Nell’occhio dei cicloni

Gioviale e sincero, cuore grande e sensibile, la vita di padre Calandri fu tutta in salita, costellata di difficoltà
e incomprensioni, senza mai arrendersi. Definito pioniere, eroe, artista, antropologo…
fu educatore, difensore e padre di migliaia di africani.

Da grande voleva fare il «bandito», diceva ai compagni delle elementari. Un palmo più alto dei coetanei, il collo oltremodo lungo, nel seminario di Giaveno (TO) lo chiamavano «cammello». Il nomignolo non gli dispiaceva; anzi, aumentava i suoi sogni di avventure per deserti e savane sconfinate. Voleva essere prete; ma non intisichire tra le mura di una canonica. «Come conciliare sogni e vocazione? – racconterà più tardi -. Eccoti saltar fuori la chiamata alla missione».
SOGNANDO LA MISSIONE
A 18 anni (era nato nel 1893 a Moretta, Cuneo), Pietro Calandri ottenne dal vescovo il permesso di entrare tra i missionari della Consolata. Il 3 marzo 1917 fu ordinato prete. Non scordò mai quel giorno, anche per un curioso extra rituale: dubitando di avergli imposto le mani sul capo, alla fine dell’ordinazione il vescovo ripeté tale cerimonia. «Mai avuto dubbi sul mio sacerdozio: sono stato ordinato due volte» raccontava spesso.
Per realizzare i suoi sogni bisognò aspettare il ritorno dei missionari mobilitati come cappellani militari nella guerra mondiale. Padre Pietro doveva dare una mano nei vari servizi della casa madre: formazione degli studenti e insegnamento di materie pratiche: fotografia, pittura, arti e mestieri.
Come ogni artista che si rispetti, era soggetto a madoali distrazioni: iniziare la messa senza paramenti; andare in tram con uova fresche in tasca e conseguente frittata. E rideva volentieri di tali disavventure.
Nel 1920 Calandri raggiunse il Kenya. Si buttò nel lavoro con tutto il suo entusiasmo. Ma ben presto si accorse che le savane e foreste dei sogni giovanili erano popolate da ingiustizie e soprusi da fargli ribollire il sangue, fino a definire la missione di Kanjo (ora Turu) «selvaggia e crudele» (vedi riquadro).
Nel 1925 fu scelto per formare il primo gruppo di missionari della Consolata destinati al Mozambico.
ORDINI E CONTRORDINI
Secondo gli accordi presi con il prelato del Mozambico, dom Rafael Assunção, il drappello era destinato a Miruru, missione ai confini con lo Zimbabwe, fondata dai gesuiti e da vari anni senza preti. Ma a Torino i superiori avevano messo gli occhi sul Niassa, dove si poteva cominciare da zero, poiché nessun missionario cattolico vi aveva ancora messo piede.
Fu così che padre Calandri, con in tasca l’ordine segreto di andare nel Niassa, si staccò dal gruppo di Miruru e, insieme a padre Amiotti, raggiunse Mandimba, ai confini col Nyassaland (oggi Malawi). Nel frattempo i superiori avrebbero richiesto i permessi necessari alle autorità ecclesiastiche e civili . Di fronte al fatto compiuto, pensavano, sarebbe stato più facile ottenerli.
I due missionari cominciarono subito la costruzione di un capannone, una cappellina di canne di bambù e una casetta per accogliere una dozzina di orfanelli, figli di europei, impiegati del governo inglese in Malawi.
Secondo le istruzioni dei superiori, padre Calandri fece una bella relazione sulla situazione e la inviò a dom Rafael, dichiarandosi disponibile all’evangelizzazione del Niassa. La risposta giunse come una mazzata: «Uscire dal territorio entro un mese, dopo il quale scatterà la sospensione a divinis». Il che significa: proibizione di amministrare qualsiasi sacramento.
Da Torino arrivò l’ordine di restare, perché tutto si sarebbe aggiustato. Pure il vicario apostolico del Nyassaland, il monfortano francese mons. Auneau, consigliò di rimanere. I due missionari celebravano la messa di nascosto e ogni settimana passavano la frontiera per confessarsi e assolversi a vicenda nel territorio del vescovo amico. Per non dare nell’occhio degli ispettori della colonia portoghese, vari amici consigliarono loro di tagliarsi la barba e spacciarsi per coltivatori di tabacco.
Padre Pietro si lasciò un paio di baffetti e, oltre a coltivare tabacco, impiegò quel «tempo d’inedia» per esplorare il Niassa, studiare i posti più idonei per le future missioni, incontrare la gente e imparare la lingua ciyao. Scriveva ogni nuova parola su un pezzetto di carta, che infilzava in un ferro e, tornato a casa, ordinava i foglietti in ordine alfabetico. Ne risulteranno 13 volumi, confluiti nel dizionario italiano-ciyao, poi in quello portoghese-ciyao.
Ma per il cuore sensibile del Calandri fu «una situazione così terribile», da farlo piangere giorno e notte.
«TEGOLE» IN TESTA

Dopo due anni di «purgatorio», il 1° maggio 1928 arrivò un telegramma dal Nyassaland: «Concessa giurisdizione. Cominciare i lavori». Calandri era felicissimo, ma a tasche vuote: gli ultimi due scellini li aveva dati al fattorino che aveva recapitato la bella notizia. Un amico, salvato dal padre da una febbre micidiale con un drammatico bagno freddo, gli infilò in tasca 500 scudi portoghesi, con cui organizzò subito una carovana per raggiungere Massangulo, 60 km a nord-est di Mandimba.
Gli orfanelli più grandi a piedi, gli altri in spalle ai portatori, a passo di lumaca, giunsero a destinazione il 20 maggio 1928; furono piantate le tende e si cominciò subito la fabbricazione di tegole e mattoni.
Passò un mese e un’altra «tegola» si abbatté sulla testa di Calandri: il governatore del Niassa ritirava ogni permesso, finché dom Rafael non avesse comunicato anche a lui l’autorizzazione ecclesiastica consegnata ai missionari. Era una ripicca contro il prelato; ma per aggiustare la faccenda il padre dovette correre a Porto Amelia: 1.600 km di andata e ritorno, con mezzi sgangherati, per sentirneri da capre.
Altre minacce pesavano sulla missione: ladri, leoni, ostilità dei capi musulmani. Contro i leoni aveva il fucile e una mira infallibile, tanto da essere chiamato in tutti i villaggi per liberare la gente dalle bestie feroci. Più dura fu con i musulmani: prima cercarono di depredarlo, poi gli ordirono trabocchetti per eliminarlo.
«La lotta è il mio pane quotidiano» diceva spesso. I lavori continuarono frenetici per costruire le case dei padri, bambini e suore prima della stagione delle piogge. Alla fine dello stesso anno, infatti, arrivarono due padri, tre fratelli e otto suore.
Col nuovo personale fu aperta la scuola; si cominciò la visita sistematica ai villaggi, a curare gli ammalati nella missione e a domicilio. In poco tempo la situazione fu rovesciata come un calzino: la gente nutriva grande simpatia per i missionari; perfino i capi musulmani erano affascinati dalla carità delle suore.
Nel giugno 1930 padre Calandri fu chiamato a Beira dal delegato apostolico mons. Hinsley che, nervoso e imbarazzato, gli ordinava di chiudere immediatamente la missione. «Mi sentii cadere dalle nuvole – racconta il missionario -. Fatiche andate in fumo. Orfani ributtati sulla strada. Scoppiai in un pianto dirotto e irrefrenabile».
Per calmarlo il delegato gli chiese di Massangulo; sentendolo parlare di scuole e collegi per bambini e bambine, orfanotrofio per meticci, monsignore tirò un sospiro ed esclamò: «Se è così, è tutt’altra cosa. Vada pure avanti con la costruzione dei collegi; io le manderò i mezzi. Bisogna dare molta importanza a scuole e collegi».
BURRASCA… MAIUSCOLA
Alla fine del 1930 dom Rafael arrivò a Massangulo in visita pastorale. Padre Calandri era a caccia per procurare un po’ di carne per fare festa al visitatore. Il prelato ne approfittò per domandare agli alunni i nomi della capitale d’Italia, del re e primo ministro. I ragazzi cascavano dalle nuvole. Il prelato sospettava che i missionari fossero la «lunga mano» di Mussolini.
A pranzo padre Calandri presentò al vescovo i progetti per aprire altre missioni: una al lago Niassa e un’altra a sud, a Mepanhira, dove un laico convertito in Malawi aveva costruito una bella comunità cristiana e faceva battezzare i catecumeni oltre confine. La risposta fu glaciale: «Nessuno ti incarica delle anime di Mepanhira».
La sera, a quattrocchi, dom Rafael scaricò tutta la bile che aveva in corpo. Rivangò la disobbedienza del 1926 e accusò il padre di non aver creduto alla sua buona fede. Accusò i superiori di Torino di collaborare col fascismo, perché avevano mandato in Mozambico troppo personale; se la prese con vari missionari, rei di averlo denigrato. Padre Pietro pianse tutta la notte. Ricorderà quel fatto come «il giorno di burrasca con la B maiuscola».
Prima di partire, dom Rafael scrisse sul registro dei visitatori una mezza pagina di lodi sperticate per il lavoro dei missionari e missionarie.
In fondo il prelato era d’animo buono e nutrì fino alla morte grande stima per i missionari della Consolata. Ma in quegli anni si trovava tra l’incudine e il martello. Unico vescovo del Mozambico, aveva bisogno di personale per evangelizzare immense regioni che non avevano mai visto un prete cattolico. Pio XI aveva definito il Mozambico «arretrato di 300 anni; macchia nera nella storia delle missioni». Al tempo stesso egli non voleva apparire troppo facilone agli occhi del dittatore portoghese Salazar, sospettoso verso tutti i missionari stranieri, specie se italiani.
Da parte sua, padre Calandri era fatto così: per difendere giustizia e verità non guardava in faccia nessuno; a volte rispondeva senza peli sulla lingua; altre volte reagiva col pianto. Ma non si arrendeva mai, specie quando la gente più indifesa gli chiedeva aiuto contro le prepotenze dei capi e capetti locali: se non riusciva a farli ragionare, egli ricorreva ad autorità sempre più alte, fino a ottenere giustizia. Si procurava qualche nemico; ma la gente lo chiamava bwana cilima (signore forte).
Anche le autorità civili lo ammiravano. Il dottor Oliveira, che visitò più volte Massangulo, descrisse così padre Calandri: «Un misto di eroe e artista, che incarna in sé tutta l’anima di un romano. Lavoratore instancabile, tutto prevede, a tutto arriva. Ha sempre una soluzione per le maggiori difficoltà, che sono enormi in un luogo così lontano dai mezzi civilizzati e con poco denaro».
ESILIO BRASILIANO
Nonostante la diminuzione del personale, padre Calandri riuscì a terminare i lavori programmati: collegi e scuole per oltre 200 alunni delle elementari; avvio dei corsi di arti e mestieri; elettricità in tutta la missione; trapianto di migliaia di piante coltivate nei vivai; frutteto e orto, campi di caffè e grano; scuole-cappelle in molti villaggi, affidate a maestri formati alla missione; nascita dei primi nuclei di famiglie cristiane.
Nell’agosto 1936 da Torino arrivarono nuovi rinforzi con una lettera del superiore generale, mons. Gaudenzio Barlassina, in cui era scritto: «Conveniente a padre Calandri andare a riposarsi in Italia».
La vacanza si trasformò presto in dramma: il superiore generale, senza tanti preamboli, lo destinò al Brasile per pitturare una grande chiesa. Calandri rimase impietrito; non riuscì ad aprire bocca per chiedere spiegazioni. Ma intuiva le ragioni: per risolvere il pasticcio del Mozambico, Roma aveva sostituito dom Rafael con dom Teodosio de Gouveia; Torino mandava padre Calandri in capo al mondo. «È l’obbedienza più costosa richiestami nella mia vita religiosa» racconterà più tardi.
Padre Calandri raggiunse il Brasile nel maggio 1937 e cominciò a pitturare la chiesa di Santa Teresina a São Manuel. Al tempo stesso si dedicava anima e corpo al lavoro pastorale, attirandosi la benevolenza della gente, dei poveri soprattutto. Esteamente era entusiasta e ottimista, ma quando era solo ritornava a galla la domanda: «Cosa ho fatto di male?». Sentiva quella destinazione come un castigo immeritato.
A moltiplicare i crucci contribuiva una certa telepatia; i presentimenti venivano confermati dalle lettere di alcuni orfani: ragazze e ragazzi, ormai cresciuti, erano stati allontanati dalla missione e mandati allo sbaraglio. «Tali notizie sono spine acute che mi fanno tanto male – scriveva. – I superiori non potevano trovare un supplizio più grande per farmi scontare le loro vendette personali».
Quattro anni di lotta interiore lo fiaccarono fisicamente, fino ad ammalarsi e cadere in una depressione spirituale, paragonabile alla notte oscura di cui parlano i mistici: si sentiva abbandonato dal Cuore di Gesù, di cui era devotissimo; cominciò a dubitare della sua vocazione; pensava di ritirarsi in un ordine religioso di aspre penitenze «per dimenticare tutti e tutto il passato burrascoso».
A salvarlo dalla disperazione contribuì l’amicizia dei confratelli, Fiorina e Bisio soprattutto. Questi scrisse ai superiori in Mozambico e a Torino perché intervenissero con un gesto di umanità, una lettera di stima e comprensione, per liberare Calandri dall’«agonia e terribile oppressione» che lo stavano consumando.
RICOMINCIA LA LOTTA
Nel 1940 arrivò il permesso di tornare a Massangulo. Un mese dopo Calandri era a Lourenço Marques. Dom Teodosio lo accolse con affetto: «Questo abbraccio serva, caro padre, a riparare quanto le ha fatto il mio predecessore».
Intanto nel Niassa erano sorte altre missioni: Mepanhira, Maua, Mitucué. Massangulo, però, navigava in cattive acque: orti, piantagioni e campi erano divorati dalle erbacce; gli orfani allontanati gettavano discredito sulla missione. Padre Calandri riprese la direzione della barca, ma la barra non rispondeva ai suoi comandi, ma a quelli del superiore provinciale, Domenico Ferrero. Era costui una tempra di missionario pari a Calandri, ma di mentalità totalmente differente. Ne scaturirono scontri e arrabbiature indescrivibili.
Finalmente il superiore provinciale ebbe la bella idea (o l’ordine) di stabilirsi a Mitucué. Padre Calandri rimase a Massangulo con i suoi collaboratori, lavorando in armonia e frateità. Massangulo cresceva fino ad accogliere oltre 500 alunni.
NUOVO TORNADO
Alla fine di maggio 1948 il vescovo di Nampula, dom Teofilo de Andrade, ricevette da Torino un telegramma firmato dal superiore generale: «Imbarcare padre Calandri sul primo bastimento. Se ricusa, applicare sanzioni canoniche». Il vescovo girò il messaggio all’interessato che, appena lesse la missiva stramazzò a terra come un sacco di patate. In calce, però, il vescovo aveva scritto: «Restare fino a nuovo ordine; inviterò il superiore a visitare le missioni del Niassa; dopo si deciderà».
«Che cosa ho fatto per trattarmi così?» si domandava il padre. A parte il parlare a ruota libera per difendere giustizia e verità, non si sentiva colpevole di nulla. Da tempo, però, circolavano critiche poco benevoli: la scelta del posto in cui era stata costruita la missione era in una zona totalmente musulmana; perdeva tempo con gli orfani meticci, da qualche testa fasciata definiti «figli del peccato»; la sua ospitalità aveva trasformato la missione in un albergo… Critiche che, a distanza e senza vedere la realtà, diventavano macigni.
Altri confratelli, però, lo ammiravano, felici di lavorare con lui. Le autorità civili e religiose lo portavano in palmo di mano. Un giorno dom Teofilo non esitò a dire in faccia al superiore: «Se i missionari della Consolata sono conosciuti e rispettati in Mozambico lo si deve a padre Calandri».
Nei primi di dicembre 1948 arrivò il superiore generale: era la prima visita canonica alle missioni del Mozambico. E fu «una bufera con tuoni e lampi». Chiamato a Mitucué, padre Calandri si sentì definire «testardo, prepotente, dispotico». Per ritornare nella sua missione gli fu chiesto di firmare un documento in cui, tra i vari punti, figurava l’ammissione di aver disubbidito all’ordine di tornare in Italia.
Calandri spiegò che l’ordine era diretto al vescovo: sarebbe toccato a lui spedirlo in Italia. Rifatto il documento e tolta la condizione incriminata, il padre era talmente stufo che firmò la copia originaria. Il giallo diventò disperazione: padre Pietro era deciso a recarsi a Nampula e chiedere al vescovo di accettarlo come prete diocesano. Il suo autista, però, conoscendo il padre e visto come si erano messe le cose, era scappato nella foresta con le chiavi dell’auto.
Il giorno seguente mons. Barlassina raggiunse Massangulo, accolto con addobbi, luci, canti e danze. Rimase sbalordito e non finiva di ripetere: «Che bello! Meraviglioso! Che bei viali! Ma questa è una città…». Passando in rassegna le opere della missione continuava: «Non sapevo che esistesse tutto questo ben di Dio». E quando padre Calandri lo portò a visitare alcune famiglie di mulatti, raccontando la storia di ciascuna, il superiore concluse: «In tutto il tempo passato in Abissinia non ho mai visto famiglie così bene educate». E per il resto della vita continuò a definire Massangulo «una meraviglia».
E FU BONACCIA FINALMENTE
Padre Calandri continuò a lavorare con il solito entusiasmo, determinazione e cuore rappacificato. Finalmente poteva realizzare sogni coltivati da tanti anni: la missione sul lago Niassa, a Cobué, posto strategico e, a quei tempi, quasi inaccessibile; un seminario «catacombale», poiché il nuovo vescovo di Nampula, dom Manuel de Medeiros, non era d’accordo; soprattutto la costruzione di una bella chiesa alla Consolata. «Cobué mi ha tolto dieci anni di vita» dirà più tardi. Nella costruzione della chiesa investì tutto il suo talento di architetto, artista e pittore: fu subito definita «la cattedrale del Niassa».
Intanto continuava a battagliare contro le ingiustizie, prima con i produttori di cotone, che sfruttavano la gente in modo vergognoso; poi con le autorità coloniali che, scoppiata la guerriglia indipendentista, vedeva terroristi dappertutto e molti innocenti venivano uccisi o torturati.
Ma gli acciacchi dell’età si facevano sentire. Diabete e una ferita al piede lo convinsero a tirare i remi in barca: nel 1962 chiese e ottenne di essere sostituito dalla responsabilità di superiore. Cominciò a passare ore e ore in contemplazione sia nella sua bella chiesa, sia di fronte alle meraviglie del Niassa, trasfigurandole nelle sue pitture.
Furono anche gli anni della gloria: il presidente del Portogallo in persona, Amerigo Tomas, volle appuntargli al petto la medaglia dell’Ordine di Cristo; dal governo italiano fu nominato Cavaliere della Repubblica; il Vaticano gli conferì la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice. «Brutto segno – commentava -. Ti danno le medaglie quando stai per morire».
Nel 1967 celebrò il 50° anniversario di sacerdozio. Fu l’ultimo trionfo. Tre mesi dopo cadeva ammalato e il 12 agosto moriva nell’ospedale di Nampula. «Voglio che la mia anima scenda dal cielo a prendere il mio corpo a Massangulo» disse prima di morire. Fu sepolto nella sua «cattedrale». E lì riposa ancora, venerato come un padre da tutta la popolazione del Niassa, cristiani e musulmani.

