane improntata all’ottimismo: «I cambiamenti nella dimensione, nella struttura per età e nella distribuzione spaziale delle popolazioni – si legge nel rapporto – portano sia sfide che opportunità. Gestendo le sfide e sfruttando le opportunità, possiamo accelerare il raggiungimento di uno sviluppo inclusivo e sostenibile, creare opportunità per sradicare la povertà, migliorare l’accesso alla protezione sociale, all’assistenza sanitaria e all’istruzione, promuovere l’uguaglianza di genere, promuovere modelli più sostenibili di produzione e consumo e salvaguardare l’ambiente».

Paolo Moiola

uomini in cammino; i flussi migratori possono essere una risposta al calo demografico, ma questa soluzione trova l’opposizione dei partiti di destra. Foto Sebastien Goldberg – Unsplash.


La popolazione a livello mondiale

popolazione mondiale                               8,2 miliardi
A livello mondiale, il picco della popolazione sarà raggiunto verso il 2085 con 10,3 miliardi di persone.

tasso di fertilità                                             2,2
È il numero medio di figli per donna in età fertile. Nel 1960 era di 5 figli per donna.

tasso di sostituzione                                  2,1
Detto anche «tasso di rimpiazzo», è il numero  medio di figli per donna
che consente alla popolazione di restare numericamente costante.

aspettativa di vita                                       73,3 anni
Detta anche «speranza di vita» alla nascita. La più alta è in Giappone (84,4 anni),
la più bassa in Ciad (53 anni) e altri paesi africani.

Paesi in decrescita demografica      63 paesi
Comprendono il 28 per cento della popolazione mondiale.
Ne fanno parte i paesi europei (eccetto Francia e Gran Bretagna) e asiatici.
Tra essi anche Russia, Cina, Giappone e Corea del Sud.

Paesi in crescita fino al 2054                48 paesi
Comprendono il 10 per cento della popolazione mondiale.
Vi fanno parte anche il Brasile, l’Iran, la Turchia e il Vietnam.

Paesi in crescita fino al 2100                126 paesi
Record di crescita demografica per l’Africa con i paesi subsahariani,
il Congo Rd, l’Etiopia e la Nigeria. Al gruppo appartengono anche gli Stati Uniti
per via dei flussi migratori. L’India raggiungerà il picco di popolazione nel 2060.

            Fonti: United Nations, World population prospects, 2024;
United Nations, World fertility report, 2024.

La popolazione a livello italiano (dati 2024)

popolazione italiana           59 milioni
Gli stranieri residenti in Italia sono 5,3 milioni, r
appresentando circa l’8,9% della popolazione complessiva.

tasso di fertilità                    1,20
Nel 2024 ci sono stati 374mila nuovi nati, 5mila in meno rispetto al 2023.
Lontanissimi gli anni del baby boom: nel 1946, 1947, 1948 e 1964
nacquero più di un milione di bambini per anno.

aspettativa di vita                  84,01 anni
L’aspettativa di vita delle donne italiane è pari a 85,97 anni, quella degli uomini italiani è di 81,90 anni.

età media                                  48,4 anni
L’Italia ha la popolazione più vecchia tra i paesi dell’Unione europea. In Ue, la media è di 44,5 anni.

Fonti: Istat ed Eurostat. Tabelle: a cura di Paolo Moiola.




Sfida alla dittatura del dollaro


Da gennaio 2025, il gruppo dei Brics, nato nel 2009, si è allargato all’undicesimo paese. Il gruppo si pone come alternativa economica ai paesi occidentali riuniti nel G7. Uno degli obiettivi dichiarati è porre fine alla supremazia del dollaro Usa.

Un nuovo soggetto si aggira per il mondo e innervosisce i paesi occidentali. Si chiama Brics, una sigla che sta per Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica. L’acronimo venne usato la prima volta in una nota sullo stato dell’economia mondiale pubblicata nel 2001 da Jim O’Neill, responsabile dell’ufficio ricerche di Goldman Sachs, potente banca d’affari. La nota voleva avvertire i governi occidentali che altri paesi stavano emergendo sulla scena economica mondiale e che nessuna nuova decisione poteva essere presa senza di loro.

