SPECIALE 100 ANNI – Un parto lungo dieci anni

Era il 29 gennaio 1901 quando Giuseppe Allamano fondò l’Istituto Missioni Consolata.
Vi lavorava da quasi un decennio, affrontando difficoltà di ogni genere. Figura importante e determinante nella chiesa torinese della metà Ottocento
e primo ventennio del Novecento, il fondatore è quasi sconosciuto fuori di Torino e del Piemonte.
In compenso, l’Istituto dei missionari della Consolata
ha messo solide radici in quattro continenti.
Questo è il racconto della sua travagliata nascita.

Mons. G. B. Ressia, compagno di corso ed amico dell’Allamano, afferma di lui: «Questo delle missioni fu il tormento santo della sua giovinezza».
Nominato rettore del santuario della Consolata di Torino, già tra il 1887-88, l’Allamano sembra avere in mente di fondare qualcosa in relazione alle missioni.
Forse la prima idea è semplicemente di dare inizio ad un’opera missionaria simile a quella esistente a Genova (Collegio Brignole-Sale), consistente nel raccogliere giovani sacerdoti, prepararli convenientemente e poi metterli a disposizione di Propaganda Fide per essere inviati nelle missioni.
Di certo l’Allamano, con la collaborazione determinante di don Giacomo Camisassa, dopo mesi di studio, ai primi di aprile del 1891, ha pronto lo statuto o regolamento di un nuovo istituto missionario.
I passi da compiere egli sa che sono in due direzioni: anzitutto a Roma presso Propaganda Fide e a Torino col suo vescovo, che in quegli anni era il card. Gaetano Alimonda. Per vari motivi pensa di dover trattare in modo informale prima con Roma e, in caso di parere positivo, con il proprio vescovo.
A Roma, il card. Simeoni, non soltanto si dichiara favorevole, ma fa sapere all’Allamano che converrebbe addirittura accelerare i tempi. Così stando le cose può presentarsi al suo vescovo. Il card. Alimonda a fine aprile si era recato a Genova per una cura alquanto impegnativa. L’Allamano gli scrive, esponendogli dettagliatamente il piano.
Da Genova non giunge alcuna risposta. Solo dopo due settimane un laconico biglietto del segretario gli comunica che il cardinale per ragioni di salute non è in condizioni di occuparsi del suo affare. Il cardinale è ammalato, ma il vero problema è che le persone che lo attorniano gli hanno presentato il progetto in cattiva luce. Facendo anche i mezz’offesi. Anzitutto perché l’Allamano ha interpellato prima Propaganda Fide e solo dopo il vescovo: vuole forse mettere quest’ultimo di fronte al fatto compiuto? E poi è proprio il caso di pensare ad un Istituto missionario a Torino data la scarsità di clero? Inoltre perché a pensarci deve essere l’Allamano che, come rettore del Convitto ecclesiastico, può sottrarre alla diocesi soggetti preziosi?
Nel frattempo, il 30 maggio 1891 il cardinale Alimonda muore.
POCHI O TANTI?
L’Allamano nel presentare a Roma il suo progetto scrive: «Preposto da molti anni all’educazione del giovane clero nella nostra archidiocesi, incontrai sovente dei seminaristi e dei giovani sacerdoti che mi manifestarono il desiderio di dedicarsi alle missioni…».
La scarsità di clero, continuamente addotta per bloccare l’iniziativa, è un semplice pretesto. Nel secolo 1800-1900 vengono ordinati a Torino 3.759 sacerdoti. Da aggiungere che dal 1880 al 1900 sono ordinati anche 362 religiosi. Nessun dubbio che la scarsità del clero, tanto temuta, è pretestuosa e nei riguardi dell’Allamano anche maligna.
Su questo tipo di difficoltà l’Allamano dirà: «Si fanno tanti lamenti sulla scarsità del clero: il che per altro non è così vero tra noi»; «Io dicevo sempre: “Se in Torino vi fosse un terzo o anche la metà di sacerdoti, si andrebbe avanti lo stesso’’». E il Camisassa: «Il tentativo della fondazione fu visto male e lo si volle bloccare col pretesto che il clero diocesano era già troppo scarso».
Di fronte ad una situazione del genere l’Allamano scrive a Roma: «Devo attendere un vescovo che sappia elevarsi sopra le idee che generalmente predominano». L’aspettativa fu di dieci anni!
IL DIBATTITO
SULLE NUOVE IDEE
Siamo all’epoca della Rerum novarum (15 maggio 1891) di Leone XIII, con i tentativi dei cattolici di aprirsi ai problemi sociali, particolarmente gravi a Torino, città di lavoratori.
Ci si interroga quale dovesse essere la strategia dei cattolici: cattolicesimo sociale, corporativismo cattolico…, per sfociare nelle accese discussioni sul concetto stesso di democrazia, democrazia cristiana, socialismo cristiano. Problemi grossi che, mentre entusiasmano i giovani sacerdoti, mettono in ansia i più anziani e parecchi vescovi.
L’Allamano in quanto rettore del Convitto ecclesiastico, a contatto con giovani sensibili a questi problemi, non si pone dalla parte dei sacerdoti bloccati su posizioni superate, ma neppure dalla parte dei più agitati. Egli diffidò sempre delle polemiche, sterili e laceranti, di quel discutere confuso su questioni non sufficientemente mature. C’è qualcosa da fare? Bisogna farlo, ma non in un polverone che acceca, operando invece delle sintesi superiori.
È in questo contesto di accesi dibattiti e contrasti che l’Allamano pensa ad un istituto missionario, e lo pensa come qualcosa che sia di più di una semplice valvola di sicurezza per un clero giovane, esuberante e troppo numeroso, che rischia di pestarsi i piedi o di esaurirsi in discussioni inutili sui «massimi sistemi».
IL PIEMONTE TRASCURATO
Nel 1891 i tempi sono maturi anche per altri motivi. Il movimento missionario in Italia è fiorentissimo. È un periodo in cui si riorganizzano gli antichi Ordini e le antiche Congregazioni religiose, ma è soprattutto il periodo in cui sorgono nuove istituzioni con finalità esclusivamente missionarie.
In ordine cronologico il primo istituto missionario italiano è quello delle «Missioni estere» di Milano, sorto per iniziativa dei vescovi lombardi (1850). Seguono il Collegio Brignole Sale Negroni per le Missioni Estere di Genova (1852-1855), le Missioni Africane di Verona o Figli del Sacro Cuore di Gesù (1867), il Pontificio Seminario dei SS. Pietro e Paolo per le Missioni Estere di Roma (1867, 1871), la Pia Società di S. Francesco Saverio per le Missioni Estere di Parma (1895).
E l’Allamano si chiede: «Perché soltanto il Piemonte, dove lo spirito missionario è fiorentissimo, non doveva avere un suo centro, senza dover ricorrere ad istituzioni straniere o a congregazioni religiose con voti»?
Fiorenti erano in Piemonte e anche a Torino l’Opera della Propagazione della Fede (specie dopo il 1822), la Società dell’Apostolato Cattolico dal 1835, l’Opera del Riscatto dal 1838, la Società antischiavista d’Italia dal 1888, l’Associazione Nazionale per soccorrere i Missionari cattolici italiani all’estero, fondata dal senatore e prof. Eesto Schiaparelli (1928).
Anche sfogliando i giornali e la stampa missionaria è possibile documentare la vivacità del risveglio missionario. Basti ricordare che il primo giornale a lanciare un appello in favore delle Missioni è l’Amico d’Italia, fondato a Torino nel 1822 dal marchese Cesare Taparelli d’Azeglio.
Il movimento missionario è, dunque, molto sviluppato anche in Piemonte e nella diocesi di Torino, ma manca di un’istituzione che convogliasse le vocazioni missionarie locali. Gli elementi positivi per una realizzazione del genere sono molti.
COLONIALISMO,
NAZIONALISMO, EGOISMI
Ci sono però anche delle contro- indicazioni di un episcopato non sufficientemente aperto e sempre timoroso per la mancanza di preti. C’è un alone di romanticismo missionario da epopea e leggenda che poteva entusiasmare per le missioni. Ma per contrapposto c’è un diffuso senso di pessimismo per il modo in cui gli europei consideravano il «mondo pagano», con «selvaggi» abbruttiti in crudeltà e superstizioni, con poco o nulla da valorizzare e conservare.
C’è soprattutto, come conseguenza di questa vantata superiorità europea e allargamento di orizzonti dovuto alle esplorazioni, una buona dose di colonialismo e di nazionalismo.
Inoltre nei territori missionari, soprattutto africani, pesa un’altra specie di gravissimo monopolio, attuato da alcuni ordini religiosi che nelle regioni loro affidate la fanno da «padroni», resistendo in tutti i modi alla sola eventualità che Propaganda Fide pensi di smembrarli affidandone una parte alle nuove forze missionarie che stanno sorgendo.
Le difficoltà maggiori che l’Allamano deve superare all’inizio sono, infatti, di natura politica (nazionalismo francese e anche italiano; meno quello inglese) e religiosa (resistenza di ordini francesi alla divisione dei loro immensi territori).
VIA DALLE BEATITUDINI
DI UNA VITA COMODA
A favorire l’Allamano nella fondazione c’è anzitutto il Camisassa, in perfetta complementarietà di funzioni, senza del quale nulla sarebbe stato possibile.
C’è anche il fatto di essere l’Allamano rettore del santuario della Consolata, luogo d’incontro delle forze più vive della diocesi. Egli era riuscito a intessere attorno a sé una rete fittissima di conoscenze, con persone appartenenti ai vari ceti sociali, e con quasi tutti i sacerdoti della diocesi, con uomini e donne del popolo, della borghesia e anche dell’aristocrazia. Di qui una concezione del tutto nuova di istituto missionario, non sempre evidenziata, costituita da questa ampia base di persone che, in vario modo, avrebbero accompagnato e sostenuto il corpo dei missionari.
Altro elemento positivo è il fatto che l’Allamano, come rettore del Convitto ecclesiastico, è a contatto con numerosi giovani sacerdoti, parecchi dei quali desiderano dedicarsi alle missioni. L’Allamano lo andava ripetendo: «Ho attorno a me gioalmente giovani sacerdoti che mi sollecitano».
Tra tutte le premesse di riuscita ce n’è una alla quale l’Allamano non pensa, ma che è la più importante: lui stesso, la sua personalità e quella del Camisassa. L’Allamano era un uomo dalla salute debole, ma dal carattere e dalla volontà forti; uomo ordinato, metodico, riflessivo, buon piemontese, che come diceva l’Antonelli, non si mettono due mattoni dove ne basta uno, amante delle montagne, che sa come superare le difficoltà, rispettando le stagioni e l’umore del cielo, con vedute larghe, almeno quanto basta per capire se nell’albero i frutti sono maturi e se in una diocesi i sacerdoti si potevano ritenere più che sufficienti o scarsi o male impegnati.
Soprattutto si è fatto sacerdote per lavorare, e non per adagiarsi nella beatitudine di una vita comoda. Egli stesso descrive come avrebbe potuto passarsela da «canonico signore»! In modo piacevole e tranquillo: «Dire il breviario, passeggiare, leggere il giornale, sedersi a tavola senza preoccupazioni, fare il pisolino dopo pranzo; starmene in pace come rettore della Consolata, protetto da un comodo orario, osservato scrupolosamente…». Convinto però che una vita del genere l’avrebbe portato diritto alla… «perdizione».
LIBERTÀ E STABILITÀ
Nel 1891 l’Allamano e il Camisassa scrivono il Regolamento del loro Istituto. Esso è corredato da una prefazione dal titolo Indole, natura e scopo dell’Istituto, che presenta allo stato puro l’idea originaria dell’Istituto in questi termini: «[…] si è venuti nel pensiero [si noti il plurale] di istituire una Società nella quale fossero conciliati per quanto possibile: la libertà di azione dei sacerdoti secolari [quindi non si tratta di una congregazione religiosa] e la stabilità che offrono ai loro individui le corporazioni religiose».
I due elementi fondamentali sono, dunque, la libertà e la stabilità. Quanto alla libertà, essendo l’azione missionaria un apostolato difficile, s’intende che chi, dopo una sufficiente prova non se la sente, può e deve lasciare senza remore di rottura di voti, promesse, giuramenti. I sacerdoti e laici che entrano in questa Società missionaria s’impegnano con una promessa a lavorare in missione per 5 anni, rinnovabili per altri 5 e solo dopo 10 anni possono legarsi definitivamente alla Società.
L’Allamano e il Camisassa non vogliono che ci siano persone legate alle sbarre di un carro per forza, ma solo persone libere, generose e decise: «Se durante il quinquennio – dice il testo del Regolamento – esse vedessero di non poter reggere al nuovo genere di vita, restavano in libertà al termine dei 5 anni di ritornare in Patria, ove la Società li aiuterà con ogni suo mezzo, per ottenere loro un conveniente ufficio nelle loro diocesi». In caso di adesione definitiva, la Società avrebbe assicurato ai suoi membri quella stabilità e sicurezza che le Congregazioni religiose garantivano ai propri membri anche in caso di malattia e vecchiaia.
Altra caratteristica fondamentale è la regionalità: vi possono far parte persone del Piemonte. Si tratta di cosa quasi scontata per gli istituti missionari in Italia, da pochi anni nazione unita, perché ogni regione ha un proprio istituto missionario (Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia, Lazio), ad eccezione, come si è detto, del Piemonte e dell’Italia meridionale. Quanto alla regionalità l’intenzione dell’Allamano è chiarissima: «Lo scopo di questa disposizione – diceva il Regolamento all’art. 13 – è di accrescere fra i missionari quello spirito d’unione e quel vicendevole incoraggiamento che in lontane regioni più si verifica tra coloro che hanno comune la terra».
Inoltre i missionari, membri di questa Società, per gli stessi motivi, non devono essere dispersi, ma operare nelle stesse località, stare insieme ed essere retti da superiori propri.
Tutti coloro che hanno occasione di prendere visione di questo Regolamento, compreso il Prefetto di Propaganda Fide, lo approvano pienamente.
Purtroppo, con la morte del card. Alimonda e le opposizioni esistenti in Curia, il progetto rimane ibeato per 10 anni. Quando nel 1897 ad arcivescovo di Torino viene nominato Agostino Richelmy (1850-1923), compagno di corso e amico dell’Allamano, devotissimo della Consolata e aperto al mondo missionario, il progetto viene ripreso, senza apportarvi nessuna modifica da come era stato concepito nel 1891.
BENEDETTE EREDITÀ!
Il progetto viene ripreso in mano nel 1899, subito con un serio «contrattempo».
Avviene che nel gennaio del 1900 l’Allamano cade gravemente ammalato, tanto da disperare della sua vita. Ne esce in modo inaspettato il 29 gennaio, festa di S. Francesco di Sales.
Dieci anni dopo, l’Allamano stesso, accennando alla sua guarigione, dirà: «Avevo già parlato in precedenza al card. Richelmy dell’Istituto da fondare, e sapevo di dover morire, gli dissi: “Sicché ormai all’Istituto penserà un altro”. E lo dicevo contento, forse per pigrizia di non sobbarcarmi ad un tale peso. Il cardinale però mi rispose: “No, guarirai, e lo fonderai tu” (24 aprile 1910). Aggiunse anche: “Feci, quando ero prossimo a morire, la promessa che, se fossi guarito, avrei fondato questo Istituto. Io intanto per allora non sono morto. Il Signore mi cacciò ancora in terra. Adunque avendo ottenuta la guarigione dalla malattia mortale, la fondazione si doveva fare: che fossi guarito non si poteva negare» (24 aprile 1910).
A spingere in questa direzione intervengono altri fattori di una certa importanza. Il 24 ottobre 1898 muore a Torino mons. Angelo Demichelis e nomina l’Allamano erede universale di tutti i suoi beni, che non sono pochi, compresa la sede di un Istituto magistrale in Torino e una villa a Rivoli. Un anno dopo, il 20 novembre 1899, muore l’ing. Edoardo Felizzati, figlio spirituale ed amico dell’Allamano. Avendogli il rettore del santuario della Consolata confidato l’intenzione di dare inizio ad un’opera in favore delle missioni, il Felizzati si era dimostrato pronto a divenire uno dei primi membri. Morendo, non potendo fare altro, lascia l’Allamano erede dei suoi beni!
L’Allamano, oltre al suo patrimonio personale, costituito dall’eredità patea, da quella dello zio, parroco di Passerano, dallo stipendio di rettore e dal beneficio di canonico (nel 1904 verrà in possesso anche dell’eredità dell’abate Luigi di Robilant), con l’eredità di mons. Demichelis e dell’ing. Felizzati, è spinto, quasi per una sorta di legge di gravità che anche i denari possiedono, a fare qualcosa. In più c’era un dovere di riconoscenza per l’ottenuta guarigione e il sentirsi avvolto dalla benevolenza e dalla fiducia di tante persone, dilatato inoltre da quella specie di istinto interiore o di simpatia per le missioni che fin da giovane l’aveva accompagnato.
Convalescente a Rivoli, informa il 24 aprile 1900 il card. Richelmy che intende procedere alla fondazione, sempre che il cardinale sia d’accordo. Più che d’accordo, gli risponde Richelmy.
Sebbene l’Istituto dei missionari della Consolata si potesse ritenere fondato nel 1900, perché i vescovi del Piemonte, riuniti in conferenza presso il santuario della Consolata nei giorni 12-13 settembre 1900, avevano dato il loro beneplacito e perché il card. Richelmy aveva approvato e benedetto il nuovo Istituto il 12 ottobre 1900, la data ufficiale di fondazione, per volontà espressa dell’arcivescovo di Torino, è il 29 gennaio 1901.
La prima sede dell’Istituto furono i fabbricati lasciati all’Allamano da mons. Demichelis, opportunamente adattati. L’inaugurazione della sede avviene il 18 giugno 1901.
SOGNI AFRICANI
E GELOSIE UMANE
Nel piano originario di fondazione del 1891, rimasto tale e quale nel 1900, c’era che all’atto della fondazione doveva essere definito il campo di apostolato in Africa.
Per prima cosa occorreva riprendere i fili con Roma. Ma dopo dieci anni molte cose erano cambiate. Ora Propaganda Fide, prima di affidare a nuovi istituti un territorio di missione, esigeva un periodo di prova passato alle dipendenze di qualche vicario apostolico.
Il provvedimento è saggio, perché salvaguardava Propaganda Fide da eventuali avventurieri. Di fatto le cose non sono così semplici. Si è detto che una delle «piaghe» dell’attività missionaria di allora (ai giorni nostri inconcepibile) consiste nella «gelosia missionaria» dei grandi Ordini e Istituti missionari, che la fanno da «padroni» nei vastissimi territori loro affidati (quasi con lo stesso stile delle potenze coloniali) e considerano «intrusi» i nuovi istituti, visti come una minaccia alla loro sovranità. Si tratta di un vero e proprio monopolio missionario, aggravato anche da nazionalismo politico.
Questa rappresenta una delle più gravi difficoltà che l’Allamano, il Camisassa e i primi missionari della Consolata devono superare. Una vera «piaga», che solo nel 1926 verrà denunciata da Pio XI nell’enciclica Rerum Ecclesiae. Con tutte le sue indiscusse benemerenze fu, soprattutto, la Francia a cadere in questo pessimo equivoco.
Il 9 settembre 1900 il Camisassa si reca a Roma e ha occasione d’incontrare il nuovo vicario apostolico dei galla (Etiopia), mons. André Jarosseau, anche perché proprio tra quella popolazione, già evangelizzata dal card. Massaia, l’Allamano intende impegnare i suoi primi missionari.
Gli accordi con mons. Jarosseau sono soddisfacenti solo apparentemente. Ben presto i due fondatori devono rendersi conto che nel territorio concesso da mons. Jarosseau la popolazione galla è quasi inesistente per l’aridità del suolo e quella poca dispersa dalle razzie dei somali. Da informazioni prese da varie parti, l’Allamano e il Camisassa devono constatare che mons. Jarosseau, forse condizionato dai superiori francesi del suo Ordine e per non avere intrusi tra i piedi, non è stato del tutto rettilineo, poiché era ben al corrente dell’incertezza dei confini e delle difficoltà per raggiungere e operare in quei luoghi. Ma aveva taciuto.
UNA SOLUZIONE
…DIPLOMATICA
È il console italiano a Zanzibar per il Kenya, Giulio Pestalozza (1850-1930), a dare un contributo essenziale per sbloccare la situazione. Il diplomatico suggerisce di chiedere ai padri dello Spirito Santo, responsabili dell’evangelizzazione del Kenya inglese, di permettere ai nuovi missionari di Torino di stabilirsi nell’alto Kikuyu, per compiervi il rodaggio richiesto da Propaganda Fide e, in seguito, raggiungere le popolazioni galla, procedendo via terra verso nord.
Questa è la strategia seguita, ma ancora una volta tra enormi difficoltà burocratiche: prima la necessità di farsi accettare dai Padri dello Spirito Santo, anch’essi gelosi del loro vastissimo e bellissimo territorio.
Le trattative sono difficilissime. Pur consci di non essere in numero sufficiente e con i protestanti che premono, i padri dello Spirito Santo non vogliono correre il rischio, accettando nel loro territorio un nuovo istituto missionario (per di più italiano) di vedersi sottrarre in seguito una parte di questa proprietà… Alla fine accettano di ricevere in prova i nuovi missionari e di affidare loro una regione ancora inesplorata, tra i kikuyu, ai piedi del monte Kenya. Una zona incantevole.
Però l’Allamano deve pagare un forte pedaggio, che sa di ricatto, impegnandosi per iscritto (e per ben due volte) a non chiedere in seguito alla S. Sede un qualsiasi stralcio di territorio senza un esplicito consenso dei padri dello Spirito Santo.
LA PARTENZA, FINALMENTE
Dopo molte trattative, finalmente l’8 maggio 1902 i primi quattro missionari della Consolata, due sacerdoti (Tommaso Gays e Filippo Perlo) e due fratelli laici (Celeste Lusso e Luigi Falda) partono per il Kenya.
Inizia l’avventura.

ISTRUZIONI PER L’USO

In Kenya la strategia missionaria (messa a punto a Torino dall’Allamano e dal Camisassa) contemplava anzitutto in missione una casa-procura nei pressi della ferrovia, da considerarsi come una specie di «campo base», centro di raccolta di quanto giungeva dall’Italia in personale e mezzi. Venne scelta la località di Limuru, poco oltre Nairobi. Sul luogo dove doveva avere inizio l’apostolato vero e proprio, cioè a Tuthu, un villaggio montano a 2 mila metri (ove dominava il capo Karoli) fu fondata la missione e più a monte, in piena foresta, a lato di uno scosceso torrente, venne impiantato un laboratorio. Più in basso, nella piana, a Nyeri, in un territorio ritenuto fertile, si avviò una fattoria con allevamento di bestiame, per provvedere un vitto adeguato ai missionari.
La strategia missionaria vera e propria venne attuata con una costanza eroica: quasi tutti i giorni i missionari partivano, ovviamente a piedi, in perlustrazione del paese per conoscere la gente, imparare la loro lingua, interessarsi degli ammalati, farsi conoscere e distinguersi dagli agenti del governo… Lo scopo finale di questa strategia era di giungere ad avere in mano il paese, elevarlo anche da un punto di vista materiale, per giungere, non tanto a delle conversioni individuali, ma alla conversione in massa, mirando ai capi e prima che vi giungessero i protestanti, che si sapeva essere alle porte.
Anche a Torino tutto procedeva a gonfie vele. Infatti il 15 dicembre 1902 era già pronta una seconda spedizione; poi nel 1903 altre due. Infine tra il 1904 e il 1911 altre nove. Il 24 aprile 1903 erano partite 8 suore della «Piccola Casa del Cottolengo» e altre 12 partirono il 24 dicembre dello stesso anno.
Nel 1905 l’Allamano acquista in Torino in via Circonvallazione (attuale corso Ferrucci) un terreno di 12.000 mq per la costruzione della casa madre, che è pronta ed inaugurata il 23 ottobre 1909.
Anche in Kenya lo sviluppo dell’attività missionaria è sorprendente, tanto che nel 1905, con decreto di Propaganda Fide, il territorio affidato in prova ai missionari della Consolata è dichiarato «missione indipendente», nonostante l’opposizione dei Padri dello Spirito Santo. Il 6 giugno 1909 la missione indipendente è eretta a vicariato apostolico con padre Filippo Perlo primo vicario apostolico.