Benedetto Bellesi




Ricordati del grembiule

Un giornocambia mestiere.
Un mestiere che lo «costringe» anche a vivere faticosamentecon africani e latinoamericani.
È la scelta di Pino, di San Vito dei Normanni (BR). Prete da pochi mesi, si appresta a raggiungere il Congo in guerra.

Negli anni ’84-85 infuriava la siccità in Africa, specialmente in Etiopia. I mezzi di comunicazione riportavano scene di morte. Ed io volevo fare qualcosa.
Visitai alcune associazioni di volontariato, offrendo la mia disponibilità per qualche mese d’impegno. Ma tutto era complicato, perché ero del sud, mentre quasi tutti gli organismi di volontariato operavano nel nord. Non potevo partecipare agli incontri di formazione.
Un giorno, a Lourdes, conobbi don Pietro De Punzio, che tutti gli anni andava in Africa per un’esperienza missionaria. «Pino – disse -, perché non vieni con me?». Ci andai: precisamente in Kenya, dai missionari della Consolata a Wamba. Non feci un granché, però vidi la vita tirata della gente e, soprattutto, compresi che non bastava un mese in Africa per essere missionario.
Intanto facevo il cuoco. Però l’esperienza di Wamba mi spinse a ricontattare in Italia i missionari della Consolata. «Posso lavorare con voi due anni?» chiesi a padre Giano. Poi lo raggiunsi a Bedizzole (BS). Qui capii che neppure due anni sono sufficienti per essere missionari. «Bisogna scegliere la missione ad vitam» disse padre Giano.
– Ad vitam! Che significa?
– È latino, ragazzo mio.
– Ma io sono cuoco.
– Un po’ di latino dovrai studiarlo, se vorrai essere prete-missionario.

Lasciai i fornelli
e, a 26 anni, ritornai sui banchi di scuola. Capii presto che il missionario vero offre agli altri tutta la propria vita, per sempre. Ecco cosa vuol dire «ad vitam».
Conseguii la maturità magistrale a Bedizzole, frequentai un biennio di filosofia a Torino e, dopo il noviziato a Vittorio Veneto, feci voto di povertà, castità e obbedienza. Con tale scelta, canonicamente ero missionario della Consolata. Cercai di spiegarlo anche a mamma Grazia, già vedova da 15 anni dopo la morte del papà per malattia.
– Pino, che significa missionario canonicamente?
– Significa che ora sono nella famiglia dei missionari della Consolata.
– E partirai subito per la missione?
– Non subito. Prima devo studiare teologia, per essere prete.
– Figlio mio, hai 32 anni. Chi troppo studia matto diventa.
Era la prima volta che la mamma si opponeva ai miei progetti. Ero l’ultimo di quattro fratelli e la mamma ha sempre avuto un debole per il più «piccolo», senza far torto agli altri figli già sposati. Mi concedeva libertà, che gestivo «facendo le stagioni» come cuoco in Puglia.
Ora, però, le costava perdermi. Il ragionamento della nuova famiglia non la convinceva. Inoltre, abituata a vivere con me e non più giovane, temeva la vecchiaia… Ma, dopo tante lacrime, sospirò: «Sia fatta la volontà di Dio». Lo mormorò in dialetto, che non so scrivere…
Studiai teologia a Roma in un seminario internazionale. Eravamo in 24 di 11 paesi. Nel primo anno ero l’unico italiano. Questo comportò delle difficoltà. Per esempio: accettare gli altri come sono e farsi accettare come si è. La diversità dell’altro, specie se di cultura diversa, fa paura. Ma non si deve accettarlo con idealismo, bensì con realismo, soprattutto negli aspetti discutibili. Discutibili siamo tutti.
Inoltre in seminario è facile farsi il nido. Al mattino si va all’università, poi ognuno studia in camera sua. Sì, c’è la preghiera comunitaria. Però il tempo per vivere insieme non è molto. Questo può favorire l’individualismo, che è pericoloso per un missionario.
Dietro a queste parole, c’è una verità scomoda, di fronte alla quale talora ci si tira indietro… Anch’io mi sono detto: «Lascia perdere, Pino. Ritorna a fare il cuoco».
In quel momento di crisi, il mio formatore mi ha chiesto a bruciapelo: «Com’è la tua preghiera?». Allora ho capito che, prima di riindossare il berretto dello chef, dovevo fare «qualcos’altro».

Divenuto prete
il 7 ottobre 2000, oggi sto studiando francese. Nel mio orizzonte c’è il Congo di Mobutu e Kabila, ma anche degli ugandesi e rwandesi che gli hanno dichiarato guerra. Una guerra che in due anni circa ha mietuto quasi tre milioni di morti. Volevo una missione «forte». Eccomi servito, a 37 anni, dopo 11 di attesa.
Alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale, ho ricevuto un regalo significativo: un grembiule. Mi ricorda il mio passato di cuoco e cameriere. Ho trascorso anni a servire nei ristoranti. Oggi inizio un servizio diverso con un nuovo grembiule.

Pino Galeone




CONGO – A scuola con una bottiglia d’olio

Non è più giovanissimo quando raggiunge
il malconcio Zaire di Mobutu.
Parla il francese così così, mentre ignora del tutto lo swahili. Ma il missionario
della Consolata è un marchigiano tenace.
Sul campo viene addirittura promosso vicevescovo,nonché cornordinatore di tutte le scuole
della diocesi di Wamba. E incomincia il «bello»
in un «bruttissimo» paese, che si dibatte fra due guerre: quella di Kabila nel 1996e quella contro il nuovo presidente subito dopo. Tuttora in corso,
dopo 2 milioni di morti.

passando davanti
all’ex carcere

– Padre Angelo, quando ci possiamo incontrare?
– Domani mattina in ufficio, alle otto.
È l’alba, mentre raggiungiamo a piedi l’episcopio di Wamba (nella repubblica democratica del Congo), dove padre Angelo Baruffi è vicario generale della diocesi. Passiamo di fronte alle ex prigioni in mattoni rossicci. Il primo sole investe i muri rendendoli quasi sanguigni.
All’ingresso di quel carcere, il 26 novembre 1964, fu massacrato dai simba di Mulele il vescovo belga Joseph Wittebols: il corpo, buttato in un torrente, non fu più ritrovato. Il giorno dopo furono trucidati altri sette missionari, anch’essi «perduti» per sempre. I simba non risparmiarono neppure i cattolici locali, fra cui suor Anwarite. Beatificata nel 1985, è patrona delle diocesi di Wamba e Isiro.
Nel 1964 il Congo era indipendente da soli quattro anni, però già si tingeva di sangue. Nel luglio del 1960, sotto il presidente Kasavubu e il capo di stato maggiore Mobutu, la nazione conobbe la secessione del Katanga, guidata da Ciombé, e il 18 gennaio 1961 l’assassinio del premier Lumumba. Poi sia la secessione del Katanga sia la ribellione dei simba (fra i quali militava Kabila, attuale presidente) fallirono.
Nel trentennio 1966-96 il paese fu ostaggio di Mobutu, che nel 1971 gli cambiò anche il nome: da Congo a Zaire. Ritoò ad essere Congo nel 1997, allorché le truppe di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi e Uganda, cacciarono il dittatore.
I guai però non erano finiti, perché nell’agosto del 1998 il Congo si rituffò nel sangue: l’esercito di Kabila, con Zimbabwe, Angola e Namibia a fianco, contro gli alleati di ieri: Uganda, Rwanda, Burundi e gruppi di ribelli congolesi. Poi gli ugandesi e i rwandesi hanno incominciato persino a prendersi a cannonate fra loro: a Kisangani, per esempio, al fine di depredare il ricco paese senza spartire il bottino con nessuno. È quanto fanno anche gli alleati di Kabila.
È sempre stato così in Congo, fin dal 1885, quando il paese divenne proprietà personale di re Leopoldo del Belgio.
un funzionario in uno stato colabrodo
«Non ti spaventare del disordine!» esclama padre Angelo allorché, un po’ guardinghi, varchiamo la porta del suo ufficio.
Sul pavimento in cemento giacciono zappe, scope, barattoli di colore, scatoloni di medicine, un set di strumenti meccanici, una motosega a diesel, un trapano elettrico. Un ufficio anomalo per un vicevescovo.
Ma Angelo Baruffi è un missionario che non rifiuta di rimboccarsi le maniche. Tuttavia, in ufficio, indossa la camicia di prete… e un berretto quadrangolare, intessuto di fibre multicolori e infiocchettato di piume. È il tradizionale copricapo dei wabudu, l’etnia della zona, dove ufficialmente si parla swahili e francese.
La nostra attenzione cade su un mucchio di cartelle. Ne prendiamo in mano una. «Quella cartella – afferma il missionario – contiene l’ultimo programma scolastico governativo. Che fatica ad averlo!».
– E che te ne fai?
– Beh… io sono un funzionario dello stato in tema di istruzione.
– Ma se lo stato è un colabrodo!
– Però non mancano i bambini che vogliono andare a scuola…
In Congo esistono «tre scuole», ma con gli stessi programmi, riconosciute dallo stato e da esso sovvenzionate (oggi solo sulla carta!):
– «scuole ufficiali», gestite direttamente dal governo;
– «scuole private», in mano a singoli individui;
– «scuole convenzionate», affidate ad enti religiosi.
«Io sono cornordinatore delle scuole cattoliche primarie e secondarie della diocesi di Wamba – dichiara padre Baruffi -. Questo servizio mi è stato sollecitato dal vescovo nel 1991: un servizio che non ho certamente chiesto io, straniero, giunto in Congo a 43 anni suonati con una modesta conoscenza del francese, mentre dello swahili ero completamente digiuno. Ma, quale missionario della Consolata che deve avere a cuore i problemi del popolo, potevo forse rifiutare l’invito del vescovo?».
– Qual è stato il tuo primo impatto con il problema-scuola?
– Preoccupante, come minimo. Nel 1991, su 138 mila possibili allievi, quelli che frequentavano la scuola erano 22 mila, di cui solo 9 mila ragazze.
DI FRONTE ALLO SCIOPERO
Se nel 1991 la situazione scolastica era preoccupante, il peggio però doveva ancora venire. Fu nel 1992-93 che si toccò quasi il fondo, allorché lo stato non pagava più gli insegnanti. I genitori, pur di mandare i figli a scuola, si tassarono per rimunerare i maestri con 19 mila lire al mese. Una miseria. Ma per i wabudu era un salasso, mentre il corrotto Mobutu spendeva e spandeva.
Nel giugno del 1993, dopo aver terminato l’anno scolastico con difficoltà, gli insegnanti dichiararono sciopero contro il governo che non pagava i salari. Vescovo, sacerdoti e capifamiglia erano solidali.
Passarono luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre… E lo stato era sempre assente.
«Io – commenta padre Angelo – non visitavo più le scuole in qualità di cornordinatore, perché non c’era alcunché da cornordinare. Un giorno, per strada, alcuni ragazzini mi hanno chiesto: “Padre, quando ci riporti a scuola?”. La stessa domanda mi è stata posta da altri bambini. Sono entrato in crisi. Ma che fare?».
Già, che cosa poteva fare un missionario… straniero?
«Ho chiesto al vescovo – riprende padre Angelo – di scrivere una lettera per natale da leggersi in tutte le comunità. Così è stato. Nella lettera raccontavo una storia, parafrasando il profeta Ezechiele (16, 6-14): è nato un bambino, ma viene gettato in strada, perché rifiutato; però qualcuno lo raccoglie, lo nutre e diventa bello… “Allora, fratelli, che facciamo dei nostri figli? Li lasciamo marcire sulla strada? Essi sono l’unica ricchezza rimastaci in questo stato ladro. Aiutarli significa salvare la speranza. Se volete, io riapro le scuole, ma con voi”».
Da gennaio 1994 i ragazzi sono ritornati in classe.
In loco si produce olio di palma: viene anche commercializzato. Serve pure a pagare gli insegnanti: circa mezzo litro al mese per allievo.
ANCHE I PIGMEI A SCUOLA
Nella diocesi di Wamba prevalgono i wabudu, ma si contano pure circa 30 mila bambuti (pigmei). Si tratta di popoli molto diversi, a prescindere dall’altezza (i pigmei sono più bassi: gli uomini raggiungono mediamente 145 centimetri e le donne 132). Ma la vera diversità è culturale: i wabudu sono bantu, a differenza dei pigmei che non sono classificabili. I bambuti sono molto più antichi delle etnie bantu. Ne parla il greco Omero nell’Iliade e, soprattutto, il faraone d’Egitto Neferkara (nel 2500 a. C. circa).
Le differenze sono vistose anche nella vita socioeconomica. I wabudu, agricoltori, lavorano specialmente nella stagione delle piogge; i pigmei, cacciatori e raccoglitori nella foresta, operano in quella asciutta.
L’insegnamento scolastico, per i pigmei, deve tenere conto della loro diversità. È assurdo programmare la scuola durante il tempo della caccia, cioè del lavoro.
Nel 1994 padre Angelo Baruffi ottenne dal governo centrale un trattamento scolastico speciale per i pigmei: speciale per programma e calendario delle lezioni. Fu un’impresa ardua, come racconta il missionario: «Quando ho accennato ai pigmei, i responsabili dell’istruzione pubblica mi hanno riso in faccia, segno di non curanza e razzismo».
Oggi a Wamba, su un totale di 7.500 ragazzi pigmei da alfabetizzare, 3.000 frequentano la scuola, di cui 1.300 ragazze. Sono distribuiti in 114 classi con 122 insegnanti.
Vi sono scuole con soli pigmei e altre miste. Ma i wabudu devono essere in minoranza, perché c’è sempre il rischio che il più forte (bantu) schiacci il più debole (bambuti).
L’accettazione dei pigmei, senza livellamenti culturali, è fondamentale, ma non facile. Al riguardo, la chiesa ha parecchio da dire. E, soprattutto, da testimoniare.
nel cuore della guerra
Nel 1991 gli studenti della diocesi di Wamba erano 22 mila. Al presente sono 44 mila. Un raddoppio miracoloso: perché, se nove anni fa lo stato era un misero «focherello», oggi è «cenere». Nel 2000 «Congo» è sinonimo di anarchia e guerra, che coinvolge eserciti di varie nazioni dal 1996. Senza dimenticare che a Wamba le «scuole convenzionate» con lo stato sono 85, ma padre Baruffi ne cornordina 247.
– Padre Angelo, i ragazzi come vanno a scuola in un clima di guerra?
– Con paura. Ma ci vanno, e l’anno inizia e termina regolarmente.
– Come cornordini l’insegnamento?
– Come posso. Al sopraggiungere di bande armate, tutti scappano in foresta. Ma, se le scuole sono aperte, si va anche al lavoro, si produce… La scuola è più che una speranza.
– Paghi i maestri sempre con una bottiglia di olio di palma?
– Anche con denaro. Però non supero le 10 mila lire mensili.
– Com’è la situazione altrove?
– Dipende. Nel Kivu, dove la gente sta meglio, gli insegnanti ricevono anche 70 mila lire al mese. Da noi ciò è impossibile.
– Comunque tu garantisci almeno 10 mila lire al mese.
– Non sempre. Dove troverei i soldi per 1.500 maestri?
– Vi sono allora insegnanti che prestano servizio gratis!
– Certamente.
Non è di poco conto in un paese stremato. Dietro il volontariato degli insegnanti, c’è sempre lo stimolo di padre Angelo: «Se non lo fate voi, nessun altro lo fa. I ragazzi, cui consentite di studiare, sono i vostri figli, i vostri fratelli!…». La diocesi, però, fornisce libri, quadei e tutto il materiale didattico, grazie alla solidarietà della chiesa italiana.
Non mancano le rotture fra i genitori degli studenti e i professori: sempre per ragioni economiche. In tali frangenti il missionario ricuce gli strappi. È un mediatore autorevole perché, pur essendo un funzionario dello stato ad alto livello, non percepisce una lira. Inoltre tutti sanno che «il padre» non si risparmia, rischiando anche la vita.
N el 1996, quando Kabila iniziò la conquista del Congo e i soldati di Mobutu battevano in ritirata saccheggiando le parrocchie, i missionari furono costretti ad andarsene. Lasciarono il campo anche i vescovi di Wamba, Dungu-Doruma, Isiro e di altre diocesi. Padre Angelo no. Ricercato dai soldati, si dava alla macchia. Ma era là. Con la gente, i «suoi» ragazzi.