Sfida al forum dei «G7»

Consiglio pertinente, se si considera che, a partire dal 1976, i paesi occidentali più potenti – Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America – avevano preso a incontrarsi annualmente per concordare risposte comuni alle principali problematiche mondiali. Il forum era stato battezzato G7 – Gruppo dei sette – e si è consolidato come l’assise internazionale, esterna al sistema delle Nazioni Unite, nella quale i potenti decidono le politiche da imporre al mondo intero.

Nel 1997, il G7 divenne G8 per l’inclusione della Russia, che però ci sarebbe rimasta solo fino al 2014, anno in cui ne sarebbe stata esclusa per essersi impossessata della Crimea (Ucraina). Intanto, al G8 del 2003, presieduto dalla Francia, furono invitati come osservatori anche Brasile, India e Sudafrica. I tre ne uscirono contrariati rendendosi conto che erano lì per pura formalità.

Lula, presidente del Brasile, chiese: «A che serve essere invitati al banchetto dei potenti per mangiare solo il dessert?». E aggiunse: «Oltre al dessert vogliamo assaporare tutte le altre vivande».

foto Willfried Wende – Unsplash

Fatto sta che, solo tre giorni dopo, i ministri degli esteri dei tre paesi si ritrovarono a Brasilia e formalizzarono la nascita del «Forum di dialogo dell’Ibsa» con l’obiettivo principale di trovare una linea di condotta comune sui tanti temi che si stavano definendo all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio. In particolare, quello sui brevetti, tenuto conto che tutti e tre i paesi ospitavano industrie che producevano grandi quantità di farmaci generici al servizio di tutto il Sud del mondo.

Intanto, in Asia, andava prendendo forma l’Irc, un tavolo composto da India, Russia e Cina per confrontarsi con regolarità su temi di interesse comune, come sicurezza, migrazioni, terrorismo.

I due forum, l’Ibsa e l’Irc, si fusero nel settembre 2006, allorché Russia e Brasile, in occasione di una riunione all’Onu, promossero un incontro allargato a Cina e India, per discutere le problematiche connesse all’assetto finanziario internazionale. Tema più che mai azzeccato considerato che di lì a poco si sarebbe scatenata una delle peggiori crisi finanziarie a livello mondiale.

Fu proprio la crisi del 2008 a dare carattere di stabilità al gruppo dei Brics che formalizzò la propria alleanza durante un nuovo incontro organizzato nella cittadina russa di Yekaterinburg, il 16 giugno 2009, data del primo summit ufficiale.

Da allora i cinque paesi (il Sudafrica si unì nel 2011), s’incontrano ogni anno e progettano iniziative comuni. Una delle più importanti fu la creazione, nel 2015, di una banca internazionale denominata Nuova banca di sviluppo (Ndb, secondo l’acronimo inglese).

Il Pil dei Brics

Nel 2001, quando O’Neill alzò per la prima volta il sipario sui futuri Brics, il loro peso sulla scena mondiale corrispondeva all’8% del Pil e al 43% della popolazione. Nel tempo sono passati al 25% del Pil, mentre la popolazione si è ridotta al 41% del totale mondiale.

Dal gennaio 2024 sono però stati ammessi altri cinque membri (Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti). A gennaio 2025 è entrata l’Indonesia, mentre altre nazioni hanno mostrato interesse ad aderire. Fra esse Thailandia, Malaysia e la Turchia che pure fa parte della Nato.

In conclusione, ben presto il blocco dei Brics potrebbe rappresentare un terzo del Pil e dell’interscambio mondiale. Basti dire che all’ultimo vertice che si è tenuto in Russia, a Kazan, dal 22 al 24 ottobre 2024, erano presenti 37 paesi. Tutti molto diversi fra loro per collocazione geografica, regime politico, posizione economica, ma tutti interessati a rafforzare la propria economia senza subire condizionamenti da parte dei potentati economici, in particolare quello statunitense.

Non a caso il grande tema al vertice di Kazan è stato quello dei pagamenti internazionali.