1910: ARRIVANO LE MISSIONARIE
Sempre per offrire un maggior appoggio all’attività missionaria dell’Istituto, l’Allamano e il Camisassa fondano nel 1910 l’Istituto parallelo delle Missionarie della Consolata. Le prime missionarie partiranno per il Kenya il 3 novembre 1913 in numero di quindici (dal 1913 al 1922 ne partiranno 56).
Nel 1911 il Camisassa si reca in Kenya (dall’8 febbraio 1911 al 22 marzo 1912), per incontrarsi con i missionari e le missionarie, valutare la consistenza delle opere e la metodologia adottata e constatare se era giunto il momento di attuare il piano primitivo di passare ai galla. A questo scopo, sempre con la presenza del Camisassa in Kenya, viene deciso di estendere le missioni più a nord del monte Kenya, nel Meru (fine giugno-dicembre 1911).
Rientrato in Italia, il Camisassa presenta a Propaganda Fide il piano per il Kaffa (Etiopia). Ma ancora una volta una richiesta del genere suscita le reazioni dei cappuccini francesi e di mons. Jarosseau. Però con decreto del 28 gennaio 1913 Propaganda Fide affida ai missionari della Consolata la regione del Kaffa. Se fu relativamente facile ottenere una missione tra i galla, sarà invece molto più difficile entrarvi, soprattutto per l’opposizione del governo francese ed anche di quello italiano. Solo il 25 dicembre 1916 padre Gaudenzio Barlassina sarà ad Addis Abeba, come prefetto apostolico del Kaffa.

IN TANZANIA, SOMALIA,
MOZAMBICO
Dopo la prima guerra mondiale tutti i missionari tedeschi presenti in Africa vengono espulsi e Propaganda Fide nel 1919 affida ai missionari della Consolata la prefettura apostolica di Iringa nella ex colonia tedesca di Tanganyika (ora Tanzania).
L’Allamano a questo punto della sua vita avverte (il Camisassa muore il 18 agosto 1922) che la troppa carne al fuoco nuoce alle missioni affidate all’Istituto. Ma Propaganda Fide insiste perché l’Istituto accetti altri territori di missione. Nel 1924 (e solo per obbedienza) l’Allamano accetta la difficile missione della Somalia Italiana e nel 1925 (ma pare che l’Allamano non ne fosse al corrente) alcune missioni in Mozambico.
Questo espansionismo, contrario allo spirito dell’Allamano, sbilanciò alquanto l’Istituto sia nel numero dei missionari ed anche per un consistente aggravio finanziario.
L’Allamano muore il 16 febbraio 1926 e ne prende il posto mons. Filippo Perlo, ma con un Istituto affaticato per troppo lavoro. La ripresa fu lenta ma sicura.
I.Tu.

Igino Tubaldo




SPECIALE 100 ANNI – Straordinari nell’ordinario

Giuseppe Allamano nacque 150 anni fa, a Castelnuovo d’Asti, il 21 gennaio 1851. Sua madre Marianna era sorella di s. Giuseppe Cafasso. Dopo le elementari, frequentò gli studi ginnasiali nel collegio di don Bosco a Torino. Questi lo avrebbe voluto salesiano, ma lo studente scappò, lasciando di stucco il grande conoscitore dei giovani.
Nel 1866 entrò nel seminario di Torino e nel 1873 fu ordinato prete. Avrebbe voluto tuffarsi nel lavoro pastorale. «Vuoi fare il parroco? Bene! Ti affido la parrocchia più importante della diocesi» gli disse il vescovo. E don Giuseppe rimase in seminario come assistente e direttore spirituale.
Nel 1880 fu nominato rettore del santuario della Consolata: si mise subito al lavoro per restaurae i fabbricati, ravvivae la devozione e riaprire il convitto ecclesiastico, dove i giovani preti completavano la preparazione al ministero pastorale.
Nel frattempo cominciò a progettare la fondazione di un istituto missionario. Ma nel 1900 una grave malattia sembrava troncare il progetto. Ne uscì miracolosamente. L’Allamano vide in quella guarigione un segno per accelerare i tempi.
Il 29 gennaio 1901 fondò ufficialmente l’Istituto Missioni Consolata per l’evangelizzazione dei popoli. L’anno seguente partirono per il Kenya i primi missionari. Nel 1910 diede vita all’Istituto delle missionarie della Consolata.
Spese tutta la vita nella cura del santuario e formazione delle due famiglie missionarie, fino al giorno della morte: 16 febbraio 1926.

Una vita ordinaria, quindi,
in cui l’Allamano diede tutto se stesso al servizio della chiesa e società. Non ci fu attività a cui non partecipò, lavorando per oltre 50 anni al cuore della diocesi di Torino e sempre in collaborazione con il vescovo. «Nessuna opera di bene – affermerà di lui un contemporaneo – sfuggì all’irradiazione della Consolata», cioè di quel santuario mariano di cui fu rettore per 46 anni. «Tutto per Gesù, niente senza Maria» era uno dei suoi motti.
Dal santuario della Consolata, senza uscire dai confini dell’Italia, abbracciava tutto il mondo. Sarebbe voluto partire missionario, ma la salute glielo impedì; allora fondò i missionari e missionarie della Consolata. Ma guai a chiamarlo «fondatore»: lo proibiva esplicitamente. «La Consolata è la vera fondatrice» ripeteva.
Tuttavia è fondatore. E lo fu senza ricercare forme straordinarie di ispirazione per le due famiglie missionarie. Ciò che stupisce nell’Allamano, infatti, è la semplicità dei principi sui quali ha impostato la vita: «Essere, prima di fare»; «fare bene il bene»; «essere straordinari nell’ordinario». Direttrici di fondo che ne hanno fatto un grande uomo d’azione.
Che egli vivesse così lo confermano le testimonianze di quanti lo hanno conosciuto: «Aveva l’arte di non farsi avanti»; «rifuggiva in tutti i modi da qualsiasi esibizionismo»; «compiva il bene nascondendosi». «Non volle mai chiasso attorno a sé». «Tutto ciò che ci diceva – attesta padre Sales – lo vedevamo praticato in lui in modo superlativo».

«Fragile come un cristallo,
resistente come un diamante», lo definiscono quanti lo hanno conosciuto. E tracciano altri lineamenti della sua figura umana: un leggero sorriso risplendeva abitualmente dal suo volto; lo sguardo dolce e penetrante degli occhi lampeggianti, che andavano oltre il viso degli interlocutori e leggevano nelle pieghe delle coscienze; intelligenza intuitiva, sintetica, che arriva subito all’essenza delle questioni; innata capacità di rianimare, confortare, guidare al bene.
«Mentre era sempre calmo e misurato in tutte le sue azioni, quando parlava di Dio e del suo amore, s’infiammava talmente da trasfigurarsi. Tanto che molti dei suoi uditori temevano per la sua salute». Parlare dell’amore di Dio era per lui la cosa più spontanea e naturale; anzi, sentiva il bisogno di comunicare agli altri il fuoco che gli ardeva dentro.
L’intensità spirituale si traduceva in straordinaria capacità contemplativa: «Dominus est» (è il Signore) ripeteva di fronte a tutti gli eventi, cose, persone. Una volta scoperta la presenza di Dio e la sua volontà, la perseguiva con serenità e tenacia, anche nelle situazioni più critiche e dolorose, superando ogni ostacolo, confidando totalmente nell’aiuto divino.
La sua capacità contemplativa lo rendeva consigliere. Non solo i seminaristi, quando ne era direttore spirituale, e poi i suoi missionari, ma anche vescovi, sacerdoti, fondatori di istituti e gente comune si rivolgevano a lui per consiglio; e aiutava tutti a scoprire la volontà di Dio, dissipando dubbi, dissolvendo illusioni, infondendo coraggio.
«Avanti nel Signore!». «Coraggio nel Signore». Sono alcune delle espressioni usate frequentemente dall’Allamano, specialmente nelle lettere ai suoi missionari. Tre parole che racchiudono e trasmettono la sua incrollabile fiducia in Dio e nella Consolata. «Non bisogna mai stare fermi, ma andare sempre avanti – diceva -. Non starsene come automi, per paura di sbagliare; non lasciarsi rimorchiare; mai dire non tocca a me».
La forte umanità dell’Allamano, arricchita dalla sua intensità spirituale si esprimeva in un profondo senso di pateità. La figura di padre è quella che ha maggiormente contagiato quanti l’hanno conosciuto. Essi ricordano il primo incontro con lui, le sue parole, i gesti, il sorriso e le attenzioni…
Essere padre era il suo stile di educare e formare. Per lui l’istituto è una famiglia. Si sentiva padre dei suoi missionari e missionarie, non solo perché li amava con tutto se stesso, ma perché sapeva infondere in loro il suo spirito: cioè quel modo di percepire e vivere il vangelo che è tipico dei santi. Uno spirito che l’Allamano è cosciente di possedere e trasmette con intensità nell’insegnamento e contatti personali. Ne è geloso. Non permette interferenze. «Qui lo spirito lo do io – ripeteva con fermezza -. Chi non lo condivide vada pure altrove. Meglio pochi, ma radicati».

N ominato rettore del santuario della Consolata, l’Allamano volle don Giacomo Camisassa come collaboratore: «Faremo d’accordo un po’ di bene», gli aveva scritto. Lavorarono insieme per 42 anni come fratelli e amici.
Nato a Caramagna (CN) il 26 settembre 1854, Camisassa fu anch’egli alunno di don Bosco; poi entrò nel seminario diocesano e fu ordinato sacerdote nel 1878.
Membro aggiunto della facoltà di teologia della diocesi di Torino, professore di morale, diritto civile ed ecclesiastico al convitto dei giovani sacerdoti, rivelò doti superiori al comune; possedeva ed esponeva la materia in modo chiaro e preciso, sintetico. Avrebbe potuto fare una gratificante carriera; fu proposto per l’episcopato; ma preferì restare «sacrestano della Madonna», a fianco dell’Allamano, felice di essere secondo come vice-direttore del santuario e del convitto della Consolata e poi dell’istituto dei missionari e missionarie della Consolata. E lo fu fino alla morte: 18 agosto 1923.
Statura bassa, ma robusto e ben piantato, intelligenza rara e perspicace, volontà ferrea, organizzatore nato, il Camisassa era un uomo pratico, attivo, intraprendente, sempre in moto. «Ha la smania di lavorare: vorrebbe saper tutto, fare tutto; è tutto attività» confessava l’Allamano.
Troncata la carriera di professore, rivelò doti di praticità e abilità nel campo della tecnica e finanza, progettazione ed esecuzione dei lavori, scrivere articoli e redigere relazioni, saldare parcelle e far quadrare i bilanci. Di tutto era pratico e di tutto voleva darsi ragione.
Non badava a nessuno, né a chiacchiere né ad altro. Quando controllava i lavori dei restauri del santuario o saliva sui ponteggi, seminava il terrore: dava ordini, faceva rifare lavori, cambiava progetti, provocando qualche attrito, che toccava all’amico Allamano comporre.
La dedizione al lavoro è la caratteristica principale del Camisassa. Efficienza che l’Allamano completava con i suoi principi altrettanto pratici e ordinari: «Fare bene il bene», salvaguardia del buon nome e dignità, comprensione delle persone e attenzione alla loro crescita umana e spirituale. L’abilità del Camisassa si sposa al cuore dell’Allamano.

È definito «fedele collaboratore»,
«braccio destro» dell’Allamano, «confondatore». Eppure erano molto diversi. Diversità complementari, tanto che l’Allamano poté dire: «Se abbiamo fatto qualcosa di buono, è perché eravamo tanto diversi; ma abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto; se fossimo stati uguali, non avremmo visto i difetti l’uno dell’altro e avremmo fatto molti sbagli in più».
La collaborazione con l’Allamano non si limitava alla parte materiale. Ambedue affermano di aver studiato assieme ogni progetto, lettera, documento, con lunghe riflessioni e anche «notti di preghiera».
Tanta meravigliosa operosità aveva un’anima. In un breve scritto spirituale il Camisassa si propose di «voler essere tutto di Dio». Alla fine della sua vita potrà dire: «Mi consola il pensiero che non ho mai fatto nulla per me stesso, ma solo per la gloria di Dio».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




SPECIALE 100ANNI – Tra popoli e problemi

La follia due terribili conflitti mondiali

DOV’ERA L’UOMO?

Due guerre devastano il mondo nella prima metà del 1900:con lo scontro franco-tedesco di Verdun (1916),
la disfatta italiana di Caporetto (1917),i bombardamenti sulla città inglese di Coventry (1940), la sconfitta americana di Pearl Harbor (1941),la bomba atomica su Hiroshima (1945)… Anche i «lager» nazisti, con l’olocausto di 6 milioni di ebrei, sollevano domande inquietanti. Dov’era Dio? E dov’era l’uomo?

Seminaristi all’arma bianca

«Dieci lunghi mesi (benché ancor fuori dell’ambito della guerra) noi siamo vissuti sotto l’incubo della conflagrazione gigantesca, inaudita nella storia delle nazioni, per cui “sulla misera Europa incombe tanta ruina”, va sconvolta ormai ogni regione della terra, e paiono vacillare gli stessi cardini fondamentali del diritto e del consorzio delle genti».
È l’amaro commento dei missionari della Consolata sulla prima guerra mondiale, riportato dalla loro rivista La Consolata, giugno 1915 (1).
«Le quotidiane notizie di combattimenti incessanti – prosegue il mensile -, di terribili stragi sui vari teatri di guerra, di crescente desolazione nei paesi belligeranti… ci son venuti penetrando di dolorosa compassione; mentre la carità di Cristo, che “a prezzo del suo sangue tutti gli uomini rese fratelli”, ci poneva sempre più accorata sul labbro la preghiera per la pace».
Il conflitto scoppia nell’agosto 1914. L’Italia vi entra il 24 maggio 1915. E La Consolata continua:
«Coll’entrar dell’Italia in guerra è iniziata pure per noi la terribile prova. Adoriamo i decreti imperscrutabili di Dio, il quale, se nella sua giustizia permette i flagelli, nella sapientissima sua misericordia sa da essi trarre il maggior vero bene delle sue creature; e quanto più è grande la calamità, tanto più si fa vicino a coloro che in Lui sperano.
La nostra fede di veri cattolici ci faccia forti a compiere il dovere di buoni cittadini… sia quelli che son chiamati alle armi, sia quelli che con inevitabile strazio e sacrificio, spesso più eroici dei soldati stessi, debbono darli alla patria.
Preghiamo con viva fede che il sacrificio sublime dei soldati d’Italia, come delle loro madri, delle spose, degli innocenti loro figlioletti, sia l’ultimo tributo che impetri dalla divina misericordia la cessazione dell’orrendo flagello della guerra, l’avvento della sospiratissima pace»…
Tra i militari si contano pure missionari della Consolata. Non solo: anche «una parte notevole degli alunni del nostro Istituto ci sono stati tolti – precisa La Consolata, agosto 1915 -. Separati d’improvviso dai superiori e compagni, essi ebbero rinnovato lo strazio provato nell’abbandonare i parenti; dalla casa dove, tra l’indefessa attività di studio e lavoro, tutto era serenità e raccoglimento, sono stati sbalestrati nelle caserme e nelle piazze d’armi. L’obiettivo di pacifiche conquiste tra gli infedeli, colla croce, s’è cambiato in quello di contribuire alle vittorie col fucile, col cannone e all’arma bianca».
È un lamento, ma anche una denuncia.
Quell’Ecatombe
di ignari Kikuyu
La prima guerra mondiale sconvolge anche il continente nero. In Africa orientale l’apporto delle colonie inglesi al conflitto è ingente. Per combattere i tedeschi in Tanzania (2), si arruolano persino africani. Più che militari, urgono portatori (carriers), che rifoiscano di vettovaglie e munizioni i soldati inglesi al fronte. In tale compito viene impiegato oltre mezzo milione di persone.
In Kenya, all’inizio, le autorità inglesi invitano i kikuyu ad «offrirsi» per la gloria dell’impero britannico. Ma l’ideale non attecchisce. Allora si ricorre alla coscrizione forzata.
Per sfuggire alla leva, i kikuyu si nascondono nella foresta durante il giorno; ma, al tramonto, rientrano nelle loro case. È questo il momento giusto, per i policemen bianchi, di sparpagliarsi nel villaggio, entrare nelle capanne e, armi in pugno, reclutare nuovi rifornitori di bombe.
Non potendo eludere la chiamata, i kikuyu si affidano ad un rimedio estremo: lo stregone. Costui, alla vigilia di una partenza per la guerra, presiede un drammatico sacrificio, alla presenza persino dei bambini. La vittima sgozzata è un montone nero, con strane chiazze sul pelo. Il tutto indica malaugurio.
Secondo una cronaca dell’epoca, al tempo stabilito, il partente avanza risoluto verso l’assemblea radunata; afferra la testa dell’animale ucciso e, roteandola in ogni direzione, lancia la maledizione: «Io andrò e morirò, ma che i bianchi siano maledetti!». «Maledetti e maledetti!» grida ostile la comunità…
I portatori kikuyu vengono distribuiti in diversi campi di concentramento. Si marcia dalle 6,00 alle 11,30 e dalle 14,00 alle 17,00; e se il passo rallenta, ecco subito l’ufficiale che, munito di scudiscio, ridà lena alla marcia. Dopo pochi giorni di cammino, il portatore si ammala e, sovente, è già cadavere nella fossa.
La causa di tanti decessi non è solo fisica, ma psicosomatica: fatica e malattia, unite alla nostalgia per la terra d’origine lasciata. Secondo V. Harlow, 127 mila kikuyu periscono in quell’infausta esperienza.

Uno Strano bottino
di Guerra
Poiché i carriers muoiono come mosche, già nel 1914 il governo coloniale decide l’allestimento di alcuni ospedali militari in Kenya: a Nairobi, Mombasa, Voi. Nel corso del conflitto gli inglesi ne installano altri anche in Tanzania, colonia tedesca.
Dal Kenya il vescovo Filippo Perlo offre i missionari della Consolata per l’assistenza spirituale e medica negli ospedali, ritenendola un’opera altamente umanitaria. Da Torino l’Allamano, il fondatore, approva, purché i missionari non si schierino con alcuno dei belligeranti, ma servano solo gli africani.
In un triennio 45 missionari, tra padri e suore, sono destinati alla cura dei malati. Ce la mettono tutta nel dedicarsi ai bisognosi. Grande è la carità.
Eroica la testimonianza di suor Irene Stefani, che opera nell’ospedale di Kilwa (Tanzania). Il suo bottino di guerra – scrive Gian Paola Mina – sono 3 mila battesimi conferiti a morenti (cfr. l’inserto «L’estrema pazzia»). Non è la sola a sentirsi missionaria oltre che infermiera. Gli altri credono negli stessi ideali, tanto che il 98% degli africani morti negli ospedali riceve il battesimo.
L’attività assistenziale si rivela efficace e riscuote il pubblico plauso anche delle autorità inglesi.

(1) La Consolata, fondata nel 1899, diventa Missioni Consolata nel 1928.
(2) La Tanzania si chiamò «Tanganyika» fino al 1964.
Kenya: Se L’inglese
ti Controlla
Il 10 giugno 1940 i missionari della Consolata in Kenya diventano nemici degli inglesi e sono allontanati dalle loro sedi. In un diario di missione si legge: «Si sente alla radio la dichiarazione di guerra dell’Italia e poche ore dopo, alle 21, veniamo sottratti alle nostre missioni dalle forze armate. Lasciamo ogni cosa nelle mani di Dio: chiesa e casa, cristiani e catecumeni, scuole e maestri». Analoghe scene si ripetono nell’intero vicariato di Nyeri e nella prefettura di Meru.
I missionari vengono deportati nel campo di Koffiefontein, in Sudafrica, dove condividono la sorte di altri 1.200 italiani. Almeno sono insieme e qualcosa riescono a fare: aiutare tutti, alimentare la speranza, fino a procurare l’insalata zappando un lembo di cortile. I padri Giovanni Casolati e Bartolomeo Favaro compilano anche una grammatica e un vocabolario kimeru e traducono il Nuovo Testamento.
Grande la nostalgia, soprattutto delle missioni sulle quali è sceso il silenzio. Nel Meru, più che nel Nyeri, l’abbandono è totale…
Il 14 agosto 1944 un telegramma annuncia il ritorno dei missionari in Kenya. «Toano – commenta Missioni Consolata, settembre 1944 – a riunire i figli dispersi. Toano a ricominciare e a ricostruire. Salutati dai trilli festosi dei cari aghekoio e bameru, tornano a rivedere le giovani cristianità, a far sorridere i bimbi, a riaprire catecumenati e ambulatori. Toano. E con essi la vita riprenderà il ritmo normale».
Però le autorità inglesi non esultano: esigono che sui missionari italiani sia esercitato il controllo di un britannico, che li tenga lontani da ogni attività illecita. Un’imprudenza diventa motivo per il rimpatrio sia dal Nyeri sia dal Meru.
La tensione è tale da esigere la visita del pro-delegato apostolico, padre MacCarthy, che incontra le autorità politiche britanniche del Meru. Giustizia vuole che si ascolti anche l’altra parte. Pertanto il pro-prefetto raggiunge le missioni per incontrare i padri: molti cadono dalle nuvole dinanzi all’ostilità nei loro confronti. In ogni caso, se errori sono stati commessi (ad esempio, coltivazione non autorizzata di terreni), essi sono pronti a rimediare.
Però sono false le accuse, secondo le quali la gente (anche cattolica) si lamenta dei missionari. Gli africani, invece, recriminano sia contro l’autorità coloniale che quella locale.
Lo conferma lo stesso MacCarthy.

Tanzania: «Ai nemici italiani stranieri»
Un cataclisma? Troppo poco, se non si aggiunge che è mondiale. E non è un disastro da addebitare all’incontrollabilità della natura o al destino, ma voluto da uomini contro uomini.
Il primo contraccolpo dell’entrata italiana in guerra piomba drasticamente sui missionari della Consolata in Tanzania. Essi si vedono stravolta la ragione della loro presenza nel paese. Ogni dispaccio del governo coloniale britannico (1) reca il marchio: «Ai nemici italiani stranieri». Stranieri? Anche gli inglesi lo sono. Nemici? Per nulla!
Il 16 giugno 1940 scatta l’ostracismo. «Tutti i nemici stranieri italiani» debbono radunarsi a Tosamaganga. L’esodo deve compiersi in cinque giorni. Le missioni dell’Iringa, sparse su un vasto territorio, vengono evacuate.
È il momento del primo distacco: i missionari-fratelli, caricati su un camion, vengono trasferiti al boma, il forte che comprende il quartiere della polizia e le prigioni. Fratel Eesto Viscardi, sulla sponda dell’autocarro, dà fiato alla fisarmonica… con qualche lacrima.
Il 18 giugno compare l’arcivescovo Edgar Maranta, vicario apostolico di Dar Es Salaam, cappuccino svizzero. Qual buon vento lo porta? Nella cronaca di Tosamaganga l’apparizione è motivata da «buoni uffici» da assolvere.
Il 20 giugno, come se nulla fosse, si solennizza la festa della Consolata. Ma la cristianità è in ansia. «La Vergine trionfa in una interminabile processione – recita la cronaca -. Alcuni poliziotti inglesi sorvegliano quasi con devozione».
Il giorno seguente, il vescovo Maranta parte per Mbeya, sede del governo provinciale da cui dipende il distretto di Iringa. Al suo ritorno, dopo due giorni di colloqui, a Tosamaganga deflagra la gioia: lo svizzero è accettato dagli inglesi come garante dei «nemici stranieri italiani». I missionari non sanno come ringraziarlo.
Dunque non ci sarà deportazione! «Fra il tripudio della gente le campane suonano fino a sera».
Intanto il vescovo Attilio Beltramino, missionario della Consolata, accetta la «garanzia» dell’arcivescovo Maranta. Essa si fonda sulla «parola d’onore» e impegna i missionari con clausole vincolanti:
– non allontanarsi oltre un miglio dalla missione;
– vietato ogni spostamento di personale missionario;
– controllo della corrispondenza;
– nessuna parola con estranei su politica, movimento di truppe, località strategiche;
– vietato contattare i prigionieri.
Che cosa ha indotto gli inglesi ad una mite decisione? Certamente le ottime relazioni tra i governanti, lo svizzero Maranta e l’italiano Beltramino, nonché l’amicizia tra i due vescovi. È lecito pure supporre un intervento del giovane sultano A. Sapi Mukwawa, musulmano, stimato dagli inglesi e fedele amico dei missionari della Consolata.
Infine non è detto che alcune personalità britanniche non abbiano apprezzato il lavoro dei missionari.

(1) La Tanzania (Tanganyika), colonia tedesca, diventa «mandato britannico» dopo la seconda guerra mondiale.

TRA I CADAVERI ACCATASTATI

Un mattino del 1917, all’ospedale di Kilwa (Tanzania), suor Irene non trovò più Athiambo, che aveva istruito il giorno prima e si riprometteva di battezzare quel giorno stesso. «Athiambo è morto – disse l’infermiere -. Verso mezzanotte è stato buttato sul carro e portato alla spiaggia». «Athiambo morto, e senza battesimo!» ripeteva inconsolabile suor Irene.
Ci volevano 20 minuti per giungere in spiaggia. Irene ne impiegò 10, tanto corse. Eccola di fronte all’Oceano Indiano, al cospetto di cadaveri accatastati alla rinfusa: nudi, enormi, oppure sparsi sulla sabbia ardente; chi con la fronte a terra, chi riverso supino, immobile, pauroso. «Dio, che orrore!». La suora rabbrividì. Aveva sempre avuto un ribrezzo sommo per i morti, ed ora tutti quei cadaveri…
Era sola con il suo rosario, la sua fede. Non aveva chiesto a nessuno di accompagnarla, perché nessuno avrebbe accettato di venire con lei. Meglio così: sarebbe stata sola a compiere l’estrema follia. Guardò l’oceano, le cui onde si facevano sempre più alte e vicine: fra poco avrebbero inghiottito i cadaveri, compreso Athiambo… Perché cercarlo? «E se non fosse morto? Si tratta di un’anima, Signore, un’anima!» si disse suor Irene.
Con gli occhi sbarrati da ansia e paura, si accostò ai morti: cominciò da quelli sparsi qua e là, scrutando i volti di chi giaceva supino e rivoltando gli altri. No, non era Athiambo. Athiambo si trovava nel mucchio. Ma se era lì, in mezzo o sotto gli altri, era di certo morto soffocato. «E se non fosse morto?».