«SUONATE QUELLA CAMPANA PER DIO!»

In Congo gli eserciti si stanno combattendo da quattro anni. Quattro anni (destinati ad aumentare, purtroppo), che non potrò mai scordare. L’anno che, finora, mi ha maggiormente «segnato» è stato il 1997, durante il quale ho trascorso mesi interminabili da fuggiasco. A parte le distruzioni, il sangue, la morte.
Restando sul «campo di battaglia», ho capito che cosa significhi vivere da solo con la gente. All’inizio, quando si sentiva la mia auto, tutti scappavano, perché pensavano che fossero arrivati i soldati per razziare; poi, riconoscendo il mio braccio bianco dal finestrino o il mio vecchio cappello kibudu, gridavano di contentezza.
In Congo, prima dell’attuale conflitto bellico, ho giornito della spontanea vivacità della gente: le sonore risate degli uomini, i trilli acuti delle donne, i giochi dei bambini, i canti e balli al ritmo di tamburi o al battito di mani… Ma, con la guerra, impera il silenzio anche in pieno giorno. Un silenzio che impressiona quanto il crepitio delle pallottole.
Allora nel 1997, passando di villaggio in villaggio, se c’era una campana o un cerchione d’auto (appeso ad un albero) che funge da gong, quasi gridavo: «Suonate quella campana, perdio! Battete quel gong! Rompete il silenzio!…». Il silenzio in guerra è allucinante. L’ho vissuto anche con padre Edward Olali, missionario della Consolata kenyano: io «silenzioso» da una parte e lui da un’altra.
In tale contesto ho toccato con mano quanto il prete sia un punto di riferimento per la popolazione. In guerra le differenze svaniscono, anche quelle tra bianco e nero. Tutti diventano uguali, perché tutti hanno paura allo stesso modo. Però se il prete è «là», la gente (non solo cattolica) appare più tranquilla. È per questo che, come responsabile della diocesi di Wamba, in assenza del vescovo, raccomandavo a tutti i sacerdoti di celebrare la messa, di suonare ogni giorno le campane. Al mattino, se si udiva il loro suono, si andava in chiesa, e chi vedeva le persone uscire di casa ritrovava la voglia di lavorare.
Anche i sacerdoti, in tempo di guerra, hanno bisogno di un riferimento. Io mi trovavo in un’area che comprende cinque diocesi, senza un vescovo. Erano rimasti solo i preti africani; ma erano «pecore senza pastore». Tutti giovani, ed io con i capelli bianchi. Sono diventato il loro «pastore». Ecco perché non ho voluto lasciare il Congo.
Sono passato di missione in missione (anche per fuggire dai soldati che mi cercavano) e vi trascorrevo 15-20 giorni. Dalle parrocchie poi, grazie alla radiofonia, tenevo i contatti con tutti. Mai, come in quei momenti, mi sono sentito missionario della «Consolata», pur essendo un fuscello in balia dell’uragano. Sono stato anche un incosciente, rischiando grosso. Ma ne è valsa la pena.
Oggi sono ancora vicario generale, oltre che cornordinatore delle scuole. Avverto la mia scomoda posizione di straniero, mentre infuria una guerra voluta soprattutto da… stranieri (rwandesi, angolani, ecc.) con armi… straniere: francesi, statunitensi, ecc.
Credo nel servizio. Agli altri il giudizio sul mio operato.

p. Angelo Baruffi

Francesco Beardi




Incontro con Luciano Violante

Globalizzare i diritti…
la frontiera
degli onesti

Signor presidente, lei ha recentemente affermato (citando Norberto Bobbio) che «i diritti umani sono la religione civile del nostro tempo». Il fenomeno della globalizzazione dovrebbe favorire tale «religione». È veramente così?

Sinora la globalizzazione ha riguardato la finanza, l’economia e la comunicazione. Non ha riguardato ancora i diritti umani fondamentali. Anzi, sono aumentate le diseguaglianze tra gli uomini, tra le nazioni e tra i continenti. Dobbiamo impegnarci per la globalizzazione dei diritti; questa è la frontiera degli uomini onesti.
È importante che i vertici inteazionali comincino a porre il problema della globalizzazione responsabile: lo ha fatto l’Unione Europea durante il semestre di presidenza portoghese e l’hanno fatto ad Okinawa (Giappone) i capi di stato e governo del «G 8», il gruppo delle otto nazioni più industrializzate.

Le democrazie occidentali spesso si ritengono i paladini dei diritti umani… e lo dimostrano intervenendo anche manu militari in Kosovo o Timor Est. È questo il modo migliore per garantire la pace?

Con la guerra non si garantisce la pace. Ma in entrambi i casi, da lei citati, l’intervento militare si è reso necessario per impedire che continuasse la persecuzione di popolazioni povere e incolpevoli. Bisogna sempre più sviluppare, partendo dalle zone a rischio presenti nel mondo, operazioni di peace building e peace keeping, che servano appunto a costruire e mantenere la pace e a prevenire la guerra.
L’Italia in questo è all’avanguardia; tanto che, a Torino, è già operativa una scuola di peace keeping delle Nazioni Unite.

La povertà è una grave minaccia dei diritti umani: essa attenta al primo dei diritti, quello alla vita. La miseria, non raramente, coesiste con la ricchezza: le baraccopoli dell’America Latina (e non solo) insegnano. Questo è solo un paradosso?

Non è solo un paradosso. È una vergogna, frutto della diseguaglianza tra gli uomini. Ma intendo rispondere con precisione.
Oggi, a fronte di un crescente sviluppo economico globale, che ha fatto registrare negli ultimi 50 anni un aumento del prodotto interno lordo mondiale di dieci volte (da 3 mila miliardi a 30 mila miliardi di dollari), assistiamo (anche per effetto della globalizzazione) ad un preoccupante allargamento della forbice economica, già esistente tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Secondo l’ultimo Rapporto sul programma di sviluppo delle Nazioni Unite, sono ancora oltre 80 i paesi che hanno redditi pro capite più bassi rispetto ad un decennio fa o più. In particolare, a partire dal 1990, solo 40 paesi hanno ottenuto una crescita media del reddito pro capite di oltre il 3% l’anno, mentre 55 paesi (soprattutto nell’Africa sub-sahariana, ma anche nell’Europa dell’est e nella Comunità degli stati indipendenti – Csi), si sono ulteriormente impoveriti. La povertà costituisce ancora oggi, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la principale causa di morte nel mondo. Il 40% dei decessi è dovuto alle malattie contagiose, il 99% delle quali si verifica nei paesi meno sviluppati.
Come vede, la povertà non è una questione sociale. La povertà è una questione politica, che va affrontata come tale.
In coincidenza anche con il Giubileo dei cristiani, oggi si discute molto sulla cancellazione del debito estero dei paesi poveri. L’Italia ha deciso di cancellare 6 mila miliardi di lire. Come giudicare tale scelta?

L’Italia ha già approvato la legge sulla cancellazione del debito dei paesi poveri. In questo siamo più avanti di altri. Ma non basta. Bisogna lavorare per portare istruzione, sanità e sviluppo nei paesi poveri.

Circa la cancellazione del debito, qualcuno ha affermato che siamo di fronte alla «mano destra che dona, seguita però dalla sinistra che toglie». È questa solo una battuta maliziosa?

Non è questa l’intenzione italiana; né è questa una nostra abitudine.
Quest’anno il Brasile celebra i 500 anni della sua nascita. Ma è una celebrazione contestata dagli indios, dai discendenti degli schiavi neri e da vasti settori popolari impoveriti… mentre l’Amazzonia, polmone del mondo, è inquinata. Eppure il Brasile è l’ottava potenza del mondo!
Coniugare sviluppo economico e valori umani è un’impresa particolarmente difficile; ma, a mio avviso, è una delle ragioni fondamentali per le quali è necessario impegnarsi nell’attività politica.

In Brasile (ma anche in Colombia, Perù, Messico…), da circa 40 anni risuona il ritornello «i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri». Allora «c’è del marcio», e non solo nella «Danimarca di Amleto». Quale marcio?

Il marcio dell’ingiustizia sociale. La distanza tra le nazioni più ricche e quelle più povere era di circa 3 a 1 nel 1820, di 11 a 1 nel 1913, di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973 e di 72 a 1 nel 1992. Ecco la «forbice» di cui parlavo.
Aggiungo che circa 550 milioni di donne, oltre la metà della popolazione rurale del mondo, vivono sotto la soglia di povertà. La donna povera è più soggetta a violenze da parte degli uomini, partorisce figli ammalati o indeboliti, ai quali non riesce a fornire il nutrimento necessario. Ogni anno muoiono nel mondo 13 milioni di bambini sotto i cinque anni, a causa di malnutrizione o di malattie legate alla povertà. Almeno 5 milioni di bambini sotto i cinque anni, pari al 36% del totale in questa fascia d’età, sono gravemente malnutriti. La povertà costringe sino a 160 milioni di giovani al lavoro minorile e circa 2 milioni a prostituirsi.
Contro questo «marcio» bisogna combattere con la massima determinazione.

Signor presidente, so che lei ha incontrato alcuni missionari. Chi è per lei il missionario oggi?

Un uomo che lotta contro l’ingiustizia sociale, con gli strumenti della fede, della pace e del rigore morale.

Il dramma dell’africa è la sua ricchezza

L o squilibrio tra i paesi meno sviluppati e le nostre nazioni si traduce, oltre che in disperazione umana, in massicci movimenti migratori che provocano nei paesi ricchi ondate razziste, difficilmente controllabili. È necessario che i nostri paesi rafforzino il loro impegno, a livello nazionale e internazionale, per garantire a tutti la libertà dal bisogno, alcune condizioni minime di vita e il diritto allo sviluppo…

I governi delle nazioni industrializzate compiano un passo ulteriore nella strategia di promozione dello sviluppo dei paesi poveri, che vada oltre la cancellazione del debito estero. Il diritto allo sviluppo dei paesi poveri deve costituire per quelli ricchi un preciso dovere a non adottare politiche economiche ingiustamente dannose per questi paesi.
Un forte richiamo a questo dovere degli stati ci viene oggi rivolto con particolare urgenza dai missionari, da quegli uomini e donne quotidianamente impegnati sul terreno, spesso a rischio della propria vita, in aiuto dei più deboli. Anche alla luce delle loro importanti segnalazioni, ritengo che i governi dei paesi ricchi debbano agire in due direzioni principali:
– abbattere le barriere al commercio internazionale e fare in modo che anche i paesi poveri possano avvalersi dei benefici della globalizzazione; questi paesi non avranno, infatti, un vero sviluppo se non riusciranno ad entrare liberamente con i loro prodotti nei nostri mercati, come avviene per i nostri prodotti nei loro mercati;
– contrastare la politica neocolonialista adottata da alcune grandi industrie occidentali verso i paesi poveri, dell’Africa in particolare, che sta creando nuove e pericolose forme di sfruttamento e dipendenza.
Faccio due esempi.
1/ Il Nord del mondo sarebbe oggi debitore verso i paesi poveri, donatori di materia prima, di oltre 300 milioni di dollari per diritti di sfruttamento non pagati, relativi a sementi per coltivazioni agricole. Alcune sementi, geneticamente modificate, non riproducibili e imposte sul mercato da varie industrie, minacciano seriamente ogni strategia di sicurezza alimentare di un paese povero, impedendo la diversificazione delle fonti di approvvigionamento dell’alimentazione umana. Siamo così arrivati al paradosso che il dramma del continente africano non è tanto la sua povertà, quanto la sua enorme ricchezza!
2/ La sicurezza alimentare dei paesi poveri e il loro diritto alla sopravvivenza sono oggi seriamente minacciati dalla penuria d’acqua e dalla sua iniqua distribuzione nel mondo. Il diritto all’acqua costituisce uno dei diritti maggiormente invocati da questi popoli, a fronte dei dati che vedono meno di 10 paesi (tra cui, in testa, Brasile, Russia, Cina, Canada, Indonesia e Stati Uniti) dividersi il 60% delle risorse idriche del pianeta. Per alcuni paesi le previsioni sono particolarmente allarmanti. Nei prossimi 10 anni le risorse pro capite si ridurranno del 30% in Egitto, del 40% in Nigeria e del 50% in Kenya.
L’allarme tuttavia non riguarda solo queste nazioni, ma l’intero pianeta…

L a ricorrenza del Giubileo rappresenta un grande evento spirituale per la comunità cristiana nel mondo. La portata di tale evento non può, tuttavia, essere circoscritta alla sola comunità dei credenti.
Il suo profondo significato etico, tradizionalmente ispirato (oltre che a valori religiosi) anche a quelli sociali di equità, uguaglianza e pace, fa sì che il Giubileo rappresenti anche per la comunità laica e per quella politica, in particolare, un’occasione importante di riflessione sui problemi relativi alla giustizia sociale e alla tutela dei diritti dell’uomo.
Il primato dei diritti umani rende assoggettabili a responsabilità gli stati e le persone che, in ragione dell’esercizio di pubblici poteri, si rendono responsabili delle violazioni di tali diritti. È ormai possibile fare in modo che, accanto ai diritti universali degli uomini, corrispondano anche i doveri universali degli stati.
Credo che l’Italia debba porsi tra i suoi obiettivi prioritari l’adozione di una Carta dei doveri universali degli stati che integri la tradizionale frontiera dei diritti umani. Lavorare per questa Carta può costituire uno degli impegni più nobili di ogni paese civile, libero e democratico.
Luciano Violante
(dall’intervento all’inaugurazione
dell’«Expo missio 2000», Roma 9 giugno)

Francesco Beardi




MOZAMBICO – Chi la dura la vince

Il 30 ottobre 1925 i primi missionari
della Consolata sbarcarono
in Mozambico.
Seguirono anni caratterizzati da eroismi e conflitti
di vario genere.
Una storia da non dimenticare, anche perché la sfida raccolta (o lanciata) tanti anni fa non è finita.