Negli ultimi secoli, il commercio internazionale si è espanso a dismisura, ma la scelta della moneta con cui pagare è sempre stata un problema.

In maniera molto empirica, il vecchio Mao Zedong sosteneva che a deciderlo è la dimensione dei cannoni. Come dire che si è sempre imposta la moneta del paese più forte sia da un punto di vista economico che militare. La sterlina dominava quando gli inglesi possedevano un impero su cui non tramontava mai il sole, come il denarius aureus dominava quando a comandare era Roma.

L’egemonia del dollaro e la variabile Trump

Oggi, di paesi coloniali vecchia maniera non ce ne sono più. Ma il prodotto interno lordo e la spesa militare contano ancora. Tant’è che la moneta universalmente accettata è il dollaro, espressione degli Stati Uniti, che sono i primi sia per Pil (27mila miliardi di dollari), che per spesa militare (817 miliardi di dollari). Il risultato è che il dollaro è la moneta più richiesta al mondo ed è la più usata sia per gli scambi commerciali che per le operazioni finanziarie di livello internazionale.

I paesi Brics, e in particolare la Russia, stanno progettando di sfidare questa egemonia creando un sistema di pagamento alternativo, almeno nel loro circuito. Ma la battaglia si presenta ardua dal momento che Trump ha lanciato parole di fuoco quando ha saputo che qualcuno osava mettere in discussione la supremazia della moneta Usa.

Non ancora investito delle funzioni di presidente, il 1° dicembre 2024 ha rilasciato un comunicato stampa che suonava come una vera e propria dichiarazione di guerra: «Non credano i paesi Brics che noi ce ne staremo semplicemente a guardare se provano a sganciarsi dal dollaro». E proseguendo, ha aggiunto: «Noi li avvertiamo: se proveranno a creare un nuovo mezzo di scambio interno ai Brics o a sostenere la nascita di qualsiasi altro mezzo di pagamento che sfida la potenza del dollaro, saranno colpiti con dazi doganali fino al 100% affinché perdano ogni possibilità di vendere le loro merci nella meravigliosa economia americana».

Invettive confermate dopo l’insediamento (in un discorso del 22 febbraio 2025) e dettate non solo da spirito suprematista, ma anche dalla consapevolezza che essere titolari di una moneta a valenza internazionale offre vantaggi. Ad esempio, permette di vivere al di sopra delle proprie possibilità, ossia di poter godere della ricchezza altrui, oltre che di quella prodotta internamente. Il caso americano né un classico esempio.

Il debito degli Stati Uniti

Gli Stati Uniti vivono cronicamente in uno stato di debito commerciale, nel senso che importano più di quanto esportano. Nel 2023 la differenza in negativo è stata di 773 miliardi di dollari, ma nessuno ha protestato. Se qualsiasi altro paese avesse un deficit commerciale di questo livello verrebbe subito messo sotto sorveglianza del Fondo monetario internazionale e costretto a ogni forma di sacrificio finché non avesse portato la propria bilancia commerciale in pareggio.

Gli Stati Uniti, invece, continuano indisturbati nella loro navigazione in rosso, perché possono compensare il loro debito commerciale con le grandi masse di dollari che ricevono da tutto il mondo sotto forma di capitali. Tenendo a mente che, in caso di cattiva parata, i dollari possono essere ottenuti con la stampa di nuove banconote.

La rivoluzione di Nixon 

Per la verità fino al 1971 questa possibilità era limitata dal fatto che ogni aumento di denaro esigeva un aumento di riserve di oro perché c’era l’impegno, da parte della Banca centrale statunitense, di convertire i dollari in oro qualora le istituzioni estere ne avessero fatto richiesta (era il sistema aureo o Gold standard). In quel 1971, constatando che ormai di dollari in circolazione ce n’erano troppi, il presidente americano Richard Nixon decretò la fine della convertibilità in oro lasciando molta più libertà all’emissione di nuova moneta (cioè alla stampa di nuovi biglietti). Come dire che il dominio del dollaro, oggi più che mai dipende dalla forza economica e militare degli Stati Uniti.

