Quando le genti non balbettano più

Qual è per la chiesa l’eredità più ricca del secolo appena trascorso?
Senz’altro il Concilio ecumenico Vaticano II.
Il Concilio è una grazia anche per il 2000.
«Missioni Consolata»
ne ricorda il decreto sull’attività missionaria,
aggiornato da altri significativi documenti.
E sorge spontanea
la domanda:
dopo 35 anni
di «Ad gentes»,
i missionari
sono in crescita?

R icordo ancora il libro di Piero Gheddo Concilio e terzo mondo del 1964. Dal titolo se ne intuiva già il contenuto; ma più espliciti erano la copertina e il suo retro, che riportavano foto di vescovi e cardinali provenienti soprattutto dal sud del mondo. Così pure la «seconda» e la «terza» di copertina. Complessivamente si contavano 30 prelati con tricorno, zucchetto, colbacco, fez o altri copricapo.
Il libro attirò la mia attenzione anche perché, tra le foto, spiccava quella di Carlo Cavallera, missionario della Consolata, vescovo sui verdi altopiani di Nyeri e, poi, nel deserto di Marsabit (Kenya). Con lui trascorsi alcuni mesi a Roma durante il Concilio ecumenico Vaticano II.
«Nell’aula conciliare – confidò un giorno monsignor Cavallera – c’è battaglia tra noi missionari e gli altri vescovi: vogliono liquidare in fretta il problema delle missioni, facendone un’appendice di qualche altro tema. Ma noi insistiamo per un documento a parte, perché il futuro della chiesa si gioca soprattutto nel terzo mondo. Eppoi: la chiesa è o non è missionaria?».
Vinsero la battaglia i padri conciliari missionari, ma sul filo di lana. Ecco perché il decreto su «l’attività missionaria della chiesa» fu approvato «in zona Cesarini», cioè il 7 dicembre 1965, ad un solo giorno dalla chiusura del Concilio.
Barbari, pagani e Genti
Il documento sulle missioni è noto come «Ad gentes», le due parole latine di inizio: un’espressione che si è imposta specialmente fra i missionari. «Ad gentes» significa «alle genti».
E chi sono le «genti»? Il termine ricorre nelle lettere di san Paolo, che si definisce «apostolo delle genti», mentre san Pietro è «apostolo dei giudei» (cfr. Gal 2, 8). Nella concezione di Israele, «popolo eletto», l’umanità è divisa in «ebrei» e «genti».
Esisteva anche un’altra distinzione: «greci» e «barbari». Questa era etnocentrica: esprimeva un giudizio tutt’altro che positivo sui «barbari». Infatti barbaròs, secondo l’etimologia greca, era colui che (parlando una lingua straniera) balbettava; significava pure rozzo, incivile e crudele.
«Genti», invece, era un termine neutro e, forse, più rispettoso sotto il profilo culturale; ma non nella valutazione dell’ebraismo, perché «le genti» praticavano l’idolatria, sinonimo di peccato… Fu un merito di san Paolo, il più grande missionario di tutti i tempi, l’essersi dedicato all’evangelizzazione dei «non ebrei» e avere imposto alla chiesa nascente l’apertura a tutti i popoli.
Accanto a «genti» e «barbari», ricorreva anche «pagani». Era una parola innocua: definiva semplicemente gli abitanti dei villaggi di campagna. Ma, a partire dal quarto secolo, «pagani» assunse un significato negativo, in contrapposizione a «cristiani». Il messale romano, edito dal papa Pio V e riformato da Pio X, conteneva una Missa contra paganos, in cui si invocava Dio «affinché i popoli pagani, che confidano nella loro ferocia, siano schiacciati».
Oggi, caduto l’uso di «pagani», resta quello di «gentes», che designa coloro a cui non è stato annunciato il vangelo. È da sottolineare l’«ad» gentes. La preposizione ad significa «verso»: suggerisce attenzione, disponibilità e comprensione verso i popoli da evangelizzare.
Dunque: non «contra», ma «ad» gentes.
«Sembra strano (però ce lo dobbiamo pur dire) – commentava a Torino il cardinale Anastasio Ballestrero – che qualche volta facciamo i missionari con spirito di conquista, di dominio, per contare le nostre vittorie e i nostri trionfi».
Al contrario, la chiesa non deve mirare ad ambizioni politiche, sociali o religiose; non è mandata per giudicare, ma per salvare e servire.
Non basta un tocco
di vernice
Già prima del Concilio ecumenico Vaticano II, alcuni missionari illuminati avevano parlato di «adattamento» alle culture dei popoli. Poi il decreto Ad gentes ha richiesto che, nei paesi di missione, la vita cristiana fosse «commisurata al genio e all’indole di ogni civiltà» (n. 22). Si è auspicato un cristianesimo più rispettoso delle culture: quindi adattato nello stile delle chiese e nelle celebrazioni liturgiche, con la valorizzazione di canti, ritmi e danze locali. Ma era un modo di evangelizzare ancora superficiale.
Pertanto dall’«adattamento» si è passati all’«inculturazione», cioè all’incarnazione del messaggio evangelico in una cultura non cristiana e non europea. È un problema complesso. Ci si dibatte tutt’oggi.
Il nocciolo della questione è il seguente: l’accoglienza del vangelo deve sfociare nella nascita di nuove espressioni cristiane. Ebbene: sono state composte orazioni eucaristiche particolari e manuali di preghiere che accolgono elementi tradizionali. Ma non basta. Si richiedono elaborazioni teologiche «dal» sud del mondo.
Incombe però un rischio: quello del miscuglio, della confusione, del sincretismo. Ciò crea sconcerto e (fatto assai più negativo) divisione. Ecco perché nell’esortazione apostolica del 1975, Evangelii nuntiandi, Paolo VI insistette sull’evangelizzazione delle culture: «Occorre evangelizzare, non in modo decorativo, a somiglianza di vernice superficiale, la cultura e le culture dell’uomo, partendo dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (n. 20).
Tuttavia i pericoli, insiti talora nelle novità, non devono comportare il riflusso verso posizioni teologiche stantie. Si camminerebbe fuori della storia. Il servizio dell’evangelizzazione deve continuare con coraggio, «anche quando bisogna seminare nelle lacrime». Parole di Paolo VI.
un «Ad gentes» in crescendo
Il decreto sull’attività missionaria della chiesa Ad gentes è da completarsi con altri documenti conciliari: specialmente la costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium, il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, la dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis umanae, la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes.
Sono testi che sollevano problemi cruciali per il missionario: si pensi alla Nostra aetate nel contesto del Sudan, dove i cristiani sono perseguitati dal regime islamico. Anche il rapporto con il fondamentalismo induista è spigoloso. Giovanni Paolo II l’ha sperimentato nel suo recente viaggio in India.
Traumatico per alcuni missionari (che fino a ieri predicavano che «fuori della chiesa non c’è salvezza») può essere il tema della libertà religiosa. Al che il cardinale Ballestrero rilevava: «Purtroppo i pavidi che rifiutano quel testo ci sono ancora, eppure esso è intriso dell’audacia dello Spirito e va letto in questa prospettiva e con questa sensibilità. La chiesa, proprio perché missionaria, non è mai sulla difensiva e non deve esserlo. Non siamo mandati a difendere una cittadella, ma a servire il mondo con il messaggio della parola che salva».
Il messaggio del Concilio sull’Ad gentes va aggiornato pure con i successivi documenti che ne sviluppano i problemi. Ho già ricordato l’Evangelii nuntiandi.
Nel 1967 appariva l’enciclica Populorum progressio. In essa Paolo VI sottolineava lo sviluppo integrale di tutto l’uomo come un aspetto fondamentale dell’evangelizzazione. Inoltre il documento sensibilizzava i cristiani sui problemi nel sud del mondo e stimolava la solidarietà verso i fratelli impoveriti da poteri nazionali e inteazionali.
L’ultima charta magna sull’evangelizzazione dei popoli è l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio (1990). Ha riaffermato l’urgenza della missione ad gentes, anche di fronte alla penuria di vocazioni sacerdotali in Europa. Però il problema della scarsità di sacerdoti non si supera chiudendo i cancelli delle diocesi, affinché nessun prete «scappi».
«La fede (in crisi) si rafforza donandola» (n. 2).
N el 1976, ritornato in Italia dalla missione in Tanzania, mi capitò tra mano una rivista missionaria, di cui non ricordo la testata. Mi colpì, come nel libro di Gheddo, la copertina: ritraeva un ragazzo che scriveva sulla lavagna: «Anch’io sono missionario».
Da questa affermazione, in perfetta sintonia con l’Ad gentes del Vaticano II, ci si sarebbe aspettati una crescita di vocazioni missionarie. Ma la dichiarazione del ragazzo è stata «una» rondine che… non fa primavera. In compenso, sono cresciuti i laici impegnati. Gli istituti missionari (che lamentano la mancanza di vocazioni) non dovrebbero forse fare i conti con i volontari, ripensando i propri comportamenti e regole? Però i laici, missionari part time, non sostituiscono gli evangelizzatori full time.
Allora «udii la voce del Signore che diceva: “Chi invierò? E chi andrà?…”. Io risposi: “Eccomi, manda me”» (Is 6, 8-9).

Francesco Beardi




Tutti in gara nel mondo

Bloccata dalla rivoluzione francese,
l’evangelizzazione riprende con slancio mai visto prima.
È arrivato finalmente il tempo di evangelizzare l’Africa,
l’Australia e i più sperduti arcipelaghi dell’Oceano Pacifico.
Tutta la chiesa è mobilitata, papi e vescovi,
religiosi di antica e nuova istituzione, preti e laici.
I laici, soprattutto, uomini e donne senza frontiere,
costituiscono la grande novità della missione.
Un’altra sorpresa: i popoli evangelizzati
cominciano a diventare evangelizzatori.