L’ iniziativa di estendere al Mozambico il campo di evangelizzazione dei missionari della Consolata partì dall’allora superiore generale mons. Filippo Perlo. In una vecchia cartina geografica della colonia portoghese, conservata nell’archivio dell’istituto, si possono vedere i cerchietti da lui tracciati per indicare i posti delle missioni da erigere nella regione del Niassa, in cui nessun missionario cattolico aveva ancora messo piede.
Sondata la curia romana, mons. Perlo incaricò suo fratello Luigi, responsabile della procura di Nairobi, di negoziare tale progetto con mons. Rafael de Assunção, prelato di tutto il Mozambico. Nell’incontro avvenuto il 6 aprile 1925 a Lourenço Marques (oggi Maputo), il vescovo offrì la missione di Miruru nell’alta Zambezia.
Non era il campo adocchiato da Torino. «Prendere o lasciare» diceva mons. Rafael. Il superiore generale accettò l’offerta, in attesa del momento propizio per mandare i suoi missionari anche nel Niassa. Nel frattempo chiese a Propaganda fide il permesso d’inviare un primo drappello di missionari in Mozambico. Il cardinale Van Rossum, prefetto del dicastero missionario, non si oppose alla nuova apertura, «purché le missioni affidate da Propaganda a cotesto Istituto non ne abbiano a soffrire nella loro cura e sviluppo».
COMINCIA L’AVVENTURA
Il 30 di ottobre 1925, provenienti da Torino, sbarcano a Beira due giovani missionari, i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello, e il diacono Secondo Ghiglia, che così scrive nel suo diario: «È l’alba. La bella cittadina sorride all’orizzonte, indorata dalla brezza marina che l’oceano incessantemente evapora. Dopo la verifica dei passaporti, finalmente possiamo scendere. Entriamo in una chiesa per salutare il Signore e la beata Vergine Maria e ringraziarli dell’ottimo viaggio. La Consolata si degni di benedire i suoi alfieri che per primi toccano questa terra, già percorsa da stuoli eletti di apostoli, e voglia rendere fecondo il nostro apostolato».
Il 14 novembre, provenienti dal Kenya, arrivano altri cinque sperimentati missionari, che completano il gruppo della spedizione: i padri Vittorio Sandrone, Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto.
Per la mancanza di battelli in servizio sul fiume Zambezi, i missionari devono rimanere a Beira per varie settimane, ospiti dei padri francescani. Ne approfittano per studiare la lingua portoghese, mentre padre Chiomio raccoglie informazioni su strade, tariffe, dogane… Padre Sperta, colpito da febbre reumatica, è ricoverato nell’ospedale e poi, accompagnato da padre Calandri, torna in Kenya.
Il 7 dicembre gli altri sei missionari salgono sul treno e, dopo due giorni di viaggio, raggiungono l’antica missione gesuitica di Chupanga sul fiume Zambezi. Qui dovranno ancora aspettare fino al 28 dicembre prima di imbarcarsi sul battello Zambezi: una grande casa a veranda costruita sopra una chiatta con una ruota motrice. Per la scarsità d’acqua in quel periodo dell’anno, l’imbarcazione procede adagio e con cautela. «Oggi sono le delizie dell’incaglio – scrive il diacono il 30 dicembre -. Delizie che non auguro a nessuno, per quanto vi sia da divertirsi. La ruota mulinava disperatamente; il fuochista cacciava tronchi interi nel foo della caldaia e non si faceva un pollice di strada; e si era sempre lì a guardare le stesse punte degli alberi e l’acqua azzurra fuggire indietro».
Il viaggio si rivela più scomodo del previsto, sia per la difficile navigazione, sia per il caldo torrido. Indifferente a ogni disagio, padre Chiomio prende appunti su tutto quello che guarda e sente. «Fa un caldo da salina in evaporazione – continua il diario il 2 gennaio 1926 -. Non si parla più tanto. Si è a disagio. Si suda terribilmente. Padre Chiomio, invece, l’inseparabile bussola a tracolla, la maiuscola borsa da commesso viaggiatore gonfia di scartafacci, mappe, ritagli di giornali, è instancabile. Carta geografica alla mano, chiede informazioni su strade, luoghi, distanze e scrive tutto su un taccuino, fissando indicazioni e rilievi».
PASSAGGIO DEL «MAR ROSSO»
Il 10 gennaio arrivano a Tete, capitale della Zambezia. Scendono dal battello e si avviano alla parrocchia di s. Tiago per celebrare la messa. Due giorni dopo, partono alla volta di Boroma, ultima tappa prima di raggiungere la lontana missione di Miruru.
Viaggiano a bordo di un camion, che corre all’impazzata. La strada è accidentata e dissestata dalle piogge. «Ci teniamo uno coll’altro per maggiore sicurezza, per non perdere l’equilibrio. L’autista, a ogni svolta o sobbalzo improvviso che mette a scompiglio i passeggeri, chiede con serietà e ironia: “Non manca nessuno?”; e rilancia la vettura a tutto gas. Grazie a Dio non vi sono stati incidenti, ma che acrobatismo!».
A un certo punto, le ruote sprofondano in una pozzanghera. Niente da fare: devono continuare il viaggio a piedi fino alla missione di Boroma, dove i missionari sono obbligati a un mese di riposo forzato per mancanza di portatori. Quando questi arrivano non sono in numero sufficiente. Si decide di frammentare la spedizione in due carovane. Il 4 di febbraio partono per Miruru i padri Sandrone e Chiomio; in seguito padre Borello e chierico Ghiglia; padre Peyrani rimane a Boroma come procuratore, insieme a fratel Benedetto.
Il percorso è lungo; la pista quasi impraticabile a causa delle piogge. «Oggi è il passaggio del mar Rosso, non però a piedi asciutti – scrive il diacono in data 21 febbraio -. La strada è tutta una pozzanghera; a tratti l’acqua arriva al ginocchio. I canneti alti e fittissimi, terribilmente aggrovigliati, c’impediscono di avanzare e ci obbligano a tenere le braccia continuamente impegnate in una ginnastica durissima ed estenuante».
Le due carovane, separate da alcuni giorni, seguono il margine sinistro del fiume Zambezi fino a Cachomba. A questo punto attraversano il fiume in barca e proseguono il viaggio lungo la riva destra. Il terreno comincia a salire leggermente con gibbosità lente e continue. Il suolo è meno sabbioso, ma la foresta sempre più fitta. Il viaggio è difficile per tutti. Chi soffre di più è il padre Sandrone, colpito da dissenteria e febbre.
TERRA PROMESSA
Il 2 marzo 1926 i missionari raggiungono la meta. Continua il racconto del diacono Ghiglia: «Miruru! Miruru! Grida con entusiasmo chi scorge per primo i fabbricati della missione. La voce si ripete come parola d’ordine lungo la colonna serpeggiante dei nostri uomini. Un soffio di corrente elettrica pare dia forza a quei corpi indolenziti dal lungo viaggio. Acceleriamo il passo al ritmo d’una nenia monotona. Ci pare di avere raggiunto una terra promessa».
Miruru fu fondata dai gesuiti nel 1892; questi vennero espulsi nel 1911 e sostituiti dai verbiti tedeschi, cacciati a loro volta nel 1915. «Con l’aiuto della Consolata – prosegue il diario – ne saremo emuli e continuatori. Voglia la Madonna benedire e confermare volontà e propositi dei suoi alfieri! Il lavoro sarà arduo, lungo e faticoso: raccogliere il gregge disperso dopo tanti anni di abbandono; continuare l’opera costruttrice che la guerra ha troncato con l’espulsione degli ultimi missionari. Forti della benedizione di Dio e della Consolata si rialzeranno le pianticelle che il soffio impuro del male ha guastato e perduto».
I missionari cominciano subito a prendere visione di Miruru e dintorni, studiare la lingua, usi e costumi della popolazione. Dopo dieci anni di abbandono, delle 15 succursali dipendenti dalla missione ne rimangono attive solo due. Tra i cristiani, circa 1.800 come risulta dai registri, la poligamia ha fatto strage; in molta gente di cristiano è rimasto solo il nome.
Per quanto riguarda le strutture, invece, la magnifica chiesa a tre navate e la casa dei padri sono in buono stato; quella delle suore è abitabile; alcuni fabbricati dell’inteato sono in rovina, altri ancora in buona salute. Nel cimitero riposano una dozzina di missionari, morti quasi tutti di malaria.
ALLA CONQUISTA DEL NIASSA
A mons. Filippo Perlo interessa il Niassa, territorio missionario ancora vergine, e non quella sperduta missione della Zambezia, per di più fondata da altri. E bisogna fare in fretta, prima che vi arrivino altre congregazioni missionarie. Ma come superare il divieto del prelato del Mozambico? Prendere tempo e mettere il vescovo di fronte al fatto compiuto!
A pochi giorni dall’arrivo dei missionari a Miruru, torna a Beira padre Calandri, insieme a padre Giuseppe Amiotti: anziché raggiungere i confratelli a Miruru, hanno l’ordine di recarsi nel Niassa; nel frattempo i superiori penseranno a ottenere dal prelato i permessi necessari.
Partiti da Beira il 22 giugno 1926, i due padri arrivano a Mandimba, ai confini con l’attuale Malawi, il 10 luglio e si mettono subito al lavoro: si prendono cura di una ventina di orfani meticci, esplorano il territorio, con l’aiuto di padre Chiomio, giunto appositamente da Miruru per scegliere i posti dove fondare le nuove missioni. L’armamentario e il fare inquisitivo dell’esploratore destano i sospetti delle autorità coloniali e il padre è consigliato di tornare subito in Italia, per non compromettere la presenza degli altri missionari in Mozambico. Tanto più che la spedizione nel Niassa rischia di sfociare in un incidente diplomatico.
Mons. Rafael si trova tra l’incudine e il martello: a Roma si dice che il Mozambico è una macchia nera nella storia delle missioni, arretrate di 300 anni; in Portogallo il vescovo è oggetto di furibonde campagne anticlericali e il governo vede gli stranieri, missionari compresi, come avanguardie di potenze europee che vogliono mettere le mani sulle sue colonie. Gli italiani, soprattutto, sono sospettati di lavorare per Mussolini.
Mons. Rafael si sente costretto a disapprovare la presenza dei missionari italiani nel Niassa. Anzi, il 27 marzo 1927, arriva a Mandimba un suo decreto che ordina ai due padri di lasciare il paese entro due mesi, dopo i quali scatterà automaticamente la sospensione da ogni attività religiosa.
Tra l’incudine e il martello ora ci sono i padri Calandri e Amiotti: il vescovo comanda di uscire e scaglia interdetti; Torino ordina di restare, in attesa di aggiustare la frittata. Per sei mesi i due missionari coltivano tabacco per occupare il tempo e ogni settimana passano il confine per confessarsi a vicenda nel Malawi
DA UNA TEMPESTA ALL’ALTRA
Il 1° maggio 1928 un fattorino porta dal Malawi un telegramma con cui si comunica la revoca della sospensione. Padre Calandri raduna gli orfanelli e organizza una carovana per trasferire baracca e burattini a Massangulo, 60 km da Mandimba. Vi giungono il 20 maggio, data ufficiale della nascita della prima missione del Niassa. In pochi mesi vengono costruiti i fabbricati essenziali; alla fine dell’anno arrivano le prime suore della Consolata e altro personale dall’Italia e da Miruru. Iniziano le scuole e le visite ai villaggi.
Tutto procede con coraggio ed entusiasmo, quando una tremenda tempesta squassa l’Istituto dei missionari della Consolata da capo a piedi: l’8 maggio 1928 mons. Pasetto inizia la visita apostolica, chiudendo alcuni campi di evangelizzazione (Somalia e India) appena avviati. Si teme che anche l’apertura nel Niassa, visto il modo un po’ spericolato in cui è avvenuta, possa subire la stessa sorte.
Infatti, nel giugno 1930, padre Calandri è chiamato urgentemente a Beira da mons. Hinsley, vicario apostolico dell’Africa Orientale. Questi gli ordina di sospendere ogni lavoro, perché Massangulo sarà chiusa. Il missionario scoppia in un pianto dirotto; quando si riprende, racconta ciò che è stato fatto nella missione, i lavori in corso e i progetti ancora in mente. «Se è così, è un’altra cosa – dice il monsignore -. Lei, padre Calandri, continui con la costruzione del collegio iniziato e io le manderò i mezzi. Bisogna dare molta importanza a scuole e collegi».
Ad essere chiusa è invece la stazione di Miruru (1930); alcuni dei missionari passano al Niassa. Massangulo si rafforza, con l’avvio dei corsi di arti e mestieri; ma è proibito aprire nuove missioni nella regione. Solo quando mons. Rafael sarà sostituito da mons. De Gouveia, come prelato apostolico del Mozambico, sarà possibile dar vita a Mepanhira (1938), Maua (1939), Mitucué (1940).
L’espansione missionaria segna il passo durante la seconda guerra mondiale, per l’impossibilità d’inviare altro personale. Finito il conflitto, l’evangelizzazione riprende con nuovo vigore dentro e fuori del Niassa. Nel 1946, infatti, il card. De Gouveia, vescovo di Lourenço Marques (Maputo), vuole i missionari della Consolata anche nella regione di Inhambane e alla periferia della capitale.
LA SFIDA CONTINUA
Dopo 75 anni di presenza in Mozambico si può fare un bilancio. La scelta, fatta fin dagli inizi, di concentrare gli sforzi nella scuola e formazione dei laici, ha formato comunità cristiane resistenti alle bufere che si sono scatenate per quasi 30 anni sulla popolazione del paese: guerra per l’indipendenza, persecuzione marxista e nazionalizzazione delle strutture, guerra civile, catastrofi naturali. Molte comunità, portate a maturazione, sono state affidate al clero locale. Buona parte dei leaders che guidano oggi le sorti del paese sono usciti dalle scuole cattoliche. La chiesa mozambicana chiede ai missionari della Consolata nuove presenze qualificate, come la guida di seminari diocesani e formazione del clero locale.
Tali attestati di stima, guadagnati con tanti anni di tenacia ed eroici sacrifici, sono motivo di orgoglio; ma il loro numero (53 missionari di varie nazionalità, presenti in 5 diocesi) è del tutto insufficiente per fronteggiare le sfide sociali e religiose in cui si dibattono ancora le popolazioni loro affidate. Prima di assumere nuove responsabilità, essi vogliono fare un serio cammino di discernimento. Tanto più che i posti segnati da mons. Perlo sulla vecchia mappa, nell’estremo nord del Niassa, attendono ancora il primo annuncio del vangelo. La sfida lanciata 75 anni fa è sempre aperta.

Diamantino Antunes




Il silenzio è complice del male

Una «nuova colonizzazione» per l’Africa? Nonscherziamo, per favore!
Il problema del continente africano e del mondo intero è un sistema economico dove detta legge una «trinità satanica», formata da «Fondo monetario
internazionale», «Banca mondiale» e «Organizzazione mondiale del commercio». Un mondo unificato sotto le insegne dell’«impero del denaro» (il cui cuore pulsante è la speculazione finanziaria), dove la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa. Parole di fuoco (e, a volte, anche discutibili) quelle di Alex Zanotelli, missionario scomodo.