Eppure, già nel 1944, quando a Bretton Woods (negli Usa) si discuteva quale assetto finanziario dare al mondo che usciva dalla seconda guerra mondiale, l’economista inglese John Maynard Keynes aveva proposto un sistema di pagamenti internazionali che escludesse l’uso diretto di qualsiasi moneta nazionale.

Due i capisaldi della sua proposta. La prima: la creazione di una moneta interbancaria, il bancor, che avrebbe avuto una parità fissa con ogni moneta, da utilizzare esclusivamente come unità di conto, ossia per permettere a ogni paese di registrare il valore delle proprie importazioni ed esportazioni. La seconda: la creazione di una camera di compensazione con il duplice compito di verificare i saldi periodici di ogni nazione e concordare volta per volta le misure da adottare per permettere a debitori e creditori di ritrovare una situazione di pareggio. Un sistema ben diverso da quello in vigore oggi che costringe tutti i paesi del mondo a dotarsi di riserve in valuta forte (prevalentemente dollari o addirittura oro), per saldare le eventuali posizioni debitorie che possono venire a crearsi.

«R5», la valuta dei Brics

foto Davie Bicker-Bluebudgie-Pixabay

L’alternativa attorno alla quale stanno lavorando i Brics, per le loro relazioni commerciali, è simile a quella prospettata da Keynes. La proposta prevede la creazione di un’unità di conto, denominata «R5», il cui valore è determinato per il 40% dal prezzo dell’oro e per il rimanente 60% da un paniere di valute nazionali utilizzate all’interno dei Brics, che – di qui il termine – cominciano tutte per «R»: reais, rublo, renmimbi, rupia e rand, rispettivamente valute ufficiali di Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica.

La proposta è integrata dalla creazione di un circuito di comunicazione interbancario attraverso il quale le banche di tutti i paesi Brics possono comunicarsi in tempo reale i pagamenti che si fanno reciprocamente per le più svariate esigenze dei propri clienti.

Va detto che già oggi esistono vari circuiti di comunicazione fra banche a livello internazionale, ma quello predominante è lo Swift, con sede legale in Belgio e controllato dalle banche centrali di dieci paesi occidentali. Complessivamente, il circuito Swift comprende più di 11mila organizzazioni finanziarie e bancarie appartenenti a oltre 200 paesi e territori fra i quali fino al 2021 figurava anche la Russia, poi estromessa come ritorsione per avere aggredito l’Ucraina.

Considerata la sua posizione di paese sotto sanzioni, si capisce perché la Russia spinga più degli altri per la creazione di un sistema di pagamenti alternativo. Comunque la si metta, l’egemonia del dollaro rimane un problema perché getta sul mondo intero e, in particolare, sui paesi più deboli, le conseguenze di scelte operate per ragioni a esclusivo servizio degli Stati Uniti. Valga, come esempio, la decisione assunta negli ultimi anni dalla Banca centrale statunitense di aumentare il tasso di interesse per aggiustare la propria economia. L’effetto è stato la crescita del costo del debito a livello globale che ha obbligato molti governi del Sud a ridurre le spese sanitarie e sociali per pagare gli interessi più alti maturati sui prestiti esteri.

È troppo presto per dire se i Brics possono rappresentare una speranza di gestione alternativa dell’economia a livello mondiale, ma è salutare che qualcuno sfidi lo status quo.

Francesco Gesualdi

 




Equapp: un acquisto alla volta

 


Come lottare per i diritti umani e la sostenibilità ambientale nella vita quotidiana? Come indurre le aziende che violano la dignità delle persone e della Terra a cambiare? Come orientare i nostri consumi in una direzione più etica? Domande che non hanno una risposta chiara e semplice. Ma un’app può aiutare.

Una volta c’era la Guida al consumo critico curata dal Centro nuovo modello di sviluppo di Francesco Gesualdi: un’opera che ha informato e formato molti cittadini con le sue diverse edizioni uscite tra il 1998 e il 2012.