Cattolica, cioè universale

Mentre i vescovi francesi si piangono addosso, recriminando sui 25 anni di rivoluzione e d’impero, e parlano di «missione intea», i semplici fedeli sono pervasi da un contagioso slancio missionario. Ogni sera migliaia di famiglie si raccolgono attorno al fuoco per leggere le Lettere edificanti e curiose di Chateaubriand: un libro di racconti missionari ristampato per tre volte tra il 1803 e il 1824. Altrettanto successo riscuotono le Nuove letture edificanti delle missioni della Cina e delle Indie, pubblicate dalle Missioni estere di Parigi.
Simbolo di tale fervore missionario è una ventenne lionese, Paolina Jaricot, che spende la sua vita per raccogliere preghiere e aiuti finanziari per i missionari, dando vita a un’associazione che nel 1822 si chiamerà «Opera della propagazione della fede». Le pubblicazioni di tale associazione si diffondono in tutta la Francia e dilagano in Svizzera, Italia, Germania, Inghilterra. Altri organismi del genere sorgono con lo scopo di coinvolgere nell’evangelizzazione tutto il popolo cristiano: l’Opera di Pietro Apostolo (1889) raccoglie fondi per sostenere e formare il clero indigeno; l’Opera dell’infanzia missionaria è aperta a tutti i fanciulli cristiani, perché siano educati allo spirito missionario e alla solidarietà mondiale.
A tale zelo di retroguardia, si accompagna lo slancio di coloro che vogliono operare in prima fila. Dall’inizio del secolo XIX ai nostri giorni sono nate in tutto il mondo cattolico centinaia di famiglie religiose, maschili e femminili, esclusivamente orientate all’azione missionaria; mentre altrettante sono le congregazioni che, nate per rispondere ai problemi locali, aprono le porte verso i territori ancora in attesa dell’annuncio del vangelo. Nel XX secolo si moltiplicano le associazioni laicali e di volontariato, che si affiancano al lavoro missionario con opere di testimonianza cristiana e opere di solidarietà e promozione umana.
La rinascita della missione è ispirata e sostenuta dai grandi papi che si sono succeduti negli ultimi due secoli, a cominciare da Pio VII, che risuscita la Compagnia di Gesù (1814) e riorganizza Propaganda Fide (1817). Ma è con Gregorio XVI, il primo «papa missionario» che avviene il rilancio dell’evangelizzazione. Già prefetto di Propaganda quando era cardinale, il papa promuove un’evangelizzazione a tutto campo, con invio di missionari in tutti i continenti, moltiplicando vicariati e diocesi, istituendo i primi seminari per la formazione di sacerdoti indigeni.
I successori continuano sulla sua scia. Leone XIII scrive sei lettere missionarie. Le direttive papali più conosciute sulla missione sono le encicliche papali del XX secolo. Benedetto XV, nella Maximum illud (1919), presenta la missione come primo dovere della chiesa, ne rifiuta l’europeizzazione e ne reclama l’indipendenza. Nel 1926 Pio XI va ben oltre il suo predecessore, sia con la Rerum Ecclesiae, sia con l’ordinazione dei primi 6 vescovi cinesi, a cui seguiranno quelli giapponesi, indocinesi, africani. È un evento di portata storica, che segna l’avvento ufficiale degli «indigeni» alla guida delle chiese locali, la promozione civile dei popoli «di colore» e l’avvio spontaneo e giornioso della decolonizzazione, che decenni dopo le grandi potenze dovranno accettare per forza, costrette da guerre e rivolte.
L’enciclica Fidei donum (1957) di Pio XII ricorda ai vescovi del mondo che essi sono tutti responsabili dell’evangelizzazione e li invita a rispondere a tale responsabilità inviando i loro preti alle chiese più bisognose. Nasce un nuovo tipo di missionario: il sacerdote diocesano «Fidei donum» a servizio temporaneo e specifico delle missioni. Il concetto di missione si arricchisce di una nuova dimensione, diventando anche collaborazione e servizio reciproco tra chiese sorelle.
Il Concilio Vaticano II sancisce la nuova coscienza missionaria maturata nell’ultimo secolo: cioè l’evangelizzazione è un dovere di tutti i cristiani e di tutte le istituzioni ecclesiali. Le encicliche Evangelii nuntiandi (1975) di Paolo VI e la Redemptoris missio di Giovanni Paolo II sviluppano le idee del Concilio e legano definitivamente l’evangelizzazione alla promozione umana, dello sviluppo, della giustizia e della pace.

L’Africa diventa cristiana

Un giorno del 1800, Anna Maria Javouhey vede la sua camera affollarsi di faccette nere imploranti aiuto. La visione non si cancellerà mai più dalla memoria. Fonda le suore di San Giuseppe di Cluny; nel 1817 ne manda alcune in Senegal; poi essa stessa le raggiunge: con sorpresa, riconosce per le strade di Saint Luis le stesse facce sognate 22 anni prima.
Così ricomincia la storia dell’evangelizzazione in Africa. Madre Javouhey lotta con coraggio contro i bianchi che calpestano i diritti degli africani. «I neri – scrive – sono buoni, semplici e non hanno altra malizia se non quella imparata dai bianchi». Fonda scuole in Senegal e Guinea e si adopera per la formazione del clero indigeno. Nel 1840 ha la gioia di assistere all’ordinazione di tre preti senegalesi.
Nella stessa direzione si muove Francesco Libermann, anche se non metterà mai piede nelle missioni. Nel 1841 due creoli di Réunion gli parlano della triste situazione degli schiavi neri: rimane così sconvolto che mette subito mano alla fondazione della congregazione del Cuore Immacolato di Maria (confluita nel 1848 nella Società dello Spirito Santo) e comincia a inviare missionari a evangelizzare Guinea, Liberia, Sierra Leone e Gabon, combattere la schiavitù e formare il clero locale.
Le prime spedizioni sono un disastro: i missionari cadono come mosche, falciati da malaria e febbre gialla. «Non voglio mandare i miei figli al macello – si tortura padre Libermann -. Ma non posso abbandonare milioni di africani che non hanno mai sentito la buona notizia del Signore». Anche i missionari della Società delle Missioni Africane di Lione (Sma), guidati dallo stesso fondatore, mons. Marion de Brésillac, vicario apostolico della Sierra Leone, sono stroncati tutti dalla micidiale febbre gialla (1859).
Ma l’epopea missionaria continua, si estende alle isole dell’Oceano Indiano, si attesta lungo le coste orientali africane e penetra gradualmente nel cuore del continente. Un centinaio di missionari perdono la vita nel vicariato nell’Africa Centrale (dall’Egitto ai Grandi Laghi), finché Daniele Comboni progetta di «salvare l’Africa con gli africani», riavvia la missione nel Sudan (1872) e ne diventa il primo vescovo. Liberati schiavi e schiave, li coinvolge nel lavoro missionario; alcuni di essi diventano sacerdoti e religiosi.
Una ex schiava sudanese, Giuseppina Bakhita, diventerà religiosa e sarà beatificata nel 1992.
L’evangelizzazione di questa regione è segnata da persecuzione e martirio. Tra il 1882 e il 1889, nella bufera scatenata dal movimento messianico islamico del mahdismo, missionari e missionarie sono ridotti in schiavitù; molti catechisti e sacerdoti africani sono martirizzati. Ma l’opera missionaria continua; dal Sudan si estende all’Uganda.
Grande stratega dell’evangelizzazione è pure il cardinale Lavigerie, fondatore dei missionari per l’Africa (padri e suore bianche). Anche lui vuole «salvare l’Africa con gli africani». Invia i suoi missionari su due fronti; l’uno parte da Algeri, attraversa il deserto e penetra nelle regioni subsahariane. Dopo due spedizioni massacrate dai tuareg, i padri bianchi si attestano a Bamako e Tumbuctù (Mali).
L’altro fronte, nel 1878, da Bagamoyo (Tanzania) si dirige nella regione dei Grandi Laghi. Un gruppo di padri penetra nell’Alto Congo; un altro evangelizza il regno dei Baganda, nell’Uganda meridionale: nasce la chiesa ugandese in un battesimo di sangue: negli anni 1885-87 vengono uccisi oltre 80 cristiani; 22 di essi, arsi vivi insieme a un gruppo di fratelli protestanti, saranno canonizzati nel 1964. Sono i primi martiri della chiesa africana dei tempi modei.
Nel 1839 il lazzarista Agostino de Jacobis entra clandestinamente in Etiopia; tra infinite persecuzioni da parte del clero copto pone le basi della chiesa cattolica in Abissinia. Nel 1846 un altro grande missionario, il cappuccino Guglielmo Massaia evangelizza i galla, nel sud del paese. La loro opera sarà continuata dai lazzaristi e cappuccini francesi, ai quali si uniranno i missionari della Consolata.
Nel 1850, sfidando l’opposizione calvinista, gli Oblati di Maria Immacolata iniziano l’evangelizzazione degli zulu e sotho del Sudafrica. Nel 1880 arrivano i missionari di Mariannhill. Nello stesso anno la prima missione dei verbiti tedeschi in Namibia è distrutta dai protestanti.
Nel 1879 Propaganda affida ai gesuiti la missione nella regione della Zambesia. Negli anni seguenti i padri bianchi creano la missione del lago Niassa; una parte del vicariato sarà affidato ai monfortani.
Nel 1887 i padri belgi di Scheut gettano le basi cristiane nel Congo, sacrificando il 30% dei missionari.
Nel 1890 mons. Le Roy, della congregazione dello Spirito Santo, celebra la prima messa alle pendici del Kilimangiaro, a 3.600 metri di altitudine. È il primo annuncio del vangelo in Kenya. Dodici anni dopo arrivano i missionari della Consolata, seguiti dai padri di Mill Hill.
Siamo ormai in piena colonizzazione dell’Africa, sanzionata dalla Conferenza di Berlino (1885). L’evangelizzazione è in qualche modo condizionata dalla politica delle potenze coloniali; al tempo stesso ne è favorita, come in una specie di pax romana, che consente di estendere l’evangelizzazione a tutta l’Africa. Nel 1920 vi lavorano 31 istituti religiosi maschili, 14 dei quali nuovi di zecca, 24 istituti femminili e quasi 10 mila catechisti locali.
Salvo il periodo della seconda guerra mondiale, l’evangelizzazione continua la sua accelerazione per tutto il secolo XX. Nascono le chiese locali con vescovi e clero indigeno; inizia quel processo di inculturazione che deve sviluppare una chiesa cristiana e africana al tempo stesso. Soprattutto gli africani cominciano a diventare missionari di se stessi.