LA «TRINITÀ SATANICA»

È riduttivo dire che l’Africa è in pasto alle multinazionali. Non si tratta solo di questo. La cosa è molto più sofisticata. Le multinazionali, essendo molto intelligenti, usano le strutture inteazionali per fare la loro politica. In particolare, usano il «Fondo monetario», la «Banca mondiale» e l’«Organizzazione mondiale del commercio» (io li chiamo la «trinità satanica» dell’impero del denaro) per portare avanti i loro interessi.
Ricordate il Mai, l’«accordo multilaterale sugli investimenti», che (per ora) siamo riusciti a bloccare? Esso non è altro che la politica delle multinazionali per entrare negli stati e prendersi i mercati senza colpo ferire.
Il Mai è stato poi tradotto e affinato dagli Stati Uniti nel «Nafta for Africa» («African Growth and Opportunity Act», approvato dal congresso nordamericano lo scorso maggio).
Qual è la filosofia che sottende? In pratica la seguente: diminuire il potere degli stati, perché «meno stato c’è, meglio si va»; abbattere tutte le barriere, affinché i potentati economici siano facilitati ad investire e comperare ovunque. Una multinazionale può comperare quello che vuole.
Guardate quello che sta avvenendo in Mozambico, dove le multinazionali (magari attraverso i boeri del Sudafrica) si spostano là per acquistare migliaia di ettari di terreno. Lo comperano in chiave agricola, con un occhio di riguardo per il sottosuolo.
La politica è quella di favorire una agricoltura da esportazione e non per la sussistenza. Il Kenya produce tè e caffè, ma il caffè buono lo potete bere solo in Italia e il tè buono solo a Londra. I kenyiani o non lo bevono o hanno il peggiore. Questo è il tipo di logica.
Pensate al Congo, con una guerra voluta, ma voluta fino in fondo e andrà avanti così. Perché meno stato c’è in Congo, meglio le multinazionali funzionano. Le multinazionali dell’oro, dei diamanti, del cobalto hanno i loro eserciti.
Pensate al ruolo del Sudafrica (e qui Mandela si è fatto… fregare). Nella guerra del Congo sono coinvolte 11 nazioni, una vera guerra mondiale o continentale almeno. Ho visto le statistiche: si parla di 1 milioni e 700 mila morti in 22 mesi di guerra. Ma sui nostri giornali e le nostre televisioni non se ne parla…
Ora sto a guardare cosa farà la politica nordamericana nel Sudan, perché, da quanto mi dicono, i giacimenti di petrolio sudanesi sono i più grandi del mondo. Si dice che gli Stati Uniti potrebbero fare a meno del petrolio mediorientale se il petrolio del Sud Sudan andasse a Mombasa…
Nel 1998 Clinton fece un lungo viaggio africano proprio per promuovere la filosofia americana del «trade, not aid» (commercio, non aiuto). Chiarissimamente per favorire gli Stati Uniti (utilizzando la potenza amica e subalterna del Sudafrica) nella conquista di un grande mercato potenziale di 700 milioni di consumatori! È questo in fondo quello che sta dietro a tutto. Ormai i mercati sono saturi. Non sappiamo più a chi vendere, continuiamo a produrre, ma alla fine dobbiamo domandarci per chi produrre. L’Africa è un mercato nuovo, perché non aprirlo?, si sono detti gli americani. Sapete che, durante il suo ultimo viaggio in Nigeria, Clinton aveva con sé 1.000 uomini d’affari statunitensi?
Questo è lo scopo essenziale. Questa legislazione permetterà ai presidenti americani di stipulare accordi bilaterali con i presidenti degli stati che risponderanno ai requisiti di «elegibility». È chiaro che le nazioni africane desiderano moltissimo entrare nell’accordo. Perché vedono arrivare i soldi americani. È una maniera per salvarsi dal suicidio collettivo in cui l’Africa sta sprofondando.
E ora che gli Stati Uniti si stanno preparando per un altro grande trattato: quello con la Cina. Quello con l’Africa è soltanto l’antipasto, dopo c’è la Cina. Con il Nafta per l’Africa gli Stati Uniti stanno entrando (ma entrando alla brutta o alla grande) nel continente.
Dal Nafta per l’Africa sta emergendo chiaramente che la politica americana è di un imperialismo incredibile. Mi fa un male boia ammettere questo, perché gli Stati Uniti partirono (solo 200 anni fa) ribellandosi contro il colonialismo britannico. Tredici repubbliche che volevano la loro dignità e che sognavano un mondo alternativo. Guardate in 200 anni come si può cambiare.
PRIVATIZZARE… LA MISERIA
Altrettanto importante è la logica delle privatizzazioni. Osservate l’insistenza sul privatizzare l’educazione, la sanità… Sapete cosa vuol dire questo per l’Africa? Cosa significa per 300 milioni di persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno? Significa privatizzare la miseria. Anche in Italia questo tipo di politica la pagano i poveri. Negli Stati Uniti oggi siamo arrivati a 40 milioni di poveri. Mai il paese più potente del mondo era arrivato ad avere un tale numero di poveri…
Io non ho bisogno delle statistiche per capire la sofferenza della gente. Basta che guardi Korogocho e il Kenya. La scuola è un macello: i ragazzini non riescono più ad entrarvi, perché i genitori non hanno soldi per pagarla. E mi riferisco alla scuola pubblica! Fra qualche anno a Nairobi ci sarà il 50 per cento di ragazzi che non potranno entrare in prima elementare. Sapete cosa vuol dire il 50 per cento in una città di 4 milioni di abitanti? È una bomba! Ecco il risultato delle privatizzazioni.
Vedo la sofferenza della gente che non può più andare a curarsi all’ospedale, perché non ci sono soldi. Vedo sempre più gente che abbandona i cadaveri al governo o che cerca di seppellirli di nascosto…
Una volta vidi un uomo disperato, perché gli era morto il bambino. Questo padre era andato al fiume per cercare di seppellire il figlio, ma la gente lo aveva notato. Da tre giorni teneva il bambino morto in casa, perché non aveva i soldi per seppellirlo. Alla fine, l’uomo chiese una cosa soltanto: essere aiutato per tornare al suo villaggio, dove la sepoltura gli sarebbe costata molto meno. Pose il corpicino in un sacco e con esso si mise in viaggio.
Questi sono i drammi quotidiani che viviamo in Africa.
Lo stesso Fondo monetario internazionale dice che 1 su 5 bambini in Africa muore prima dell’età di 5 anni. Il 50 per cento degli africani vive sotto la linea della povertà assoluta e il 40 per cento con meno di un dollaro al giorno. L’interesse sul debito assorbe già oggi l’80 per cento di tutto quello che le nazioni africane ottengono vendendo i loro prodotti sul mercato. Il 40 per cento degli africani soffre di malnutrizione e di fame; oltre 42 milioni di bambini non riescono ad entrare in prima elementare. L’Africa è il solo continente al mondo dove l’immatricolazione nelle scuole è in declino, è l’unico continente dove l’educazione perde di qualità perché non ci sono più soldi per investire.
Quando avete una situazione economica del genere e fate passare una legislazione come quella del Nafta per l’Africa, io non ho dubbi nel dire che si tratta di un genocidio pianificato.
Però, sento gente come Indro Montanelli e Sergio Romano, ma anche padre Piero Gheddo, che invocano una nuova colonizzazione per l’Africa. Fare affermazioni di questo tipo è scandaloso, dopo tutto quello che abbiamo fatto a quel continente.
LA VERGOGNA DELLE ARMI ITALIANE
In Italia, a tutte le manifestazioni cui partecipo, continuo a ripetere: ma voi sapete da dove vengono molte delle armi (soprattutto le cosiddette «armi leggere») delle guerre africane? Dal nostro paese. Però, un silenzio incredibile è calato su questo problema. È scandaloso che si vada avanti a spendere quello che spendiamo in armi, a produrre quello che produciamo in armi.
L’altro giorno ero a Quarrata (Pt) con il capogruppo di rifondazione della Camera, Giordano. Questi mi ha detto: «Alex, hai saputo le ultime novità?» No, dico, vengo da Korogocho e le ultime novità non le so. Cosa c’è? «L’Italia ha appena comperato l’Eurofighter, un aereo da guerra del costo di 120 miliardi. E ne ha ordinati 100».
È possibile che debba venire un imbecille da Korogocho per ricordarvi questo? Questo è un fatto di una gravità estrema. Non so perché Pax Christi non protesti immediatamente. Non si trovano soldi per le scuole, per la sanità e li trovano per 100 aerei militari. Ma per fae che cosa? Domandatevelo.
Voi sapete tutte le armi che si producono in questo paese? Ma è possibile che in Parlamento dorma ancora la norma sulle armi leggere? C’è una proposta per mettere al bando la loro produzione e l’export. Ma la legge non va avanti.
Però quello che più mi preoccupa è il vostro silenzio. Quando sento queste cose io mi sento male e mi domando perché nessuno protesti. Sulle armi vi prego di tornare agli anni Ottanta; allora c’era molta più vivacità in questo paese, c’era molto più senso della lotta.
Ronald Reagan (un presidente che io metto a fianco di Stalin, per tutti i massacri che, coscientemente, ha perpetrato nel Centro America) per primo parlò di guerre stellari. Poi però rinunciò a quel folle progetto. È concepibile che ora se ne torni a parlare? Può darsi che Gore abbia qualche idea più liberale di Bush, ma alla fine chiunque vinca deve fare quello che la logica del mercato richiede. Altrimenti non vanno avanti.
NO AL «DIO» DEL SISTEMA
Davanti a noi non c’è soltanto l’Africa, ma è l’intero mondo che è minacciato, gravissimamente minacciato di morte. Tutti noi siamo minacciati. Questo è un sistema che crea morte a tutti i livelli.
L’Africa è emblematica come continente e su di essa scende sempre il silenzio e il non parlarne accresce ancora di più l’impressione. L’Africa è un paradigma dove impegnarsi.
Io ho come riferimento la tradizione profonda della bibbia e del giubileo. Il quale, per favore, non è roba da pellegrinaggio, soprattutto in questo tipo di società. Sono tutte cose che facciamo, ma il giubileo biblico è un’altra cosa. Non lo possiamo dimenticare. Il giubileo biblico è «il sogno di Dio».
Il problema di oggi non è l’ateismo. Per me l’ateismo è il primo passo verso la fede. Quando abbiamo ridotto Dio al dio del sistema, al dio degli Stati Uniti, al dio di questa società, l’unica maniera per riscoprire la fede è l’ateismo perché devi sbarazzarti di «questo» dio.
Il vero problema è il materialismo quotidiano, l’idolatria. Anche noi come chiesa abbiamo adottato tutti gli idoli di questa società dal massimo profitto: soldi, successo e via di questo passo.
Fare giubileo vuol dire ritornare al «sogno di Dio», legare economia e vangelo. Un gesuita inglese dice: noi leggiamo il vangelo come se non avessimo soldi in tasca e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del vangelo. E questa è la nostra realtà. Ecco perché siamo così integrati, così parte del sistema. Il giubileo è una cosa seria, è ritornare all’ideale che ci può essere una economia di uguaglianza dove i beni di questo pianeta servano a tutta la gente del mondo. Significa ritornare a una politica di giustizia, perché solo questa permetterà una economia di uguaglianza. Significa ritornare ad una esperienza di Dio, dove Dio è sentito come il Dio di schiavi, oppressi, marginalizzati, forestieri, immigrati. Di tutta la gente, insomma.
LA BOMBA DEI POVERI
Io dico a tutti di svegliarsi, perché l’altra bomba atomica è proprio quella dei poveri. Può scoppiare in qualsiasi momento. E, se scoppia, sorrideremo sul macello del Rwanda.

IL CAMMINO DI LILLIPUT

Oltre mille persone si sono ritrovate nel primo incontro nazionale della «Rete di Lilliput». Questa è la dichiarazione finale preparata dal Tavolo intercampagne e letta da Alex Zanotelli.

Marina di Massa, 6-7-8 ottobre 2000.

Nel momento in cui le leggi del profitto pretendono di dominare ogni ambito del vivere umano distruggendo la base naturale su cui si fonda la vita sul Pianeta e la politica è incapace di contrastare lo strapotere dell’economia dominante, noi oltre mille tra semplici cittadini, associazioni e gruppi, riuniti a Marina di Massa per il primo incontro della Rete di Lilliput, rivendichiamo il diritto di riappropriarci della facoltà di decidere sul nostro futuro e ci sentiamo parte integrante di una nuova forma di cittadinanza sociale che sta prendendo corpo nel Pianeta e che ha avuto una sua prima manifestazione a Seattle.
Nel contempo affermiamo che non basta battersi contro le principali storture del sistema, ma che dobbiamo ricercare delle alternative eque e sostenibili a questo assetto economico che genera esclusione, ingiustizie e distruzione del Pianeta.
I tratti fondamentali dell’alternativa che noi ci impegniamo a costruire si basano sulla sobrietà, la riduzione dell’impronta ecologica e sociale, l’esaltazione dell’economia locale ed il riconoscimento che i bisogni fondamentali sono diritti da garantire a tutti gli abitanti del Pianeta. Noi ci impegniamo fin d’oggi a costruire questa prospettiva organizzando gruppi di lavoro e campagne:
– per riaffermare la dignità del lavoro e la democrazia economica, costringendo le multinazionali alla trasparenza e alla responsabilità sociale e ambientale
– per ottenere una radicale riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale che fino ad oggi hanno generato disuguaglianze e oppressione sociale
– per l’annullamento del debito e il riconoscimento del debito ecologico dei paesi del Nord verso quelli del Sud
– per ridurre l’impronta ecologica e sociale dell’Italia proponendo alle famiglie un diverso modo di consumare, e spingendo gli enti locali e le istituzioni nazionali alla costruzione di filiere produttive alternative
– per promuovere la riconversione dell’industria bellica, per spingere le banche a non finanziare i traffici d’armi, per promuovere la tutela e i diritti dei migranti.
Sul piano della vita intea della Rete vogliamo costruire dei rapporti che esaltino la partecipazione, l’identità dei gruppi locali e il loro radicamento sul territorio, la costruzione di campagne comuni proponibili da tutti i punti della Rete, la costruzione di una struttura leggera di riferimento nazionale con compiti di informazione e servizio. Sappiamo che la nostra Rete costituisce una sfida per tutti perché è una novità assoluta che rompe con gli schemi del passato. Per questo ci impegniamo ad avviare un approfondimento interno a tutti i livelli per individuare forme ottimali di aggregazione e dilazione. Un segnale importante che va in questa direzione è la nascita di gruppi tematici emersi durante lo svolgimento dell’assemblea. Il primo passo di questo cammino è la costituzione di un gruppo di lavoro composto dal nodo locale genovese e dal tavolo intercampagne per organizzare la nostra opposizione alle politiche del G8 che si riunirà a Genova nel 2001.

L’IMPERO DEL DENARO

Caro onorevole, jambo! Penso che il viaggio in Africa e la visita a Korogocho sia stato un evento importante per te. Ti sarai accorto che vedere con i tuoi occhi e sentire con il tuo naso è tutt’altra cosa che guardare gli esclusi, in televisione o leggerli nelle statistiche.
Penso che le sofferenze dei poveri hanno cominciato a cambiarti come uomo: in questo ti sento vero e sincero.
Come leader politico ti ringrazio perché stai tentando di mettere l’Africa e la povertà globale al centro del dibattito. Non vorrei però che le sofferenze dei poveri diventassero semplicemente oggetto di manipolazioni, tatticismi e furbizie per ottenere consensi elettorali.
Per questo ho sentito il dovere di scrivere questa lettera aperta in cui esprimo la mia maniera di guardare alla realtà e ciò che da questo sguardo ne consegue.
Io guardo il mondo stando dalla parte degli impoveriti, cioè dalla parte dell’80% dell’umanità. Lo faccio come credente, perché tutta la tradizione biblica, ebraica e cristiana, da cui provengo sta dalla parte degli esclusi, perché il Dio di Mosé non è il Dio dei faraoni o di Clinton, ma il Dio dei crocefissi. Per la prima volta nella storia, il mondo è retto da un unico sistema: l’impero del denaro, il cui cuore è la speculazione finanziaria. Mai nella storia si era visto un impero tanto vittorioso e suadente, grazie alla forza dei mass media, da prenderci tutti nella sua ideologia.
Viviamo in un sistema economico dove il 20% degli uomini si pappa l’82% delle risorse a spese del resto dell’umanità. Il 20% dei più poveri ha a disposizione solo l’1,4% dei beni. Per me questo è un sistema di peccato. E la politica che cosa fa? Oggi la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa.
Questo sistema di oppressione si regge sullo strapotere delle armi: spendiamo ogni anno 800 miliardi di dollari in armamenti (ma il muro di Berlino non era crollato?). A che cosa ci servono? Per difendere i nostri privilegi dalla minaccia dei poveri.
Non dimentichiamo che chi vive nell’opulenza e la difende a denti stretti pone anche una gravissima ipoteca ambientale. Molteplici studi ci dicono che abbiamo non più di 50 anni per cambiare: è in ballo la vita del pianeta. L’impero del denaro uccide, quindi, con la fame (30 milioni: un «olocausto» ogni anno), con le armi (conflitti africani, regimi repressivi, guerre stellari), con la distruzione dell’ambiente, con l’annientamento delle culture.
È un sistema di morte che ci interpella tutti, credenti e non, perché mina la vita stessa. Se questa analisi è vera e condivisibile, dobbiamo smetterla di raccontarci la storia di uno «sviluppo sostenibile». O cambiamo rotta o cadiamo nel baratro.
Tocca alla politica reinventare la politica e anche lo stato, perché l’economia torni a servire la polis. La politica e il far politica devono rispondere alle esigenze della gente e soprattutto della vita, della vita per tutti.
Alex Zanotelli

(*) Sintesi di una lettera aperta indirizzata da padre Zanotelli a Walter Veltroni. La scorsa estate il segretario dei Ds aveva effettuato un lungo viaggio in Africa, visitando anche Korogocho. Quell’esperienza è stata raccontata nel libro Forse Dio è malato (Rizzoli, 2000).