S enza più esitare, suor Irene s’accostò alla catasta e rimosse i cadaveri uno ad uno, in cerca di Athiambo. Pesavano enormemente quei corpi rigidi, anche nella magrezza a cui erano stati ridotti dagli stenti. Pesavano e nauseavano. Erano sozzi di sangue e le imbrattavano di rosso le mani e il vestito bianco.
«Ave Maria, Santa Maria… O Dio, abbiate pietà!» ansimava la suora. Aveva già riconosciuto Luigi, Giovanni, Giuseppe, Ugo… tutti quelli battezzati ieri e avant’ieri. Ma Athiambo non c’era. Avanti ancora. Aveva le braccia e la schiena che le si spezzavano, il cuore in gola. Si sentiva svenire, morire come loro, in un incubo. L’oceano rumoreggiava a pochi passi, e avanzava minacciandola. In fretta! O sarà troppo tardi.
«Ave Maria, Santa Maria… O Dio, abbiate pietà!» singhiozzava ora la missionaria. Avanti ancora. Ne aveva contati 46, 47… e Athiambo non compariva. Solo otto cadaveri attendevano di essere passati in rassegna, e lei cominciava a domandarsi se per caso non l’avesse riconosciuto tra quelli già esaminati. Allora avrebbe dovuto ricominciare da capo. Ultimo cadavere: era Athiambo, seppellito sotto tutti, morto anche lui.
Morto? Con sforzo enorme lo trascinò lontano, là dove la marea non poteva raggiungerlo, e gli s’inginocchiò vicino. S’era accorta che il corpo era flessibile. Forse… «Ave Maria, Santa Maria… O Dio, salvatelo!».
Sperando contro ogni speranza, gli praticò la respirazione artificiale, distendendogli le braccia ritmicamente per 10, 20 minuti. Non sentiva più la stanchezza. Eppure era sfinita, il sole e la sabbia scottavano tremendamente. Il tempo passava. Ma lei continuava a massaggiare Athiambo, a sollevargli le braccia, spiandolo amorosamente, pregando con fiducia.

Avvenne l’incredibile: Athiambo sbatté le palpebre, emise un gemito impercettibile. Era ancora vivo… Poi tutti dissero che suor Irene l’aveva risuscitato!
Gian Paola Mina

Francesco Beardi




SPECIALE 100 ANNI – Soffia il vento del cambiamento

Nel 1960 Harold MacMillan, primo ministro dell’impero britannico,annuncia «il vento del cambiamento» in Africa.
E cambiamento è, cioè indipendenza, «uhuru». Parola magica.
Nei primi anni ‘60 elettrizza tanti paesi del continente.
Segna «il risveglio dell’Africa nera»?
Serenità in Tanzania, sofferenza in Kenya, guerra e pace in Mozambico.

Tanzania,
9 dicembre 1961
«Nel 1950 il bozzolo del colonialismo incomincia a rivelarsi angusto per la “crisalide” Tanganyika – annota padre Alessandro Di Martino -. La crisalide si rende conto di avere le ali sviluppate: preme contro l’involucro e lo rode, smaniosa di librarsi in volo in piena sovranità».
Nel mandato britannico del Tanganyika il processo verso l’indipendenza è abbastanza spedito. Forse non si sa quanto sia stato assecondato dai missionari della Consolata.
La chiesa d’Iringa, che opera fra i wahehe, wasangu e wabena, non assiste al processo con la neutralità del forestiero. È in gioco l’avvenire del proprio «gregge». Promuovendo lo sviluppo sociale (in particolare la scolarizzazione), non si prefigge forse di formare l’élite della nascente nazione?
Senza fare «il tifo per atleti particolari», la chiesa responsabilizza la popolazione. Però non ama atteggiamenti da prima donna. È prodiga di stimoli meditati.
Nell’agosto 1951 si delinea l’atteggiamento verso il movimento nazionalistico: «limitarsi ad osservazioni sui requisiti necessari perché possa reggersi da sé». Con un particolare: eliminare ogni residuo razzista, «evitare attentamente che la nostra condotta dia l’impressione che ci atteniamo alla policy del colour bar; non chiamare più gli abitanti “neri”, bensì africani; trattare tutti con la dovuta considerazione».
Si privilegia la coscientizzazione dei cristiani di fronte ai doveri civili. Nel 1951, alle elezioni del primo Consiglio distrettuale, composto da africani, si raccomanda: «stare attenti che i cristiani se ne interessino e siano debitamente rappresentati da individui adatti… formare i fedeli al sentimento cristiano non solo come individui, ma anche come membri della società».
Ma nel 1951 l’obiettivo non è ancora l’indipendenza piena. Nel paese si ha in mente un governo confederale, esteso all’Africa orientale britannica del Kenya-Uganda-Tanganyika. «Sembra che il bene sia la costituzione di una forte federazione dei vari territori, nella quale ogni paese ritenga la propria indipendenza negli affari interni, dove tutti (europei, asiatici e africani) coesistano cogli stessi diritti e doveri. Per il bene delle popolazioni è opportuno orientare l’opinione pubblica a tale scopo… Mai prescindere dal fine soprannaturale per cui ci troviamo in questi paesi» (1952).
Passano due anni, un tempo sufficiente perché il Tanganyika focalizzi il suo scopo. Ora si esige piena indipendenza. Il primo passo concreto è nel 1954, allorché nasce il Tanu (Tanganyika African National Union), il partito che porterà il paese all’indipendenza nell’ordine e nella tolleranza razziale. Scendono in lizza anche altri partiti, ma nella votazione finale del 1960 il Tanu ottiene 70 seggi su 71. Tutti gli altri partiti si sciolgono senza traumi.
Il vescovo di Iringa, Attilio Beltramino, incoraggia i suoi stretti dipendenti a partecipare alle elezioni: «È mia intenzione che gli aventi diritto (sacerdoti, fratelli, suore, seminaristi) si facciano registrare come elettori» (28 giugno 1960). Anticipa le direttive generali emanate dalla Conferenza episcopale: «È dottrina della chiesa che il voto non sia solo un privilegio ma un dovere, e un cattolico non può facilmente esimersi dal partecipare alla scelta dei propri rappresentanti… Ma ciò non implica che ci debba essere un cosiddetto partito cattolico».
Il 3 settembre 1960 l’euforia galvanizza la popolazione all’approssimarsi del traguardo finale dell’uhuru (indipendenza). Tuttavia l’atmosfera è contenuta in una accettabile festosità. Le tragiche turbolenze del vicinato (Congo e Kenya) consigliano il vescovo di indicare alcune precauzioni.
Si fissa il giorno dell’indipendenza per il 9 dicembre 1961. Monsignor Beltramino ne predispone la celebrazione religiosa nella festa dell’Immacolata, il 7 dicembre. In questo giorno il paese viene consacrato al cuore immacolato di Maria, con una preghiera inviata da Giovanni XXIII, il papa buono.
Iringa, 9 dicembre 1961: la nuova bandiera del Tanganyika indipendente si dispiega sovrana. Padre Francesco Sciolla, vicario generale, di fronte ad esponenti politici e religiosi, nel silenzio assoluto della folla, ringrazia Dio e augura a tutti prosperità e pace.
«Sotto le stelle, dal santuario della Consolata di Iringa dilaga il tripudio delle campane. A Tosamaganga, il fragore di mortaretti»: è il tocco letterario di padre Di Martino.

kenya,
12 dicembre 1963
Fin dall’inizio, i missionari della Consolata in Kenya si impegnano nello studio della cultura dei kikuyu, nella promozione dell’uomo, nell’evangelizzazione. Non fanno politica… Tuttavia, agli occhi degli africani, amano distinguersi dagli inglesi che hanno conquistato il paese con la forza; però non ne contestano il colonialismo. Solo con il tempo recepiscono le istanze d’indipendenza politica, raggiunta il 12 dicembre 1963.
Qual è l’atteggiamento dei missionari, nel 1952-54, di fronte al movimento di autonomia dei mau mau? Al riguardo spicca la figura di Carlo Cavallera, vescovo di Nyeri, nel cuore del ciclone dei mau mau che, secondo lo storico Ki-Zerbo, hanno causato la morte di 8 mila civili africani, 68 europei, 460 soldati e 100 mila prigionieri.
Quando Cavallera può valutare la minaccia costituita da quell’associazione clandestina, ritiene doveroso condannarla: lo fa dopo un’inchiesta fra i missionari e gli stessi cristiani. Dalle loro risposte non c’è dubbio: il movimento mau mau è anticristiano e incita all’apostasia chi ha abbracciato il cristianesimo. Eloquente, per il vescovo e i missionari, è il «giuramento mau mau»: esso impone l’abbandono della chiesa, il rifiuto dei sacramenti, l’odio verso tutti i bianchi; d’altro canto, il giuramento sprona gli africani a ritornare alla loro divinità tradizionale.
Quindi i missionari condannano i mau mau per ragioni religiose.
Ciò non equivale a condanna politica tout court. Il vescovo Cavallera prende le distanze dagli europei che invocano il coprifuoco contro i «terroristi». «Bisogna fare sempre distinzione tra la parte religiosa e quella politica» raccomanda il vescovo ai missionari. Nel frattempo, incurante dei pericoli e delle minacce subite, percorre in lungo e in largo la sua vasta diocesi, per esprimere solidarietà alle vittime della violenza. Ed è quasi miracoloso che monsignor Cavallera ne esca indenne.
Se i mau mau volessero eliminare quel «vescovo impiccione», i suoi frequenti viaggi gli offrirebbero occasioni d’oro per farlo. Ma anch’essi con ogni probabilità «distinguono»: politicamente il vescovo non è una minaccia, pur essendo bianco; religiosamente non lo capiscono; umanamente lo ammirano, perché non lesina soccorsi ai bisognosi.
Questo però non risparmia le missioni da attacchi intimidatori e mortali: padre Edmondo Cavicchi viene ferito e resta psicologicamente menomato per il resto della vita; suor Eugenia Cavallo è assassinata. Due i martiri africani: le suore Rosetta Njeri e Cecilia Wangechi, nonché l’eroica testimonianza di sangue di semplici cristiani come Aloisio Kamau.
La fine dell’emergenza dei mau mau (durante la quale molti battezzati abbandonano la fede) segna l’inizio di una spettacolare ripresa cristiana. Quale la causa?
«L’esperienza dei missionari è che, ovunque, vi sia un risveglio inspiegabile. Io – conclude monsignor Cavallera – l’attribuisco al sangue dei nostri martiri».

Mozambico,
25 giugno 1975
«L’annuncio del vangelo nel Niassa, specie nella prima fase, è opera quasi esclusiva dei missionari della Consolata. Circa gli inizi, basti ricordare l’opera di padre Pietro Calandri e di suor Franca Cavicchi. In queste figure comprendiamo tutti i missionari e le missionarie della Consolata» dichiara nel 1988 Luis Gonzaga Ferreira da Silva, vescovo di Lichinga.
Siamo in Mozambico, dove i missionari della Consolata operano dal 1925, non solo a Lichinga, ma anche a Maputo, Inhambane e Nampula. Il paese non è facile.
È colonia del Portogallo da circa cinque secoli. E, mentre negli anni ’60 in quasi tutte le nazioni dell’Africa sventolano le proprie bandiere, in Mozambico imperano ancora Salazar e amici. Ma soffia, rabbioso, il vento del cambiamento: ed è guerra per un decennio.
Durante la lotta armata per l’indipendenza, la chiesa (connivente con il colonialismo) è soggetta anche ad una contestazione intea: ad esempio, nel 1971 i Padri Bianchi lasciano per protesta il paese. I missionari della Consolata, pur approvando il gesto, decidono di restare. Tuttavia in precedenza, il 24 dicembre 1970, padre Celio Regoli è accusato (ingiustamente) dal governo portoghese di collaborazione con i ribelli e viene espulso…
Il 25 giugno 1975 il Mozambico è indipendente. Ma, quasi subito, ripiomba in guerra: una guerra civile tra le forze governative del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e i guerriglieri della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana). Il Frelimo gode dell’appoggio dell’Unione Sovietica e la Renamo si avvale del Sudafrica. Quindi è scontro tra marxismo e capitalismo: «due elefanti che lottano, a scapito dell’erba che calpestano». L’«erba» non cresce più.
Così è morte violenta per oltre un milione di mozambicani e fame nera per tutti. Per non parlare degli innumerevoli profughi interni: fuggono dai loro villaggi, sperando di trovare altrove una situazione migliore; ma cadono dalla padella alla brace.
La violenza è anche contro le fedi religiose, perché «la religione è l’oppio dei popoli». La chiesa cattolica è la più bersagliata, giacché i colonialisti portoghesi sono… cattolici.
Alcuni fatti:
– il 21 luglio 1977, con motivi assolutamente pretestuosi, la Repubblica popolare del Mozambico decreta l’espulsione, entro 48 ore, dei padri Armanno Armanni e Mauro Calderoni;
– novembre 1978: padre Severino Bordignon è rinchiuso per due mesi in carcere e poi espulso. Il capo di accusa è: «Sovversione contro lo stato, avendo mobilitato il popolo per la catechesi e per aver insegnato a pregare ed assistere alla messa»;
– dicembre 1978: padre Eugenio Menegon è condannato a domicilio coatto.
Sul fronte della Renamo, anche i guerriglieri non scherzano:
– 19 luglio e 16 settembre 1982: rapimento dei padri Giuseppe Alessandria e Adelino Francisco, con quattro suore della Consolata. Rimangono in mano ai ribelli sino a fine novembre;
– 15 febbraio 1991: in una terribile imboscata cade ucciso padre Ariel Granada Sea, mentre padre José Feando Martins da Rocha è ferito (resterà zoppicante per sempre);
– 1 marzo 1992: un’altra imboscata durante la quale padre Joao Coelho resta brutalmente ferito e quattro giovani che l’accompagnano uccisi. Il missionario è ostaggio dei guerriglieri per un mese;
– 22 marzo 1992: assalto notturno al Centro catechistico di Guiùa, diretto da padre Andrea Brevi e massacro di 24 persone, con rapimento di 9 bambini…
Il 4 ottobre 1992 Frelimo e Renamo firmano a Roma il «cessate il fuoco». È pace. Una pace da costruire tra rovine materiali e umane infinite. Aleggia pure lo spettro che il Mozambico sia come l’Angola: cioè che ritorni al bazooka, giacché i trattati sono solo pezzi di carta. Ma la pace regge. E il Mozambico è oggi un segno di speranza per l’intera Africa.
Fra le macerie, accumulatesi durante quasi un trentennio di guerre, tutti si rimboccano le maniche. I missionari della Consolata puntano in alto: suggeriscono all’episcopato cattolico la creazione di una università. Padre Francesco Ponsi realizza il sogno. L’università cattolica del Mozambico viene inaugurata il 10 agosto 1996, con sedi a Beira e Nampula. Il rettore è padre Filipe J. Couto, primo missionario della Consolata locale.

LA FAMILGIA ESTESA DELLO STATO

Dopo l’indipendenza, l’azione dei missionari della Consolata in Tanzania avviene in un contesto diverso da quello di altri paesi africani, essendo condizionata da un particolare socialismo. È una specie di «fai da te», codificato nella Dichiarazione di Arusha (1967), che prende a modello dello stato la famiglia africana estesa, ujamaa, nella quale ognuno vive per gli altri e dove l’individuo esiste perché esistono gli altri.
L’idea, pur vicina al vangelo, si colloca in realtà agli antipodi della dottrina sociale della chiesa e dei diritti umani, in quanto riconosce al gruppo prerogative proprie del singolo, concede allo stato la proprietà dell’individuo e priva la persona di ogni incentivo al proprio sviluppo.
Naturale conseguenza di questa visione di società è la creazione forzata di «villaggi socialisti», accettata da alcuni ambienti religiosi e rigettata da altri. Non manca, anche, chi sposa la scelta e se ne fa propagatore, come il vescovo Christopher Mwoleka di Rulenge, che alterna l’attività episcopale con il lavoro manuale nei campi a fianco della gente. Quanto ai missionari della Consolata, le loro opinioni variano.
Padre Egidio Crema, studioso dei wahehe, nel 1968 non ha dubbi sulla riuscita del socialismo tanzaniano, espresso dalla politica di Nyerere e del Tanu. «In base alla loro linea di azione – sostiene – credo che non sia difficile comprendere e giustificare gli stessi atteggiamenti apparentemente contrastanti e confusi della politica intrapresa dal presidente in Tanzania».
Padre Alessandro Di Martino, storico dei missionari della Consolata nel paese, nel 1979 ravvisa nel villaggio dell’ujamaa una condizione ideale per la formazione delle comunità ecclesiali di base. «La creazione di tali comunità – scrive – ha trovato in Tanzania un contesto politico e culturale provvidenzialmente favorevole. I villaggi dell’ujamaa o comunitari, sorti sotto la spinta del socialismo dal raggruppamento delle capanne, fino a ieri sparse ai quattro venti, offrono a tutti la possibilità di incontrarsi e riunirsi con estrema facilità. Mentre lo spirito di fratellanza e solidarietà è inculcato dal partito in ogni villaggio; visto in chiave evangelica, questo si presenta ai battezzati come un punto di partenza per una testimonianza cristiana in campo politico e sociale».
Padre Franco Cravero è lieto di dare, nello spirito dell’ujamaa, un contributo per lo sviluppo costruendo una scuola di falegnameria per i ragazzi e un’altra di economia domestica per le ragazze (1979).
Nel 1990 padre Giulio Belotti nutre dubbi che la donna tanzaniana, su cui poggia gran parte dell’ujamaa, possa un giorno arrivare a gestire la propria crescita.
Di opinione abbastanza negativa è padre Luis Jiménez Feandez, per il quale l’ujamaa ha favorito il crescere della corruzione e l’abuso di cariche pubbliche. E, dopo aver propagandato l’istruzione per tutti i cittadini, in realtà ha garantito l’accesso all’università solo allo 0,5% e gli studi secondari solo al 3% della gioventù. Non meno carenti sarebbero i risultati nella sanità, occupazione, casa, ecc.
Ma tutti i missionari sono concordi nel valutare i grandi obiettivi raggiunti dall’ujamaa, come il dialogo inter-tribale, l’unificazione linguistica e la nascita di una nazione: valori che hanno favorito anche l’evangelizzazione.

LIBERTA’ E CRISTIANESIMO

«Uhuru, uhuru, uhuru!». Non si sente altro oggi in Kenya, 12 dicembre 1963.
Il mattino è stato ecumenico. Il metodista Valender, uno sceicco musulmano in un grosso turbante ed io in cotta e stola, all’aperto e attorniati da migliaia di persone, abbiamo pregato per il Kenya e la sua indipendenza. L’atmosfera era carica di gioia ed emotività.
Ognuno ha recitato una preghiera. A me pareva che persino gli angeli si arrampicassero sugli sgabelli per ricevere una benedizione protestante, una cattolica e una musulmana. Ho chiesto a Dio che fecondasse con la pioggia delle sue benedizioni l’uhuru.
Che la libertà scaturita in Kenya cresca, come crescono i raccolti nelle stagioni delle piogge, e si rinnovi come le piante di banana. Gli uomini che guidano il paese ottengano luce per vagliare la libertà, come si vaglia il granoturco, liberandola dalle erbe parassite e dalle gramigne che vegetano e danneggiano.
Una libertà senza nubifragi e siccità, con tutti i membri dei clan che vivono in una grande famiglia, dove gli anziani guidano con saggezza, gli uomini lavorano, le donne tengono linda la casa, i figli studiano e tornano dalle sorgenti con secchi di acqua limpida. Così benedica Dio il Kenya e i suoi abitanti.
Dall’applauso ho capito che la mia preghiera è stata la più azzeccata. Il vicepresidente del partito Kanu mi ha detto che l’intervento deve essere stampato, perché è bello. Quando un popolo parla così di preghiere nel giorno della sua indipendenza, probabilmente la realizzerà.
Nel pomeriggio i ragazzi hanno cantato l’inno nazionale. È un motivo mistico, che esce dalla foresta e si allarga lentamente e benedicente su tutta la nazione.

O Dio, nostra forza,
benedici tutti noi,
ci sia scudo la giustizia
e noi si viva in frateità,
pace e libertà.
Svegliamoci, fratelli,
lavoriamo in alacrità,
in servizio virile
alla nostra patria Kenya.
Amiamola con fermezza,
difendiamola con prontezza.
Costruiamo la nostra nazione…
Diamoci la mano,
lavoriamo insieme
ogni giorno grati a Dio.

Poi tutti si sono dati convegno nella cattedrale di Meru: politici, ex mau mau, protestanti, musulmani, i nuovi borghesucci, la massa di contadini. Qualcuno è svenuto.
Ho iniziato l’omilia della messa con: «uhuru na ukristu» (libertà e cristianesimo). Silenzio di tomba. Come un prete si sente ascoltato in certe occasioni!
Ho svolto l’idea di libertà nella Bibbia e della liberazione portataci da Cristo, che ci fa popolo di Dio. Ho parlato del colonialismo degli egiziani, che tenevano prigionieri gli ebrei. Ho continuato dicendo che il Kenya salutava Kenyatta, protagonista della sua indipendenza, e Gesù Cristo, fautore della libertà di ogni uomo. E ho concluso pregando per il Kenya e il suo presidente.
Mi sono sentito un po’ inorgoglito, come se avessi fatto un discorso alla camera dei lords. Saverio, un kenyano, mi ha detto: «Padre, pareva che parlassi della libertà della tua nazione». È stato un complimento.
S tasera sono stanco nella solitudine della mia camera. La finestra è spalancata sotto le stelle, che sembrano essere state lucidate apposta per questo giorno. Mi ritrovo a canticchiare l’inno nazionale:
O Dio, nostra forza,
benedici tutti noi…

p. Giovanni Bonzanino

Francesco Beardi




SPECIALE 100 ANNI – Ieri e sempre…

PIONIERI

INOSSIDABILE
mons. Filippo Perlo (1873-1948)

Partito col primo drappello di quattro missionari destinati al Kenya, alle dipendenze dei padri dello Spirito Santo, padre Filippo Perlo raggiunse Tuthu, villaggio del capo kikuyu Karuri, la sera del 28 giugno 1902.
Superiore del gruppo l’Allamano aveva scelto padre Tommaso Gays; ma il capo naturale e motore trainante risultava a tutti Filippo Perlo: l’anno seguente fu nominato superiore.
Intelligente e pratico, lavoratore instancabile, salute di ferro, era nato per comandare. L’esperienza militare l’aveva formato a quel tipo di autorità che dà ordini senza troppe spiegazioni ed esige obbedienza assoluta. Per la profonda conoscenza del territorio, acquisita con numerosi e difficili viaggi, i suoi giudizi sul lavoro e scelte da fare erano spesso insindacabili; nel suo frenetico dinamismo indicava la strada e la percorreva per primo. Tutte le incipienti missioni del territorio affidato all’Istituto portano l’impronta della sua fatica, ispirazione e propulsione.
Sapeva servirsi delle autorità locali e coloniali senza lasciarsi condizionare; con intelligenza, diplomazia e qualche sotterfugio, riusciva a ottenere il massimo e concedere l’indispensabile.

Sognava una rete di missioni, distanti una giornata di cammino una dall’altra, entro cui abbracciare tutta la regione dei kikuyu per evangelizzarla e impedie l’accesso ai protestanti. Da qui la sua strategia: «occupare» i punti nevralgici, con strutture ridotte all’osso, da cui partire per la penetrazione capillare nel territorio. A un anno e mezzo dall’arrivo in Kenya erano nate sette missioni, un collegio per catechisti, una segheria e una fattoria agricolo-pastorizia in embrione.
All’inizio del 1904 i missionari si radunarono a Fort Hall (oggi Murang’a) e gettarono le basi del loro metodo di apostolato: formazione d’ambiente, cura dei malati, visite giornaliere ai villaggi, scuole, soprattutto di arti e mestieri, formazione di catechisti. Principi e regole diventate punto di riferimento fino ai nostri giorni.
Nel progetto iniziale dell’Allamano, l’impresa missionaria in Kenya doveva servire come prova temporanea, in attesa di spostarsi tra gli oromo (galla) dell’Etiopia. Ma padre Perlo convinse l’Allamano a chiedere a Propaganda fide di separare il territorio kenyano dal vicariato apostolico di Zanzibar e affidarlo ai missionari della Consolata. Il 14 settembre 1905, con grande disappunto dei padri dello Spirito Santo, fu creata la missione indipendente del Kenya e quattro anni dopo fu eretta a vicariato: padre Perlo fu nominato vicario e consacrato vescovo.