Asia: continente di martiri

A lll’inizio del XIX secolo la chiesa cinese vive ancora in clandestinità; le persecuzioni fanno molti martiri: nel 1815 mons. Dufresse, vicario apostolico di Seciun, è decapitato, 4 preti cinesi strangolati, due muoiono in prigione; nell’Honan i padri Clet e Giovanni di Triora subiscono la stessa sorte (1820); nel 1840 padre Gabriele Perboyre muore crocifisso e strangolato.
Ritorna un po’ di pace quando le potenze europee costringono gli imperatori della Cina a firmare trattati e convenzioni diplomatiche. In pochi anni da tutta l’Europa arrivano centinaia di missionari, che fanno a gara nel costruire ospedali, scuole, seminari e università. Ma le persecuzioni non si placano. Altri missionari sono vittime di guerre civili e rigurgiti xenofobi: i padri Chapdelaine (1856) e Néel (1862) sono massacrati insieme a molti cristiani. Nel 1900 la società segreta dei boxers fa strage di circa 300 mila stranieri, tra i quali una cinquantina di missionari, e di 30 mila cristiani, un centinaio dei quali preti e religiose: 86 di essi (66 cinesi e 20 missionari stranieri) saranno beatificati tra il 1946 e il 1955.
Le persecuzioni aprono gli occhi ai missionari: non si può predicare il vangelo all’ombra delle bandiere europee; bisogna «farsi cinesi coi cinesi». E fanno pressione su Roma, perché riveda le sue posizioni: 6 diocesi e vicariati sono affidate ai cinesi (1926); si ridiscute la questione dei riti e la proibizione viene revocata (1939). «Decolonizzazione» della chiesa e sangue dei martiri fanno esplodere l’evangelizzazione: i 720 mila fedeli del 1900 diventano un milione e mezzo nel 1912, due e mezzo nel 1930, quattro nel 1949; così pure i preti: in mezzo secolo passano da 1.375 (400 cinesi) a 5.725, oltre la metà dei quali sono cinesi.
Negli ultimi 50 anni la chiesa è ridotta di nuovo al silenzio dal regime comunista; entra in clandestinità e continua a scrivere la storia dell’evangelizzazione con lacrime e sangue: oggi la popolazione cattolica è più che triplicata (circa 10 milioni); i seminari ufficiali e clandestini sono pieni di persone che vogliono consacrarsi a Dio e alla missione.

Anche in Vietnam la missione si sposa col martirio. Fino al 1800, oltre 30 mila cristiani hanno perso la vita a causa della fede. Il nuovo secolo si apre con i migliori auspici, nonostante la penuria di missionari. Ma a partire dal 1833 esplode un’altra persecuzione: le chiese vengono distrutte; vescovi e missionari sbattuti in prigione, dove alcuni vi muoiono di stenti, altri ne escono per essere decapitati o strangolati. I cristiani sono obbligati a calpestare il crocifisso: le loro teste cadono a decine di migliaia.
Un altro periodo di tolleranza. Ma nel 1857 il massacro riprende più violento e continua per una trentina d’anni: 115 preti e 100 mila cristiani vietnamiti muoiono per la fede. Di queste schiere di martiri, 117 vengono canonizzati nel 1988.
In mezzo secolo di pax gallica (il Vietnam diventa protettorato francese) l’evangelizzazione riprende col solito slancio. Dopo la prima guerra mondiale arrivano numerosi missionari e missionarie di paesi e congregazioni differenti; si moltiplicano le opere di carità e promozione umana; fioriscono le congregazioni religiose locali, comprese quelle di vita contemplativa; la chiesa è vietnamizzata.
Ma una serie di guerre coloniali, sfociate nell’occupazione comunista su tutto il paese, frenano nuovamente l’espansione missionaria. Eppure il numero dei candidati al sacerdozio è migliaia di volte superiore a quello ammesso dal governo nei seminari autorizzati. Invece di essere un ostacolo, la persecuzione sta divenendo un’occasione per far scoprire ai giovani nuove forme (laicali) di consacrazione, più facili a sfuggire il controllo governativo e più incisive e capillari per la testimonianza e l’evangelizzazione del paese.

Negli ultimi due secoli l’evangelizzazione ha raggiunto tutte le nazioni asiatiche. I cattolici in Asia aumentano del 4,5% l’anno, superando i 101 milioni. Su 3,4 miliardi di asiatici essi sono una minoranza, ma viva e dinamica.
Tirando le somme della storia, si può affermare che la chiesa in Asia è quella che ha dato più martiri in assoluto: oltre 300 mila in Vietnam nel secolo XIX; almeno 30 mila in Cina, durante la rivoluzione dei boxers (1900) e un numero incalcolabile nei 50 anni di dittatura comunista; decine di migliaia in Corea tra il 1801-83; aggiungendo le schiere di martiri sotto la persecuzione islamica di tartari e turchi e quelli del Giappone, l’esercito supera il milione.
Il numero dei martiri continua a crescere ogni anno in varie parti dell’Asia: Filippine, Timor Est, Indonesia, India per citare gli esempi più clamorosi, dove i cristiani sono perseguitati e uccisi per la loro fedeltà ai valori del vangelo.

Il vangelo in Australia e Oceania

N el XIX secolo viene aperto un campo nuovo per l’evangelizzazione: il continente australiano e quel pulviscolo di isole chiamato Oceania, che si estende per decine di migliaia di chilometri nell’immenso Oceano Pacifico. Favoriti dalla supremazia marittima inglese, i protestanti vi lavorano da alcuni decenni, quando arrivano i primi missionari cattolici; ma recuperano subito il tempo perduto con profusione di sudore, lacrime e sangue.
Tra difficoltà enormi, dovute alle distanze incolmabili, isolamento, mancanza di comunicazione, clima malarico, ostilità degli indigeni, lingue e culture diversissime, concorrenza protestante e ostacoli frapposti dalle varie autorità coloniali, i missionari scrivono pagine d’oro nella storia dell’evangelizzazione. Nell’impossibilità di leggerle tutte, ne sfogliamo alcune tra le più esaltanti.

Appena diventata possedimento inglese (1787), l’Australia è usata come colonia penitenziale per condannati politici, un terzo dei quali sono cattolici. Tra i confinati, un giorno arrivano tre preti irlandesi. Uno di essi, James Dixon, ottiene di fare il cappellano del penitenziario: il 5 maggio 1803 viene celebrata la prima messa con un calice di stagno. Rimpatriati i tre irlandesi, per 30 anni il continente rimane riserva di caccia degli anglicani, interdetto ai preti «papisti».
Nel 1819 Roma invia il cistercense Geremia O’Flynn come prefetto apostolico dell’Australia e Tasmania. Dopo poco tempo di lavoro clandestino, il missionario è scoperto, inteato e rispedito al mittente. La notizia fa scandalo. Il parlamento londinese consente che due preti si prendano cura dei cattolici dell’isola. Nel 1829 viene proclamata la libertà religiosa. Ma solo nel 1834, il benedettino inglese mons. Béde Polding può stabilirsi nel vicariato; otto anni dopo diventerà arcivescovo di Sydney.
In coincidenza con un forte flusso migratorio, attirato dalla scoperta delle miniere d’oro, arrivano maristi e benedettini francesi. La popolazione cattolica si fa sempre più consistente. In 30 anni vengono create una decina di diocesi. Nasce una chiesa con caratteri europei. Parecchi missionari cercano di evangelizzare gli aborigeni; ma, per oltre un secolo, i risultati non sono entusiasmanti.