IL DIVERSO E’ VERAMENTE UNA MINACCIA?

Le affermazioni del card. Biffi sull’immigrazione islamica sono di una gravità estrema. Ne sono rimasto esterrefatto, perché se incominciamo a dividere la gente così, non usciamo più dallo scontro. E potremmo davvero muoverci verso forme di pulizia etnica.
La grande domanda posta da Susan George è semplicissima: il miliardo e mezzo di persone, i poveri, gli inutili per il sistema attuale, hanno diritto sì o no di vivere? Sapete voi quanti episodi di razzismo ci sono in giro? È chiaro che c’è un rifiuto dell’altro. E guardate che qui anche Marx (che pure ha indovinato tante cose) si è preso una bella sventola. La teoria marxista, riprendendo quella di Rousseau, afferma che l’uomo è buono: è la società che lo rende cattivo. Purtroppo altri hanno dimostrato che la violenza non viene dalle istituzioni, ma da ogni uomo. Il rifiuto dell’altro ce lo portiamo dentro. Me lo trovo anch’io, a Korogocho, tra i derelitti.

Un giorno incontrai una ragazza di 23 anni. La salutai, chiedendole come si chiamasse. Lei rispose: «Mi chiamano Omarì». Come – dissi – ti chiamano, ma tu come ti chiami? «Mi chiamano». E io: non prendermi in giro! «Mi chiamano Omarì» insistette. Allora chiesi: a che etnia appartieni? «Non lo so». La guardai stupefatto: sei il primo africano che non sa a che etnia appartiene; l’appartenenza è talmente forte per un africano! «Tu non mi conosci, Alex. Io sono una ragazza che, piccolissima, si è ritrovata sulle strade di Nairobi insieme ad altri ragazzi e loro mi chiamavano Omarì. Non so quale sia il mio vero nome, non so chi sia mio padre, mia madre, non so niente. Sono cresciuta sulle strade. Un giorno, verso i 12-13 anni, un uomo mi violentò ed ecco il mio primo bimbo. Andai avanti così. Poi un secondo uomo mi fece violenza ed ecco il secondo bimbo. A quel punto, vinta dalla città, scappai nella discarica vicino a Korogocho. Qui la gente mi guardava e chiedeva da dove venivo, cosa facevo, perché non ero dei loro. Alla fine mi hanno sbattuta fuori. Fuori dalla discarica».
Le domandai dove era andata a vivere. «Vivo nella parte estrema di Korogocho, raccogliendo frutta marcia per me e i miei bambini e, di notte, dormendo anche sotto le bancarelle che di giorno vendono frutta. Alex aiutami!». La mandai nel gruppo della discarica dove per un po’ fu aiutata. Poi sparì.
Poche settimane fa Omarì è ritornata. Con tre ragazzi… Ho guardato la bambina più grande e le ho chiesto: e questa chi è? La ragazza mi ha risposto: «L’ho incontrata l’altro giorno per strada. Le ho chiesto chi fosse e dove erano i suoi genitori. Lei mi ha detto: non li conosco, non ho nessuno, posso venire con te?». Insomma, oggi Omarì è una donna di 23 anni con tre bambini… Non ho potuto fare altro che dirle: «Vieni, vieni con noi, Dio provvederà!».
Una storia assurda per una logica assurda che esclude, perché «non è una di noi, non è dei nostri».

Oggi in Italia è importante uscire da questa logica dell’altro. Provo una grande sofferenza nel vedere il razzismo crescente, il rifiuto dell’altro, anche in chiave religiosa. Io dico a tutti: perché abbiamo paura dei musulmani? Ho studiato teologia musulmana, corano, arabo classico, storia, e ne sono rimasto profondamente impressionato. Quando, per esempio, leggevo i mistici musulmani, non ci trovavo nessuna differenza con Giovanni della Croce o Teresa d’Avila. Quanto più entriamo nella realtà e le situazioni si rivelano complesse, tanto più i nostri slogan diventano semplicistici. Perché tutto ciò che non è bianco non è nero. Tutto ciò che non ci appartiene non è contro di noi, tutto ciò che non è cristiano non è marxista, tutto ciò che non è musulmano non è imperialista o diabolico, tutto ciò che non ci rassomiglia non è una minaccia. Le generalizzazioni, alimentate dalla propaganda politica e religiosa, sono un pericolo.
Al.Za.

Alex Zanotelli




Trentotto minuti, predica inclusa

Fra le messe africane (che si protraggono anche per due ore)e quelle italiane (che non devono superare i quaranta minuti, omilia compresa)
esiste una via di mezzo?
Ma, più che al tempo, bisogna mirare alla qualità,
specialmente da parte del sacerdote.
Per celebrare e far festa.

Di ritorno dal Kenya,
una domenica celebro la messa nella chiesa di un mio amico parroco. Al termine, il sacerdote mi invita per un caffè. «Bene, bene. Vedo che non hai dimenticato l’italiano e che sei abbastanza sbrigativo» mi dice.
È un complimento. Ma per me è più amaro del caffè in cui ho dimenticato di mettere lo zucchero.
In Italia mi mancano molto le liturgie africane, così piene di vita, dove il tempo non conta. Invece, nel nostro «stivale», prova a superare i 10 minuti di predica e vedrai subito la gente guardare l’orologio con impazienza. Già, in Italia il tempo è denaro! Anche se abbondano le chiacchiere televisive, giornalistiche, salottiere…
Durante la messa si intonano quei tre-quattro canti che tutti conoscono (o quasi), ma si cantano solo poche strofe. Alla fine ci sono gli avvisi del parroco, la benedizione… E, mentre ci si avvia in sacrestia, si controlla l’orologio: 38 minuti e mezzo. Così va bene. Guai a sgarrare!
Un’altra domenica il parroco non c’è. Dopo la comunione, mi permetto un momento, brevissimo, di silenzio. In sacrestia il chierichetto (mio nipote) mi chiede se mi sia addormentato…
Oggi si parla molto di «religioso» come elemento strutturale dell’uomo. Di fronte al disorientamento provocato dalla società dei consumi, si auspica un ritorno al sacro. È vera fede? O un semplice desiderio di tranquillità psicologica, distensione? In tale contesto le sètte mietono numerosi proseliti.
L’africano ha insito il senso sacro della celebrazione e della festa. Per lui celebrare significa festeggiare.

Prima del Concilio
ecumenico Vaticano II, in chiesa esisteva una separazione tra il sacerdote e il popolo. Si celebrava l’eucaristia in una lingua morta (il latino), con la preghiera più significativa (il canone) in silenzio, voltando le spalle alla comunità. Sui banchi si contavano molte donne con la corona del rosario in mano. Oggi, però, tutto questo è solo un ricordo dei cinquantenni.
Ma la presente messa, in Italia, è davvero quella voluta dalla riforma liturgica del Concilio? Ne dubito. E rimpiango le celebrazioni nella mia parrocchia in Kenya.
Nella pasqua Gesù Cristo ha realizzato la nostra salvezza. Celebrare e festeggiare l’eucaristia è attualizzae il mistero. Parola, rito, canto, danza, silenzio: tutto ha valore.

Quando ero bambino,
la domenica era una festa anche esteamente. Per la messa si indossavano le scarpe e i vestiti migliori, non quelli di tutti i giorni. Una volta a casa, bisognava cambiarli subito per non sciuparli. È quanto sta avvenendo oggi in Africa. La domenica è festa e la gente (soprattutto la più povera) viene in chiesa con gli abiti migliori. Non sono «firmati», ma i colori sono sgargianti.
Spesso mi chiedo come riescano i giovani e le ragazze del Kenya a conservare così bene i loro vestiti in abitazioni di fango, senza armadi, e come facciano a salvaguardarli dalle capre, che sono così di casa…
Penso pure ai gruppi neocatecumenali. Dopo numerosi incontri di formazione, ecco finalmente la domenica con la messa. I nuovi membri del gruppo sono invitati a vestirsi bene, quel giorno, per partecipare ad «un avvenimento molto importante». È celebrazione, festa.
Le comunità africane
sono giovani, piene di vita e giorniose, anche se soverchiate da enormi problemi. Amano far festa. I canti, le danze e i tamburi esprimono anche fede.
Le comunità italiane, invece, mi sembrano talora vecchie e stanche; forse hanno perso la gioia di vivere, di celebrare, di cantare.
Ricordo le animate discussioni, in Kenya, con qualche maestro di canto. Era difficile fargli capire che, alla domenica, non era sempre necessario cantare tutto il… cantabile! Qualche volta il «credo» si poteva anche «recitare». Allora il choirmaster mi «boicottava», anticipando con il canto la mia recitazione. E che sforzo far capire al coro che, di una lode di 20 strofe, se ne possono cantare anche soltanto 15! «Niente affatto! Bisogna cantarle tutte» era la risposta.
È con grande nostalgia che risento le preghiere spontanee dei fedeli da ogni angolo della chiesa: implorano aiuto, guarigione, pioggia. Drammatiche queste ultime, quando sui campi il granoturco e i fagioli ingialliscono anzi tempo per la siccità, e il cielo continua ad essere terso. Mi chiedo spesso come Dio non si commuova a tali suppliche. Forse ha problemi di udito anche Lui?

Oggi sono in Italia,
dove l’eucaristia non deve superare i 40 minuti. «La messa è finita» dice il prete. Mi sembra che qualcuno tiri un sospiro di sollievo. Dio è servito. Adesso si può vivere tranquilli per un’altra settimana.
E i giovani dove sono? Se non vanno più in chiesa, è tutta e sempre colpa loro? Come possono accettare liturgie così «pallose», senza il senso della festa? Allora la discoteca diventa la loro chiesa. Forse sono proprio i nostri giovani ad apprezzare le liturgie africane, così «gasate»! Dimenticando l’orologio.
Quanto a me, spero di non abituarmi ai 38 minuti e mezzo di messa. Cercherò di spiegarlo anche al parroco, mio amico. Se mi riesce. E lui capirà?

Adamo Nostalgia




Quando le genti non balbettano più

Qual è per la chiesa l’eredità più ricca del secolo appena trascorso?
Senz’altro il Concilio ecumenico Vaticano II.
Il Concilio è una grazia anche per il 2000.
«Missioni Consolata»
ne ricorda il decreto sull’attività missionaria,
aggiornato da altri significativi documenti.
E sorge spontanea
la domanda:
dopo 35 anni
di «Ad gentes»,
i missionari
sono in crescita?

R icordo ancora il libro di Piero Gheddo Concilio e terzo mondo del 1964. Dal titolo se ne intuiva già il contenuto; ma più espliciti erano la copertina e il suo retro, che riportavano foto di vescovi e cardinali provenienti soprattutto dal sud del mondo. Così pure la «seconda» e la «terza» di copertina. Complessivamente si contavano 30 prelati con tricorno, zucchetto, colbacco, fez o altri copricapo.
Il libro attirò la mia attenzione anche perché, tra le foto, spiccava quella di Carlo Cavallera, missionario della Consolata, vescovo sui verdi altopiani di Nyeri e, poi, nel deserto di Marsabit (Kenya). Con lui trascorsi alcuni mesi a Roma durante il Concilio ecumenico Vaticano II.
«Nell’aula conciliare – confidò un giorno monsignor Cavallera – c’è battaglia tra noi missionari e gli altri vescovi: vogliono liquidare in fretta il problema delle missioni, facendone un’appendice di qualche altro tema. Ma noi insistiamo per un documento a parte, perché il futuro della chiesa si gioca soprattutto nel terzo mondo. Eppoi: la chiesa è o non è missionaria?».
Vinsero la battaglia i padri conciliari missionari, ma sul filo di lana. Ecco perché il decreto su «l’attività missionaria della chiesa» fu approvato «in zona Cesarini», cioè il 7 dicembre 1965, ad un solo giorno dalla chiusura del Concilio.
Barbari, pagani e Genti
Il documento sulle missioni è noto come «Ad gentes», le due parole latine di inizio: un’espressione che si è imposta specialmente fra i missionari. «Ad gentes» significa «alle genti».
E chi sono le «genti»? Il termine ricorre nelle lettere di san Paolo, che si definisce «apostolo delle genti», mentre san Pietro è «apostolo dei giudei» (cfr. Gal 2, 8). Nella concezione di Israele, «popolo eletto», l’umanità è divisa in «ebrei» e «genti».
Esisteva anche un’altra distinzione: «greci» e «barbari». Questa era etnocentrica: esprimeva un giudizio tutt’altro che positivo sui «barbari». Infatti barbaròs, secondo l’etimologia greca, era colui che (parlando una lingua straniera) balbettava; significava pure rozzo, incivile e crudele.
«Genti», invece, era un termine neutro e, forse, più rispettoso sotto il profilo culturale; ma non nella valutazione dell’ebraismo, perché «le genti» praticavano l’idolatria, sinonimo di peccato… Fu un merito di san Paolo, il più grande missionario di tutti i tempi, l’essersi dedicato all’evangelizzazione dei «non ebrei» e avere imposto alla chiesa nascente l’apertura a tutti i popoli.
Accanto a «genti» e «barbari», ricorreva anche «pagani». Era una parola innocua: definiva semplicemente gli abitanti dei villaggi di campagna. Ma, a partire dal quarto secolo, «pagani» assunse un significato negativo, in contrapposizione a «cristiani». Il messale romano, edito dal papa Pio V e riformato da Pio X, conteneva una Missa contra paganos, in cui si invocava Dio «affinché i popoli pagani, che confidano nella loro ferocia, siano schiacciati».
Oggi, caduto l’uso di «pagani», resta quello di «gentes», che designa coloro a cui non è stato annunciato il vangelo. È da sottolineare l’«ad» gentes. La preposizione ad significa «verso»: suggerisce attenzione, disponibilità e comprensione verso i popoli da evangelizzare.
Dunque: non «contra», ma «ad» gentes.
«Sembra strano (però ce lo dobbiamo pur dire) – commentava a Torino il cardinale Anastasio Ballestrero – che qualche volta facciamo i missionari con spirito di conquista, di dominio, per contare le nostre vittorie e i nostri trionfi».
Al contrario, la chiesa non deve mirare ad ambizioni politiche, sociali o religiose; non è mandata per giudicare, ma per salvare e servire.
Non basta un tocco
di vernice
Già prima del Concilio ecumenico Vaticano II, alcuni missionari illuminati avevano parlato di «adattamento» alle culture dei popoli. Poi il decreto Ad gentes ha richiesto che, nei paesi di missione, la vita cristiana fosse «commisurata al genio e all’indole di ogni civiltà» (n. 22). Si è auspicato un cristianesimo più rispettoso delle culture: quindi adattato nello stile delle chiese e nelle celebrazioni liturgiche, con la valorizzazione di canti, ritmi e danze locali. Ma era un modo di evangelizzare ancora superficiale.
Pertanto dall’«adattamento» si è passati all’«inculturazione», cioè all’incarnazione del messaggio evangelico in una cultura non cristiana e non europea. È un problema complesso. Ci si dibatte tutt’oggi.
Il nocciolo della questione è il seguente: l’accoglienza del vangelo deve sfociare nella nascita di nuove espressioni cristiane. Ebbene: sono state composte orazioni eucaristiche particolari e manuali di preghiere che accolgono elementi tradizionali. Ma non basta. Si richiedono elaborazioni teologiche «dal» sud del mondo.
Incombe però un rischio: quello del miscuglio, della confusione, del sincretismo. Ciò crea sconcerto e (fatto assai più negativo) divisione. Ecco perché nell’esortazione apostolica del 1975, Evangelii nuntiandi, Paolo VI insistette sull’evangelizzazione delle culture: «Occorre evangelizzare, non in modo decorativo, a somiglianza di vernice superficiale, la cultura e le culture dell’uomo, partendo dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (n. 20).
Tuttavia i pericoli, insiti talora nelle novità, non devono comportare il riflusso verso posizioni teologiche stantie. Si camminerebbe fuori della storia. Il servizio dell’evangelizzazione deve continuare con coraggio, «anche quando bisogna seminare nelle lacrime». Parole di Paolo VI.
un «Ad gentes» in crescendo
Il decreto sull’attività missionaria della chiesa Ad gentes è da completarsi con altri documenti conciliari: specialmente la costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium, il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, la dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis umanae, la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes.
Sono testi che sollevano problemi cruciali per il missionario: si pensi alla Nostra aetate nel contesto del Sudan, dove i cristiani sono perseguitati dal regime islamico. Anche il rapporto con il fondamentalismo induista è spigoloso. Giovanni Paolo II l’ha sperimentato nel suo recente viaggio in India.
Traumatico per alcuni missionari (che fino a ieri predicavano che «fuori della chiesa non c’è salvezza») può essere il tema della libertà religiosa. Al che il cardinale Ballestrero rilevava: «Purtroppo i pavidi che rifiutano quel testo ci sono ancora, eppure esso è intriso dell’audacia dello Spirito e va letto in questa prospettiva e con questa sensibilità. La chiesa, proprio perché missionaria, non è mai sulla difensiva e non deve esserlo. Non siamo mandati a difendere una cittadella, ma a servire il mondo con il messaggio della parola che salva».
Il messaggio del Concilio sull’Ad gentes va aggiornato pure con i successivi documenti che ne sviluppano i problemi. Ho già ricordato l’Evangelii nuntiandi.
Nel 1967 appariva l’enciclica Populorum progressio. In essa Paolo VI sottolineava lo sviluppo integrale di tutto l’uomo come un aspetto fondamentale dell’evangelizzazione. Inoltre il documento sensibilizzava i cristiani sui problemi nel sud del mondo e stimolava la solidarietà verso i fratelli impoveriti da poteri nazionali e inteazionali.
L’ultima charta magna sull’evangelizzazione dei popoli è l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio (1990). Ha riaffermato l’urgenza della missione ad gentes, anche di fronte alla penuria di vocazioni sacerdotali in Europa. Però il problema della scarsità di sacerdoti non si supera chiudendo i cancelli delle diocesi, affinché nessun prete «scappi».
«La fede (in crisi) si rafforza donandola» (n. 2).
N el 1976, ritornato in Italia dalla missione in Tanzania, mi capitò tra mano una rivista missionaria, di cui non ricordo la testata. Mi colpì, come nel libro di Gheddo, la copertina: ritraeva un ragazzo che scriveva sulla lavagna: «Anch’io sono missionario».
Da questa affermazione, in perfetta sintonia con l’Ad gentes del Vaticano II, ci si sarebbe aspettati una crescita di vocazioni missionarie. Ma la dichiarazione del ragazzo è stata «una» rondine che… non fa primavera. In compenso, sono cresciuti i laici impegnati. Gli istituti missionari (che lamentano la mancanza di vocazioni) non dovrebbero forse fare i conti con i volontari, ripensando i propri comportamenti e regole? Però i laici, missionari part time, non sostituiscono gli evangelizzatori full time.
Allora «udii la voce del Signore che diceva: “Chi invierò? E chi andrà?…”. Io risposi: “Eccomi, manda me”» (Is 6, 8-9).