Il consolidamento del lavoro tra i kikuyu mise le ali a mons. Perlo, deciso a estendere l’attività missionaria ad altre etnie. Nel 1911 visitò la regione del Meru, ancora sconosciuta; individuò varie località adatte in cui fondare nuove missioni e, superati ostacoli e reticenze da parte delle autorità governative, vi inviò i primi quattro missionari per iniziare l’evangelizzazione dei meru.
Nella sua inesauribile strategia, il vescovo sarebbe voluto andare dappertutto; talvolta senza misurare le forze dei missionari. Già nel 1902 scriveva nel diario un piano di evangelizzazione per i nomadi masai: «Ancora da nessuno tentata, si presenta a noi in condizioni certamente favorevoli. Però il sistema di evangelizzazione sarà alquanto differente da quello dei kikuyu, popolo agricoltore e stabile. Come i missionari che evangelizzano i beduini, bisognerà seguirli nelle loro peregrinazioni, abitando nei loro kraals, in tende o casette mobili con ruote!». Il piano cominciò a realizzarsi solo nel 1963, quando a mons. Cavallera fu affidata la regione di Marsabit.

Intanto l’attività dell’Istituto si estendeva all’Etiopia (1916) e Tanzania (1919). Mons. Perlo metteva a disposizione i suoi migliori missionari; da Torino veniva consultato o suggeriva nuovi progetti e mezzi per attuarli. Al tempo stesso il vescovo escogitava per il vicariato una miriade di iniziative e ne controllava strettamente l’esecuzione. Tre di esse costituirono il fiore all’occhiello della sua geniale attività: tipografia (1916) e pubblicazione del mensile Wathiomo mukinyu, diventato strumento indispensabile per lo sviluppo delle scuole e consolidamento dell’attività catechetica; seminario di Nyeri per il clero locale (1919); congregazione delle suore indigene della Immacolata Concezione (1920).
Ritenendo la donna indispensabile nella evangelizzazione, il Perlo aveva voluto le suore fin dall’arrivo in Kenya, «prestate» dal Cottolengo; poi insistette perché l’Allamano estendesse la sua pateità anche al ramo femminile: nel 1910 nacque l’Istituto delle missionarie della Consolata. Egli sapeva quanto una missione dipendesse dalle suore. Non fu sempre tenero con loro, ma per lui contavano quanto i missionari, a volte anche di più.
Nel 1924 il vescovo dovette tornare in patria per seguire da vicino e a tempo pieno la vita dell’Istituto. Alla morte dell’Allamano divenne superiore generale. Durante la visita apostolica si ritirò dalla carica (1930). Avrebbe voluto tornare nel suo vicariato. Ormai con la nomina del nuovo vicario, mons. Giuseppe Perrachon, i ponti erano tagliati. Si ritirò a Roma, dove morì nel 1948.

Dall’antico vicariato apostolico del Kenya, sono nate l’arcidiocesi di Nyeri, con le suffraganee di Meru, Murang’a, Embu, Marsabit, Garissa e vicariato di Isiolo. Tali chiese locali restano la migliore testimonianza che l’opera, avviata e guidata per 22 anni da mons. Perlo, aveva radici profonde, capaci di portare frutti abbondanti.

INAFFERRABILE
mons. Gaudenzio Barlassina (1880-1966)

Era il sogno dell’Allamano: continuare il lavoro del Massaia in Etiopia. Turbolenze per la successione al trono, opposizione del clero copto, intrighi inteazionali rendevano impossibile l’entrata ai missionari.
Dal vicariato dei galla, affidato ai cappuccini francesi, nel 1913 Propaganda fide staccò la prefettura del Kaffa e nominò prefetto padre Gaudenzio Barlassina. «Trovata chiusa la porta, non mi resta che la finestra» decise il missionario: travestito da mercante, cavalcando un mulo, la sera di natale del 1916 entrò in Addis Abeba; affittò una casetta annessa all’Hotel Bollolakos e cominciò a studiare la situazione, oltre alla lingua e costumi del paese.
«Guardare senza copiare; sentire senza parlare; fare senza dire; procedere senza curarsi degli apprezzamenti umani…» era la strategia adottata per riuscire nella sua complicatissima missione. Per non dare nell’occhio, si dedicò a minuscoli commerci; lavorò come traduttore nella Banca Abissina; diventò socio della falegnameria dell’italiano Felice Gullino, col quale cercò i contatti giusti per raggiungere i suoi scopi.
Riuscì a farsi ricevere da ras Tafari, reggente al trono dell’impero etiopico. Questi apprezzò il progetto sociale e umanitario proposto da Barlassina; ma non concesse alcun permesso esplicito, per non provocare la suscettibilità del clero copto, sostenuto dalla regina Zauditù.
Gli andò meglio con alcuni ministri imperiali e capi locali, dai quali ottenne un lasciapassare per entrare nella regione del Kaffa per svolgere attività commerciali.

Alla fine del 1917 arrivarono i primi rinforzi, anch’essi camuffati da mercanti. Non potendo agire allo scoperto, Barlassina progettò scuole agricole e laboratori industriali, con cui entrare in contatto con la gente, soprattutto con i giovani: nasceva la stazione missionaria di Ghimbi, 500 km a ovest di Addis Abeba.
L’anno seguente, scoppiata un’epidemia di spagnola, i missionari si mobilitarono per soccorrere i malati: allacciarono relazioni con «molti cattolici abissini», residui delle cristianità del Massaia, cacciati dai paesi d’origine dalla persecuzione.
Con una fitta serie di leggendarie carovane mons. Barlassina perlustrò il territorio a lui affidato, strinse amicizie con i capi locali, studiò posizioni strategiche dove aprire nuovi centri commerciali-missionari. Nella prima carovana (1919) ebbe una stupenda sorpresa: a Giren incontrò abba Mattheos, ultimo superstite dei sacerdoti ordinati dal Massaia, costretto a domicilio coatto in mezzo ai musulmani. Si riannodava così l’ultimo filo che legava le gesta del grande cappuccino alle avventurose iniziative dei missionari della Consolata.

Era il tempo delle «catacombe». I missionari circolavano in incognito, chi con una vecchia Singer, cucendo tuniche e braghe per la gente dei villaggi; chi con pentole per raccogliere cera da fondere; chi fabbricando per capi, capetti e benestanti porte, finestre, divani, tavolini, casse per i vivi e per i morti. Intanto incontravano vecchi cristiani del Massaia e li accoglievano in segreto nelle loro capanne.
In due anni sorsero cinque stazioni missionarie. «Niente visibili monumenti di religione – scriveva monsignore -. Tutto è ancora piccolo: piccole cappelle, piccole scuole, piccoli ambulatori, piccoli catecumenati e piccole cristianità. I sacramenti sono amministrati all’ombra delle aziende e laboratori. Viaggiamo da poveri; ci stabiliamo come onesti lavoratori. Tra un lavoro e l’altro puramente materiale, trova comodo passaggio l’annuncio nascosto del vangelo».
Nel 1921 mons. Barlassina ottenne da ras Tafari la concessione di sfruttare la foresta di Sayo, ai confini col Sudan; fu allestita una falegnameria dove si costruiva di tutto, fino a case smontabili e trasportabili a distanza. La regina Zauditù e ras Tafari ordinarono due palazzine, completamente arredate. Il trasporto del materiale fino alla capitale, oltre 700 km, richiese 80 giorni di viaggio, due carovane di 3.600 portatori ciascuna e la collaborazione di 22 governatori, obbligati dall’autorità imperiale a procurare il ricambio del personale. L’impresa leggendaria aprì definitivamente i cuori dei sovrani nei riguardi di Barlassina: nel 1924 ottennero il permesso di fare entrare in Etiopia le prime suore della Consolata.
Era un tacito riconoscimento dell’attività religiosa dei missionari. Accanto ai laboratori, dispensari e bazar sorsero opere di autentica missione. Nel 1927 il Kaffa contava 11 stazioni missionarie, disseminate in un territorio esteso come l’Italia continentale, un seminario e un convento di suore indigene: le Ancelle della Consolata.

Negli anni di presenza in Etiopia Barlassina si era fatto etiope con gli etiopi, tanto che grandi studiosi di cose abissine si rivolgevano a lui come fonte esperta in materia. Non meno benemerita fu l’attività di mons. Barlassina per combattere la piaga della schiavitù. Oltre a raccogliere fondi per affrancare gli schiavi, studiò un progetto per restituire loro dignità, organizzando i «villaggi della libertà». Per liberare la gente da epidemie e malattie, fondò ospedali nella capitale e nell’interno del paese, chiamando a dirigerli medici italiani.
Nel 1932, alla posa della prima pietra dell’ospedale italiano di Addis Abeba, mons. Barlassina aveva accanto a sé l’amico ras Tafari, diventato imperatore col nome di Hailé Selassié. Era un riconoscimento esplicito di 16 anni di instancabile attività, condotta con eroica abnegazione e mirabile prudenza.
Quando la prefettura del Kaffa era ormai consolidata, nel 1933 mons. Barlassina fu eletto superiore generale, carica riconfermata nel capitolo del 1939. Per 17 anni guidò l’espansione dell’Istituto in Europa e America Latina. Nel 1949 fu nominato procuratore generale presso la Santa Sede, ufficio che rivestì fino alla morte (1966).

INARRESTABILE
padre Pietro Calandri (1893-1967)

Da piccolo sognava di fare il «bandito». Entrato nel seminario diocesano, non sapeva come conciliare sogni di avventura e vocazione; «ed eccoti saltar fuori la chiamata alla missione» racconterà lui stesso. E fu una vita al cardiopalmo.
Dopo cinque anni di esperienza in Kenya, nel 1925 padre Pietro Calandri fu inviato in Mozambico, con i primi missionari della Consolata destinati alla missione di Miruru. In tasca, però, aveva l’ordine di recarsi nella regione del Niassa insieme a padre Amiotti. Si stabilì a Mandimba, ai confini con il Malawi. Nel frattempo i superiori avrebbero richiesto i dovuti permessi.
Invece dell’autorizzazione, il prelato del Mozambico, dom Rafael Assunção, intimò di uscire immediatamente dal paese, sotto pena di sospensione da ogni attività religiosa. Da Torino arrivò l’ordine di restare. Per padre Calandri seguirono due anni di «purgatorio»; «una situazione così terribile» da farlo piangere giorno e notte.
Nel 1928 la proibizione del prelato fu revocata e padre Calandri cominciò immediatamente la costruzione della missione di Massangulo. Ma non ebbe vita facile: appena iniziati i lavori, il governatore del Niassa gli ritirò il permesso di residenza. Due anni dopo, il delegato apostolico gli ordinò di chiudere la missione. Per chiarire la faccenda, il padre dovette correre prima a Porto Amelia, poi a Beira, migliaia di chilometri con mezzi sgangherati e sentirneri da capre.
Altre minacce venivano da ladri, leoni e capi musulmani. «La lotta è il mio pane quotidiano» diceva spesso e i lavori continuarono frenetici. Con l’arrivo delle suore furono avviate le scuole elementari, la visita sistematica ai villaggi, la cura dei malati in missione e a domicilio.
Progettava altre missioni, ma dom Rafael negava ogni permesso di espansione. Padre Calandri concentrò i suoi sforzi per ingrandire Massangulo: collegi e scuole per oltre 200 alunni; laboratori di arti e mestieri; elettricità in tutta la missione; trapianto di migliaia di piante coltivate nei vivai; frutteto e orto, campi di caffè e grano; scuole-cappelle nei villaggi, affidate a maestri formati alla missione; formazione dei primi nuclei di famiglie cristiane.

Tensioni e scontri tra il missionario e il vescovo durarono fino al 1936. Da Roma dom Rafael si sentiva dire che l’evangelizzazione del Mozambico «era indietro di 300 anni», per cui egli aveva bisogno di personale. A Lisbona si vedevano con sospetto i missionari stranieri, specie italiani, visti come la lunga mano di Mussolini. Torino inviava missionari più del richiesto. E il vescovo scaricava il suo imbarazzo su Calandri.
Per eliminare l’equivoco, Roma sostituì dom Rafael con dom Teodosio de Gouveia; il superiore generale, mons. Gaudenzio Barlassina, spedì Calandri a São Manuel (Brasile), per dipingere la chiesa di Santa Teresina.
Oltre alla pittura, Calandri si dedicò anima e corpo al lavoro missionario. La gente lo adorava. Esteamente era entusiasta e ottimista, ma nel cuore sentiva quella destinazione come un castigo immeritato. Una ferita che lo fiaccò fisicamente, fino ad ammalarsi. A liberarlo dalla «terribile oppressione e agonia», che da quattro anni lo stavano consumando, arrivò il permesso di ritornare nella sua missione.
A Massangulo trovò come superiore provinciale un missionario della sua statura, ma di mentalità totalmente differente: interveniva in ogni decisione presa da Calandri. Dopo una serie di scontri e arrabbiature indescrivibili, il provinciale ebbe la bella idea di stabilirsi a Mitucué. Padre Calandri rimase a Massangulo con i suoi collaboratori, lavorando in armonia e frateità: la missione cresceva, fino ad accogliere oltre 500 alunni.

Nel 1948 padre Calandri fu richiamato in Italia; ma il vescovo di Nampula gli ordinò di restare al suo posto fino alla visita canonica del superiore generale. «Che cosa ho fatto di male?» si domandava il padre.
Da tempo lo si criticava per aver fondato la missione in una zona totalmente musulmana; perché perdeva tempo con gli orfani meticci, da qualche testa fasciata definiti «figli del peccato»; per la sua ospitalità, che avrebbe trasformato la missione in un albergo… A distanza e senza vedere la realtà, le critiche diventavano macigni.
Arrivato il superiore generale per la visita canonica padre Calandri fu chiamato a Mitucué: l’incontro si trasformò in «una bufera con tuoni e lampi». Ma quando mons. Barlassina arrivò a Massangulo, cambiò totalmente atteggiamento: non finiva di meravigliarsi per lo splendore e numero delle opere e attività della missione. Per il resto della vita monsignore continuò a definire Massangulo «una meraviglia».

Toata la bonaccia, padre Calandri continuò a lavorare col solito entusiasmo e determinazione, realizzando i sogni coltivati da tanti anni: la missione sul lago Niassa, a Cobué, e la costruzione della chiesa dedicata alla Consolata, subito definita «cattedrale del Niassa».
E continuava a battagliare contro le ingiustizie: prima con i produttori di cotone, che sfruttavano la gente in modo vergognoso; poi con le autorità coloniali che, scoppiata la guerriglia indipendentista, vedevano terroristi dappertutto e molti innocenti venivano uccisi o torturati.
Ma gli acciacchi dell’età si facevano sentire. Nel 1962 chiese e ottenne di essere sostituito dalla responsabilità di superiore. Seguirono gli anni della gloria: il presidente del Portogallo in persona gli appuntò sul petto la medaglia dell’Ordine di Cristo; il governo italiano lo nominò Cavaliere della Repubblica; il Vaticano gli conferì la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice.
Nel 1967, tre mesi dopo aver celebrato il 50° anniversario di sacerdozio, morì nell’ospedale di Nampula. Fu sepolto nella sua «cattedrale», secondo il suo ultimo desiderio: «Voglio che la mia anima scenda dal cielo a prendere il mio corpo a Massangulo».

U na vita tutta in salita; ma non si arrese mai. Padre Calandri fu pioniere, eroe, gigante, artista, antropologo… ma soprattutto educatore, difensore e padre degli africani, specie degli ultimi. Cuore sincero e sensibile, li amò tutti, senza distinzione, cristiani e musulmani. E fu riamato.

TRAVOLGENTE
padre Giovanni Battista Bisio (1903-1947)

A 21 anni (era nato a Garessio, Cuneo, nel 1903), ancora studente, Giovanni Battista Bisio dirigeva i lavori per la costruzione della cattedrale di Mogadiscio, dove fu ordinato sacerdote nel 1926. Amministratore della scuola di arti e mestieri e delle attività agricole, fece appena in tempo a farsi le ossa: nel 1930 il vicariato della Somalia fu consegnato ai cappuccini. Il padre toò in Italia e passò alla formazione dei fratelli coadiutori.

N el 1937 padre Bisio fu inviato in Brasile per studiare la possibilità di raccogliere mezzi e vocazioni. A offrire un piede a terra era il vescovo di Botucatú, chiedendo in cambio di assumere la responsabilità della parrocchia di São Manuel e portare a termine la costruzione del santuario di s. Teresa di Lisieaux.
A poche settimane dall’arrivo, padre Bisio era già sui ponteggi per dirigere i lavori, tra la meraviglia dei muratori: l’anno seguente il santuario fu inaugurato. Con l’arrivo di due confratelli iniziò a rinnovare la vita della parrocchia, guadagnandosi stima e amore della gente.
Entusiasta e intuitivo, vide nel Brasile enormi potenzialità vocazionali e cominciò a sognare qualcosa di impensabile in quei tempi: l’inteazionalità dell’Istituto. Tenace e pratico, faceva progetti dettagliati e chiedeva l’approvazione dei superiori, insieme all’invio di personale per la formazione degli aspiranti. Suggeriva di cercare un campo di prima evangelizzazione, di cui il paese era ricco, per mandarvi i futuri missionari brasiliani.
A sostenere il suo entusiasmo arrivò padre Domenico Fiorina, con visioni più avanzate: missionari della Consolata brasiliani inviati ad altri popoli e continenti.
A Torino, però, si consigliava di procedere con i piedi di piombo, finché l’avventura brasiliana non fosse passata al vaglio del capitolo straordinario del 1939. All’assemblea capitolare partecipò anche padre Bisio. La sua relazione fu accolta con favore, anche se furono poste restrizioni più di forma che di sostanza.

A capo di sei missionari, padre Bisio martellava i superiori per avere altro personale. La guerra in corso ne aveva assottigliato la disponibilità. Gli fu risposto: «Arrangiatevi come potete». «Fecero miracoli di abnegazione e buona volontà» come testimoniava il superiore del gruppo. Il 16 febbraio 1940, adattando ambienti già esistenti, venivano inaugurati due seminari «embrionali», l’uno ad Aparecida, nei pressi di São Manuel, l’altro mille chilometri lontano, a Rio do Oeste, stato di Santa Catarina, affidato a padre Domenico Fiorina.
Nel 1942, quando il Brasile entrò in guerra al fianco degli alleati, i missionari si trovarono dalla parte sbagliata e furono annoverati tra i nemici. I massoni di São Manuel cercarono di tirare padre Bisio per la giacca; il suo nome comparve in una lista di spie. Ma riuscì a difendersi e scagionarsi totalmente. Ma più logoranti furono l’isolamento in cui erano costretti i missionari in Brasile e le difficoltà di comunicare con i superiori in Italia, per ricevere chiare direttive ed evitare incomprensioni.

Finita la guerra, padre Bisio riprese a stendere progetti sorprendenti per l’espansione dell’Istituto in Cile, Argentina e altri paesi sudamericani. Ne illustrava i vantaggi con dovizie di particolari. Ma Torino frenava i suoi bollori e centellinava il personale.
Nel 1946 il padre rientrò in Italia per un periodo di riposo e per riaffermare l’attaccamento all’Istituto: lo sforzo di autosostenersi economicamente aveva destato in qualcuno il sospetto che il gruppo del Brasile fosse diventato troppo autonomo. Padre Bisio non ebbe difficoltà a dimostrare la lealtà all’Istituto e ai superiori. Continuò a battere il chiodo del personale e toò in Brasile con la nomina di superiore provinciale e una decina di missionari e altrettante suore.
Con i nuovi arrivati si poteva consolidare la formazione di oltre 100 aspiranti missionari, aprendo noviziato e seminario filosofico, e assumere la responsabilità di nuove parrocchie. Mentre le suore, oltre a collaborare con i lavori in corso, accoglievano nel noviziato una ventina di aspiranti, già preparate spiritualmente da padre Fiorina.
Nel 1947 i missionari espulsi dall’Etiopia e quelli che non poterono tornare nelle colonie inglesi, furono dirottati in Brasile. «Troppa grazia, sant’Antonio!», pensò padre Bisio, che dovette sobbarcarsi a interminabili trasferte per cercare nuovi campi di lavoro.
Dopo 10 anni di attività intensa, viaggi spossanti, responsabilità sempre crescenti, il padre si sentiva stanco e chiese ai superiori di passare la responsabilità di guida a padre Fiorina. Da Torino lo si riteneva ancora necessario: era l’uomo giusto al posto giusto.
Ma il 17 maggio 1947, ricoverato all’ospedale di Jahù per una banale appendicite, padre Bisio morì a causa di una misteriosa complicazione.

«Muoio giovane, a 44 anni, per andare a vivere la vita vera. Muoio contento: mi è forza e gioia il pensiero di aver compiuto il mio dovere di sacerdote, religioso e cristiano. Per primo venni in Brasile, per primo devo morire» furono le ultime parole.
Una vita breve, ma vissuta intensamente. Il seme da lui piantato e coltivato ha maturato decine e decine di missionari della Consolata brasiliani, inviati in tutti i continenti. I suoi sogni sono stati superati dalla realtà: oltre ai vari stati brasiliani, l’Istituto si è esteso ad altri quattro paesi dell’America Latina.

benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – I generosi

FINO ALL’ULTIMO
RESPIRO
padre Giovanni Borra (1900-1986)

Domenica al tramonto. Dalla gradinata della chiesa della Consolata di Iringa (Tanzania) i cristiani sciamano, dilagando sul piazzale antistante. Appoggiato al bastone, un anziano missionario fende decisamente la folla, aggredito da un vespaio di marmocchi affettuosi e scoccianti che implorano una caramella. La scena è da gustare. Sul volto asciutto e forte del missionario, temperato da uno sguardo dolce e penetrante, vi sono tracce di stanchezza e soddisfazione: è padre Giovanni Borra, 86 anni, 62 dei quali trascorsi in Africa, felice di essere ancora sulla breccia.
Così lo ricorda un gruppo di amici toscani: «Volto dolce, occhi penetranti, sorriso sereno e cuore grande come l’Africa. Siamo subito commossi e conquistati da questo patriarca, nel quale generosità, affabilità e simpatia si fondono armoniosamente. Mente viva, voglia di lavorare, nonostante gli acciacchi degli anni, gli si legge sul volto la serenità di un uomo realizzato, che con fede, perseveranza e carità ha vinto tutte le battaglie».

Era nato il 26 luglio 1900 a Benevagienna (Cuneo). Entra nell’Istituto a 15 anni. Dall’inizio del 1918 all’aprile del ’19 cambia la tonaca con il grigio-verde, arruolato in fanteria come aiutante infermiere: di giorno fa il soldato; di notte studia filosofia, che «ovviamente ne uscì piuttosto malconcia e sbrindellata» affermerà egli stesso.
Nel 1924 è in Tanzania. A Bihawana (presso Dodoma) Giovanni subisce il primo shock umano e missionario: incontra spettri affamati e consunti da siccità e carestia. Immagine raccapricciante che ricorderà tutta la vita.
La trasferta a Tosamaganga (300 km) avviene su carri trainati da buoi: 15 giorni di carovana estenuante; per compassione delle bestie spesso si va a piedi. Un mese dopo padre Giovanni è di nuovo in marcia: altri sei giorni per raggiungere Mchombe, nella regione dell’Ulanga. Rimasto solo a reggere la missione, con una infarinatura su usi e costumi, si sente sperduto. Gli basta un anno per comunicare con la gente e non sentirsi più un pivello.
«Ulanga» significa «regno delle acque». Il territorio è una ragnatela di fiumi, torrenti e pantani; la vegetazione è lussureggiante; la terra fertilissima: sono possibili almeno due raccolti all’anno. Ma è anche il regno delle zanzare, che si accaniscono contro padre Giovanni. La malaria lo coglie spesso, con fremiti violenti, cefalee, nausee e dolori di ossa paralizzanti.
Durante un attacco malarico più irruente e prolungato del solito, il padre invia un giovanotto a Tosamaganga per implorare un po’ di chinino. Il superiore gli risponde: «Chinino non ne abbiamo. E poi, se sarai ancora vivo quando toerà quest’uomo, il chinino non sarà più necessario. Ti benedico». Quando la febbre è più vertiginosa, il missionario cerca sollievo dentro un fusto da benzina pieno d’acqua fredda: accovacciato, si fa versare secchi d’acqua fresca sulla testa scottante.
Solitudine e difficoltà finanziarie non permettono di fare grandi sogni. Con illimitata fiducia nella Provvidenza e rimboccandosi le maniche, padre Giovanni riesce a dotare la missione con un minimo di strutture e sostenee le varie attività: scuola, dispensario, catechisti, catecumenati. E non si scoraggia davanti agli insuccessi, come quello capitato col primo gruppo di giovani raccolti alla missione per prepararli al battesimo. Erano una trentina; per sfamarli ha procurato alcuni sacchi di granoturco, riso e fagioli con grandi sacrifici. Tutto procede bene, fino a quando il padre va a Tosamaganga per gli esercizi spirituali: al ritorno i 30 catecumeni sono spariti insieme alle vettovaglie. «Santa pazienza!» esclama il missionario e ricomincia da capo.