Più incoraggiante, ma non meno difficile, si presenta l’evangelizzazione degli indigeni sparpagliati negli innumerevoli arcipelaghi dell’Oceano Pacifico. Nel 1827 i missionari di Picpus arrivano nelle Hawaii, l’arcipelago settentrionale della Polinesia. Dopo quattro anni di concorrenza con i fratelli protestanti, sono presi e sbarcati sulla costa della Califoia con due bottiglie d’acqua. Toano nel 1837. Dalla Francia partono nuovi rinforzi, ma la nave è inghiottita dall’oceano insieme a 7 preti, 7 fratelli, 10 suore e lo stesso vicario apostolico.
Arrivano altre congregazioni religiose e l’evangelizzazione procede più speditamente. Il più famoso dei missionari di Picpus è padre Damiano, l’apostolo dei lebbrosi dell’isola di Molokai.
Un secondo fronte dei padri di Picpus è aperto nella Polinesia meridionale. Nel 1833 si stabiliscono nelle isole Gambier, abitate da cannibali, terrore dei naviganti. I missionari vi ottengono grandi successi: nel 1835 si contano già 4 mila battezzati. Nelle isole Marchesi, invece, la lotta contro cannibalismo, idolatria e poligamia dura oltre un secolo: nel 1950 tutta la popolazione dell’arcipelago è cattolica.
Non meno faticosa è l’evangelizzazione di Tahiti, l’isola più importante dell’arcipelago polinesiano: più volte cacciati dagli intrallazzi tra protestanti e autorità francesi, i missionari di Picpus riescono a spuntarla ed estendono gradualmente l’evangelizzazione alle isole circostanti.

Nel 1838 i maristi arrivano nella Polinesia. Li guida mons. Pompallier, che si stabilisce nella Nuova Zelanda. La comunità cattolica è costituita da coloni irlandesi; ma è subito avviata l’evangelizzazione dei maori. Intanto padre Battaion converte tutta l’isola di Wallis e Francesca Perron, laica missionaria, getta le basi di una congregazione femminile locale. Pietro Chanel lavora per tre anni nell’isola Futuna, finché viene martirizzato (1841). Due anni dopo tutti gli isolani diventano cristiani.
Nel 1842 i maristi raggiungono le isole della Tonga; l’anno seguente la Nuova Caledonia, dove fratel Biagio Marmoiton viene massacrato; un anno dopo le Figi; nel 1845 Samoa. Per 40 anni i pionieri subiscono un martirio incruento: navigano senza posa da un’isola all’altra, piantando croci e nulla più. Nel 1902 nell’arcipelago ci sono solo 3 mila battezzati; 50 anni dopo sono quasi 30 mila e i preti indigeni evangelizzano altre isole dell’Oceania.

Nel 1844 Roma affida ai maristi anche la Micronesia. Mons. Epalle approda con 7 preti e 6 fratelli nelle isole Salomone. Appena sbarcati, il vescovo viene assassinato; 4 missionari sono divorati dai cannibali; gli altri si salvano con la fuga. Il vicariato passa ai missionari italiani del Pime, ma i risultati non cambiano: Giovanni Mazzucconi viene ucciso nell’isola di Woodlark (1855). Solo nel 1898 l’evangelizzazione delle isole Salomone riprende con i maristi, aiutati da catechisti indigeni delle isole Figi e Samoa.
Nel 1881 Propaganda affida ai missionari del Sacro cuore di Issoudun le grandi isole della Nuova Guinea o Papuasia e gli arcipelaghi adiacenti. Qui l’evangelizzazione procede più speditamente che altrove.

Agli inizi del XX secolo, fatta eccezione per la Papuasia, tutto il quinto continente è convertito al cristianesimo dalle varie confessioni. Ai pionieri del secolo precedente (maristi, cappuccini, padri di Picpus e d’Issoudun, verbiti, Pime, ecc.) si è aggiunta un’incalcolabile schiera di missionari di varie congregazioni: gesuiti, Mill Hill, pallottini, salesiani, passionisti, monfortani, francescani, preti diocesani, congregazioni di fratelli e molte congregazioni religiose.
Ne è nata una chiesa ricca di risorse locali (clero, religiosi e religiose, laici impegnati), con una storia di santità e sangue, non solo «straniero»: Peter To Rot, catechista in Papua Nuova Guinea, avvelenato a 33 anni, e Mary MacKillop, suora australiana, fondatrice della congregazione di San Giuseppe e del Sacro Cuore, beatificati nel 1995.

I GRANDI MISSIONARI

Guglielmo Massaia (1809-1889). Cappuccino, nel 1846 è vicario apostolico dei galla (Etiopia). Peripezie, persecuzioni e successi sono raccontati nei 12 volumi de «I miei 35 anni di missione nell’Alta Etiopia». Cardinale nel 1884.

Agostino de Jacobis (1800-1860). Lazzarista, vicario apostolico dell’Abissinia (1839), è consacrato vescovo dal Massaia (1849). Apostolo infaticabile è maestro di missionari, affronta enormi fatiche, sacrifici e persecuzioni. Beatificato nel 1935.

Giuseppe Faraud (1823-1890). Oblato di Maria Immacolata, primo vicario apostolico del Mackenzie, sviluppa e consolida le missioni tra i montagnesi del nord-ovest canadese.

Melchior de Marion Bresillac (1813-1859). Prete delle Missioni estere, è inviato in India nel 1842 e diventa vescovo di Coimbatur. Nel 1856 fonda la Società per le missioni africane (Sma) e parte per la Sierra Leone, dove muore di febbre gialla.
Damiano de Veuster (1840-1889). Della congregazione dei Sacri Cuori, a 23 anni parte per le Hawaii, si mette a servizio dei lebbrosi e muore consumato dalla carità e dalla lebbra. Beatificato nel 1995

Pier Luigi Maria Chanel (1803-1843). Marista, martirizzato nell’isola di Futuna (Oceania). Canonizzato nel 1954.

Giovanni Cagliero (1838-1926). Salesiano, in Argentina nel 1875, evangelizza la Patagonia. Nel 1904 è delegato apostolico in Costarica, Nicaragua e Honduras. Cardinale nel 1915.

Charles Lavigerie (1825-1892). Vescovo di Nancy, poi di Algeri (1867), fonda i missionari e missionarie per l’Africa (padri bianchi e suore bianche). Amico dei musulmani, difensore degli schiavi, apostolo degli africani, formatore di apostoli.

Daniele Comboni (1831-1881). Prefetto apostolico di Karthum, fondatore dei missionari per l’Africa e pie madri della Nigrizia. Combatte la schiavitù e promuove il clero locale per «salvare l’Africa con l’Africa». Proclamato beato nel 1996.

Gabriele Leperbiyre (1802-1840). Lazzarista, in Cina dal 1835. Tradimento, arresto, giorno e ora della morte in croce lo avvicinano alla passione di Cristo. Canonizzato nel 1996.

Simeone Lourdel (1835-1890). Padre bianco, primo missionario in Uganda, formatore di martiri, è venerato dagli ugandesi come loro «padre nella fede».

Giovanni Mazzucconi (1826-1855). Missionario del Pime in Oceania: viene trucidato, dopo soli tre anni di apostolato, nell’isola di Woodlark. Beatificato nel 1984.

Teofano Venard (1829-1861). Delle Missioni estere, apostolo del Tonchino: martirizzato nel 1861 e beatificato nel 1909.

Pierre-Jean de Smet (1801-1873). Gesuita belga, missionario tra gli indiani degli Stati Uniti, ne difende i diritti contro le invasioni e gli stermini operati dai bianchi.

MISSIONE AL FEMMINILE

La storia missionaria del XIX-XX secolo è più che mai tinta di rosa. Le figure che presentiamo sono solo un simbolo delle migliaia di donne che hanno dato la vita nell’eroica testimonianza di amore e santità.

Anne Marie Javouhey (1779-1851). A 15 anni nasconde i preti «non giurati». Nel 1806 fonda le suore di San Giuseppe di Cluny e nel 1817 le invia in Senegal e Réunion. Missionaria in Senegal e Guinea, si spende nell’aiutare gli africani. Re Luigi Filippo la definisce «un grande uomo». Beatificata nel 1950.

Filippina Duchesne (1769-1852). Durante la rivoluzione aiuta prigionieri, malati e moribondi. Entrata nella Società del Sacro Cuore, nel 1818 parte per il Missouri (Usa), fonda conventi e scuole per bianchi, neri e indiani. Beatificata nel 1940.

Teresa di Gesù (1873-1897). Carmelitana di Lisieux. Offre la sua breve vita per i missionari. Patrona delle missioni.

Francesca Saverio Cabrini (1850-1917). Fondatrice delle missionarie del Sacro Cuore, sogna la Cina. Leone XIII le indica gli emigrati italiani in America. Raggiunge gli Usa nel 1889; dissemina nelle tre Americhe 67 case religiose, innumerevoli scuole, ospedali, collegi, orfanotrofi, laboratori, ospizi per anziani. Canonizzata nel 1952, è patrona degli emigranti.

Katherine Drexel (1858-1955). Fondatrice delle suore del Santo Sacramento, spende la vita per l’integrazione di neri e indiani nella società Usa, fondando per loro scuole e l’università «Saverio» di New Orleans. Canonizzata nel 2000.




Il fratello del nonno

Spettabile redazione,
intendo abbonarmi a Missioni Consolata. Il fratello del nonno materno fu un vostro missionario in Kenya ed Etiopia negli anni ’30. Si chiamava padre Giuseppe Dogliani e venne fucilato dai tedeschi in Val Casotto (CN) nel marzo del 1944, dopo essere stato cappellano degli alpini in Russia.

Probabilmente la nostra rivista era già presente nella famiglia del missionario in Kenya ed Etiopia. Poi la «corrente» si è interrotta… Come ci piacerebbe, signor Emilio, che altre persone seguissero il suo esempio! Missioni Consolata è «la rivista missionaria della famiglia», anche perché passa di padre in figlio, da nonno a nipote.
Una tradizione da conservare.

Emilio Cappa




Signor direttore, è giusto che…?

Signor direttore,
ci ha colpito la lettera di Guido Guidotti, pubblicata su Missioni Consolata di gennaio, circa la chiesa di Modena. Siamo perplessi della durezza con cui il signor Guidotti (non nuovo a certi interventi) aggredisce la nostra comunità, accusandola di non avere gestito bene l’8 per mille a favore dei poveri nel terzo mondo. Vorrebbe che si desse un miliardo.
Anche Giuda ha detto qualcosa di simile. «Perché tanto spreco di olio profumato? Si poteva venderlo per oltre 300 monete d’argento e poi darle ai poveri!» (Mc 14, 5).
Se è vero che l’albero si riconosce dai frutti, ci pare che la chiesa modenese qualche buon frutto lo abbia dato e continui a darlo nel terzo mondo. Sono centinaia i sacerdoti, i religiosi, le suore e i laici che hanno dato la vita e continuano a darla nelle terre di missione, per la promozione umana e cristiana dei poveri. I loro sacrifici, le rinunce e la passione missionaria non valgono?
I nostri missionari sono in Asia, Africa, America, Australia: dalla dottoressa Luisa Guidotti Mistrali (di cui è stata introdotta la causa di beatificazione) a padre Giuseppe Ricchetti (missionario della Consolata e nostro amico carissimo), sepolto in Kenya; da padre Ettore Turrini (in Amazzonia da 50 anni) ai sacerdoti che la diocesi sostiene in Brasile; dal villaggio di Ghirlandina (Centrafrica) alle favelas nelle periferie sudamericane; dai bimbi sordomuti di São Paulo alle bambine di rua delle metropoli, ai lebbrosi dell’Africa, ai profughi del Kosovo… C’è forse una sola «qualità» di poveri di cui la diocesi modenese non si faccia carico?
Quanti sono i giovani che offrono mesi e anni della loro vita con i missionari? Quanto denaro le parrocchie, i gruppi e le singole persone destinano per interventi a sostegno dei missionari?
Signor direttore, le sembra proprio vero che le nostre «belle chiese» affondino nel sangue dei poveri?
Sappiamo che la povertà non è eliminabile. «I poveri li avrete sempre con voi» (Gv 12, 8); ma sappiamo pure che saremo giudicati sulla misura con cui ce li siamo presi a cuore (cfr. Mt 25, 40).
A proposito dell’omilia domenicale: una predica non è mai uguale all’altra, come la lettura di una pagina di vangelo non è mai «uguale» alla precedente o successiva.
«Lasciarsi sedurre da Gesù» può avere vari significati. Sta a noi cogliere quello che più si adatta al bisogno di conversione che abbiamo in quel momento.

In Alberto e compagni ci sembra di cogliere un garbato rimprovero per aver pubblicato la lettera del signor Guidotti. Noi pubblichiamo tutte le reazioni dei lettori (anche quelle anonime), perché crediamo nel confronto. La verità si raggiunge con l’apporto di tutti, nessuno escluso.

Alberto, Davide etc.




BURUNDI – Severin si sveglia ll’alba

A spiegare la divisione etnica si rischia sempre
di cadere in facili
schematizzazioni:
gli hutu-agricoltori contro i tutsi-allevatori, i primi in maggioranza
ma senza potere,
i secondi privilegiati
dai colonizzatori.
Ma la divisione è reale
e si riproduce anche
nella chiesa locale.
Dicono molti burundesi: «Noi siamo figli
della nostra terra,
prima siamo hutu e tutsi
e poi cristiani».
Per capire di più,
abbiamo seguito Severin, di professione catechista, lungo le strade
del piccolo e martoriato paese africano.

Come ogni mattino Severin Ndikundana si sveglia all’alba. Alle cinque il sole sta già sorgendo sulle colline del Burundi e i contadini, da sempre, scandiscono il ritmo delle loro giornate sulle ore di luce. Severin saluta la moglie e i figli e parte, a piedi, percorrendo le scorciatornie che lo porteranno dopo una decina di chilometri, dalla sua collina, nei pressi di Gishora, alla seconda città del Burundi: Gitega.
Severin è uno dei catechisti dell’antica parrocchia di Rukundo (amore, in kirundi), che, trovandosi ai margini della città, copre un vasto territorio circostante. I fedeli sono i contadini dell’interno più che la gente di Gitega.
È catechista dal 1980, mostra orgoglioso il tesserino della diocesi sul quale sono riportati i suoi dati e il giorno di inizio del servizio. Perché sei diventato catechista? «Per vocazione» risponde con molta semplicità. Magro, con il volto scavato, osserva con due occhi intelligenti. Difficile definire la sua età, ma in un paese dove la speranza di vita è di 43 anni, lui è sicuramente considerato un anziano. Quindi, in Africa, un saggio.
«Diventare catechisti è una vocazione. Bisogna, però, frequentare dei movimenti cattolici da giovani per stimolarla».
Severin insegna religione in una scuola elementare, segue i catecumeni per prepararli al battesimo, impartisce una formazione di due mesi a chi si è allontanato dai sacramenti e vuole riconvertirsi. Come altri catechisti è coinvolto in attività di alfabetizzazione: insegna a leggere, scrivere e contare agli adulti che non hanno potuto frequentare la scuola.
A Rukundo ci sono 28 catechisti «ufficiali», che svolgono questa attività come lavoro, in cambio di un piccolo salario. Altri 121 sono gli aiuto-catechisti volontari. I primi si incontrano ogni venerdì mattina per seguire la formazione, aggioarsi e scambiarsi impressioni.
LA CHIESA, SPECCHIO DELLA SOCIETÀ
Il paese sta attraversando una crisi che si trascina dal 21 ottobre 1993, all’indomani dell’assassinio del neopresidente (il primo democraticamente eletto) Melchior Ndadaye. Le elezioni avevano segnato una svolta portando al potere un partito a maggioranza hutu. Più di sei anni di guerra civile, causata dalla lotta intea per il potere e influenzata dall’instabile situazione geopolitica regionale dei Grandi Laghi. Un conflitto con evidenti connotazioni etniche, che ha causato, oltre ad alcune centinaia di migliaia di morti e più di un milione di sfollati e rifugiati, la catastrofe economica del piccolo paese centrafricano.
«La chiesa del Burundi è lo specchio della società» si sente spesso dire, e la società burundese è attraversata, oltre che dalle divisioni economiche e di potere, anche dalla problematica etnica. «La questione etnica non è compresa dall’opinione pubblica straniera» spiega un missionario esperto in comunicazioni sociali, che chiede di mantenere l’anonimato (perché in Burundi nessuno parla e chi accetta di farlo non vuole essere citato). «Viene spesso assimilata alla divisione in partiti politici e catalogata in categorie chiuse, mentre ha assunto un significato molto più… sentimentale». Bisogna esaminare le componenti culturali e storiche, ci spiega. Le culture di base degli allevatori (tutsi) e degli agricoltori (hutu) non delimitavano una divisione così netta tra le due etnie.
L’imposizione di una struttura estea (quella coloniale) che si appoggiava di più a un gruppo (i tutsi), foendogli educazione e dandogli peso economico e infine politico, è stato uno shock culturale e ha enfatizzato il problema. Così da un complesso tessuto socio-politico, composto da clan, lignaggi e discendenze regali, il colonialismo ha realizzato una tremenda semplificazione storica banalizzando la divisione in due gruppi precisi: hutu e tutsi.
La mancanza di una cultura della condivisione del potere ha fatto il resto.
CLERO INDIGENO E CLERO COLONIALE

Per un altro religioso, burundese, si può parlare di un vero cristianesimo coloniale: «Nel catechismo veniva insegnato che, incontrando per strada il parroco e il capo villaggio, il curato doveva essere salutato prima».
Con l’indipendenza (1962) si è costituito un clero «indigeno», che ha subito puntato a rimpiazzare i missionari e ad ottenere una posizione politica, mentre restava un clero «coloniale», che cercava di resistere. Si creò questa ambiguità in seno alla stessa chiesa; ambiguità che oggi ereditano religiosi, preti e vescovi.
«Gli avvenimenti del ’72 (massacri a sfondo etnico) consacrano la divisione in tre chiese – sostiene il nostro interlocutore -; oltre a quella coloniale (missionaria, ndr.), il clero indigeno si posiziona sui due gruppi etnici e di colpo la chiesa ha l’immagine del paese traducendone esattamente gli stessi conflitti sociali». È Bagaza (1976-’87) che rompe il meccanismo togliendo potere alla chiesa, ma con Buyoya (presidente dal 1987 al 1993 e poi dal ’96 a oggi) si ritorna a un matrimonio ambiguo tra chiesa e stato.
SPIRITUALITÀ ANCESTRALE
Una società che, secondo un missionario belga, «dal ’62 si bagna nella violenza, e così anche i cristiani. Una vera strategia politica». Il religioso vede una chiesa di massa, «sacramentale», nella quale cioè si da molta importanza ai sacramenti nella loro esteriorità, ma che ha poco impatto sulla trasformazione della società. Basta guardare le statistiche dei battesimi e l’assidua frequentazione delle messe.
«Non c’è corrispondenza tra la fede che deve determinare comportamenti di misericordia, di tolleranza, e le azioni del cristiano». C’è poi ancora molta sovrapposizione con il magico, le credenze tradizionali.
Anche il padre burundese è d’accordo: «La chiesa non è mai stata una parte integrante della nostra cultura, ma sempre qualcosa di esterno. Non c’è mai stato niente che ci abbia fatto identificare in essa». Questa è una caratteristica comune a tutta l’Africa, dove l’evangelizzazione si è innestata su una cultura che aveva già una spiritualità profonda. Spiritualià il più delle volte negata e proibita (come nel caso del Burundi). Il cristiano africano mantiene questa ambiguità, in cui spesso i valori ancestrali, come quelli di appartenenza, sono più profondi di quelli del vangelo. «Noi siamo figli della nostra terra, prima siamo hutu e tutsi e poi cristiani» si dice in Burundi.
C’È CHIESA E CHIESA
Il capannone scuro della parrocchia di Rukundo è ancora trabordante di persone alla terza messa domenicale. Vi saranno almeno un migliaio di fedeli, stipati su dei piccoli banchi costituiti da un asse inchiodato su due sostegni. In fondo, lontanissimo, su un’alta base di cemento, siede il sacerdote. Dietro di lui un ampio altare e, sul muro, un grosso tamburo in bassorilievo, simbolo del potere regale, che ospita il tabeacolo. La messa in kirundi (la lingua del popolo barundi) dura circa due ore. La maggior parte dei presenti vive sulle colline, anche a molti chilometri di distanza. Sono venuti in città per il mercato e la messa. Spesso sono scalzi o portano consumate ciabatte infradito. Le donne sono avvolte in sgargianti tessuti, hanno in testa il tipico foulard colorato e portano il figlioletto sulla schiena.
Diversa è l’atmosfera alla parrocchia del Buon Pastore, nel cuore del quartiere dei funzionari. Il locale è più piccolo, ma c’è meno gente e non si sta accalcati sugli ampi banchi con inginocchiatornio. C’è anche la messa in francese. Rare sono le donne in vestiti africani. Normalmente qui si sfoggia l’ultimo abito all’europea acquistato in capitale e l’elaborata acconciatura che obbliga le signore a intere giornate dal parrucchiere. Anche i bambini hanno le scarpe lucide. La messa dura solo un’ora. I volti sono diversi: sembra di essere in un altro paese. Ma anche qui dietro all’altare c’è un tabeacolo a forma di tamburo.
Cyprien lavora assieme a Severin alla parrocchia di Rukundo. Ha fatto un corso da catechista che dura quattro anni. Adesso svolge un anno di prova e alla fine dovrà presentare una sintesi delle attività di questo periodo, per diventare, si può dire, un catechista diplomato. «Mi piacerebbe cambiare il cuore dei fedeli – spiega -, fare in modo che aprano la loro mente e partecipino al loro sviluppo». Cyprien vorrebbe essere una guida per un reale miglioramento della vita dei cristiani. Una liberazione che passa attraverso il vangelo.
La suora che li accompagna (anch’essa burundese) è più esplicita: «Abbiamo la fede, ma non si manifesta dentro di noi. L’odio e l’ingiustizia regnano in noi, a partire dalle autorità, fino ai consacrati, e tutti i cristiani».
«Molta gente non dice la verità, ruba. Non è la carenza di cose; è il non saper vivere con quello che c’è». È una chiesa che deve convertirsi, e conclude: «Pregate perché ciò avvenga».
Cyprien ci racconta il compito più importante dei catechisti. «La domenica, nelle succursali (cappelle legate alla parrocchia, ndr) sulle colline, ci incontriamo con i cristiani e li aiutiamo in celebrazioni semplici, non eucaristiche». Fondamentali perché il sacerdote è costretto, dalla vastità del territorio parrocchiale, a visitare a tuo le comunità.
VESCOVI E PRETI LONTANI DAL POPOLO
La frattura tra il popolo e la gerarchia ecclesiastica è ancora grande. La gestione della diocesi è spesso autoritaria. «Il vescovo è un capo tribale, così i preti a livello più basso – spiega un missionario studioso di ecclesiologia -; esiste una netta separazione tra gli ecclesiastici e il popolo. I preti non vogliono perdere i loro privilegi, il loro potere». Secondo lui siamo di fronte a una chiesa pre-Concilio Vaticano II. I motivi sono anche storici, perché nel ’65 il Burundi veniva dilaniato da massacri post-indipendenza che portarono alla prima repubblica con il consolidamento del potere tutsi. Le tensioni politiche e sociali impedirono la penetrazione delle idee del Concilio.
Secondo il missionario esperto in comunicazione, invece, c’è una condivisione di responsabilità tra laici e clero. Il responsabile della commissione «giustizia e pace» della conferenza episcopale, l’addetto stampa della stessa e altre posizioni di responsabilità sono assunte da laici.
Severin e Cyprien raccontano di avere poco contatto con il loro vescovo: «Non è facile incontrarlo. Arriviamo a lui tramite la nostra responsabile. Da quando è stato nominato (marzo ’97, ndr) non è mai venuto a farci visita». Eppure alcuni vescovi burundesi sono sempre in viaggio. Passano due mesi in Burundi e uno in Europa. Lo stesso pontefice, secondo indiscrezioni, li avrebbe ripresi nell’ultima visita ad limina.
Andarlo a cercare? Troppo timore reverenziale. «L’ufficio pastorale della diocesi è come la presidenza (della repubblica, ndr) per noi. Ci andiamo solo se il parroco ci dà il permesso». In questo senso si capiscono le parole di un altro missionario: «I vescovi fanno i padroni della loro gente, non si mischiano e non soffrono con il popolo».
IL DRAMMA DEI «RAGGRUPPATI»
Nessun vescovo ha visitato, ufficialmente, uno dei cinquanta campi di raggruppamento, nei quali sono stati concentrati a forza, a partire da metà settembre, almeno 350 mila persone, sulle colline intorno alla capitale.
Atteggiamento che non è piaciuto a molti cristiani, questo «non mischiarsi nella miseria», necessario, specie per un pastore, perché siamo fatti di sentimenti, non solo di conoscenza intellettuale.
Un grido di denuncia è arrivato dall’arcivescovo di Gitega, mons. Ntamwana, al rientro da un incontro con i vescovi di Rwanda e Congo, in Kenya. Ma nelle dichiarazioni di fine anno nessun riferimento ai campi, dove la gente muore di stenti e sono violati i diritti umani più elementari. «Era chiaro che non ci sarebbe stato un atto congiunto. Da un lato, perché non sarebbero stati tutti d’accordo e, dall’altro, perché qui le denunce si fanno in modo silenzioso». Molte situazioni si risolvono sulla base di relazioni personali. Non bisogna quindi offendere la sensibilità di qualcuno e rovinare i rapporti, ma piuttosto cercare di agire con diplomazia (caratteristica questa molto sviluppata nei burundesi) sfruttando contatti diretti.
Ma non a tutti questi metodi vanno bene: mancano le critiche e le prese di posizione. «Sono rari gli interventi profetici, che puntino a sganciarsi dalla problematica etnica e diano voce ai senza voce – dice un missionario italiano -; non vogliono mettersi contro il presidente, cattolico e moderato». Il religioso burundese insiste: «Ci mancano profeti e testimoni. Si ha paura di dire la verità e assumerla. I missionari possono gridare un po’ di più. Ma devono stare attenti». I religiosi stranieri spesso parteggiano a fianco «della massa che soffre» (ovvero gli hutu, 85% della popolazione, quasi totalmente esclusi dal potere politico, economico e militare) e questo prende subito una connotazione etnica. Da qui le accuse da parte di preti, vescovi ed estremisti di appoggiare la ribellione (a maggioranza hutu).
Ancora una volta sono i catechisti che si espongono di più. Anche nei campi di raggruppamento, mettendo in pericolo la loro vita, continuano a portare la testimonianza del vangelo, ad aiutare la gente. «Questo fa sperare: al di là della debolezza dei preti, c’è una presenza popolare fatta di fede, che prova che la chiesa non sparirà» continua il missionario.
TEOLOGIA SENZA TESTIMONIANZE
In Burundi ci sono circa 1.300 religiosi, tra cui più di 1.000 suore. L’«Assemblea dei superiori maggiori» (Asuma) cornordina le 16 congregazioni di uomini e le 32 di donne. Nazionali e stranieri insieme. È qui che si legano maggiormente la chiesa missionaria e quella locale, pur partendo da basi culturali molto lontane. Le congregazioni burundesi sono state create dai vescovi, che le vogliono al loro servizio. «Cerchiamo di far passare il messaggio che, in quanto religiosi, siamo parte della chiesa, abbiamo le nostre opere, una nostra missione e un ruolo specifico», racconta un ex presidente dell’assemblea. Questo per ridurre la dipendenza gerarchica. «Pensate che nelle convenzioni che facciamo con i vescovi non possiamo usare la parola “partenariato”, perché presume un accordo tra parti uguali. È una teologia che stiamo formando, poco a poco». Ma molto resta il cammino da fare.
Allo stesso modo l’Asuma cerca di far aprire le congregazioni locali all’impegno verso il popolo: «Abbiamo cercato di motivarli nei confronti dei raggruppati. Problema che loro non sentivano come prioritario. Siamo riusciti a organizzare raccolte di fondi e distribuzioni di viveri con l’impegno diretto di religiosi e religiose». Purtroppo, spiega il padre, il vangelo sociale non è ancora compreso, molto spesso a causa della formazione nei seminari che non prevede i concetti di «servizio», «responsabilizzazione» e «partecipazione popolare».
Ad esempio c’è molta ignoranza sull’importanza, della giustizia nell’evangelizzazione.
Conferma, ancor più duro, il religioso burundese: «È una chiesa senza pensiero teologico, dove dominano i buoni parlatori e i buoni strateghi. Manca uno spazio di espressione sulla fede». Vede però uno spiraglio. «Esiste tuttavia una riflessione teologica che parte dalla base, fatta di testimonianze».
E I MISSIONARI?
Ha dunque ancora un senso la permanenza dei missionari in Burundi? «Sì. Perché la chiesa è missionaria per natura. Per l’apertura agli altri e per lo scambio», ci risponde qualcuno. «Per la varietà e l’universalità della chiesa. Perché la presenza di missionari, specie nei momenti più bui, ha dato fiducia. Abbiamo ancora bisogno di collaborare, non con posti di responsabilità, ma con una presenza efficace, con libertà di analisi e di suggerire», dice qualcun altro. «Sì, ma in modo diverso da oggi. Come poveri, contemplativi, per diffondere il messaggio di Cristo a tutti andando in profondità, per incarnarlo in questa cultura», sostiene chi rigetta il modello di clero «coloniale», ancor oggi presente.
È difficile descrivere la complessità della chiesa di un paese. Ci accontentiamo di una frase di Cyprien, catechista di Mugutu, parrocchia di Rukundo: «Vorrei che il nostro popolo uscisse dall’oscurità e partecipasse, lui stesso, al suo sviluppo. Per questo ha bisogno di guide».

Hubert Dubo




Popoli in girotondo

Caro direttore,
la copertina di Missioni Consolata di dicembre è molto bella, diversa dalle altre. Forse esprime un cambiamento di prospettiva per la missione e l’interazione con altre culture.
La comunicazione, come processo al di dentro di una cultura, sembra divenire la logica di produzione della cultura stessa, che diventa qualcosa di programmabile. I canali multimediali producono sia informazione sia apprendimento…
Giuseppe Guardiani
Torre San Patrizio (AP)

La copertina è un disegno di padre Angelo Riboli per un asilo di Nairobi (Kenya). Noi l’abbiamo intitolato «popoli in girotondo». Un sogno in cui crediamo.

Giuseppe Guardiani




Ci sono pure altri

Caro direttore,
sono un abbonato alla sua rivista e sono anche un volontario che, da oltre 20 anni, dedico le mie ferie in campi di lavoro in Kenya.
Su Missioni Consolata di gennaio c’è un bellissimo articolo sulla casa per ragazzi di strada di Kahawa (Kenya). Essendo al corrente di questa iniziativa e conoscendo alcuni amici che lavorano tutto l’anno per Kahawa facendo pantaloncini, magliette, ecc. e spedendo anche container, ho notato che, nell’articolo, non si fa alcun cenno né a questa attività né ad un missionario (non spetta a me fare nomi). Questi, dopo aver terminato il suo lavoro in un altro luogo, dedica il restante tempo libero (compresa la domenica) alla famiglia dei ragazzi di Kahawa.
Forse il padre, quale servo del Signore, preferisce l’anonimato. Però mi pare giusto un accenno anche a lui, come pure al gruppo che lavora in silenzio per quei bambini.

Giusto. Quando padre Benedetto Bellesi (autore dell’articolo sui ragazzi di strada) visitò Kahawa, l’esperienza era ancora agli inizi e non ha potuto raccogliere tutte le informazioni… Ebbene: il missionario è Angelo Riboli, il gruppo si chiama «Gli amici di Wamba», senza scordare «Insieme si può», Resurrection Garden e altri amici.

Sergio Provasi




Musulmani diventati cristiani

Caro direttore,
faccio alcuni rilievi su un problema che sento vivissimo e su cui ho letto quanto Angela Lano ha scritto in Missioni Consolata: riguarda la conversione all’islam di alcuni cattolici italiani.
È mio vivo desiderio che la fede cristiana si rafforzi anche di fronte all’islam, che è oggi all’assalto non solo in Africa, dove usa mezzi a volte violenti (Somalia, Sudan), ma anche in Europa.
Pertanto, trattando di conversioni all’islam, è necessario usare accortezza, poiché sappiamo che, mentre la verità oggettiva è in Gesù Cristo, soggettivamente le persone possono essere affascinate da altre proposte.
Mi permetto le seguenti due osservazioni.
a) Gli articoli della Lano dimostrano comprensione verso chi è diventato musulmano. L’insieme della presentazione richiederebbe anche una affermazione chiarificatrice sull’oggettiva grandezza di Gesù Cristo, che i convertiti all’islam non hanno purtroppo conosciuto o conosciuto male: è sintomatico che nessuno di loro parli di Gesù Cristo.
Mi auguro che Missioni Consolata presenti l’«unicità di Cristo», altrimenti si lascia nel lettore l’impressione che i convertiti abbiano fatto bene a diventare musulmani.
Le riviste missionarie non hanno solo il dovere di informare, ma anche di presentare Gesù Cristo Salvatore di tutti, compresi i musulmani. Se già tutte le pubblicazioni cristiane dovrebbero avere questo scopo, tanto più una rivista missionaria.
b) La seconda, più che una osservazione, è una proposta. Anche in Italia (e un po’ in tutta l’Europa) ci sono musulmani che sono diventati cattolici o cristiani di altre chiese. Propongo di parlare anche di loro, così come avete fatto per i cattolici diventati musulmani. Sarebbe opportuno parlare pure di quanti fanno tale apostolato tra i musulmani.

Osservazioni assai pertinenti queste di padre Paolo, nostro prezioso corrispondente dal Kenya. L’«unicità di Cristo» va sempre ricordata. Missioni Consolata, nel citato numero speciale sul giubileo, ha titolato: «Davvero come Lui non c’è nessuno».
Abbiamo anche intenzione di parlare dei musulmani convertiti al cristianesimo. Però c’è uno scoglio: se occorre prudenza nel presentare le conversioni dei cristiani all’islam, se ne richiede di più nel processo inverso. Infatti i convertiti a Cristo dall’islam rischiano ritorsioni dai loro precedenti correligionari.

Paolo Tablino




Sulle ali di un jumbo

«In volo verso l’Italia per le vacanze, agevolato dalla quiete nottua nell’aereo, penso ai missionari che, continuamente, attraversano oceani e continenti obbedendo all’imprescindibile comando di Gesù: “Andate e annunciate…”.
Rifletto sul mio “andare”. Colgo alcuni segni legati
al “viaggio del missionario”».

Il ponte

Come l’aereo collega due aeroporti, due paesi, due culture, così il missionario è un ponte che collega la sua patria con la povertà e le sofferenze dei popoli presso i quali lavora. Inoltre egli diventa il testimone e il portavoce della ricchezza culturale e spirituale di tante giovani chiese sparse nei vari continenti…
Lavoro tra i pastori seminomadi del deserto (samburu e turkana), nel nord del Kenya. Niente città, niente agglomerati come nelle baraccopoli delle grandi periferie urbane, ma gente sparsa un po’ dovunque che vive nella propria capanna in perfetta sintonia con le greggi. Il bestiame è l’unica fonte di sostentamento ordinario.
Un contesto sociale che potremmo chiamare arcaico. Certamente, nel mondo d’oggi, ce ne sono pochi più precari. Basta una siccità prolungata, e il bestiame soffre e muore per mancanza di pascolo e acqua. Le conseguenze sono denutrizione e fame, debolezza fisica, malaria e tubercolosi. Alla siccità è legato anche il fenomeno del nomadismo, inteso come dispersione in luoghi lontani, con l’affievolimento o la scomparsa temporanea delle tradizioni sociali e religiose che sostengono alla base la cultura.
Nonostante la durezza e precarietà della loro esistenza, le popolazioni fra cui vivo non perdono mai la fiducia nella provvidenza divina. Il pastore nomade continua a pregare il «suo» Dio anche nelle situazioni più drammatiche. Nella prosperità o nella miseria, Dio non viene mai mandato in esilio. E, così, rabbia e maledizione non esistono.
Questi pastori sono l’icona biblica e vivente di Giobbe, che riscopre Dio nelle difficoltà e nell’ostilità.
La fusoliera
La fusoliera dell’aereo unisce un gruppo di persone che si mettono insieme per realizzare lo stesso progetto: raggiungere una meta…
Nella missione, la fusoliera è rappresentata dalla cappellina che il missionario si preoccupa sempre di allestire come luogo d’incontro, dove le persone si riuniscono con la stessa motivazione: vivere la propria fede nella preghiera e la celebrazione dei sacramenti.
Questa fede può esprimersi nella forma cristiana o delle religioni tradizionali, a seconda della gente presente. Per i cristiani il centro della preghiera è rappresentato dall’eucaristia. Il primato dello spirituale è indiscutibile. Tuttavia si fa grande attenzione a non cadere in uno spiritualismo disincarnato, incapace di cogliere i problemi di tutti i giorni della popolazione. La preghiera deve avere una dimensione sociale.
Quindi i missionari parlano sempre di più di «spiritualità politica». Sembrano termini contraddittori, quasi blasfemi, ma non lo sono. La preghiera biblica e la vera eucaristia ci portano sempre a imitare il Dio liberatore del suo popolo, ci fanno aprire gli occhi sulle sofferenze, le problematiche, le alienazioni della gente e spronano a risolverle.
Il missionario, se crede nella «fusoliera-cappella», si dà da fare anche per l’asilo, la scuola, le strade, le case, l’acqua, la dieta, la salute.
La mia missione comprende una quindicina di villaggi distanti anche 60 chilometri, spesso con grosse difficoltà per raggiungerli: a volte occorrono tre ore di viaggio. Di villaggio in villaggio, di cappella in cappella, di scuoletta in scuoletta, c’è sempre un bisogno, una situazione che richiede il mio tempo, il mio impegno, la mia carità di missionario.
Il radar
L’aereo viene guidato dal radar, che indica la rotta per giungere a destinazione…
Il radar che orienta l’andare del missionario è il vangelo predicato con la vita. Si tratta di un libro iniziato tanto tempo fa, ma che continua ad essere scritto con la vita e, talora, con il sangue diventando un martirologio. In esso sono scritti i nomi dei primi cristiani fino alla lunga lista dei missionari uccisi ai nostri giorni. Agli occhi del mondo – dice il libro della Sapienza – questi individui appaiono irresponsabili, stolti, incoscienti, ma agli occhi di Dio vivono nella pace e nell’immortalità.
Persone come padre Luigi Graiff, martirizzato nel 1981, e padre Luigi Andeni, ucciso nel 1998, hanno avuto come radar il vangelo. Con padre Graiff ho anche lavorato e di padre Andeni ho ereditato la missione di Archer’s Post.
Il carburante
L’aereo vola per la spinta dei motori che bruciano carburante…
Il carburante, per il missionario, è il fuoco della carità che, alimentato dallo Spirito Santo, diventa scintilla che deve contagiare ogni comunità cristiana.
Carità esige attenzione e rispetto per le altre culture e tradizioni religiose; accoglienza degli stranieri e degli immigrati; tensione missionaria che si esprime nel desiderio di condividere le proprie ricchezze spirituali e materiali con i poveri del terzo mondo.
L’«équipe»
Durante il volo l’aereo viene manovrato da uno staff di piloti e tecnici che formano un’équipe.
Così l’attività missionaria. Oggi non si esprime più attraverso «navigatori solitari», ma in gruppi pastorali composti da sacerdoti, religiosi e laici che fanno vita comunitaria.
Nelle varie missioni dove ho lavorato ho cercato di realizzare una pastorale in équipe con l’aiuto dei catechisti della zona e alcuni laici. Ci si spostava sempre insieme. Giunti a destinazione, ognuno svolgeva il suo ruolo particolare: convocatori dell’assemblea, incaricati di mantenere l’ordine e il decoro, animatori dei canti, lettori della parola, traduttori nei vari dialetti, catechisti preparati per offrire ai bambini una pastorale loro adatta.
L’équipe si rendeva più facilmente conto della realtà religiosa e sociale dell’ambiente, ne coglieva gli aspetti positivi e negativi. E, al termine di ogni mese, in occasione del ritiro, i problemi venivano affrontati insieme per cercare delle soluzioni; quindi si programmava per il mese successivo.
La leggerezza
Infine, come l’aereo solca il cielo «distaccato» da ogni struttura e vola tanto più veloce quanto più è leggero, così il missionario deve puntare alla leggerezza, all’essenziale…
Una sola struttura, un solo strumento, un solo libro: il vangelo vissuto e annunciato.
Ciò che sa di «struttura» può servire a chi annuncia, ma non a chi ascolta il messaggio e, meno ancora, al messaggio stesso, che deve emergere con tutta la sua forza di convinzione dalla testimonianza di vita del missionario. E non dai mezzi materiali che possiede…
L’aereo vola quasi alla perfezione. E come procede il missionario?

Coelio Dalzocchio




Novanta minuti intensi

Kenya: celebrazione in swahili e samburu

N el villaggio di Serolevi, diocesi di Marsabit (Kenya), la messa è finita alle 12,30… «Attraversiamo il ponte e troveremo un po’ d’ombra per mangiare un boccone» mi dice padre Coelio Dalzocchio. Il ponte è quello che il niño del 1997 ha inclinato di 30 gradi. Lo è tuttora, e tutti si chiedono come faccia a reggere con i pesanti camion che vi transitano da Nairobi o dall’Etiopia. «Imezoea sasa» (ormai si è abituato) mi disse un giorno uno dei poliziotti che controllano il passaggio degli automezzi.
Proseguiamo di qualche chilometro verso Marsabit e ci sistemiamo sotto una pianta spinosissima. Mentre mangio, non faccio che pensare alla catechesi e alla messa testé terminate. Sono quasi 30 anni che conosco padre Coelio, ma non avevo mai avuto l’occasione di assistere ad una sua liturgia.
Dico a me stesso: «Se un missionario avesse le qualità distribuite fra i miei confratelli sessantenni, sarebbe un evangelizzatore perfetto. Se avesse, ad esempio, l’interiorità di padre Gallina, la concretezza pastorale di padre Tallone, la giovialità di padre Davoli (novantenne), l’amore allo studio di padre Gasparini, le capacità tecniche di padre Giuliani, il cuore generoso di padre Vettori, la conoscenza della lingua e dei costumi di padre Pedenzini, il senso del dovere di padre Pronzalino, il rapporto con la gente di padre Da Fre’, la tenacia di padre Gorzegno…».
Mi fermo, perché, se ricordassi anche i più giovani e quelli trasferiti altrove o andati in paradiso, si avrebbe non solo un missionario straordinario, ma un santo.
Padre Coelio non sa che sto pensando anche a lui, al suo impegno liturgico e catechetico, al suo volto affilato con il naso aquilino che si confà al suo abito austero: camicia e pantaloni lisi, sandali rozzi e l’inseparabile crocetta di legno sul petto.
Stamane l’ho osservato mentre celebrava l’eucaristia e commentava la parola di Dio. Ero seduto al fondo della chiesetta tra la gente che arrivava lentamente: i marmocchi dell’asilo, una nutrita scolaresca delle elementari, le donne che, compatte, prendevano posto a destra nei loro vestiti sgargianti, multicolori e un’abbondanza di collane variopinte, orecchini, pendagli e altri oamenti in testa e sulle braccia. Un po’ più tardi sono arrivati gli educated people, maestri e studenti in vacanza, non ricchi, ma ben messi. Infine le maestre, le studentesse e altre donne vestite all’europea, qualcuna decisamente elegante. Tutti si sono sistemati sulla sinistra.

M entre padre Coelio e il catechista preparano l’altare, le donne attaccano ex abrupto (un grido improvviso che mi fa quasi sobbalzare) un canto robusto (chiaramente un ritmo tradizionale) con una solista: alta e squillante la voce dell’assolo; ben armonizzato il coro. Al canto delle donne segue un breve silenzio. Poi, dalla parte opposta, è la volta delle ragazze delle scuole, cui si uniscono i ragazzi: un canto in swahili, più misurato e dal ritmo meno tribale del precedente; uno dei canti ormai diffusi in tutte le chiese cattoliche del Kenya e raccolti in un libro.
Non posso fare a meno di pensare che, pure in un remoto angolo del mondo quale Serolevi, si alternano già due generi musicali: quello in swahili, pacato e lineare, e quello tribale, più andante e variamente armonizzato.
Alle 11 padre Coelio, dopo una breve preghiera, inizia la catechesi: voce forte e chiara; swahili semplice e corretto; soprattutto un filo logico nel discorso, con un tema preparato con cura.
Il discorso è sul «credo». Il sacerdote spiega la morte di Gesù Cristo e, più precisamente, i motivi della sua morte redentrice. Gesù fu rifiutato – dice – dai capi e sacerdoti del popolo, perché non capirono che egli non era venuto a «distruggere», ma a «completare». Il missionario si sofferma su questa verità, sottolineando che oggi molti samburu non accettano il vangelo perché «non comprendono che Gesù non è venuto a cancellare quanto di valido c’è nella loro cultura, bensì a correggere quanto è contrario alla legge naturale, ad elevare con la grazia la nostra volontà di bene e completare con la rivelazione divina quanto era già conosciuto nel passato».
Il tema è svolto con ampiezza. I presenti seguono con attenzione. Ne resto ammirato: una catechesi di oltre 40 minuti, così aderente ai problemi vivi, preparata con cura e svolta prima della messa, non l’avevo più sentita da tempo in Kenya. E faccio un serio esame di coscienza su di me, sulle mie prediche inserite nella messa: perciò brevi e, purtroppo, poco preparate.

A lle 11,45 l’eucaristia. Ancora una volta padre Coelio dimostra idee chiare. Ha abituato i fedeli a seguire lui, che presiede davvero la celebrazione. Capisco ora come possa dilungarsi nella catechesi prima della messa: infatti non permette che la celebrazione seguente si prolunghi con elementi non essenziali, tendenti a sfuggire alla direzione di chi è il primo responsabile della liturgia, cioè il sacerdote. Egli stesso canta con voce suadente, quasi monastica, le preghiere e il prefazio. Anche i saluti sono cantati con accenti raccolti.
I canti dell’assemblea sono pochi e appropriati, non lasciati al caso e senza quelle processioni danzate (a volte persino tre), spesso eseguite con movenze per nulla africane, miranti solo ad accontentare la vanità di singoli o gruppi, incuranti delle lungaggini. Questo costringe il prete ad accorciare l’omelia, affinché la celebrazione (che già si aggira su un’ora e mezza) non si prolunghi ad infinitum.
Anche la celebrazione di padre Coelio dura 90 minuti, ma oltre 40 sono dedicati alla catechesi e i rimanenti alla messa. La parola di Dio viene proclamata dal catechista in lingua samburu, preceduta da una presentazione in swahili del celebrante. Le preghiere dei fedeli sono pure sobrie. Dal prefazio in avanti tutto è in samburu.
È la prima volta che partecipo ad una eucaristia in samburu. Non capisco le parole, ma ne conosco il contenuto e, soprattutto, mi aiuta la voce raccolta (e capace di creare raccoglimento) del celebrante. Seguo la liturgia con animo pensoso e commosso ad un tempo.
Al termine ringrazio padre Coelio e gli dico: «Se mi permetti, su questa catechesi e messa vorrei scrivere qualcosa». Interpreto «ma va’ là» del missionario come un «sì».
Paolo Tablino

Paolo Tablino