Quello sforzo di ricerca e divulgazione ha contribuito a consolidare una consapevolezza: gli acquisti quotidiani di prodotti o servizi influiscono sui diritti umani, le guerre, l’ambiente, gli animali, la democrazia, nel proprio Paese e nel mondo.

Anche grazie a molte altre pubblicazioni e iniziative, la consapevolezza è cresciuta, e oggi sappiamo tutti, bene o male, che rischiamo di avere tra le mani uno smartphone prodotto con materie prime prelevate violando diritti e territori nel Sud globale. Sappiamo che la bevanda offerta ai figli dei nostri ospiti potrebbe essere prodotta da un’azienda che evade le tasse, inquina, sfrutta i bambini, ha politiche antisindacali, ecc.

Sappiamo che le nostre scelte individuali possono avere impatti positivi o negativi, ma come fare oggi a decidere tra un prodotto e un altro? Come fare a raccogliere tutte le informazioni aggiornate di cui avremmo bisogno? E come averle a portata di mano nelle corse quotidiane da cui tutti siamo più o meno travolti?

Abbiamo sentito Marco Ratti, direttore responsabile della testata online osservatoriodiritti.it e presidente dell’associazione non profit Osservatorio sui diritti umani Ets che ha lanciato «Equa», un’applicazione che prova a dare risposte pratiche.

Consumo responsabile

«Comprare un prodotto o un servizio guardando solo al prezzo – esordisce Marco Ratti – significa accettare il rischio che quell’acquisto possa favorire il caporalato, la distruzione della natura, il maltrattamento degli animali e chissà cos’altro. Ma, fino a poco tempo fa, ottenere queste informazioni velocemente, e comportarsi di conseguenza, era pressoché impossibile.

Proprio per questo motivo è nata Equa, la prima app in Italia sul consumo responsabile. Un’applicazione per cellulari, ideata e creata dall’associazione Osservatorio sui diritti umani Ets, per far conoscere l’impatto dei propri acquisti. Uno strumento concreto per “cambiare il mondo un acquisto alla volta”, come recita lo slogan del progetto».

Manifestazione degli abitanti di Piquia de Baixo, Açâilandia (Maranhão, Brasile). Foto di © Marcelo Cruz.

Come funziona Equa

Chi utilizza Equa può ottenere informazioni per compilare una lista della spesa più etica, e può approfondire come si comportano le aziende che provano a venderci beni o servizi.

«Finora – prosegue Ratti -, grazie a un grande lavoro di ricerca, sono stati analizzati quattro prodotti di tre settori: cellulari e tablet per il settore dell’elettronica, la pasta per il settore alimentare e le bibite gassate per il settore bevande. L’obiettivo è di valutare il maggior numero possibile di beni e servizi disponibili in Italia».

In estrema sintesi, le azioni possibili attraverso Equa sono cinque: «In primo luogo, l’utente può cercare un’azienda o marchio e scoprire quanto rispetta i diritti umani, l’ambiente e gli animali, tramite un punteggio da 0 a 100. Più alto è, meglio è.

C’è la possibilità di avere informazioni di base relative all’azienda, come la sede legale, il fatturato, il numero di dipendenti, e una sintesi di quanto emerso dalla ricerca. Si può vedere l’elenco di tutti i brand collegati e l’assetto proprietario.

In aggiunta, chi sceglie di abbonarsi può fare ricerche anche per categorie e per prodotti, così da vedere in un unico colpo d’occhio tutte le aziende che producono ciò a cui si è interessati.

In secondo luogo, Equa permette anche di fare una semplice, ma potente, azione di attivismo: in un click, è possibile inviare all’azienda una email precompilata in cui sono sottolineati i punti critici, per chiedere di cambiare.

Terzo, chi sceglie di registrarsi gratuitamente all’applicazione ha la possibilità di salvare tutte le proprie ricerche, costruire una lista dei preferiti e ricevere notifiche dedicate.

Gli abbonati, inoltre, possono compiere altre due attività. Innanzitutto hanno accesso all’elenco delle alternative più sostenibili. Infine, hanno la possibilità di consultare i punteggi suddivisi secondo le tre categorie: diritti umani, ambiente e animali, e leggere le schede di analisi relative all’impresa, comprese le fonti utilizzate».