Dal 1930 al 1933 padre Giovanni deve ricominciare da capo spesse volte, cambiando missione: Taweta, Madibira, Ujewa, Mdabulo e finalmente Wasa. Qui rimane per 37 anni, spendendo tutto se stesso: intelligenza, lavoro, salute e soprattutto il suo grande cuore. Provate a pronunciare il suo nome con qualsiasi abitante del posto: il suo volto si illuminerà; molti di essi diranno con orgoglio: «Sono stato battezzato da padre Borra».
Nel 1952 è nominato superiore provinciale. Non c’è missionario che non abbia goduto della sua squisita umanità. Finito il mandato, ricomincia a Wasa, Ulete, Makalala, Mafinga, Tosamaganga, Iringa; magari come vice parroco, purché gli permettano di restare sulla breccia, fino all’ultimo respiro, esalato a Iringa, il 24 luglio 1986.

UN UOMO TUTTO CUORE
padre Vincenzo Dolza (1880-1946)

Ragioniere, impiegato con un buon salario, una ragazza già adocchiata… A 22 anni si presentò all’Allamano, chiedendo di andare in Kenya come fratello coadiutore. Il fondatore gli disse di studiare il latino per diventare prete. Alla vigilia dell’ordinazione chiese di rimanere diacono. «Vai avanti!» gli rispose l’Allamano. Nel 1910 Vincenzo Dolza diventò prete. Aveva 30 anni. Era nato a Novara nel 1880.

G li fu chiesto di fare il «missionario in patria» come aiutante economo di Giacomo Camisassa nelle multiforme attività dell’incipiente Istituto. Padre Vincenzo cominciò a scarpinare per Torino, per provvedere il necessario alla vita della casa madre e alle missioni. Per 12 anni i suoi sogni rimasero chiusi in casse e cassoni che spediva in Africa dopo accorati addii.
Esuberante ed estroverso, non gli era facile accontentare il meticoloso e precisissimo canonico; ma era uno specialista nell’imbonire i creditori con battute spiritose e aneddoti di missione, convincendoli a pazientare, fare sconti e perfino diventare padrini dei «moretti» abbandonati nella foresta.
Un giorno, in un ufficio pubblico, s’imbatté in una segretaria carina, ma «imbranata»: padre Vincenzo le sedette accanto, le mise in ordine i registri e le insegnò come tenere la contabilità, sotto gli occhi sgranati dei presenti. La notizia arrivò fino alle orecchie dell’Allamano, che, tra il serio e il faceto, lo rimproverò: «Caro figliolo, sei sempre lo stesso: tutto cuore e niente testa».

Nel 1922 Vincenzo poté partire per il Kenya. Arrivato in vista di Mombasa, afferrò con ambo le mani il crocifisso che gli pendeva sul petto e benedisse tutta l’Africa; rimettendolo a posto, la mano sfiorò una tasca rigonfia. «L’Africa si converte con la croce, non col denaro» esclamò: estrasse il portafoglio e lo gettò in mare.
Destinato al Meru, svolse la sua attività in varie missioni: Mikinduri, Oringo, Ighembe, Egoji. Di soldi ne ebbe sempre pochi, ma suppliva con la vita spartana, inarrestabile operosità e fiducia sterminata nella Provvidenza. La sera, davanti al tabeacolo e alla Consolata, raccontava crucci e problemi: iniziava sospirando «ma!» e continuava ad alta voce finché non avesse vuotato il sacco. A volte, vinto dalla stanchezza, si accasciava sulla predella dell’altare e vi dormiva tutta la notte.
Pioggia o sole, distanze e asperità dell’ambiente, niente lo fermava nella brama di donarsi, dovunque ci fosse un dolore da condividere e sollevare. E poiché con i motori era una frana, termina i suoi viaggi col cavallo di s. Antonio, cioè facendo decine di chilometri a piedi, sfinito dalla canicola e spesso con la febbre.
Ma sapeva parlare una lingua comprensibile da tutti: quella dell’amore, bontà e comprensione. La sua parola, ricca di arguzia e comicità, gli conciliava stima e affetto e riusciva sempre ad attirare recalcitranti e impenitenti.
Gli africani si accorsero subito del suo cuore vulnerabile: a nessuno rifiutava mai un aiuto. Venivano anche gli «scrocconi». Pur leggendo loro in fronte le bugie, dopo un lungo tira e molla, tra borbottamenti in piemontese, padre Vincenzo metteva la mano in tasca e consegnava i pochi scellini che vi erano rimasti.
I confratelli dicevano che padre Dolza aveva le mani bucate. Ma con se stesso egli era spartano fino all’indigenza. «Per andare avanti – scriveva in una lettera del 1935 – ho venduto anche la mia macchina fotografica, i vestiti di lana e il fucile».
R ientrato in Italia per riposarsi e riprendersi in salute, nel 1935 partì per il vicariato di Gimma (Etiopia). Mentre imparava l’amarico, fece il cappellano dell’ospedale italiano di Addis Abeba. Sulla porta dell’ufficio aveva scritto: «Avanti! Sempre aperto!». Civili e militari, sani e malati, europei e africani, cristiani e «mangiapreti» lo definirono: «Figura magnifica di missionario».
Passato alla missione di Cengia, sulle rive del lago Margherita, padre Dolza riprese a lavorare senza risparmiarsi: in sei mesi furono costruiti la casa dei padri e cinque capannoni per ospitare collegiali, catecumeni e bambini dell’asilo. Qui lo colse lo scoppio della seconda guerra mondiale e la successiva ribellione degli indigeni. Rifugiatosi ad Addis Abeba, seguì i connazionali nel campo di concentramento di Mandera, fino al rimpatrio (1943). Ridotto a pelle e ossa, continuò a prendersi cura dei dolori altrui. Benché riuscisse sempre a nascondere la ricchezza del suo cuore sotto una coltre di facezie. Un giorno confessò senza avvedersene: «Mai ho dovuto asciugare tante e tante lacrime come nel campo di inteamento e sulla nave».

A Torino, sebbene malandato in salute, trovò un nuovo campo di lavoro tra i soldati dell’ospedale militare. Finita la guerra ritoò in comunità; ma un tumore alla vescica lo costrinse a sottoporsi a un intervento chirurgico nell’ospedale del Cottolengo. Visitato dai confratelli e dalle suore vincenzine che avevano condiviso con lui le fatiche missionarie nel Meru, seguitava a scherzare sul suo male e a far progetti per il futuro. Spesso però finiva dicendo: «Sono un povero crocifisso».
Moriva il 7 ottobre 1946.

NEL CUORE DEI POVERI
mons. Antonio Torasso (1914-1960)

«Non mi darò pace finché vedrò un infelice che piange, finché non vi sarà pace in tutta la regione, finché non vi sarà gioia in tutti i cuori». Con queste parole, pronunciate nella chiesa di Florencia nel primo incontro con la popolazione del vicariato del Caquetá (Colombia), mons. Antonio Torasso sintetizzò il suo programma missionario e la sua vita.
Zelante senza riserve, organizzatore intelligente e dinamico, era il più giovane vescovo di quei tempi. Aveva 38 anni. Era nato a Verolengo (Torino) nel 1914. Entrato tra i missionari della Consolata a 12 anni e ordinato sacerdote nel 1940, svolse varie attività in Italia fino al 1947, quando fu scelto come superiore del primo gruppo di missionari destinati al nuovo campo di lavoro affidato all’Istituto nella regione del Rio Maddalena in Colombia.

Fermatosi a Bogotá per meglio provvedere allo sviluppo dei centri del Rio Maddalena, a padre Torasso fu affidata anche la nuova parrocchia del rione Vergel, alla periferia della capitale. In breve tempo portò a termine la chiesa-santuario della Consolata e residenza dei padri; costruì le strutture necessarie per le prime suore della Consolata: casa, noviziato, collegio femminile e scuola professionale.
Bastarono cinque anni per farsi conoscere e apprezzare: nel 1952 padre Torasso fu nominato primo vescovo del vicariato di Florencia, che Propaganda fide aveva da poco creato e affidato ai missionari della Consolata.
Il vasto territorio (102.000 kmq), che comprendeva la regione del Caquetá e parte del Putumayo, era teatro di immigrazione disordinata, con una presenza dello stato quasi nulla. A cavallo, in canoa o a piedi monsignore cominciò subito a visitare il vicariato e continuò fino alla morte, per portare a tutti, missionari e popolazione, il conforto della sua parola e l’amore del suo cuore.
Senza guardare in faccia ai politicanti e ai loro partiti, si schierò dalla parte della gente, difendendone strenuamente i diritti, specie di coloro che non potevano far udire la loro voce: poveri, deboli, sofferenti, malati, abbandonati e indios. Questi, soprattutto, amò con speciale attenzione e fu da essi tanto stimato.

Fedele al motto scritto sul suo stemma episcopale, «sicut palma florebit» (fiorirà come palma), con la collaborazione dei missionari, suore e laici, mons. Torasso disseminò il vicariato di numerose opere di carattere religioso, educativo e sociale. Per offrire un punto di riferimento alle famiglie sparse lungo i fiumi e nella selva amazzonica, fece costruire numerose chiese in muratura, attorno alle quali fiorirono grandi centri abitati fino allora inesistenti.
In una regione dove i governanti si facevano vivi solo in occasione delle elezioni, mons. Torasso organizzò una formidabile rete di scuole primarie e secondarie, curandone l’amministrazione e la formazione degli insegnanti, radunandoli spesso per corsi di aggioamento; nei centri più popolati e strategici fece costruire grandi collegi maschili e femminili e istituti professionali; per la gente sperduta nella foresta organizzò scuole radiofoniche.
Non meno importanti furono le opere sociali fiorite per sua ispirazione, tra le quali il barrio «La Consolata» in Florencia, un intero rione di casette per un centinaio di famiglie indigenti; la tipografia «Allamano», con annessa scuola tipografica; un ospedale in Villa Fatima; 52 km di strada per congiungere i fiumi Orteguaza e Caquetá.
Non è esagerato affermare che lo sviluppo civile e sociale di tutto il Caquetá è opera dei missionari e del loro ispiratore e guida.

Dopo otto anni di infaticabile attività, qualcuno cominciò a mettere il bastone tra le ruote delle iniziative di mons. Torasso. Ne parla lui stesso in una lettera dell’aprile 1960. «Quanti nemici hanno cercato di dividere il nostro popolo! L’ultimo attacco fu sferrato dai comunisti, protestanti e libertini; con una propaganda subdola e calunniosa cercavano di imbrattare tutto: vita e intenzioni, azione e successi dei missionari. Una vera tempesta, presto placata dal sole di verità e giustizia».
Fu una dura prova per il vescovo missionario. Le sofferenze morali si aggiunsero a quelle causate dallo stato di salute. Sottoposto a esami clinici, gli fu scoperta una «leucemia all’ultimo stadio». Sentì tutta la gravità del momento. Alla ribellione della natura sensibile oppose la forza della sua fede: «Voglio ciò che vuole lui! – scriveva a un suo amico -. Mi sento bene, con Gesù, in Croce. Forse il Calvario durerà poco, forse vedrò presto la Madonna: i miei occhi si riempiono di lacrime di gioia».
«Vieni, Signore Gesù!» furono le sue ultime parole. E fu un placido incontro: il 22 ottobre 1960.
Sulla sua tomba, nella cattedrale di Florencia, la gente continua a portare fiori freschi, chiedendo di continuare nella sua promessa, poiché nella regione per cui ha dato la vita molti infelici piangono ancora e la pace fatica a farsi strada.

TUTTO PER I POVERI CRISTI
padre Eugenio Menegon (1912-1996)

«Gesù, Gesù!» esclamava quando ingranava la marcia sbagliata della Land Rover. La caricava di materiali, persone e animali da farla schiattare. Spesso rimaneva in panne. E continuava il viaggio a piedi, arrivando a destinazione distrutto dalla stanchezza, ma sempre allegro e gioviale come d’abitudine. Erano leggendarie le sue camminate lungo i sentirneri accidentati delle missioni di Cobué e Metangula, nell’estremo nord del Niassa, per raggiungere la gente dovunque si trovasse.
Padre Eugenio Menegon era fatto così: con i motori non aveva dimestichezza né misericordia; di fronte alle necessità della gente non aveva pietà neppure per se stesso. Un esercizio cominciato presto. Nel 1940, con in tasca la destinazione al Mozambico, fu chiamato sotto le armi come cappellano in vari ospedali militari. «Arrivano direttamente dal fronte feriti gravi e leggeri, tutti bisognosi di qualcosa: telegrammi da compilare, denaro da cambiare, lettere da scrivere, piccole spese da fare – scriveva ai superiori -. E devo fare tutto subito. In fatto di adattabilità tengo come principio d’essere napoletano con i napoletani, toscano coi toscani, piemontese coi piemontesi». E sognava di farsi africano con gli africani.
Finita la guerra, fu fermato in Italia per svolgere il compito di animatore missionario in varie case, finché nel 1949 poté partire per il Niassa (Mozambico). Aveva 37 anni. Era nato a Montebelluna (Treviso) nel 1912.

«Signore, dammi due vite; una non basta» ripeteva spesso a mo’ di cantilena. Avrebbe voluto fare mille cose allo stesso tempo; e si lamentava che gli altri non facessero altrettanto. Forte come un leone, tenace come una quercia, instancabile, i giovani missionari stentavano a tenergli il passo. Per lui non esistevano tempi e orari, quando qualcuno ricorreva a lui per chiedere aiuto o semplicemente per essere ascoltato. Il suo cuore era aperto a tutti, piccoli e grandi, bisognosi e imbroglioni, ubriachi e senza bussola. Donava senza risparmio. Per sé non riservava nulla.
Durante la lotta contro il potere coloniale, non esitò ad affrontare la polizia segreta portoghese per liberare dalla prigione varie persone sospettate di appoggiare la guerriglia. Neppure le pallottole dei ribelli riuscivano a intimorirlo, finché, in un agguato, fu ferito a una gamba, mentre si recava in visita ai suoi cristiani. All’ospedale ci fu una processione mai vista di visitatori.
Indipendenza del paese (1975) e rivoluzione marxista gli resero più difficile la vita: le opere della missione nazionalizzate; restrizione dei movimenti dei missionari e fame per tutta la popolazione del Niassa. Padre Eugenio non poteva rassegnarsi di fronte alle sofferenze della sua gente: racimolava dappertutto un po’ di sapone, sale, cibo, vestiario da distribuire ai più poveri. A Metangula i rivoluzionari lo sorpresero mentre dava a un poveraccio un pezzo di sapone: fu accusato di candongueiro (contrabbando) e condannato a domicilio coatto nella casa del vescovo a Lichinga; poi espulso dal Niassa (1979).
Toò in Italia per qualche settimana; poi eccolo di nuovo a Maputo, la capitale del Mozambico.

«Gesù, Gesù! Cosa ho mai visto! Non te lo dico!» diceva spesso. E cominciava a raccontare, sia perché il suo cuore non reggeva alle miserie incontrate, sia per chiedere aiuto. Non gli restava mai un soldo in tasca; ma tutti dovevano aiutarlo, perché potesse aiutare tutti.
A Maputo padre Eugenio cominciò una seconda vita a servizio dei poveri, ammalati e carcerati. Per raggiungerli più rapidamente, a 70 anni suonati, diede l’esame di patente per guidare il motorino. Ogni giorno, zaino da alpino sulle spalle, attraversava la caotica città e raggiungeva le sue mete.
Era proibita qualsiasi assistenza religiosa agli ammalati, tanto più ai carcerati. Ma quando poliziotti, vigili, dottori, membri del partito lo vedevano, non potevano fare altro che sorridere e lasciare passare quel vecchietto, diventato segno vivente della carità. Si fermava accanto a tutti, credenti o non credenti. Arrivava carico di ogni cosa, anche giornali e riviste, che elemosinava nelle case, ambasciate, negozi, «perché – diceva – non si sentissero abbandonati e tagliati fuori dalla vita».
Molti poveri venivano a casa per chiedere un aiuto. Di fronte al via vai di estranei nell’abitazione, qualche confratello borbottava. Un giorno il superiore sorprese nell’atrio della casa un povero in mutande che, sotto gli occhi innocenti del missionario, provava un vecchio paio di calzoni; e gli espresse il suo disappunto. «Padre, ma è Gesù!» disse candidamente padre Eugenio.
Se padre Menegon vedeva Gesù in tutti i poveri, questi vedevano il volto di Cristo in quello del missionario.

«I poveri danno fastidio – soleva dire -, ma non a chi ha un cuore misericordioso». Lui stesso era un uomo scomodo per tutti. Per le autorità civili, prima di tutto, che nel Niassa vedevano nel suo amore verso i poveri un atteggiamento «controrivoluzionario». Per i confratelli e per la chiesa in generale era coscienza critica: la sua carità senza calcoli e barriere metteva in discussione le loro «strategie e cammini di liberazione». Quando sentiva parlare di azione politica, educativa… il padre soffriva: «La carità troppo programmata non era più carità, perché fagocitava i più poveri» ripeteva.
Non pensiate, però che padre Eugenio fosse un rompiscatole. Era, invece, un uomo di grande compagnia. Divoratore di giornali e riviste, si interessava di tutto e sapeva parlare su qualsiasi argomento. Aveva un cuore di fanciullo, che si incantava e commuoveva per qualsiasi cosa, come gli capitava quando vedeva il tricolore sventolare davanti all’ambasciata italiana di Maputo. Amava la vita, con tutte le sue giornie e dolori. Bisognava vederlo seguire alla televisione le partite di calcio: a 80 anni sembrava un tifoso da curva nord.

«Che sbaglio ho fatto lasciare il Mozambico!» gli sfuggì una volta: era rientrato in Italia all’inizio del 1996, perché l’età e gli acciacchi non gli permettevano più di guidare il motorino e non voleva essere di peso ai confratelli. Nei pochi mesi di vita che gli restarono (morì il 2 ottobre 1996), continuò a stare vicino ai suoi poveri, con la preghiera. Passava lunghe ore davanti al tabeacolo, dimenticandosi dei pasti. Bisognava andarlo a chiamare. «Padre, è ora di mangiare!» gli disse una sera un confratello. «È quello che sto facendo», rispose seraficamente padre Eugenio.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – Illustrissimi

Li potremmo chiamare «i missionari con la penna», pur essendo abilissimi anche con strumenti meno nobili. Hanno messo a servizio della missione le loro doti intellettuali, spesso eccellenti e brillanti. Mossi da affetto e simpatia per la gente, si dedicarono allo studio della lingua, tradizioni, costumi, arte, modi di vivere, folclore. Pur non avendo sempre la patente di specialisti, sono diventati linguisti, etnografi, cartografi, scrittori, romanzieri, esperti di scienze naturali. Oltre a portare alla ribalta, spesso per la prima volta, popolazioni e ambienti sconosciuti, sono stati educatori di generazioni di altri missionari.

CAPIRE L’ANIMA
padre Costanzo Cagnolo (1887-1961)

Scoccava la mezzanotte del 6 luglio 1961 quando, a Nyeri, padre Costanzo Cagnolo chiudeva la sua giornata terrena, durata 74 anni, 48 dei quali sul campo missionario. Nato a Draguignan (Francia) nel 1887, a un anno rimase orfano di madre e fu educato a Spinetta (Cuneo) da una zia matea. Entrato nell’Istituto nel 1906 e ordinato prete nel 1912, partì per il Kenya nel 1913.
Missionario geniale e polivalente, padre Cagnolo fu carrettiere e carovaniere, muratore e cappellano militare, direttore di seminario e vicario generale della diocesi; parroco e fondatore dell’Azione cattolica, direttore di tipografia e scrittore di articoli e libri; etnologo e musico. Costruì scuole-cappelle in paglia e fango e la prima chiesa in muratura della diocesi di Nyeri. Fu chiamato a svolgere incarichi di fiducia in India, Somalia e Sud Africa. Ma il cuore rimase sempre tra i kikuyu, dei quali conosceva la lingua kikuyu come le sue tasche: ciò gli permise di penetrare nell’anima di quel popolo.
È soprattutto nel campo culturale che padre Cagnolo profuse intelligenza e zelo missionario. Fu incaricato di ordinare il materiale raccolto da vari missionari che, fuso con i frutti della sua esperienza, venne pubblicato in inglese, nel 1933, col titolo: The Akikuyu. Questo studio etnografico, il primo del genere su costumi e tradizioni, folclore e religione dei kikuyu, riscosse grande interesse e fu altamente apprezzato in ambienti scientifici. Un estratto della monografia fu pubblicato in italiano nel 1954 col titolo: Kikuyu e mau mau.
Oltre ai numerosi articoli di carattere etnografico e missiologico, pubblicati in Missioni Consolata e altre riviste, padre Cagnolo compose un’infinità di articoli e libri di argomento religioso in kikuyu, come Athure a Eklesia: profili di santi per tutti i giorni dell’anno.
Spese gli ultimi anni della vita nel settore stampa della diocesi di Nyeri; diresse la tipografia e la pubblicazione del Wathiomo Mokinyu (amico vero), mensile che giocò un ruolo fondamentale nella formazione religiosa, civile e culturale del popolo kikuyu.
Anche il suo estro musicale si rivelò prezioso per l’evangelizzazione: studiò motivi ed elementi dei canti kikuyu e su di essi compose inni sacri e canzoni che incontrarono larga popolarità.

«Sovente muore l’uomo, ma non la sua idea» aveva scritto nel 1938 nella prefazione al direttorio dell’Azione cattolica. Mettere tutta l’intelligenza a servizio della missione, per incarnare il vangelo nella cultura locale, fu l’ideale perseguito da padre Cagnolo e lo vide realizzato: in punto di morte ricevette la prima benedizione del primo vescovo kikuyu, mons. Cesare Gatimo. Per tale evento, nel lontano 1915, aveva raccolto i primi seminaristi a Tuthu e poi, per tanti anni, era stato formatore nel seminario di Nyeri.

COME UN OROLOGIO
padre Giovanni Chiomio (1889-1979)

«Se si perdesse il libro delle regole – diceva l’Allamano – ognuno di voi ne sia una copia vivente». Padre Giovanni Chiomio lo prese alla lettera, fino a sconfinare abbondantemente nella pedanteria. Non perdeva occasione per abbordare i confratelli, specie i seminaristi, per ripetere le parole del fondatore, con precisi dettagli su giorno, ora e luogo in cui erano state pronunciate. E continuava per ore, finché qualche smaliziato accennava al suono del campanello. Sordo come un battaglio di campana, padre Chiomio si chiudeva la bocca con la mano e diceva: «È la voce di Dio!».
Alto e solenne come un monumento, barba bianca e bastone in mano, incuteva riverenza. Passo sicuro e misurato, un metro esatto, con 33 falcate raggiungeva il suo posto in refettorio e rimetteva a posto la sedia che i chierici burloni avevano spostato di qualche centimetro.
Il beato fondatore gli aveva detto che sarebbe morto a 90 anni. L’orologio della sua vita si fermò con appena due mesi di ritardo: era nato a Garzigliana (Torino) il 19 ottobre 1889; morì il 13 dicembre del 1979.

Poliedrico, metodico, esatto come un orologio svizzero, padre Chiomio è una figura eccezionale e irripetibile: «Dio lo ha fatto e poi ha gettato via lo stampo». Fu esploratore e cartografo, etnografo e linguista.
Arrivato in Kenya nel 1919, fu incaricato dell’amministrazione del vicariato di Nyeri e ispettore delle scuole. Nel frattempo tracciò una stupenda serie di mappe dei territori e attività dell’Istituto: presentate alla Esposizione missionaria vaticana dell’anno santo 1925, egli meritò la «medaglia di benemerenza» da parte della S. Sede.
Nel 1925-26 fu incaricato di esplorare le regioni del Mozambico comprese tra i fiumi Rovuma e Zambesi. Fibra robusta, inquisitore pignolo, pedometro a una gamba, notes e matita in mano, teodolite e strumenti vari nella borsa, percorse a piedi migliaia di chilometri, misurando distanze e rilievi, percorsi di fiumi e torrenti, registrando nomi di popolazioni e località, flora e fauna e quant’altro attirava il suo sguardo indagatore. Tutto si trasformava in schizzi e pagine di diario preciso e minuzioso fino all’inverosimile.
Fece altrettanto nel 1927-28, insieme a padre Giovanni Ciravegna, nell’esplorazione delle regioni dell’Etiopia meridionale, Kaffa, Alto Giuba e Uebi Shebeli.

