Lettere: cari missionari


Il paradiso
è qui



attraverso Missioni Consolata
di settembre, il giornale Times of India rivela che, se si riducesse la
popolazione mondiale a 100 individui, ci sarebbero 57 asiatici, 21
europei, 14 americani, 8 africani. Il quotidiano fa conoscere altri dati
(probabilmente tratti da un sito internet), omettendo però che 89 persone
sarebbero eterosessuali e 11 omosessuali; 6 individui possiederebbero il
59% della ricchezza del mondo intero e tutti e sei sarebbero statunitensi.
Ancora, su 100 individui, 80 vivrebbero in case senza abitabilità, 70
sarebbero analfabeti, 50 soffrirebbero di malnutrizione e 1 solo sarebbe
laureato.


«Se avete soldi in banca, nel
vostro portafoglio e spiccioli in una ciotola, siete fra l’8% delle
persone più benestanti al mondo. Se i vostri genitori sono vivi ed ancora
sposati, siete persone veramente rare, anche negli Stati Uniti e nel
Canada».


Qualcuno ha detto: «Lavora come
se non avessi bisogno di soldi; ama come se nessuno ti abbia mai fatto
soffrire, balla come se nessuno ti stesse guardando; canta come se nessuno
ti stesse sentendo.Vivi come se il paradiso fosse sulla terra.


Giovanni Fumagalli


Casatenovo (LC)

E noi, a poche settimane dal
natale di Gesù Cristo, citiamo un canto:


No, non è rimasta fredda la
terra:
Tu sei rimasto con noi…
Sì, il cielo è qui su questa terra:
Tu sei rimasto con noi,
ma ci porti con Te…
No, la morte non può farci paura:
Tu sei rimasto con noi…
Sei Dio con noi,
sei Dio per noi,
Dio in mezzo a noi.

«Gratia
plena»

sono un giovane devoto
dellaVergine Maria, perché le devo moltissimo. Ho avuto da poco una totale
conversione, grazie ad un vostro missionario, padre Serafino, che mi ha
aperto la strada della salvezza facendomi incontrare la madre di Dio.

Padre Serafino mi ha raccontato
come ha cercato di rendere santa la sua vita donandola a Dio; lungo la
strada della carità e della povertà spirituale ha incontrato molti
bisognosi in Africa e in tutti quei posti in cui Dio lo ha inviato
nell’arco della sua missione. Prego affinché i suoi sacrifici non siano
vani. Il mondo avanzi sulla strada della pace che Dio ha dato a noi
uomini, forse anche grazie ai sacrifici di persone come padre Serafino.


Firma non leggibile,


località non espressa

Nessuna
sanità da «terzo mondo»


in questi giorni il Consiglio
dei ministri ha approvato il documento di programmazione economica e
finanziaria per gli anni 2002/2005.


Tra gli interventi in
programma, leggo che sono previsti 120 mila miliardi di privatizzazioni
(la Repubblica 17/7/01). Ho istintivamente collegato questa notizia alle
perplessità espresse da Gianni Vaccaro nella sua lettera «Se ospedali e
scuole diventano imprese», pervenuta dal Perù e pubblicata su Missioni
Consolata, luglio-agosto 2001.


Ho poche idee in materia
politica ed economica; però mi sono chiesta: si stanno preparando per il
nostro servizio sanitario nazionale tempi difficili, ovvero da terzo
mondo?


Diana Cassani


Milano

La lettrice, più che un
interrogativo, lancia un monito. Ben venga ogni progetto del governo che
elimini gli sprechi e renda il servizio sanitario più efficiente, ma non a
scapito degli ammalati che non possono usufruire di strutture alternative!
Inoltre la lotta agli sprechi deve investire ogni ambito, compreso quello
della produzione di armi. Ecco un altro punto su cui bisogna essere
«svegli». E ci preme dire con forza che sanità, scuola, posta, trasporto,
informazione… da «terzo mondo» non sono tollerabili né nel nord né nel
sud del mondo.


Uso delle
offerte



la lettera di padre Marco
Bagnarol, pubblicata sul numero di luglio-agosto, mi ha lasciata
sconcertata.


Che un missionario, in possesso
di così generose offerte, scriva quelle due-tre cose che gli sono passate
per il capo è veramente inammissibile!


Pensavo che i missionari
destinassero al meglio i soldi che le persone, magari rinunciando a
qualche legittimo desiderio, offrono in favore di un numero indescrivibile
di individui che necessitano, prima di tutto, di medicine per sopravvivere
ed anche cibo per vivere.


D’ora in poi, prima di fare
un’offerta, ci penserò ben bene.


Lettera anonima

I missionari impiegano le
offerte ricevute secondo il desiderio dei donatori: se il denaro è per la
costruzione di un dispensario medico o di una scuola, viene impiegato a
tale scopo. E l’ha fatto, scrupolosamente, anche padre Marco Bagnarol.

Però padre Marco solleva un
altro problema; si domanda: perché è più facile raccogliere fondi per un
allevamento di animali che per la costruzione di una cappella? In altre
parole, il missionario sottopone la sensibilità evangelizzatrice dei
credenti ad un esame di coscienza. Un esame da non sottovalutare.


Se vince la
violenza

Gentile
direttore,


abbiamo vissuto un’estate
«calda», da stampare nella memoria nella sua nefasta realtà. L’estate 2001
(che ci attendeva per trascorrere nel silenzio della montagna e nel riposo
balneare o in un semplice stacco dalla realtà quotidiana) ha portato in
trionfo la violenza. Una violenza sorda e anarchica, disorganizzata e
spietata, disperata e inconcludente. Una violenza che deve farci
interrogare su dove nasce, perché riemerge con tutta la sua forza
distruttrice e contagia le giovani generazioni.


Sono ancora i fatti di
luglio-agosto (specie le vicende del G8 di Genova) che ci turbano e fanno
sobbalzare le coscienze.


A Genova perché la violenza ha
schiacciato le ragioni della protesta, del dialogo, del confronto tra
uomini e donne che vivono gli uni accanto agli altri?… Sono state messe
in soffitta le ragioni nobili di molti, che hanno partecipato non solo
alla manifestazione di sabato 21 luglio, ma anche alla settimana di
dibattito sulla globalizzazione, e che da anni lavorano con coerenza per
lo sviluppo dei paesi più poveri. Non una minoranza, ma un gruppo
consistente di giovani ha usato lo scontro per opporsi ai «grandi della
terra». La violenza, come mezzo per dire «ci siamo!», ha dimostrato ancora
una volta di essere il principio dell’autodistruzione. È scoccata la
scintilla… e l’incendio ha incenerito i buoni e sinceri, che animano la
parte sana e si impegnano per una globalizzazione al servizio dell’uomo.


I violenti hanno creduto di
vincere. In realtà hanno perso. Hanno provocato una reazione scomposta;
hanno evidenziato nel sistema la mancanza di prevenzione e tutela dei
cittadini genovesi; hanno portato a conseguenze tragiche il gioco dello
«spacca tutto», culminato con la morte di un giovane e la disgrazia per
un’altra giovane esistenza. Nelle settimane a venire è nato uno scontro
avvilente nel mondo politico: non una voce si è alzata, ferma,
intransigente, autorevole, per dire basta allo stillicidio, per indicare
un’altra strada a chi vuole perseguire valori umani, per chi deve tutelare
la sicurezza dei cittadini. Alla riflessione pacata si sono privilegiati
gli scambi di accuse e le violenze verbali, che producono solo danni,
spesso irreversibili. Della «non violenza» pochi hanno parlato. Della
capacità di opporsi all’ingiustizia, grazie all’opera silenziosa e
all’amore di coloro che vivono in prima persona i drammi nel Sud del
mondo, nulla. Solo risse verbali.


Allora la violenza dilaga,
penetra nel cuore dei deboli che si credono forti, annebbia menti e
coscienze, entra nelle giovani vite come un virus, una droga e agisce.
Attraverso la violenza si giustifica ogni azione, si chiedono protezioni
politiche, sociali, economiche e financo giustificazioni religiose.


Oggi non si può rimanere inermi
o chiedere solo ordine e repressione. È importante riportare al centro la
cultura della pace, per sradicare la violenza dai cuori, per allontanare
dalla storia l’idea che solo il male trionfa.


I cristiani e tutti gli uomini
di buona volontà sono pronti alla prova?


Luca Rolandi


Torino


Non basta la
parola

Caro
direttore,


«fare un salto» mi hanno
risposto in una banca. Significa che l’impiegato sarebbe stato assente per
tutta la mattinata… Le parole non riescono spesso a rendere il concetto
che ci frulla in testa, perché le giriamo come vogliamo.


Prendiamo, ad esempio, il
termine global. Per esso si azzuffano non solo i politici. Un bene, un
male, una novità?


Global è stato l’antico impero
di Roma, con il virgiliano imporre costumi di pace, usando clemenza a chi
cede e sgominando chi si oppone (Eneide, VI, 852-3). Anche per Marco Polo,
Cristoforo Colombo, Giuseppe Garibaldi o Guglielmo Marconi la realtà era
globale. Ma lo è stata pure nelle guerre modee e nelle epidemie antiche.
E lo è nell’economia. Dunque global non è un’invenzione di questi giorni.
Nel 1969 Marshall McLuhan scrisse sul «villaggio globale», cioè
elettronico. Oggi abbiamo quello telematico di internet. Ma i messaggi
sono destinati pure al bambino del Nepal, costretto a lavorare in una cava
di pietre, o a quello nostrano obeso per eccesso di merendine?


Global: l’esportazione che
arricchisce le nostre imprese, ma anche il lavoro minorile nei paesi «in
via di sviluppo» per prodotti destinati a noi.


Global: la nuova economia che,
ad esempio in Perù, fa rispuntare la TBC, perché gli ospedali (obbedendo
al Fondo monetario internazionale) sono ora imprese di mercato, e non
attuano prevenzione. Il Perù, dove si paga per donare il sangue ad un
malato; dove una donna muore con il figlio, perché senza soldi per il
taglio cesareo (cfr. Missioni Consolata, luglio-agosto 2001). In Gran
Bretagna hanno aggiunto a «capitalismo» l’aggettivo «compassionevole».
Sono parole povere quelle che necessitano di un abbellimento!


Antonio Montanari


Rimini

Avanti
così!

Egregio
direttore,


dopo quanto accaduto a Genova a
luglio e dopo i drammatici avvenimenti dello scorso 11 settembre negli
Usa, nel corso di frequenti discussioni con amici e conoscenti, ci siamo
ulteriormente convinti del valore che riviste come Missioni Consolata
possono assumere.


La vostra rivista garantisce la
qualità e l’originalità delle informazioni, che riescono a comunicare,
attraverso i servizi e le documentazioni che pubblicate, una testimonianza
diretta e continuativa delle culture mondiali e delle condizioni delle
economie nei singoli paesi considerati, evidenziando le contraddizioni che
emergono.


I motivi di riflessione che si
trovano aiutano anche a comprendere le ragioni che hanno spinto centinaia
di migliaia di persone a partecipare in maniera diretta, e molte di più a
condividere le ragioni di una manifestazione quale quella di Genova del 21
luglio. La prevalenza dei mezzi d’informazione ha poi fatto diventare
quanto accaduto una sola «questione di ordine pubblico», scrivendo una
valanga di inutili considerazioni, quando ben altro era il valore di ciò
che si voleva sostenere. Nel panorama dell’informazione nazionale, troppo
impegnato a fornire notizie sugli indici di borsa e sulle tendenze dei
mercati, solo in maniera sporadica trovano visibilità le realtà «altre»
dall’occidente, spesso strumentali a qualche campagna più o meno occulta.


Soprattutto in questi giorni,
in cui con leggerezza sono usate parole terribili, ci aspettiamo che
proseguiate, con il vostro lavoro, a trasmettere un messaggio di giustizia
sociale e di pace.


E questo per continuare a
«sognare un mondo diverso dall’attuale».


Aldo Da Boit


e Tamara Prest



Sorpresa,
stupore…


Spettabile
direzione,


ho letto con attenzione su
Missioni Consolata di settembre «Ai lettori» e «Battitore libero», scritti
da Paolo Moiola.


Mi ha molto stupito la
sicurezza (sicumera?) con cui il redattore individua la causa di tutti i
mali del mondo nella globalizzazione e nelle «violenze di certe
multinazionali», senza accennare alle enormi risorse sperperate in
armamenti convenzionali e no ed in guerre intee dai cosiddetti paesi
poveri (mentre, secondo notizie di stampa, l’ex-terrorista Gheddafi,
cambiando registro, ha ormai ultimato, impiegando utilmente i
petro-dollari, un imponente sistema di acquedotti per portare l’acqua dal
deserto alla costa).


Confesso, infine, sorpresa nel
trovare le tesi antiglobalizzazione e antiamericane, cavallo di battaglia
dell’estrema sinistra italiana, sostenute su Missioni Consolata da Paolo
Moiola, senza far parola su una possibile globalizzazione governata e non
selvaggia. Ancora sono sorpreso nell’apprendere la contiguità di certi
dimostranti a Genova (durante il «G 8») con tute bianche e no.


Chiedo a codesta direzione se o
in quale misura si riconosce nelle tesi del redattore Paolo Moiola.


La presente globalizzazione,
fondata sul neoliberismo economico, solleva forti perplessità nello stesso
«Rapporto delle Nazioni Unite sullo Sviluppo»: come è possibile, ad
esempio, che tre individui nel 1999 avessero ricchezze pari al reddito
complessivo di 42 paesi poveri? Come spiegare il crescente divario
economico fra paesi ricchi e poveri, rispettivamente di 11 a 1 nel 1913,
di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973, di 72 a 1 nel 1992?


Multinazionali.

Vale il discorso della non
demonizzazione. Ma è eloquente che la «Del Monte», ad esempio, sia stata
«processata» in Kenya e, alla fine, abbia accettato le richieste dei
lavoratori nelle piantagioni di ananas.


Guerre e armi.

Nel sud del mondo esistono conflitti assurdi, mancanza di rispetto dei
diritti umani e sprechi di risorse… che Missioni Consolata ha
denunciato. Ma, ancora una volta, sorge la domanda: chi produce e vende
armi? Chi ha addestrato i terroristi, responsabili delle stragi negli Usa
l’11 settembre?

In redazione il dottor
Moiola
ha le «sue» idee (come tutti), che rispettiamo, perché crediamo
nel pluralismo. Questo non significa che tutte le opinioni siano giuste,
ma che tutti possono esprimerle. Altri nostri collaboratori talora
sostengono tesi discutibili. L’invito a ciascuno è: sappi far credito
anche a chi non la pensa come te. Per tale ragione pubblichiamo anche le
lettere anonime (non siamo tenuti a farlo) e quelle che ci insultano.

Come missionari, non possiamo
dimenticare personaggi di chiesa, ieri condannati e oggi assolti: Ricci,
De Nobili, Rosmini… Grazie a Dio (è proprio il caso di affermarlo), la
chiesa cattolica (cioè universale) è quella di san Pietro e di san Paolo:
il missionario Paolo ha accusato Pietro, primo papa, di ipocrisia (cfr.
Gal 2, 11-14)… ed entrambi sono i pilastri della chiesa.

Ai nostri giorni il cardinale
Biffi «non è» il cardinale Martini. Però entrambi hanno diritto di parola,
e lo esercitano.

Complimenti
di «troppo»

Leggo
su Missioni Consolata, settembre 2001, p. 67: «… spero che il mondo che
lei difende un giorno o l’altro si frantumi sotto il peso delle proprie
contraddizioni. Con l’aiuto di quel “popolo di Seattle” (e di Porto Alegre)
che lei liquida con accademica sicumera»… Nell’attesa avete frantumato
le Twin Towers di New York e le persone che si trovavano al loro interno.
Complimenti!


A proposito, se quel mondo si
frantumerà, non ci saranno più antibiotici, aspirina, generosi oboli di
fedeli laboriosi che risparmiano.


A proposito bis, «George il
texano» si chiama George W. Bush ed è il presidente degli Stati Uniti;
merita rispetto come il suo paese che è democratico, generoso, ospitale.


A proposito tris, della «Tobin
tax» si pente persino l’ideatore Tobin, che si è reso conto di aver preso
una cantonata. A Genova non se n’è parlato, perché non funziona, non
serve, anzi fa danno.



Non si stigmatizza la
mercificazione della salute indicata dalla signora Bono, bensì quella
esemplificata da Gianni Vaccaro, che dovette pagare 20 dollari per donare
il sangue ad una ragazza con cancro terminale (cfr. Missioni Consolata,
luglio-agosto 2001).

Bis. Nell’articolo contestato,
alla riga 26 della seconda colonna, si riconosce il «presidente George W.
Bush».

Ter. Nel 1972 James Tobin
(premio Nobel per l’economia nel 1981) propose un’imposta dello 0,05%
sulle transazioni valutarie. Oggi non si riesuma la «Tobin tax» tout
court, ma qualcosa di analogo. È questo pure il parere della studiosa
Susan George,
nostra ospite il 18 settembre scorso (cfr. pagina 43).
Al riguardo, si legga: Alex C. Michalos, Un’imposta giusta: la Tobin Tax,
Gruppo Abele, Torino 1999.

Circa la «nostra» frantumazione
delle torri gemelle e l’assassinio dei residenti, i «complimenti» della
lettrice… li meritiamo davvero?

Usa,
il migliore di tutti?


essendo un lettore di Missioni
Consolata, di cui Paolo Moiola è tra i componenti la redazione, ho avuto
modo di leggere fondi o reportages di suo pugno e più volte sono stato
preso dall’impulso di scrivergli (come più volte sono stato tentato
d’invitare la direzione della rivista ad eliminare il mio nome dagli
abbonati).


Sul numero di settembre il
fondo riguardante i fatti di Genova non poteva essere che di Moiola. Il
livore che manifesta sempre verso gli Stati Uniti, per lui il Satana che
ha demonizzato il mondo occidentale (a proposito, quanto è diverso tale
livore da quello espresso dall’integralismo islamico?), appare anche in
queste righe riguardanti i fatti di Genova.


È ovvio che a Genova Moiola non
poteva non esserci e, ancora più ovviamente, per dimostrare in modo
pacifico, senza casco o mascherine e, men che meno, bastoni o spranghe. Ma
egli non ha mai dubitato che la sua «dimostrazione pacifica» avrebbe fatto
da paravento agli «spacca tutto» privi di qualsiasi motivazione se non
quella di fare disastri? O forse, sotto sotto, sperava che succedesse? Io
proprio non riesco a capire quali siano le origini del suo
antiamericanismo viscerale…


Possibile che, in tutti i suoi
redazionali, sia messo solo in evidenza l’aspetto negativo (che talvolta
esiste) dell’operato statunitense e mai ciò che di buono quel grande paese
compie a vantaggio dell’umanità? Negli anni ’40-50 Moiola non era ancora
nato; ma non gli è mai capitato di leggere qualcosa circa la storia di
quel tempo?


Io penso che il redattore sia
fondamentalmente onesto: purtroppo non si rende conto che il suo
atteggiamento (ancor più grave, perché il pensiero viene riportato da una
rivista cattolica) tende a creare un’immagine unicamente negativa di un
grande paese, non perfetto, ma sicuramente il migliore fra tutti quelli
esistenti sulla faccia della terra. Nelle sue vesti egli fa più danno dei
vari Fo, Santoro e Luttazzi, che neppure meriterebbero una citazione. Il
disprezzo, costantemente espresso e manifestato, alimenta sentimenti di
invidia, che sfociano poi in qualcosa di più grave per arrivare fatalmente
all’odio. Questa lettera viene scritta dopo i fatti di New York, che qui
non commento. Ma chiedo a me e a lui: quanta parte di responsabilità per
la tragedia può essere attribuita alle diffuse e infamanti accuse espresse
nel mondo occidentale verso gli Stati Uniti? Minima sicuramente, ma tale
da indirizzare le idee degli inconsapevoli e dei più violenti in una
direzione sbagliata, in grado di appoggiare (anche se inconsapevole) chi
intende realizzare un disegno perverso.


Che l’Italia sia «il ventre
molle» dell’Unione europea forse a Moiola farà anche piacere, confondendo
la nostra connaturata e opportunistica debolezza come una manifestazione
di non dipendenza dal «grande Satana» d’oltre oceano: non dipendenza che
esprime la solidarietà correlata sempre da «però».


Guarda caso Bush o il «texano»
(come forse Moiola preferisce), nel ringraziare i paesi che hanno
manifestato la loro solidarietà agli amici americani, ha dimenticato
l’Italia: un fatto che ha rattristato soprattutto la nostra comunità, che
si è sentita isolata e quasi emarginata in una fase storica così delicata.


Che gli Stati Uniti siano
«sicuramente il [paese] migliore fra tutti quelli esistenti sulla faccia
della terra»… signor Laurenti, provi ad affermarlo in America Latina o
nella repubblica del Congo, dove da tre anni è in corso una guerra che ha
seminato oltre 2 milioni di morti… con lo «zampone» anche degli Usa,
nonché della Francia! In ogni caso Paolo Moiola terrà conto delle
osservazioni. È stato lui a chiedere la pubblicazione della lettera,
nonostante alcuni passaggi offensivi.


Guide cieche
e sale senza sapore

Spettabile
rivista,


esprimo disappunto dopo aver
letto l’editoriale di Paolo Moiola. Non mi sarei mai aspettato di leggere
su una rivista missionaria un articolo di chiaro stampo anti-G8.


Anche il dossier di Igino
Tubaldo, sulla dichiarazione Dominus Jesus, era assai sgradevole per
alcune affermazioni di dubbio valore teologico ed ecclesiale.


Il vangelo pone un serio
interrogativo: «Può un cieco guidare un altro cieco?». Per noi cattolici
c’è una fortissima tentazione: seguire le mode di pensiero piuttosto che
la tradizione, la sacra scrittura e il magistero del papa e dei vescovi.


Assumendo categorie da altri
ambienti (per l’articolo anti-G8 da una certa sinistra e per il dossier
sulla Dominus Jesus dalla teologia protestante e del dubbio), si finisce
col diventare come il sale, che – afferma il vangelo – perde il suo
originale sapore e viene quindi buttato.


Così si diventa inutili alla
chiesa, cioè al progetto di Cristo, e al mondo! Scusate la franchezza. Mi
auguro che su queste cose ci si possa confrontare sulla rivista.


Da sempre crediamo nel
«confronto». Quindi abbiamo pubblicato anche la sua lettera.


«Dissenso»
non è «odio»



mia moglie è da decenni
abbonata a Missioni Consolata: crede nell’opera missionaria, che ha anche
visto la dedizione completa in Africa di un suo zio vescovo. Io leggo,
oltre alla vostra rivista, Corriere della Sera, di cui talvolta archivio
qualche articolo interessante ed incisivo; tra questi c’è proprio quello
del professor Panebianco del 23/6/01, che voi avete ferocemente attaccato
nel numero di settembre.


Io condivido il pensiero di
Panebianco e trovo scandaloso, sotto il profilo della faziosità e
ristrettezza di visione, quanto affermato nel vostro articolo, che ignora
almeno due cose semplicissime:




Non mi soffermo ad argomentare
perché i no global sono solo interessati, come dice Panebianco, a
sviluppare la loro identità e ideologia, e non argomenti razionali.


Resto, comunque, addolorato nel
vedere come gli articoli della vostra rivista, che vorrebbe essere
cattolica, contribuiscano a fomentare l’odio verso il mondo occidentale.


Antonio Filisetti (via e-mail)

Anche da parte nostra due
«cose»: – non ignoriamo affatto i problemi che il lettore ricorda (ma non
c’entrano con l’articolo di Panebianco); – il dissenso non è per forza
odio. Non lo è assolutamente in noi.


Il pane
bianco del professor Panebianco

Caro
direttore,


ho letto su Missioni Consolata
di settembre la critica di Paolo Moiola nei confronti del professor
Panebianco. Condivido pienamente i rilievi del vostro redattore.


Tra l’altro, il cognome del
professore mi ha ricordato che nel mio paese natale, la Serbia, il pane
bianco lo mangiano i ricchi e il pane nero o la polenta i poveri… Trovo
interessante il fatto che Panebianco difenda la società dei ricchi, la
società di coloro che mangiano pane bianco; anzi, tutte le mattine,
possono scegliere fra una ventina di pani diversi.


Il vostro giornalista è
arrabbiato, perché ha visto da vicino quelli che non hanno neanche il pane
nero, e io lo capisco. È sdegnato con quanti non vogliono né vedere né
assumersi le responsabilità di fronte alle sofferenze altrui, che egli ha
visto con i propri occhi e non riesce a cancellare dalla mente allorché
rientra nella «civiltà».


Signor direttore, sa come la
penso io? Se la globalizzazione garantisce a tutti benessere e democrazia,
io ci sto, eccome! Ma se aumenta il mio benessere e quello dei miei figli
a svantaggio delle creature di un’altra mamma, non ci sto più. Rinuncerei
al piatto pieno e ai 20 tipi di pane bianco, insieme ai miei figli;
rinuncerei ai tre pasti al giorno con molte persone che conosco… se
potessimo cancellare la morte per fame. E credo che lo farebbe anche il
professor Panebianco e, con lui, moltissimi «global», «antiglobal» e tutte
le persone che hanno un cuore nel petto.


Ma la fame nel mondo continua a
mietere numerose vittime, specialmente bambini. Se, pur con le nostre
rinunce, non eliminiamo il flagello, non significa che anche noi non ne
siamo responsabili. Non dobbiamo tranquillizzare le nostre coscienze; ma
trovare il modo che ci sia pane per tutti.


La nuova Europa e la sorella
America sono paesi meravigliosi, pieni di bellezze e ricchezze di vario
genere; ma, se avessero l’umiltà di riconoscere anche quelle degli altri,
se riconoscessero a tutti il diritto di vivere, respirare, lavorare,
studiare… se smettessero di misurare cose e persone con due misure
diverse… se dessero al mondo la parte più bella e sana della loro
civiltà… Purtroppo pochi lo fanno.


Allora ci sono quelli che non
vogliono accettare «tutto il pacchetto» della nostra civiltà, ma solo la
parte migliore. Sono i sognatori, gli utopisti. Sono anche coloro che si
ribellano, protestano, pregano. Sono quelli che Gesù chiama «sale del
mondo». Non sono terroristi e non seminano male e dolore. Possono essere
dei giornalisti, come Paolo Moiola e i suoi colleghi; sono i missionari
della Consolata e tutti quelli che combattono il dolore, la povertà e
l’ingiustizia. Che mondo sarebbe senza di loro?


Missioni Consolata rappresenta
per me un’«isola felice» nel mare delle informazioni quotidiane. Può
sembrare un paradosso: la rivista si occupa dei problemi più gravi del
mondo; eppure riesce a trasmettermi la bellezza e il valore della vita;
tiene sveglia la mia coscienza e mi fa sperare in un mondo migliore, per
il quale vale la pena di combattere e crescere i figli.


La signora Petrovic, sposata
con un medico italiano, è un’«operatrice interculturale» nelle scuole
della provincia di Trento. Ha pure una storia religiosa affascinante, che
i nostri lettori forse ricordano. Nata in Serbia sotto il regime ateo di
Tito, Snezana fu battezzata di nascosto dalla nonna… perché piangeva,
piangeva sempre. La bimba, una volta battezzata, non pianse più.  In un
post scriptum si rivolge pure ad Anna Turatello, invitandola a non avere
paura degli extracomunitari (cfr. Missioni Consolata, settembre 2001).


Scrive: Cara Anna, quell’extracomunitario
si è fermato, a differenza di altri (che non erano tali). Tu, però, non
buttarti sulla strada. E se i freni dell’auto non funzionassero?


Io ho una figlia di 16 anni,
come te. Questa estate siamo state a Belgrado. Lei ha passato delle
vacanze indimenticabili con gli «extracomunitari». Io però cancellerei
tale parola dal linguaggio della bella lingua italiana.


Sono stranieri di diversi
paesi. Ognuno ha un nome e cognome; può essere bello o brutto, onesto o
disonesto, educato o maleducato, pigro o diligente, stupido o
intelligente… Non aver paura, Anna. Anch’essi sono «il tuo prossimo».

Le
armi del «diavolo»

Cari
missionari,


temo di venire cestinato
scrivendo sull’orribile attentato negli Usa.


Il discorso di Bush, con la
parola «vinceremo», mi sa più di ragionamento di «vendetta» che di
giustizia; ancora una volta, dimostra che la civiltà civile siamo «noi» e
noi siamo nel giusto. Gli altri sono diavoli.


Lutto, minuti di silenzio,
trasmissioni sospese. Sono d’accordissimo: ci mancherebbe! Ma quando gli
Usa hanno attaccato Baghdad e Belgrado, quanti sono stati i minuti di
silenzio?


Il «diavolo» Bin Laden è stato
finanziato dalla Cia americana, finché ha fatto comodo, come i vari Saddam
(i nemici). Troppo comodo! Lo sbaglio, nella nostra epoca di popoli
civili, è stato ed è quello di vendere, vendere… senza pensare
minimamente che i «diavoli» le armi le comprano in casa nostra: non se le
sono create loro!