Francesco Beardi




Tutti in gara nel mondo

Bloccata dalla rivoluzione francese,
l’evangelizzazione riprende con slancio mai visto prima.
È arrivato finalmente il tempo di evangelizzare l’Africa,
l’Australia e i più sperduti arcipelaghi dell’Oceano Pacifico.
Tutta la chiesa è mobilitata, papi e vescovi,
religiosi di antica e nuova istituzione, preti e laici.
I laici, soprattutto, uomini e donne senza frontiere,
costituiscono la grande novità della missione.
Un’altra sorpresa: i popoli evangelizzati
cominciano a diventare evangelizzatori.

Cattolica, cioè universale

Mentre i vescovi francesi si piangono addosso, recriminando sui 25 anni di rivoluzione e d’impero, e parlano di «missione intea», i semplici fedeli sono pervasi da un contagioso slancio missionario. Ogni sera migliaia di famiglie si raccolgono attorno al fuoco per leggere le Lettere edificanti e curiose di Chateaubriand: un libro di racconti missionari ristampato per tre volte tra il 1803 e il 1824. Altrettanto successo riscuotono le Nuove letture edificanti delle missioni della Cina e delle Indie, pubblicate dalle Missioni estere di Parigi.
Simbolo di tale fervore missionario è una ventenne lionese, Paolina Jaricot, che spende la sua vita per raccogliere preghiere e aiuti finanziari per i missionari, dando vita a un’associazione che nel 1822 si chiamerà «Opera della propagazione della fede». Le pubblicazioni di tale associazione si diffondono in tutta la Francia e dilagano in Svizzera, Italia, Germania, Inghilterra. Altri organismi del genere sorgono con lo scopo di coinvolgere nell’evangelizzazione tutto il popolo cristiano: l’Opera di Pietro Apostolo (1889) raccoglie fondi per sostenere e formare il clero indigeno; l’Opera dell’infanzia missionaria è aperta a tutti i fanciulli cristiani, perché siano educati allo spirito missionario e alla solidarietà mondiale.
A tale zelo di retroguardia, si accompagna lo slancio di coloro che vogliono operare in prima fila. Dall’inizio del secolo XIX ai nostri giorni sono nate in tutto il mondo cattolico centinaia di famiglie religiose, maschili e femminili, esclusivamente orientate all’azione missionaria; mentre altrettante sono le congregazioni che, nate per rispondere ai problemi locali, aprono le porte verso i territori ancora in attesa dell’annuncio del vangelo. Nel XX secolo si moltiplicano le associazioni laicali e di volontariato, che si affiancano al lavoro missionario con opere di testimonianza cristiana e opere di solidarietà e promozione umana.
La rinascita della missione è ispirata e sostenuta dai grandi papi che si sono succeduti negli ultimi due secoli, a cominciare da Pio VII, che risuscita la Compagnia di Gesù (1814) e riorganizza Propaganda Fide (1817). Ma è con Gregorio XVI, il primo «papa missionario» che avviene il rilancio dell’evangelizzazione. Già prefetto di Propaganda quando era cardinale, il papa promuove un’evangelizzazione a tutto campo, con invio di missionari in tutti i continenti, moltiplicando vicariati e diocesi, istituendo i primi seminari per la formazione di sacerdoti indigeni.
I successori continuano sulla sua scia. Leone XIII scrive sei lettere missionarie. Le direttive papali più conosciute sulla missione sono le encicliche papali del XX secolo. Benedetto XV, nella Maximum illud (1919), presenta la missione come primo dovere della chiesa, ne rifiuta l’europeizzazione e ne reclama l’indipendenza. Nel 1926 Pio XI va ben oltre il suo predecessore, sia con la Rerum Ecclesiae, sia con l’ordinazione dei primi 6 vescovi cinesi, a cui seguiranno quelli giapponesi, indocinesi, africani. È un evento di portata storica, che segna l’avvento ufficiale degli «indigeni» alla guida delle chiese locali, la promozione civile dei popoli «di colore» e l’avvio spontaneo e giornioso della decolonizzazione, che decenni dopo le grandi potenze dovranno accettare per forza, costrette da guerre e rivolte.
L’enciclica Fidei donum (1957) di Pio XII ricorda ai vescovi del mondo che essi sono tutti responsabili dell’evangelizzazione e li invita a rispondere a tale responsabilità inviando i loro preti alle chiese più bisognose. Nasce un nuovo tipo di missionario: il sacerdote diocesano «Fidei donum» a servizio temporaneo e specifico delle missioni. Il concetto di missione si arricchisce di una nuova dimensione, diventando anche collaborazione e servizio reciproco tra chiese sorelle.
Il Concilio Vaticano II sancisce la nuova coscienza missionaria maturata nell’ultimo secolo: cioè l’evangelizzazione è un dovere di tutti i cristiani e di tutte le istituzioni ecclesiali. Le encicliche Evangelii nuntiandi (1975) di Paolo VI e la Redemptoris missio di Giovanni Paolo II sviluppano le idee del Concilio e legano definitivamente l’evangelizzazione alla promozione umana, dello sviluppo, della giustizia e della pace.

L’Africa diventa cristiana

Un giorno del 1800, Anna Maria Javouhey vede la sua camera affollarsi di faccette nere imploranti aiuto. La visione non si cancellerà mai più dalla memoria. Fonda le suore di San Giuseppe di Cluny; nel 1817 ne manda alcune in Senegal; poi essa stessa le raggiunge: con sorpresa, riconosce per le strade di Saint Luis le stesse facce sognate 22 anni prima.
Così ricomincia la storia dell’evangelizzazione in Africa. Madre Javouhey lotta con coraggio contro i bianchi che calpestano i diritti degli africani. «I neri – scrive – sono buoni, semplici e non hanno altra malizia se non quella imparata dai bianchi». Fonda scuole in Senegal e Guinea e si adopera per la formazione del clero indigeno. Nel 1840 ha la gioia di assistere all’ordinazione di tre preti senegalesi.
Nella stessa direzione si muove Francesco Libermann, anche se non metterà mai piede nelle missioni. Nel 1841 due creoli di Réunion gli parlano della triste situazione degli schiavi neri: rimane così sconvolto che mette subito mano alla fondazione della congregazione del Cuore Immacolato di Maria (confluita nel 1848 nella Società dello Spirito Santo) e comincia a inviare missionari a evangelizzare Guinea, Liberia, Sierra Leone e Gabon, combattere la schiavitù e formare il clero locale.
Le prime spedizioni sono un disastro: i missionari cadono come mosche, falciati da malaria e febbre gialla. «Non voglio mandare i miei figli al macello – si tortura padre Libermann -. Ma non posso abbandonare milioni di africani che non hanno mai sentito la buona notizia del Signore». Anche i missionari della Società delle Missioni Africane di Lione (Sma), guidati dallo stesso fondatore, mons. Marion de Brésillac, vicario apostolico della Sierra Leone, sono stroncati tutti dalla micidiale febbre gialla (1859).
Ma l’epopea missionaria continua, si estende alle isole dell’Oceano Indiano, si attesta lungo le coste orientali africane e penetra gradualmente nel cuore del continente. Un centinaio di missionari perdono la vita nel vicariato nell’Africa Centrale (dall’Egitto ai Grandi Laghi), finché Daniele Comboni progetta di «salvare l’Africa con gli africani», riavvia la missione nel Sudan (1872) e ne diventa il primo vescovo. Liberati schiavi e schiave, li coinvolge nel lavoro missionario; alcuni di essi diventano sacerdoti e religiosi.
Una ex schiava sudanese, Giuseppina Bakhita, diventerà religiosa e sarà beatificata nel 1992.
L’evangelizzazione di questa regione è segnata da persecuzione e martirio. Tra il 1882 e il 1889, nella bufera scatenata dal movimento messianico islamico del mahdismo, missionari e missionarie sono ridotti in schiavitù; molti catechisti e sacerdoti africani sono martirizzati. Ma l’opera missionaria continua; dal Sudan si estende all’Uganda.
Grande stratega dell’evangelizzazione è pure il cardinale Lavigerie, fondatore dei missionari per l’Africa (padri e suore bianche). Anche lui vuole «salvare l’Africa con gli africani». Invia i suoi missionari su due fronti; l’uno parte da Algeri, attraversa il deserto e penetra nelle regioni subsahariane. Dopo due spedizioni massacrate dai tuareg, i padri bianchi si attestano a Bamako e Tumbuctù (Mali).
L’altro fronte, nel 1878, da Bagamoyo (Tanzania) si dirige nella regione dei Grandi Laghi. Un gruppo di padri penetra nell’Alto Congo; un altro evangelizza il regno dei Baganda, nell’Uganda meridionale: nasce la chiesa ugandese in un battesimo di sangue: negli anni 1885-87 vengono uccisi oltre 80 cristiani; 22 di essi, arsi vivi insieme a un gruppo di fratelli protestanti, saranno canonizzati nel 1964. Sono i primi martiri della chiesa africana dei tempi modei.
Nel 1839 il lazzarista Agostino de Jacobis entra clandestinamente in Etiopia; tra infinite persecuzioni da parte del clero copto pone le basi della chiesa cattolica in Abissinia. Nel 1846 un altro grande missionario, il cappuccino Guglielmo Massaia evangelizza i galla, nel sud del paese. La loro opera sarà continuata dai lazzaristi e cappuccini francesi, ai quali si uniranno i missionari della Consolata.
Nel 1850, sfidando l’opposizione calvinista, gli Oblati di Maria Immacolata iniziano l’evangelizzazione degli zulu e sotho del Sudafrica. Nel 1880 arrivano i missionari di Mariannhill. Nello stesso anno la prima missione dei verbiti tedeschi in Namibia è distrutta dai protestanti.
Nel 1879 Propaganda affida ai gesuiti la missione nella regione della Zambesia. Negli anni seguenti i padri bianchi creano la missione del lago Niassa; una parte del vicariato sarà affidato ai monfortani.
Nel 1887 i padri belgi di Scheut gettano le basi cristiane nel Congo, sacrificando il 30% dei missionari.
Nel 1890 mons. Le Roy, della congregazione dello Spirito Santo, celebra la prima messa alle pendici del Kilimangiaro, a 3.600 metri di altitudine. È il primo annuncio del vangelo in Kenya. Dodici anni dopo arrivano i missionari della Consolata, seguiti dai padri di Mill Hill.
Siamo ormai in piena colonizzazione dell’Africa, sanzionata dalla Conferenza di Berlino (1885). L’evangelizzazione è in qualche modo condizionata dalla politica delle potenze coloniali; al tempo stesso ne è favorita, come in una specie di pax romana, che consente di estendere l’evangelizzazione a tutta l’Africa. Nel 1920 vi lavorano 31 istituti religiosi maschili, 14 dei quali nuovi di zecca, 24 istituti femminili e quasi 10 mila catechisti locali.
Salvo il periodo della seconda guerra mondiale, l’evangelizzazione continua la sua accelerazione per tutto il secolo XX. Nascono le chiese locali con vescovi e clero indigeno; inizia quel processo di inculturazione che deve sviluppare una chiesa cristiana e africana al tempo stesso. Soprattutto gli africani cominciano a diventare missionari di se stessi.