Alla fine del 1928 padre Chiomio si stabilì a Torino e cominciò a sistemare materiale e dati raccolti in quegli anni. Sotto la sua direzione, la scuola cartografica dell’Istituto produsse un impressionante numero di carte geografiche, elogiate da vari enti e andate a ruba nei ministeri italiani, specie in quello militare.
Fioccarono i riconoscimenti. Nel 1938 il re d’Italia lo nominò commendatore dell’Ordine coloniale d’Italia «per benemerenza geografico-etnica, in seguito all’esplorazione del Sud Etiopia». L’anno seguente ricevette la medaglia d’argento dalla Società geografica italiana.
Altrettanto impressionante è il numero di studi sulle lingue dei popoli incontrati nelle sue esplorazioni: kaffina, wollana, galla, amarica, magi, hadiya (Etiopia), somala (Somalia), kemeru (Kenya), kibena (Tanzania), ronga, elomwe, chopi, citswa (Mozambico). Ogni studio, spesso consistente di centinaia di pagine, comprende introduzione etnografica, grammatica e dizionario.
Tanto lavoro aveva uno scopo preciso: scegliere i luoghi più adatti per la fondazione di stazioni missionarie e aiutare i confratelli a inserirsi con maggiore facilità ed efficacia nelle popolazioni a cui erano destinati.
Ciò non toglie che le sue opere trascendano il semplice scopo missionario. «Relazioni e disegni di padre Chiomio – affermò il governatore della Somalia, dr. Guido Coi – sono un lavoro veramente interessante e ancor più sta a dimostrare le grandi benemerenze che l’Istituto ha saputo acquistarsi non solo nella propaganda missionaria, ma oltresì nel campo della scienza».

Se Chiomio fu una copia ambulante della regola dell’Istituto, Vittorio Merlo Pich fu una icona vivente del padre fondatore. Ne ereditò lo spirito e calda umanità; lo amò profondamente e si sentì da lui amato fin dal giorno in cui la madre lo presentò all’Allamano: aveva appena 10 anni. Era nato a Nole Canavese (Torino) nel 1899. Fu un amore che si trasformò in venerazione e durò tutta la vita.
Ordinato sacerdote nel 1921, padre Vittorio raggiunse il Kenya nel 1923. Studiò per un anno lingua, usi e costumi kikuyu e fu subito lanciato nel lavoro missionario: a 24 anni, era superiore (da solo) di Kianyaga, la più isolata missione del vicariato di Nyeri. Continuò a farsi le ossa alla direzione di una fattoria agricola; poi come aiutante e superiore della missione di Limuru, finché furono scoperte le sue doti di intelligenza e preparazione culturale.
Nel 1931 fu nominato preside della scuola elementare e media di Nyeri. Venne quindi nominato «segretario per l’istruzione», con la responsabilità di rappresentare la diocesi di fronte al governo. Due anni dopo fu eletto membro del «Comitato per fissare l’ortografia della lingua kikuyu». Il suo valido contributo gli attirò la stima e simpatia delle autorità locali. Al tempo stesso si sentì stimolato ad approfondire lo studio delle lingue bantu. Nel 1938 pubblicò Elementi di grammatica kikuyu.
Per quasi 20 anni, salvo quelli passati in campo di concentramento, padre Vittorio fu responsabile dell’organizzazione scolastica della diocesi di Nyeri. Un lavoro intenso e delicato: si trattava di imprimere un contenuto religioso alla formazione laica proposta dal governo coloniale. Non mancarono le reazioni acerbe da parte dei protestanti, superate con la sua proverbiale bontà, ma senza cedimenti.
Alla fine del mandato di consigliere generale (1949-59), avrebbe voluto ritornare in Africa; il suo nome era apparso nella «rosa» per diventare vescovo del Kenya, ma la salute lo fermò in Italia: nel 1953 si era ammalato gravemente; ma riuscì a guarire (secondo la sua profonda convinzione) per grazia speciale del padre fondatore.

In Italia continuò la sua missione mettendo a disposizione degli altri la profonda conoscenza di lingue e culture africane. Nel 1953-54 portò a termine un lavoro iniziato già in campo di concentramento: la compilazione e pubblicazione della Grammatica della lingua swahili e il Dizionario kiswahili-italiano e italiano-kiswahili: due opere aggiornate a più riprese che, ancora oggi, rimangono strumenti insuperabili per lo studio di tale idioma. Aprì a Torino un corso di lingua e cultura swahili, il primo in Italia, che continua tutt’oggi.
Con la padronanza delle lingue, padre Vittorio era penetrato nell’anima del popolo. Lo testimoniano i numerosi articoli e libri di carattere etnografico, tra i quali: Miti e leggende kikuyu (1967); Favole kikuyu (1967); Ndai na gikandi – Kikuyu enigmas – Enigmi kikuyu (1973), raccolta di proverbi pubblicati in tre lingue; Cultura e letteratura kikuyu, in Africa (1968).
Nel 1974 fu insignito della massima onorificenza del Kenya dallo stesso presidente Kenyatta, che riconobbe nei suoi studi sulla cultura bantu un ponte di comunicazione tra l’Italia e l’Africa.
Un missionario linguista è anche il titolo della tesi di laurea con cui Adriano Bianco ha conseguito il dottorato in Scienze politiche presso l’università di Torino nel 1996: presentando le vicende missionarie di padre Merlo Pich e della sua copiosa produzione letteraria, il neo dottore non esita a definirlo uno dei massimi esponenti della cultura kikuyu.

MISSIONARIO
MONELLO
padre Ottavio Sestero (1901-1980)

Vivace, brioso, amante del gioco e un po’ sbarazzino; ma intelligente e buono come il pane: così lo ricordano quanti lo conobbero dal giorno in cui entrò tra i missionari della Consolata. Aveva 13 anni. Era nato a Chiusa S. Michele (Torino) nel 1901.
Socievole e arguto, zelante e di piacevole compagnia lo definiscono i confratelli che condivisero con lui la vita missionaria. Arrivò in Kenya nel 1926 e vi rimase per 40 anni, lavorando in varie parrocchie delle diocesi di Meru e di Nyeri. «Artista» è la parola che riassume la sua vita e personalità.

Artista nel cuore e nella fantasia, padre Ottavio Sestero maneggiava con la stessa facilità la zappa e la penna, il pennello e l’aspersorio, il flauto e la cazzuola.
Nella pittura non era un Michelangelo, eppure molti devoti africani s’infervoravano davanti alle sue madonne e santi che oavano le chiese. Molti amici custodiscono gelosamente un suo acquerello, rappresentante una scena di villaggio o il balzo di un leone che ghermisce un’antilope in fuga. Molti ufficiali inglesi di guardia ai campi di concentramento conservano nei loro salotti in Inghilterra la loro caricatura, eseguita dal simpatico missionario prigioniero. L’originalità e senso umoristico dei suoi disegni servivano soprattutto per rendere più attraenti i suoi scritti.
Padre Sestero è stato, infatti, un missionario scrittore, ricco di concetti e molta verve; sapeva cogliere nella vita quotidiana del missionario quei particolari che, tratteggiati dalla sua penna, formano una piacevole lettura. Nei suoi scritti manifesta le risorse inesauribili della sua mente, comunica la sua allegria semplice e ingenua, insieme al suo amore per l’africano.
Oltre ai Fioretti di padre Cencio (vita di padre Vincenzo Dolza), padre Sestero scrisse una quindicina di libri, pubblicati in collane dai titoli accattivanti: «I romanzi del brivido», come L’inafferrabile Dan (un generale della mau mau) e «I racconti della brughiera».
Ma quelli che lo resero famoso tra i giovani lettori, e anche meno giovani, furono i «Racconti per la gioventù», vivi, allegri, eroicomici, pubblicati a mo’ di romanzo d’appendice su Missioni Consolata dal 1947 al 1961. La sua creatività pareva inesauribile.
A conclusione seguiva la Storia di un missionario monello, una specie di autobiografia in cui raccontava le birichinate giovanili e qualche monelleria combinata «nonostante il duro lavoro di apostolato in terra africana». «Oggi – scriveva -, con la barba e i pochi capelli bianchi che mi sono rimasti, continuo a essere allegro: missionario allegro, anche se non più monello».

FORGIATORE DI UOMINI FORTI
padre Olindo Pasqualetti (1916-1996)

«La mia data di nascita l’avrò scritta centinaia di volte, in ogni occasione in cui la burocrazia civile, ecclesiastica, scolastica e accademica lo richiedeva: 12 settembre 1916; giorno di una delle tante feste della Madonna che, liturgicamente costellano (costellavano) i mesi dell’anno; quindi giorno di buoni, anzi, ottimi auspici. Effettivamente è stato ed è tuttora così: la Madonna è decus, clypeus, auxilium, consolatio (decoro, scudo, aiuto, consolazione)». Così inizia il curriculum vitae tracciato dallo stesso padre Olindo Pasqualetti pochi mesi prima di lasciarci.
Nel 1928 iniziò la sua formazione nella casa di S. Maria a Mare. «Ero entrato spiritualmente allo stato brado – continua -: ero soltanto battezzato, senza precise nozioni di catechismo. Ero entrato con il solo scopo di studiare. Ma dopo il primo mese, udendo attentamente le brevi conferenze del padre direttore, mi convinsi che avrei dovuto scegliere: andarmene o rimanere solo a condizione di seguire, rendendolo sempre più esplicito, il cammino della vocazione. E fin d’allora (avevo compiuto appena 12 anni) della vocazione non ebbi più dubbi, se non in qualche momento oscuro, in cui mi faceva velo la ricerca di un certo perfezionismo.
Anche le prime elementari nozioni di linguistica erano in sintonia con la vocazione: mi suscitò interesse l’etimologia di missionario e apostolo, che sentii dal padre rettore. Sicché il primo accostamento al latino e greco, che in seguito sarebbero state le due lingue antiche da me più conosciute e… professate, passò attraverso un richiamo missionario, sia pure a solo livello linguistico. Di più; la prima frase latina che cominciai a capire fu: «Ite: ecce ego mitto vos sicut agnos inter lupos» (andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi). La curiosità per il latino continuava, dunque, a passare attraverso l’interesse missionario».
A Torino, durante il biennio di filosofia, approfondì per conto suo lo studio del greco e cominciò quello della lingua ebraica, che continuò negli anni di teologia. «Leggevo e capivo gran parte della bibbia scritta in questa lingua. E oggi sono contento solo a pensare di essermi accostato alle fonti della rivelazione attraverso la lingua in cui furono concepite e scritte, e non attraverso la mediazione di un qualsiasi interprete antico o moderno.
Cominciai a studiare l’arabo e il siriaco, lingue di cui purtroppo ora leggo solo l’alfabeto; lo stesso mi succederà per il sanscrito, appreso molto bene durante i due ultimi anni di università e poi rimasto anch’esso allo stadio di pura lettura d’alfabeto».

Ordinato sacerdote nel 1940, fu destinato alla casa di Montevecchia (Como), come insegnante alle medie. «Iniziava la lunghissima serie dei miei anni d’insegnamento. L’anno successivo ero professore nel nostro liceo di Cereseto (AL), dove mi preparai per gli esami di maturità classica (1943), sostenuti da privatista nel senso più stretto della parola: non avendo alcun attestato civile di studi antecedenti, venivo ammesso agli esami per età, ma con la qualifica di analfabeta.
L’anno seguente m’iscrissi all’Università cattolica di Milano: portai in segreteria il diploma di maturità avvolto nella pompa della bicicletta per non sgualcirlo. Nei primi due anni di sporadica frequenza universitaria, mi servivo della bicicletta per recarmi da Cereseto a Milano».
Conseguita la laurea in lettere classiche (1948), padre Olindo cominciò a insegnare latino e greco nel liceo di Varallo Sesia. A partire dal 1959, fu chiamato a tenere corsi di esercitazione presso l’Università cattolica. «Il duplice insegnamento, al liceo e all’università, durò fino al 1970, quando, dopo aver vinto il concorso di assistente ordinario, attesi soltanto all’attività didattica e scientifica presso l’Università cattolica.
In 53 anni d’insegnamento, sono stato professore di tutti gli ordini e gradi di scuola a base umanistica: ginnasio inferiore e superiore, liceo classico privato e statale, teologia biblica, università, istituto di filologia classica.

A partire dal 1950 circa, ho pubblicato oltre un centinaio di saggi in varie riviste: Latinitas, Aevum, Euphrosyne, Vox Latina, Latina Lingua, Gymnasium (di Torino e Bogotá), Hermes Americanus, Commentarii curante Instituto Studiis Romanis provehendis, Gioale Filologico Ferrarese. Sono composizioni poetiche e prose saggistiche in lingua latina e italiana, commenti a scrittori antichi per le scuole medie superiori, liriche greche, voci per l’Enciclopedia Virgiliana, Fondazione Treccani.
Molti sono i premi in medaglie d’oro o d’argento, publicarne e magnae laudes, in concorsi nazionali e inteazionali di prosa e poesia latina: Certamen Hoeufftianum (Amsterdam), Certamen Vaticanum, Certamen Capitolinum, Certamen Vergilianum, Certamen Catullianum, Certamen Avenionense, Certamen Pascolianum, primi premi Fermo, Montalto (AP), Popoli (CH)».

Padre Olindo è stato uno dei massimi latinisti del secolo. I suoi capolavori di poesia greca e latina, raccolti in due volumi dal titolo Gemina Musa, sono presenti in quasi tutte le università italiane e in molte straniere.
È stato e rimane, soprattutto un missionario della Consolata «speciale» per la formazione impartita a generazioni di missionari e laici, che continuano a nutrire per lui stima e venerazione. «Sì, venerazione, perché per noi, già suoi alunni sparsi in tutto l’orbe terracqueo, egli era il professore per eccellenza, il dotto umanista, padre, guida – affermava un ex alunno nel discorso di addio -. Sapeva mutare l’aula scolastica nella sacra officina dello spirito, dove si temprano e si forgiano gli uomini forti. Era l’uomo di valore, il “forgiatore”, il docente per antonomasia, che formava carattere e cultura.
Ti rivedo sulla cattedra, ma senza atteggiamenti cattedratici, col tuo sorriso aperto e cordiale, la tua figura quasi dimessa, ma piena di umanità, fratello maggiore o padre, a spiegarci e farci gustare le bellezze della lingua di Roma; ricordo la tua gioia, intima commozione, quando qualcuno di noi si affermava nella scuola o nella vita» (Gabriele Nepi).
Padre Olindo se ne è andato in punta di piedi, con la modestia che gli era propria, il 21 novembre 1996, festa della presentazione della Vergine Maria: un giorno mariano come quello della sua nascita.

benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – Gli infaticabili

Per i fratelli coadiutori l’Allamano nutriva speciale predilezione; riteneva il loro contributo all’«elevazione dell’ambiente» indispensabile nell’evangelizzazione. Anche per gli aspiranti al sacerdozio il lavoro manuale è sempre stato materia di formazione. Il motto benedettino: «Ora et labora» (prega e lavora) è stato e continua a essere una caratteristica dei missionari della Consolata, padri e fratelli.

CAPOSTIPITE
fratel Benedetto Falda (1882-1969)

«Non piangere! Se vuoi bene a tuo fratello, pensa a raggiungerlo in Africa e lavorare insieme con lui per la salvezza di quei popoli» disse l’Allamano a Benedetto Falda, mentre questi salutava il fratello Luigi in partenza per il Kenya.
«Ero lontano mille miglia da una simile idea – racconterà fratel Benedetto -. Meccanico di precisione, a rimorchio dei compagni di lavoro, in gran parte socialisti e sovversivi, nutrivo avversione per tutto ciò che sapeva di chiesa. Ero affezionato a mio fratello, ma la sua scelta mi sembrava nient’altro che una teatralità.
Dopo alcuni mesi, mi recai alla “Consolatina”, come veniva chiamata la prima sede dell’Istituto, per avere notizie di mio fratello. L’Allamano mi ricevette come un vecchio amico. Mi mostrò lettere e fotografie appena arrivate dal Kenya… Mi disse che c’era bisogno urgente di tecnici per impiantare una modea segheria. Si pensava di impiegare operai disposti a prestare la loro opera al servizio della missione dietro un equo compenso. Discutemmo del progetto per due ore. A un certo punto sbottai: “Senta, reverendo, io sono un meccanico. Se crede, sono pronto a partire. Potrei essere il tecnico che lei cerca. Però intenderei fare parte dell’Istituto e non andare in Africa come salariato”. Le parole mi bruciavano le labbra. Si erano dileguati nubi e preconcetti. Sembrava che un altro parlasse in me. Seguirono altri colloqui. Il 6 dicembre 1902 entravo alla Consolatina».
Aveva 20 anni: era nato a Torino il 6 giugno 1882.

Sei mesi dopo fratel Falda era in Kenya. Raggiunse Tuthu, per impiantare la segheria nella fitta e umida foresta dell’Aberdare. Era una situazione da pioniere: viaggi estenuanti a piedi, lavori senza fine, mezzi e materiali limitati, oltre all’assillo della lingua per capire e farsi capire dagli indigeni e vincere la loro diffidenza.
Dalla segheria uscirono un’infinità di materiale per costruire case per padri e suore, chiese e altre strutture dei centri di missione. Finché anche in Africa inglesi e tedeschi cominciarono a combattersi per il dominio coloniale. Fratel Benedetto seguì padri e suore negli ospedaletti militari per curare i «carriers» (portatori africani), arruolati in massa dagli inglesi e sottoposti a immani fatiche e spostamenti.
Finita la guerra, fratel Benedetto ricominciò a costruire un’altra segheria a Nyeri. Quella di Tuthu, requisita dal governo e venduta agli indiani, era un ammasso di capannoni. Per l’energia furono usati i pezzi ricavati e adattati di tre locomotive messe fuori uso dalla guerra. Il lavoro riprese a tutto vapore.
Nel 1921 fratel Benedetto si seppellì nuovamente nella foresta di Oringo, a nord-est del monte Kenya: impiantò una seconda segheria e cominciò a fornire legname per costruire case, scuole, cappelle, mobilio e le suppellettili necessarie al lavoro missionario nel Meru.
Terminata l’opera (1927) il fratello fu chiamato a dirigere il reparto di falegnameria annesso alla scuola centrale della missione di Nyeri. Efficienza e qualità dei lavori, molto ricercati dai coloni inglesi, attirarono l’attenzione dell’ispettore del Dipartimento dell’educazione, che divenne grande ammiratore e amico di Benedetto e gli ottenne un salario da istruttore.
La fama della scuola attirò anche giovani protestanti. Molti di essi vollero presto seguire anche le lezioni di catechismo che fratel Benedetto teneva ogni sera. Più tardi furono ricevuti nella chiesa e, tornati ai luoghi di origine, diventarono a loro volta missionari tra i propri paesani. Attraverso di loro fu possibile aprire missioni e scuole in zone rimaste per anni impenetrabili, come quelle di Tumutumu, Ngandu e Karatina.

I n mezzo alle più svariate e pressanti occupazioni, fratel Benedetto non dimenticò mai di essere missionario. Oltre a insegnare un mestiere con cui vivere dignitosamente, cercava di trasmettere a operai e studenti l’entusiasmo della sua fede, mediante il catechismo serale e, soprattutto, con la testimonianza della vita.
Nel 1940 ritoò in patria e gli fu affidata la formazione degli aspiranti fratelli. A lui e ai suoi allievi si deve, tra l’altro, l’allestimento di parte degli infissi usati nella ricostruzione della casa madre, distrutta dai bombardamenti del 1942, e della mobilia per arredare le stanze.
Col passare degli anni, il cuore dell’anziano fratello cominciò a dare segni di cedimento. Chiamato nella casa madre (1954), trovò lavoro nell’ufficio stampa, aggioando lo schedario degli abbonati a Missioni Consolata, felice di essere ancora utile. Sempre attivo e vegeto, continuò a lavorare fino alla morte, avvenuta nel 1969.
Ma la sua figura è ancora viva. Pioniere eroico e leggendario, Benedetto Falda è il capostipite di una lunga schiera di missionari fratelli che hanno contribuito a forgiare generazioni di uomini e cristiani, con naturalezza e dedizione, con l’operosità del cuore e delle mani.

IL ROSARIO
DEL GAUCHO
padre Domenico Viola (1906-1990)

Era nato nel 1906 a Buchardo, una sperduta fattoria nella pampa argentina, dove il prete arrivava due volte all’anno. Quando la famiglia Viola toò in Italia (1921), Domenico fu mandato a studiare nel seminario di Giaveno: a 15 anni, aveva fatto la prima (e unica) comunione e andato a messa tre volte. Buono e spassoso, un palmo più alto dei compagni, insegnava loro i segreti del gaucho: sapeva prendere al laccio il piede di un ragazzo in corsa a 15 metri di distanza.
Cominciò a divorare il vangelo e riviste missionarie. Nel 1925 entrò fra i missionari della Consolata; nel ’32 era prete e missionario in Etiopia.
La guerra italo-abissina, costrinse padre Domenico a rifugiarsi in Somalia. Toò in Etiopia con le truppe di occupazione (1936) e si stabilì a Guder. In quattro anni trasformò la missione: costruì la chiesa e organizzò la Scuola agraria. Visitava i villaggi con zelo instancabile. Gli sembrava quasi di essere nella pampa, con la differenza che il territorio era più accidentato, i viaggi interminabili e il mulo più scomodo del cavallo. Poi la guerra mondiale fermò mani e piedi del missionario, costretto a rimpatriare (1943).

In Italia padre Domenico fu incaricato di dirigere due fattorie dell’Istituto; passò alla formazione dei fratelli; nel 1946 fu nominato amministratore regionale.
Le case dell’Istituto avevano bisogno di tutto, sia per lo sviluppo che per mantenere i seminaristi che le affollavano. Padre Viola si trasformò in agricoltore e camionista, pur di provvedere il necessario a tante bocche da sfamare. In tuta da facchino, caricava e scaricava dagli automezzi viveri e materiali vari; nei viaggi le dita sgranavano rosari.

Destinato all’Argentina (1959), paese di cui aveva conservato la nazionalità, padre Domenico raggiunse Pirané, sperduta parrocchia nell’immensa regione del Chaco. Aveva 53 anni. Dal volante del camion passò al manubrio della bicicletta, con cui raggiungeva le comunità più sperdute. Spesso veniva sorpreso dalla pioggia; ed erano guai: il fango bloccava le ruote della bici, che bisognava trascinare come una slitta.
Padre Viola sfoderò subito le sue doti di muratore, geometra e architetto, insieme al gusto per le cose belle, fatte bene e a buon mercato. E le inculcò nella gente del paese e delle comunità rurali, con le parole e con l’esempio. Era convinto che il progresso materiale è il piedistallo di quello spirituale. Ancora oggi Pirané è costellata di edifici pubblici e case private che si assomigliano come gocce d’acqua per lo stile dei muri, travature e lesene bianche e verdi, simili a quello della chiesa parrocchiale e di varie cappelle rurali.
Le mani callose alternavano cazzuola e rosario. Ma anche sul lavoro cuore e mente continuavano a sgranare «ave marie». Negli ultimi anni di vita dovette mettere da parte la cazzuola: diventò una preghiera vivente. Un giorno, in una delle rare confidenze, disse di aver recitato oltre cento rosari: alcuni interi, altri mentalmente. Aveva trasformato tale devozione mariana in contemplazione.
Era da tutti venerato come un santo, sia per l’esempio di preghiera e laboriosità, che per il suo cuore umile e generoso. Morì a Buenos Aires, il 16 febbraio 1990. Stava per essere interrato nel cimitero della capitale, quando la gente di Pirané lo reclamò con forza. Durante il funerale, il vescovo di Formosa disse senza esitazione: «Padre Domenico è un santo; un grande santo. Deve essere sepolto nella sua chiesa. Sono sicuro che la gente non lo lascerà in pace: dovrà ancora intercedere per noi».

IL SOGNO
CONTINUA
fratel Ugo Versino (1918, vivente)

A 82 anni (è nato nel 1918 a Coazze, Torino) fratel Ugo Versino sogna ancora l’Africa come da bambino. Suo padre aveva conosciuto il cardinal Massaia in Etiopia e parlava spesso delle meraviglie compiute dal grande missionario. Ugo ne era rimasto affascinato. Conseguito il diploma nell’istituto tecnico salesiano (1936), a 18 anni, entrò tra i missionari della Consolata.
Tre anni dopo emise la professione religiosa: sarebbe voluto partire subito per l’Africa; solo alla fine della guerra poté imbarcarsi e raggiungere il Mozambico.

Spese cinque anni in varie missioni del Niassa, finché nel 1951 fu chiamato a Massangulo. Insieme ai fratelli Bartolomeo Peretti, Lorenzo Baroffio, Giuseppe Benedetto, Ugo organizzò un vero istituto tecnico professionale, da cui uscirono centinaia di falegnami, ebanisti, muratori, carpentieri, meccanici, calzolai, conciatori, sarti, agricoltori… e soprattutto bravi cristiani. Ne ricorda ancora i nomi; può raccontae vita e miracoli, soprattutto le persecuzioni che subirono per restare fedeli ai valori cristiani imparati dalla sua scuola e dal suo esempio.
Massangulo brulicava di quasi mille alunni; metà dei quali collegiali, quando venne la rivoluzione marxista, che nazionalizzò tutte le opere e proprietà della missione e proibì ogni manifestazione religiosa. Dapprima tollerati, i padri furono definitivamente allontanati. Fratel Ugo riuscì a restare più a lungo. «Ero venuto in Africa per stare con gli africani – racconta -; decisi di andarmene solo se mi avessero cacciato».