Il «mea culpa» è d’obbligo.


Gli Usa fanno una politica
estera dannatamente a loro favore, senza pensare ai popoli di «serie C».
Finché i palestinesi e i curdi non avranno una patria, ad esempio, e noi
continueremo a pensare solo al dio-denaro, al dio delle banche, non
stupiamoci se il diavolo prova invidia e odio nei nostri riguardi di
popolo occidentale santo. E con un nostro aereo ci condanna.



Diamo atto al presidente Bush
che, dopo le stragi dell’11 settembre, ha escluso la vendetta e persegue
la giustizia e la libertà. Ma come?


Una voce
fuori del coro


sono un ex allievo dei
missionari della Consolata. Dopo qualche anno di servizio in Mozambico,
sono ora responsabile del settore «cooperazione allo sviluppo» nella
provincia di Trento. In tale veste (ma anche e soprattutto a livello di
impegno personale), mi occupo di problemi legati allo sviluppo: diritti
fondamentali, pace, democrazia.


Ringrazio molto Missioni
Consolata, che rappresenta per me un valido strumento d’informazione,
analisi e riflessione, soprattutto in riferimento ai problemi degli
squilibri mondiali, della globalizzazione delle povertà, dei diritti dei
popoli colonizzati dai paesi occidentali, non più in senso classico, ma in
modo più subdolo e (se possibile) più pericoloso dalle logiche del
mercato.


Ogni mese leggo Missioni
Consolata, una delle poche voci fuori del coro, capace di leggere con
equilibrio e coraggio le contraddizioni dei nostri tempi, sempre con un
occhio attento ai diritti calpestati di milioni di persone, in nome di una
non ben definita libertà, che sempre più si rivela libertà di fare i
propri interessi a scapito di tutto e tutti.


Dopo le tragedie negli Stati
Uniti, mentre la violenza costringe a schierarsi senza «distinguo» né
capacità di riflessione, mantenere viva la fiamma della ragione e della
ricerca onesta rappresenta una scelta profetica, che solo chi è spinto
dalla passione e dalla generosità può fare.


Sono riconoscente ai missionari
della Consolata per la formazione ricevuta e mi complimento con la
rivista. Mi fa piacere vedere che i valori (che mi hanno sostenuto da
ragazzo) sono sempre la scelta degli ultimi, la giustizia, il rispetto,
l’equità, il pluralismo e rappresentino ancora oggi la linea direttrice
della rivista. Buon lavoro.

 



Chiesa e potere militare


 Gesù
non era cappellano di Erode

 


Cari missionari, il
dossier su «gli indios di Roraima/Brasile» è molto bello e ancora più
bella è la campagna di mobilitazione che avete lanciato per impedire la
costruzione della caserma nel villaggio di Uiramutã e arginare la
militarizzazione del territorio indigeno (Missioni Consolata,
luglio-agosto 2001).


Spero che da parte
di tutte le istituzioni cattoliche vi sia la medesima sollecitudine per
questa nobile causa o, quanto meno, non vi sia ostilità verso i vostri
progetti.


Dico questo perché
la presenza militare è molto radicata presso le alte sfere della chiesa
cattolica ed è una presenza pesantissima.


Ci siamo dimenticati
che Giovanni XXIII, prima di diventare papa, fu cappellano militare e che
l’attuale pontefice, tra gli altri titoli, detiene anche quello di
«vescovo militare»?


Il fatto potrebbe
funzionare se questi titoli e questa presenza fossero interpretati come un
servizio alla verità di Cristo, un servizio alla giustizia, alla pace,
alla salvaguardia del creato, e non una sovrastruttura finalizzata alla
legittimazione di strutture di peccato. Queste, sul piano morale e
religioso, non potranno MAI avere legittimità e autorevolezza (cosa ben
diversa da autoritarismo).


Io non so se e in
quale misura anche in Brasile sia presente una «chiesa in stellette», «in
anfibi» o un progetto di «caritas militare» e se i cappellani militari
italiani siano andati a Rio de Janeiro o Manaus a svolgere «pastorale
vocazionale militare» e addestrare in tale senso i loro confratelli per
far nascere una chiesa militare locale.


So che in paesi
latino-americani (in particolare Argentina e El Salvador) i cappellani
militari hanno avuto un ruolo assai importante nell’escalation delle
violenze contro la popolazione civile; e, se lo so, è perché ad ammetterlo
sono stati gli stessi autori delle atrocità e in qualche caso, sia pure a
distanza di anni, gli stessi cappellani.


Sono convinta che il
papa, a livello teorico, possa avere qualche ragione per tenere ancora in
piedi l’Ordinariato militare. A livello pratico, però, dovrebbe vigilare
di più su ciò che effettivamente i cappellani e vescovi militari insegnano
e fanno e, soprattutto, su ciò che omettono di insegnare e fare in prima
persona.


Gesù è andato nelle
case di tanti peccatori e ha usato misericordia con tanta gente che aveva
fatto del male. Ma non è stato né il cappellano di Erode né quello di
Pilato.


Rita Ferri – Fano
(PS)

 

Lettera che si
avvale di numerose fonti bibliografiche… Il papa non scende a patti con
la guerra. E lo sta dimostrando anche nel presente ed angoscioso frangente
mondiale, dopo l’«11 settembre 2001».

 

 

 



Abbiamo già tanti problemi, e voi…

 


Caro direttore,


per ragioni di
salute sto trascorrendo un po’ di tempo con i parenti, a contatto con la
gente, e raccolgo anche qualche parere su Missioni Consolata. In genere la
rivista piace per il taglio spigliato e non clericale, che – dicono – si
trova in pochissime riviste cattoliche. Quindi ringraziano te e la
redazione.


Permettimi anche di
riportare (senza offesa) due osservazioni critiche, abbastanza comuni.


1. Essendo Missioni
Consolata «la rivista missionaria della famiglia», si desidererebbe un
arti

AAVV




Dossier: TESTIMONIANZE DI MISSIONARI CON PERMESSO? Su culture, conflitti, scelte, annuncio del vangelo

Articolo 1

SEMPRE
"AL TROTTO"

 

Il beato Giuseppe Allamano affermava che, se vogliamo conoscere la
nostra identità, è sufficiente ricordare il nostro nome: "missionari della
Consolata". Missionari che egli ha sognato come persone che andassero incontro alla
gente, qualificate nel campo spirituale, scientifico, culturale e pastorale. Il fondatore
non voleva gente mediocre. Essendo i suoi missionari destinati ad avere come orizzonte il
mondo, esigeva che avessero un cuore aperto alle sue dimensioni, capace di ampie visioni e
di accoglienza verso tutti. Il missionario è colui che va, che cammina. L’Allamano,
però, diceva (con un tocco originalissimo) che non dobbiamo solo camminare, ma correre,
"trottare". Missionari che camminano sempre, come i "samburu" o come i
magi, che non si sono fermati di fronte alle difficoltà; come ha corso la Consolata, per
andare ad aiutare Elisabetta; come hanno corso i cristiani "atleti" ricordati da
san Paolo.

Persone che trottano, dice l’Allamano, come la Madonna faceva
"trottare Gesù" (non so dove l’abbia letto o saputo, ma lui lo dice!). In ogni
caso questo esprime il suo sentimento e il dinamismo richiesto ai missionari della
Consolata oggi. Allora il sogno è che, a 100 anni dalla fondazione dei missionari della
Consolata, quando si sente il peso del tempo, noi vinciamo la tentazione di adagiarci, di
non sapere più correre. Trottare con entusiasmo. Se non lo facciamo, diventiamo inutili.
L’Allamano, nonostante l’età, non è mai invecchiato, perché ha sempre avuto attenzione
a ciò che avveniva al di fuori della sua stanza, a quello che vedeva; ha sempre
conservato l’attenzione ai tempi, ai cambiamenti; non si è fossilizzato, non si è
accontentato di ripetere, non è stato contento delle mete raggiunte, ma ha cercato di
andare incontro alle situazioni, alle necessità. È anche il nostro compito: non
fossilizzarci, non accontentarci di quello che abbiamo compiuto, ma andare oltre, obbedire
al comando di Gesù, prendere il largo, affrontare le situazioni che sfidano la missione,
il vangelo, il bene dell’umanità. E non solo partire, ma partire in comunione.
"L’unità di intenti" è il principio vincente: o si lavora insieme o si
perde tempo. E questo diventa particolarmente evidente oggi in un mondo globalizzato.
Ricordo le parole che il fondatore scriveva, nel 1909, a fratel Benedetto Falda: "La
nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata.
Passeranno gli uomini, cadranno alcune foglie, cadranno i rami secchi, ma l’albero
prospererà e diventerà gigantesco. Io ne ho le prove in mano". Le prove ci sono
ancora. Ce lo conferma anche l’esperienza di tanti nostri fratelli e sorelle che, nel
silenzio di ogni giorno, continuano a portare la "consolazione di Dio tra i più
poveri del mondo". È con questo spirito che vanno accolte le testimonianze di alcuni
missionari della Consolata, rilasciate in occasione del centenario dell’Istituto e
riproposte dal presente "dossier".

 

p. Gottardo Pasqualetti,

superiore dei missionari della Consolata in Italia

 

Articolo 2

 

 

Mozambico

 

 

Tenacemente presenti

 

"Mi tempestavano di domande:

"Perché rimani? Perché ti preoccupi di noi?".

E poter rispondere nel cuore: "Perché sono cristiano"".

 

 

di Franco Gioda (*)

 

Racconto quello che ho visto in Mozambico, quello che abbiamo vissuto
insieme e si sta vivendo oggi, con il sogno che ci ha guidato in questi anni. Se
togliamo il sogno, non comprendiamo il significato della nostra presenza missionaria nel
paese.
Bisogna ricordare e comprendere la storia: il tempo coloniale portoghese,
l’inizio dell’indipendenza nazionale e la rivoluzione comunista, la guerra, la pace e
oggi l’oblio. Dopo il 1975, con la libertà concessa a malincuore dal Portogallo in
seguito ad una lunga lotta, il Mozambico è caduto in un sistema che ha gravato
pesantemente su tutto: il marxismo-leninismo nel suo modello più radicale. Sono seguite
le nazionalizzazioni affrettate, la paralisi del commercio, la fuga degli imprenditori,
l’indottrinamento socialista, la mancanza di libertà minime, il controllo generale
su tutto. Come se ciò non bastasse, ecco la tragedia della guerra civile tra Frelimo
(Fronte di liberazione del Mozambico) e Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), guerra
aggravata da siccità e fame. Di qui l’insicurezza totale. Nel 1992 la pace, firmata
a Roma, con una grande speranza di rinascita.

Oggi, però, il Mozambico rischia di essere dimenticato
dall’opinione pubblica mondiale. Ultimamente il paese è stato ancora oggetto di
attenzione, ma solo a causa dell’alluvione: un momento drammatico e isolato, nel senso che
ha toccato solo una parte della nazione.

 

 

Calati nelle situazioni

 

I missionari della Consolata, che arrivarono in Mozambico nel 1925,
avevano in cuore la formazione impartita dal beato Giuseppe Allamano: quindi una
spiritualità del concreto, del quotidiano.
I primi pionieri giunsero nel territorio
senza tanti progetti, ma con una fortissima carica umana e spirituale, con l’ideale di
vivere in mezzo alla gente.

Oggi sono ancora presenti nelle zone più sperdute, dove le persone
sono abbandonate da tutti. Direi che hanno quasi timore della città, anche perché si
cercano i più poveri, con l’idea chiara dello sviluppo-consolazione. Quando il
missionario si cala nella realtà, non fa distinzione tra sviluppo e consolazione:
non ci può essere l’uno senza l’altra, e viceversa.

Con queste premesse, è importante sottolineare alcuni aspetti del
nostro lavoro in Mozambico. Abbiamo sempre cercato di immergerci nelle situazioni
concrete, per dare risposte utili.

La prima è stata la formazione attraverso le scuole: scuole di
arti e mestieri per l’avvio professionale al lavoro. In questo i fratelli missionari
sono stati una benedizione enorme. Naturalmente lo stato portoghese ne ha approfittato:
concedendoci la libertà di insegnamento (nel 1942), si è creato un intenso sviluppo con
il moltiplicarsi di scuole, soprattutto in foresta.

Con il tempo si è capito che, dietro il permesso del Portogallo,
c’era una strategia (non troppo velata) di espandere e rafforzare la colonizzazione.
C’è stato, allora, un momento di ripensamento e di ribellione al sistema con la
tentazione, per i missionari, di abbandonare tutto. Ma, guardando all’interesse della
gente, si è deciso di restare, di non abbandonare le comunità, almeno finché si è
potuto, cioè fino alla rivoluzione marxista-leninista, allorché tutto si è bloccato:
scuole, ministero, attività sociali.

L’unico permesso concessoci era di "essere presenti":
condividere le sofferenze e attese del popolo, aiutare a non perdere la speranza. Questo
fino al momento della pace, della ricostruzione, delle nuove scelte: scelte diverse da
quelle precedenti. Anche per noi, missionari, non più proprietari e gestori, ma
"servi" in aiuto e sostegno alle scuole governative; collaboratori senza
potere, onesti e umili.

C’è stata, con la pace, l’intuizione formidabile dell’università
cattolica.
In Mozambico c’era una sola università nel sud. Nel remoto nord del paese,
persino a 3 mila chilometri dalla capitale Maputo, la scuola era solo quella elementare,
con pochissime scuole superiori. L’intuizione di qualche missionario della Consolata è
sfociata nel progetto di una università, che al presente può vantare 1.500 studenti, con
quattro facoltà in tre città del nord. Una carta vincente.

 

 

Con grande "nostalgia"

 

Un altro aspetto del nostro lavoro missionario attuato in questi anni,
ma soprattutto in quelli della rivoluzione e della guerra, è stato la vicinanza con la
gente.

La prima "strategia" del governo comunista fu di isolarci, di
tagliarci fuori, di fare sì che non avessimo più alcun contatto con la popolazione. Ecco
la concentrazione in determinati posti, con missionari derisi ed espulsi. Per visitare le
comunità dei cristiani (fatica e denaro a parte), erano necessari permessi su permessi,
controlli meticolosi, attese estenuanti, limitazioni. Da qui ancora l’interrogativo:
che facciamo? Abbiamo cercato di resistere e di non mollare, sfruttando ogni occasione che
ci veniva concessa. Le visite alle comunità avvenivano con il rappresentante del partito
comunista alle calcagna, che controllava tutto. Ma (fatto inaspettato) il rapporto con la
gente è diventato più forte, più coinvolgente. In alcune comunità dura tutt’oggi.

I missionari di Cuamba, ad esempio, facevano pervenire (attraverso
persone) delle schede catechetiche da compilare nei villaggi; gli animatori locali
rispondevano alle domande, descrivevano i fatti, segnalavano gli esempi, e inviavano tutto
per iscritto al missionario, che ci rifletteva e programmava il lavoro pastorale.

È nata così una chiesa "ministeriale", dove i catechisti e
gli animatori facevano quasi tutto. Grazie a loro, le comunità resistevano alla
propaganda atea, vivevano nella fede e, addirittura, si moltiplicavano. In luoghi dove le
comunità, prima della rivoluzione e della guerra, erano 10-15… sono diventate 20-25. Ne
è derivata anche una "purificazione" per i missionari troppo legati
ancora alle strutture, ai metodi del passato, forse pure al governo. In quel tempo si è
capito che l’unico "buon pastore" è il Signore: è Lui che pascola il
gregge, al di là del nostro molto o poco lavoro. Un terzo aspetto della nostra presenza,
oltre alla formazione e condivisione di vita, è stata la testimonianza. Il Mozambico, con
la guerra, ha avuto circa 1 milione di morti, 2 milioni di rifugiati all’estero (nei
campi-profughi del Malawi e dello Zimbabwe), 5 milioni di sfollati interni… Tutto il
paese era in gravissime difficoltà. Poi la guerriglia, che sequestrava, rubava e
bruciava, seminando morte e distruzione anche fra i missionari.

Ma siamo rimasti. Abbiamo incoraggiato, testimoniato la speranza,
nonostante continui segni di morte. Forse ho portato anch’io un po’ di
consolazione, e solo con la testimonianza della mia presenza. Quante volte, dopo aver
viaggiato in bicicletta di notte, arrivavo ad un villaggio e mangiavo quello che
c’era. Mi tempestavano di domande: "Padre, perché sei qui? perché rimani?
perché ti preoccupi di noi?". E poter rispondere nel cuore: "Perché sono
cristiano… Per amore e nel nome di Gesù Cristo".

Quello che ho fatto io l’hanno fatto molti altri missionari, ognuno nel
suo stile, ma tutti con la stessa passione, la stessa voglia di essere
"testimoni" di Qualcuno per cui abbiamo dato la vita. Un po’ come Maria, sotto
la croce e accanto al figlio in agonia, ma senza poter fare nulla. Solo esserci!

Oggi, dopo gli accordi di pace dell’ottobre 1992, lo sforzo è di
aiutare il paese a vivere gli ideali stupendi conquistati con sofferenza nel periodo buio
del passato. Ricordare i valori appresi, il volto nuovo delle comunità cristiane, la
voglia di continuare a crescere nella formazione umana e cristiana… Cercare di non
cadere nelle nuove trappole,
come quella degli aiuti facili, della delega in bianco,
dei miraggi del benessere occidentale che generano divisioni, gelosie, discriminazioni,
povertà umana e morale.

Se volessi riassumere tutto, potrei farlo con la parola portoghese "saudade",
che è intraducibile; indica nostalgia e rimpianto di alcune situazioni, anche di
sofferenza. Credo che la chiesa in Mozambico senta "saudade" del tempo di
persecuzione e guerra. Un tempo tragico, certo, ma durante il quale in cui i cristiani
erano aggrappati alla parola di Dio. Non avevano nulla, ma erano luce. Una comunità di
testimoni e martiri (come i 21 catechisti trucidati a Guiúa), presenza viva di Cristo.

 

(*) Padre Franco Gioda, missionario in Mozambico durante il
colonialismo, la rivoluzione comunista, la guerra civile e il raggiungimento della pace.
È stato anche superiore dei missionari della Consolata operanti nel paese.

 

 

Articolo 3

dossier Kenya

 

 

Dal Kenya all’Ecuador

 

 

Dialogo con le culture

 

 

"La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,

ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti".

 

 

di Giuseppe Ramponi (*)

 

Quando operavo in Kenya (nel distretto dei samburu, diocesi di
Marsabit), ho potuto dialogare con vari rappresentanti di etnie vicine, i frequentatori
della missione, maestri e anziani che diventavano amici. Avvertivo il bisogno di capire
"la vita samburu": come era organizzata la tribù negli aspetti sociali,
educativi e religiosi. Il popolo viveva la cultura senza essee protagonisti: la vita di
ogni giorno era guidata dal capo-famiglia, in comunione con gli altri che formavano la
manyatta, il recinto.

Gli sperimentati missionari dicevano che il dialogo era previo e
necessario per l’evangelizzazione. E si doveva cercare una piccola "crepa"
dove mettere il dito e, allargandola, cominciare la predicazione; poi, come fa la sonda,
esplorare e capire se c’era posto per la nostra fede. Se ci lasciavano entrare, era nostro
compito costruire subito la chiesa, con messe, preghiere, canti, sacramenti, catecumeni.
Era il metodo di allora. Oggi, dopo tanta riflessione e polemiche durate anche anni, non
si è d’accordo su tutto. Io sono disposto ad accettare tutti i punti di vista e guardo da
ogni angolo, escluso quello "ottuso".

 

 

La cultura della vita

 

Un cambio radicale nella diocesi di Marsabit avvenne all’inizio
del 1970, quando il vescovo Carlo Cavallera accettò il parere dei missionari, che
suggerivano più impegno per la cultura: ricerca e studio di usi e costumi e conoscenza
della lingua tribale, e non soltanto di quella nazionale (swahili). Io venni scelto per il
distretto dei samburu e, nello stesso tempo, mi nominarono responsabile delle scuole
(Education Secretary). Cominciava un sogno ad occhi aperti.

Nei due settori educativi comuni a tutti i popoli (cultura e
istruzione) c’era finalmente l’opportunità di lavorare ad un progetto che mi stava
molto a cuore: elevare a dignità la cultura e farla entrare nella scuola come
educazione-base (per divenire persone) e completarla con l’istruzione (per
diventare cittadini). La scuola a Maralal era diventata un modello e un centro per
sincerare, identificare e dare dignità alla cultura locale e, allo stesso tempo, dotare
la persona di tutte le qualità garantite dai diritti umani e dal vangelo. Speravo, in
quel contesto, che la persona avrebbe saputo parlare e chiedersi: perché, come, quando,
dove, con chi?… Mi piace inorgoglirmi e affermare che la scuola era un paradigma nel
progetto storico del popolo samburu.

Con la mia partenza, l’impostazione cambiò, perché i successori
erano pratici: non volevano teorie, ma fatti pieni di numeri e guadagni.

Lasciato il Kenya, raggiunsi la Colombia. Nel 1983 ero a Cartagena de
Indias. Pensavo di lavorare con i negri, per cercare i legami con l’antica cultura
africana e dare il brivido della dignità originale a chi era stato spogliato di tutto. La
casa accogliente e comprensiva doveva essere la chiesa.
Doveva essere pure un
laboratorio di ricerca e ricostruzione, partendo da qualsiasi calore ancora vivo,
nonostante l’immensa cenere. Era una sfida. Fallì, perché i responsabili locali si
sforzavano solo di credere nelle verità divine, non nella Verità.

Nel 1987, dopo due anni passati nel Caquetá (importantissimi, perché
mi introdussero nel mondo indigeno, che mi mancava), arrivai in Ecuador, con gli indios in
lotta, portabandiera delle rivendicazioni culturali e organizzative proprie di un popolo
oppresso. In Ecuador sono diventato "pellegrino" con gli indios di lingua
quichua nella loro solitudine, angustia, indignazione ed ira. La gente era ai margini già
al tempo degli incas, diventando solo lavoro bruto e a buon mercato dai conquistatori
spagnoli in poi. Ma quando a Riobamba arrivò il vescovo Leonida Proaño, incominciò il
cammino di riscatto ed emancipazione. Ora l’indio ha un suo progetto di vita e
rivendica la propria storia.

Ho imparato di nuovo tutto e ho abbandonato un po’ la cultura dei
libri per abbracciare quella della vita reale e quotidiana. Oggi mi dedico anima e corpo
alle scuole, dove studiano i bambini indios, e voglio rendere la sede bella, idonea e
qualificata. L’educazione offrirà le "armi" per la "riconquista".

Lavoro anche nella pastorale indigena, con un buon numero di
catechisti: tutti volontari e tutti della base, popolo-popolo. Con essi faccio la lettura
critica della realtà comunitaria in trasformazione, per decifrare gli "enigmi
culturali", proponendo e avviando l’aggancio con l’utopia del Regno di Dio,
l’unica ragione per essere missionari e risposta ancora sempre valida per dipingere di
speranza il progetto storico dei popoli.La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,
ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti. Mi piace ragionare con i
collaboratori, specialmente maestri: il discorso è sempre interessante. La lettura di
segni, immagini, miti, gesti e relazioni non si può fare alle spalle del gruppo
interessato. Però è vero che c’è bisogno dell’"osservatore esterno". E
sono ancora convinto che è indispensabile il cammino indicato da Gesù Cristo e, più che
mai, sono attuali i suoi segni: chiavi per aprire, occhi, orecchie, bocche, mani, cuori
e… sepolcri.

 

 

L’innesto sull’albero buono

 

La scena ecclesiale mondiale ci ha regalato parole "chiavi".
Il Concilio ecumenico Vaticano II ci ha dato la parola "dialogo"; la
Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellín (1968) "liberazione",
quella di Puebla (1979) "stare con i poveri" e, con la Conferenza
ecclesiale di Santo Domingo (1992), entra nella storia l’esigenza dell’"inculturazione".
In America Latina essa diventa un imperativo per seguire Gesù Cristo nella solidarietà
verso i volti umani sfigurati.

In Ecuador non parliamo di dialogo con le culture, ma di grido della
cultura
e clamore persistente che esige spazio e riconoscimento nel palazzo della
politica e nella chiesa. La cultura india vuole entrare nella chiesa in nome del
cristianesimo che, bene o male, è diventato suo e si presenta "inculturato"
nell’arco di 500 anni. E si vuole pensare, parlare e agire nella chiesa con una
lingua propria e categorie di pensiero proprie.

Non si accontenta di riti e segni, ma si chiede il diritto di studiare
la filosofia partendo dalla propria cosmovisione, di costruire una teologia muovendosi dal
proprio progetto storico. È un’inculturazione speciale, che richiede la caduta
della chiesa monoculturale
e reclama il diritto di sedersi accanto alle altre culture,
già canoniche, accedendo con diritto completo alla piena cittadinanza ecclesiale. Ora
sogno e lavoro per un "innesto culturale" nella chiesa, affinché questa capisca
e utilizzi tutte le cose buone che la cultura ha, rivedendo e rettificando la struttura
monoculturale che, finora, ha reso "visibile la grazia" con parole, concetti
espressioni liturgiche e dottrinali tratte da un solo vocabolario.

È l’idea sottile di san Paolo (Rom 11, 11-24). Di solito si innesta il
ramo buono nell’albero selvatico. Il missionario insegna, invece, ad innestare la parte
selvatica nell’albero buono. Quindi diventa logica l’azione di inculturare la chiesa,
ossia innestare la cultura indigena nella chiesa.

Paolo vedeva i "pagani selvatici" innestati nell’"albero
buono" del popolo dell’alleanza, cioè la chiesa. E mi diverte l’idea di innestare
gli indios nella chiesa. Mi fa ricordare i barbari, che sconsacrarono l’impero romano, e
immagino lo stupore nel vedere questi "rambo" entrare nelle basiliche, un
po’ chiassosi, e chiedere ascolto. Che cosa impedisce che nel 2001 gli indios entrino
nella loro chiesa, parlino, cantino, adorino e si salvino? E questo senza chiedere in
prestito simboli, ideogrammi, concetti di vita, definizioni di sapienza e conoscenza, di
intelletto e fortezza, di consiglio, pietà e timor di Dio? Passi più lunghi della gamba?
Non me ne sono mai invaghito. Ho sempre cercato di partire da quello che è possibile.
Prima di arrivare alla teologia, c’è la pastorale, che è un lavoro per costruire la
comunità di fede, speranza e carità. Dopo, basta un niente per dire: è la chiesa. Il
vangelo è spirito, forza, visione, una visione di vita che parte da Gesù. Ma gli hanno
dato corpo, segni, sensi, oratoria, logica, parola, ragionamento, mezzi comunicativi. Se
nel passato talora (per non dire spesso) c’è stato bisogno di discutere e disceere la
vera teologia, per definire che cosa si doveva insegnare e credere, ciò significa che
l’interpretazione non è stata subito unanime. E perché non oggi? Anche i popoli
dialogano, ragionano e cambiano. In Kenya i kikuyu (descritti da padre Costanzo Cagnolo in
una celebre monografia di 68 anni fa) sono cambiati; non operano più nei villaggi, nei
campi e nei mercati come allora. Anche in Ecuador l’impero inca non c’è più. Ma c’è
Pilatuña e ci sono io. Pilatuña vive la cultura e io predico il vangelo. Però con
questa differenza: Pilatuña vive la cultura e non sa predicarla; io so forse annunciare
il vangelo, ma faccio molta fatica a viverlo.

 

(*) Padre Giuseppe Ramponi, missionario in Kenya, Colombia e, oggi,
in Ecuador. Ha scritto: "Preghiere samburu", Consolata Fathers, Nairobi (pro
manuscripto); "Missionari e indios. Sentire la vita", Edizioni Siaca, Cento
(FE), 1999.

 

Articolo 4

dossier Congo

 

 

 

Repubblica democratica del Congo

 

Tra i fuochi della guerra

 

 

Una guerra con 2 milioni di morti dal 1998.

Alta la tensione: "Siamo tutti uguali, però loro…".

Ma, con il missionario, si dice pure: "Se tu resti…".

 

 

di Santino Zanchetta (*)

 

La mia è una piccola testimonianza, con qualche particolare
drammatico, che giustifichi perché siamo rimasti nella Repubblica democratica del Congo,
nonostante la guerra. Lo faccio a nome di tutti i missionari: quelli che sono rimasti per
scelta o perché costretti… e che hanno anche dato la vita. Parlo della guerra vissuta
(dalla gente e dai missionari), per rispondere alla domanda: perché restare in tale
contesto? Recentemente il Congo ha subìto due guerre successive; la seconda è scoppiata
nell’agosto del 1998 ed è tuttora in corso.

Per noi, missionari, guerra sono i bombardamenti con armi
pesanti, quando le bordate non sono mai precise, né indovinate, né tanto meno…
chirurgiche. Le bombe cadono ovunque, perché il nemico da perseguire non ha un campo
preciso e occupa generalmente i quartieri popolari. Noi abbiamo avuto la fortuna di
sopravvivere, mentre 2 milioni di persone sono state uccise.