Asia: continente di martiri

A lll’inizio del XIX secolo la chiesa cinese vive ancora in clandestinità; le persecuzioni fanno molti martiri: nel 1815 mons. Dufresse, vicario apostolico di Seciun, è decapitato, 4 preti cinesi strangolati, due muoiono in prigione; nell’Honan i padri Clet e Giovanni di Triora subiscono la stessa sorte (1820); nel 1840 padre Gabriele Perboyre muore crocifisso e strangolato.
Ritorna un po’ di pace quando le potenze europee costringono gli imperatori della Cina a firmare trattati e convenzioni diplomatiche. In pochi anni da tutta l’Europa arrivano centinaia di missionari, che fanno a gara nel costruire ospedali, scuole, seminari e università. Ma le persecuzioni non si placano. Altri missionari sono vittime di guerre civili e rigurgiti xenofobi: i padri Chapdelaine (1856) e Néel (1862) sono massacrati insieme a molti cristiani. Nel 1900 la società segreta dei boxers fa strage di circa 300 mila stranieri, tra i quali una cinquantina di missionari, e di 30 mila cristiani, un centinaio dei quali preti e religiose: 86 di essi (66 cinesi e 20 missionari stranieri) saranno beatificati tra il 1946 e il 1955.
Le persecuzioni aprono gli occhi ai missionari: non si può predicare il vangelo all’ombra delle bandiere europee; bisogna «farsi cinesi coi cinesi». E fanno pressione su Roma, perché riveda le sue posizioni: 6 diocesi e vicariati sono affidate ai cinesi (1926); si ridiscute la questione dei riti e la proibizione viene revocata (1939). «Decolonizzazione» della chiesa e sangue dei martiri fanno esplodere l’evangelizzazione: i 720 mila fedeli del 1900 diventano un milione e mezzo nel 1912, due e mezzo nel 1930, quattro nel 1949; così pure i preti: in mezzo secolo passano da 1.375 (400 cinesi) a 5.725, oltre la metà dei quali sono cinesi.
Negli ultimi 50 anni la chiesa è ridotta di nuovo al silenzio dal regime comunista; entra in clandestinità e continua a scrivere la storia dell’evangelizzazione con lacrime e sangue: oggi la popolazione cattolica è più che triplicata (circa 10 milioni); i seminari ufficiali e clandestini sono pieni di persone che vogliono consacrarsi a Dio e alla missione.

Anche in Vietnam la missione si sposa col martirio. Fino al 1800, oltre 30 mila cristiani hanno perso la vita a causa della fede. Il nuovo secolo si apre con i migliori auspici, nonostante la penuria di missionari. Ma a partire dal 1833 esplode un’altra persecuzione: le chiese vengono distrutte; vescovi e missionari sbattuti in prigione, dove alcuni vi muoiono di stenti, altri ne escono per essere decapitati o strangolati. I cristiani sono obbligati a calpestare il crocifisso: le loro teste cadono a decine di migliaia.
Un altro periodo di tolleranza. Ma nel 1857 il massacro riprende più violento e continua per una trentina d’anni: 115 preti e 100 mila cristiani vietnamiti muoiono per la fede. Di queste schiere di martiri, 117 vengono canonizzati nel 1988.
In mezzo secolo di pax gallica (il Vietnam diventa protettorato francese) l’evangelizzazione riprende col solito slancio. Dopo la prima guerra mondiale arrivano numerosi missionari e missionarie di paesi e congregazioni differenti; si moltiplicano le opere di carità e promozione umana; fioriscono le congregazioni religiose locali, comprese quelle di vita contemplativa; la chiesa è vietnamizzata.
Ma una serie di guerre coloniali, sfociate nell’occupazione comunista su tutto il paese, frenano nuovamente l’espansione missionaria. Eppure il numero dei candidati al sacerdozio è migliaia di volte superiore a quello ammesso dal governo nei seminari autorizzati. Invece di essere un ostacolo, la persecuzione sta divenendo un’occasione per far scoprire ai giovani nuove forme (laicali) di consacrazione, più facili a sfuggire il controllo governativo e più incisive e capillari per la testimonianza e l’evangelizzazione del paese.

Negli ultimi due secoli l’evangelizzazione ha raggiunto tutte le nazioni asiatiche. I cattolici in Asia aumentano del 4,5% l’anno, superando i 101 milioni. Su 3,4 miliardi di asiatici essi sono una minoranza, ma viva e dinamica.
Tirando le somme della storia, si può affermare che la chiesa in Asia è quella che ha dato più martiri in assoluto: oltre 300 mila in Vietnam nel secolo XIX; almeno 30 mila in Cina, durante la rivoluzione dei boxers (1900) e un numero incalcolabile nei 50 anni di dittatura comunista; decine di migliaia in Corea tra il 1801-83; aggiungendo le schiere di martiri sotto la persecuzione islamica di tartari e turchi e quelli del Giappone, l’esercito supera il milione.
Il numero dei martiri continua a crescere ogni anno in varie parti dell’Asia: Filippine, Timor Est, Indonesia, India per citare gli esempi più clamorosi, dove i cristiani sono perseguitati e uccisi per la loro fedeltà ai valori del vangelo.

Il vangelo in Australia e Oceania

N el XIX secolo viene aperto un campo nuovo per l’evangelizzazione: il continente australiano e quel pulviscolo di isole chiamato Oceania, che si estende per decine di migliaia di chilometri nell’immenso Oceano Pacifico. Favoriti dalla supremazia marittima inglese, i protestanti vi lavorano da alcuni decenni, quando arrivano i primi missionari cattolici; ma recuperano subito il tempo perduto con profusione di sudore, lacrime e sangue.
Tra difficoltà enormi, dovute alle distanze incolmabili, isolamento, mancanza di comunicazione, clima malarico, ostilità degli indigeni, lingue e culture diversissime, concorrenza protestante e ostacoli frapposti dalle varie autorità coloniali, i missionari scrivono pagine d’oro nella storia dell’evangelizzazione. Nell’impossibilità di leggerle tutte, ne sfogliamo alcune tra le più esaltanti.

Appena diventata possedimento inglese (1787), l’Australia è usata come colonia penitenziale per condannati politici, un terzo dei quali sono cattolici. Tra i confinati, un giorno arrivano tre preti irlandesi. Uno di essi, James Dixon, ottiene di fare il cappellano del penitenziario: il 5 maggio 1803 viene celebrata la prima messa con un calice di stagno. Rimpatriati i tre irlandesi, per 30 anni il continente rimane riserva di caccia degli anglicani, interdetto ai preti «papisti».
Nel 1819 Roma invia il cistercense Geremia O’Flynn come prefetto apostolico dell’Australia e Tasmania. Dopo poco tempo di lavoro clandestino, il missionario è scoperto, inteato e rispedito al mittente. La notizia fa scandalo. Il parlamento londinese consente che due preti si prendano cura dei cattolici dell’isola. Nel 1829 viene proclamata la libertà religiosa. Ma solo nel 1834, il benedettino inglese mons. Béde Polding può stabilirsi nel vicariato; otto anni dopo diventerà arcivescovo di Sydney.
In coincidenza con un forte flusso migratorio, attirato dalla scoperta delle miniere d’oro, arrivano maristi e benedettini francesi. La popolazione cattolica si fa sempre più consistente. In 30 anni vengono create una decina di diocesi. Nasce una chiesa con caratteri europei. Parecchi missionari cercano di evangelizzare gli aborigeni; ma, per oltre un secolo, i risultati non sono entusiasmanti.

Più incoraggiante, ma non meno difficile, si presenta l’evangelizzazione degli indigeni sparpagliati negli innumerevoli arcipelaghi dell’Oceano Pacifico. Nel 1827 i missionari di Picpus arrivano nelle Hawaii, l’arcipelago settentrionale della Polinesia. Dopo quattro anni di concorrenza con i fratelli protestanti, sono presi e sbarcati sulla costa della Califoia con due bottiglie d’acqua. Toano nel 1837. Dalla Francia partono nuovi rinforzi, ma la nave è inghiottita dall’oceano insieme a 7 preti, 7 fratelli, 10 suore e lo stesso vicario apostolico.
Arrivano altre congregazioni religiose e l’evangelizzazione procede più speditamente. Il più famoso dei missionari di Picpus è padre Damiano, l’apostolo dei lebbrosi dell’isola di Molokai.
Un secondo fronte dei padri di Picpus è aperto nella Polinesia meridionale. Nel 1833 si stabiliscono nelle isole Gambier, abitate da cannibali, terrore dei naviganti. I missionari vi ottengono grandi successi: nel 1835 si contano già 4 mila battezzati. Nelle isole Marchesi, invece, la lotta contro cannibalismo, idolatria e poligamia dura oltre un secolo: nel 1950 tutta la popolazione dell’arcipelago è cattolica.
Non meno faticosa è l’evangelizzazione di Tahiti, l’isola più importante dell’arcipelago polinesiano: più volte cacciati dagli intrallazzi tra protestanti e autorità francesi, i missionari di Picpus riescono a spuntarla ed estendono gradualmente l’evangelizzazione alle isole circostanti.

Nel 1838 i maristi arrivano nella Polinesia. Li guida mons. Pompallier, che si stabilisce nella Nuova Zelanda. La comunità cattolica è costituita da coloni irlandesi; ma è subito avviata l’evangelizzazione dei maori. Intanto padre Battaion converte tutta l’isola di Wallis e Francesca Perron, laica missionaria, getta le basi di una congregazione femminile locale. Pietro Chanel lavora per tre anni nell’isola Futuna, finché viene martirizzato (1841). Due anni dopo tutti gli isolani diventano cristiani.
Nel 1842 i maristi raggiungono le isole della Tonga; l’anno seguente la Nuova Caledonia, dove fratel Biagio Marmoiton viene massacrato; un anno dopo le Figi; nel 1845 Samoa. Per 40 anni i pionieri subiscono un martirio incruento: navigano senza posa da un’isola all’altra, piantando croci e nulla più. Nel 1902 nell’arcipelago ci sono solo 3 mila battezzati; 50 anni dopo sono quasi 30 mila e i preti indigeni evangelizzano altre isole dell’Oceania.

Nel 1844 Roma affida ai maristi anche la Micronesia. Mons. Epalle approda con 7 preti e 6 fratelli nelle isole Salomone. Appena sbarcati, il vescovo viene assassinato; 4 missionari sono divorati dai cannibali; gli altri si salvano con la fuga. Il vicariato passa ai missionari italiani del Pime, ma i risultati non cambiano: Giovanni Mazzucconi viene ucciso nell’isola di Woodlark (1855). Solo nel 1898 l’evangelizzazione delle isole Salomone riprende con i maristi, aiutati da catechisti indigeni delle isole Figi e Samoa.
Nel 1881 Propaganda affida ai missionari del Sacro cuore di Issoudun le grandi isole della Nuova Guinea o Papuasia e gli arcipelaghi adiacenti. Qui l’evangelizzazione procede più speditamente che altrove.

Agli inizi del XX secolo, fatta eccezione per la Papuasia, tutto il quinto continente è convertito al cristianesimo dalle varie confessioni. Ai pionieri del secolo precedente (maristi, cappuccini, padri di Picpus e d’Issoudun, verbiti, Pime, ecc.) si è aggiunta un’incalcolabile schiera di missionari di varie congregazioni: gesuiti, Mill Hill, pallottini, salesiani, passionisti, monfortani, francescani, preti diocesani, congregazioni di fratelli e molte congregazioni religiose.
Ne è nata una chiesa ricca di risorse locali (clero, religiosi e religiose, laici impegnati), con una storia di santità e sangue, non solo «straniero»: Peter To Rot, catechista in Papua Nuova Guinea, avvelenato a 33 anni, e Mary MacKillop, suora australiana, fondatrice della congregazione di San Giuseppe e del Sacro Cuore, beatificati nel 1995.

I GRANDI MISSIONARI

Guglielmo Massaia (1809-1889). Cappuccino, nel 1846 è vicario apostolico dei galla (Etiopia). Peripezie, persecuzioni e successi sono raccontati nei 12 volumi de «I miei 35 anni di missione nell’Alta Etiopia». Cardinale nel 1884.

Agostino de Jacobis (1800-1860). Lazzarista, vicario apostolico dell’Abissinia (1839), è consacrato vescovo dal Massaia (1849). Apostolo infaticabile è maestro di missionari, affronta enormi fatiche, sacrifici e persecuzioni. Beatificato nel 1935.

Giuseppe Faraud (1823-1890). Oblato di Maria Immacolata, primo vicario apostolico del Mackenzie, sviluppa e consolida le missioni tra i montagnesi del nord-ovest canadese.

Melchior de Marion Bresillac (1813-1859). Prete delle Missioni estere, è inviato in India nel 1842 e diventa vescovo di Coimbatur. Nel 1856 fonda la Società per le missioni africane (Sma) e parte per la Sierra Leone, dove muore di febbre gialla.
Damiano de Veuster (1840-1889). Della congregazione dei Sacri Cuori, a 23 anni parte per le Hawaii, si mette a servizio dei lebbrosi e muore consumato dalla carità e dalla lebbra. Beatificato nel 1995

Pier Luigi Maria Chanel (1803-1843). Marista, martirizzato nell’isola di Futuna (Oceania). Canonizzato nel 1954.

Giovanni Cagliero (1838-1926). Salesiano, in Argentina nel 1875, evangelizza la Patagonia. Nel 1904 è delegato apostolico in Costarica, Nicaragua e Honduras. Cardinale nel 1915.

Charles Lavigerie (1825-1892). Vescovo di Nancy, poi di Algeri (1867), fonda i missionari e missionarie per l’Africa (padri bianchi e suore bianche). Amico dei musulmani, difensore degli schiavi, apostolo degli africani, formatore di apostoli.

Daniele Comboni (1831-1881). Prefetto apostolico di Karthum, fondatore dei missionari per l’Africa e pie madri della Nigrizia. Combatte la schiavitù e promuove il clero locale per «salvare l’Africa con l’Africa». Proclamato beato nel 1996.

Gabriele Leperbiyre (1802-1840). Lazzarista, in Cina dal 1835. Tradimento, arresto, giorno e ora della morte in croce lo avvicinano alla passione di Cristo. Canonizzato nel 1996.

Simeone Lourdel (1835-1890). Padre bianco, primo missionario in Uganda, formatore di martiri, è venerato dagli ugandesi come loro «padre nella fede».

Giovanni Mazzucconi (1826-1855). Missionario del Pime in Oceania: viene trucidato, dopo soli tre anni di apostolato, nell’isola di Woodlark. Beatificato nel 1984.

Teofano Venard (1829-1861). Delle Missioni estere, apostolo del Tonchino: martirizzato nel 1861 e beatificato nel 1909.

Pierre-Jean de Smet (1801-1873). Gesuita belga, missionario tra gli indiani degli Stati Uniti, ne difende i diritti contro le invasioni e gli stermini operati dai bianchi.

MISSIONE AL FEMMINILE

La storia missionaria del XIX-XX secolo è più che mai tinta di rosa. Le figure che presentiamo sono solo un simbolo delle migliaia di donne che hanno dato la vita nell’eroica testimonianza di amore e santità.

Anne Marie Javouhey (1779-1851). A 15 anni nasconde i preti «non giurati». Nel 1806 fonda le suore di San Giuseppe di Cluny e nel 1817 le invia in Senegal e Réunion. Missionaria in Senegal e Guinea, si spende nell’aiutare gli africani. Re Luigi Filippo la definisce «un grande uomo». Beatificata nel 1950.

Filippina Duchesne (1769-1852). Durante la rivoluzione aiuta prigionieri, malati e moribondi. Entrata nella Società del Sacro Cuore, nel 1818 parte per il Missouri (Usa), fonda conventi e scuole per bianchi, neri e indiani. Beatificata nel 1940.

Teresa di Gesù (1873-1897). Carmelitana di Lisieux. Offre la sua breve vita per i missionari. Patrona delle missioni.

Francesca Saverio Cabrini (1850-1917). Fondatrice delle missionarie del Sacro Cuore, sogna la Cina. Leone XIII le indica gli emigrati italiani in America. Raggiunge gli Usa nel 1889; dissemina nelle tre Americhe 67 case religiose, innumerevoli scuole, ospedali, collegi, orfanotrofi, laboratori, ospizi per anziani. Canonizzata nel 1952, è patrona degli emigranti.

Katherine Drexel (1858-1955). Fondatrice delle suore del Santo Sacramento, spende la vita per l’integrazione di neri e indiani nella società Usa, fondando per loro scuole e l’università «Saverio» di New Orleans. Canonizzata nel 2000.




Il fratello del nonno

Spettabile redazione,
intendo abbonarmi a Missioni Consolata. Il fratello del nonno materno fu un vostro missionario in Kenya ed Etiopia negli anni ’30. Si chiamava padre Giuseppe Dogliani e venne fucilato dai tedeschi in Val Casotto (CN) nel marzo del 1944, dopo essere stato cappellano degli alpini in Russia.

Probabilmente la nostra rivista era già presente nella famiglia del missionario in Kenya ed Etiopia. Poi la «corrente» si è interrotta… Come ci piacerebbe, signor Emilio, che altre persone seguissero il suo esempio! Missioni Consolata è «la rivista missionaria della famiglia», anche perché passa di padre in figlio, da nonno a nipote.
Una tradizione da conservare.

Emilio Cappa