Fu sottoposto a inaudite umiliazioni. Per aver venduto le sue galline, prima che fossero anch’esse «nazionalizzate», fu accusato di boicottare la rivoluzione e il progresso del popolo: in pubblico processo fu condannato a sei mesi di reclusione in un campo di rieducazione socialista. Un amico lo salvò dal lavaggio del cervello.
Gli fu tolta ogni responsabilità diretta nella scuola, lasciandogli solo l’insegnamento del disegno. Faceva vita comune con i ragazzi: sveglia alle quattro del mattino; lavoro comunitario nell’orto o nella manutenzione della scuola; pulire i cessi dei ragazzi. «Fino ad oggi – dicevano i caporioni agli alunni – voi avete servito i colonialisti; è ora che anche costui impari cosa significhi servire».
La sera doveva sorbirsi, insieme ai ragazzi e insegnanti, interminabili lezioni di socialismo: ne sentiva di tutti i colori, specialmente contro i missionari. A volte, quando stavano per spararle più grosse, lo esoneravano dal resto della lezione: «Ora il colonialista può andare».
Più delle umiliazioni personali, era la distruzione sistematica della coscienza degli alunni che faceva soffrire fratel Ugo. Molti ragazzi erano confusi e gli domandavano perché ce l’avessero tanto contro la chiesa e i missionari. Rispondere apertamente era rischioso. Ma fu trovata la soluzione: mentre un ragazzo era a colloquio col fratello, altri stavano di guardia e, appena si avvicinava uno spione, dava l’allarme. Per cinque anni fratel Ugo resistette in quell’inferno, continuando a illuminare la mente dei giovani sulle falsità del marxismo e aiutarli a restare fermi nella loro fede.
Ma un giorno ricevette l’ordine di andarsene da Massangulo, con questa motivazione: «Indesiderato religioso». Era l’anno 1979. Come religioso, silenzioso, laborioso e discreto, fratel Ugo era una rovina per la propaganda rivoluzionaria.

Dopo un breve periodo di riposo in Italia, toò nuovamente fra i suoi mozambicani. Raggiunse Lichinga e riprese il solito lavoro di formazione tecnica e cristiana dei giovani. In alcuni locali messi a disposizione dalla Caritas diocesana, con macchinari racimolati facendo appello ad amici italiani, fratel Ugo riaprì una piccola scuola professionale per una trentina di giovani.
Scoppiata finalmente la pace (1992), il ministro dell’istruzione del Niassa gli propose di riaprire la scuola professionale di Massangulo. Declinò l’invito per motivi di salute. Era vero: il cuore non avrebbe retto al vedere lo scempio operato dai rivoluzionari.
Di salute, infatti, ne aveva da vendere ai più giovani di lui. Ogni giorno percorreva più volte i tre chilometri di strada che separano la missione dalla scuola, e sempre in bicicletta. Una volta una guardia municipale voleva multarlo per «eccesso di velocità».
A 82 anni suonati, fratel Ugo si è arreso alle conseguenze del tempo che scorre inesorabile per tutti. Dalla casa di riposo di Alpignano (TO) continua a sognare l’Africa, come da bambino.

MANI PER LA VITA
padre Oscar Goapper (1951-1999)

«Le nostre lacrime dicono ciò che sentiamo, perché noi non abbiamo parole per dirti grazie» diceva la gente di Neisu (Repubblica democratica del Congo) il giorno del funerale di padre Oscar Goapper. Aveva 48 anni. Era nato nel 1951 a Venado Tuerto (Argentina).
Entrato tra i missionari della Consolata, venne in Italia per il noviziato e i corsi di teologia. Ordinato sacerdote nel 1976, toò in patria per dirigere il seminario di Buenos Aires. Al tempo stesso frequentò un corso da infermiere, in attesa di partire per le missioni.
Nel 1982 raggiunse lo Zaire (oggi R. d. Congo) e si buttò senza esitazioni nel lavoro apostolico e pastorale tra i mangbetu della nascente missione di Neisu.

Il primo natale, una bambina gli morì tra le braccia per mancanza di assistenza medica: per la prima volta gli venne l’idea di diventare medico. Cominciò a frequentare un medico-chirurgo di Isiro, da cui apprese i rudimenti della medicina e i segreti delle malattie tropicali. Il piccolo dispensario della missione, sotto la sua guida, iniziò a funzionare e ad ampliarsi.
Nel 1985 chiese ufficialmente di studiare medicina. Superate le iniziali titubanze dei superiori, padre Oscar si iscrisse all’Università di Milano dove, ogni tanto, arrivava per dare alcuni esami. A Neisu, intanto, costruiva un piccolo ospedale e, con pochi mezzi e tanto coraggio, curava la gente come e più di un esperto professionista.
Seguirono anni stracolmi di lavoro, pieni di difficoltà, ma anche di tante soddisfazioni. «L’ospedale è sempre pieno – scriveva nel 1991 -. Crescono gli ammalati di Aids: i protestanti dicono che sono mie invenzioni; anche la gente dice che sono bugie e noi gridiamo nel deserto! La notte di natale, dopo la messa di mezzanotte, ho fatto un cesareo a una poverina, portata a spalle dal fratello catechista per più di 40 km. È tornata a casa sana e salva. Gesti che la gente non dimentica: è la propaganda giusta che il vangelo fa di se stesso».

D al 1992 al ‘94, padre Oscar si fermò a Milano per terminare gli studi: conseguì il dottorato (110 e lode) in medicina e chirurgia. Tornato a Neisu, cominciò il dramma della guerra civile: nel natale del 1997, missione e ospedale furono saccheggiati; pochi mesi dopo, arrivarono i soldati sbandati dell’esercito zairese: padri, suore e volontari dovettero rifugiarsi nella foresta.
Invitato a Roma in un convegno sulle malattie infettive in Africa, descrisse le sue «Esperienze nella selezione e uso di piante medicinali» e poté divulgare i progressi fatti nella cura della malaria mediante l’Artemisia annua; annunciò la scoperta di un’erba che migliora notevolmente la qualità di vita dei malati terminali di Aids. «L’abbiamo chiamata Spes Neisu (speranza di Neisu). Recenti pubblicazioni scientifiche hanno dimostrato che è la stessa pianta utilizzata dagli scimpanzé per curarsi da schistosomiasi, paludismo, ferite infette».
In quell’occasione parlò a lungo dei suoi progetti: ampliamento dell’ospedale, produzione di siero per fleboclisi, sviluppo dell’omeopatia, miglioramento delle condizioni sanitarie nei villaggi, programmi di vaccinazione e nutrizione per bambini poveri, formazione di personale medico e tecnico, costruzione di una strada nella foresta, pista di atterraggio…
Mille progetti, alcuni già realizzati e altri appena iniziati, animavano il cuore del giovane missionario, sempre teso a «dare la vita per la sua gente». E fu preso in parola: all’inizio sembrava una semplice influenza e continua a fare interventi chirurgici, fino a 24 ore dalla morte. Donò l’ultimo respiro il 18 maggio 1999.
Mupe Oskari, così lo chiama la gente, è sepolto davanti alla sua casa, l’ospedale, secondo il costume mangbetu, che lo considerano uno di loro.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – I profeti

Dire missionario è dire anche «profeta», cioè un uomo non solo aperto al nuovo, ma portatore di novità. Chi partiva (qualche decennio fa) per le missioni sapeva bene che avrebbe dovuto spalancare gli occhi, adattarsi e mettersi a imparare di fronte a una realtà completamente sconosciuta: quasi una rinascita, che lo avrebbe portato a parlare una lingua diversa, comprendere tradizioni e costumi differenti dai suoi, sforzarsi di cambiare atteggiamenti e modi di pensare. Una novità assoluta, anche se riusciva a ritagliarsi qualche angolo del suo vecchio mondo, lasciato alle spalle. La novità era soprattutto ciò che il missionario annunciava, cioè la «buona notizia» di Gesù Cristo: l’annuncio originale di un Dio fatto uomo, un messaggio compendiato nella sola legge di un amore senza limiti, uno stile di vita capace di superare tradizioni e leggi venerande.
È possibile essere «nuovi nella novità», annunciare il vangelo con una marcia in più, con uno sguardo capace di vedere «oltre», con intuizioni e gesti ancora inediti? Anche tra i missionari c’è chi ha preceduto gli altri e si è distinto come pioniere non tanto nella missione, ma nel modo di portarla avanti. Per questo ha rischiato di non essere compreso, di dover «frenare» i suoi slanci e attendere che idee troppo innovative diventassero… ortodosse!

COME IL TAFANO
padre Ferdinando Viglino (1902-1969)

«Ho conosciuto padre Ferdinando Viglino in una parrocchia molto povera dell’Argentina: un uomo di grande umiltà. Aveva un’imponente biblioteca e, in quell’epoca, scriveva perfino a Maritain. M’impressionò la sua povertà, il suo vestito sgualcito, l’ambiente disadorno. Era una persona che spaziava in un mondo così vasto e viveva in un posto così povero e lontano. Aveva un’intelligenza chiara e penetrante e mi stupiva il suo coraggio nell’affrontare le questioni nuove e inedite. Celebrava la messa in spagnolo, non in latino: fu il primo sacerdote nella mia vita, molto prima del Concilio, che vidi celebrare rivolto al popolo. Ho conosciuto molta gente, grandi oratori, trascinatori di masse, ma non erano come lui. Padre Viglino veniva dal futuro e fu uno straordinario profeta, un uomo di frontiera che apriva il cammino, che anticipava… Se fosse tornato in Argentina nel ’69 e nel ’74, o se ne sarebbe andato o l’avrebbero ucciso per la sua scelta dei poveri».
La citazione è un po’ lunga, ma è troppo bella per mortificarla, sia perché delinea bene il nostro personaggio, sia perché l’autore è Enrique Dussel, grande storico dell’America Latina.
Già, padre Ferdinando Viglino: un missionario fragile, quasi sempre malato, ma che lasciava il segno. Piemontese di origine, fu accolto nell’istituto dallo stesso fondatore e ricevette l’ordinazione dalle mani di mons. Filippo Perlo, pochi giorni prima della morte dell’Allamano. Ebbe vari incarichi nei seminari. Nel 1938 fu mandato in Etiopia, dove rimase 5 anni e conobbe i disagi della prigionia ad Harar.

Nel 1948 partì per l’Argentina dove divenne parroco a Mendoza, nel barrio San José. Non c’erano né chiesa, né casa, né soldi, ma solo tanta gente, molti dei quali immigrati dalla Bolivia e dal Cile. Il giorno della sua entrata ufficiale, presente il vescovo, padre Ferdinando si paragonò «a un tafano, posto su un nobile cavallo per pungerlo e tenerlo sveglio». E per 18 anni non permise che il suo gregge si addormentasse. Andava di casa in casa visitando i malati, ascoltando e consigliando, portando viveri e medicine. Soprattutto si dava da fare per venire incontro ai poveri, rianimandone la fede e moltiplicando iniziative per difendere i loro diritti: per questo sperimenterà perfino la prigione.
Non riuscì mai ad avere una chiesa nuova, anche perché diceva: «In certi posti è più importante costruire la sede di un sindacato che un tempio». Nel 1953 fondò la JOC (Gioventù Operaia Cattolica): primo e unico gruppo esistente in tutta la diocesi. Invece del tempio, padre Ferdinando costruì un salone-cappella, ricavato da due stanze attigue abbattendone il muro divisorio. Ne approfittò per allestire l’altare rivolto al popolo.
Precursore di molte idee conciliari, fu motivo di risveglio per tutta la diocesi mendozina: preti e seminaristi lo avevano scelto come direttore spirituale, laici impegnati ricercavano i suoi consigli. La novità del suo stile apostolico contagiava altri parroci, tanto da avviare una «pastorale d’insieme» con le parrocchie confinanti. Le sue innovazioni nel campo liturgico (letture bibliche in spagnolo, omelia dialogata, paramenti, altare rivolto al popolo e, soprattutto, quel suo modo inconfondibile di legare la parola di Dio alle realtà quotidiane) attiravano cittadini d’ogni estrazione sociale nella cappella di periferia.
Quando «l’ora del Concilio» arrivò anche a Mendoza, padre Ferdinando si trovò involontariamente in un’atmosfera di tensione e pressioni finché, nel 1963, rinunciò all’incarico di parroco e tre anni dopo ritoò in Italia. Testimone tutto d’un pezzo, se ne dovette andare come un «tafano» scomodo e da scrollarsi di dosso. Ma l’impronta da lui scolpita nei cuori dei parrocchiani (e in tutta la diocesi) rimase indelebile fino ai giorni nostri.
Trascorse gli ultimi suoi anni nel seminario teologico di Bravetta, a Roma, dove continuò con il suo stile umile e provocatorio. Morirà, travolto da una macchina, il 15 dicembre 1969.

Delineare in poche righe il volto di padre Ferdinando non è cosa semplice, anche se dai pochi cenni abbozzati la sua statura spirituale e apertura al nuovo appaiono senza incertezze. Le sue idee e gesti spesso inquietavano e sconcertavano. Ma era un missionario della Consolata e, dunque, stava dalla parte della missione e degli ultimi. Amando la chiesa, anche quando il suo cuore traboccava di critiche e indignazione. Un giorno a Mendoza, durante la visita pastorale, il vescovo rimproverò davanti all’assemblea il parroco, per l’uso della lingua spagnola durante la messa. Padre Ferdinando non aprì bocca e, a chi gli chiedeva perché non avesse obiettato al vescovo, rispose: «Bisogna volere molto bene alla chiesa, anche quando ci castiga».
Conosceva alla perfezione la storia delle missioni, con le sue luci e ombre; per questo non voleva che se ne ripetessero errori o lentezze. Ripeteva spesso la frase del card. Costantini: «Noi abbiamo voluto far passare l’Oriente per la porta dell’Occidente e l’Oriente non è passato!». Vincent Lebbe, l’apostolo della Cina, era una delle figure missionarie che più lo affascinava, perché aveva saputo separare, con forza e chiarezza, l’annuncio missionario dalla sua europeizzazione.
Essere dalla parte di padre Ferdinando significava non avere vita facile. Durante la dittatura militare in Argentina, alcuni suoi amici furono perseguitati proprio perché suoi amici. Un fascicolo dattiloscritto, da loro pubblicato e dal titolo significativo («P. Ferdinando Viglino profeta y apostol de nuestra epoca»), era diventato un testo «sovversivo» e chi ne era trovato in possesso doveva rispondee davanti alle autorità di polizia; ci fu anche chi lo sotterrò nel giardino, aspettando tempi migliori.
Strana sorte per un missionario gracile di salute e mite di cuore. Veniva dal futuro, perché l’indignazione e la speranza non potevano farlo arrendere al presente. E vengono in mente le parole di Beanos: «Ci sono alcuni che vedono le cose come sono e si domandano: perché? Altri vedono le cose come non sono e si chiedono: perché no?». Padre Ferdinando apparteneva a questo ultimo drappello.

IL DIFFICILISSIMO
padre Giovanni Bonzanino (1927-1983)

«Ero un ragazzotto sui 25 anni, mezzo biellese e mezzo foggiano, un misto di nord e sud, con quel tanto di taglio piemontese da rendermi ostinato calcolatore, nonché battagliero e cocciuto, e quel tanto di taglio pugliese che rivelava la mia personalità poetica e fantasiosa». Così si raccontava padre Giovanni Bonzanino, con il suo stile brillante e un po’ provocatorio, specchio di una personalità dalle mille sfaccettature e imprevedibili risvolti. Era un missionario tutto d’un pezzo, senza mezze misure e, soprattutto, innamorato della «sua» Africa di cui parlava continuamente nei suoi libri: un amore profondo, viscerale, incontrollato per questo continente dove rimase per quasi 30 anni, «amando la terra che Dio gli aveva additato e, avendola trovata bella, l’aveva sposata, celebrandone le nozze fino all’ultimo giorno».
Il Kenya fu la prima tappa di lavoro apostolico, dove passò dalle esperienze pastorali dirette (parroco a Meru e Nkabone) fino a ruoli di responsabilità, come incaricato dell’Azione cattolica diocesana e vicario episcopale della «parte desertica del Meru».

Nel 1975 gli fu chiesto di lasciare il Kenya per l’Etiopia e fu proprio in questo paese che padre Giovanni diede il meglio di sé, consumandosi nel lavoro e moltiplicando iniziative per sostenere le opere missionarie in favore di orfani, handicappati, ciechi, affamati: una vera «fiumana di carità» che, grazie a lui, permise di lenire sofferenze, guarire malati, sostenere i bisognosi. Fu anche nominato superiore dei missionari della Consolata nel paese e presidente della Conferenza dei religiosi. Il tutto in un contesto politico (il regime socialista-marxista di Menghistu) non certo favorevole alla chiesa e tantomeno alle missioni!
Logorato da tanta fatica ed esausto per le numerose opere che pesavano sulle sue spalle, si spense, dopo pochi giorni di malattia, a 56 anni lasciando tutti sconsolati: non solo amici e confratelli, ma soprattutto gli «ultimi» che da lui erano stati accolti e amati con affetto di padre nella Città dei ragazzi a Mandera (Kenya), nel centro per handicappati di Gighessa e l’ospedale di Gambo (Etiopia).
Seppe anche leggere con attenzione la realtà, capire ciò che stava succedendo, comunicarlo attraverso i suoi scritti, proporre piste e cammini nuovi.
In occasione del suo 25° di sacerdozio scriveva: «Delle cose ne abbiamo viste e vissute in questi anni. In Africa abbiamo assistito e partecipato al morire del colonialismo e alla nascita di nuove nazioni. Abbiamo sperimentato diversi tipi di rivoluzione. Abbiamo pure visto crescere la violenza nel mondo, diventare andazzo comune la droga, entrare di moda il sequestro di persona. Nei paesi dove sono in corso rivoluzioni marxiste, abbiamo visto esplodere efferate repressioni e massacri di innocenti. Eppure, non mi dispiace di essere nato e vissuto nel mio tempo, di essere diventato prete e missionario».
Davanti a queste situazioni non restò certamente con le mani in mano, aspettando tempi migliori o soluzioni collaudate. Sapeva essere critico non solo verso gli altri («le crociate furono l’impostura più grande della storia, perché una guerra santa che usa Dio per giustificare la violenza e l’assassinio è inconcepibile»), ma partendo da se stesso, impietosamente: «Io ero un giovane missionario, sbalestrato in una zona lontana, con una fede entusiasta, uno zelo apocalittico e il tormento anti-protestantico… Oggi ritengo questa rivalità non solo anti-ecumenica, ma anti-cristiana».

Portava nel sangue l’urgenza della corsa, il gusto per le cose originali, l’attesa del domani, il tocco creativo dello scrittore e la determinazione di chi non si rassegna facilmente alle difficoltà. Lo stile frizzante non lasciava indifferenti i lettori dei suoi libri, dove, pur con certo umorismo scanzonato, sapeva mettere il dito sulla piaga. La capacità di affrontare il futuro con grinta e novità si rivela soprattutto nel suo libro «Missionari nella rivoluzione», un vero manuale apostolico per situazioni di emergenza e persecuzione. Scriveva, ad esempio: «Il missionario deve convincersi che le possibilità apostoliche del passato forse non toeranno mai più. Di solito è attaccato a certe forme di proclamazione, mentre deve attaccarsi non alle forme, ma all’annuncio. In questo senso il “tempo difficilissimo” può persino diventare un tempo propizio, un tempo di salvezza. La possibilità di farcela verrà ritardata o anche eliminata per il missionario se egli rimarrà un sottosviluppato nel campo della pastorale della rivoluzione».
Lui seppe vivere nel tempo difficilissimo della missione con la speranza di chi sa attendere l’aurora, oltre il buio della notte, e affrontare le nuove sfide con coraggio e senza rimpianti.

NON SPEGNERE
padre Francesco Babbini (1932-1984)

Quando fu richiamato in Italia per l’animazione missionaria, gli sembrò di morire. Confesserà più tardi che partire dal suo paese natale gli era costato molto, eppure mai avrebbe immaginato che lasciare la missione sarebbe stato così duro. La gente, la terra, il deserto, perfino le capre gli erano entrate dentro e, quando i suoi indios della Guajira (Venezuela) lo tempestavano di lettere scriveva loro: «Non lasciate spegnere il fuoco: cerco altri missionari, cerco legna e toerò. Aspettatemi!». Ma laggiù padre Francesco non ritoerà più. Stroncato improvvisamente, a poco più di 50 anni. Bruciati da un fuoco che gli ardeva dentro e lo spingeva oltre.
Padre Francesco Babbini era romagnolo di origine e torinese di adozione. A soli 13 anni (scatenati) si ritrovò in seminario per diventare missionario e vi rimase non senza difficoltà. Più di una volta fu sul punto di mollare tutto e tornarsene a casa, ma inspiegabilmente non riuscirà mai a prendere quella decisione; quasi una forza misteriosa che non gli permetterà di mollare i missionari. Lo capirà più tardi quando, alla vigilia dell’ordinazione, sua madre gli rivelerà il segreto.
A sei mesi era ridotto in fin di vita, dato ormai per spacciato a causa di una malattia inspiegabile. La madre (con una fede che solo le mamme possono avere) lo aveva portato in un vicino santuario e, con la forza della disperazione, aveva messo il fagottino sull’altare, gridando verso la statua della Madonna: «Se vive, è tuo; se muore, è tuo!». Poi, con il suo fardello, era ritornata a casa sul calesse e, quando sollevò la copertina, il piccolo, dentro, sorrise beato. Guarito. Da allora la Madonna non lo lascerà più e, senza sapere il perché, Francesco scoprì che la sua vita veniva dipanata da un’invisibile mano matea.
Sapendo di essere «un miracolo di Maria», non tenne neanche più un minuto per sé, ma tutto donò a lei che lo aveva chiamato sulla strada della missione. Non riuscirà ad essere un prete mediocre o di mezze misure: tutto al massimo, intensamente e con una carica che sapeva trasmettere a chiunque lo avvicinasse. Non fu mai un uomo ripetitivo e scontato, ma sempre alla ricerca del nuovo, del meglio, con fantasia e anticonformismo.

Era diventato padre spirituale nel seminario di Bevera (CO) e i suoi confratelli facevano fatica a stargli dietro: programmi, celebrazioni, iniziative… una dietro l’altra per non lasciare assopire l’impegno e lanciare i giovani sulle strade della radicalità evangelica che lui, senza mezzi termini, chiamava santità. Un padre spirituale… astronautico! Erano, infatti, i tempi delle prime imprese spaziali e lui proponeva la missione con il fascino dell’avventura, il gusto di una vita dalle dimensioni più ampie degli spazi siderali e per gente coraggiosa, vivace, senza misura. Missionari nuovi, plasmati dal Concilio che stava sconquassando la chiesa, ripulendola da incrostazioni secolari.
Dopo una parentesi di cinque anni in Spagna, finalmente, la missione. Quella vera, sognata: il Venezuela, gli indios guajiros. Terra di petrolio, ma in cui si moriva di sete, tra un popolo povero, monolitico, con tradizioni profonde e complesse, quasi impenetrabili. Lui ci mise il fuoco: un vulcano di iniziative sempre nuove, sempre diverse. Volle entrare in profondità, appassionarsi alla gente, scuotere i missionari troppo tranquilli o ancorati a stili del passato (era stato nominato superiore del gruppo), impedire di scoraggiarsi davanti agli insuccessi. Si tenta e ritenta, perché la missione è la tua patria, la tua casa, la tua gente, il tuo sogno.
Venne richiamato bruscamente in Italia, per portare anche qui entusiasmo e novità nell’animazione missionaria. Nonostante fosse un «maestro della missione», si rimise a imparare e ascoltare per capire, sfondare e rivoluzionare un po’ tutto. Ma in fretta, subito, perché per lui la missione era «la professione» più esaltante, più appetibile. E gli sembrava incredibile che i giovani incontrati non rimanessero affascinati da quello che diceva essere «il mestiere più bello del mondo», l’unico che offrisse la possibilità di dare sfogo alle qualità migliori dell’uomo. Diceva: «Ringrazio commosso e ringrazierò sempre Dio e la Madonna di avermi voluto missionario. Ho centuplicato la mia vita, ho cento patrie, migliaia di bambini mi chiamano padre e lo sono per aver dato scuole, ospedali, e tutto quello che solo noi missionari sappiamo. Mi sono arricchito di moltissimi valori umani e divini, a contatto con altre culture. Questo mi ha messo dentro una passione infinita, la vocazione missionaria, gli uomini, il mondo; soprattutto per i più poveri, i più lontani».
Si accorgeva, invece, che i giovani avevano paura: di scegliere, di osare il nuovo, uscire dagli schemi… Una sofferenza che gli bruciava dentro e lo faceva ripiombare nella tentazione di mollare l’animazione in Italia e tornarsene in missione.
Ma tutto improvvisamente si arresta. Il 19 marzo 1984, festa di s. Giuseppe, tenta di alzarsi dal letto, cade a terra. E così, silenziosamente parte per il cielo. Mentre sognava di poter ripartire, magari per un altro campo… per l’Asia. Inguaribile! Mai soddisfatto di ciò che già aveva realizzato, proteso sempre in avanti. Verso l’inedito, il nuovo.
Un uomo sempre in marcia verso il futuro.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – I martiri

PER LA PACE
padre Quinto Gardetto (1911-1941)

Ne avrebbe fatto volentieri a meno; ma, educato all’obbedienza senza discutere, fu tra i primi missionari della Consolata a vestire la divisa coloniale. A 24 anni (era nato nel 1911 a Bosconero, Torino) padre Quinto Gardetto raggiunse Mogadiscio (Somalia), cappellano della sezione di sanità nelle truppe che si preparavano a invadere l’Etiopia. Insieme ai soldati, nel 1936, entrò in Harrar, dove fu incaricato di dirigere la scuola della cittadina etiopica, che contava 235 allievi. L’anno seguente era a Lekemti, nel vicariato apostolico di Gimma. Così scriveva ai superiori: «Sono contento di essere giunto finalmente in terra della nostra missione».