Guerra sono gli scontri, quartiere per quartiere, con gente che fugge e
cerca disperatamente rifugio; con soldati che, aspettando l’evoluzione degli avvenimenti,
si danno al saccheggio, rubando tutto il possibile, forse per appagare la propria fame o
per rifarsi dei salari mai ricevuti.

Guerra è l’odio verso i nemici e i loro alleati: un odio
alimentato dalla stampa, dai discorsi, dai canti e ritoelli, ma anche dalla sofferenza
di chi ha dovuto patire fame, lutti, atrocità, privazioni di medicine, luce, acqua.
Guerra è pure l’Aids, trasmesso (consciamente e inconsciamente) dai soldati e vissuto con
terrore da parte delle vittime.

Guerra è la rabbia contro la povertà mal sopportata (e ciò
spiega i saccheggi e furti), sfogo del tribalismo in atto.

 

 

Tasselli di un mosaico

 

In questo quadro fosco, noi missionari abbiamo vissuto la guerra
insieme alla gente. Con tensione, per avvenimenti che non hanno mai fine; con terrore, per
ciò che potrà ancora capitare, senza sapere quando e come; con silenzio, ignorando
assolutamente cosa fare per proteggersi o proteggere la popolazione. Con paura incessante:
della morte, della tortura, del sequestro, dell’isolamento, della mancanza di
comunicazione e informazioni.

Guerra è stata anche, per noi, la partecipazione al dolore del popolo,
superando il voltastomaco nel vedere persone bruciate vive con la tecnica del
"pneumatico sui corpi", pestate con il mattarello del mortaio. E poi i
ripetuti saccheggi a missioni, parrocchie, seminari, conventi, sotto la minaccia delle
armi; obbligati a caricare tutto sulle autoblindo dei militari e vederle partire.

In guerra, però, non sono le lacrime che salvano, ma come si affronta
la situazione, soprattutto per noi missionari, divenuti punti di riferimento. Abbiamo
vissuto ogni sorta di sopruso; siamo stati anche feriti nei sentimenti più profondi: come
uomini, come stranieri, come sacerdoti, suore e consacrati. Sorgono tante domande, tutte
cariche di angoscia: perché restare nel paese? Perché amare la gente? Perché, dopo
tutto quello che abbiamo vissuto e visto, dobbiamo credere che la nostra presenza abbia
significato e valore?… Perché, invece, non partire, in attesa di tempi migliori e più
sicuri? La mia risposta (mentre la guerra continua) non è né definitiva né esaustiva:
è un insieme di piccoli tasselli, come in un mosaico.

Il primo motivo che, come missionari, ci fa rimanere è l’affetto,
la parte umana di noi. Siamo vissuti per tanti anni insieme: abbiamo pregato e partecipato
al dolore comune nei funerali, alle difficoltà materiali e spirituali; abbiamo
chiacchierato a lungo visitando le case e prendendo in braccio i bambini; abbiamo sognato
iniziative comuni di sviluppo. La nostra esistenza è intimamente legata a quella della
gente.

Date queste realtà, chi ha il coraggio di spezzare i legami,
abbandonare l’amico nel dolore o nella lotta per la sopravvivenza? La vicinanza fratea
infonde coraggio ad una comunità disorientata, la fa sentire amata e valorizzata.
"Se tu resti – mi sento dire -, significa che noi siamo importanti, ci vuoi
bene e sei uno di noi".

Il secondo tassello del mosaico è più profondo: dipende dalla stessa
missione che ci vincola, senza sconti, alle comunità cristiane. Quali che siano le
circostanze (abbondanza, penuria, gioia, pericolo, gratitudine o indifferenza), il vangelo
della carità (cioè il dono di sé) deve essere proclamato in ogni situazione. Pertanto la
missione non è una passeggiata occasionale,
una manciata di emozioni che passano, ma
condivisione di vita, costantemente e concretamente.

Un terzo motivo: la nostra presenza deve diventare segno di una cultura
di pace contro ogni logica della guerra,
facendo capire che, nonostante la violenza,
è la frateità che deve reggere la vita… Attraverso riflessioni, incontri e gesti di
carità, il missionario approfondisce il vangelo con l’uomo della strada, provocando
(non senza fatica) pensieri di riconciliazione. Un esempio: furono fatti prigionieri dei
rwandesi, ed era "normale" insultarli, denigrarli e considerarli animali per
tutte le sofferenze che avevano provocato… Nella nostra riflessione, in missione,
abbiamo affrontato il tema della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che
supera l’appartenenza ad una tribù o stato. La riflessione ha incontrato molta
resistenza… perché "è vero che siamo tutti uguali, loro però…". Ciò
nonostante, dopo reazioni anche violente, siamo riusciti a raccogliere cibo e soldi per
andare a trovare i prigionieri "nemici", con un atteggiamento di pace e perdono.

 

 

Preparando il futuro

 

È importante rimanere e, soprattutto "come" si rimane. Non
è la presenza fisica che gioca il ruolo determinante, ma il significato che acquista e
l’azione quotidiana: cioè la vicinanza che faccia crescere la comunità cristiana,
che infonda speranza (ma anche soluzione) nei problemi concreti, che educhi alla non
violenza e al perdono.

In frangenti drammatici (come è avvenuto nelle nostre missioni del
Congo settentrionale) a volte è più utile la "partenza momentanea", perché il
missionario, restando, può mettere a repentaglio la vita della sua gente. Spesso,
infatti, "il bianco" è ricercato per quello che possiede o ha nascosto; e, per
sapere e trovare qualcosa (macchine, soldi, viveri), si può anche ricorrere alla tortura
delle persone. In questi casi, forse, la soluzione migliore è l’allontanamento
temporaneo, per permettere alla gente di vivere senza subire ulteriori pressioni e
violenze.

 

I missionari non sono eroi; non sono nati per questo (io, almeno);
però la presenza-missione li interpella e si esprime "con" la gente in tante
piccole cose.

Infine il nostro restare è un investimento per il futuro. La
situazione, anche pastorale, esige nuove visioni e prospettive; suppone che i missionari
lavorino non soltanto cercando di "sopravvivere" oggi, ma guardando alle
generazioni future. La guerra, purtroppo, non finirà domani e la ricostruzione del Congo
non avverrà dopodomani. I giovani, specialmente, devono saper convivere con la violenza,
stimolati però a cercare valori nuovi, umani e cristiani, per costruire un futuro di pace
per il paese. Ecco perché, in barba alla guerra (o, meglio, a motivo di essa), il nostro
gruppo missionario di Kinshasa ha voluto offrire un segno "forte". Prendendo lo
spunto dalla conferenza "Il coraggio dell’annuncio", abbiamo aperto una nuova
parrocchia nella "periferia più periferia" della capitale, dove bisogna
incominciare da zero. È una testimonianza di chiesa, di vicinanza missionaria, che
esprime, a dispetto della scarsità di mezzi e personale, la fiducia di poter dare un
volto nuovo al Congo. Noi siamo sempre "i missionari della Consolata".

 

 

(*) Padre Santino Zanchetta, missionario in Zaire-Congo. Il paese,
spaccato in due, è in guerra dal 1998: le vittime superano i due milioni. La separazione
incide anche sui missionari della Consolata, costituitisi in due gruppi che non possono
incontrarsi.

 

Articolo 5

 

dossier America Latina

 

 

America Latina

 

 

L’indio al centro

 

 

"Per gli indios, noi missionari non siamo importanti:

con la chiesa o senza la chiesa, faranno il loro cammino. Siamo noi che
abbiamo bisogno di loro".

 

di Antonio Bonanomi (*)

 

È importante chiarire subito un "dettaglio": l’indio non
esiste. Esiste come termine, non come realtà; nessuno degli indigeni dell’America si
riconosce come indio, perché è una parola sbagliata; è un "errore" di
Cristoforo Colombo,
che pensava di avere raggiunto le… Indie!

Pertanto meglio sarebbe parlare di popoli indigeni o, come si
dice in Argentina, di popoli aborigeni, che occupano un determinato territorio fin
dall’"inizio": quindi padroni della loro terra e storia. Tuttavia fare la
scelta degli indios non è una moda; significa incominciare a guardare il mondo non
dall’occidente, da noi, ma da loro. Non solo il mondo, ma anche la chiesa sarebbe
più povera senza la loro presenza, perché gli indios apportano una grande ricchezza, con
una saggezza, una storia e un progetto di vita diversi. Siamo noi che abbiamo bisogno di
loro, più che loro di noi. Qual è il panorama degli indigeni nell’America Centrale e
Meridionale? Sono circa 45 milioni coloro che si dichiarano indigeni, anche se credo che
siano il doppio, perché la maggioranza dei popoli che vivono in America hanno una
percentuale di sangue indi al 20-60%; quindi il volto indigeno è molto più comune di
quanto appare nelle nostre mappe. Essere indigeni in America è stato un motivo di
vergogna per tanto tempo e molti si sono mimetizzati per poter sopravvivere! Si passa dal
70-80% della Bolivia e del Guatemala, allo 0,2% del Brasile, all’1% del Venezuela, al 2%
della Colombia. Quindi c’è una diversità di presenza enorme.

C’è pure una diversità di situazioni: popoli che vivono ancora come
cacciatori, raccoglitori, pescatori e popoli che sono alle soglie della modeità con i
vantaggi e gli svantaggi che questo implica. Oggi questi popoli stanno facendo "la
riconquista" della loro storia, cultura, territorio.

Oggi il grande problema in America è il non riconoscimento della
propria identità.
Il futuro dirà chiaramente che, se l’America vorrà diventare un
continente con un volto, una storia e un progetto originali, dovrà necessariamente
riscoprirsi plurietnico e multiculturale: latina, india, nera. Una sfida enorme, ma
anche la ricchezza d’America.

 

 

Il quinto sole

 

Ci sono tre grandi tappe nella storia dei popoli indigeni. La prima è
il tempo che precede la conquista, e non è conosciuta. Tutti pensiamo che la storia
d’America sia incominciata quando è arrivato Colombo, ma quei popoli "scoperti"
avevano già migliaia di anni di civiltà, di cui è rimasto solo qualche rudere, alcune
iscrizioni e pochi reperti nei musei.

La seconda tappa della storia comincia con "la conquista".
Per noi il 1492 è una data gloriosa, perché spalanca all’Europa un mondo
sconosciuto; per gli indios è l’inizio della colonizzazione, del genocidio e della
"scomparsa", non solo fisica, ma soprattutto culturale, di identità.

Verso gli anni ’70 incomincia una terza tappa per i popoli
indigeni: è quella della "riconquista". Vissuti finora ai margini,
vogliono riappropriarsi della loro storia e identità; vogliono essere di nuovo
protagonisti e signori della loro terra espropriata. Per questo il terzo millennio, per
l’America, sarà il millennio degli indigeni e dei neri. Oggi il grande problema
americano è il non riconoscimento della propria identità, bensì l’essere un
continente senza identità.

La storia unisce i popoli indigeni, anche se la cultura a volte li
differenzia; e li unisce il progetto del futuro che sentono come proprio: gli indios
vivono dell’utopia, credono e sono convinti che sorgerà il "quinto sole", il
nuovo impero degli indios in America.

Se la società latinoamericana non accetta la sfida di assumere la
cultura e il progetto indigeno come radici della sua storia, difficilmente il continente
incontrerà la pace, perché non s’incontrerà con se stesso.

 

 

Alle radici

 

Noi missionari della Consolata in America Latina abbiamo compiuto un
lungo cammino per giungere alle… radici. Quando siamo partiti per il continente,
l’abbiamo fatto con un progetto particolare: incontrare l’America degli
emigranti e, quindi, la ricerca-scoperta di paesi o quartieri totalmente veneti, trentini,
siciliani, calabresi… tutta gente che era partita dall’Italia per cercare da
mangiare e sfuggire alla miseria.

La prima tappa dei nostri missionari è stata quella di stabilirsi dove
c’erano gli europei; arrivando, si sono sentiti più o meno a casa loro; non hanno
avvertito il cambiamento provato dai missionari in Africa, dove il "salto" era
più evidente.

Poi c’è stata la seconda tappa, a volte più lunga e a volte più
breve. Il fatto di essere missionari li ha resi inquieti e si sono, allora,
aperti alle zone più povere e abbandonate: il Chaco in Argentina, Roraima in Brasile, il
Caquetá in Colombia… Ma l’indio era sempre invisibile. Se si prendono in mano i
documenti ufficiali (come le Conferenze regionali) fino agli anni ’70, non si parla
mai di indios. È come se uno prima vede i rami, poi il tronco e, solo alla
fine, le radici.

Soltanto in una terza tappa i missionari e le missionarie della
Consolata sono arrivati agli indios. All’inizio è stato come giungere dal centro alla
periferia; poi si sono resi conto che giungere all’indio non è arrivare alla periferia
d’America, ma alle sue radici. A São Paulo, in Brasile, si contano 600-700 mila
giapponesi, una delle culture asiatiche più ricche; si trovano più cattolici giapponesi
in Brasile che nello stesso Giappone… In Colombia si incontrano pure turchi o colonie
libanesi. Le colonie sono come rami, che non hanno in sé la vita; questa viene dalle
radici. C’è anche il tronco, che è il mondo dei meticci, della colonizzazione: un
mondo inquieto, incerto, disposto a tutte le avventure. E, infine, le radici, che sono i
popoli indigeni.

Per gli indios, noi missionari non siamo importanti, né necessari: con
o senza la chiesa, essi faranno il loro cammino. Siamo noi che abbiamo bisogno di loro.
Non incontreremo mai le radici, né costruiremo una chiesa che sia davvero cattolica,
cioè con una pluralità di valori, senza gli aborigeni. Dobbiamo andare incontro agli
indios, perché sono "diversi"… La loro è una cultura che privilegia lo
spirito sulla materia. Per l’indio tutto è vita.

L’uomo può diventare animale o pietra… Noi occidentali non siamo il
centro di tutto, perché, avendolo fatto per ragioni di profitto, stiamo rovinando tutto.
È la tragedia dell’homo homini lupus, che si ripete.

 

Poi c’è la comunità. L’indio non esiste come
"individuo"; non dice "io", ma "noi"; si sente parte di un
corpo. Se volete annullare un indio, portatelo fuori dalla comunità: non esiste più, è
un uomo morto…

Come missionari, la nostra funzione è: stare con gli indios, sorretti
dal vangelo, per rafforzae l’identità. Nel momento presente essi devono
fronteggiare ad una sfida grande: unire, in una sintesi nuova, la loro storia e tradizione
con… altre realtà, in un processo di interculturalità. È questo il nostro compito di
missionari, membri di una famiglia ormai intercontinentale: non richiudere gli indios come
oggetti da museo, ma rafforzarli, aprendoli al dialogo interculturale; perché la loro
ricchezza non solo sia conosciuta, ma diventi valore per altri. Ricordo due figure
significative: la prima è quella di padre Giovanni Calleri, il primo missionario della
Consolata ucciso (nel 1968), per avere amato gli indios del Brasile; la seconda riguarda
un altro sacerdote, padre Alvaro Ulcué, colombiano, anch’egli ucciso (nel 1984),
perché si era schierato dalla parte degli indios. Questo dice qualcosa: che la scelta
degli indios in America Latina è anche scelta di martirio. Ciò vale pure per il nostro
istituto. È bello sapere che un missionario della Consolata colombiano, padre Ariel
Granada, sia morto martire in Mozambico e un italiano abbia avuto la stessa sorte in
Brasile… Questo "filo rosso", che caratterizza la storia delle missioni, lega
anche la storia dei popoli indigeni.

 

 

(*) Padre Antonio Bonanomi, missionario fra gli indios "nasa"
della Colombia. Dopo una significativa presenza in Italia come professore e formatore, ha
raggiunto l’America Latina.

 

Articolo 6

 

dossier Kenya nord

 

 

Kenya del Nord

 

 

Samburu a rischio

 

 

"Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca

di realizzarsi fuori della comunità… La popolazione

è "in guerra" per divenire più potente e ricca".

 

 

di James Lengarin (*)

 

Io sono un samburu. Appartengo ad un popolo nomade di pastori nel Kenya
del nord. I samburu sono un ramo dei masai (eravamo "cugini"): il 95% della
lingua, degli usi e costumi sono uguali, anche se non mancano le diversità. I samburu
sono circa 150 mila e vivono su una superficie di 20 mila chilometri quadrati. Un
territorio vasto, ma povero, perché senz’acqua. Quando ritorno a casa per trovare i
parenti, non li trovo mai sullo stesso luogo, perché, essendo pastori nomadi, devono
spostarsi alla ricerca di acqua e pascoli erbosi.

 

 

Mucche al centro

 

La società samburu è formata da otto clan (o insieme di famiglie), a
loro volta divisi in due: "vacche nere" e "vacche bianche". Il nome
non deve stupire, perché la nostra vita ruota attorno alle mucche. Con la loro pelle, ad
esempio, si confezionano vestiti, stuoie, tabacchiere, sandali: tutto proviene dalla
mucca. Essa è il centro di tutto, non la… new economy!

La nostra è anche una società gerontocratica, perché tutte le
decisioni vengono prese dal "Consiglio degli anziani": solo gli anziani, non
altre persone; nonne e mamme possono dire la loro, dare un parere, ma la decisione finale
spetta al Consiglio! È composto da tutti i capifamiglia, che devono dialogare e restare
uniti per il bene del popolo. La vita dell’individuo passa attraverso vari momenti di
crescita (classi di età) e diversa è la responsabilità sociale: il bambino deve restare
bambino e il guerriero… guerriero. I lavori sono organizzati secondo i ruoli: i ragazzi
pascolano i vitellini o le caprette; i guerrieri il bestiame più grosso e difendono la
società dai nemici; gli anziani guidano la vita attraverso il Consiglio, decidono su riti
ed iniziazione, controllano i matrimoni; le donne costruiscono le dimore, mungono il
bestiame, procurano acqua, legna e cibo per tutti; esse sono al centro della famiglia e
rispettate nel loro ruolo.

In ciò concee la vita religiosa tradizionale, i samburu credono in
un unico Dio, Ngai, che rimanda non solo ad un essere supremo, ma significa pure
"pioggia" e "cielo".
Nell’acqua c’è la vita. Il nostro
è un Signore che dona la vita attraverso la pioggia. E può manifestarsi in vari luoghi:
in una casa, sotto la pianta, sulla montagna, dove si prega, si offrono sacrifici, si
invocano le benedizioni (che sono quasi infinite). Si prega mattino e sera.

I samburu tradizionali sono molto lontani dalla fede in Gesù Cristo.
Il messaggio cristiano è di difficile accettazione. Un uomo-Dio: come è
possibile? I missionari devono faticare non poco per comunicare questa "buona
notizia", sconvolgente per i samburu.

La vita sociale è legata ai periodi di siccità e pioggia; quando
questa manca, la gente sta male, gli animali muoiono e la vita si ferma. Per questo Dio è
pioggia, cioè cibo, carne, sangue, latte: ciò che garantiscono gli animali.

Negli ultimi tempi i samburu sono cresciuti di numero, ma la qualità
dei pascoli è scaduta. Le frequenti siccità e carestie hanno costretto la gente ad una
maggiore dipendenza da cibi estei, come riso, polenta… Tutte cose che prima non
mangiavano; ora, invece, ne fanno uso per sopravvivere. Al presente dipendono anche dal
governo nazionale e dagli aiuti stranieri.

I samburu sono stati a lungo "fuori dal mondo". Quando in
Kenya c’erano i coloni inglesi, alla gente non era permesso di lasciare il territorio. È
rimasta, dunque, isolata per parecchio tempo, divenendo un problema per i colonizzatori,
che faticavano a concepire e dominare una società… senza capo, in quanto tutto è
determinato dal Consiglio degli anziani.

I missionari della Consolata ebbero i primi contatti con i samburu nel
1946, allorché padre Carlo Andrione giunse a Maralal per visitare alcuni amici kikuyu.
Così è iniziato l’avvicinamento, con qualche scuola.

La prima missione sorse a Baragoi nel 1951; vi era anche un centro per
ragazzi, una scuola, un dispensario; il tutto con la presenza delle suore. Fu un passo
molto importante per la nostra storia. I missionari osservavano, imparavano dalla gente,
dialogavano con gli anziani. La scuola è stata l’iniziativa più "utile",
come quella di Wamba e l’omonimo ospedale: un’oasi nel deserto, con medici che
arrivano dall’Italia.

Accennando ai missionari, è doveroso ricordare i confratelli martiri:
padre Michele Stallone ucciso nel 1965 e padre Luigi Graiff nel 1981. Nel 1998 cadde anche
padre Luigi Andeni. Missionari uccisi in un clima di "guerra", mentre essi
aiutavano in "pace" la gente e portavano cibo ai bisognosi.

 

 

L’antenna sulle capanne

 

Contese ce ne sono sempre state nel nord del Kenya, soprattutto fra le
tribù. Noi samburu, ad esempio, non mangiamo con i turkana, perché ce lo vieta la
tradizione che abbiamo ereditato dai nostri padri. Ricordo anche i bellicosi ngorokos e le
azioni di banditismo dei somali.

Ma ben altri sono gli scontri con operazioni tipicamente militari; sono
soldati che combattono altri soldati. E lo stato centrale ha le sue responsabilità.

Un proverbio recita: "Se chiudete la bocca al popolo, ne armate la
mano". Ecco allora che la lotta nel nord del Kenya è diventata una "guerra
civile". Lo stato, invece di garantire alla gente sicurezza e speranza di
vita, mette a disposizione fucili. Una nota preoccupante nei conflitti samburu è
la "giovinezza": la violenza è diventata un modo di vivere per i giovani; sono
ragazzi disoccupati che non hanno nulla da perdere e, di conseguenza, non posseggono né
etica né disciplina. Ma non si tratta di lotte tribali per impossessarsi di mucche o di
sorgenti d’acqua, bensì di banditi organizzati per un fine politico. Tra i rovi del
deserto si aggirano uomini con fucili a tracolla. In tale situazione la cultura samburu è
davvero a rischio. Finora i samburu, pur cambiando, hanno sostanzialmente conservato
l’identità culturale (tanto da essere subito riconosciuti) e il senso di libertà.
Invece altri gruppi hanno subìto in modo violento le spinte del cambiamento: coinvolti
nel processo di urbanizzazione, hanno perso le loro radici.

Quindi i samburu potrebbero rappresentare un esempio di mutamento
positivo (persino nella religione), conservando tuttavia i tratti culturali fondamentali.
Alcuni sono diventati cristiani, lavorano in città, dirigono piccole aziende, ma restano
samburu. Inoltre si sostengono a vicenda. Ognuno ha diritto alla propria libertà di
pensiero, purché non vada contro il bene comune. Al centro c’è la persona: tutto ruota
attorno ad essa e alla vita. Questo almeno fino a ieri.

Oggi però anche i samburu sono a rischio, perché c’è il miraggio
del benessere.
Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca di realizzarsi
fuori della comunità. Il problema grave è che, al presente, la popolazione è "in
guerra" per divenire più potente e ricca. Quando un giovane samburu lascia il
villaggio per motivi di studio o lavoro, al ritorno a casa non si trova più a suo agio,
non è più uno di "loro": non va ad attingere acqua con i compagni, non segue
il gregge al pascolo. Forse il nuovo comportamento è determinato dal fatto che il ragazzo
non ha ricevuto l’educazione tradizionale. Infatti alcuni giovani non ascoltano più gli
anziani (che sono emarginati); invece sono impegnati nell’ascolto della radio e,
possibilmente, della televisione.

Su alcune capanne svetta persino l’antenna parabolica. Solo
musica. La cultura tradizionale tace. Ha voce solo l’immediato, l’economico.

Questo è il rischio che stiamo vivendo: essere individui che cercano
solo di avere di più e a prezzi facili. E dove finiremo con i nostri traumi?

 

 

(*) Padre James Lengarin, primo missionario della Consolata
"samburu" (Kenya). Ha studiato a Londra e Roma. Oggi svolge animazione
missionaria a Galatina (LE).

 

Articolo 7

 

San Vicente/Puerto Leguízamo (Colombia)

 

Nell’inferno della coca

 

 

"Io vorrei maledire la coca. Invece i veri maledetti

siamo noi. Ci siamo lasciati ingannare

dal miraggio di quelle foglie…".

 

 

di Javier Francisco Múnera (*)

 

Mi sento sinceramente un po’ a disagio con il titolo
"nell’inferno della coca", perché io ci vivo. Ma per me non è un inferno,
anche se potrebbe apparire tale. Quindi mi permetto di cambiare il titolo con
"Colombia: tensione armata e coca; la sfida della pace e dell’armonia con il
creato".

In Colombia, in un conflitto sociale che dura da oltre 50 anni e che
non si riesce ancora a risolvere, la pace è la nostra sfida più grossa. Impegna le
migliori risorse anche nel vicariato apostolico di San Vicente/Puerto Leguízamo.

 

 

Intreccio di armi e droga

 

Il vicariato ricopre un’area di circa 100 mila chilometri quadrati, con
quattro comuni principali: Cartagena del Chairá, Solano, San Vicente e Puerto Leguízamo.
Un territorio che rivela l’assenza dello stato per tutto ciò che riguarda i servizi
e le infrastrutture, nonché per i costanti scontri. L’attuale popolazione proviene
da altre regioni della Colombia, colpite dalla violenza politica degli anni ’50-60:
ha cercato qui lavoro e rifugio. La nostra regione si caratterizza per la coltivazione
della coca, oltre che per la presenza della guerriglia. I contadini hanno incominciato
lentamente a piantare coca e a vendee le foglie raccolte; hanno imparato a trattarle,
per ricavare la "pasta basica"; questa viene poi raffinata in polvere bianca e
venduta ai commercianti che alimentano i mercati di cocaina in Europa e America del Nord.

Oggi in Colombia (nella nostra zona in particolare) il conflitto
armato e il traffico di stupefacenti si intrecciano,
condizionando la vita della
popolazione e, quindi, anche la nostra presenza pastorale. È un’incredibile sfida
missionaria. Siamo convinti che solo la via del negoziato può aiutarci ad uscire dal caos
in cui annaspa la nazione; non possiamo accettare alcuna soluzione militare, che rechi
altro sangue e sacrifichi nuove vite umane. Riteniamo utile, come male minore, una
"zona di distensione", per realizzare una intesa con i guerriglieri delle Forze
armate rivoluzionarie colombiane (Farc).

Tuttavia la guerriglia è divenuta ormai un "quasi stato",
che domina e controlla il territorio e le persone, non solo nella nostra zona, ma anche
altrove: vi sono tasse, leggi, punizioni, reclutamento di ragazzi e ragazze, lavori
forzati, abusi contro i diritti umani. La gente lo sa: o resta a tali condizioni o se ne
va; non c’è via di mezzo, anche perché il controllo è forte e si esercita maggiormente
nelle aree rurali.

Un esempio: quest’anno a Remolino non si è celebrato il natale,
nonostante che i padri Giacinto Franzoi e Beppe Cravero avessero preparato la comunità.
La comandante guerrigliera Jessica, infatti, aveva ordinato alla gente di rimanere in
piazza per il "carnevale", durato tre giorni. I missionari avevano chiesto due
ore per poter almeno celebrare la messa di natale; ma la richiesta non fu accolta…
L’aspetto peggiore dell’episodio è che la gente non ha avuto la capacità di
reagire,
di resistere al sopruso della guerriglia.

Come missionari, dobbiamo educare tutti alla pace e alla
riconciliazione. La popolazione ha fiducia nella chiesa, anche se conflitti armati e
traffici di coca hanno soffocato i valori di convivenza sociale tipici di un tempo. Si
vive in una situazione assai confusa di "legalità illegittima", e i riferimenti
ai valori umani e cristiani non sono all’ordine del giorno. Però io credo che ci sia
ancora spazio per continuare a seminare, con più capacità "profetica", tutti
insieme e come équipes ecclesiali.

Il problema rende necessaria la formazione per il coinvolgimento
sia nel processo di pace sia nella costruzione di nuove forme di convivenza sociale, per
divenire più responsabili. Pertanto abbiamo iniziato, con altre diocesi, le "scuole
di pace",
affrontando temi importanti e fondamentali: identità e appartenenza
(necessarie dove il tessuto sociale è molto fragile); conflitti sociali e il loro
ragionevole superamento; partecipazione politica. Il tutto illuminato dalla bibbia e dal
magistero sociale della chiesa.

 

 

A mani vuote

 

L’altro grande conflitto che colpisce la nostra regione è quello della
coca. È un fatto grave, che si inserisce nella storia e nell’economia di uno sfruttamento
selvaggio che ha ferito e ferisce l’Amazzonia, creando un profondo squilibrio tra
persone e "habitat".

Dalla coltivazione della coca, dal suo mercato e traffico
internazionale traggono grandi guadagni anche diversi gruppi armati. In particolare, nella
nostra regione, sono le Farc che controllano il commercio della polvere di coca; e non si
può negare che, nelle aree di loro dominio, è aumentato il numero degli ettari
coltivati. Sono loro che decidono i prezzi e a chi vendere la "neve bianca". Ma
c’è anche un versante positivo: le Farc hanno obbligato a seminare mais, riso,
platano, iucca, perché la gente pensava solo alla coca.

Tuttavia resta l’"economia illecita" della coca. Su di
essa si sono scaricate le politiche errate dello stato centrale, ricattato dagli Stati
Uniti, con metodi repressivi. Ma le fumigazioni dei campi di coca e i prodotti chimici non
sono serviti a nulla; anzi, hanno compromesso l’ambiente, favorendo la deforestazione
dell’Amazzonia. Da registrare anche danni irrimediabili alle acque.

C’è il probema della cocasa: pare che questo sottoprodotto
(un residuo della lavorazione delle foglie di coca) contenga un elevato tasso di piombo,
con il rischio che sia assimilato da altre colture, i cui frutti sono di largo consumo
(pomodori e verdure varie). L’impatto su donne e bambini, destinati alla raccolta e
soprattutto alla lavorazione degli avanzi di coca, è nefasto, perché sono a contatto
(senza alcuna protezione) con prodotti chimici nocivi alla salute.

Spesso la popolazione è coinvolta in tale lavoro più per necessità
che per volontà: praticamente viene costretta, altrimenti non potrebbe sopravvivere. Mancano
le condizioni per una economia sostenibile con altri prodotti:
la scarsità di vie di
comunicazioni e di centri di raccolta fanno sì che si perdano tanti prodotti, mentre i
contadini non trovano un appoggio statale valido per rendersi autonomi con altre risorse.
E i soldi che entrano nelle tasche dei coltivatori di coca non giovano a nulla, perché
non recano né benessere né sviluppo; invece aumentano gli alcornolizzati e i prodotti di
lusso, totalmente non necessari. La qualità di vita non è migliorata; al contrario,
tutti gli articoli di prima necessità costano cari. L’economia della coca si è riversata
come una maledizione sui nostri contadini.

Ecco la testimonianza di un’anziana: "Di fronte al dolor

Giacomo Mazzotti




Lettere: cari missionari

"Del Monte"… accetta

Gentile direttore,

in seguito alla mia lettera "La Del Monte in Kenya",
pubblicata sul numero di marzo, allego ora la fotocopia di Consumatori, maggio 2001: si
dichiara che proprio a marzo c’è stato l’accordo tra "Coop" e
"Del Monte" circa le condizioni di lavoro nella piantagione a Thika, in Kenya.

Mi auguro che corrisponda a verità.

Olivo Cassina
  Udine

Grazie dell’aggioamento. C’è stato un lungo
contenzioso tra Del Monte (multinazionale che a Thika produce ananas) e il sindacato che
tutela i diritti dei lavoratori. Il merito del successo è da ascriversi anche al Centro
Nuovo Modello di Sviluppo, cornordinato da Francesco Gesualdi, che ha promosso una campagna
di boicottaggio dei prodotti Del Monte.

 

Aids e profilattici

Illustrissimi,

leggo quasi incredulo, a pagina 30 di Missioni Consolata, giugno 2001,
che il profilattico sarebbe "unica ed efficace barriera" all’infezione
dell’Aids. Scoperto, poi, che l’autore dell’articolo è un medico, capisco
che si tratta del solito caso di "disinformazione medico-scientifica".

Per farla breve, diversi studi universitari, già a metà degli anni
’80, hanno evidenziato che il profilattico permette un abbattimento del rischio di
contagio di circa l’80% (su un periodo di due anni). Il che rende il profilattico uno
"strumento" tutt’altro che efficace, visto che rimane un bel 20% di
possibilità d’infezione.

La cosa è ben documentata, per esempio, su Medicina e Morale, 1995/5;
ma è quasi "contro-informazione", ai giorni nostri. Significa, in pratica, che
(escludendo gli "incidenti" di trasfusione, peraltro non eliminabili a colpi di
preservativo) la vera unica ed efficace barriera contro la "peste" di questi
decenni starebbe proprio nella classica "ricetta della nonna" (castità prima
del matrimonio e fedeltà nel matrimonio).

La preoccupazione più diffusa, però (anche in ambienti cattolici), è
quella di salvaguardare a tutti i costi la "rivoluzione sessuale" degli anni
’60; e quando ad essa si aggiunge il condizionamento delle case farmaceutiche (per le
quali un ritorno alla suddetta "ricetta" rappresenterebbe un danno economico
incalcolabile nel settore della contraccezione) il gioco è fatto. Così anche i medici
"cattolici" finiscono per ripetere come pappagalli la "bugia" del
secolo.

Carlo Incarbone
  Collegno (TO)

La "contro-informazione" che il lettore porta alla
ribalta merita seria considerazione. Quanto al dottor Guido Sattin (chiamato in causa per
disinformazione medico-scientifica), la sua preoccupazione non è "la rivoluzione
sessuale degli anni ’60", ma la passione per la vita. Sattin scrive pensando
soprattutto al degradato Perú, dove ha lavorato per cinque anni, ritornandovi ogni anno.

 

Ottimo il "dossier" sull’Aids

Spettabile redazione,

sono un medico, da parecchi anni abbonata a Missioni Consolata, che
leggo sempre con molto interesse. Con il dossier sull’Aids del numero di giugno 2001
avete superato voi stessi: il servizio è particolarmente ben fatto e di esemplare
correttezza scientifica. Complimenti!

M. V. Pellanda
  (via e-mail)

 

"Non riceverete più un soldo, se…"

Spettabile direzione,

da tempo pensavo di inviare un’offerta in denaro per
l’ospedale di Neisu, nella Repubblica democratica del Congo. Ma il pensiero che voi
pubblicate sulla rivista le offerte che vi giungono (con tanto di nome e cognome) mi ha
trattenuta dal farlo.

Si direbbe che non conosciate la frase del vangelo "non sappia la
mano sinistra ciò che fa la destra", e nemmeno le più elementari regole della
privacy. Infatti, senza chiedermi l’autorizzazione, avete sbandierato ai quattro
venti la lettera che vi ho inviato. Me lo ha riferito una persona che riceve la rivista.

Sono rimasta molto male, perché io sono molto discreta e pretendo
dagli altri altrettanta discrezione. Ebbene giuro che, se il fatto si ripete, non
riceverete più un soldo. Mi dispiace solo per i poveri dell’ospedale africano.

Ringrazio il padre e il medico dell’ospedale (che ha sostituito il
defunto padre Oscar Goapper) per la lettera che mi hanno inviato. Avrei piacere, se
possibile, ricevere una foto dell’ospedale e dei suoi piccoli pazienti.

Lettera firmata

 

Conosciamo la celebre massima del vangelo. E tanto di cappello a chi la
pratica! Ma non sono molti. D’altro canto, è pure noto il detto (non evangelico!):
"Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio". Moltissimi ci credono. E chi può dar
loro torto, specialmente se si tratta di denaro?

Sapesse (la signora che ci ha scritto) quanto lavoro eviteremmo, se non
pubblicassimo le offerte e i nomi dei donatori! Se lo facciamo, è per ragioni di
trasparenza, oltre che di riconoscenza.

Riconoscenza che è doppia per la signora di… "non sappia la
mano sinistra ciò che fa la destra".

 

 Ma il bene prevale sul male

Caro direttore,

la ringrazio della pubblicazione in giugno dell’articolo "Con
72 condannati alla forca", riguardante i missionari della Consolata che operarono nel
carcere giudiziario "Le Nuove" di Torino, per assistere umanamente e
religiosamente i condannati a morte durante la Resistenza nella seconda guerra mondiale.

Inoltre la testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier
Nguyén Van Thuan, sottolineando la grande sofferenza di un detenuto per ragioni politiche
e religiose, conferma il prevalere del bene sul male e mette in luce come i missionari
della Consolata, ieri e oggi, convertano gente atea e favoriscano la pace tra i popoli.

Di questi semi di umanità e di salvezza in Cristo, che daranno
sicuramente i loro frutti, siamo grati al Signore, alla Madonna Consolata e al beato
Giuseppe Allamano. Nel centenario della fondazione dei missionari della Consolata
preghiamo affinché essi possano portare sempre e ovunque il messaggio di pace e
fratellanza.

Felice Tagliente
  Torino

Il dottor Felice Tagliente, autore dell’articolo citato, opera
come psicologo presso il carcere "Le Vallette/Le Nuove" di Torino.

 

 Quando ne capitano di cotte e di crude

Carissimi amici,

in questi mesi in Kenya se ne vedono di tutti i colori, di cotte e di
crude. Tempo fa è stata bruciata una scuola con i ragazzi in dormitorio: 68 studenti
morti, 21 feriti e 9 "dispersi" (sospettati di essere gli autori
dell’incendio, perché bocciati). Davvero un fatto incredibile!

Quanto a me, sono stato coinvolto in una sparatoria nella zona
industriale di Nairobi. Mi è venuta la saliva amara, ma grazie a Dio ne sono uscito
indenne.

Intanto continuo il mio solito lavoro di riparazioni e manutenzione
della scuola, anche se sono un po’ stanco e scoraggiato. Forse le prossime vacanze in
Italia mi rimetteranno in sesto. Nel frattempo dico alla Madonna Consolata: "Io sono
un povero missionario. I problemi esistenti sono troppo grandi per me. Allora pensaci tu.
Se io faccio fiasco, pazienza. Ma tu non puoi fallire…".

fr. Gaetano Borgo
  Kenya

Recentemente il Signore ci ha concesso di fare
un’esperienza missionaria straordinaria. Il 21 giugno scorso, alle ore 18.40, fratel
Pietro Bertoni ed io siamo stati aggrediti in casa da tre individui con scuri e armi da
fuoco automatiche: ci hanno percossi e minacciati di morte. Erano drogati ed eccitati
dall’alcornol.

Sanguinanti ma coscienti, siamo stati costretti ad aprire la
cassaforte. I malviventi l’hanno svuotata: conteneva, soprattutto, i risparmi della
povera gente che aveva perso tutto con il ciclone e l’inondazione e pensava che in
missione i soldi fossero al sicuro. La cassaforte custodiva pure 4.700 dollari di alcuni
minatori, che ci avevano chiesto di aiutarli a costruire la casa in muratura. In pochi
minuti tutti i loro sogni sono svaniti.

Io sono stato rinchiuso in una stanza, mentre a fratel Pietro hanno
chiesto le chiavi della Toyota. Quando ho sentito partire la macchina, ho trovato il modo
di uscire dalla stanza e ho cercato subito Pietro. Era notte, con un silenzio
impressionante: si udiva solo la mia voce che chiamava il missionario. Mi domandavo:
"Sarà ferito o, addirittura, morto?". Giravo disperatamente per la missione
quando; vedendo il garage vuoto, ho pensato che i banditi lo avessero portato via con
loro. Allora sono corso al distretto di polizia, a 7 chilometri di distanza. Ma il
personale o era ubriaco o dormiva. Ritornato alla missione, ho trovato fratel Pietro sano
e salvo, anche lui in pena per me. Insieme abbiamo ringraziato il Signore.

Durante la passata guerra civile, siamo stati varie volte spogliati di
tutto, ma mai percossi… Ora le ferite si sono cicatrizzate e il brutto ricordo va
scomparendo a poco a poco. Tuttavia il fatto è motivo di preoccupazione anche per la
gente locale, che è stata meravigliosamente solidale con noi, anche perché
l’accaduto ha fatto il giro del Mozambico. Noi abbiamo pure scritto "una lettera
aperta" agli aggressori sconosciuti, perdonandoli e consigliandoli a cambiare vita.

Sicuri di essere nelle mani di Dio, continuiamo a lavorare per essere
segno di speranza in questa società minata da tanta corruzione. Abbiamo quattro gruppi di
giovani che imparano il mestiere di muratori. Altri, falegnami, fanno porte e finestre:
hanno appena terminato 300 banchi scolastici doppi; e le richieste sono così tante da non
poter attendere a tutti.

Cari amici, ci facciamo portavoce di tutta la popolazione che ringrazia
il Signore, il quale infonde in voi tanta generosità. Non preoccupatevi per noi. Siamo in
buone mani. Un fraterno abbraccio.

p. Amadio Marchiol
  Mozambico

Nonostante ne succedano "di cotte e di crude", in Kenya
come in Mozambico, i missionari restano. E non per fare gli eroi.

 

 "La tua benignità"

Cari missionari,

mi dichiaro fortunata di essere entrata a far parte delle persone che
si affidano alla protezione della Madonna Consolata. Avevo a Torino una sorella suora del
Cottolengo, suor Valentina, da otto anni defunta a causa di una terribile sclerosi
multipla.

Grazie a lei, abbiamo avuto il quadro della Consolata, alla quale mia
madre si rivolgeva anche di notte, inginocchiata ai piedi dell’immagine, nei momenti
di bisogno. Ne aveva ben donde: rimasta vedova con otto figli, non ha mai perso la
speranza e ha insegnato pure a noi la devozione alla Madonna.

Nelle mie povere preghiere raccomando tutti alla Consolata. In questi
giorni prego anche per un bravo ragazzo, iscritto alla facoltà di medicina, ma vittima di
tanta sfortuna. Una sera, al cancello d’ingresso del condominio dove abita, si è
ferito abbastanza gravemente la lingua; portato al pronto soccorso, gliel’hanno
suturata con alcuni punti. Otto giorni dopo, si è rotto il setto nasale; operato
d’urgenza, l’intervento non è andato troppo bene. Spero che la Madonna lo
faccia guarire senza un altro intervento.

Io prego affinché la Vergine non ci conceda ricchezze o onori, ma solo
consolazione.

Giovanna Bilotta
  Chiusi (SI)

La grande fiducia nella Madre di Dio della signora Giovanna ci
ricorda i versi immortali di Dante Alighieri:

"La tua benignità
  non pur soccorre /a chi dimanda,ma molte fiate /liberamente al dimandar
precorre"

(Paradiso, XXXIII, 16).

 

Ma quando funzioneranno le poste?

Cari missionari,

sono una donna anziana, da anni sono abbonata alla bellissima rivista
Missioni Consolata. Ma, con mio disappunto, devo comunicarvi una cosa spiacevole: da
diversi mesi non la ricevo più, pur avendo pagato l’abbonamento. Con ogni
probabilità è colpa delle poste che, purtroppo, sono in degrado. E dire che siamo nel
decantato nordest! Tutti si lamentano, ma senza risultati. Sacchi di posta vengono buttati
qua e là, e nessuno fa niente. Se continua così, sarò costretta a rinunciare
all’abbonamento.

Gina Bergamo
  Montebelluna (TV)

Sul mancato recapito di Missioni Consolata le lamentele piovono
ormai a grappoli, con situazioni croniche: per esempio da anni, ad Olbia, numerosi
abbonati ricevono la rivista solo due-tre volte nell’arco di 365 giorni.

In varie regioni si pratica "la mobilità dei postini": ciò
comporta che chi recapita la corrispondenza in un posto lo fa per due-tre mesi; poi cambia
sede. "Di fronte a qualche difficoltà (dovuta alla non conoscenza del luogo), i
postini pivelli possono buttare la rivista nei cassonetti dell’immondizia". La
gente non ne può più. E noi con essa.

 

Uomini e Donne, Fatti e Misfatti

Così la pensano sul "G 8" di Genova

 

Ho letto sul Corriere della sera l’attacco di Renato Ruggiero a
suor Patrizia Pasini. Il nostro ministro degli esteri ironizza sulla missionaria che, in
preparazione dell’incontro del "G 8" di Genova, propone anche momenti di
preghiera e digiuno.

Ma chi crede di essere Ruggiero? Fino a poco tempo fa era al vertice
dell’Organizzazione mondiale del commercio, che non lesina diktat ai paesi poveri;
entrato nel governo Berlusconi (tutto sorrisi o "denti"), il ministro si
dichiara disposto al dialogo pure con "il popolo di Seattle", che contesta la
globalizzazione. Sulla globalizzazione interviene anche il papa, durante l’Angelus
dell’8 luglio, mettendone in evidenza i gravi pericoli. E il ministro si affretta a
dire su Avvenire che il pontefice scuote le coscienze. Ma il papa non crede anche nel
digiuno e nella preghiera?

Sia un po’ più coerente, signor ministro. Con tutti.

Maria Filippini – Milano

Questa lettera (come la seguente) è stata scritta prima dei tragici
eventi di Genova (20-21 luglio).

 

Caro direttore, il 7 luglio l’ho vista a Genova, in vista del
"G 8". Ho gradito il suo intervento (specialmente quando ha denunciato
l’intimidazione dei "grandi" verso i "piccoli"). Mi sono anche
piaciute le riflessioni della ragazza dell’Ecuador e del giovane della Guinea Bissau.

Ma, proprio mentre parlavano i due testimoni del terzo mondo (gli
unici!), fotografi, cameramen e giornalisti si sono buttati su Vittorio Agnoletto, appena
giunto in sala. Non mi è piaciuto il suo comportamento: seduto in prima fila, ha
accettato persino di essere intervistato addirittura mentre l’africano e la
latinoamericana parlavano. Il fatto ha disturbato me ed altri, non solo per ragioni
materiali… Deploro lo stile dei mass media: cercano solo il personaggio; degli
"altri" non gliene frega un tubo, a meno che non facciano scornop.

Cari missionari, per favore non abbassatevi mai a questi giochi
sporchi.

Grazia Piccolo – Padova

I due testimoni del terzo mondo sono Monica Espinosa e Filomeno Lopez.
Ne parliamo a pagina 63 e 65.

 

 A Missioni Consolata non manca il coraggio di far saltare i
lettori sulla sedia. Per questo, caro direttore, ti mando una mia lettura dei fatti di
Genova… in chiave evangelica. La riflessione potrebbe intitolarsi: "La nuova
settimana santa di Genova 2001".

– Domenica delle palme, 15 luglio: dopo una lunga preparazione il
popolo della pace entra trionfale a Genova; sorgono punti di accoglienza, spazi di
discussione e centro stampa.

– Lunedì santo, 16: inizia il Public Forum, ricco di contenuti. Il
dibattito continua anche nei giorni seguenti.

– Giovedì santo, 19: la manifestazione dei migrantes lancia un
messaggio universale: "Ogni uomo è mio fratello!".

– Venerdì santo, 20: la morte in agguato vuole la sua vittima. Il velo
della zona rossa si squarcia e la violenza mostra i suoi volti.

– Sabato santo, 21: un grande corteo discende agli inferi passando tra
gironi di diavoli, fiamme e fumi.

– Pasqua di risurrezione, 22… I giornalisti, che al mattino corrono
al Media Centre, vedono computer sfasciati e macchie di sangue sui pavimenti e
termosifoni. Un angelo dice loro: "Cosa cercate? La verità non abita più qui; ora
cammina a piedi nudi per le vie del mondo. La troverete là".

Andrea Saroldi – Torino

Andrea Saroldi è pure autore del libro "Gruppi di acquisto
Solidali"
(Guida al consumo locale).

 

Abbiamo vissuto i violenti accadimenti di Genova con un sentimento
irrequieto: irrequieto sia per la guerriglia scatenata da bande di teppaglia, presenti su
entrambi i fronti dei circa 250 mila manifestanti pacifici (divisi in due tronconi per il
lancio di lacrimogeni) sia per lo scandaloso messaggio uscito dai "G 8".

Il messaggio è una rivendicazione della disuguaglianza portatrice di
ricchezza per pochissimi e del diritto di comandare il mondo con regole generatrici di
disperazione. Questo scandalo merita una risposta precisa.

Pertanto abbiamo scritto un testo, in cui vengono analizzati i
miserrimi contenuti dell’incontro dei leaders. Riteniamo che sia bene smontare, pezzo
per pezzo, i dogmi che gran parte della gente ripete a pappagallo, incapace di pensare.

Ci siamo avvicinati alla rivista Missioni Consolata frequentando la
"Scuola per l’alternativa", che abbiamo seguito con entusiasmo e per la
quale, da settembre, daremo anche il nostro contributo.

Maurizio Pagliassotti
  e Silvia Battaglia – Torino

La "risposta precisa" di Maurizio e Silvia è in
Genova (2)

AAVV




Lettere: cari missionari

Era…

extra-comunitario!

Cari missionari,

ho 16 anni. Scrivo a voi perché non so a chi altro manifestare il mio sconforto e la
mia rabbia. Missioni Consolata è un mensile che si occupa di popoli stranieri, delle loro
situazioni complicate e spesso drammatiche.

Vi parlo del mio disagio nei confronti degli extra-comunitari in Italia, sperando che
pubblichiate il mio e-mail.

Stasera mi è capitata una vicenda, forse banale, ma che mi ha veramente sconvolta. Ero
uscita con gli amici e, al ritorno, i genitori sono venuti a prendermi. Camminavamo per
raggiungere la macchina: dovevamo attraversare una strada abbastanza trafficata e nessuno
ci lasciava passare. Mio padre ha fatto cenno a un’auto di fermarsi, ma questa ha
tirato dritto; allora si è "buttato" in strada. La macchina ha frenato
bruscamente: l’autista (un extra-comunitario) è sceso, ha cominciato ad insultarci e
stava per fare a botte. Io tremavo di paura. Ma avrei voluto dire: "Lo sa anche la
mia sorellina che ci si deve fermare e lasciar passare i pedoni!".

Come possiamo fidarci degli extra-comunitari? La scena ricordata è solo una delle
tante dimostrazioni della loro stupidità. Con ciò non voglio dire che noi italiani siamo
perfetti, anzi! Ma loro sono un pericolo in più.

Anna Turatello

Selvazzano (PD)

Tutti possiamo essere un pericolo in più, ma anche una ricchezza! Intanto non
lasciamoci plagiare da "luoghi comuni discriminatori"… Anna, data la tua
giovane età, forse ti può aiutare la seguente riflessione di Adriana, che titoliamo…

 

Ritrovare

i sentimenti

Quando ci viene chiesto di raccontare un’esperienza, ci si limita spesso a fatti
di cronaca. Per me "esperienza" è ciò che rimane come patrimonio nel cuore,
ciò che modifica il mio modo di pensare e vivere.

L’"esperienza-risurrezione" ha cambiato la vita degli apostoli. Come
loro, sulle vie del mondo, operano i "missionari": persone che devono essere
povere e libere per stare con la gente e condividee il cammino.

"Fuori sulla strada Gesù è esposto, malconcio, malato…", ed è
l’amore che risolverà ogni dubbio: il dubbio soprattutto che "tutto è
inutile". Proprio perché mi manca l’esperienza del Risorto, "tutto è
inutile". Ma con Lui, la mia vita cambia, come quella dei fratelli poveri,
emarginati, sfortunati.

Devo dare quel poco che ho a chi ha meno di me. Il non avere ciò che è essenziale per
la vita è una sofferenza non per chi lo possiede, quanto invece per chi vuole amare… e
nulla può donare!

Quando penso che ho l’indispensabile, non posso nascondere il mio disagio; esso
diventa più grande allorché mi rendo conto che, purtroppo, poche volte ci penso a
questo. Ma il povero, l’umile, il semplice lo si trova sempre… ed è lui a far
rifiorire in me sentimenti annebbiati: accettazione, rispetto, condivisione, tenerezza.
Quando sento di possederli, ringrazio il Padre Nostro… E lo può chiamare così chi non
mi fa odiare i nemici, ma mi sprona ad amare tutti gli esseri creati e mi fa desiderare la
giustizia e carità.

Vorrei che fossero sempre questi i sentimenti a determinare le mie azioni.

sr. Adriana Prevedello

Mazara del Vallo (TP)

Adriana, missionaria francescana di santa Elisabetta in Kenya e poi in Sicilia tra
mafia, prostituzione e immigrati clandestini, è ripartita per il paese africano.

 

Lacrime

e quisquiglie

Spettabile redazione,

avevo visto a suo tempo la foto della donna sulla copertina di Missioni Consolata,
gennaio 2001, e già allora volevo scrivervi che la didascalia non era giusta.
Naturalmente avevo indovinato che la foto era stata fatta al funerale di padre Andeni.

Non conosco personalmente la donna della foto, ma penso che sia farle torto definirla
"musulmana", semplicemente perché ha il velo in testa. Ritengo che sia una
delle nostre cristiane, con molta probabilità una kikuyu, non una samburu o una turkana.
In Kenya la maggioranza delle donne nelle nostre missioni usa il velo e, a Maralal, i veli
più belli nei negozi sono di foggia musulmana, anche perché diversi negozianti sono
musulmani.

Tenendo conto che la donna sta piangendo, è naturale che cerchi di nascondere la
faccia. Però non facciamo dire alla foto quello che non dice, cioè partecipazione
musulmana al dolore cattolico…

Non sono d’accordo con la lettera che vi hanno scritto, specie con
l’offensiva parte finale.

p. Gigi Anataloni

Nairobi (Kenya)

Caro direttore,

ha suscitato in me molta indignazione la lettera "Lacrime di una musulmana",
apparsa su Missioni Consolata di maggio, non per il titolo, ma per il contenuto. Da quanto
ho potuto leggere, trovo la lettera grossolana e poco rispettosa sia del vostro lavoro sia
del personale che opera in redazione.

Il discordare da un articolo o una foto è legittimo, ma non dà diritto ad illazioni o
supposizioni sul direttore della rivista, anche perché le sue scelte sono dettate da
sensibilità professionale… che non tutti i lettori posseggono.

Gli autori della lettera hanno tentato di "classificare e bocciare" una
persona solo perché è "musulmana". Questo è razzismo o, meglio,
fondamentalismo religioso, che pian piano sta penetrando anche nei nostri ambienti
cattolici.

Invito gli autori della lettera a rispettare le persone, anche se non sono
d’accordo con il loro pensiero, perché, solo rispettando l’altro, si è degni
di rispetto.

p. Gianfranco Graziola

Roraima (Brasile)

Ecco i precedenti della piccola polemica.

In Missioni Consolata di gennaio 2001 pubblica in copertina una donna che piange, con
la didascalia "lacrime samburu (Kenya)". Nient’altro.

n La rivista di maggio ospita una lettera dal Kenya, secondo la quale la donna in
questione non è samburu, ma musulmana. Sorge spontanea la domanda: i samburu non possono
essere musulmani?

n Oggi, ancora dal Kenya, si replica: la donna non è musulmana, ma probabilmente
kikuyu.

E i kikuyu non possono essere musulmani?

Chiudiamo la querelle con dati certi: la foto fu scattata il 18 settembre 1998 a
Maralal (Kenya) durante i funerali di padre Luigi Andeni, quattro giorni dopo la sua
uccisione; l’immagine mostra una donna con il velo che piange, senza nascondersi.

Quelle lacrime ci hanno impressionato. Non il resto.

 

La forza del perdono

Cari missionari,

ho 17 anni. Sentendo il telegiornale o ascoltando le notizie di cronaca, vengo a
conoscenza di eventi che sconvolgono il mio mondo ristretto. L’interrogativo più
frequente che mi pongo è se le azioni-reazioni dell’uomo siano serene o furiose, non
pensate o dettate dalla ragione…

Si potrebbe tracciare un percorso storico circa fatti ed eventi, generati da quel senso
di vendetta che acceca, senza lasciare uno spiraglio di luce e razionalità. È il buio
dovuto alla mancanza di raziocinio a renderci simili agli animali.

A partire da Abele e Caino fino ai nostri giorni, passando attraverso gli scontri di
religione, le guerre mondiali e locali, la pace è sempre stata un tormento. A livello
personale, i casi peggiori sono quelli in cui il sopruso diventa stile di vita, il modo di
prevaricare la giustizia per difendersi dal mondo esterno e celare le proprie debolezze. E
si diventa vendicativi.

A volte, quando la parola "punizione" diviene sinonimo di istituzione
pubblica e politica, neanche le maggiori organizzazioni umanitarie sono in grado di
fermare lo scempio. L’esempio più lampante è, oggi, rappresentato dalla pena di
morte. Questa sanzione, così primitiva, è praticata in molti stati, e non solo dai più
sottosviluppati. Non esiste ragione, difesa, possibilità di riscatto per un errore
compiuto, ma solo la vendetta.

Faccio un ragionamento: se lo stato stesso pratica la pena di morte, pratica pure la
vendetta; perché che cos’è la pena di morte se non una vendetta? In tal caso, molti
omicidi sarebbero giustificabili.

Nel corso dei secoli anche la religione è divenuta causa di conflitti scoppiati tra
fazioni opposte, che, gridando il nome del proprio Dio, si uccidevano a vicenda. Ma,
certo, nessun Dio ha mai voluto né vorrà che i suoi fedeli ne uccidano altri per
dimostrare la superiorità di un credo.

I kamikaze che si fanno esplodere con carichi di tritolo, dopo aver indossato il
sudario bianco, dovrebbero farci riflettere sulle parole che un profeta ha lasciato in
eredità… ma anche non bombardare la nazione di coloro che credono di meritare il
paradiso, morendo per la propria fede.

Potrebbe rivelarsi un ottimo spunto di riflessione l’"essere o non
essere" di Amleto. Con altre parole: ha più valore una vita in cui non mi lascio
prevaricare dai soprusi altrui, o sono più forte nel momento in cui riesco a reprimere le
passioni i sentimenti violenti che mi turbano l’animo?

Federica Medda

Roma

Cara Federica, le tue considerazioni ci fanno venire in mente le parole di Giovanni, il
battezzatore e precursore della Salvezza: "Dopo di me verrà uno più grande, al
quale io non sono degno neppure di portargli i sandali (cfr. Mt 3, 11). È essenziale
credere in un "dopo" diverso dal presente, che però incomincia ora.

Inoltre, Federica, ti auguriamo di non scordare queste tue parole: "Il perdono non
è una debolezza di molti, ma una forza di pochi". Specialmente quando non avrai più
17 anni.

 

"Noi"

e le altre religioni

Egregio direttore,

sono un cristiano-cattolico e seguo fin dalla nascita la religione che nostro Signore
Gesù Cristo ha rivelato a tutto il mondo.

Ci sono però altre religioni, quali l’islam, l’induismo, lo scintornismo…
con il loro Dio e un programma di vita etico-religioso. Chiedo: quale religione vera ed
autentica dobbiamo seguire per ottenere la vita eterna? Dobbiamo accettare solo la
religione cristiano-cattolica, la legge di Mosè, la fede di Abramo, Isacco e Giacobbe che
credono in un solo Dio?

Giuseppe Monno

Bari

Anche a Gesù fu chiesto: "Che devo fare per avere la vita eterna?". E il
Maestro rispose confermando la legge di Mosè e attualizzandola con la parabola del
"buon samaritano" (cfr. Lc 10, 25-37).

Circa la salvezza nelle religioni non cristiane, il Concilio ecumenico Vaticano II è
esplicito: "Quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa e,
tuttavia, cercano sinceramente Dio e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere
le opere e la volontà di Lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono
conseguire la salvezza eterna" (Lumen gentium, 16).

Su tale argomento si rilegga il dossier "L’alta teologia e il buon
senso" (Missioni Consolata, gennaio 2001).

 

Super-impegnati, ma…

Cari missionari,

da anni riceviamo Missioni Consolata, indirizzata ai figli Giorgio ed Elena: erano
ragazzini quando l’abbiamo ricevuta per la prima volta. Ora sono adulti e
super-impegnati. Io, che ho sempre letto la rivista con grande interesse, oggi per
problemi agli occhi mi devo limitare solo ai titoli. Ne sono dispiaciuta. Oltretutto, non
sono riuscita a trovare qualcuno che voglia leggerla.

Pertanto vi chiedo di sospendere l’invio del giornale. Ma non dimenticheremo i
missionari della Consolata, anche perché abbiamo un ricordo vivissimo di padre Domenico
Zordan.

Vi ringrazio perché, leggendo la vostra rivista, in questi anni mi sono
"arricchita" molto.

Giuseppina Kral

Zugliano (VI)

Carissima signora Giuseppina, faccia ancora un tentativo! Se i figli Giorgio ed Elena
sono veramente impegnati, non possono non seguire l’esempio della mamma e… leggere
anche Missioni Consolata.

 

"Yanomami"

e "macuxí"

Carissimi padres italianos Giorgio Dal Ben, Giacomo Mena e amigos indios yanomami e
macuxí, dalle rive del Sinni di Potenza a quelle del Rio Blanco di Boa Vista (Brasile) si
ode un solo grido: "Tenete duro!".

Franco Mele

Francavilla (PZ)

In altri termini: a luta continúa. Con speranza. Ne abbiamo parlato pure nel dossier
di luglio "Anche gli angeli perdono le ali".

 

I figli missionari?

Che gioia sarebbe!

Carissimi missionari,

siamo una famiglia con due bambini di nove e due anni e uno di quattro mesi. Il Signore
ci ha donato queste creature che, pur nella fatica del quotidiano, rappresentano la nostra
gioia.

Da tempo condividiamo le nostre povere cose con chi è più sfortunato di noi, con
coloro che hanno avuto solo la "colpa" di nascere con un colore diverso dal
nostro o in paesi piagati da guerre, fame e miseria.

Abbiamo anche sostenuto un’iniziativa di "adozione a distanza" con
un’organizzazione umanitaria, portata avanti fino a quando le nostre condizioni
economiche ce l’hanno consentito. L’interruzione, necessaria quanto dolorosa, di
questo tipo di aiuto non ha però spento in noi il desiderio di riprendere al più presto
il sostegno nei confronti di bambini in difficoltà.

Ed ecco il motivo della nostra lettera: ci rivolgiamo a voi, missionari, per avere
indicazioni e ragguagli al fine di iniziare nuovamente un sostegno a distanza,
possibilmente in un paese dell’Africa. Riteniamo che non esista modo migliore di
impiegare le proprie risorse economiche, in tempi in cui molti (troppi) ricercano sistemi
più o meno leciti per arricchirsi in una forma sempre maggiore.

A costoro vorrei umilmente ricordare che solo Gesù Cristo ha promesso interessi
esorbitanti: addirittura il centuplo! Sfido qualunque banca a promettere di più.

Una cosa ci farebbe particolarmente piacere, se rientra nelle normative che regolano le
adozioni a distanza: intrattenere con il bambino o la bambina adottati un rapporto
epistolare. Tale rapporto con i bimbi di un altro paese contribuirà a creare in famiglia,
soprattutto nei nostri figli, un’atmosfera di aspettazione e gioia, nonché la
consapevolezza che in un posto lontano c’è "un altro fratellino", che ha
bisogno delle medesime cose di cui hanno bisogno loro, con le loro stesse aspirazioni e
desideri.

E chissà! Forse un giorno i nostri figli potrebbero "farsi prossimo" in modo
ancora più concreto, non solo con aiuti economici, ma donando interamente se stessi ai
poveri e agli afflitti partendo come missionari.

Che gioia sarebbe!

Ultima richiesta: visto che non siamo ancora abbonati a Missioni Consolata
(l’abbiamo conosciuta in parrocchia), vi preghiamo di inviarci tutto il materiale per
riceverla regolarmente.

Mario Manescotto

Revello (CN)

Di tanto in tanto, attraverso la rubrica "provocazioni missionarie" della
rivista, lanciamo qualche invito esplicito alla missione. Ma il signor Mario ci ha
nettamente superati.

AAVV




PUNTI INTERROGATIVI


Ripensando ai lunghi anni trascorsi in Kenya, un missionario si confessa.
È cambiato il modo di stare con la gente, di spiegare la salvezza dei non
cristiani di aiutare gli altri…
Ma,
anche se ci si può lamentare con Dio di fronte alle sofferenze dei
poveri,la cosa migliore da fare è ancora… fidarsi di Lui.

Siamo agli inizi

degli anni
’50. Sono le mie prime settimane di scuola e sto cercando di mettere
insieme le lettere dell’alfabeto, di leggere le prime parole. Però mi
sembra tutto tempo sprecato: niente entra in zucca! Un giorno la maestra
ci chiede di portare qualcosa per la «giornata missionaria mondiale». E
che cos’è?

Rumino la
parola «missione» lungo la strada… niente! Forse che la maestra non
lavora per noi? Ha bisogno anche lei di uno stipendio. Forse è proprio
questo che ci ha chiesto. Lo dico subito a papà e, immaginate la mia
delusione, quando mi risponde che è già pagata dal governo.

Missione.
«Sì, – mi spiegano – sono i neretti». Poverini! Devono avere ben freddo,
perché sono mezzi nudi. Mia sorellina ha una bambola moretta: la guardo,
la rigiro tra le mani… Sono anch’essi come noi. Cambia solo il colore
della pelle. Ma – continuo a chiedermi – come mai sono così? Forse che si
sono dati il lucido da scarpe?…

Erano
altri tempi. L’Italia era ancora «bianca e pulita», come sostengono alcuni
oggi. Per le nostre strade non si vedeva «gente di colore». Oggi tutto è
cambiato. Italia ed Europa stanno diventando sempre più color caffellatte
e nessuno si chiede più come sono i negretti. Gli anni sono passati e
anch’io, ormai, ho trascorso metà della mia vita in Africa. Sono
missionario. Ma perché?

Ci
dicevano e ripetevano che coloro che morivano senza battesimo andavano
all’inferno. Bisognava, allora, andare, battezzare, predicare. Questo,
però, mi ha sempre lasciato con molti punti interrogativi… In Kenya le
conversioni sono molte, i catecumenati pieni e tanti chiedono di conoscere
la fede cristiana. Lo Spirito lavora, anche se è tutta gente che viene
dalle religioni tradizionali.

Ma i
musulmani, gli hindu… non si convertono. Parlare loro di Gesù Cristo?
Sarebbe inutile. Penso al commerciante indiano che, ogni settimana,
provvede il pane all’orfanotrofio. Penso alla donna musulmana che ho
incontrato un giorno nel suo negozio, durante il ramadan, mese del
digiuno: stava ascoltando alla radio un programma musulmano, con il volume
assordante. Non capivo la lingua, ma sentivo che ripeteva sempre la stessa
litania e la ripeteva mentre mi serviva. Mi sono azzardato a chiedere che
cosa fosse. Un po’ sorpresa, mi ha risposto che si trattava della loro
preghiera, senz’altro strana, molto strana per noi.

Che gente
come questa dovesse andare all’inferno non l’ho mai pensato. Per fortuna
oggi la teologia è cambiata e in paradiso ci vanno molti di più. Il mio
compito è soprattutto quello di «testimoniare», condividere, essere
presente.

Ammiro tantissimo

i primi
missionari arrivati qui, nel centro del Kenya, all’inizio del secolo. Soli
e sperduti in un paese senza strade, tra gente indifferente e a volte
ostile, impossibilitati a comunicare non conoscendo la lingua del posto,
tagliati fuori dal loro mondo di origine… Quanta povertà!

Eppure ce
l’hanno fatta… Oggi alzo la cornetta e chiamo l’Italia, senza neppure
passare dal centralino. Ci sono strade, macchine. In città troviamo cibi
di ogni tipo e viviamo in case di pietra.

Ricordo un
mio compagno missionario che voleva vivere come loro, gli africani: cibo,
casa, mezzi di trasporto… Dopo qualche tempo si è ritrovato
all’ospedale: una degenza che l’ha fatto riflettere e gli ha fatto
cambiare qualche idea. Ho un’educazione, una formazione, una cultura, un
passaporto, una cittadinanza italiana. Quanti in Kenya vorrebbero averla.
Scapperebbero subito, per cercare fortuna in Italia. Sì! Sono ricco. Ma mi
sento anche tanto povero.

Povero,
perché vivo in un paese straniero, di cui non potrò mai conoscere appieno
la lingua e la cultura. La mentalità della gente è sempre un mistero,
anche dopo tanti anni. Povero, perché in certi uffici o parlando con certe
persone, sento chiaro il messaggio o l’invito (anche se non detto a
parole): è meglio che me ne torni nel mio paese.

Sì, sono
un povero ricco o un ricco povero! Senz’altro un segno di contraddizione:
amato, stimato, rispettato da molti… rigettato da altri. Testimonianza,
quindi, di un povero ricco. Ed è con la mentalità del ricco che sono
venuto. Avevo molto da dare. Ed era anche vero. Oggi, quando qualcuno mi
chiede un aiuto materiale, non posso dire che non ho niente. In fondo alle
tasche qualche monetina la trovo sempre.

Ma, dopo
tanti anni, mi accorgo che ho ricevuto molto dagli africani. Hanno valori
che noi non abbiamo o abbiamo perso: amore alla vita, solidarietà,
comunità, il gusto per la celebrazione… Quando sono in Italia, quelle
messe domenicali di 35 minuti, così slavate, proprio non mi dicono niente
o quasi. E non c’è modo di farle più lunghe, perché ti accorgi che la
gente comincia a guardare l’orologio o il parroco, dopo gli avvisi, ha già
detto ai fedeli: «In piedi per la preghiera finale».

E quella
volta che mi sono permesso di lasciare un minuto di silenzio dopo la
comunione, l’inserviente in sacrestia mi ha subito domandato se mi fossi
addormentato. Poteva permetterselo, perché… era mio nipote! Le
celebrazioni liturgiche in Africa, sempre così animate e piene di vita,
sono un’altra cosa.


Missione è presenza

dare e
ricevere, in un interscambio che arricchisce entrambe le parti. Sono
venuto giovane, entusiasta, pieno di vita, pensando di cambiare il mondo.
Mi accorgo ora, dopo tanti anni, che l’Africa ha cambiato me.

È appena
venuta una donna a chiedere aiuto: non ha di che sfamare la famiglia. So
che è sincera. È la seconda siccità di fila; sono mancate le piogge anche
quest’anno. Andando in giro, mi si stringe il cuore, quando vedo quel
granoturco così accartocciato. Ho trovato ancora qualcosa per lei nel
portafoglio. Ma domani avrà di nuovo fame. È nuvoloso, ma non cade una
goccia di pioggia per salvare in extremis questo granoturco e questi
fagioli. Niente. Chiedo a Dio, nella preghiera, che cosa stia facendo. Il
suo silenzio è terribile. Certo, se avessi creato io il mondo, l’avrei
fatto diverso. Non avrei permesso che tanta gente soffra la fame.

Ma forse è
meglio che lasci a Dio il suo mestiere. E io mi accontenti di essere un
povero testimone, che ha tanto da imparare. Un testimone che prega con
questa gente: «Dacci oggi, il nostro pane quotidiano». E quanto al mondo,
visto che non l’ho creato io, non sarò io a cambiarlo. Ma voglio offrire
il mio piccolissimo contributo per renderlo più umano, più abitabile.

È tutto
ciò che posso fare e che Dio mi consente… qui in Kenya. Gliene sono
grato. Molto grato.

Un missionario sereno




Indios di Roraima, Brasile. ANCHE GLI ANGELI PERDONO LE ALI

L’ennesima lotta per non scomparire e l’impegno della chiesa del Consiglio indigeno di Roraima

Articolo 1

Area
indigena «Raposa Serra do Sol»

Gli
indios nella morsa dell’esercito

del
Consiglio indigeno di Roraima

Gli indios
brasiliani di Roraima sono, ancora una volta, sul piede di guerra. I
macuxí, wapixana, ingaricó, patamona e taurepang, che abitano la regione «Raposa
Serra do Sol», stanno affrontando una nuova battaglia politica e legale.
Questa volta contro l’esercito nazionale e le sue caserme. Il luogo della
discordia (o dell’aggressione da parte dei bianchi) è il villaggio di
Uiramutã.

La
caserma ad ogni costo

Il
progetto «Calha Norte» prevede oggi anche una base militare nel villaggio
degli indios macuxí di Uiramutã. Ma la risposta della comunità locale e di
quella delle montagne non si è fatta attendere: sono ricorse alla
giustizia per impedire la costruzione della struttura dell’esercito.

I macuxí
sono molto preoccupati, specialmente dopo le denunce dei yanomami di abusi
sessuali e distribuzione di armi da parte dei militari nei villaggi
indigeni. La costruzione della caserma è un ulteriore attentato alla
cultura degli indios e una violazione dei diritti costituzionali in
Brasile.

La
tensione è alta a Uiramutã, poiché l’esercito sembra deciso a costruire la
caserma ad ogni costo.

Nel
novembre scorso l’esercito incominciò a spianare l’area, a soli 100 metri
dalle abitazioni macuxí, e i capi indigeni fecero ricorso alla giustizia
per fermare i lavori. Ma l’Avvocatura generale dell’unione (Agu), che
difende i militari, si appellò contro le decisioni favorevoli agli indios.
L’ultima sentenza della Corte federale di Brasilia ha previsto che
l’esercito individui con le comunità indigene il luogo più appropriato per
la costruzione della caserma. Ma finora i militari non hanno preso alcuna
iniziativa per arrivare ad un accordo.

L’Agu, con
il ricorso contro la decisione della Corte, ha rivelato che i militari non
hanno alcuna intenzione di trattare con gli indios. Il generale Claudimar
Nunes Magalhães, comandante della prima brigata della «selva», non crede
nel dialogo con i leader indigeni. «Qualsiasi luogo noi scegliamo – ha
detto – a loro non va bene» (Brasil Norte 19/01/2001).

D’altro
canto, in febbraio, i capi di tutte le etnie indie del Brasile si sono
riuniti: hanno inviato un documento alle autorità denunciando gli abusi
dei militari contro i yanomami e chiedendo di partecipare alla decisione
circa il luogo dove costruire la caserma nella regione Raposa Serra do
Sol.

Il 21
febbraio rappresentanti della Giustizia federale, politici e ufficiali
dell’esercito hanno visitato Uiramutã e il villaggio di Maturuca, dove
hanno incontrato i responsabili del Consiglio indigeno di Roraima (Cir).
Questi hanno sostenuto che la costruzione di una base militare a Raposa
Serra do Sol non è necessaria, poiché esistono già due unità militari
lungo i confini della regione. L’incontro non ha portato ad alcuna
soluzione.

Il 18
marzo il ministro della Difesa, Geraldo Quintão, ha dichiarato alla stampa
nazionale che l’esercito è determinato a costruire la base a Uiramutã,
nonostante l’opposizione indigena. Il giornale O Globo ha rivelato che i
militari ritengono impensabile una decisione finale della Corte, contraria
alla costruzione della caserma (O Globo 18/03/2001).

Inoltre a
Roraima Quintão ha affermato che la demarcazione dell’area yanomami è
stata un errore e si è dichiarato contrario ad altre demarcazioni di terre
indigene in aree uniche (non a macchia di leopardo), riferendosi proprio a
Raposa Serra do Sol (O Estado de São Paulo, 22/03/01).

Il
«municipio bianco» a Uiramutã

La
demarcazione della terra indigena Raposa Serra do Sol è considerata da
varie organizzazioni ambientaliste e dei diritti umani l’emblema della
politica governativa brasiliana circa i diritti indigeni, soprattutto il
diritto alla terra.

L’area
Raposa Serra do Sol occupa 1.651.300 ettari nel nord orientale di Roraima
ed è abitata da oltre 15 mila indios macuxì, wapixana, ingaricó, patamona
e taurepang.

La
demarcazione di questa zona è stata apertamente e costantemente combattuta
dal governo e dai parlamentari di Roraima, anche con mezzi illegali (ad
esempio, la strumentalizzazione di capi indigeni), onde bloccare la
conclusione del processo di delimitazione del territorio. È dal 1998 che
l’atto finale è fermo negli uffici della Presidenza della repubblica, a
causa delle pressioni dei politici.

Vari
gruppi economici e politici, con interessi in Amazzonia, seguono con ansia
gli sviluppi della situazione a Raposa Serra do Sol, sperando in un
«precedente giuridico» che li aiuti a contrastare altre demarcazioni di
aree indigene.

Nel 1997
il governo di Roraima fece pressione per l’installazione del «municipio
bianco» a Uiramutã, nella regione delle montagne, come strategia per
destabilizzare il movimento di demarcazione e per frammentare il
territorio indigeno.

Il
municipio è stato la fonte di costanti aggressioni contro gli indios, di
invasione dei loro territori e di divisione tra i villaggi. Il Consiglio
indigeno di Roraima ha lottato legalmente per annullare il municipio,
installato al contrario per vie illegali. La sede, nel cuore del villaggio
di Uiramutã, esprime la politica di soffocamento contro le società
indigene praticata dal governo di Roraima.

La
prefettura di Uiramutã ha costruito altri edifici pubblici fra le
abitazioni macuxí e ora rivendica che il villaggio sia riconosciuto come
vila (cittadina dei bianchi) e addirittura come città. Ma vi sono solo 110
non-indios a Uiramutã, contro 380 indios. Oltre alle costanti minacce ed
aggressioni fisiche contro gli indios, i non-indios commerciano bevande
alcornoliche, responsabili della distruzione fisica, sociale e culturale
delle comunità.

È in
questo contesto che si colloca la costruzione della caserma, senza il
consenso degli indios. La struttura consoliderebbe l’invasione del
villaggio e, inoltre, costituisce una violazione del diritto
costituzionale delle società indigene a conservare i propri costumi,
lingue, credenze e tradizioni, nonché il diritto originario sulle terre
dove vivono da sempre. Oltre a questo, preoccupa gli indios la recente
denuncia dei capi yanomami di irregolarità commesse dai militari nella
base di Surucucus.

I yanomami
accusano soldati e ufficiali di abusare sessualmente delle loro donne e di
distribuire armi da fuoco e munizioni agli uomini. Il che aumenta le
aggressioni fisiche tra i villaggi rivali.

I capi
indigeni di Roraima non vogliono che questa storia si ripeta in altre
comunità e temono che la presenza di militari nei pressi dei villaggi
generi prostituzione e alcornolismo.

I tuxáuas
(capi) di Raposa Serra do Sol non sono contrari alla presenza
dell’esercito in Amazzonia, ma non vogliono caserme dentro o nei pressi
dei villaggi indigeni. Un’eventuale caserma dovrebbe essere costruita
lontano dalle comunità, per evitare i problemi vissuti dai yanomami.

L’esercito
finora si è rifiutato di discutere la scelta di un altro luogo per la
base. Secondo il colonnello Roberto De Paula Avelino, responsabile del
progetto Calha Norte, il problema non può dipendere da questioni indigene
e territoriali. A suo parere, le uniche preoccupazioni riguardano la
sovranità nazionale e lo sviluppo regionale. «Spero che nei prossimi 18
mesi la caserma di Uiramutã sia in funzione» ha affermato il militare in
un’intervista alla stampa. Significativo il titolo: «Calha Norte non bada
alla questione indigena in Roraima (Folha de Boa Vista, 5/12/2000).

Complici i cercatori d’oro

Il
villaggio di Uiramutã sorge nella regione delle montagne, una delle
quattro aree che formano la Raposa Serra do Sol, a poca distanza dal fiume
Maú, al confine tra Brasile e Guiana. Sul finire degli anni Cinquanta, i
garimpeiros (cercatori d’oro) si installarono nel cuore del villaggio, a
fianco pure della casa del vecchio tuxáua José Massaranduba, che vive
tutt’oggi in loco.

La
presenza di garimpeiros ha causato l’oppressione e disgregazione della
comunità attraverso l’alcornolismo, la prostituzione, gli omicidi, lo
sfruttamento della manodopera indigena, insieme ad una lunga serie di
violenze culturali e fisiche. Poi, con il fallimento del garimpo (miniera
d’oro) nella regione, gli invasori se ne sono andati. Sono rimasti solo
pochi avventurieri.

Agli inizi
degli anni Ottanta la comunità indigena, già rafforzata dal movimento di
recupero socioculturale nei villaggi e dalla lotta per la terra, riuscì a
controllare il viavai di estranei.

Intanto, a
partire dal 1985, si è assistito ad una nuova invasione di garimpeiros in
territorio yanomami, attratti sempre dalla corsa all’oro. Tale invasione
fu favorita dallo stesso governo di Roraima che, tra i vari provvedimenti,
aprì una strada per facilitare l’«integrazione» del territorio isolato. Il
villaggio di Uiramutã è stato nuovamente circondato da garimpeiros. I
nuovi invasori hanno aperto bar e postriboli vicino alle case degli indios.
E le comunità indigene della regione sono state colpite da malaria,
malattie respiratorie, come pure da aggressioni fisiche che causano molti
decessi.

Però, in
questa circostanza, gli indios erano più organizzati e coscientizzati
rispetto al passato. La presenza di garimpeiros li ha stimolati a
sollecitare un urgente e quanto mai necessario riconoscimento ufficiale
della loro terra.

Nel 1993
la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) concluse e fissò il processo di
identificazione e demarcazione del territorio macuxí, ingaricó, taurepang
e wapixana e lo consegnò al ministro di Giustizia. Il fatto suscitò, da
parte del governo locale, proteste, minacce e tentativi di consolidare
l’invasione. Fra questi vi fu la costruzione della diga del Tamanduá, sul
fiume Cotingo, che gli indios contestarono con successo.

La
creazione del municipio di Uiramutã è stato l’ennesimo stratagemma
politico del governo di Roraima per impadronirsi del territorio.

Gli indios
hanno denunciato l’imposizione della struttura «bianca» nel villaggio di
Uiramutã e il Consiglio indigeno di Roraima è ricorso alla giustizia
contro la creazione illegale del municipio. Il processo è ancora in alto
mare e si aspetta la decisione definitiva di Brasilia.

Nella
regione, tra il 1997 e il 1998, la reazione degli indios portò
all’espulsione dei garimpeiros dall’area e la chiusura dei garimpos, che
costituivano insieme al settore terziario l’unica fonte di rendita per il
municipio. Al presente ci sono solo i salari dei dipendenti del municipio
a sostenere la «cittadina».

Si sappia
che le comunità indigene delle montagne hanno al presente il controllo di
quasi tutte le terre che dovevano teoricamente appartenere al municipio.

La corruzione dei capi

Uiramutã è
un villaggio che comprende due realtà diverse: il centro tradizionale
(chiamato vila), invaso dai bianchi, e il centro recente.

Il centro
tradizionale è una fascia di terra delimitata, da ovest ad est, da due
igarapés (torrenti), che confluiscono nello stesso punto dopo le ultime
case. Il territorio misura circa 1.000 metri di larghezza sul lato ovest,
300 sul lato est e circa 1.300 metri di lunghezza (vedi cartina). Tra i
due igarapés vivono 26 famiglie macuxí. Fra loro si trovano pure 31
famiglie di non-indios, per un totale di 110 persone.

Il governo
di Roraima ha installato proprio qui la sede del municipio e ha «riempito»
il luogo con le seguenti strutture politiche: una scuola elementare con
otto classi e una media con cinque, più un corso supplementare; un campo
sportivo; una casa di appoggio per l’esercito; due cistee d’acqua; un
palazzo comunale con la «camera dei deputati»; un centro di
amministrazione; un ambulatorio; due generatori elettrici; un
radiotelefono; una casa per «il club delle madri»; un commissariato di
polizia.

Il centro
recente del villaggio (situato lungo il limite settentrionale e
meridionale dell’area invasa e da essa separato solo dai due igarapés), è
amministrato dal tuxáua Orlando Pereira, figlio di Massaranduba. Qui si
contano 74 case, con un totale di 380 persone. Il centro possiede una
scuola con 83 alunni e diversi insegnanti indigeni, un ambulatorio, acqua
canalizzata, una chiesa cattolica, tre retiros per l’allevamento del
bestiame e 56 piccole piantagioni. La comunità indigena (e le sue
abitazioni) è circondata quasi totalmente dal complesso di edifici
costruiti dal governo. A lato dell’agglomerato delle case del villaggio,
c’è la sponda dell’igarapé meridionale, dove i militari vogliono costruire
la loro caserma. La distanza della base militare dalla casa indigena più
prossima è di appena 100 metri.

Nella
regione i rapporti tra indios e non-indios sono stati sempre tesi e
pericolosi per gli indigeni e i loro alleati. Basta ricordare alcuni
episodi recenti: il rogo di tre case indie a Uiramutã; l’invasione nel
1999 da parte di abitanti della vila del vicino villaggio di Weilimon, in
seguito al tentato omicidio del leader Paulo; il tentativo di pugnalare il
segretario generale del Cimi, Egon Eck.

Ma ancora
più grave è il fatto che il governo di Roraima abbia cornoptato e ingaggiato
alcuni leader indigeni con stipendi e promesse di ricchezza. Questi si
sono schierati addirittura contro i propri diritti e dei fratelli,
arrivando a chiedere la demarcazione di una superficie inferiore a quella
che la stessa legge loro garantisce, nonché il ritorno dei garimpeiros,
l’espansione della vila e, oggi, la costruzione della caserma a Uiramutã.

La
cornoptazione è stata la strategia principale, adottata dall’attuale
governatore dello stato di Roraima, per destabilizzare il movimento
indigeno e impedire l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do
Sol.

Articolo 2

Ladri,
corrotti e «viados»

di Carlo
Miglietta (*)

Boa
Vista, capitale dello stato di Roraima. Scendendo dall’aereo, il primo
assaggio del clima è tremendo. Fa molto caldo; soprattutto c’è un’umidità
che ti fa sembrare di camminare… nell’acqua calda! I missionari della
Consolata, venuti ad attenderci, ci prendono in giro: «Ma se è inverno!
Siamo nei mesi freschi delle piogge».

Ci
sorprende che ad attenderci non ci sia l’amico padre Silvano Sabatini.
Però subito ne comprendiamo il perché. La città è tappezzata di manifesti,
stampati dal governo e da fantomatiche associazioni di commercianti e
agricoltori, che attaccano i missionari e la Funai (Fondazione nazionale
dell’indio) per la loro difesa degli indios.

Alcuni
cartelloni recitano: «La Funai genera miseria e conflitti!»; «No alle
demarcazioni delle terre! A “isole” sì, ad “area continua” no!»; «Il
Brasile è dei brasiliani e non degli indios»; «La diocesi deve
catechizzare, non terrorizzare»; «La chiesa è contro la società»…

C’è lotta
senza quartiere tra i missionari (che premono perché le terre indigene
siano demarcate come aree continue, secondo la Costituzione brasiliana del
1994, e il governo locale, in mano alla lobby dei fazendeiros, che accetta
solo la demarcazione del territorio «a isole» (cioè a pezzetti),
accerchiate da grandi fazendas pronte ad inglobarle… Sui muri vistose
scritte: «Preti ladri, corrotti e travestiti! (viados)».

Padre
Sabatini è uno dei «ricercati», ed è meglio che non si faccia vedere in
giro. Il suo libro Massacre (1998) ha inchiodato, con nomi e testimonianze
precise, gli autori dell’uccisione di padre Giovanni Calleri e di numerosi
indios: militari, personaggi di compagnie minerarie e di sètte
nordamericane fiancheggiatrici.

Missione
di Calungá, alla periferia di Boa Vista. È anche la sede provinciale dei
missionari della Consolata. E qui abbracciamo finalmente padre Silvano,
che ci aggioa sulla situazione molto tesa.

Il diritto
degli indios alla demarcazione delle loro terre indigene è rimasto
disatteso. Bianchi, fazendeiros ed enti minerari hanno depredato gli
indios delle loro terre, massacrandoli con mitragliatrici e bombe,
inquinando i fiumi con derivati mercuriali, diffondendo malattie contro
cui gli indios non hanno difese immunitarie. In una trentina d’anni, da
300-400 mila sono passati a poche decine di migliaia.

Il governo
di Roraima, dato che i potenti fazendeiros non hanno alcuna voglia di
abbandonare (neanche dietro indennizzo) le aree da essi arbitrariamente
occupate, cerca addirittura di aumentare la presenza dei bianchi nelle
aree indigene, per rendee ancora più difficile l’espulsione. A tal fine,
ha favorito l’immigrazione di contadini del nordest, soprattutto del
Maranhão. In queste regioni era iniziata una timida assegnazione di terre
ai contadini, senza dotarli delle necessarie infrastrutture (trasporti,
scuole, ospedali): il contadino, che si è visto dare un terreno a 400-600
chilometri dalla città, ma senza mezzi per raggiungerlo, non sapendo come
vendere i raccolti, ha accettato la misera offerta del latifondista; e
dotato di grossi camion e aerei per i trasporti, con pochi soldi si è
visto di nuovo legalmente proprietario di tutti i terreni.

Il governo
di Roraima concede ai contadini poveri 100 metri quadrati di terra a Boa
Vista per costruire una baracca; ed essi vi giungono a frotte dal nordest.
Così la città è cresciuta, in una decina d’anni, da 70 mila a 360 mila
abitanti: tutti baraccati, senza fogne, con la luce rubata attraverso
allacciamenti di fortuna, con acqua solo se, scavando nel terreno, c’è la
ventura di trovarvi un pozzo.

Il governo
di Roraima ha indetto, contro la demarcazione delle terre, la «marcia in
difesa dello stato», favorendola in ogni modo con trasporti gratuiti e una
giornata di libertà per i dipendenti della pubblica amministrazione. La
Folha de São Paulo ha scritto che vi hanno partecipato 30 mila persone,
ma, secondo il giornale locale O Correio, la manifestazione è stata un
fiasco, con non più di 3 mila persone.

Visitiamo
l’ospedale infettivologico per gli indios, a pochi chilometri da Boa
Vista. È stato costruito dai missionari della Consolata a misura di indio:
come «reparti» ci sono «maloche», le tipiche costruzioni a capanna
plurifamiliare, e come letti le immancabili amache. Gli indios possono
cucinarsi il cibo secondo le proprie usanze; dispongono di locali per
lavori artigianali anche durante il ricovero; hanno possibilità di
alfabetizzarsi… L’ospedale è diretto da Renato, un avvocato brasiliano
di origine tedesca, anch’egli nel mirino della repressione, e vi operano
part time un medico colombiano e un radiologo venezuelano. Malattie più
frequenti: tbc, malaria, varicella, morbillo, che colpiscono gli indios in
forme devastanti.

Un
cruciale problema per l’ospedale sono i finanziamenti: lo stato, che
dovrebbe mantenerlo in convenzione, paga… qualche volta. Tempo fa i
missionari sono stati costretti a chiuderlo e a portare gli infetti
all’ospedale statale ottenendo… l’immediato pagamento degli arretrati.

Eucaristia
nella cappella (anche questa a forma di maloca) nella missione di Boa
Vista. Padre Silvano ricorda con viva commozione Micarnela, mancata un anno
fa, indicandola come vera «santa missionaria», per avere fino all’ultimo
pensato ai fratelli e alla missione, nonostante la sua gravissima
malattia.

Pure noi,
anche guardando il sacerdote celebrante, siamo commossi: padre Silvano,
dopo 79 anni di «intemperie», è cieco! Ma la mente, lucidissima, vede
sempre lontano e il cuore è appassionato… Preghiamo per gli amici di
Torino, i familiari, i sostenitori degli indios.

(*) Carlo
Miglietta è medico a Torino. Si è recato due volte nella zona di Roraima,
l’ultima delle quali per accompagnare gli inviati del settimanale
«Famiglia Cristiana».

Articolo 3


Surumú – Maturuca


Storia di liberazioni

di
Benedetto Bellesi

Una
volta si vergognavano di sentirsi indios; oggi si sono riappropriati delle
loro terre, dignità e valori culturali. È una lotta infinita, combattuta
su due fronti: contro l’oppressione estea e schiavitù intee, come
alcornolismo e dipendenza. Da 40 anni i missionari della Consolata camminano
con gli indigeni di Raposa Serra do Sol, aiutandoli a confrontarsi con la
parola di Dio, a cui traggono ispirazione e forza per continuare il loro
processo di riscatto.

Prima di
mettersi al volante padre Giacomo Mena si toglie le ciabatte e infila i
piedi nudi nelle scarpe d’ordinanza. «Meglio bollenti che una grana con la
polizia – spiega -. Non conviene farsi prendere in castagna, specie in
questi giorni in cui tutti cercano appigli per sbattere la chiesa in prima
pagina». Un bel segno di croce e ci mettiamo in viaggio per Surumú e
Maturuca. «Il Signore ce la mandi buona» continua, con un augurio che
vuole essere anche una preghiera.

Lasciata
alle spalle Boa Vista, infiliamo la statale che conduce in Venezuela.
L’asfalto invita a pigiare sull’acceleratore; ma per un’ora e mezza, un
occhio alla strada e l’altro al contachilometri, l’autista rispetta con
scrupolo i limiti di velocità. Poi svolta a destra, su uno stradone
sterrato. «Ora siamo al sicuro» afferma il padre con un sorriso soione:
ferma l’auto, rimette le ciabatte e riparte a tutto gas.

Padre Mena
non è fanatico di regole e comandamenti. Nato a Chiari (Brescia) 60 anni
fa, metà della vita spesa in Brasile, conosce bene la situazione e,
piccolo ma furbo quanto basta, sa dove finisce la sfida e inizia la
prudenza. «Sicuri dalla polizia, non da peggiori incontri – continua
sorridendo sotto i baffi e sbirciando di traverso per vedere la mia
reazione -. Qui si sa quando si parte, ma non quando e se si arriva a
destinazione. Preti e suore sono nel mirino di pistoleros pagati dai
fazendeiros. La situazione, ora, sembra calma; ma non si è mai sicuri al
cento per cento».

SPECIALISTI DEL PROGRESSO

Il viaggio
continua, invece, liscio come l’olio e dopo un’altra ora buona siamo a
Surumú: la vila (villaggio dei bianchi) è sotto l’amministrazione
regionale; la missione si trova nella riserva Raposa Serra do Sol.
«Abbiamo i piedi su due staffe – spiega suor Leta, missionaria della
Consolata -. E ciò crea una certa tensione. I bianchi non ci sopportano,
perché difendiamo gli indios; noi boicottiamo le loro botteghe, perché
vendono alcornolici agli indigeni».

La
missione di Surumú, la prima fondata tra gli indios della savana (1951), è
stato il centro della riscossa indigena. Iniziò con la scuola elementare e
inteato per una trentina di alunni, poi è stata adattata alle varie
esigenze della popolazione indigena, diventando centro di formazione per
leaders e capi indigeni; oggi è una specie di università agricola.

«Con la
demarcazione della riserva e il graduale recupero della terra – spiega
suor Leta, incaricata della formazione di questa scuola -, c’è bisogno di
gente capace di difendere i propri diritti e promuovere l’autonomia
economica delle comunità. Cinque anni fa, nella loro assemblea annuale, i
tuxáuas hanno chiesto ai missionari di assumersi questa responsabilità».

Un’équipe
di missionari e professori di antropologia, diritto, tecnica agricola ha
progettato un programma di tre anni e si è messo subito al lavoro. Una
trentina di giovani hanno già concluso i corsi e si sono reinseriti nelle
rispettive comunità.

Le
principali materie di studio riguardano la tecnica agricola e agropecuaria;
la formazione è integrata con lezioni di antropologia e diritto, perché
gli alunni conoscano e apprezzino i valori culturali dei vari gruppi
etnici, imparino a fronteggiare uniti le sfide che li aspettano in futuro.
Qualche volta padre Giorgio Dal Ben porta a scuola i tuxáuas, che
raccontano agli studenti il cammino di lotta che stanno percorrendo per
riacquistare la loro dignità. Così la memoria storica viene tramandata di
generazione in generazione.

Alle
lezioni teoriche segue la pratica. La missione ha un esteso campo, dove i
giovani coltivano fagioli, mais, orzo; un frutteto con banani, manghi,
aranci, limoni; stalle con mucche, porci, galline. Fa impressione vedere
ragazze maneggiare zappe, concimi e tritaforaggio. «Anche le ragazze
frequentano questa scuola – spiega la suora -. Fa parte della loro
cultura: è la donna che coltiva i campi».

Entro
nell’aula scolastica, dove il professore Martino sta tenendo una lezione
di apicultura. Gli alunni sono attenti e non badano alla nostra
intrusione. «Sono affamati di sapere – continua suor Leta – e
impegnatissimi». Quasi tutti hanno solo la licenza elementare; nei ritagli
di tempo si preparano privatamente per conseguire il diploma statale di
secondo grado. Spesso accompagnano il professor Martino nelle varie
malocas, per esaminae i terreni e studiae le possibilità di
coltivazioni. Un mese fa hanno filmato il loro lavoro: un trapianto di
banani, con relative spiegazioni su qualità del suolo, malattie, cure e
concimazione. Poi hanno proiettato la cassetta in una maloca, imparando
così a trasmettere agli altri ciò che apprendono.

Suor Leta
confessa che anche lei ha molto da imparare da questi giovani. «Quando
arrivai a Surumú – racconta – in questa veranda c’erano sempre otto grossi
rospi, nonostante i sette gatti e quattro cani che girano per casa; finché
una ragazza sparse un po’ di sale sul pavimento e i rospi sparirono. “Oggi
ho appreso una cosa nuova: come ammazzare i rospi” dissi. “I rospi non si
uccidono, suora” rispose la ragazza. Oltre a imparare che il sale
impedisce la respirazione dei rospi, ricevetti una bella lezione di
ecologia: il rospo mangia insetti e scarafaggi; il gatto mangia il topo, i
cani allontanono i serpenti… Nella cultura indigena ogni creatura ha il
suo posto nell’equilibrio della natura».

AGENTI DI SALUTE

Altro
fiore all’occhiello della missione di Surumú è il piccolo, ma
attrezzatissimo ospedale S. Camillo, il primo e l’unico in tutto la parte
settentrionale della riserva Raposa Serra do Sol, la savana di Surumú e
Basso Cotingo e la «regione delle montagne» di Maturuca. Da otto anni lo
dirige suor Teresa, missionaria della Consolata kenyana. Oltre ai vari
reparti, mi mostra con orgoglio il giardino da lei curato, zeppo di alberi
da frutta ed erbe medicinali.

Ma i
frutti più belli del S. Camillo sono gli operatori di sanità, infermieri e
infermiere che già operano in molti villaggi della riserva. «Sono tanti e
ben preparati – spiega suor Teresa -. Se la cavano benissimo nei casi di
ordinaria amministrazione. Per quelli più complicati i pazienti vengono
portati qui, dove sono curati o immediatamente inviati a Boa Vista o a
Santa Eléna, in Venezuela, a seconda dell’urgenza e disponibilità: Boa
Vista è a due ore e mezza di viaggio; il confine venezuelano è
raggiungibile in un’ora».

Fino a
poco tempo fa, suor Teresa era supervisore della scuola infermieristica,
dei centri di salute e scuole della riserva: le visitava periodicamente
con grande beneficio per insegnanti e operatori sanitari. Poi
l’amministrazione regionale ha cominciato a mettere i bastoni tra le
ruote: la suora ha dovuto smettere le sue visite e i corsi di
infermieristica sono chiusi. «I fondi stanziati per l’ospedale sono
bloccati dall’amministrazione di Roraima – spiega sconsolata suor Teresa
-; medici, insegnanti e microscopisti hanno cercato lavoro altrove. Da tre
mesi sto aspettando l’arrivo di sussidi e altro personale per mandare
avanti l’ospedale. Ma sono stanca di sperare. È stanchezza mentale: ogni
progetto viene prima approvato e poi sistematicamente impedito, con grande
danno della popolazione indigena».

È la
strategia messa in atto dalla società locale contro la chiesa di Roraima,
con un continuo stillicidio di attacchi, calunnie, sospetti, minacce,
boicottaggi, fino a veri atti di violenza. «È in corso una guerra di
logoramento – sospira padre Luciano Stefanini (una vita spesa accanto alla
popolazione indigena) -, per costringerci a gettare la spugna nella difesa
dei diritti degli indios; una lotta che assorbe tempo, energie e denaro
per controbattere gli attacchi, anche per via legale, a scapito del lavoro
religioso e formazione della gente».

VIVERE NELLA TERRA PROMESSA

A Surumú
si tengono anche le assemblee annuali, dove i tuxauas della savana e delle
montagne prendono le decisioni più importanti per la vita delle loro
comunità. Storica è stata quella del 1977, quando dichiararono guerra
all’alcornolismo e giurarono di lottare uniti per riscattare terra, cultura
e dignità. Nel presbiterio della chiesa sono ancora appesi i simboli di
tale decisione: un fascio di rami, per indicare che l’unione fa la forza,
e una croce di legno, simbolo della volontà di sacrificarsi per il bene di
tutta la popolazione.

Anche i
giovani hanno assimilato le decisioni dei loro capi; sono consapevoli che
tutti i loro mali sono legati all’alcornolismo, che ubriacarsi significa
abbrutirsi. Per questo gli alunni della scuola di Surumú hanno forgiato
uno slogan e lo hanno inserito nel loro regolamento interno: «Ha bevuto?
Fuori!». Chi beve deve allontanarsi dalla scuola. E vi si attengono con
scrupolosa serietà.

«Qui è
iniziata e continua una storia di liberazione – afferma suor Leta -. Una
volta tutta la regione era in mano ai fazendeiros; gli indios erano alle
loro dipendenze e affogavano le loro frustrazioni nell’alcornol; ora quasi
tutti i bianchi hanno lasciato le fazendas e gli indigeni sono ritornati
padroni della propria terra e del proprio destino. Un conto, però, è
entrare nella “terra promessa”; come viverci è una storia tutta da
inventare».

Articolo 4

Maturuca, scuola di liberazione

Lasciamo
la savana e ci addentriamo nella regione delle serras (montagne). La
strada costeggia fiumi e ruscelli, attraversa amene vallette e e si
arrampica per dorsali scoscesi. Il panorama diventa sempre più vario e
pittoresco: bello da fotografare, affatto comodo per viverci. «Delle 46
comunità di Maturuca – dice padre Mena – non sono molte quelle
raggiungibili per strada camionabile. Alcune sono a 200 km di distanza: se
ne percorre 60 in auto, il resto a piedi. Le visitiamo tutte almeno due o
tre volte all’anno».

Tenendo
conto che, durante il periodo delle piogge, strade e sentirneri sono
impraticabili, rimangono sei mesi in cui è possibile raggiungere le
malocas più isolate. Le visite richiedono fino a due o tre settimane.
Tanto di cappello ai due missionari, Giorgio Dal Ben e Giacomo Mena,
parroco e vice, che in barba all’età, rispettivamente 58 e 60 anni,
continuano con immutato ritmo giovanile.

«Una
volta, per raggiungere un villaggio ingaricó – continua padre Giacomo – ho
impiegato 10 giorni. In un’altra occasione, i miei accompagnatori ogni ora
si fermavano a parlottare, con la scusa di farmi riposare. Dopo mezza
giornata, riuscii a capire che si erano perduti e cercavano punti di
riferimento». In questa regione montagnosa e senza strade anche gli angeli
perdono le ali.

CUORE DEL RISCATTO

Grazie a
Dio, l’auto di padre Mena non ha le ali: al tramonto siamo in vista di
Maturuca. Una corona di alture scintillanti fanno da sfondo a un arioso
anfiteatro, in cui le ombre lunghe degli alberi di mango ed anacardio
nascondono case e capanne disseminate nel pianoro. A parte la scuola, un
edificio ampio e moderno, gli altri fabbricati del villaggio appaiono
poveri e male in aese.

Cuore
della vita economica e sociale della comunità è un ampio piazzale
rettangolare, i cui lati sono delimitati da due casette bianche, sedi
dell’ambulatorio medico e laboratorio di taglio e cucito, da un grande
padiglione a cupola, dove sono raccolti una trentina di agenti di salute
per un corso di aggioamento, e da due file ben allineate e ad angolo
retto di capanne e tettornie, destinate a mercati e fiere nel periodo
estivo.

In
disparte, la vecchia chiesetta, distinta a mala pena da una crocetta di
legno, pendolante dal culmine del tetto. Neppure l’antistante casa dei
padri dà nell’occhio: tre stanzette basse e scure, con mobilia ridotta
all’osso. Unica comodità modea è un paio di pannelli solari che
alimentano le fioche lampadine dell’abitazione e della chiesa.


Disposizione e caratteristiche degli edifici sono significative: la chiesa
riveste un ruolo di presenza, sostegno e accompagnamento del cammino di
liberazione delle popolazioni indigene. Ma protagoniste sono le comunità,
che hanno preso in mano le redini del proprio futuro.

Il cammino
è stato lungo e faticoso ed è ancora tutto in salita. È iniziato alla fine
degli anni ’60, nella maloca di Raposa, nella zona della savana, quando i
missionari della Consolata si schierarono con un capo makuxí, Gabriel
Viriato, nella difesa della sua terra dalle invasioni dei bianchi. Una
vittoria che diede una svolta all’impostazione del lavoro missionario tra
gli indigeni della diocesi di Roraima.

Uno degli
animatori di tale cambiamento è padre Dal Ben, che nella regione di Raposa
fece le prime esperienze e lanciò varie iniziative a favore degli indios;
e quando si trasferì a Maturuca, questa divenne il centro della
liberazione di tutte le popolazioni indigene della riserva Raposa Serra do
Sol: macuxí, wapixana, ingaricó, patamona e taurepang. Qui fu ideata,
discussa e avviata la famosa campagna «una mucca per l’indio»: nel 1979
avvenne la prima consegna di bestiame alla maloca di Maturuca; l’anno dopo
a quelle di Enseada e Petra Branca e negli anni seguenti il progetto fu
esteso a tutte le comunità che ne fecero richista.

Con tale
progetto gli indigeni riuscirono a bloccare l’avanzata dei bianchi nel
loro territorio; con la campagna per la demarcazione della riserva Raposa
Serra do Sol, sempre partita da Maturuca, essi cominciarono a recuperare
le terre perdute.

LOTTA ALL’ALCOOLISMO

«Non siete
troppo coinvolti nel sociale?» domando con una punta di provocazione. «Il
lavoro impostato dalla missione di Maturuca nella regione delle montagne –
comincia padre Mena, serio e composto come non lo avevo mai visto – si
basa sul progetto di Dio, come appare dalle prime righe della bibbia:
“Creati a immagine di Dio”, da cui derivano rispetto, dignità e valore
della propria e altra persona; “crescere e moltiplicarsi”, cioè
organizzazione familiare e comunitaria; “occupare e dominare la terra”,
cioè lavoro e responsabilità individuale e collettiva. Sono i tre pilastri
della nostra attività missionaria, basati sul confronto con la parola di
Dio».

Una delle
prime decisioni prese a Maturuca fu la lotta all’alcornolismo. «Era l’inizio
del 1977 – racconta il maestro indigeno Elias -. Riflettendo sulla parola
di Dio, i nostri tuxauas presero coscienza della necessità di liberarsi
dalla schiavitù dell’ubriachezza, che distrugge l’essere di Dio che è in
noi, oltre a minacciare l’estensione fisica di individui e comunità».
Iniziò così la lotta alla cachaça, una grappa estratta dalla canna da
zucchero e venduta dai bianchi, e al caxirí e pajuarú, micidiali bevande
alcornoliche fatte in casa con la fermentazione della farina di manioca.
L’impegno fu accolto da tutti i tuxauas della riserva indigena
nell’assemblea tenuta lo stesso anno a Surumú.

Nonostante
la buona volontà, non è facile sbarazzarsi delle cattive abitudini
assimilate da oltre mezzo secolo di invasioni, oppressioni, frustrazioni e
abusi provocati dai fazendeiros. Il discorso fu ripreso nel natale 1993:
durante i 15 giorni di riflessione sul primo capitolo della bibbia, i
catechisti di Maturuca si presentarono in chiesa e dissero alla comunità:
«Noi abbiamo deciso di non bere più bevande alcornoliche e vogliamo che
tutta la comunità faccia altrettanto».

Era una
decisione drastica, coraggiosa, quasi una violenza psicologica e
culturale. «È vero che caxirí e pajuarú ci sono stati tramandati dai
nostri antichi – continuarono i catechisti -, ma noi ne abusiamo, fino a
commettere dei crimini. Non dobbiamo più né berle né produrle». Dopo tre
giorni di discussioni e contorsioni, metà della comunità accettò tale
decisione.

«Fu un
grande passo verso la liberazione – racconta Jaime, cornordinatore dei
catechisti di Maturuca -. In un incontro a livello diocesano abbiamo
proposto la nostra scelta ai catechisti di altre parrocchie. La reazione
fu durissima; siamo tornati a casa con la coda tra le gambe. Più positiva,
invece, è stata la risposta delle comunità di Maturuca che, dopo lunghe e
snervanti discussioni, hanno accolto tutte il nostro motto: no alle
bevande alcornoliche, sì all’organizzazione comunitaria».

«Se siano
stati sempre fedeli, non lo posso giurare – aggiunge padre Giacomo,
riprendendo il suo sorriso soione -. Ma il cambiamento è avvenuto,
specialmente negli ultimi anni. La gente ha preso coscienza che l’alcornol
distrugge la vita comunitaria; ha pure constatato che si ammala di meno,
ha più energia per lavorare e più cibo per la famiglia».

LOTTA ALLA DIPENDENZA

Per
recuperare la propria dignità, l’immagine e somiglianza di Dio, è
necessario avere una buona alimentazione, che si ottiene lavorando e
producendo con le proprie mani. Madre natura è particolarmente prodiga in
questa regione: fiumi, ruscelli e sorgenti dappertutto, foreste e
praterie, terreno per allevamenti, orti, frutteti, piantagioni.

Inoltre,
con la demarcazione di Raposa Serra do Sol, quasi tutto il territorio
indigeno è ritornato nelle mani delle varie etnie. Ora la gente è libera
di stabilirsi dove vuole, con l’autorizzazione dei capi villaggi,
naturalmente, poiché la terra, secondo la cultura india, appartiene alla
comunità. Ma bisogna farla rendere.

«Il lavoro
– continua il padre – risolve un’altra piaga secolare degli indios: la
dipendenza dal bianco». Anche oggi, con la cosiddetta «cesta basica»,
pacco di alimenti, vari politici corrompono e manipolano a piacere alcuni
gruppi indigeni rimasti fuori dal processo di liberazione, fino a far dire
loro quello che vogliono contro la chiesa e quelle organizzazioni indigene
schierate contro la politica ufficiale.

Per
sciogliere il legame della dipendenza, padre Mena vuole introdurre nella
regione delle montagne le cornoperative o botteghe di generi di prima
necessità. L’iniziativa non è nuova; già negli anni ’70 padre Giorgio
l’aveva lanciata con otto comunità della zona di Raposa e ripetuta a
Maturuca; ma è stato un fallimento: la gente comprava la merce a credito e
finiva per non pagare più. Da una decina di anni non ne esistono più e gli
indios continuano a dipendere dai bianchi, fazendeiros e commercianti
delle vilas.

Altro
sogno di padre Mena è recuperare i vecchi crediti delle cornoperative
fallite. Un’operazione del genere è riuscita con le donne della scuola di
taglio e cucito: con il capitale recuperato sono stati aperti altri
laboratori di cucito in varie malocas che hanno chiesto e sottoscritto le
regole del gioco. «Anche questo è un modo di aiutare la gente a recuperare
dignità, libertà, indipendenza e responsabilità comunitaria. Storia e
cultura li hanno abituati a vivere alla giornata. Ma hanno cominciato a
pensare al futuro: calcolare spese, costi di produzione e guadagni,
risparmiare e capitalizzare per ulteriore sviluppo, prevedere manutenzione
e riparazioni».

Lo stesso
senso di responsabilità è richiesto nei progetti di allevamento del
bestiame. Quando in un villaggio la mandria assegnata non aumenta o
addirittura diminuisce, gli animali vengono ritirati consegnati ad
un’altra comunità, che s’impegna a «recuperare il progetto», cioè
riportarlo il più presto possibile al numero originario: 50 mucche e due
tori. Recuperato il bestiame, la comunità può chiedere di continuare o
passarlo a un’altra maloca.

LA FORZA DELLA COMUNITÀ

E tutto
avviene attraverso l’organizzazione comunitaria. Il missionario ispira e
sostiene le iniziative; ma le decisioni vengono prese e realizzate
comunitariamente. È tutta la comunità che deve chiedere e sottoscrivere la
responsabilità dei progetti del bestiame o della scuola di cucito; sono
gli indigeni che gestiscono i vari progetti, assegnano o ritirano il
bestiame, controllano se le regole vengono applicate e comminano eventuali
sanzioni. È tutta la comunità che si impegna a evitare le bevande
alcornoliche.

Fuori
della comunità, l’indio è perduto; non ha forza per resistere da solo.
Basta che uno si ubriachi e tutta la maloca lo segue.

La
dimensione comunitaria permea tutta la vita, compresa naturalmente quella
religiosa. Ogni domenica la gente si raduna per pregare insieme e,
riflettendo sulla parola di Dio, esamina e discute i problemi di ogni
giorno, per concludere con un impegno concreto, che coinvolge tutti e di
cui rendere conto la domenica seguente.

Battesimi,
matrimoni e altri sacramenti sono eventi importanti per tutta la comunità.
Vi partecipano tutti e intervengono con discorsi, consigli, esortazioni,
interpretazioni, gesti simbolici: come lanciare nell’acqua sassi o
pezzetti di legno, per indicare che si gettano via i peccati, perché
l’acqua se li porti via.

«Nel rito
del battesimo – spiega padre Mena – la rinuncia a Satana e alle sue
seduzioni e la professione di fede si traducono in impegni concreti e
comunitari: no alle bevande alcornoliche e ubriachezza; sì al rispetto della
persona, al lavoro e aiuto reciproco; fedeltà nei doveri comunitari e
nell’impegno missionario, per comunicare agli altri la propria fede. Il
prete non ha bisogno di fare tante prediche; ci pensano i genitori, capi,
animatori, catechisti a dare consigli, fare raccomandazioni ai
battezzandi, ed esortare gli adulti a dare il buon esempio».

In questo
processo di crescita nello spirito e impegno comunitari anche i missionari
e loro ospiti sono chiamati a dare il buon esempio. Posso giurare che nei
giorni passati nella riserva indigena non ho visto neppure una birretta.

box 1


Glossario

box 2


Con il fiato
sospeso

i fatti
degli ultimi mesi

Novembre
2000 – Ruspe dell’esercito raggiungono Uiramutã e cominciano a spianare il
terreno per la caserma: una collinetta accanto alle case macuxí, separata
da esse solo dalla strada verso il villaggio. Avvalendosi dei militari, il
prefetto Venceslau Braz fa spianare un altro luogo nel villaggio, per
costruire un campo di calcio. Gli indios ne impediscono l’uso.

Dicembre
2000 – Orlando Pereira, leader di Uiramutã, e Jacir De Souza, cornordinatore
indigeno della regione delle montagne, a nome delle comunità, richiedono
alla giustizia di proibire la costruzione della caserma.

3 gennaio
2001 – Il giudice federale di Roraima, Helder Girão Barreto, dà parere
favorevole alla sospensione dei lavori. Il giudice considera infondata
l’argomentazione che l’opera è necessaria per la sovranità nazionale,
ricordando che la sovranità («concetto antico e abusato») non è
compromessa in alcun modo con la demarcazione delle terre indigene.
Secondo Girão, la vicinanza della caserma metterebbe a rischio
l’organizzazione sociale, i costumi, le lingue, credenze e tradizioni dei
popoli indigeni, «in netto contrasto con l’articolo 231 della
Costituzione».

18 gennaio
2001 – Il generale Claudimar N. Magalhães, comandante della prima brigata
della selva, reagisce alla sentenza del giudice federale: organizza in
loco una visita di autorità per ascoltare le parti coinvolte, cercare
l’appoggio degli indios e dimostrare l’inesistenza di un conflitto con
loro. I capi, legati al Consiglio indigeno di Roraima (Cir), e la
Fondazione nazionale per l’indio (Funai) non sono invitati. Gli unici
indios presenti sono quelli che appoggiano la suddivisione delle terre da
parte del governo.

26 gennaio
2001 – Capi macuxí organizzano a Uiramutã un incontro con le autorità
statali e federali per discutere dove costruire la caserma. I militari non
vi partecipano, perché «tutto è già stato verificato il giorno 18 e
nient’altro può più essere fatto».

31 gennaio
2001 – Il giudice Feando T. Neto, presidente del tribunale regionale
federale della prima regione di Brasilia, accoglie la richiesta
dell’Avvocatura generale dell’unione contro la sentenza di sospensione dei
lavori. I militari possono ricominciare a ricostruire la caserma.
L’Avvocatura sostiene il leader Pereira e il cornordinatore De Souza non
avevano legittimità nella loro iniziativa, non avendo dimostrato di
appartenere al villaggio. Ma la contestazione è infondata, perché si basa
solo sulle carte d’identità rilasciate a Boa Vista e non considera il
riconoscimento della Funai, secondo la quale i due sono registrati come
dirigenti della comunità e della regione.

5 febbraio
2001 – Neto ritorna sui suoi passi e sospende la decisione del 31 gennaio.
Il giudice decreta che «l’esercito brasiliano e la comunità indigena,
entro 15 giorni, si riuniscano per trovare un’area che sia strategicamente
favorevole alla vigilanza dell’esercito, ma che non sia nel villaggio
degli indios, restando ad una distanza che non comprometta questi ultimi».
La decisione è presa in seguito al ricorso di Deborah Duprat, procuratrice
del Ministero pubblico federale di Brasilia.

5-8
febbraio 2001 – Circa 400 capi di varie etnie si riuniscono a Pium (Roraima)
per la loro XXX Assemblea generale annuale: inviano un documento al
presidente della Repubblica, ai ministri di Giustizia, Ambiente e Difesa,
al presidente della Funai e ai procuratori del Ministero pubblico
federale, chiedendo che i loro diritti, riconosciuti dalla Costituzione,
siano rispettati: soprattutto la omologazione immediata delle terre;
specie Raposa Serra do Sol, minacciata dall’invasione dei risicoltori, dal
Parco nazionale del Monte Roraima e dal municipio di Uiramutã. Inoltre il
documento si appella affinché non siano costruite nuove basi militari fra
i yanomami. Ve ne sono già tre (Awauris, Surucucus e Maturacá) e una
quarta è prevista a Ericó. Pure a Raposa Serra do Sol vi sono due basi
militari.

15
febbraio 2001 – L’Avvocatura annuncia alla stampa che si appellerà contro
Neto, presidente del Tribunale regionale federale della prima regione, che
impedisce a Uiramutã la costruzione della caserma del sesto battaglione di
frontiera a Raposa Serra do Sol (Folha de São Paulo 15/02/2001).

21
febbraio 2001 – Autorità giudiziarie, militari e politiche visitano
Uiramutã su invito del Comando militare dell’Amazzonia, quando già è
scaduto il tempo, stabil

Benedetto Bellesi Carlo Miglietta




Lettere: cari missionari


Soldi…
coltello

Caro
direttore,


complimenti per il dossier «Soldi e missione» (Missioni Consolata, aprile
2001). Alla luce di quanto è stato scritto, faccio alcune considerazioni.

n Dopo il
fallimento dei programmi di cooperazione governativa e i processi di «mani
pulite» contro la corruzione, molte nazioni dell’occidente (specialmente
del Nordeuropa) inseguono i missionari nel destinare i fondi per lo
sviluppo nel sud del mondo: perché i missionari vivono con la gente, ne
parlano la lingua e conoscono la mentalità, non riscuotono salari e,
anche, salvano la faccia dei paesi donatori facendo sì che i soldi
arrivino veramente ai poveri. Circa i 1.900 miliardi di lire destinati
dall’Italia al terzo mondo, Giorgio Torelli, nel suo libro Baba Camillo,
affermava che i denari sarebbero stati spesi meglio attraverso i
missionari. Invece che fine hanno fatto?

n Anch’io,
come scrive padre Eesto Viscardi, autore del dossier, non ho mai capito
perché sia sempre complicato reperire soldi per erigere una cappella… e
non per un allevamento di animali. Ancora più sconcertante è che, quando
negli anni ’90 ero missionario in Uganda, varie associazioni cattoliche
europee (nonché il mio istituto) hanno negato i denari per completare una
cappella in costruzione dal 1972. È stata un’organizzazione luterana della
Svezia che mi ha aiutato a terminare l’opera!

n Non c’è
dubbio che gli italiani, di fronte ai problemi missionari, sono un popolo
generoso, se non il più generoso. Lo dico da canadese (che ha anche il
passaporto italiano). La generosità è da lodare sia per quantità che per
qualità. Gli aiuti italiani sono veramente «cattolici», cioè universali,
senza frontiere e condizioni.

n La
provvidenza ci mette a disposizione cospicue somme di denaro, frutto di
rinunce di tante persone semplici, spesso di condizione modesta. Mi
chiedo, come missionario, se sono degno di ricevere i frutti di tanta
bontà. I soldi sono come un coltello… che si può usare per spalmare il
burro sul pane o ammazzare qualcuno.

n Noi
missionari della Consolata dobbiamo essere amministratori trasparenti;
dobbiamo essere pronti ad aprire i libri di contabilità ad ogni persona e
a qualsiasi ora; soprattutto dobbiamo ricordarci che quanto ci è stato
donato non è nostro, ma dei poveri, e che dobbiamo avere uno stile di vita
semplice e sobrio.

p. Marco
Bagnarol

Cacém
(Portogallo)

Il beato
Giuseppe Allamano ricordava ai suoi missionari: «Non dimenticate mai che
le offerte sono frutto dei sacrifici dei benefattori e richiedono non solo
che preghiamo per loro, ma soprattutto che ai loro sacrifici
corrispondiamo con qualche sacrificio… Quando leggo l’elenco delle
offerte sulla rivista, vi assicuro che faccio una vera meditazione…
Quelle cifre sono lacrime, sono sangue!».

Per
ragioni di riconoscenza e trasparenza, da 103 anni la nostra rivista
pubblica l’ammontare delle offerte ricevute.


Claudia… e
le tigri!


Spettabile redazione,

un «bravo»
a Claudia Caramanti per i reportages da Armenia, Georgia, Turkmenistan e
Uzbekistan. Oltre ai testi, ho apprezzato pure le foto.

Penso, in
particolare, alla madrasa «sher dor» di Samarcanda, con le bellissime
tigri stilizzate: un tesoro dell’arte islamica. Abituati a vedere i grandi
felini dalla televisione (ossia nelle vesti di dominatori delle savane
africane e delle giungle indiane), forse non tutti sappiamo o ricordiamo
che, allo stato naturale, le tigri sono esistite anche in Asia occidentale
e centrale; se oggi sono scomparse da questa enorme area, ciò non è dipeso
dal normale processo evolutivo.

Fino a non
molti decenni fa, una frazione importante delle oltre 100 mila tigri
dell’Asia viveva proprio nelle tugaji, che si estendevano tra Dusanbe e
Tashkent, tra Bukhara e Samarcanda, tra Ashkabad e Teheran, ed erano
presenti anche in Azerbaigian, Georgia e Armenia (Varrone Reatino, nella
sua grammatica, scrive che «tigre» è una parola di origine armena…).

Se oggi le
uniche tigri visibili sono quelle di Sher Dor, il colpevole è solo
l’egoismo dell’uomo che, oltre a sterminare i grandi caivori per
trasformarli in pregiate pellicce e prestigiosi trofei, ha degradato gli
ecosistemi, togliendo spazi vitali a tanti erbivori, agli uccelli e
persino ai pesci.

Questi
territori, per decenni, sono stati controllati da partiti comunisti in un
regime che si è fregiato di «Unione delle repubbliche socialiste
sovietiche». Ma il modo con cui i burocrati locali hanno massacrato i
bacini del Caspio, Aral, Amu Darya e Syr Darya, ha nulla da invidiare a
quello del capitalismo ecocida presente e passato. E, se neppure gli
autori del libro nero sul comunismo hanno speso una parola per denunciare
questo crimine, ciò non significa che l’impatto sia stato meno devastante:
vite umane sacrificate, profughi, mancanza di prospettive per le future
generazioni.

Nelle
città e campagne intorno a quello che un tempo era il pescosissimo Mare
Aral, la mortalità prenatale e infantile è quattro volte superiore a
quella (peraltro drammatica) registrata nell’ex Urss europeo.

Spero che
pubblichiate altri servizi su questa regione, senza dimenticare l’Asia
centrale non sovietica. Anche qui il business del petrolio, la
sperimentazione nucleare, un’agricoltura volta solo a incrementare i
profitti delle mafie del cotone, tabacco, e oppio… hanno provocato dei
danni irreparabili. Penso ai bacini dell’Ili e Tarim, all’antica Zungaria,
al sistema di laghetti del Lop-nor, descritto dal grande esploratore
svedese S. A. Hedin.

Fino a
50-60 anni fa, anche questa era terra di tigri e uomini che sapevano
valorizzarla vivendo in equilibrio con tutte le specie animali. Oggi Tigri
Lop-nor è solo il nome di un movimento indipendentista e terroristico, che
lotta per sottrarre il Turkestan cinese (con forte presenza islamica) alle
prepotenze di regime di Pechino e al suo piano di omologazione culturale.
Un piano che non prevede spazi vivibili per le minoranze etniche e
religiose.

Ave
Baldassarretti

Fano (PS)

Grazie di
questa lettera, con in calce anche un’abbondante bibliografia da
consultare… Intanto l’amico-lettore si «goda», su questo numero, un
altro reportage della nostra collaboratrice Claudia Caramanti: questa
volta dal Pakistan (vedi pp. 52-59).


Non
perderti…

nella
corsa consumistica e materialistica, per inventare un modo diverso di
trascorrere il tempo libero, lo svago o qualcosa che ti realizzi: la
passione per il divertimento, il computer, le auto… Basta essere piccoli
volontari dell’amore in ogni occasione che capita.

Non avere
paura o riluttanza nel privarti di una parte del tempo (anche nei luoghi
di lavoro, se è possibile) per donare qualcosa. A volte basta un piccolo
gesto per accendere un sorriso.

Prova a
privarti di qualche bene personale, per andare incontro alle necessità
altrui (non solo economiche, di salute o lavoro), ricordando le parole di
Gesù: «Chi vuole essere il più grande sia il servo di tutti… Ciò che fai
al più piccolo dei fratelli lo fai al Signore stesso».

Massimo
Piermattei

(via
«e-mail»)



L’«incompiuta» dell’anno santo…

Caro
direttore,

da mesi le
celebrazioni dell’anno santo sono finite nella tomba dell’oblio. Io però
sento ancora, nelle mie orecchie, le promesse d’uguaglianza e giustizia
tra i popoli, promesse fatte da Dio come frutto dell’anno della
riconciliazione.

Fossi
stato io papa, la notte di natale 1999, al momento di aprire la porta
santa (ma può una porta essere «santa»?), mentre le videocamere e tutti i
mezzi di comunicazione erano puntati sul pontefice, mi sarei girato verso
di loro e avrei proclamato ai quattro venti: «Il papa non aprirà nessuna
porta santa, finché i paesi ricchi non avranno assunto un serio impegno di
condonare il debito ai paesi in via di sviluppo, e finché non saranno
varate leggi alle Nazioni Unite per risolvere il problema della fame nel
mondo. Buona notte!…».

Oggi, nel
sonnolento dopo-pranzo, dò un’occhiata a diversi giornali e riviste.
Constato che, dopo ben 18 mesi dal proclama al mondo di un anno speciale,
propizio alla concordia, ad accorciare le distanze tra i popoli e a
diminuire le differenze tra ricchi e poveri, non ci sono grandi risultati.

Anzi, i
milioni di poveri, che muoiono ogni anno per fame o malattie causate da
essa, continuano ad aumentare. Aumentano guerre e conflitti, armati o
meno. Non è diminuita l’intolleranza verso lo straniero, e i disadattati
sono in costante incremento.

Non dubito
che, nell’anno santo, ci siano state delle conversioni personali e persino
comunitarie (le seconde, però, molto scarse). Queste santificano la chiesa
e la rendono migliore dal di dentro.

Io, però,
mi sarei aspettato pure qualche gesto esterno da parte della nostra chiesa
ufficiale. Magari una parola di speranza per il ritorno degli oltre 25
mila preti, tagliati fuori per decreto dal ministero perché hanno scelto
il matrimonio. Oppure dei passi significativi verso l’accettazione della
donna in qualche ministero ecclesiale, verso il suo inserimento effettivo
in cariche importanti, come avviene nella politica.

Non
sarebbe stata bella qualche mozione per una maggiore democrazia
all’interno della chiesa?

Non vi
sarebbe piaciuto che alla teologia della liberazione, relegata nell’ombra
della dimenticanza, fosse stato dato un colpetto d’incoraggiamento sulla
schiena? Sarebbe poi tanto male renderla ancora viva in una chiesa che, la
domenica mattina, sbadiglia durante le monotone prediche di numerosi
sacerdoti?

Come
sarebbe stato bello, per me e forse per tanti altri, vedere alcuni nostri
inamidati e «grandi della chiesa», a capo di dicasteri romani, sorridere
un po’ ai teologi condannati per motivi anche giusti, ma senz’altro
suscettibili di tolleranza. Non era, forse, l’anno della riconciliazione?
Quanto avremmo apprezzato un abbraccio tra il teologo ritenuto avanzato e
il rigido censore! Il tutto magari trasmesso per tivù all’intero mondo:
una riconciliazione globale!

Mi sarei
pure aspettato qualche passo in più verso l’unificazione delle chiese.

L’anno
santo è servito a molte entità (tutte del nord) per ingrossare i loro
conti in banca. A me sembra di ricordare che, agli inizi degli anni ’70,
un dotto papa aveva scritto che «l’aumento della ricchezza nei paesi
sviluppati dipende direttamente dall’impoverimento di quelli in via di
sviluppo». Ebbene, l’anno santo ha pure aumentato la povertà del Terzo
mondo?

Se oggi
l’umanità non ha ancora risolto, tra gli altri, il gravissimo problema
dell’equa distribuzione della ricchezza(e non si vedono soluzioni né a
corta né a lunga scadenza), ditemi voi a che cosa è servito questo
benedetto anno santo?

Il re è
veramente nudo!


Lettera firmata


Addis Abeba (Etiopia)

Il 6
gennaio 2001 si è concluso il giubileo del 2000. In tale occasione
Giovanni Paolo II, con la lettera apostolica Novo millennio ineunte, ha
tracciato un bilancio dell’evento. Tra i fatti significativi si ricordano:
la richiesta di perdono, il raduno dei giovani e l’incontro con i
carcerati, il pellegrinaggio in «terra santa», l’«apertura ecumenica» di
una porta santa (compiuta dal papa, dal primate anglicano e da un
metropolita del patriarcato di Costantinopoli), l’impegno per il condono
del debito estero dei paesi poveri, la riaffermazione della scelta
preferenziale dei bisognosi.

La lettera
«punta in alto» ricordando anche le sfide del futuro: il dissesto
ecologico, i problemi della pace, il vilipendio dei diritti umani, le
biotecnologie (con i loro problemi etici) e, non ultimo, il dialogo
interreligioso… per evitare «lo spettro funesto delle guerre di
religione».

Questo (e
altro) rivelano che l’anno santo è rimasto «incompiuto».


L’auto…
missionaria

Egregio
direttore,

sono un
lettore un po’ anziano della sua rivista: mi interessano molti articoli.
Inoltre ho visto personalmente che cosa fanno in Etiopia i missionari
della Consolata: cose meravigliose! Però, spesso, non sono d’accordo con
le tesi estreme sostenute da Missioni Consolata.

È proprio
vero (vedi l’editoriale di aprile 2001) che «anche quando sono fermi…
tutti gli autoveicoli sono un monumento allo spreco»? Questo vale anche
per gli automezzi, senza i quali il missionario vedrebbe paurosamente
restringersi il suo campo d’azione? E se no, perché scriverlo?


ing. Edmondo Schmidt


Roma

Il signor
Schmidt continua a leggere Missioni Consolata, nonostante le divergenze di
opinione con la rivista. Questa è una testimonianza di pluralismo e
tolleranza, che apprezziamo molto.

Un
editoriale è anche provocatorio. In tale senso va colto lo scritto a cui
si riferisce il lettore, consapevoli che gli automezzi, oltre che
consumare, sono pure inquinanti.

Circa il
«nostro» uso dell’auto, vale il detto


«est modus in rebus».
Ma
il problema resta, anche per i missionari.


Il «nostro
genoma»


Felicitazioni per lo «straordinario» sul centenario dell’Istituto. Avete
usato il metodo degli archeologi: cioè avete scavato fra i vari «campioni»
della nostra famiglia, presentando un modo speciale di «fare missione». Le
figure che avete selezionato confermano la feconda radice del nostro
albero genealogico.

La
«memoria» della nostra storia non solo emoziona, ma stimola a conservarla,
obbliga a onorarla e incarnarla. Con umiltà e modestia, io, voi e molti
altri siamo tale storia, componiamo questa «epopea di Dio», senza rumore,
facendo bene il bene, fedeli al nostro genoma di missionari della
Consolata.

Il vostro
numero straordinario non è tutto l’Istituto e i suoi 100 anni. Però avete
saputo far vibrare il senso di appartenenza, tanto prezioso per noi
«anziani». Mi domando: saprà la generazione nuova bagnarsi nella «nostra
eredità»? Anche il metallo più vile, bagnato nell’oro, si trasforma!

Mi auguro
che i giovani missionari, appartenenti a varie culture, riconoscano con
giusto orgoglio «la roccia da cui siamo stati tagliati…». Voi, che cosa
avete provato dopo la fatica del numero speciale?

p.
Ermenegildo Crespi

Machagai
(Argentina)


«Fuori della chiese c’è salvezza»



PRENDERE O LASCIARE?

Il dossier
«L’alta teologia e il buon senso» (Missioni Consolata, gennaio 2001)
analizzava l’espressione «fuori della chiesa non c’è salvezza». Il dossier
era firmato da Igino Tubaldo, teologo e missionario. In aprile la rivista
ritornava sull’argomento con la puntualizzazione di Antonio Santucci,
vescovo di Trivento (CB), e la risposta di padre Tubaldo. Ora intervengono
anche tre lettori di Missioni Consolata.


Chiesa
«istituzione» e «corpo di Cristo»

A ppena ho
letto il «botta e risposta» tra il vescovo Santucci e il teologo Tubaldo,
mi sono venute in mente le parole di Dietrich Bonhoeffer: «La chiesa non è
un’associazione religiosa di adoratori di Cristo, bensì il Cristo che ha
preso forma tra gli uomini… Nel caso della chiesa, non si tratta di
religione, ma della forma di Cristo e del suo prendere forma in un gruppo
di uomini. Il fatto che solo una parte dell’umanità riconosca la forma del
proprio redentore è un mistero di cui non esiste spiegazione».

A questo
punto una nota del libro (da cui ho tratto la citazione) dice: «La
concezione che, anche indipendentemente dal fatto di essere “conosciuto”
dall’uomo, l’evento di Cristo riguardi tutti gli uomini, induce a pensare
all’idea del cristianesimo inconsapevole».

Prosegue
Bonhoeffer: «Dio diviene uomo significa che la forma di Cristo, per quanto
sia e rimanga una e identica, vuole tuttavia prendere forma in uomini
reali e cioè in maniere molto diverse».

Alla luce
di queste parole, non è che si faccia ancora confusione tra chiesa
«istituzione» e chiesa «corpo di Cristo»? Non è che l’eterna questione (se
vi sia o no salvezza fuori della chiesa) sia un non-senso o, almeno,
ampiamente superata?

Stefano Poli
– Zevio (VR)



Chiesa-gerarchia e Maria

Ho letto
le osservazioni del vescovo di Trivento e la risposta del teologo Tubaldo.
Seguendo le indicazioni di mons. Santucci, ho preso il Catechismo
universale e ho trovato la frase di san Cipriano: «Nessuno può avere Dio
per padre se non ha la chiesa per madre». Però, se stacchiamo la frase dal
contesto della tradizione cristiana basata sulle sacre scritture, la
mateità di Maria dove finisce?

Se Maria è
madre della chiesa, come ha riconosciuto il Concilio Vaticano II, questa
mateità è decisiva per la salvezza. Come fa a salvarsi una chiesa che
antepone «la mateità» della sua gerarchia a quella di Maria?

Se Cristo
avesse voluto affidare alla gerarchia ecclesiastica il compito di essere
madre dell’umanità, avrebbe forse fatto sì che ai piedi della croce
andasse Pietro, non sua madre. E non si sarebbe rivolto a Giovanni, unico
rappresentante di un nucleo gerarchico smarrito di fronte al potere di
altre gerarchie, dicendogli (indicando Maria): «Ecco tua madre!».

Sui
pericoli cui va incontro l’uomo quando baratta la vera pateità e
mateità con i loro surrogati, le sacre scritture dicono cose importanti:
ad esempio, quando a Gesù dicono che sua madre e i suoi fratelli lo stanno
cercando, Egli risponde: «Mia madre e i miei fratelli – risponde Gesù –
sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».
Inoltre quando, nella folla intorno a Gesù, una donna inneggia a «colei
che gli è madre», l’Interessato risponde: «Beati piuttosto chi ascolta la
parola di Dio e la custodisce».

Ogni
cristiano è chiamato a essere «madre di Cristo».

Francesco
Rondina – Fano (PS)


Affermano le
stesse cose

M i
permetto di interloquire nella «diatriba» tra Santucci e Tubaldo. Ritengo
che nella replica del missionario ci sia una presunzione di teologicità:
Tubaldo sostiene le stesse cose del vescovo, almeno per chi ha
interpretato nel giusto senso i documenti del Concilio.

Non vedo
la ragione di contrapporsi polemicamente, ribadendo gli stessi concetti.
Può creare sconcerto in chi ha a che fare con cristiani che non conoscono
più l’abbicidì della religione, e deve essere considerato un «missionario
interno»; per cui giustamente si preoccupa che le parole siano intese
bene, senza equivoci.

Però
riconosco la difficoltà dei missionari, costretti a confrontarsi con
popolazioni non cattoliche; capisco anche il fervore con cui si battono
per sostenere le proprie convinzioni e quelle di cristiani autentici, che
vogliono scuotere le coscienze. Forse viene loro meno la capacità di
comprendere il contesto in cui calano le parole, con effetti talvolta
negativi per la realtà che stiamo vivendo.

A tutti
sta a cuore l’affermarsi del regno di Dio nelle forme che il Signore
stabilisce, e tutti, come cristiani, dobbiamo dare testimonianza della
nostra fede. Manifesto il disagio per quanto ho letto, consapevole che
tutti dobbiamo pregare anche per i terremotati che muoiono senza aver
sentito parlare di Cristo, e così per tutti gli uomini, come credo faccia
ogni cristiano che sia tale. Un vero privilegio, peraltro, di cui non ci
si rende conto… io per primo.

Giannantonio
Grigolato, Crocetta del Montello (TV)

box2


Lettere di famiglia

Cari
missionari, faccio seguito all’offerta inviata a favore delle vostre
missioni per chiedere di ringraziare la Madonna, con le vostre preghiere e
quelle delle persone bisognose da voi beneficate, per le numerose grazie
da me ricevute in situazioni disperate.

Ho sentito
la forza della Consolata che, per ben due volte, ha liberato me e la mia
famiglia dal maligno. Questi «miracoli» sono avvenuti l’anno scorso, nel
mese di ottobre, mese dedicato proprio alle missioni.

Scusate
queste parole di una povera mamma.

mamma Angela
– Bari

Caro
direttore, questa volta, invece di un articolo, ti invio una semplice
foto. È un po’ sfocata, ma la ritengo abbastanza significativa. La si
potrebbe intitolare: «Amicizia kenyana-etiopica» (padre Nicholas Makau,
del Kenya, fra Marta e Meseret dell’Etiopia). Se non ti va, cestina tutto.

Sarà
possibile un futuro di pace e amicizia tra i diversi popoli e gruppi
etnici dell’Africa? Il Signore è il principe della pace. Ma ciò non
dispensa l’uomo dall’impegno.

fr. Vincenzo
Clerici – Addis Abeba (Etiopia)

Cari
missionari, mi sia concesso di ricordare il fratello Tonino, morto nel
1997 in Calabria, dopo aver vissuto tanti anni a Torino. Tutti dicevano
che era anche un missionario… Servendosi di lui, il Signore ha
convertito diverse persone.

Tonino era
pure innamorato della Madonna Consolata. Una volta (che ero a Torino) mi
chiese per telefono di rinnovargli l’abbonamento alla vostra rivista. Ora
la ricevo io e in agosto, se Dio vuole, verrò a Torino e rinnoverò ancora
l’abbonamento a Missioni Consolata.

Sto
scrivendo dal letto: soffro per una brutta cervicale e porto il collare.
Spero che passi. Altrimenti, «fiat voluntas tua…».

sr. Martina
Belvedere – Napoli

Tre
lettere di «famiglia» scritte quasi con pudore. O, meglio, con amore…
Nel libro dei Proverbi si legge: «Un piatto di verdura con amore è meglio
di un bue grasso con odio» (15, 5).

AAVV




ANCHE LUI DEVE QUADRARE

Torino, 27 aprile, ore
22,30. In Corso Ferrucci 14, ci imbattiamo in un

picciotto di Messina, un
toso di Padova, un guaglió di Napoli e un bagai di Como. Con
altri 230 camerati, partecipano al Convegno nazionale «Santità è missione»
dei seminaristi diocesani. Tutti sui 22-25 anni. A Torino, dal 26 al 29
aprile, sono ospiti dei missionari della Consolata, anche per celebrare
insieme i loro 100 anni di vita.


Il

picciotto ci domanda: «È
possibile far quadrare Dio?». Strabuzziamo gli occhi. Al che, il

guaglió racconta: «Oggi pomeriggio, dalle 15 alle 22, abbiamo percorso
il quadrilatero della santità». E il toso precisa:
«Abbiamo visitato i luoghi dove hanno operato quattro grandi personaggi:
il rondó della forca di Giuseppe Cafasso, l’oratorio di Giovanni Bosco, la
casa della provvidenza di Benedetto Cottolengo, il santuario della
Consolata di Giuseppe Allamano». «È questo il quadrilatero della santità»
conclude il
bagai.


Ed è così che, secondo il
quartetto, si può «far quadrare» anche Dio.

Ossia renderlo vicino,
interessato, operoso, alla portata di tutti, specialmente dei poveri.

Non distante e isolato sul Monte Kenya, come

Ngai dei kikuyu
tradizionali. Né chiuso in un tabeacolo, come una cassaforte o un
fortino.


Per far quadrare Dio
,
il Cafasso accompagnava al patibolo i condannati a morte: non solo li
incoraggiava, ma li rendeva persino felici di fronte ad una sorte infame.
Don Bosco giocava con i ragazzi più difficili e, soprattutto, li
coinvolgeva con grandi ideali. Il Cottolengo si chinava sugli ammalati,
per «lavare loro i piedi». L’Allamano «ha globalizzato un santuario buio e
stretto», per farci entrare e cantare anche i «pagani» e gli «incivili»
dell’Africa.



Globalizzare il santuario: è
un’altra originalissima espressione del quartetto seminaristico. Forse è
nata ascoltando Giovanni Paolo che, proprio durante il Convegno
missionario (il 27 aprile), è ritornato a parlare di globalizzazione. Il
fenomeno, a priori, non è né buono né cattivo. Sarà ciò che gli individui
ne faranno.


Qualcuno ne ha fatto
un’alleanza fra società
e dio-mercato, con sei comandamenti.


1. Non impedire la costruzione
del mercato mondiale. 2. Lascia che il mercato si autoregoli e aiutalo a
svincolarsi dallo stato. 3. Liberalizza.


4. Privatizza. 5. Sii
competitivo. 6. Non ostacolare l’espropriazione.


Sono comandamenti anche
pericolosi: rispondono troppo alla logica del profitto individuale.


Alla globalizzazione il papa
pone due limiti invalicabili:

la persona
,
fonte di ogni diritto e ordine sociale, nonché

il rispetto della diversità di
tutte le culture.

Comprese quelle nel sud del mondo. Altrimenti la globalizzazione è
colonialismo.



Francesco Beardi



Francesco Beardi




ADDIS ABEBA (ETIOPIA): bambini profughi, maratoneti in erba. UN PAESE… DI CORSA

Venti anni
fa, quando fui destinato alle missioni in Etiopia, sapevo poco di questo
paese. Furono gli amici, ferrati più di me nel tifo sportivo, che mi
diedero la prima conoscenza di questa nazione, identificando l’Etiopia con
Abbebe Bikila, l’atleta che, correndo a piedi scalzi, vinse la maratona
delle Olimpiadi di Roma nel 1960.

Oggi, a 40
anni di distanza, mi sono più che familiari i nomi di Hailé Ghebre
Selassié, Ghezahegn, Derartu Tullu, Million Wolde, Ghiete Wami, i podisti
che tengono alta la bandiera nazionale, come hanno fatto nelle recenti
Olimpiadi di Sydney in Australia. Il primo, Hailé Ghebre, è il più
popolare: il suo ritratto occupa l’intera parete di un alto edificio nel
centro di Addis Abeba.

Il giorno
che egli vinse i 10 mila metri a Sydney, davanti al kenyano Paul Tergat,
mi trovavo per commissioni immerso nel traffico del centro cittadino.
Improvvisamente, in pieno pomeriggio, un’auto accese i fari abbaglianti;
un’altra cominciò a suonare il clacson; altre si unirono al coro. La città
sembrava impazzita. Il traffico si fece più caotico e giornioso, anche se
assordante. In poco tempo tutta la città era in festa.

Queste
vittorie hanno dato un forte incremento a questo genere di sport in tutta
l’Etiopia. Da vari anni è normale vedere, al mattino prestissimo, quando
non c’è ancora traffico, numerosi giovani che corrono lungo l’arteria
principale della città, da piazza Mexico verso le zone più basse della
capitale. Sovente questi corridori in erba indossano tute variopinte di
nailon, che chiamano con un termine onomatopeico kesh-kesh, dal rumore
prodotto dalla stoffa al contatto con il vento.

Oggi, il
numero di coloro che praticano la corsa è aumentato anche nelle cittadine
di provincia. Studenti di tutte le età, ragazzi e ragazze, fanno di corsa
la strada che dal villaggio porta alla scuola, anche senza essere in
ritardo, e sfruttano il tempo libero per continuare l’allenamento.

C onfesso
che l’entusiasmo di quei giorni mi ha contagiato. È naturale. Dopo 20 anni
spesi in questo paese, in qualche occasione lo sento un poco mio. Ma non
avrei mai creduto che il contagio mi potesse spingere a correre anch’io.
Non per diventare un atleta: avrei dovuto iniziare molto prima della fine
del millennio! Ma non si sa mai, nella vita tutto torna utile.


L’occasione di fare un po’ di corsa mi fu offerta, un giorno, da alcuni
bambini, rifugiati dall’Eritrea, che dal 1992 vivono nel campo profughi di
Makanissa e frequentano il nostro oratorio. Sono Abùsh, un nanerottolo di
11 anni, molto forte e resistente, e sua sorella Kokòb (stella), maggiore
di due anni e un po’ più alta; Tighist (pazienza) 12 anni, vivace e
simpatica, e il fratello minore Walellìgn, anche lui nanerottolo, e la
loro tredicenne compagna Sinnàit.

Alla mia
età, mettermi a correre con dei bambini mi suonava un poco strano; ma
dovetti subito ricredermi: per loro non era una novità. Accettai la sfida.
Il pomeriggio del giorno seguente, dopo la scuola, si trovarono tutti
puntuali davanti al nostro seminario in «tenuta sportiva». Si fa per dire.

Le tute da
bambino sono comuni anche tra i rifugiati, ma non è detto che siano nuove
fiammanti. Abùsh aveva una tuta scolorita e calzava un paio di scarpe di
cuoio più grandi dei suoi piedi, ereditate da qualche parente. La divisa
di Tighist era spaiata: maglietta bianca, pantaloni di nailon, entrambi
piuttosto malandati, e senza scarpe. Kokòb era più o meno nelle stesse
condizioni di Tighist. Anche Sinnàit era scalza.

Da
Makanissa, periferia della capitale, prendemmo la direzione delle colline
che circondano Addis Abeba. In cinque minuti di corsa siamo fuori città,
tra campi aperti e aria pura. Cerco di moderare la loro velocità e imporre
il ritmo, in modo che respirazione e movimenti si armonizzino, ci si
stanchi meno e si gusti l’esercizio fisico.

Abùsh va
perfettamente d’accordo col ritmo imposto; Tighist rimane indietro, oppure
accelera e abbina alla corsa altri esercizi, visti probabilmente nei campi
sportivi, come flessioni del busto, movimenti e roteazioni delle
braccia… Un’ora dopo siamo tutti di ritorno.

Da parte
mia, mi prendo qualche giorno di assoluto riposo da esercizi sportivi; poi
ripartiamo nuovamente. Questa volta c’è più organizzazione: appare qualche
paio di scarpe nuove da ginnastica, una maglietta fiammante. Anche il
livello tecnico è migliorato. In un batter d’occhio siamo ai piedi delle
colline, pur rallentando ogni tanto o procedendo al passo. Azzardiamo una
specie di competizione negli ultimi tre chilometri: bravo Abùsh! Di fiato
ne hai da vendere. Bravi anche gli altri, che arrivano con mezzo minuto di
scarto.

Ai piedi
delle colline c’è un villaggio tradizionale; una casa di campagna vecchio
stile, un vitello nel cortile, due cani, galline che razzolano per strada.
È la casa di Netzannèt. Questa ragazza mi venne incontro, una volta,
mentre passavo in quella zona con un confratello missionario. Non
conoscendo le sue intenzioni, pensai subito che volesse chiedere aiuto,
come succede spesso da queste parti, quando la gente ti si avvicina.
Cercai di evitarla, con una breve corsa verso il prato, per non dovere
ascoltare i soliti piagnistei. Ma mi ero sbagliato. Netzannèt voleva solo
scambiare con noi quattro chiacchiere in inglese. Questa lingua è
insegnata a scuola, ma gli studenti non hanno possibilità di praticarla.
Ci disse che recentemente aveva vinto i 1.500 metri della sua categoria in
una competizione regionale. È la seconda volta che la incontro. Netzannèt
si mostra molto gentile:  vuole preparare il tè per il nostro gruppetto di
podisti. Purtroppo dobbiamo rifiutare: il sole sta per tramontare e
dobbiamo rientrare prima che faccia  buio.

La gente,
al vederci correre veloci, guarda sorpresa e incuriosita. Qualcuno batte
le mani o grida «bravo!». Il termine, conosciuto anche in Etiopia, è
invariabile, vale per il maschile e femminile, singolare e plurale.

Siamo
quasi a casa. Tighist, rimasta un poco indietro, scatta davanti a tutti.
Qualche passante le grida: «Derartu!», nome della campionessa olimpionica
dei 10 mila metri. Quel grido fa piacere anche a me. Per la rifugiata
dodicenne, oltre che incoraggiamento, suona come augurio per un futuro più
fortunato.

Vincenzo Clerci




Lettere: cari missionari


Che significa «gonzo»?


Spettabile redazione,

vi
ringrazio di aver pubblicato la mia lettera (Missioni Consolata, marzo
2001). Mi dispiace solo che, con i tagli (anche se condivisibili), il tono
generale della lettera (che era aspro ma fraterno) sia apparso ostile.
Però le parole forti usate (ho dato del «gonzo» a chi odia Berlusconi) non
mi suonano come insulti, ma il linguaggio colorito di due persone che
parlano animosamente, ma vogliono senz’altro intendersi.

In un
contesto più formale confermo l’aggettivo: sono fortemente convinto che
sia gonzo chi, qui e oggi, nel panorama politico italiano e con la storia
recente che abbiamo (i grandi ideali periti miseramente; il grande partito
moderato che, all’ombra del cattolicesimo militante, ha fatto il bello e
cattivo tempo; la parabola craxista…), si senta di amare a rotta di
collo chicchessia e di odiare il suo antagonista.

Mi fa
ridere (cioè pena) chi oggi amasse acriticamente Berlusconi o Fini e
odiasse Veltroni o Rutelli. Criticare, parodiare, avversare,
simpatizzare… senz’altro. Ma odiare è da gonzi (è assai pericoloso,
specie considerando il pulpito da cui si parla).

Non ho
capito, nel vostro commento, il «distinguo» tra gli applausi al papa e
quelli a Berlusconi nel Meeting di Rimini. È naturale che «una cosa è la
dottrina sociale del papa, un’altra quella del cavaliere» (ci manca solo
che al Berlusca gli si faccia fare anche il papa). A me pare che
l’applauso di Rimini dimostri che i miei argomenti non erano fuori tema…
Sono contento che abbiate stimolato il dibattito, specie fra i cattolici.


Luigi Fressoia
Perugia

A
proposito di «gonzo», Il vocabolario della lingua italiana di G. Devoto e
G.C. Oli recita: «persona tarda e stupida (anche come epiteto
ingiurioso)».

Tutti
mercanti


Egregio direttore,


intervengo nel dibattito aperto dai signori L. Fressoia e L. Trobbiani sul
numero di marzo. In molti casi ormai non c’è più distinzione tra destra e
sinistra.

Ho
sempre votato a sinistra; ma ho visto sussiegosi politici sorridere e
ridere all’affermazione che «la sinistra dovrebbe difendere i poveri».
Ingenuità imperdonabile vero? Ora siamo tutti liberi mercanti. Che
amarezza!


Francesco Benegiamo
Galatina (LE)


Nell’amarezza del lettore scorgiamo anche un positivo senso di rivolta.


Ipocrisia «armata»

Signor
direttore,

la
lettera del signor Fressoia è molto discutibile, specialmente quando
afferma che la ricchezza economica favorisce la maturazione sociale e
culturale. I soldi non hanno certo fatto maturare molto la nostra epoca.
Parecchi – è vero – posseggono un buon conto in banca. Ma è «maturazione
sociale e culturale»?

Quanto
al terzo mondo, non facciamo gli ipocriti! In Africa impazzano dittatori
rozzi e armati fino ai denti. Ma chi vende loro armi e non pasta? Sono
anche personaggi di fabbriche italiane, eleganti, pacati, persino con
parole da «vangelo». E qui mi incavolo, perché se vogliamo eliminare le
guerre, dobbiamo prima smettere di costruire armi. Invece, nel mercato
libero della globalizzazione…

La
verità è che i dittatori dell’Africa o dei Balcani stanno al gioco di
altri dittatori: dittatori veri, che il signor Fressoia tende ad esaltare.
Gli Stati Uniti e l’Europa ne sono pieni.


L’Africa vanta un sottosuolo ricchissimo, eppure annaspa fra mille
problemi. Allora non sempre la ricchezza fa ricchezza. Un problema di
fondo è pure il clima. Non per niente, in genere, i paesi più
industrializzati godono di buone condizioni climatiche. Se l’Europa avesse
il clima del Sudan, non ci sarebbero Agnelli e Berlusconi che tengano. E,
dinanzi a siccità e uragani, la nostra fatica quotidiana conterebbe zero.


Alessandro B.
Modena

Nel 2000
l’Italia ha esportato armamenti per 1.658 miliardi di lire. Fra le armi
non scordi quelle leggere. Uccidono una persona ogni due minuti: 300 mila
vittime all’anno. Nel 1999 è stato di 600 miliardi il nostro profitto
delle armi leggere. La legge 185 del 1990 impone restrizioni, ma…
l’Italia è terza al mondo in questa «specialità».

Un
tesserato della… speranza

Signor
direttore,

sono
stupefatto nel leggere, oltre ad ascoltare, di tante persone che
descrivono Berlusconi come un alfiere della libertà e del progresso.
Costoro alimentano una confusione terribile tra «liberalismo» e
«neoliberalismo».


Innanzitutto una precisazione doverosa, per evitare ulteriori confusioni e
distinguere in maniera chiara in quali «acque stiamo nuotando».

Il
liberalismo nasce come un fenomeno di emancipazione (della borghesia), con
un senso di libertà e progresso di fronte alla monarchia assoluta e al
feudalesimo. Invece il neoliberalismo non si afferma contro un governo
reazionario, ma ha un forte sentimento di conservazione, rifiuta la
politica come qualcosa di sporco e, soprattutto, domina il grande
capitale.

Anche
il tratto psicologico è diverso: rispetto alla società del liberalismo, in
quella del neoliberalismo c’è ansietà, paura di quelli che vivono in
«basso» e si difende la propria nicchia di benessere. A tale proposito, lo
studioso tedesco E. Fromm diceva che esistono solo due grandi partiti
nella storia: quello della speranza e quello della paura. Nel primo le
persone lottano per un futuro migliore dell’umanità, rifiutano lo status
quo e il sistema vigente perché non lo considerano umano. Le persone del
partito della paura, invece, cercano rifugio nel passato, nelle nicchie
dove possono proteggersi di fronte ad un futuro che non conoscono.

A mio
avviso, stiamo vivendo in un periodo di oscurantismo culturale, sociale ed
economico chiamato neoliberalismo, che ha ereditato troppo poco dal
liberalismo. Questo sistema è capeggiato a livello internazionale dalla
Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione
mondiale per il commercio. In Italia il suo degno rappresentante politico
si chiama Silvio Berlusconi, leader del «partito della paura».


Intendiamoci: non considero Berlusconi un’appendice nazionale delle
organizzazioni mondiali menzionate, bensì il prodotto della loro cultura
e, in particolare, di coloro che danno dignità e rappresentanza al partito
della paura descritto da Fromm. Perché?

Perché
si auspica che la competizione di mercato possa regolare tutti i rapporti
economico-sociali, escludendo ogni forma di mediazione che metta in
contrasto con il «Dio denaro» e il «Dio successo».

In Perù
ho assistito all’instaurazione del regime neoliberalista di Alberto
Fujimori, che della paura fece il partito della farsa e dell’inganno. Ho
anche visto, a causa delle privatizzazioni selvagge, le scuole
trasformarsi in privilegio per pochi e gli ospedali diventare un business
per i più facoltosi, anziché rappresentare un diritto e un patrimonio
sociale collettivo. Infine ho costatato che la precarietà di ogni giorno
può, nei soggetti deboli, cambiare i rapporti fra le persone, la cui
regola di vita diventa il peggiore individualismo, sinonimo di paura.


Personalmente mi considero un tesserato del «partito della speranza» e
spero di essere in numerosa compagnia con tanti lettori di Missioni
Consolata, affinché i «partiti della paura» siano sconfitti nelle prossime
elezioni.


Gabriele Vaccaro
Comiso (RG)

Ai
vincitori delle ultime elezioni ci permettiamo, con il signor Gabriele
Vaccaro, di rivolgere un invito.

«Per
vincere “il partito della paura”, si deve rompere con l’individualismo
neoliberalista, e cioè: aprirsi alla solidarietà, passare da un mondo che
ha il suo epicentro nell’“io” ad uno che parta dall’“altro”. Un “io” che
si riscopra di fronte all’altro, dando priorità a una relazione che
permetta di rivendicare la propria libertà, ma che non esiga la
subordinazione degli altri».

Cresciuta
con… voi

Cari
missionari,

ho
letto per anni la vostra stupenda rivista. Come docente, mi sono
professionalmente formata leggendola. In seguito al mio trasferimento da
Palagrano (TA) a Capurso (BA), da quest’anno non mi arriva più. Sono
dispiaciuta; ci terrei tanto a riceverla ancora.

Vi
mando anche una foto della nostra bimba, Françoise Anna, nata un anno fa
dall’incontro di due «razze»: una vera rappresentante del terzo millennio,
l’era multirazziale.


Immacolata Antonacci
Capurso (BA)

Eccola
Françoise Anna! Presto imparerà a leggere anche Missioni Consolata, in
compagnia dei genitori.


Padre Giovanni Milo

Caro
direttore,

sono un
fratello di padre Giovanni Milo, tragicamente scomparso di recente e di
cui, penso, siate a conoscenza. A nome di mia madre, affranta ancora da
profondo dolore e dei familiari tutti, ringrazio sentitamente per quanto
avete fatto per lui.

So che
padre Giovanni era molto legato ai missionari della Consolata e l’ha
dimostrato sempre e in ogni modo. Nell’esaminare la sua documentazione, ho
riscontrato che ha stipulato cinque polizze-vita presso una banca del
luogo, il cui beneficiario è l’Istituto Missioni Consolata. E questo
nell’ultimo mese, prima di morire, quasi come un segno premonitore.

Accludo
anche copia di uno scritto in forma poetica, indirizzato a padre
Giovanni, che meglio sintetizza e descrive la sua figura, nella speranza
che voglia pubblicarlo sulla sua rivista.

Michele
Milo
Patù (LE)


Eri il
vincastro
di nostro Signore
a tutti additavi
la strada priore,
eri severo
da confessore
ma, a chi pentito,
donavi il tuo cuore.
Sei stato per noi gran testimone cristiano
di sagge parole
e molto umano,
avevi per tutti
un sincero sorriso
e proseguivi con
la saggezza sul viso.
Le tue omelie
scavavan la mente
d’ogni fedele
che era presente,
eran penetranti
le tue parole,
che scuotevan
la coscienza
e arrivavan al cuore.
Una volta affermasti, spiegando il Vangelo,
a chi pensa:


«C’è tempo
per le cose del cielo,


Dio vuol la
primizia


e non i
miseri resti».


Io rimasi
colpito


di quanto
dicesti.


Or hai
lasciato



tragicamente


questa vita
terrena



improvvisamente.


Nella tua
vita,


primizia tu
hai dato


e colmo
d’amore


a Dio sei
arrivato.



Francesco Petracca

Nessuno
sconto

alle
mine antiuomo

Caro
direttore,

mi
riconosco in pieno nell’appello di Massimo Veneziano (Missioni Consolata,
marzo 2001): «Facciamo guerra alla guerra!». Le mine antiuomo e le bombe
cluster sono diverse solo nel nome, non negli effetti sulle popolazioni,
sull’agricoltura, sull’ambiente, compreso quello marino (come hanno
dimostrato gli ultimi inquietanti episodi nell’Adriatico).

Non
dimentichiamo che, come è già avvenuto nel recente passato, le aziende
produttrici di mine sono più vive che mai: è il caso della Società
Esplosivi Industriali (SEI) di Ghedi che, aggirando la legge 22/10/1997,
nota anche come Legge Antimine o Legge Occhetto, sta per realizzare un
nuovo impianto a Domusnovas (Cagliari): intende costruire «una linea di
ordigni militari da destinare al mercato mondiale».

Uniamo
dunque la nostra voce a quella del vescovo di Iglesias, Tarcisio Pillolla,
che rifiuta la retorica vigliacca dell’industria diversificata, portatrice
(si dice) di lavoro per i giovani e di sviluppo per il territorio locale.
Ribelliamoci a chi, come la Regione Sardegna, sembra disponibile a
incoraggiare l’impresa con denaro pubblico.

Non
dimentichiamo l’appello alla pace e alla riconversione vera (non truccata)
dell’industria bellica, che un altro vescovo, Bruno Foresti, lanciò ai
funerali di Giuseppe Bignotti, Dario Cattina e Franco Sentimenti, uccisi
il 22/8/96 dall’esplosione del capannone per la lavorazione delle bombe MK
82 di proprietà della SEI.

È stata
proprio la SEI a provvedere al caricamento degli stampi della Valsella
Meccanotecnica di Castenedolo, con migliaia di schegge (vetro, plastica e
metalli vari), tanto minute quanto devastanti, disseminate a milioni in
decine di paesi e in grado di colpire indiscriminatamente uomini e
animali, militari e civili, donne che lavorano nei campi e bambini che
giocano in cortile. E, in un numero non trascurabile, anche volontari che
portano soccorso alle vittime e sminatori impegnati nell’ingrato compito
della bonifica.


Rispettiamo le atroci sofferenze di Tonina Cordedda, bambina di 9 anni di
Nughedu San Nicolò, che nel 1973 incappò in un ordigno antipersona
(probabilmente un residuato della seconda guerra mondiale) perdendo occhi
e braccia.

La
costruzione di una nuova fabbrica di esplosivi militari in Sardegna, a
un’ora di macchina dal luogo dell’episodio che cambiò brutalmente la vita
di Tonina, sarebbe un cinismo imperdonabile.


Francesco Rondina


Fano (PS)

Varie
volte Missioni Consolata ha denunciato il business e le tragedie provocate
dalle mine antiuomo, senza concedere sconti.

La
verità è verità


Spettabile redazione,

ho
letto il «numero straordinario» sui 100 anni dei missionari della
Consolata. Nel 1936 la rivista Missioni Consolata esaltò il trionfo
dell’Italia in Etiopia. Ma oggi voi parlate di «aggressione da parte
dell’Italia fascista». Non voglio più ricevere la rivista.


Claudio Simonetti


Cumiana (TO)

Signor
Simonetti, il suo rifiuto della verità storica ci lascia perplessi.

cari
missionari box 1

Mau mau,
missionari della Consolata… e

La lettera
dell’«inafferrabile»

Ritengo
opportuna qualche osservazione sull’articolo di Missioni Consolata,
febbraio 2001, che presenta la travagliata lotta di liberazione dei mau
mau
in Kenya.

Il
direttore africano della Chinga Girls’ Secondary School, dove
insegnai come volontaria laica missionaria (1970-72), mi regalò il libro
Mau Mau General di Waruhiu Itote. È stato uno dei testi da cui ho
tratto i brani per l’antologia Un angolo d’Africa, che presenta «il
Kenya visto dai suoi scrittori». L’essere vissuta in zona mau mau,
ascoltando la storia scritta dai kikuyu, mi ha molto influenzata.
Con i dovuti «distinguo», ho paragonato la loro lotta di liberazione al
nostro risorgimento.

Invito a
leggere Un chicco di grano di Ngugi Wa Thiong’o, presentato su
Missioni Consolata
, giugno 1998. Scrivo: «Gikonyo e Mumbi,
protagonisti del romanzo, portano i nomi che la tradizione kikuyu
attribuisce ai progenitori della tribù e incarnano le sofferenze di un
popolo umiliato e oltraggiato dalla dominazione coloniale, diviso e
perseguitato durante l’emergenza mau mau, ma caparbio nel volere
conquistare libertà e dignità». Purtroppo la violenza genera sempre morte
e distruzione. Leggendo però le cifre al termine della rivolta, risultano
morti: mau mau 10 mila; lealisti 2 mila; forze governative 534;
europei 63; civili 32.

Come si
comportarono i missionari della Consolata in quel tempo? Durante il sinodo
della diocesi di Nyeri (1975-76), che mi vide impegnata come sociologa,
raccolsi molte testimonianze, redatte da gruppi di lavoro, sulla storia
della loro parrocchia. Ne cito alcune riportate nel mio libro Una
chiesa africana s’interroga. Cultura tradizionale kikuyu e cristianesimo
.

«Fra i
missionari citati dal 1904 al 1961, a Ruchu ricordano padre Francesco
Comoglio
come loro leader spirituale per tutto ciò che fece.
Durante l’emergenza mau mau aiutò in tutti i modi i cristiani,
anche coloro che erano in carcere. Battezzò moltissime persone e costruì
tantissime cappelle, malgrado fosse un periodo difficile, e dimostrò un
notevole coraggio».

«Padre
Bartolomeo Negro
fu parroco di Karima dal 1946 al 1955: attivo,
generoso, misericordioso, allegro, coraggioso e gentleman. Amò
amici e nemici. Aiutò chiunque avesse bisogno. Si acquistò le simpatie
della maggioranza della gente e tutte le scuole “protestanti”, chiuse
durante l’emergenza, furono riaperte grazie a lui».

«Nel 1954
la gente fu rinchiusa in villaggi. Padre Ottavio Sestero, aiutato
dalle suore, iniziò l’insegnamento del catechismo in ogni villaggio.
Grazie a tale notevole lavoro, la parrocchia mise radici ovunque. Padre
Sestero lavorava giorno e notte per conquistare i leaders che predicavano
contro la chiesa cattolica. Riuscì nel suo intento e divenne amico di
tutti, che iniziarono a rispettare i cattolici» (Kerugoya).

Allego
pure la lettera che il capo dei mau mau, Dedan Kimathi, scrisse a
padre Nicola Marino. La lettera, conservata a Roma nell’archivio
dell’Istituto Missioni Consolata, fu pubblicata nel maggio 1957 su
Wathiomo Mukinyu
, settimanale della diocesi di Nyeri.

Silvana
Bottignole – Torino

Ecco
la lettera di Dedan Kimathi, impiccato dagli inglesi. Una testimonianza
della misericordia di Dio e di fiducia verso i missionari.

Caro
Padre Marino, è circa l’una di notte e mi sono munito di matita e carta
per ricordare lei e tutti gli amici, prima che scocchi la mia ora. Sono
indaffarato e felice di andare in Cielo domani, 18 febbraio 1957.


Desidero farle sapere che padre Whellan venne a visitarmi in carcere, non
appena seppe del mio arrivo. È una persona molto cara e gentile, come non
mi sarei aspettato. Mi ha visitato spesso e incoraggiato in tutti i modi.
Mi ha dato dei libri importanti, che più di ogni cosa mi hanno acceso di
speranza per la strada verso il Paradiso… Padre Whellan mi visitò anche
il giorno di natale, mentre ebbi parecchie visite negli altri giorni. Mi
spiace che non mi abbiano ricordato il giorno della nascita del Nostro
Salvatore. È un peccato che mi abbiano dimenticato in una ricorrenza così
felice.

Ho il
problema di mandare mio figlio a scuola. È lontano da voi, ma spero che
possiate fare qualcosa perché sia istruito sotto la vostra cura. Cerchi
anche di visitare mia madre, molto anziana, e di confortarla perché sarà
tanto addolorata.

Mia
moglie è prigioniera nel carcere Kamiri e spero che venga rilasciata.
Vorrei che le suore avessero cura di lei, ad esempio suor Modesta, perché
si sente molto sola. Avrei piacere che fosse vicina alla missione di
Mathari, così da essere accanto alla chiesa.

Addio a
questo mondo e a quanto c’è in esso. I migliori auguri agli amici che non
incontrerò più in questo mondo nervoso.


Trasmetta i miei complimenti a quanti leggono Wathiomo Mukinyu. Mi ricordi
a tutti i padri, fratelli e sorelle. Pieno di speranza, la saluto, caro
padre. Con affetto, il suo convertito che sta per lasciare questo mondo.


Dedan Kimathi

cari
missionari box 2


L’imbarazzo del buon Dio

Cari
missionari, la mamma (abbonata alla vostra rivista) è mancata il 18 giugno
2000, vigilia del suo compleanno e onomastico. Infatti era stata
battezzata con il nome di Maria Consolata su suggerimento di una sorella
del nonno, devota della Vergine Consolata.


Mamma Maria Consolata fu malata per diversi anni e, dal 1996, rimase a
letto, immobilizzata, a causa di una forma di demenza senile che l’aveva
colpita nel 1993, a 70 anni. La malattia, grave, progressiva e
invalidante, l’aveva trasformata in una persona «diversa», completamente
alla dipendenza degli altri… Il dolore è stato il compagno fedele di
nostra madre. Non ci è stato facile accettare il suo inesorabile
decadimento fisico e psichico.


Spesso mi sono affidata alla Vergine: nei momenti di scoraggiamento ho
chiesto aiuto a Lei, la Consolata.

Ora
desidero che Missioni Consolata sia indirizzata a me, per continuare la
tradizione familiare di lettura e riflessione di questo mensile. È una
«finestra aperta sul mondo», una testimonianza di fede e coraggio di tanti
uomini e donne, che hanno saputo scoprire l’essenzialità, l’umiltà, la
carità.


Lettere
come questa ci ricordano le parole di Gesù: «Alzati e cammina!»; ed anche
quelle del beato Allamano: «Coraggio e avanti». Grazie, Teresa.

E grazie
pure a Maddalena Soccini, di Montodine (CR), che ci scrive:

Cari
missionari, vi mando un’offerta a nome di mio nipote: lui non va a messa,
ma crede ai missionari e si serve di me per fare un po’ di bene.

Sono
una povera vecchia, che ha battezzato 10 figli. Il 1° aprile ho compiuto
95 anni. Prego sempre il buon Dio che mi chiami, però Lui sta tardando un
po’. Ho anche un altro nipote, sacerdote. Lui invece prega così: «Signore,
se vuoi, lascia ancora un po’ la nonna con noi…».

Da parte
nostra, commossi, osiamo commentare: ecco come si può mettere in imbarazzo
anche il Padre Eteo.

AAVV