I criteri di valutazione

Il fulcro dell’app, spiega ancora Marco Ratti, è costituito dunque dalle analisi delle aziende. Queste sono realizzate da un nutrito gruppo di lavoro tramite griglie di valutazione costruite anche grazie al supporto della realtà più significativa in questo ambito a livello mondiale, l’organizzazione britannica Ethical consumer, e all’appoggio del Centro nuovo modello di sviluppo.

«In estrema sintesi, come accennato, Equa indaga sul comportamento aziendale negli ambiti dei

diritti umani, dell’ambiente e degli animali. A loro volta, queste tre macro aree sono suddivise complessivamente in sedici sezioni e più di cento voci.

L’analisi assegna all’azienda un punteggio compreso tra 0 e 100.

Sarebbe lungo elencare i criteri di valutazione, per cui invito ad andare a leggerli sul sito web www.equapp.it. È utile però chiarire che l’analisi delle singole aziende si basa su due tipi di fonti: innanzitutto, i dati raccolti in maniera indipendente, accedendo ad esempio a database pubblici (per sapere se l’azienda è presente in paradisi fiscali, o collabora con regimi oppressivi e così via); in secondo luogo, le dichiarazioni politiche delle aziende stesse, e gli impegni presi pubblicamente, per esempio nei rapporti di sostenibilità e nei codici di condotta applicati nella catena del valore. In questi casi, all’analisi minuziosa dei documenti aziendali, segue la ricerca di eventuali critiche da parte di fonti autorevoli in merito alle tematiche su cui l’azienda si dichiara virtuosa.

Questo sistema è stato costruito per evitare che un’autodichiarazione dell’impresa sia sufficiente a ottenere un buon punteggio.

Infine, per controllare la qualità delle griglie di valutazione c’è un Comitato scientifico formato da cinque persone: Francesco Gesualdi (fondatore del Centro nuovo modello di sviluppo), Deborah Lucchetti (coordinatrice per l’Italia della Campagna abiti puliti), Ugo Biggeri (già presidente di Banca etica e attuale coordinatore per l’Europa di Global alliance for banking on values), Gabriella D’Amico (vicepresidente di Assobotteghe), Jason Nardi (presidente della Rete italiana economia solidale)».

Un progetto indipendente

Il progetto di Equa è realizzato da un’associazione non profit. Domandiamo a Marco Ratti come si sostiene da un punto di vista economico. «Oltre che dagli abbonamenti, Equa è sostenuta dalle donazioni di singoli e gruppi, come associazioni, botteghe del commercio equo, gruppi d’acquisto solidale e distretti di economia solidale, ed è potuta decollare grazie al Gruppo Banca etica, che ha sostenuto quasi tutti i costi del primo anno di attività con una grossa donazione.

I soldi non arrivano dunque dalle aziende – prosegue Ratti -, che non possono in alcun modo influenzare le valutazioni.

Inoltre, all’interno di Equa non si incontra alcuna pubblicità, a ulteriore garanzia dell’indipendenza del lavoro.

Per avere più possibilità di raggiungere la piena sostenibilità economica, l’applicazione è stata sviluppata in modalità “Freemium”: può essere scaricata e utilizzata gratuitamente, ma alcuni contenuti sono accessibili solo agli abbonati.

A differenza di un abbonamento qualunque, però, l’associazione ha cercato di dare la possibilità a tutte e tutti di accedere ai servizi Premium: invece di indicare un prezzo fisso, chiediamo all’utente di scegliere tra quattro diversi tagli, 20, 35, 50 o 70 euro all’anno. Qualsiasi taglio darà accesso al 100% dei contenuti.

In altre parole, dunque, chi sceglierà i tagli più alti lo farà per sostenere il progetto».

Luca Lorusso


Un sogno nato in Brasile

L’idea di sviluppare l’app Equa viene da lontano. Dal periodo 2012-2015, quando il suo ideatore e coordinatore, Marco Ratti, ha vissuto con la sua famiglia ad Açâilandia (Maranhão, Brasile), inserendosi in alcuni progetti della comunità locale e dei missionari comboniani.

«In quel periodo ho dovuto cambiare il mio punto di osservazione – racconta il direttore responsabile di Osservatorio diritti -, e questo mi ha portato a modificare il modo di leggere la realtà che mi circonda e mi ha spinto verso progetti a cui non avrei mai pensato prima».

L’esperienza brasiliana di Marco Ratti e della sua famiglia, è stata segnata dalla condivisione con un piccolo gruppo di persone che, nella sua semplicità, stava conducendo una battaglia per il diritto delle comunità locali a una vita dignitosa. «Alcune aziende tra le più ricche e potenti al mondo, con la loro attività mineraria e siderurgica, avevano devastato le loro terre, trasformandole in coltivazioni intensive, carbonaie, altoforni, e rendendole zone con tassi di inquinamento tra i più alti al mondo.

Quella lotta, lenta ma implacabile, condivisa nella quotidianità – spiega Ratti -, mi ha cambiato dentro un giorno alla volta, tanto che, al ritorno in Italia, ho fondato con alcuni colleghi Osservatorio diritti, una testata online indipendente che ancora oggi si occupa di denunciare le violazioni dei diritti umani».

Quello è stato il primo passo, a cui ne sono seguiti altri: «Far conoscere le violazioni era fondamentale, ma per incidere davvero era necessario offrire uno strumento concreto affinché chiunque potesse unirsi alla lotta per la giustizia sociale e ambientale».

Da queste riflessioni è nata la newsletter settimanale «Imprese e diritti umani», e poi, circa quattro anni fa, il lavoro dell’associazione Osservatorio sui diritti umani Ets per creare Equa, uno strumento per il consumo responsabile.

L.L.


Giornalismo indipendente per i diritti umani

«Equa» è l’ultimo progetto di Osservatorio sui diritti umani Ets, un’associazione non profit di Milano nata sei anni fa con due obiettivi: promuovere la cultura dei
diritti umani e praticare il giornalismo indipendente e di qualità. Alla base di tutto c’è una scommessa controcorrente: l’informazione legata ai diritti umani, se fatta in maniera libera e professionale, è capace di interessare tanta gente.

Ogni attività realizzata mira ad avvicinare la vita delle vittime di violazioni alla nostra. Più in generale, l’obiettivo è contribuire a una società più inclusiva.

La testata online

L’associazione è stata fondata nel 2019 da un gruppo di giornalisti che due anni prima aveva avviato la testata online Osservatorio diritti, un giornale italiano specializzato in inchieste, analisi e approfondimenti sul tema dei diritti umani.

Nel corso degli anni, l’informazione prodotta ha avuto impatti importanti, dall’apertura di interrogazioni parlamentari sui diritti dei bambini con disabilità fino alla liberazione di difensori dei diritti umani in Africa.

La testata ha collaborato o collabora a vario titolo con diversi soggetti, tra i quali il master in Diritti umani e gestione dei conflitti della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, la Commissione europea, il Festival dei diritti umani di Milano.

Le altre attività

Il giornale online è stato la prima di molte attività. Nel 2019 l’associazione ha pubblicato il libro Immigrazione oltre i luoghi comuni. Venti bufale smontate un pezzo alla volta, per cominciare a parlarne sul serio, a cui sono seguiti Coronavirus. Viaggio nelle periferie del mondo e Tracce indelebili. Storie di dieci attivisti che hanno cambiato il mondo.

I giornalisti hanno prodotto anche due podcast: Diritti e Rovesci, un approfondimento quotidiano sui diritti umani; Diritti al Cuore, una serie dedicata a racconti di lotta per la difesa dei diritti.

Attualmente cura tre newsletter: quella del mercoledì sui diritti umani, una mensile sui consumi responsabili e quella del sabato su imprese e diritti umani (quest’ultima in abbonamento).

L’associazione fa anche interventi nelle scuole ed eventi di promozione culturale sui diritti umani.

Marco Ratti
direttore responsabile di www.osservatoriodiritti.it