Capitale della regione del Wollega, centro carovaniero a 330 km da Addis Abeba, Lekemti era stata adocchiata fin dai «tempi di camuffaggio missionario» come centro ideale di evangelizzazione; ma per non dare nell’occhio, i missionari si erano stabiliti a Comto, 5 km dalla cittadina. Dopo la conquista italiana (1936) si poté iniziare a costruire la stazione missionaria.
Padre Gardetto, prima viceparroco e poi superiore, diede grande impulso allo sviluppo della missione: in pochi anni furono costruite le case per i padri e per le suore, scuole governative per 230 alunni, collegio maschile, asilo per 70 bambini, ambulatorio e «scuola clandestina di amarico», senza trascurare la catechesi, visite ai villaggi, cura degli ammalati.
Sopraggiunta la seconda guerra mondiale, le truppe italiane furono impegnate a combattere gli inglesi: i ribelli abissini ne approfittarono per rialzare la testa. Capi e sottocapi della zona di Lekemti, che si erano impegnati a garantire l’incolumità dei missionari, cominciarono a manifestare risentimenti contro l’occupazione coloniale. Il malcontento si trasformò in ribellione.
Il capo Maconnen, fino al 1941 impiegato dal governo per domare i ribelli di altre regioni, si mise alla testa degli insorti. Ai loro massacri e devastazioni, gli ascari assoldati dal governo coloniale rispondevano con rappresaglie indiscriminate, bruciando capanne e raccolti.
Benvisto da tutta la popolazione e dallo stesso Maconnen, padre Gardetto cercò di fare opera di pacificazione tra i ribelli e il presidio di Lekemti, fino a sottoporre ai più alti livelli un disegno di pacificazione, concordato col presidio e il capo degli insorti.

Il 1° aprile 1941, insieme a due autisti italiani e a suor Teodora, il padre partì in auto alla volta di Addis Abeba, per sottoporre l’accordo di pace al governo coloniale. Il rischio era grande: il giorno precedente, a Sirè, c’era stata una feroce repressione e il capo locale aspettava l’occasione per vendicarsi. Infatti, giunta in quella località, a 30 km da Lekemti, l’auto fu bersagliata da una banda di rivoltosi che, ignari della missione che il padre stava compiendo, spararono a vista e uccisero tutti e quattro gli occupanti. Padre Gardetto morì sul colpo, con una pallottola in fronte. Aveva 30 anni. Martire per un atto di alta carità: promuovere la pace e riconciliazione.

DESERTO
INSANGUINATO
padre Michele Stallone (1921-1965)

Anche quel mattino, il 19 novembre 1965, approfittando del passaggio del camion diretto a un club turistico costruito sulla sponda meridionale del lago Turkana, padre Michele Stallone lasciò Baragoi per raggiungere la stessa località. Seduto accanto all’autista, l’italiano De Luca, arrivò a destinazione sull’imbrunire. Il giorno dopo avrebbe dovuto prendere le ultime misure per costruire, secondo le direttive del vescovo di Marsabit, mons. Carlo Cavallera, una scuola e un dispensario a favore della popolazione ol molo, minacciata di estinzione.
Alle nove di sera, terminata la recita del breviario, padre Stallone era seduto a tavola con mister Poole, direttore del club, quando una banda di una trentina di predoni (shifta), armati di fucili, assaltarono il campo, chiusero i due in bungalow e fecero man bassa di tutto ciò che trovarono. Finita la razzia, tornarono dai due prigionieri: li freddarono a colpi di fucile. Risparmiarono De Luca, costringendolo a trasportarli con una Land Rover insieme al bottino. Di lui non si seppe più nulla.
Il pomeriggio del giorno dopo, la notizia dell’assassinio arrivò a Baragoi. Alle 3,30 del mattino seguente, padri e polizia raggiunsero il luogo dell’eccidio: padre Stallone giaceva a terra in una pozza di sangue, le mani ancora legate e due colpi di fucile nella schiena; aveva accanto il breviario; ogni altro oggetto era scomparso.

Aveva 44 anni. Era nato il 13 settembre 1921 a Giovinazzo (Bari). A 13 anni Michele entrò nella casa dei missionari della Consolata di Parabita (Lecce); compì gli studi in varie case dell’Istituto e fu ordinato sacerdote a Casale Monferrato (AL) nel 1947. L’anno seguente raggiunse la diocesi di Nyeri (Kenya) e cominciò il tirocinio missionario a Gatanga.
Di piacevole compagnia, volontà energica e spiccata attività, nel 1953 fu destinato da mons. Cavallera, in quegli anni vescovo di Nyeri, in aiuto ai confratelli che avevano da poco aperto la missione di Baragoi, avamposto nell’immensa e arida «frontiera» a nord del Kenya.
«Dall’infuocata sabbia – scriveva nel 1954 -, come per incanto, uno dopo l’altro si sono innalzati i fabbricati: tre aule scolastiche, case dei padri e delle suore, collegi per ragazzi e per ragazze, magazzino, tre cistee per l’acqua piovana, un ospedale con 30 letti. I lavori non sono ancora ultimati, ma possiamo già dedicarci all’apostolato diretto. Mi è stata affidata l’educazione di 38 piccoli samburu e turkana: due etnie con lingue del tutto differenti. Unico sussidio, finora, è un abbozzo di dizionarietto samburu di circa 1.500 vocaboli da me compilato».
«La chiave per penetrare nell’animo di queste popolazioni è la scuola – scriveva l’anno seguente -. Sebbene ancora indolenti nel lavoro, queste etnie ci danno molte consolazioni. In pochi mesi i miei scolaretti hanno imparato a cantare, a perfezione, la Missa de angelis e altri inni latini e swahili. A sentirli pregare e cantare si crederebbero altrettanti seminaristi, anziché selvaggetti strappati alla brughiera solo ieri».
Diventato superiore (1957), padre Stallone continuò a sviluppare la parrocchia, organizzando la scuola secondaria e disseminando di scuole-cappelle i punti strategici del vasto territorio.

«Il deserto fiorisce» era intitolato un articolo che padre Stallone aveva scritto per Missioni Consolata un anno prima di morire. Quando, infatti, venne costituita la diocesi di Marsabit (1964), Baragoi era ormai la missione più adulta e sviluppata del territorio, centro propulsore di nuove fondazioni, come la missione di South Horr, al cui sviluppo padre Stallone lavorò per vari anni.
Il suo sacrificio ha ritardato di alcuni mesi la fioritura della missione a Loyangalani, ma ne ha fecondato il terreno. Il suo sangue ha irrorato le speranze in cui, lui per primo, aveva fermamente creduto e per le quali aveva dato con entusiasmo tutto se stesso.

TUTTO PER GLI INDIOS
padre Giovanni Calleri (1934-1968)

Bello, alto, forte, spiritoso, estroverso, con una carica che ispirava fiducia a prima vista. Chi lo incontrava per strada o in una riunione lo definiva uno sportivo o un artista. E vedevano giusto.
Nato a Carrù (Cuneo) nel 1934, prete per cinque anni nella diocesi di Mondovì, Giovanni Calleri entrò tra i missionari della Consolata nel 1962. Tre anni dopo partì per il Brasile e raggiunse il territorio di Roraima. E cominciò a organizzare la missione del Catrimani, tra gli indios yanomami.
«Quando giunsi in Brasile non mi importava di morire – scriveva nel 1966 -. Ora no, voglio vivere per amore degli indios. Mie compagne sono a volte la fame e sempre tanta solitudine». Invece morì a 34 anni, per amore degli indios.

Per l’esperienza tra gli yanomami e la ricca personalità, nel 1968 padre Calleri fu scelto dal governo brasiliano per dirigere una spedizione per pacificare gli indios waimirí-atroarí. Dal 1961 era in costruzione la strada BR-174 che, attraverso la foresta dell’Amazzonia, doveva collegare Manaus e Boa Vista a Caracas (Venezuela). Ma per attuare il progetto bisognava fare i conti con gli indigeni che si ritenevano, a diritto, padroni della regione e non intendevano rinunciare al loro sistema di vita.
La spedizione fu preparata seriamente e il piano approvato dal governo. Si doveva adottare la tattica di «avvicinamento indiretto»: cioè accostare prima gli indios non irritati con i bianchi, per farli mediatori presso quelli sul piede di guerra, vicini allo sconquasso prodotto dai lavori della strada. Il piano fu ritenuto da qualcuno troppo lento. Per non fermare i lavori, poteri militari e minerari, nazionali e stranieri, premevano per il confronto diretto con i ribelli waimirí-atroarí, che in fatto d’imboscate sapevano il fatto loro.
All’ultimo momento il piano fu accantonato e padre Calleri dovette accettare, anche sotto minacce, di portare la spedizione su un altro luogo. È l’aspetto più misterioso della faccenda, perché con il cambiamento i rischi di fallimento e morte risultavano enormemente aumentati. Nella spedizione, poi, fu inserito Alvaro da Silva, esperto della foresta, ma ambiguo e senza scrupoli, legato alla Missione evangelica dell’Amazzonia (Meva).
I dipendenti di questa missione protestante, con residenza in Guyana, svolgevano una doppia attività: evangelizzazione e ricerca di miniere per conto degli Stati Uniti. Per cui essi erano troppo interessati che la spedizione diretta da un prete cattolico fallisse.
E così avvenne: il 1° novembre 1968 la spedizione fu massacrata nel cuore della foresta. Delle 10 persone, comprese due donne, si salvò solo Alvaro da Silva. La colpa fu sempre attribuita alla ferocia degli indios.
A 30 anni di distanza, dopo faticose ricerche, padre Silvano Sabatini, che ebbe un ruolo importante nel preparare la spedizione, ha fatto luce sul mistero. Dalle innumerevoli testimonianze da lui raccolte e pubblicate nel libro Massacre, risulta che la spedizione-Calleri fu massacrata da alcuni indios waimirí-atroarí e wai wai, istigati da un manipolo di bianchi, in particolare Alvaro da Silva e lo statunitense Claude Leawitt, funzionario della Meva. I due imposero agli indios, sotto terribili minacce, un assoluto silenzio.
Padre Sabatini denuncia che la BR-174 fu condotta a termine, dopo il massacro della spedizione, con la decimazione degli indios: i waimirí-atroarí, circa 3 mila nel 1968, nel 1982 erano ridotti a qualche centinaio.

CONTESTATORE GLOBALE
padre Guerrino Prandelli (1943-1972)

«Sono molto felice di essere prete – aveva scritto poco tempo dopo l’ordinazione -. Mi piacciono lavoro duro e tempi difficili. In un’epoca in cui il sacerdote è fuori moda, per un giovane come me diventare “servo” fa parte di una “contestazione globale”, la più profonda: quella dell’amore».
Era nato a Brescia nel 1943. Temperamento vivo e quasi scatenato, forte e a volte rude, Guerrino Prandelli lottò contro tutto e tutti per restare fedele alla chiamata della missione. Ordinato sacerdote (1969), gli fu proposto di lavorare un po’ in Italia. La controproposta non lasciava scampo: «O mi mandate in missione, o mi sposo». Fu spedito in Mozambico.
N el 1970 padre Guerrino era nel Niassa. Da Unango passò come vice parroco a Nova Esperança. Lavorava come un forsennato, quasi presago del pochissimo tempo a disposizione. Coglieva al volo esigenze e bisogni della gente, dei più poveri soprattutto, come i lebbrosi. Per questi costruì varie casette, perché avessero un’abitazione più igienica e vita più dignitosa.
Aveva il dono delle lingue: dopo solo due anni di permanenza nel Niassa, padre Guerrino si mise a tradurre in lingua ciyao alcuni testi della messa, per facilitae la partecipazione della gente.
Era felicissimo, nonostante le difficoltà provocate dalla guerriglia anticoloniale. «Nova Esperança è la missione più isolata del Niassa – scriveva -. Ciò è dovuto alla guerriglia. Ultimamente sulle nostre strade hanno messo molte mine. Viaggiare è diventato estremamente pericoloso. Nei villaggi o nella missione non c’è pericolo; ma non possiamo stare sempre fermi; nessuno viene a portarci niente. Abbiamo bisogno di viveri e medicinali; la gente non ha sale, zucchero, olio, sapone, petrolio. Il pericolo di imbattersi in una mina sussiste; chi vi incappa finisce sbriciolato».

A metà ottobre del 1973, i confratelli lo chiamarono a Nova Freixo (oggi Cuamba), per aiutarli in alcuni lavori di traduzione. Terminato il lavoro, padre Guerrino volle tornare subito alla sua missione. Gli fu consigliato di attendere un momento più sicuro. Rispose che non poteva lasciare i suoi lebbrosi senza cibo: i poveri non possono aspettare tempi sicuri. E partì da solo.
Ma a 20 chilometri da Belém, una ruota dell’automezzo urtò una mina anticarro, nascosta nella carreggiata. Lo scoppio violento distrusse l’auto e causò la morte fulminea del missionario.
Un mese prima aveva scritto a un compagno di studi: «Vale più un anno di missione, che cinquant’anni trascorsi nella mediocrità in Italia». Padre Guerrino è morto a 29 anni; in missione ne ha spesi appena tre: una «contestazione globale» a tanta mediocrità.

UNA VITA
PER L’AFRICA
padre Luigi Graiff (1921-1981)

«Un giorno o l’altro mi accopperanno» ripeteva da un anno come un ritornello. Anche quel venerdì padre Luigi Graiff si recò a Parkati con cibo e medicinali: sentiva il fiato della morte ormai sul collo. Lasciando 40 metri di cotonata blu a una famiglia turkana, disse alla signora Veronica: «Taglia dieci pezze per adulti e bambini, ma tieni da parte una misura grande per avvolgere il mio cadavere».
Due giorni dopo, domenica 11 gennaio 1981, finita la messa a Parkati, padre Luigi caricò sulla Land Rover il catechista anziano, cinque ragazzi e un diciottenne aspirante catechista, per celebrare l’eucaristia a Tum, a una ventina di chilometri. A metà strada vide all’orizzonte una ciurma di uomini, oltre duecento, armati di panghe (coltellacci), lance e fucili automatici. Intuì subito il pericolo: erano gli ngorokos, bande di razziatori, che da tempo infestavano la zona, rubando bestiame, distruggendo villaggi e uccidendo centinaia di persone.
Tentò di invertire la marcia, ma alcuni spari bloccarono la Land Rover. Il padre e il catechista corsero ad aprire lo sportello posteriore dell’auto, perché i ragazzi si mettessero in salvo. Furono subito accerchiati. «Non ci resta che pregare» disse il missionario. S’inginocchiarono. Il tempo di iniziare il Padre nostro e il padre stramazzò a terra in una pozza di sangue, insieme al giovane e un ragazzo; gli altri quattro, approfittando del trambusto, riuscirono a fuggire, inseguiti dalle fucilate.
Il catechista riconobbe alcuni degli assalitori e implorò pietà. Percosso e spogliato di tutto, fu mandato ad avvertire la missione. La notizia del massacro arrivò a South Horr alle cinque della sera. I confratelli partirono immediatamente; arrivarono sul luogo dell’eccidio a notte fonda e trovarono una scena raccapricciante: tre corpi ignudi, orrendamente crivellati di proiettili e sfigurati dai colpi di panga, cotti e tumefatti, giacevano accanto alla carcassa dell’auto ancora fumante.

A veva 60 anni, metà dei quali spesi in Africa: era nato a Romeno (Trento) nel 1921; in Kenya dal 1951. Destinato alla diocesi di Nyeri, padre Graiff lavorò a Gatanga, poi a Mugoiri, durante gli anni difficili della rivolta mau mau.
Nel 1964 chiese di passare alla nuova diocesi di Marsabit. Mons. Carlo Cavallera lo accolse volentieri e lo nominò parroco di Laisamis: una savana desolata, tutta pietre, sabbia e cespugli spinosi. Per 10 anni padre Luigi lavorò come un forsennato, costruendo uno dei più bei complessi della diocesi: chiesa, case per padri e suore, ospedale, scuole e… cristiani.
Gli anni 1965-70 furono particolarmente duri e pieni di tensione: gli shifta imperversavano; una notte assaltarono la missione; il padre scampò dalla morte per miracolo. Ma continuò a lavorare, nonostante la paura.
Coraggioso e spavaldo solo in apparenza, padre Graiff aveva paura della morte: la notte si svegliava di soprassalto al minimo rumore; imbracciava il fucile e correva da una finestra all’altra, pronto a respingere gli intrusi.
Dietro una scorza ruvida e autoritaria si nascondeva un cuore di bambino. Lo avevano capito subito gli africani: venivano a chiedere aiuto nei momenti più importuni. Egli si arrabbiava, ma poi cedeva, soprattutto se dicevano di avere fame. Ottenuto un po’ di cibo, i questuanti si nascondevano dietro un cespuglio, mangiavano felici e ridevano a crepapelle, imitando gesti e boccacce del burbero benefico.
Come un bambino odiava stare solo. Eppure la solitudine fu il suo pane quotidiano: prima a Laisamis, poi a Loyangalani (1973-78); gli ultimi due anni a Parkati, avamposto della missione di South Horr. In quella squallida regione abitavano i nomadi turkana, minacciati periodicamente da fame, malattie e, ultimamente, dalle razzie dei banditi. Nonostante il pericolo, padre Graiff vi si recava tutte le settimane, portando viveri, medicinali, vestiario, materiale da costruzione e tutto ciò che poteva servire alla sopravvivenza della gente. Era riuscito ad aprire la scuola e avviare piccole comunità cristiane.
Per gli ngorokos quella di padre Graiff era una presenza scomoda, quasi una sfida. Il loro banditismo era fomentato da rivalità etniche e politiche, con misteriose ingerenze straniere: lo dimostravano le armi sofisticate in dotazione. Il governo non interveniva; le forze di polizia stavano alla larga per paura. Solo i missionari avevano il coraggio di stare accanto a quelle popolazioni martoriate e prendee le difese. Per questo padre Graiff fu messo a tacere barbaramente.

CON LA GENTE
PER SEMPRE
padre Ariel Granada Sea (1941-1991)

Non aveva compiuto 50 anni. Era nato a Marulanda (Colombia) nel 1941. Dopo l’ordinazione (1968), padre Ariel Granada lavorò per alcuni anni nel vicariato di Florencia; poi svolse vari incarichi nelle case di formazione. Nel 1988 fu destinato al Mozambico. Partì sereno, contento di cominciare, a 47 anni, una nuova avventura missionaria.
Si trovò catapultato a Mecanhelas, una sperduta missione nel sud del Niassa. «Mancano luce elettrica, posta, telefono, acqua – scriveva a un amico -. Stiamo scavando un pozzo con la speranza di trovae un poco. Sono contento e sto facendo programmi per aiutare questa povera gente. Ma la guerra non vuole cessare. Sembra che ai guerriglieri arrivino armi sufficienti per uccidere tutti se volessero».
Imperversava la guerra civile tra l’esercito regolare del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e i ribelli della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana). Attoo alla missione si erano ammassati migliaia di sfollati. Costante e metodico, padre Ariel stava loro vicino, con iniziative materiali e spirituali, per riaprire un futuro di speranza. Altrettanto faceva con le comunità che poteva visitare. Intanto continuava a ritmo serrato la formazione di animatori e catechisti. Aveva iniziato la costruzione di una decina di belle capanne per i lebbrosi.

Tanti segni di consolazione furono troncati il 15 febbraio 1991. Padre Ariel stava per tornare in Colombia, per le vacanze e per la morte della mamma. Era in viaggio verso Lichinga, con padre José Rocha Martins, una suora indigena, una ragazza e una donna con tre bambini, quando la vettura fu bersagliata da una furia di proiettili.
«Non sparate! Siamo missionari!» gridarono i padri. Troppo tardi! Ariel fu colpito in fronte e morì all’istante. José fu ferito a una gamba. Pur riconoscendo i missionari, gli assalitori cominciarono a rubare quanto trovarono nella vettura; cavarono perfino le scarpe ai padri e un maglione alla suora. Quando videro il sacco di pane, cominciarono a divorarlo avidamente. Alle proteste di padre José e della suora, restituirono qualche oggetto e liberarono la ragazza, che volevano portare nella foresta.

Padre Ariel è morto sulla strada, accanto a un confratello ferito e alcune delle tante persone fatte oggetto di violenza indiscriminata. Egli sapeva che, per camminare insieme alla sua gente, doveva mettere in conto la condivisione degli stessi rischi, compreso quello della morte senza un apparente perché. Il suo sacrificio è solo l’ultimo atto di una presenza di speranza e solidarietà, con la conseguenza drammatica ma logica che tale scelta evangelica comporta.

UNA MARCIA IN PIÙ
padre Luigi Andeni (1935-1998)

Sono le 22.30 del 14 settembre 1998, festa dell’«Esaltazione della croce». Terminato l’incontro di programmazione pastorale, le suore tornano a casa, 200 metri distante, e spengono il generatore di elettricità. Padre Luigi Andeni e il diacono africano Williams Othieno si fermano sotto la veranda per una boccata d’aria fresca.
Cinque minuti dopo, tre loschi figuri sbucano dalle tenebre, travestiti da militari. «A terra!» ordinano imperiosi, puntando i fucili e facendo cigolare i caricatori. Padre Andeni si alza e domanda: «Chi siete? Cosa volete?». I malviventi indietreggiano. Inizia una colluttazione. Uno sparo lo ferisce di striscio al braccio destro; il polso sinistro è colpito ripetutamente con la panga; un’altra pallottola dirompente lo colpisce alla schiena ed esplode sul davanti. Gli assassini fuggono.
Stringendosi il ventre con le mani e aiutato dal diacono, padre Luigi riesce a rialzarsi e raggiungere la casa delle suore. Gli aprono la porta; cade a terra in una pozza di sangue. Alla luce di una torcia, suor Matilde cerca di tamponare la ferita, mentre il padre recita l’Atto di dolore; la voce si indebolisce, fino a diventare un impercettibile bisbiglio.
Vista la gravità delle ferite, le suore caricano il ferito sulla loro auto e lo portano all’ospedale di Wamba. I 70 km di strada ghiaiosa e sconnessa diventano un autentico calvario. «Pole!» (adagio) invoca il padre a ogni sobbalzo, mentre non cessa di pregare. Dopo tre ore di via crucis, a 5 km da Wamba, padre Andeni affida la sua vita nelle mani di Dio e della Madonna: sono le prime ore della festa dell’Addolorata.

N ato nel 1935 a Barbariga (Brescia), è in Kenya dal 1970. Gioviale ed entusiasta, semplice e tenace, pieno d’iniziative e generoso, padre Andeni sembra avere una marcia in più. Dovunque passa (Moyale, Sololo, Archer’s Post, Sukuta Marmar, di nuovo Archer’s Post), lascia la sua impronta: forma catechisti responsabili; costruisce chiese e cappelle con fiorenti comunità cristiane e folti catecumenati; stimola la gente a contare sulle proprie forze, aiutandola a costruire asili, scuole elementari e secondarie, laboratori di arti e mestieri, dispensari medici, pozzi e un’infinità di altri progetti di sviluppo economico e sociale. Dappertutto si fa apprezzare per il cuore aperto a tutti: aiuta centinaia di studenti poveri a pagare le tasse scolastiche; procura cibo a migliaia di affamati, senza distinzione di etnia o religione; semina la pace nei momenti di tensione e lotte tribali.
Perché lo hanno ucciso? Le autorità civili cercano di ridurre la sua morte a una rapina finita male, anche se non gli è stato rubato neppure l’orologio. Ma la gente è convinta che si tratti di un delitto su commissione. Il mandante sarebbe un pezzo grosso del villaggio, politicamente molto influente: uno che, pochi giorni prima del crimine, aveva avuto un’accesa discussione col padre, che accusava il capoccione di aver intascato i milioni raccolti dalla gente per lo sviluppo della scuola locale.
Dietro il sorriso cameratesco, padre Andeni nasconde un carattere forte, trasparente, senza compromessi. Ama e aiuta tutti, senza distinzione; ma non sopporta pigri, lazzaroni e imbroglioni. Rispettoso e cornoperativo con l’autorità, non ha peli sulla lingua di fronte a ingiustizie e corruzione. I cristiani lo conoscono e lo capiscono; i leaders politici, suscettibili e gelosi, sentono i suoi rimproveri come una minaccia alla loro autorità. Da qui la decisione di cucirgli la bocca.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti