Non solo un campo da gioco

Trecento mini atleti

La «maratonina di minibasket» è un’iniziativa che ha coinvolto 22 squadre di bambini dai 10 agli 11 anni. Hanno dato vita a 11 incontri di pallacanestro durante l’intera giornata del 3 dicembre 2000, dalle ore 10 alle 21, senza sosta: una maratona dunque. I giovani atleti appartengono alle più importanti società cestistiche di Torino e provincia e sono stati i protagonisti assoluti della manifestazione.
Le partite si sono susseguite a ritmo serrato: ad ogni ora nuovi giocatori calcavano il «parquet» degli impianti del C.U.S. Torino, la società organizzatrice. Il risultato di ogni partita incrementava il «punteggio complessivo» di due schieramenti, nei quali rientravano le singole squadre, in maglia bianca o blu: infatti le varie società, messe da parte le proprie divise, indossavano solo le maglie della manifestazione. In campo regnava tanta amicizia, ma anche un pizzico di agonismo, per una giornata di un buon minibasket.
Nella parte centrale del pomeriggio l’«All Star Game», ossia la partita delle «stelle», con i migliori giocatori di ogni squadra, ha attirato un massiccio afflusso di pubblico. È stato un grande momento di aggregazione.
I mini atleti intervenuti sono stati circa 300 e gli spettatori molti di più, nonostante il blocco della circolazione automobilistica che ha minacciato la riuscita della manifestazione.
Con 8 mila lire
L’obiettivo della «maratonina» è stato: «regalare un campo» ai ragazzi di Suguta Marmar, in Kenya. «Missione compiuta», grazie alla generosità di tutti i partecipanti, grandi e piccoli: grandi come i genitori, che hanno riempito la cassetta delle offerte, e piccoli come i bambini, che hanno versato 8 mila lire a testa per partecipare. La quota di partecipazione ha avuto un aspetto educativo importante: infatti si è trattato di denaro «risparmiato e donato» dai ragazzi stessi, e non semplicemente attinto dal portafoglio di papà.
Ma, oltre ai soldi, ci sono state le magliette regalate ai bambini, gli impianti sportivi utilizzati gratuitamente e tanto, tantissimo tempo di sensibilizzazione. Per non parlare del lavoro.

Regalare un campo

L’idea di costruire un campo di pallacanestro non è degli organizzatori. Nasce direttamente da padre Isaia, il parroco kenyano di Suguta Marmar. L’esigenza è quella di fornire ai suoi ragazzi un passatempo, di strapparli dall’ozio e (probabilmente) dalla criminalità, di educarli all’impegno e al rispetto delle regole attraverso lo sport. Questo è stato l’«anello» che ha unito il prete africano agli istruttori e allenatori torinesi, che credono già nel valore della solidarietà e la vivono, anche se in altri contesti. In questo caso si sono affidati anche al valore educativo dello sport.
Ma «regalare un campo» a bambini africani è anche un modo concreto per ricordare a tantissimi coetanei italiani che «fare dello sport» non è di tutti, e che praticarlo in strutture adeguate (come quella che ha ospitato la manifestazione) lo è ancora di meno.
Allora tutto diventa uno stimolo in più per toccare sul vivo i ragazzi, che praticano il basket con passione e impegno. Un’occasione per regalare ciò che più ci sta a cuore.

Se il Kenya aiuta l’Italia

È stato un altro grande obiettivo della «maratonina». E cioè: non solo raccogliere soldi, ma anche e soprattutto raccontare (forse per la prima volta) una realtà diversa, un mondo lontano e povero, povero non per caso. Ancora: rendere familiare il nome «Suguta Marmar» attraverso i volti dei suoi bambini (anche se visti solo in foto), che vivono nel bisogno. In una parola: sensibilizzare.
Far sì, per esempio, che il bambino italiano noti con stupore che i suoi coetanei kenyani sono scalzi e si chieda: «E come fanno a giocare a basket?».
Sarebbe molto se i nostri bambini aiutassero quelli kenyani. Ma sarebbe ancora di più se il Kenya «aiutasse» l’Italia.

La mia esperienza
È stata quella di aver conosciuto, attraverso i missionari della Consolata, padre Isaia in Kenya, di aver riso con i bambini di Suguta Marmar, di averli anche fotografati, «portati» a Torino, fatti incontrare con tanti compagni piemontesi.
È stata un’avventura, una scoperta. La scoperta di quanto la nostra gente sia ancora disposta a dare e di quanto «lontano» si vada… se uno ci prova: «lontano» secondo il mio punto di vista, chiaramente.
Ho provato la gioia di vedere qualcuno lavorare duramente per sostenere la «mia causa», per aiutare qualcuno che non conosceva. Ho avuto la sorpresa di vedere cose, complicate burocraticamente, comporsi a poco a poco, con fatica ed entusiasmo. E sono diventato euforico allorché «Suguta Marmar» è apparso (certamente per la prima volta) anche su La Stampa. Così, d’ora in poi, quello sperduto villaggio di samburu sarà meno sconosciuto.
Ma se c’è la gioia di aver fatto qualcosa, coinvolgendo tante persone, c’è pure la consapevolezza che moltissimo è in «lista d’attesa».

Sandro Busso




Islàm e buonisti

Islàm e buonisti

S ignor direttore, intendo replicare contro le affermazioni offensive di alcuni lettori nei miei confronti. La vita mi ha consentito di conoscere l’islàm e di scoperchiare un nido di serpenti. I miei articoli mirano a far conoscere agli ingenui ciò che potrebbe capitare anche a loro. Sono un ex novizio dei padri comboniani e ho sempre agito secondo la mia fede cristiana.
Le frasi tratte dal giornale valdostano non sono inventate, ma ricavate da vari scritti; riguardano soprattutto l’articolo «Gesù e Maria nell’islàm» del 3 giugno 1999. La suora dell’istituto citato probabilmente non ricorda bene il dialogo; era molto indaffarata e dovetti aspettare mezzora prima di essere ricevuto. Nel frattempo ebbi modo di parlare con un’altra persona della casa.
Del mio articolo, apparso su Missioni Consolata, probabilmente hanno molto colpito le foto e il titolo: questi sono opera della redazione, non mia.
Consiglio a tutti di leggere «Gli scritti» del Comboni (Emi, Bologna), dove si documenta come il missionario abbia combattuto lo schiavismo e la malvagità dei seguaci di Maometto.
Michel Barin – Aosta

Di Michel Barin Missioni Consolata di giugno 2000 ha pubblicato «La moschea in convento», che ha suscitato approvazioni e rifiuti.
H o letto su Missioni Consolata di dicembre 2000 la critica sul cardinale Biffi: mi pare che lo scrivente Al. Za. non abbia capito molto. Non si nega l’ospitalità al povero, però si chiede un adeguamento alle nostre usanze. La teologia musulmana ha certamente lati positivi, ma non mi pare che gli immigrati musulmani si dimostrino sempre disposti a considerarsi ospiti. Forse la teologia islamica è stata travisata proprio da molti musulmani.
Come la mettiamo con la continua uccisione di cristiani, l’integralismo, la sharia imperante e l’inammissibile indissolubilità fra religione e politica? E la musulmana schiavitù della donna, che nel cristianesimo è invece onorata?
Con tutta l’accondiscendenza verso le altre religioni, dov’è finita l’evangelizzazione, lasciata come compito primario dal Salvatore agli apostoli? Disse di predicare la buona novella o di aiutare a costruire templi a Zeus?
Evitiamo un malinteso buonismo politico almeno nel comportamento cristiano, che deve essere aperto alla carità, ma saldo nella fede e nell’adempimento e difesa della dottrina di Gesù Cristo.
Perché Al. Za. non va a costruire una chiesa cattolica a Baghdad?
dott. Benedetta Rossi – Bologna

«Al. Za.» sta per Alex Zanotelli, missionario comboniano nella bidonville di Korogocho (Kenya).

aa. vv.




ECUADOR – Un “alito” di salute

È arrivato a buon termine il sogno
di un ospedale,
nato per gli indigeni
e costruito grazie
a un medico generoso.
Piccoli miracoli di ordinaria «provvidenza».

È stato finalmente inaugurato, nel mese di giugno 2000, nella missione di Punín (Ecuador), alla presenza di varie autorità, missionari e indios delle diverse comunità, l’ospedale «La Consolata». E ha avuto pure l’onore della cronaca di vari giornali locali.
Prima della cerimonia, il vescovo, monsignor Victor Corral, ha celebrato l’eucaristia come ringraziamento per la creazione di questa opera veramente necessaria.
Padre Davide Manca, missionario della Consolata, ha spiegato come il progetto, ideato nel 1996, sia diventato realtà grazie alla collaborazione del dottor Riccardo Grifoni. Questi, «scosso» da un articolo pubblicato su una rivista missionaria, si è dato da fare… e sono arrivati i finanziamenti dell’Associazione di volontariato «Alito» di Ancona. I lavori, iniziati nell’aprile 1999, si sono conclusi alcuni giorni prima della festa della Consolata e dell’inaugurazione (20 giugno 2000).
La costruzione, che ha avuto un costo di 65.000 dollari, verrà in aiuto non solo agli indigeni di Punín, ma anche a quelli di San Luis, Cebada, Flores e di altre comunità dei dintorni. Costoro avranno, d’ora in poi, l’opportunità di tenere sotto controllo la propria salute e a costi piuttosto contenuti; inoltre, come ha detto il dottor Carlos Torres, uno degli ideatori dell’opera, «saranno firmati accordi con altre istituzioni per puntare l’attenzione non solo sui malati, ma anche sulla prevenzione delle malattie».
Questi i dati scai di cronaca. Ma, per arrivare al giorno dell’inaugurazione, occorre partire un po’ più da lontano…

I n quel tempo (cioè all’inizio degli anni ’90) a Punín alcune situazioni, tra pazienti e medico, erano un po’ strane. Per ogni sorta di malattia, la meta obbligatoria era Riobamba, capitale del distretto. E lì succedeva che qualche medico, per farsi pagare, qualunque fosse la malattia del malato, riuscisse a far vendere ai poveri indigeni la stessa quantità di animali (unica fonte di sostentamento).
C’è stato chi, venuto in contatto con un anziano di una comunità, malato di cancro allo stadio terminale (e, peraltro, già visitato da un medico locale che gli aveva diagnosticato pochi giorni di vita), lo aveva operato lo stesso; con il risultato che il paziente, poche ore dopo era già spirato, ma intanto aveva sborsato un milione e mezzo di sucres (circa 500 dollari).
Lo stato di cose mi ha fatto pensare alla necessità non di un vero e proprio ospedale, quanto ad un piccolo centro sanitario che avesse funzione di «filtro».
Nel frattempo il medico di Punín, Carlos Torres, e io abbiamo discusso seriamente la questione e ci siamo trovati d’accordo su un punto: bisognava fare qualcosa per quella povera gente, che aveva tutto il diritto (sulla carta) alla salute, come qualunque cittadino di Quito o di Guayaquil. Siamo rimasti d’accordo che, al ritorno dal mio viaggio in Italia, nell’ottobre del 1996, avremmo ripreso le fila del discorso.
In realtà non ho aspettato il rientro in Ecuador. Soggioando in Svizzera, dove vive un mio fratello, ho condiviso con lui la seria preoccupazione per questo problema: e anch’egli ne ha fatto una causa propria, richiedendo il progetto della costruzione (poi modificato) e assumendo accordi con il comune di Losanna per ottenere un finanziamento di circa 5.000 franchi, da inviare a metà dell’opera.
Toai in Ecuador con il piccolo progetto in mano, ma che necessitava qualcosa di più che i 5.000 franchi, pur preziosi. Era necessario continuare a cercare…
La meta fu Quito, la capitale. Il primo tentativo lo feci alla Swissaid, associazione dipendente dall’ambasciata Svizzera; ma, per quell’anno, non erano previste spese per progetti sulla salute e la risposta mi venne data al terzo viaggio che facevo. Altre vie: Fepp, Coopi, Comité Economico de Proyectos, Mlal: tante sigle importanti, ma il tutto si concretizzò solo in una lunga serie di indirizzi e niente di più.
La salvezza arrivò invece (lo credereste?) dall’Africa. O, meglio, da un medico italiano, assolutamente sconosciuto, che ci chiedeva «il favore» di poter collaborare per la costruzione dell’ospedale.
Tutto ci sembrò un miracolo.

L a cosa era andata così. Nel febbraio del 1997, erano venuti a trovarci i genitori di padre Giannantonio Sozzi, missionario mio confratello, oggi in Colombia. La visita in Ecuador li aveva particolarmente colpiti. Pertanto, al loro rientro in Italia, avevano pubblicato le proprie impressioni sul bollettino parrocchiale. A quanto pare, quel resoconto piacque a molti. Fu anche riprodotto sulla rivista Missioni Consolata e, guarda caso (il mondo è davvero piccolo), una copia del giornale arrivò perfino in Kenya.
Fu così che il medico Riccardo Grifoni, che si trovava in quel paese, in un momento di pausa si era messo a leggere la rivista con interesse (il dottore è un volontario che, in certi periodi, ama «spendere» le sue vacanze, lavorando in diverse parti del mondo, a beneficio dei più disagiati)… Toando dall’Africa, si mise in contatto con i genitori del missionario, i quali a loro volta gli dissero che bisognava farsi sentire dai missionari di Punín.
Qui (gennaio 1998) incominciò la serie di contatti, che portò ad un accordo di collaborazione tra due associazioni: la prima, «Alito» (cui appartiene il dottor Grifoni), e la seconda, «Fundacíon la Consolata».
Si decise, dunque, che rappresentanti dell’associazione italiana (di Ancona) venissero a Punín per constatare personalmente la situazione: cosa che si realizzò nel novembre del 1998, mentre a dicembre giungeva l’approvazione del progetto da parte loro.

I lavori di costruzione dell’ospedale La Consolata cominciarono il 12 aprile del 1999 e tutto filò per il meglio.
Ma la finale della storia… la conoscete già.

Davide Manca




SPECIALE 100 ANNI – Un parto lungo dieci anni

Era il 29 gennaio 1901 quando Giuseppe Allamano fondò l’Istituto Missioni Consolata.
Vi lavorava da quasi un decennio, affrontando difficoltà di ogni genere. Figura importante e determinante nella chiesa torinese della metà Ottocento
e primo ventennio del Novecento, il fondatore è quasi sconosciuto fuori di Torino e del Piemonte.
In compenso, l’Istituto dei missionari della Consolata
ha messo solide radici in quattro continenti.
Questo è il racconto della sua travagliata nascita.

Mons. G. B. Ressia, compagno di corso ed amico dell’Allamano, afferma di lui: «Questo delle missioni fu il tormento santo della sua giovinezza».
Nominato rettore del santuario della Consolata di Torino, già tra il 1887-88, l’Allamano sembra avere in mente di fondare qualcosa in relazione alle missioni.
Forse la prima idea è semplicemente di dare inizio ad un’opera missionaria simile a quella esistente a Genova (Collegio Brignole-Sale), consistente nel raccogliere giovani sacerdoti, prepararli convenientemente e poi metterli a disposizione di Propaganda Fide per essere inviati nelle missioni.
Di certo l’Allamano, con la collaborazione determinante di don Giacomo Camisassa, dopo mesi di studio, ai primi di aprile del 1891, ha pronto lo statuto o regolamento di un nuovo istituto missionario.
I passi da compiere egli sa che sono in due direzioni: anzitutto a Roma presso Propaganda Fide e a Torino col suo vescovo, che in quegli anni era il card. Gaetano Alimonda. Per vari motivi pensa di dover trattare in modo informale prima con Roma e, in caso di parere positivo, con il proprio vescovo.
A Roma, il card. Simeoni, non soltanto si dichiara favorevole, ma fa sapere all’Allamano che converrebbe addirittura accelerare i tempi. Così stando le cose può presentarsi al suo vescovo. Il card. Alimonda a fine aprile si era recato a Genova per una cura alquanto impegnativa. L’Allamano gli scrive, esponendogli dettagliatamente il piano.
Da Genova non giunge alcuna risposta. Solo dopo due settimane un laconico biglietto del segretario gli comunica che il cardinale per ragioni di salute non è in condizioni di occuparsi del suo affare. Il cardinale è ammalato, ma il vero problema è che le persone che lo attorniano gli hanno presentato il progetto in cattiva luce. Facendo anche i mezz’offesi. Anzitutto perché l’Allamano ha interpellato prima Propaganda Fide e solo dopo il vescovo: vuole forse mettere quest’ultimo di fronte al fatto compiuto? E poi è proprio il caso di pensare ad un Istituto missionario a Torino data la scarsità di clero? Inoltre perché a pensarci deve essere l’Allamano che, come rettore del Convitto ecclesiastico, può sottrarre alla diocesi soggetti preziosi?
Nel frattempo, il 30 maggio 1891 il cardinale Alimonda muore.
POCHI O TANTI?
L’Allamano nel presentare a Roma il suo progetto scrive: «Preposto da molti anni all’educazione del giovane clero nella nostra archidiocesi, incontrai sovente dei seminaristi e dei giovani sacerdoti che mi manifestarono il desiderio di dedicarsi alle missioni…».
La scarsità di clero, continuamente addotta per bloccare l’iniziativa, è un semplice pretesto. Nel secolo 1800-1900 vengono ordinati a Torino 3.759 sacerdoti. Da aggiungere che dal 1880 al 1900 sono ordinati anche 362 religiosi. Nessun dubbio che la scarsità del clero, tanto temuta, è pretestuosa e nei riguardi dell’Allamano anche maligna.
Su questo tipo di difficoltà l’Allamano dirà: «Si fanno tanti lamenti sulla scarsità del clero: il che per altro non è così vero tra noi»; «Io dicevo sempre: “Se in Torino vi fosse un terzo o anche la metà di sacerdoti, si andrebbe avanti lo stesso’’». E il Camisassa: «Il tentativo della fondazione fu visto male e lo si volle bloccare col pretesto che il clero diocesano era già troppo scarso».
Di fronte ad una situazione del genere l’Allamano scrive a Roma: «Devo attendere un vescovo che sappia elevarsi sopra le idee che generalmente predominano». L’aspettativa fu di dieci anni!
IL DIBATTITO
SULLE NUOVE IDEE
Siamo all’epoca della Rerum novarum (15 maggio 1891) di Leone XIII, con i tentativi dei cattolici di aprirsi ai problemi sociali, particolarmente gravi a Torino, città di lavoratori.
Ci si interroga quale dovesse essere la strategia dei cattolici: cattolicesimo sociale, corporativismo cattolico…, per sfociare nelle accese discussioni sul concetto stesso di democrazia, democrazia cristiana, socialismo cristiano. Problemi grossi che, mentre entusiasmano i giovani sacerdoti, mettono in ansia i più anziani e parecchi vescovi.
L’Allamano in quanto rettore del Convitto ecclesiastico, a contatto con giovani sensibili a questi problemi, non si pone dalla parte dei sacerdoti bloccati su posizioni superate, ma neppure dalla parte dei più agitati. Egli diffidò sempre delle polemiche, sterili e laceranti, di quel discutere confuso su questioni non sufficientemente mature. C’è qualcosa da fare? Bisogna farlo, ma non in un polverone che acceca, operando invece delle sintesi superiori.
È in questo contesto di accesi dibattiti e contrasti che l’Allamano pensa ad un istituto missionario, e lo pensa come qualcosa che sia di più di una semplice valvola di sicurezza per un clero giovane, esuberante e troppo numeroso, che rischia di pestarsi i piedi o di esaurirsi in discussioni inutili sui «massimi sistemi».
IL PIEMONTE TRASCURATO
Nel 1891 i tempi sono maturi anche per altri motivi. Il movimento missionario in Italia è fiorentissimo. È un periodo in cui si riorganizzano gli antichi Ordini e le antiche Congregazioni religiose, ma è soprattutto il periodo in cui sorgono nuove istituzioni con finalità esclusivamente missionarie.
In ordine cronologico il primo istituto missionario italiano è quello delle «Missioni estere» di Milano, sorto per iniziativa dei vescovi lombardi (1850). Seguono il Collegio Brignole Sale Negroni per le Missioni Estere di Genova (1852-1855), le Missioni Africane di Verona o Figli del Sacro Cuore di Gesù (1867), il Pontificio Seminario dei SS. Pietro e Paolo per le Missioni Estere di Roma (1867, 1871), la Pia Società di S. Francesco Saverio per le Missioni Estere di Parma (1895).
E l’Allamano si chiede: «Perché soltanto il Piemonte, dove lo spirito missionario è fiorentissimo, non doveva avere un suo centro, senza dover ricorrere ad istituzioni straniere o a congregazioni religiose con voti»?
Fiorenti erano in Piemonte e anche a Torino l’Opera della Propagazione della Fede (specie dopo il 1822), la Società dell’Apostolato Cattolico dal 1835, l’Opera del Riscatto dal 1838, la Società antischiavista d’Italia dal 1888, l’Associazione Nazionale per soccorrere i Missionari cattolici italiani all’estero, fondata dal senatore e prof. Eesto Schiaparelli (1928).
Anche sfogliando i giornali e la stampa missionaria è possibile documentare la vivacità del risveglio missionario. Basti ricordare che il primo giornale a lanciare un appello in favore delle Missioni è l’Amico d’Italia, fondato a Torino nel 1822 dal marchese Cesare Taparelli d’Azeglio.
Il movimento missionario è, dunque, molto sviluppato anche in Piemonte e nella diocesi di Torino, ma manca di un’istituzione che convogliasse le vocazioni missionarie locali. Gli elementi positivi per una realizzazione del genere sono molti.
COLONIALISMO,
NAZIONALISMO, EGOISMI
Ci sono però anche delle contro- indicazioni di un episcopato non sufficientemente aperto e sempre timoroso per la mancanza di preti. C’è un alone di romanticismo missionario da epopea e leggenda che poteva entusiasmare per le missioni. Ma per contrapposto c’è un diffuso senso di pessimismo per il modo in cui gli europei consideravano il «mondo pagano», con «selvaggi» abbruttiti in crudeltà e superstizioni, con poco o nulla da valorizzare e conservare.
C’è soprattutto, come conseguenza di questa vantata superiorità europea e allargamento di orizzonti dovuto alle esplorazioni, una buona dose di colonialismo e di nazionalismo.
Inoltre nei territori missionari, soprattutto africani, pesa un’altra specie di gravissimo monopolio, attuato da alcuni ordini religiosi che nelle regioni loro affidate la fanno da «padroni», resistendo in tutti i modi alla sola eventualità che Propaganda Fide pensi di smembrarli affidandone una parte alle nuove forze missionarie che stanno sorgendo.
Le difficoltà maggiori che l’Allamano deve superare all’inizio sono, infatti, di natura politica (nazionalismo francese e anche italiano; meno quello inglese) e religiosa (resistenza di ordini francesi alla divisione dei loro immensi territori).
VIA DALLE BEATITUDINI
DI UNA VITA COMODA
A favorire l’Allamano nella fondazione c’è anzitutto il Camisassa, in perfetta complementarietà di funzioni, senza del quale nulla sarebbe stato possibile.
C’è anche il fatto di essere l’Allamano rettore del santuario della Consolata, luogo d’incontro delle forze più vive della diocesi. Egli era riuscito a intessere attorno a sé una rete fittissima di conoscenze, con persone appartenenti ai vari ceti sociali, e con quasi tutti i sacerdoti della diocesi, con uomini e donne del popolo, della borghesia e anche dell’aristocrazia. Di qui una concezione del tutto nuova di istituto missionario, non sempre evidenziata, costituita da questa ampia base di persone che, in vario modo, avrebbero accompagnato e sostenuto il corpo dei missionari.
Altro elemento positivo è il fatto che l’Allamano, come rettore del Convitto ecclesiastico, è a contatto con numerosi giovani sacerdoti, parecchi dei quali desiderano dedicarsi alle missioni. L’Allamano lo andava ripetendo: «Ho attorno a me gioalmente giovani sacerdoti che mi sollecitano».
Tra tutte le premesse di riuscita ce n’è una alla quale l’Allamano non pensa, ma che è la più importante: lui stesso, la sua personalità e quella del Camisassa. L’Allamano era un uomo dalla salute debole, ma dal carattere e dalla volontà forti; uomo ordinato, metodico, riflessivo, buon piemontese, che come diceva l’Antonelli, non si mettono due mattoni dove ne basta uno, amante delle montagne, che sa come superare le difficoltà, rispettando le stagioni e l’umore del cielo, con vedute larghe, almeno quanto basta per capire se nell’albero i frutti sono maturi e se in una diocesi i sacerdoti si potevano ritenere più che sufficienti o scarsi o male impegnati.
Soprattutto si è fatto sacerdote per lavorare, e non per adagiarsi nella beatitudine di una vita comoda. Egli stesso descrive come avrebbe potuto passarsela da «canonico signore»! In modo piacevole e tranquillo: «Dire il breviario, passeggiare, leggere il giornale, sedersi a tavola senza preoccupazioni, fare il pisolino dopo pranzo; starmene in pace come rettore della Consolata, protetto da un comodo orario, osservato scrupolosamente…». Convinto però che una vita del genere l’avrebbe portato diritto alla… «perdizione».
LIBERTÀ E STABILITÀ
Nel 1891 l’Allamano e il Camisassa scrivono il Regolamento del loro Istituto. Esso è corredato da una prefazione dal titolo Indole, natura e scopo dell’Istituto, che presenta allo stato puro l’idea originaria dell’Istituto in questi termini: «[…] si è venuti nel pensiero [si noti il plurale] di istituire una Società nella quale fossero conciliati per quanto possibile: la libertà di azione dei sacerdoti secolari [quindi non si tratta di una congregazione religiosa] e la stabilità che offrono ai loro individui le corporazioni religiose».
I due elementi fondamentali sono, dunque, la libertà e la stabilità. Quanto alla libertà, essendo l’azione missionaria un apostolato difficile, s’intende che chi, dopo una sufficiente prova non se la sente, può e deve lasciare senza remore di rottura di voti, promesse, giuramenti. I sacerdoti e laici che entrano in questa Società missionaria s’impegnano con una promessa a lavorare in missione per 5 anni, rinnovabili per altri 5 e solo dopo 10 anni possono legarsi definitivamente alla Società.
L’Allamano e il Camisassa non vogliono che ci siano persone legate alle sbarre di un carro per forza, ma solo persone libere, generose e decise: «Se durante il quinquennio – dice il testo del Regolamento – esse vedessero di non poter reggere al nuovo genere di vita, restavano in libertà al termine dei 5 anni di ritornare in Patria, ove la Società li aiuterà con ogni suo mezzo, per ottenere loro un conveniente ufficio nelle loro diocesi». In caso di adesione definitiva, la Società avrebbe assicurato ai suoi membri quella stabilità e sicurezza che le Congregazioni religiose garantivano ai propri membri anche in caso di malattia e vecchiaia.
Altra caratteristica fondamentale è la regionalità: vi possono far parte persone del Piemonte. Si tratta di cosa quasi scontata per gli istituti missionari in Italia, da pochi anni nazione unita, perché ogni regione ha un proprio istituto missionario (Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia, Lazio), ad eccezione, come si è detto, del Piemonte e dell’Italia meridionale. Quanto alla regionalità l’intenzione dell’Allamano è chiarissima: «Lo scopo di questa disposizione – diceva il Regolamento all’art. 13 – è di accrescere fra i missionari quello spirito d’unione e quel vicendevole incoraggiamento che in lontane regioni più si verifica tra coloro che hanno comune la terra».
Inoltre i missionari, membri di questa Società, per gli stessi motivi, non devono essere dispersi, ma operare nelle stesse località, stare insieme ed essere retti da superiori propri.
Tutti coloro che hanno occasione di prendere visione di questo Regolamento, compreso il Prefetto di Propaganda Fide, lo approvano pienamente.
Purtroppo, con la morte del card. Alimonda e le opposizioni esistenti in Curia, il progetto rimane ibeato per 10 anni. Quando nel 1897 ad arcivescovo di Torino viene nominato Agostino Richelmy (1850-1923), compagno di corso e amico dell’Allamano, devotissimo della Consolata e aperto al mondo missionario, il progetto viene ripreso, senza apportarvi nessuna modifica da come era stato concepito nel 1891.
BENEDETTE EREDITÀ!
Il progetto viene ripreso in mano nel 1899, subito con un serio «contrattempo».
Avviene che nel gennaio del 1900 l’Allamano cade gravemente ammalato, tanto da disperare della sua vita. Ne esce in modo inaspettato il 29 gennaio, festa di S. Francesco di Sales.
Dieci anni dopo, l’Allamano stesso, accennando alla sua guarigione, dirà: «Avevo già parlato in precedenza al card. Richelmy dell’Istituto da fondare, e sapevo di dover morire, gli dissi: “Sicché ormai all’Istituto penserà un altro”. E lo dicevo contento, forse per pigrizia di non sobbarcarmi ad un tale peso. Il cardinale però mi rispose: “No, guarirai, e lo fonderai tu” (24 aprile 1910). Aggiunse anche: “Feci, quando ero prossimo a morire, la promessa che, se fossi guarito, avrei fondato questo Istituto. Io intanto per allora non sono morto. Il Signore mi cacciò ancora in terra. Adunque avendo ottenuta la guarigione dalla malattia mortale, la fondazione si doveva fare: che fossi guarito non si poteva negare» (24 aprile 1910).
A spingere in questa direzione intervengono altri fattori di una certa importanza. Il 24 ottobre 1898 muore a Torino mons. Angelo Demichelis e nomina l’Allamano erede universale di tutti i suoi beni, che non sono pochi, compresa la sede di un Istituto magistrale in Torino e una villa a Rivoli. Un anno dopo, il 20 novembre 1899, muore l’ing. Edoardo Felizzati, figlio spirituale ed amico dell’Allamano. Avendogli il rettore del santuario della Consolata confidato l’intenzione di dare inizio ad un’opera in favore delle missioni, il Felizzati si era dimostrato pronto a divenire uno dei primi membri. Morendo, non potendo fare altro, lascia l’Allamano erede dei suoi beni!
L’Allamano, oltre al suo patrimonio personale, costituito dall’eredità patea, da quella dello zio, parroco di Passerano, dallo stipendio di rettore e dal beneficio di canonico (nel 1904 verrà in possesso anche dell’eredità dell’abate Luigi di Robilant), con l’eredità di mons. Demichelis e dell’ing. Felizzati, è spinto, quasi per una sorta di legge di gravità che anche i denari possiedono, a fare qualcosa. In più c’era un dovere di riconoscenza per l’ottenuta guarigione e il sentirsi avvolto dalla benevolenza e dalla fiducia di tante persone, dilatato inoltre da quella specie di istinto interiore o di simpatia per le missioni che fin da giovane l’aveva accompagnato.
Convalescente a Rivoli, informa il 24 aprile 1900 il card. Richelmy che intende procedere alla fondazione, sempre che il cardinale sia d’accordo. Più che d’accordo, gli risponde Richelmy.
Sebbene l’Istituto dei missionari della Consolata si potesse ritenere fondato nel 1900, perché i vescovi del Piemonte, riuniti in conferenza presso il santuario della Consolata nei giorni 12-13 settembre 1900, avevano dato il loro beneplacito e perché il card. Richelmy aveva approvato e benedetto il nuovo Istituto il 12 ottobre 1900, la data ufficiale di fondazione, per volontà espressa dell’arcivescovo di Torino, è il 29 gennaio 1901.
La prima sede dell’Istituto furono i fabbricati lasciati all’Allamano da mons. Demichelis, opportunamente adattati. L’inaugurazione della sede avviene il 18 giugno 1901.
SOGNI AFRICANI
E GELOSIE UMANE
Nel piano originario di fondazione del 1891, rimasto tale e quale nel 1900, c’era che all’atto della fondazione doveva essere definito il campo di apostolato in Africa.
Per prima cosa occorreva riprendere i fili con Roma. Ma dopo dieci anni molte cose erano cambiate. Ora Propaganda Fide, prima di affidare a nuovi istituti un territorio di missione, esigeva un periodo di prova passato alle dipendenze di qualche vicario apostolico.
Il provvedimento è saggio, perché salvaguardava Propaganda Fide da eventuali avventurieri. Di fatto le cose non sono così semplici. Si è detto che una delle «piaghe» dell’attività missionaria di allora (ai giorni nostri inconcepibile) consiste nella «gelosia missionaria» dei grandi Ordini e Istituti missionari, che la fanno da «padroni» nei vastissimi territori loro affidati (quasi con lo stesso stile delle potenze coloniali) e considerano «intrusi» i nuovi istituti, visti come una minaccia alla loro sovranità. Si tratta di un vero e proprio monopolio missionario, aggravato anche da nazionalismo politico.
Questa rappresenta una delle più gravi difficoltà che l’Allamano, il Camisassa e i primi missionari della Consolata devono superare. Una vera «piaga», che solo nel 1926 verrà denunciata da Pio XI nell’enciclica Rerum Ecclesiae. Con tutte le sue indiscusse benemerenze fu, soprattutto, la Francia a cadere in questo pessimo equivoco.
Il 9 settembre 1900 il Camisassa si reca a Roma e ha occasione d’incontrare il nuovo vicario apostolico dei galla (Etiopia), mons. André Jarosseau, anche perché proprio tra quella popolazione, già evangelizzata dal card. Massaia, l’Allamano intende impegnare i suoi primi missionari.
Gli accordi con mons. Jarosseau sono soddisfacenti solo apparentemente. Ben presto i due fondatori devono rendersi conto che nel territorio concesso da mons. Jarosseau la popolazione galla è quasi inesistente per l’aridità del suolo e quella poca dispersa dalle razzie dei somali. Da informazioni prese da varie parti, l’Allamano e il Camisassa devono constatare che mons. Jarosseau, forse condizionato dai superiori francesi del suo Ordine e per non avere intrusi tra i piedi, non è stato del tutto rettilineo, poiché era ben al corrente dell’incertezza dei confini e delle difficoltà per raggiungere e operare in quei luoghi. Ma aveva taciuto.
UNA SOLUZIONE
…DIPLOMATICA
È il console italiano a Zanzibar per il Kenya, Giulio Pestalozza (1850-1930), a dare un contributo essenziale per sbloccare la situazione. Il diplomatico suggerisce di chiedere ai padri dello Spirito Santo, responsabili dell’evangelizzazione del Kenya inglese, di permettere ai nuovi missionari di Torino di stabilirsi nell’alto Kikuyu, per compiervi il rodaggio richiesto da Propaganda Fide e, in seguito, raggiungere le popolazioni galla, procedendo via terra verso nord.
Questa è la strategia seguita, ma ancora una volta tra enormi difficoltà burocratiche: prima la necessità di farsi accettare dai Padri dello Spirito Santo, anch’essi gelosi del loro vastissimo e bellissimo territorio.
Le trattative sono difficilissime. Pur consci di non essere in numero sufficiente e con i protestanti che premono, i padri dello Spirito Santo non vogliono correre il rischio, accettando nel loro territorio un nuovo istituto missionario (per di più italiano) di vedersi sottrarre in seguito una parte di questa proprietà… Alla fine accettano di ricevere in prova i nuovi missionari e di affidare loro una regione ancora inesplorata, tra i kikuyu, ai piedi del monte Kenya. Una zona incantevole.
Però l’Allamano deve pagare un forte pedaggio, che sa di ricatto, impegnandosi per iscritto (e per ben due volte) a non chiedere in seguito alla S. Sede un qualsiasi stralcio di territorio senza un esplicito consenso dei padri dello Spirito Santo.
LA PARTENZA, FINALMENTE
Dopo molte trattative, finalmente l’8 maggio 1902 i primi quattro missionari della Consolata, due sacerdoti (Tommaso Gays e Filippo Perlo) e due fratelli laici (Celeste Lusso e Luigi Falda) partono per il Kenya.
Inizia l’avventura.

ISTRUZIONI PER L’USO

In Kenya la strategia missionaria (messa a punto a Torino dall’Allamano e dal Camisassa) contemplava anzitutto in missione una casa-procura nei pressi della ferrovia, da considerarsi come una specie di «campo base», centro di raccolta di quanto giungeva dall’Italia in personale e mezzi. Venne scelta la località di Limuru, poco oltre Nairobi. Sul luogo dove doveva avere inizio l’apostolato vero e proprio, cioè a Tuthu, un villaggio montano a 2 mila metri (ove dominava il capo Karoli) fu fondata la missione e più a monte, in piena foresta, a lato di uno scosceso torrente, venne impiantato un laboratorio. Più in basso, nella piana, a Nyeri, in un territorio ritenuto fertile, si avviò una fattoria con allevamento di bestiame, per provvedere un vitto adeguato ai missionari.
La strategia missionaria vera e propria venne attuata con una costanza eroica: quasi tutti i giorni i missionari partivano, ovviamente a piedi, in perlustrazione del paese per conoscere la gente, imparare la loro lingua, interessarsi degli ammalati, farsi conoscere e distinguersi dagli agenti del governo… Lo scopo finale di questa strategia era di giungere ad avere in mano il paese, elevarlo anche da un punto di vista materiale, per giungere, non tanto a delle conversioni individuali, ma alla conversione in massa, mirando ai capi e prima che vi giungessero i protestanti, che si sapeva essere alle porte.
Anche a Torino tutto procedeva a gonfie vele. Infatti il 15 dicembre 1902 era già pronta una seconda spedizione; poi nel 1903 altre due. Infine tra il 1904 e il 1911 altre nove. Il 24 aprile 1903 erano partite 8 suore della «Piccola Casa del Cottolengo» e altre 12 partirono il 24 dicembre dello stesso anno.
Nel 1905 l’Allamano acquista in Torino in via Circonvallazione (attuale corso Ferrucci) un terreno di 12.000 mq per la costruzione della casa madre, che è pronta ed inaugurata il 23 ottobre 1909.
Anche in Kenya lo sviluppo dell’attività missionaria è sorprendente, tanto che nel 1905, con decreto di Propaganda Fide, il territorio affidato in prova ai missionari della Consolata è dichiarato «missione indipendente», nonostante l’opposizione dei Padri dello Spirito Santo. Il 6 giugno 1909 la missione indipendente è eretta a vicariato apostolico con padre Filippo Perlo primo vicario apostolico.

1910: ARRIVANO LE MISSIONARIE
Sempre per offrire un maggior appoggio all’attività missionaria dell’Istituto, l’Allamano e il Camisassa fondano nel 1910 l’Istituto parallelo delle Missionarie della Consolata. Le prime missionarie partiranno per il Kenya il 3 novembre 1913 in numero di quindici (dal 1913 al 1922 ne partiranno 56).
Nel 1911 il Camisassa si reca in Kenya (dall’8 febbraio 1911 al 22 marzo 1912), per incontrarsi con i missionari e le missionarie, valutare la consistenza delle opere e la metodologia adottata e constatare se era giunto il momento di attuare il piano primitivo di passare ai galla. A questo scopo, sempre con la presenza del Camisassa in Kenya, viene deciso di estendere le missioni più a nord del monte Kenya, nel Meru (fine giugno-dicembre 1911).
Rientrato in Italia, il Camisassa presenta a Propaganda Fide il piano per il Kaffa (Etiopia). Ma ancora una volta una richiesta del genere suscita le reazioni dei cappuccini francesi e di mons. Jarosseau. Però con decreto del 28 gennaio 1913 Propaganda Fide affida ai missionari della Consolata la regione del Kaffa. Se fu relativamente facile ottenere una missione tra i galla, sarà invece molto più difficile entrarvi, soprattutto per l’opposizione del governo francese ed anche di quello italiano. Solo il 25 dicembre 1916 padre Gaudenzio Barlassina sarà ad Addis Abeba, come prefetto apostolico del Kaffa.

IN TANZANIA, SOMALIA,
MOZAMBICO
Dopo la prima guerra mondiale tutti i missionari tedeschi presenti in Africa vengono espulsi e Propaganda Fide nel 1919 affida ai missionari della Consolata la prefettura apostolica di Iringa nella ex colonia tedesca di Tanganyika (ora Tanzania).
L’Allamano a questo punto della sua vita avverte (il Camisassa muore il 18 agosto 1922) che la troppa carne al fuoco nuoce alle missioni affidate all’Istituto. Ma Propaganda Fide insiste perché l’Istituto accetti altri territori di missione. Nel 1924 (e solo per obbedienza) l’Allamano accetta la difficile missione della Somalia Italiana e nel 1925 (ma pare che l’Allamano non ne fosse al corrente) alcune missioni in Mozambico.
Questo espansionismo, contrario allo spirito dell’Allamano, sbilanciò alquanto l’Istituto sia nel numero dei missionari ed anche per un consistente aggravio finanziario.
L’Allamano muore il 16 febbraio 1926 e ne prende il posto mons. Filippo Perlo, ma con un Istituto affaticato per troppo lavoro. La ripresa fu lenta ma sicura.
I.Tu.

Igino Tubaldo




SPECIALE 100 ANNI – Straordinari nell’ordinario

Giuseppe Allamano nacque 150 anni fa, a Castelnuovo d’Asti, il 21 gennaio 1851. Sua madre Marianna era sorella di s. Giuseppe Cafasso. Dopo le elementari, frequentò gli studi ginnasiali nel collegio di don Bosco a Torino. Questi lo avrebbe voluto salesiano, ma lo studente scappò, lasciando di stucco il grande conoscitore dei giovani.
Nel 1866 entrò nel seminario di Torino e nel 1873 fu ordinato prete. Avrebbe voluto tuffarsi nel lavoro pastorale. «Vuoi fare il parroco? Bene! Ti affido la parrocchia più importante della diocesi» gli disse il vescovo. E don Giuseppe rimase in seminario come assistente e direttore spirituale.
Nel 1880 fu nominato rettore del santuario della Consolata: si mise subito al lavoro per restaurae i fabbricati, ravvivae la devozione e riaprire il convitto ecclesiastico, dove i giovani preti completavano la preparazione al ministero pastorale.
Nel frattempo cominciò a progettare la fondazione di un istituto missionario. Ma nel 1900 una grave malattia sembrava troncare il progetto. Ne uscì miracolosamente. L’Allamano vide in quella guarigione un segno per accelerare i tempi.
Il 29 gennaio 1901 fondò ufficialmente l’Istituto Missioni Consolata per l’evangelizzazione dei popoli. L’anno seguente partirono per il Kenya i primi missionari. Nel 1910 diede vita all’Istituto delle missionarie della Consolata.
Spese tutta la vita nella cura del santuario e formazione delle due famiglie missionarie, fino al giorno della morte: 16 febbraio 1926.

Una vita ordinaria, quindi,
in cui l’Allamano diede tutto se stesso al servizio della chiesa e società. Non ci fu attività a cui non partecipò, lavorando per oltre 50 anni al cuore della diocesi di Torino e sempre in collaborazione con il vescovo. «Nessuna opera di bene – affermerà di lui un contemporaneo – sfuggì all’irradiazione della Consolata», cioè di quel santuario mariano di cui fu rettore per 46 anni. «Tutto per Gesù, niente senza Maria» era uno dei suoi motti.
Dal santuario della Consolata, senza uscire dai confini dell’Italia, abbracciava tutto il mondo. Sarebbe voluto partire missionario, ma la salute glielo impedì; allora fondò i missionari e missionarie della Consolata. Ma guai a chiamarlo «fondatore»: lo proibiva esplicitamente. «La Consolata è la vera fondatrice» ripeteva.
Tuttavia è fondatore. E lo fu senza ricercare forme straordinarie di ispirazione per le due famiglie missionarie. Ciò che stupisce nell’Allamano, infatti, è la semplicità dei principi sui quali ha impostato la vita: «Essere, prima di fare»; «fare bene il bene»; «essere straordinari nell’ordinario». Direttrici di fondo che ne hanno fatto un grande uomo d’azione.
Che egli vivesse così lo confermano le testimonianze di quanti lo hanno conosciuto: «Aveva l’arte di non farsi avanti»; «rifuggiva in tutti i modi da qualsiasi esibizionismo»; «compiva il bene nascondendosi». «Non volle mai chiasso attorno a sé». «Tutto ciò che ci diceva – attesta padre Sales – lo vedevamo praticato in lui in modo superlativo».

«Fragile come un cristallo,
resistente come un diamante», lo definiscono quanti lo hanno conosciuto. E tracciano altri lineamenti della sua figura umana: un leggero sorriso risplendeva abitualmente dal suo volto; lo sguardo dolce e penetrante degli occhi lampeggianti, che andavano oltre il viso degli interlocutori e leggevano nelle pieghe delle coscienze; intelligenza intuitiva, sintetica, che arriva subito all’essenza delle questioni; innata capacità di rianimare, confortare, guidare al bene.
«Mentre era sempre calmo e misurato in tutte le sue azioni, quando parlava di Dio e del suo amore, s’infiammava talmente da trasfigurarsi. Tanto che molti dei suoi uditori temevano per la sua salute». Parlare dell’amore di Dio era per lui la cosa più spontanea e naturale; anzi, sentiva il bisogno di comunicare agli altri il fuoco che gli ardeva dentro.
L’intensità spirituale si traduceva in straordinaria capacità contemplativa: «Dominus est» (è il Signore) ripeteva di fronte a tutti gli eventi, cose, persone. Una volta scoperta la presenza di Dio e la sua volontà, la perseguiva con serenità e tenacia, anche nelle situazioni più critiche e dolorose, superando ogni ostacolo, confidando totalmente nell’aiuto divino.
La sua capacità contemplativa lo rendeva consigliere. Non solo i seminaristi, quando ne era direttore spirituale, e poi i suoi missionari, ma anche vescovi, sacerdoti, fondatori di istituti e gente comune si rivolgevano a lui per consiglio; e aiutava tutti a scoprire la volontà di Dio, dissipando dubbi, dissolvendo illusioni, infondendo coraggio.
«Avanti nel Signore!». «Coraggio nel Signore». Sono alcune delle espressioni usate frequentemente dall’Allamano, specialmente nelle lettere ai suoi missionari. Tre parole che racchiudono e trasmettono la sua incrollabile fiducia in Dio e nella Consolata. «Non bisogna mai stare fermi, ma andare sempre avanti – diceva -. Non starsene come automi, per paura di sbagliare; non lasciarsi rimorchiare; mai dire non tocca a me».
La forte umanità dell’Allamano, arricchita dalla sua intensità spirituale si esprimeva in un profondo senso di pateità. La figura di padre è quella che ha maggiormente contagiato quanti l’hanno conosciuto. Essi ricordano il primo incontro con lui, le sue parole, i gesti, il sorriso e le attenzioni…
Essere padre era il suo stile di educare e formare. Per lui l’istituto è una famiglia. Si sentiva padre dei suoi missionari e missionarie, non solo perché li amava con tutto se stesso, ma perché sapeva infondere in loro il suo spirito: cioè quel modo di percepire e vivere il vangelo che è tipico dei santi. Uno spirito che l’Allamano è cosciente di possedere e trasmette con intensità nell’insegnamento e contatti personali. Ne è geloso. Non permette interferenze. «Qui lo spirito lo do io – ripeteva con fermezza -. Chi non lo condivide vada pure altrove. Meglio pochi, ma radicati».

N ominato rettore del santuario della Consolata, l’Allamano volle don Giacomo Camisassa come collaboratore: «Faremo d’accordo un po’ di bene», gli aveva scritto. Lavorarono insieme per 42 anni come fratelli e amici.
Nato a Caramagna (CN) il 26 settembre 1854, Camisassa fu anch’egli alunno di don Bosco; poi entrò nel seminario diocesano e fu ordinato sacerdote nel 1878.
Membro aggiunto della facoltà di teologia della diocesi di Torino, professore di morale, diritto civile ed ecclesiastico al convitto dei giovani sacerdoti, rivelò doti superiori al comune; possedeva ed esponeva la materia in modo chiaro e preciso, sintetico. Avrebbe potuto fare una gratificante carriera; fu proposto per l’episcopato; ma preferì restare «sacrestano della Madonna», a fianco dell’Allamano, felice di essere secondo come vice-direttore del santuario e del convitto della Consolata e poi dell’istituto dei missionari e missionarie della Consolata. E lo fu fino alla morte: 18 agosto 1923.
Statura bassa, ma robusto e ben piantato, intelligenza rara e perspicace, volontà ferrea, organizzatore nato, il Camisassa era un uomo pratico, attivo, intraprendente, sempre in moto. «Ha la smania di lavorare: vorrebbe saper tutto, fare tutto; è tutto attività» confessava l’Allamano.
Troncata la carriera di professore, rivelò doti di praticità e abilità nel campo della tecnica e finanza, progettazione ed esecuzione dei lavori, scrivere articoli e redigere relazioni, saldare parcelle e far quadrare i bilanci. Di tutto era pratico e di tutto voleva darsi ragione.
Non badava a nessuno, né a chiacchiere né ad altro. Quando controllava i lavori dei restauri del santuario o saliva sui ponteggi, seminava il terrore: dava ordini, faceva rifare lavori, cambiava progetti, provocando qualche attrito, che toccava all’amico Allamano comporre.
La dedizione al lavoro è la caratteristica principale del Camisassa. Efficienza che l’Allamano completava con i suoi principi altrettanto pratici e ordinari: «Fare bene il bene», salvaguardia del buon nome e dignità, comprensione delle persone e attenzione alla loro crescita umana e spirituale. L’abilità del Camisassa si sposa al cuore dell’Allamano.

È definito «fedele collaboratore»,
«braccio destro» dell’Allamano, «confondatore». Eppure erano molto diversi. Diversità complementari, tanto che l’Allamano poté dire: «Se abbiamo fatto qualcosa di buono, è perché eravamo tanto diversi; ma abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto; se fossimo stati uguali, non avremmo visto i difetti l’uno dell’altro e avremmo fatto molti sbagli in più».
La collaborazione con l’Allamano non si limitava alla parte materiale. Ambedue affermano di aver studiato assieme ogni progetto, lettera, documento, con lunghe riflessioni e anche «notti di preghiera».
Tanta meravigliosa operosità aveva un’anima. In un breve scritto spirituale il Camisassa si propose di «voler essere tutto di Dio». Alla fine della sua vita potrà dire: «Mi consola il pensiero che non ho mai fatto nulla per me stesso, ma solo per la gloria di Dio».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




SPECIALE 100ANNI – Tra popoli e problemi

La follia due terribili conflitti mondiali

DOV’ERA L’UOMO?

Due guerre devastano il mondo nella prima metà del 1900:con lo scontro franco-tedesco di Verdun (1916),
la disfatta italiana di Caporetto (1917),i bombardamenti sulla città inglese di Coventry (1940), la sconfitta americana di Pearl Harbor (1941),la bomba atomica su Hiroshima (1945)… Anche i «lager» nazisti, con l’olocausto di 6 milioni di ebrei, sollevano domande inquietanti. Dov’era Dio? E dov’era l’uomo?

Seminaristi all’arma bianca

«Dieci lunghi mesi (benché ancor fuori dell’ambito della guerra) noi siamo vissuti sotto l’incubo della conflagrazione gigantesca, inaudita nella storia delle nazioni, per cui “sulla misera Europa incombe tanta ruina”, va sconvolta ormai ogni regione della terra, e paiono vacillare gli stessi cardini fondamentali del diritto e del consorzio delle genti».
È l’amaro commento dei missionari della Consolata sulla prima guerra mondiale, riportato dalla loro rivista La Consolata, giugno 1915 (1).
«Le quotidiane notizie di combattimenti incessanti – prosegue il mensile -, di terribili stragi sui vari teatri di guerra, di crescente desolazione nei paesi belligeranti… ci son venuti penetrando di dolorosa compassione; mentre la carità di Cristo, che “a prezzo del suo sangue tutti gli uomini rese fratelli”, ci poneva sempre più accorata sul labbro la preghiera per la pace».
Il conflitto scoppia nell’agosto 1914. L’Italia vi entra il 24 maggio 1915. E La Consolata continua:
«Coll’entrar dell’Italia in guerra è iniziata pure per noi la terribile prova. Adoriamo i decreti imperscrutabili di Dio, il quale, se nella sua giustizia permette i flagelli, nella sapientissima sua misericordia sa da essi trarre il maggior vero bene delle sue creature; e quanto più è grande la calamità, tanto più si fa vicino a coloro che in Lui sperano.
La nostra fede di veri cattolici ci faccia forti a compiere il dovere di buoni cittadini… sia quelli che son chiamati alle armi, sia quelli che con inevitabile strazio e sacrificio, spesso più eroici dei soldati stessi, debbono darli alla patria.
Preghiamo con viva fede che il sacrificio sublime dei soldati d’Italia, come delle loro madri, delle spose, degli innocenti loro figlioletti, sia l’ultimo tributo che impetri dalla divina misericordia la cessazione dell’orrendo flagello della guerra, l’avvento della sospiratissima pace»…
Tra i militari si contano pure missionari della Consolata. Non solo: anche «una parte notevole degli alunni del nostro Istituto ci sono stati tolti – precisa La Consolata, agosto 1915 -. Separati d’improvviso dai superiori e compagni, essi ebbero rinnovato lo strazio provato nell’abbandonare i parenti; dalla casa dove, tra l’indefessa attività di studio e lavoro, tutto era serenità e raccoglimento, sono stati sbalestrati nelle caserme e nelle piazze d’armi. L’obiettivo di pacifiche conquiste tra gli infedeli, colla croce, s’è cambiato in quello di contribuire alle vittorie col fucile, col cannone e all’arma bianca».
È un lamento, ma anche una denuncia.
Quell’Ecatombe
di ignari Kikuyu
La prima guerra mondiale sconvolge anche il continente nero. In Africa orientale l’apporto delle colonie inglesi al conflitto è ingente. Per combattere i tedeschi in Tanzania (2), si arruolano persino africani. Più che militari, urgono portatori (carriers), che rifoiscano di vettovaglie e munizioni i soldati inglesi al fronte. In tale compito viene impiegato oltre mezzo milione di persone.
In Kenya, all’inizio, le autorità inglesi invitano i kikuyu ad «offrirsi» per la gloria dell’impero britannico. Ma l’ideale non attecchisce. Allora si ricorre alla coscrizione forzata.
Per sfuggire alla leva, i kikuyu si nascondono nella foresta durante il giorno; ma, al tramonto, rientrano nelle loro case. È questo il momento giusto, per i policemen bianchi, di sparpagliarsi nel villaggio, entrare nelle capanne e, armi in pugno, reclutare nuovi rifornitori di bombe.
Non potendo eludere la chiamata, i kikuyu si affidano ad un rimedio estremo: lo stregone. Costui, alla vigilia di una partenza per la guerra, presiede un drammatico sacrificio, alla presenza persino dei bambini. La vittima sgozzata è un montone nero, con strane chiazze sul pelo. Il tutto indica malaugurio.
Secondo una cronaca dell’epoca, al tempo stabilito, il partente avanza risoluto verso l’assemblea radunata; afferra la testa dell’animale ucciso e, roteandola in ogni direzione, lancia la maledizione: «Io andrò e morirò, ma che i bianchi siano maledetti!». «Maledetti e maledetti!» grida ostile la comunità…
I portatori kikuyu vengono distribuiti in diversi campi di concentramento. Si marcia dalle 6,00 alle 11,30 e dalle 14,00 alle 17,00; e se il passo rallenta, ecco subito l’ufficiale che, munito di scudiscio, ridà lena alla marcia. Dopo pochi giorni di cammino, il portatore si ammala e, sovente, è già cadavere nella fossa.
La causa di tanti decessi non è solo fisica, ma psicosomatica: fatica e malattia, unite alla nostalgia per la terra d’origine lasciata. Secondo V. Harlow, 127 mila kikuyu periscono in quell’infausta esperienza.

Uno Strano bottino
di Guerra
Poiché i carriers muoiono come mosche, già nel 1914 il governo coloniale decide l’allestimento di alcuni ospedali militari in Kenya: a Nairobi, Mombasa, Voi. Nel corso del conflitto gli inglesi ne installano altri anche in Tanzania, colonia tedesca.
Dal Kenya il vescovo Filippo Perlo offre i missionari della Consolata per l’assistenza spirituale e medica negli ospedali, ritenendola un’opera altamente umanitaria. Da Torino l’Allamano, il fondatore, approva, purché i missionari non si schierino con alcuno dei belligeranti, ma servano solo gli africani.
In un triennio 45 missionari, tra padri e suore, sono destinati alla cura dei malati. Ce la mettono tutta nel dedicarsi ai bisognosi. Grande è la carità.
Eroica la testimonianza di suor Irene Stefani, che opera nell’ospedale di Kilwa (Tanzania). Il suo bottino di guerra – scrive Gian Paola Mina – sono 3 mila battesimi conferiti a morenti (cfr. l’inserto «L’estrema pazzia»). Non è la sola a sentirsi missionaria oltre che infermiera. Gli altri credono negli stessi ideali, tanto che il 98% degli africani morti negli ospedali riceve il battesimo.
L’attività assistenziale si rivela efficace e riscuote il pubblico plauso anche delle autorità inglesi.

(1) La Consolata, fondata nel 1899, diventa Missioni Consolata nel 1928.
(2) La Tanzania si chiamò «Tanganyika» fino al 1964.
Kenya: Se L’inglese
ti Controlla
Il 10 giugno 1940 i missionari della Consolata in Kenya diventano nemici degli inglesi e sono allontanati dalle loro sedi. In un diario di missione si legge: «Si sente alla radio la dichiarazione di guerra dell’Italia e poche ore dopo, alle 21, veniamo sottratti alle nostre missioni dalle forze armate. Lasciamo ogni cosa nelle mani di Dio: chiesa e casa, cristiani e catecumeni, scuole e maestri». Analoghe scene si ripetono nell’intero vicariato di Nyeri e nella prefettura di Meru.
I missionari vengono deportati nel campo di Koffiefontein, in Sudafrica, dove condividono la sorte di altri 1.200 italiani. Almeno sono insieme e qualcosa riescono a fare: aiutare tutti, alimentare la speranza, fino a procurare l’insalata zappando un lembo di cortile. I padri Giovanni Casolati e Bartolomeo Favaro compilano anche una grammatica e un vocabolario kimeru e traducono il Nuovo Testamento.
Grande la nostalgia, soprattutto delle missioni sulle quali è sceso il silenzio. Nel Meru, più che nel Nyeri, l’abbandono è totale…
Il 14 agosto 1944 un telegramma annuncia il ritorno dei missionari in Kenya. «Toano – commenta Missioni Consolata, settembre 1944 – a riunire i figli dispersi. Toano a ricominciare e a ricostruire. Salutati dai trilli festosi dei cari aghekoio e bameru, tornano a rivedere le giovani cristianità, a far sorridere i bimbi, a riaprire catecumenati e ambulatori. Toano. E con essi la vita riprenderà il ritmo normale».
Però le autorità inglesi non esultano: esigono che sui missionari italiani sia esercitato il controllo di un britannico, che li tenga lontani da ogni attività illecita. Un’imprudenza diventa motivo per il rimpatrio sia dal Nyeri sia dal Meru.
La tensione è tale da esigere la visita del pro-delegato apostolico, padre MacCarthy, che incontra le autorità politiche britanniche del Meru. Giustizia vuole che si ascolti anche l’altra parte. Pertanto il pro-prefetto raggiunge le missioni per incontrare i padri: molti cadono dalle nuvole dinanzi all’ostilità nei loro confronti. In ogni caso, se errori sono stati commessi (ad esempio, coltivazione non autorizzata di terreni), essi sono pronti a rimediare.
Però sono false le accuse, secondo le quali la gente (anche cattolica) si lamenta dei missionari. Gli africani, invece, recriminano sia contro l’autorità coloniale che quella locale.
Lo conferma lo stesso MacCarthy.

Tanzania: «Ai nemici italiani stranieri»
Un cataclisma? Troppo poco, se non si aggiunge che è mondiale. E non è un disastro da addebitare all’incontrollabilità della natura o al destino, ma voluto da uomini contro uomini.
Il primo contraccolpo dell’entrata italiana in guerra piomba drasticamente sui missionari della Consolata in Tanzania. Essi si vedono stravolta la ragione della loro presenza nel paese. Ogni dispaccio del governo coloniale britannico (1) reca il marchio: «Ai nemici italiani stranieri». Stranieri? Anche gli inglesi lo sono. Nemici? Per nulla!
Il 16 giugno 1940 scatta l’ostracismo. «Tutti i nemici stranieri italiani» debbono radunarsi a Tosamaganga. L’esodo deve compiersi in cinque giorni. Le missioni dell’Iringa, sparse su un vasto territorio, vengono evacuate.
È il momento del primo distacco: i missionari-fratelli, caricati su un camion, vengono trasferiti al boma, il forte che comprende il quartiere della polizia e le prigioni. Fratel Eesto Viscardi, sulla sponda dell’autocarro, dà fiato alla fisarmonica… con qualche lacrima.
Il 18 giugno compare l’arcivescovo Edgar Maranta, vicario apostolico di Dar Es Salaam, cappuccino svizzero. Qual buon vento lo porta? Nella cronaca di Tosamaganga l’apparizione è motivata da «buoni uffici» da assolvere.
Il 20 giugno, come se nulla fosse, si solennizza la festa della Consolata. Ma la cristianità è in ansia. «La Vergine trionfa in una interminabile processione – recita la cronaca -. Alcuni poliziotti inglesi sorvegliano quasi con devozione».
Il giorno seguente, il vescovo Maranta parte per Mbeya, sede del governo provinciale da cui dipende il distretto di Iringa. Al suo ritorno, dopo due giorni di colloqui, a Tosamaganga deflagra la gioia: lo svizzero è accettato dagli inglesi come garante dei «nemici stranieri italiani». I missionari non sanno come ringraziarlo.
Dunque non ci sarà deportazione! «Fra il tripudio della gente le campane suonano fino a sera».
Intanto il vescovo Attilio Beltramino, missionario della Consolata, accetta la «garanzia» dell’arcivescovo Maranta. Essa si fonda sulla «parola d’onore» e impegna i missionari con clausole vincolanti:
– non allontanarsi oltre un miglio dalla missione;
– vietato ogni spostamento di personale missionario;
– controllo della corrispondenza;
– nessuna parola con estranei su politica, movimento di truppe, località strategiche;
– vietato contattare i prigionieri.
Che cosa ha indotto gli inglesi ad una mite decisione? Certamente le ottime relazioni tra i governanti, lo svizzero Maranta e l’italiano Beltramino, nonché l’amicizia tra i due vescovi. È lecito pure supporre un intervento del giovane sultano A. Sapi Mukwawa, musulmano, stimato dagli inglesi e fedele amico dei missionari della Consolata.
Infine non è detto che alcune personalità britanniche non abbiano apprezzato il lavoro dei missionari.

(1) La Tanzania (Tanganyika), colonia tedesca, diventa «mandato britannico» dopo la seconda guerra mondiale.

TRA I CADAVERI ACCATASTATI

Un mattino del 1917, all’ospedale di Kilwa (Tanzania), suor Irene non trovò più Athiambo, che aveva istruito il giorno prima e si riprometteva di battezzare quel giorno stesso. «Athiambo è morto – disse l’infermiere -. Verso mezzanotte è stato buttato sul carro e portato alla spiaggia». «Athiambo morto, e senza battesimo!» ripeteva inconsolabile suor Irene.
Ci volevano 20 minuti per giungere in spiaggia. Irene ne impiegò 10, tanto corse. Eccola di fronte all’Oceano Indiano, al cospetto di cadaveri accatastati alla rinfusa: nudi, enormi, oppure sparsi sulla sabbia ardente; chi con la fronte a terra, chi riverso supino, immobile, pauroso. «Dio, che orrore!». La suora rabbrividì. Aveva sempre avuto un ribrezzo sommo per i morti, ed ora tutti quei cadaveri…
Era sola con il suo rosario, la sua fede. Non aveva chiesto a nessuno di accompagnarla, perché nessuno avrebbe accettato di venire con lei. Meglio così: sarebbe stata sola a compiere l’estrema follia. Guardò l’oceano, le cui onde si facevano sempre più alte e vicine: fra poco avrebbero inghiottito i cadaveri, compreso Athiambo… Perché cercarlo? «E se non fosse morto? Si tratta di un’anima, Signore, un’anima!» si disse suor Irene.
Con gli occhi sbarrati da ansia e paura, si accostò ai morti: cominciò da quelli sparsi qua e là, scrutando i volti di chi giaceva supino e rivoltando gli altri. No, non era Athiambo. Athiambo si trovava nel mucchio. Ma se era lì, in mezzo o sotto gli altri, era di certo morto soffocato. «E se non fosse morto?».

S enza più esitare, suor Irene s’accostò alla catasta e rimosse i cadaveri uno ad uno, in cerca di Athiambo. Pesavano enormemente quei corpi rigidi, anche nella magrezza a cui erano stati ridotti dagli stenti. Pesavano e nauseavano. Erano sozzi di sangue e le imbrattavano di rosso le mani e il vestito bianco.
«Ave Maria, Santa Maria… O Dio, abbiate pietà!» ansimava la suora. Aveva già riconosciuto Luigi, Giovanni, Giuseppe, Ugo… tutti quelli battezzati ieri e avant’ieri. Ma Athiambo non c’era. Avanti ancora. Aveva le braccia e la schiena che le si spezzavano, il cuore in gola. Si sentiva svenire, morire come loro, in un incubo. L’oceano rumoreggiava a pochi passi, e avanzava minacciandola. In fretta! O sarà troppo tardi.
«Ave Maria, Santa Maria… O Dio, abbiate pietà!» singhiozzava ora la missionaria. Avanti ancora. Ne aveva contati 46, 47… e Athiambo non compariva. Solo otto cadaveri attendevano di essere passati in rassegna, e lei cominciava a domandarsi se per caso non l’avesse riconosciuto tra quelli già esaminati. Allora avrebbe dovuto ricominciare da capo. Ultimo cadavere: era Athiambo, seppellito sotto tutti, morto anche lui.
Morto? Con sforzo enorme lo trascinò lontano, là dove la marea non poteva raggiungerlo, e gli s’inginocchiò vicino. S’era accorta che il corpo era flessibile. Forse… «Ave Maria, Santa Maria… O Dio, salvatelo!».
Sperando contro ogni speranza, gli praticò la respirazione artificiale, distendendogli le braccia ritmicamente per 10, 20 minuti. Non sentiva più la stanchezza. Eppure era sfinita, il sole e la sabbia scottavano tremendamente. Il tempo passava. Ma lei continuava a massaggiare Athiambo, a sollevargli le braccia, spiandolo amorosamente, pregando con fiducia.

Avvenne l’incredibile: Athiambo sbatté le palpebre, emise un gemito impercettibile. Era ancora vivo… Poi tutti dissero che suor Irene l’aveva risuscitato!
Gian Paola Mina

Francesco Beardi




SPECIALE 100 ANNI – Soffia il vento del cambiamento

Nel 1960 Harold MacMillan, primo ministro dell’impero britannico,annuncia «il vento del cambiamento» in Africa.
E cambiamento è, cioè indipendenza, «uhuru». Parola magica.
Nei primi anni ‘60 elettrizza tanti paesi del continente.
Segna «il risveglio dell’Africa nera»?
Serenità in Tanzania, sofferenza in Kenya, guerra e pace in Mozambico.

Tanzania,
9 dicembre 1961
«Nel 1950 il bozzolo del colonialismo incomincia a rivelarsi angusto per la “crisalide” Tanganyika – annota padre Alessandro Di Martino -. La crisalide si rende conto di avere le ali sviluppate: preme contro l’involucro e lo rode, smaniosa di librarsi in volo in piena sovranità».
Nel mandato britannico del Tanganyika il processo verso l’indipendenza è abbastanza spedito. Forse non si sa quanto sia stato assecondato dai missionari della Consolata.
La chiesa d’Iringa, che opera fra i wahehe, wasangu e wabena, non assiste al processo con la neutralità del forestiero. È in gioco l’avvenire del proprio «gregge». Promuovendo lo sviluppo sociale (in particolare la scolarizzazione), non si prefigge forse di formare l’élite della nascente nazione?
Senza fare «il tifo per atleti particolari», la chiesa responsabilizza la popolazione. Però non ama atteggiamenti da prima donna. È prodiga di stimoli meditati.
Nell’agosto 1951 si delinea l’atteggiamento verso il movimento nazionalistico: «limitarsi ad osservazioni sui requisiti necessari perché possa reggersi da sé». Con un particolare: eliminare ogni residuo razzista, «evitare attentamente che la nostra condotta dia l’impressione che ci atteniamo alla policy del colour bar; non chiamare più gli abitanti “neri”, bensì africani; trattare tutti con la dovuta considerazione».
Si privilegia la coscientizzazione dei cristiani di fronte ai doveri civili. Nel 1951, alle elezioni del primo Consiglio distrettuale, composto da africani, si raccomanda: «stare attenti che i cristiani se ne interessino e siano debitamente rappresentati da individui adatti… formare i fedeli al sentimento cristiano non solo come individui, ma anche come membri della società».
Ma nel 1951 l’obiettivo non è ancora l’indipendenza piena. Nel paese si ha in mente un governo confederale, esteso all’Africa orientale britannica del Kenya-Uganda-Tanganyika. «Sembra che il bene sia la costituzione di una forte federazione dei vari territori, nella quale ogni paese ritenga la propria indipendenza negli affari interni, dove tutti (europei, asiatici e africani) coesistano cogli stessi diritti e doveri. Per il bene delle popolazioni è opportuno orientare l’opinione pubblica a tale scopo… Mai prescindere dal fine soprannaturale per cui ci troviamo in questi paesi» (1952).
Passano due anni, un tempo sufficiente perché il Tanganyika focalizzi il suo scopo. Ora si esige piena indipendenza. Il primo passo concreto è nel 1954, allorché nasce il Tanu (Tanganyika African National Union), il partito che porterà il paese all’indipendenza nell’ordine e nella tolleranza razziale. Scendono in lizza anche altri partiti, ma nella votazione finale del 1960 il Tanu ottiene 70 seggi su 71. Tutti gli altri partiti si sciolgono senza traumi.
Il vescovo di Iringa, Attilio Beltramino, incoraggia i suoi stretti dipendenti a partecipare alle elezioni: «È mia intenzione che gli aventi diritto (sacerdoti, fratelli, suore, seminaristi) si facciano registrare come elettori» (28 giugno 1960). Anticipa le direttive generali emanate dalla Conferenza episcopale: «È dottrina della chiesa che il voto non sia solo un privilegio ma un dovere, e un cattolico non può facilmente esimersi dal partecipare alla scelta dei propri rappresentanti… Ma ciò non implica che ci debba essere un cosiddetto partito cattolico».
Il 3 settembre 1960 l’euforia galvanizza la popolazione all’approssimarsi del traguardo finale dell’uhuru (indipendenza). Tuttavia l’atmosfera è contenuta in una accettabile festosità. Le tragiche turbolenze del vicinato (Congo e Kenya) consigliano il vescovo di indicare alcune precauzioni.
Si fissa il giorno dell’indipendenza per il 9 dicembre 1961. Monsignor Beltramino ne predispone la celebrazione religiosa nella festa dell’Immacolata, il 7 dicembre. In questo giorno il paese viene consacrato al cuore immacolato di Maria, con una preghiera inviata da Giovanni XXIII, il papa buono.
Iringa, 9 dicembre 1961: la nuova bandiera del Tanganyika indipendente si dispiega sovrana. Padre Francesco Sciolla, vicario generale, di fronte ad esponenti politici e religiosi, nel silenzio assoluto della folla, ringrazia Dio e augura a tutti prosperità e pace.
«Sotto le stelle, dal santuario della Consolata di Iringa dilaga il tripudio delle campane. A Tosamaganga, il fragore di mortaretti»: è il tocco letterario di padre Di Martino.

kenya,
12 dicembre 1963
Fin dall’inizio, i missionari della Consolata in Kenya si impegnano nello studio della cultura dei kikuyu, nella promozione dell’uomo, nell’evangelizzazione. Non fanno politica… Tuttavia, agli occhi degli africani, amano distinguersi dagli inglesi che hanno conquistato il paese con la forza; però non ne contestano il colonialismo. Solo con il tempo recepiscono le istanze d’indipendenza politica, raggiunta il 12 dicembre 1963.
Qual è l’atteggiamento dei missionari, nel 1952-54, di fronte al movimento di autonomia dei mau mau? Al riguardo spicca la figura di Carlo Cavallera, vescovo di Nyeri, nel cuore del ciclone dei mau mau che, secondo lo storico Ki-Zerbo, hanno causato la morte di 8 mila civili africani, 68 europei, 460 soldati e 100 mila prigionieri.
Quando Cavallera può valutare la minaccia costituita da quell’associazione clandestina, ritiene doveroso condannarla: lo fa dopo un’inchiesta fra i missionari e gli stessi cristiani. Dalle loro risposte non c’è dubbio: il movimento mau mau è anticristiano e incita all’apostasia chi ha abbracciato il cristianesimo. Eloquente, per il vescovo e i missionari, è il «giuramento mau mau»: esso impone l’abbandono della chiesa, il rifiuto dei sacramenti, l’odio verso tutti i bianchi; d’altro canto, il giuramento sprona gli africani a ritornare alla loro divinità tradizionale.
Quindi i missionari condannano i mau mau per ragioni religiose.
Ciò non equivale a condanna politica tout court. Il vescovo Cavallera prende le distanze dagli europei che invocano il coprifuoco contro i «terroristi». «Bisogna fare sempre distinzione tra la parte religiosa e quella politica» raccomanda il vescovo ai missionari. Nel frattempo, incurante dei pericoli e delle minacce subite, percorre in lungo e in largo la sua vasta diocesi, per esprimere solidarietà alle vittime della violenza. Ed è quasi miracoloso che monsignor Cavallera ne esca indenne.
Se i mau mau volessero eliminare quel «vescovo impiccione», i suoi frequenti viaggi gli offrirebbero occasioni d’oro per farlo. Ma anch’essi con ogni probabilità «distinguono»: politicamente il vescovo non è una minaccia, pur essendo bianco; religiosamente non lo capiscono; umanamente lo ammirano, perché non lesina soccorsi ai bisognosi.
Questo però non risparmia le missioni da attacchi intimidatori e mortali: padre Edmondo Cavicchi viene ferito e resta psicologicamente menomato per il resto della vita; suor Eugenia Cavallo è assassinata. Due i martiri africani: le suore Rosetta Njeri e Cecilia Wangechi, nonché l’eroica testimonianza di sangue di semplici cristiani come Aloisio Kamau.
La fine dell’emergenza dei mau mau (durante la quale molti battezzati abbandonano la fede) segna l’inizio di una spettacolare ripresa cristiana. Quale la causa?
«L’esperienza dei missionari è che, ovunque, vi sia un risveglio inspiegabile. Io – conclude monsignor Cavallera – l’attribuisco al sangue dei nostri martiri».

Mozambico,
25 giugno 1975
«L’annuncio del vangelo nel Niassa, specie nella prima fase, è opera quasi esclusiva dei missionari della Consolata. Circa gli inizi, basti ricordare l’opera di padre Pietro Calandri e di suor Franca Cavicchi. In queste figure comprendiamo tutti i missionari e le missionarie della Consolata» dichiara nel 1988 Luis Gonzaga Ferreira da Silva, vescovo di Lichinga.
Siamo in Mozambico, dove i missionari della Consolata operano dal 1925, non solo a Lichinga, ma anche a Maputo, Inhambane e Nampula. Il paese non è facile.
È colonia del Portogallo da circa cinque secoli. E, mentre negli anni ’60 in quasi tutte le nazioni dell’Africa sventolano le proprie bandiere, in Mozambico imperano ancora Salazar e amici. Ma soffia, rabbioso, il vento del cambiamento: ed è guerra per un decennio.
Durante la lotta armata per l’indipendenza, la chiesa (connivente con il colonialismo) è soggetta anche ad una contestazione intea: ad esempio, nel 1971 i Padri Bianchi lasciano per protesta il paese. I missionari della Consolata, pur approvando il gesto, decidono di restare. Tuttavia in precedenza, il 24 dicembre 1970, padre Celio Regoli è accusato (ingiustamente) dal governo portoghese di collaborazione con i ribelli e viene espulso…
Il 25 giugno 1975 il Mozambico è indipendente. Ma, quasi subito, ripiomba in guerra: una guerra civile tra le forze governative del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e i guerriglieri della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana). Il Frelimo gode dell’appoggio dell’Unione Sovietica e la Renamo si avvale del Sudafrica. Quindi è scontro tra marxismo e capitalismo: «due elefanti che lottano, a scapito dell’erba che calpestano». L’«erba» non cresce più.
Così è morte violenta per oltre un milione di mozambicani e fame nera per tutti. Per non parlare degli innumerevoli profughi interni: fuggono dai loro villaggi, sperando di trovare altrove una situazione migliore; ma cadono dalla padella alla brace.
La violenza è anche contro le fedi religiose, perché «la religione è l’oppio dei popoli». La chiesa cattolica è la più bersagliata, giacché i colonialisti portoghesi sono… cattolici.
Alcuni fatti:
– il 21 luglio 1977, con motivi assolutamente pretestuosi, la Repubblica popolare del Mozambico decreta l’espulsione, entro 48 ore, dei padri Armanno Armanni e Mauro Calderoni;
– novembre 1978: padre Severino Bordignon è rinchiuso per due mesi in carcere e poi espulso. Il capo di accusa è: «Sovversione contro lo stato, avendo mobilitato il popolo per la catechesi e per aver insegnato a pregare ed assistere alla messa»;
– dicembre 1978: padre Eugenio Menegon è condannato a domicilio coatto.
Sul fronte della Renamo, anche i guerriglieri non scherzano:
– 19 luglio e 16 settembre 1982: rapimento dei padri Giuseppe Alessandria e Adelino Francisco, con quattro suore della Consolata. Rimangono in mano ai ribelli sino a fine novembre;
– 15 febbraio 1991: in una terribile imboscata cade ucciso padre Ariel Granada Sea, mentre padre José Feando Martins da Rocha è ferito (resterà zoppicante per sempre);
– 1 marzo 1992: un’altra imboscata durante la quale padre Joao Coelho resta brutalmente ferito e quattro giovani che l’accompagnano uccisi. Il missionario è ostaggio dei guerriglieri per un mese;
– 22 marzo 1992: assalto notturno al Centro catechistico di Guiùa, diretto da padre Andrea Brevi e massacro di 24 persone, con rapimento di 9 bambini…
Il 4 ottobre 1992 Frelimo e Renamo firmano a Roma il «cessate il fuoco». È pace. Una pace da costruire tra rovine materiali e umane infinite. Aleggia pure lo spettro che il Mozambico sia come l’Angola: cioè che ritorni al bazooka, giacché i trattati sono solo pezzi di carta. Ma la pace regge. E il Mozambico è oggi un segno di speranza per l’intera Africa.
Fra le macerie, accumulatesi durante quasi un trentennio di guerre, tutti si rimboccano le maniche. I missionari della Consolata puntano in alto: suggeriscono all’episcopato cattolico la creazione di una università. Padre Francesco Ponsi realizza il sogno. L’università cattolica del Mozambico viene inaugurata il 10 agosto 1996, con sedi a Beira e Nampula. Il rettore è padre Filipe J. Couto, primo missionario della Consolata locale.

LA FAMILGIA ESTESA DELLO STATO

Dopo l’indipendenza, l’azione dei missionari della Consolata in Tanzania avviene in un contesto diverso da quello di altri paesi africani, essendo condizionata da un particolare socialismo. È una specie di «fai da te», codificato nella Dichiarazione di Arusha (1967), che prende a modello dello stato la famiglia africana estesa, ujamaa, nella quale ognuno vive per gli altri e dove l’individuo esiste perché esistono gli altri.
L’idea, pur vicina al vangelo, si colloca in realtà agli antipodi della dottrina sociale della chiesa e dei diritti umani, in quanto riconosce al gruppo prerogative proprie del singolo, concede allo stato la proprietà dell’individuo e priva la persona di ogni incentivo al proprio sviluppo.
Naturale conseguenza di questa visione di società è la creazione forzata di «villaggi socialisti», accettata da alcuni ambienti religiosi e rigettata da altri. Non manca, anche, chi sposa la scelta e se ne fa propagatore, come il vescovo Christopher Mwoleka di Rulenge, che alterna l’attività episcopale con il lavoro manuale nei campi a fianco della gente. Quanto ai missionari della Consolata, le loro opinioni variano.
Padre Egidio Crema, studioso dei wahehe, nel 1968 non ha dubbi sulla riuscita del socialismo tanzaniano, espresso dalla politica di Nyerere e del Tanu. «In base alla loro linea di azione – sostiene – credo che non sia difficile comprendere e giustificare gli stessi atteggiamenti apparentemente contrastanti e confusi della politica intrapresa dal presidente in Tanzania».
Padre Alessandro Di Martino, storico dei missionari della Consolata nel paese, nel 1979 ravvisa nel villaggio dell’ujamaa una condizione ideale per la formazione delle comunità ecclesiali di base. «La creazione di tali comunità – scrive – ha trovato in Tanzania un contesto politico e culturale provvidenzialmente favorevole. I villaggi dell’ujamaa o comunitari, sorti sotto la spinta del socialismo dal raggruppamento delle capanne, fino a ieri sparse ai quattro venti, offrono a tutti la possibilità di incontrarsi e riunirsi con estrema facilità. Mentre lo spirito di fratellanza e solidarietà è inculcato dal partito in ogni villaggio; visto in chiave evangelica, questo si presenta ai battezzati come un punto di partenza per una testimonianza cristiana in campo politico e sociale».
Padre Franco Cravero è lieto di dare, nello spirito dell’ujamaa, un contributo per lo sviluppo costruendo una scuola di falegnameria per i ragazzi e un’altra di economia domestica per le ragazze (1979).
Nel 1990 padre Giulio Belotti nutre dubbi che la donna tanzaniana, su cui poggia gran parte dell’ujamaa, possa un giorno arrivare a gestire la propria crescita.
Di opinione abbastanza negativa è padre Luis Jiménez Feandez, per il quale l’ujamaa ha favorito il crescere della corruzione e l’abuso di cariche pubbliche. E, dopo aver propagandato l’istruzione per tutti i cittadini, in realtà ha garantito l’accesso all’università solo allo 0,5% e gli studi secondari solo al 3% della gioventù. Non meno carenti sarebbero i risultati nella sanità, occupazione, casa, ecc.
Ma tutti i missionari sono concordi nel valutare i grandi obiettivi raggiunti dall’ujamaa, come il dialogo inter-tribale, l’unificazione linguistica e la nascita di una nazione: valori che hanno favorito anche l’evangelizzazione.

LIBERTA’ E CRISTIANESIMO

«Uhuru, uhuru, uhuru!». Non si sente altro oggi in Kenya, 12 dicembre 1963.
Il mattino è stato ecumenico. Il metodista Valender, uno sceicco musulmano in un grosso turbante ed io in cotta e stola, all’aperto e attorniati da migliaia di persone, abbiamo pregato per il Kenya e la sua indipendenza. L’atmosfera era carica di gioia ed emotività.
Ognuno ha recitato una preghiera. A me pareva che persino gli angeli si arrampicassero sugli sgabelli per ricevere una benedizione protestante, una cattolica e una musulmana. Ho chiesto a Dio che fecondasse con la pioggia delle sue benedizioni l’uhuru.
Che la libertà scaturita in Kenya cresca, come crescono i raccolti nelle stagioni delle piogge, e si rinnovi come le piante di banana. Gli uomini che guidano il paese ottengano luce per vagliare la libertà, come si vaglia il granoturco, liberandola dalle erbe parassite e dalle gramigne che vegetano e danneggiano.
Una libertà senza nubifragi e siccità, con tutti i membri dei clan che vivono in una grande famiglia, dove gli anziani guidano con saggezza, gli uomini lavorano, le donne tengono linda la casa, i figli studiano e tornano dalle sorgenti con secchi di acqua limpida. Così benedica Dio il Kenya e i suoi abitanti.
Dall’applauso ho capito che la mia preghiera è stata la più azzeccata. Il vicepresidente del partito Kanu mi ha detto che l’intervento deve essere stampato, perché è bello. Quando un popolo parla così di preghiere nel giorno della sua indipendenza, probabilmente la realizzerà.
Nel pomeriggio i ragazzi hanno cantato l’inno nazionale. È un motivo mistico, che esce dalla foresta e si allarga lentamente e benedicente su tutta la nazione.

O Dio, nostra forza,
benedici tutti noi,
ci sia scudo la giustizia
e noi si viva in frateità,
pace e libertà.
Svegliamoci, fratelli,
lavoriamo in alacrità,
in servizio virile
alla nostra patria Kenya.
Amiamola con fermezza,
difendiamola con prontezza.
Costruiamo la nostra nazione…
Diamoci la mano,
lavoriamo insieme
ogni giorno grati a Dio.

Poi tutti si sono dati convegno nella cattedrale di Meru: politici, ex mau mau, protestanti, musulmani, i nuovi borghesucci, la massa di contadini. Qualcuno è svenuto.
Ho iniziato l’omilia della messa con: «uhuru na ukristu» (libertà e cristianesimo). Silenzio di tomba. Come un prete si sente ascoltato in certe occasioni!
Ho svolto l’idea di libertà nella Bibbia e della liberazione portataci da Cristo, che ci fa popolo di Dio. Ho parlato del colonialismo degli egiziani, che tenevano prigionieri gli ebrei. Ho continuato dicendo che il Kenya salutava Kenyatta, protagonista della sua indipendenza, e Gesù Cristo, fautore della libertà di ogni uomo. E ho concluso pregando per il Kenya e il suo presidente.
Mi sono sentito un po’ inorgoglito, come se avessi fatto un discorso alla camera dei lords. Saverio, un kenyano, mi ha detto: «Padre, pareva che parlassi della libertà della tua nazione». È stato un complimento.
S tasera sono stanco nella solitudine della mia camera. La finestra è spalancata sotto le stelle, che sembrano essere state lucidate apposta per questo giorno. Mi ritrovo a canticchiare l’inno nazionale:
O Dio, nostra forza,
benedici tutti noi…

p. Giovanni Bonzanino

Francesco Beardi




SPECIALE 100 ANNI – Ieri e sempre…

PIONIERI

INOSSIDABILE
mons. Filippo Perlo (1873-1948)

Partito col primo drappello di quattro missionari destinati al Kenya, alle dipendenze dei padri dello Spirito Santo, padre Filippo Perlo raggiunse Tuthu, villaggio del capo kikuyu Karuri, la sera del 28 giugno 1902.
Superiore del gruppo l’Allamano aveva scelto padre Tommaso Gays; ma il capo naturale e motore trainante risultava a tutti Filippo Perlo: l’anno seguente fu nominato superiore.
Intelligente e pratico, lavoratore instancabile, salute di ferro, era nato per comandare. L’esperienza militare l’aveva formato a quel tipo di autorità che dà ordini senza troppe spiegazioni ed esige obbedienza assoluta. Per la profonda conoscenza del territorio, acquisita con numerosi e difficili viaggi, i suoi giudizi sul lavoro e scelte da fare erano spesso insindacabili; nel suo frenetico dinamismo indicava la strada e la percorreva per primo. Tutte le incipienti missioni del territorio affidato all’Istituto portano l’impronta della sua fatica, ispirazione e propulsione.
Sapeva servirsi delle autorità locali e coloniali senza lasciarsi condizionare; con intelligenza, diplomazia e qualche sotterfugio, riusciva a ottenere il massimo e concedere l’indispensabile.

Sognava una rete di missioni, distanti una giornata di cammino una dall’altra, entro cui abbracciare tutta la regione dei kikuyu per evangelizzarla e impedie l’accesso ai protestanti. Da qui la sua strategia: «occupare» i punti nevralgici, con strutture ridotte all’osso, da cui partire per la penetrazione capillare nel territorio. A un anno e mezzo dall’arrivo in Kenya erano nate sette missioni, un collegio per catechisti, una segheria e una fattoria agricolo-pastorizia in embrione.
All’inizio del 1904 i missionari si radunarono a Fort Hall (oggi Murang’a) e gettarono le basi del loro metodo di apostolato: formazione d’ambiente, cura dei malati, visite giornaliere ai villaggi, scuole, soprattutto di arti e mestieri, formazione di catechisti. Principi e regole diventate punto di riferimento fino ai nostri giorni.
Nel progetto iniziale dell’Allamano, l’impresa missionaria in Kenya doveva servire come prova temporanea, in attesa di spostarsi tra gli oromo (galla) dell’Etiopia. Ma padre Perlo convinse l’Allamano a chiedere a Propaganda fide di separare il territorio kenyano dal vicariato apostolico di Zanzibar e affidarlo ai missionari della Consolata. Il 14 settembre 1905, con grande disappunto dei padri dello Spirito Santo, fu creata la missione indipendente del Kenya e quattro anni dopo fu eretta a vicariato: padre Perlo fu nominato vicario e consacrato vescovo.

Il consolidamento del lavoro tra i kikuyu mise le ali a mons. Perlo, deciso a estendere l’attività missionaria ad altre etnie. Nel 1911 visitò la regione del Meru, ancora sconosciuta; individuò varie località adatte in cui fondare nuove missioni e, superati ostacoli e reticenze da parte delle autorità governative, vi inviò i primi quattro missionari per iniziare l’evangelizzazione dei meru.
Nella sua inesauribile strategia, il vescovo sarebbe voluto andare dappertutto; talvolta senza misurare le forze dei missionari. Già nel 1902 scriveva nel diario un piano di evangelizzazione per i nomadi masai: «Ancora da nessuno tentata, si presenta a noi in condizioni certamente favorevoli. Però il sistema di evangelizzazione sarà alquanto differente da quello dei kikuyu, popolo agricoltore e stabile. Come i missionari che evangelizzano i beduini, bisognerà seguirli nelle loro peregrinazioni, abitando nei loro kraals, in tende o casette mobili con ruote!». Il piano cominciò a realizzarsi solo nel 1963, quando a mons. Cavallera fu affidata la regione di Marsabit.

Intanto l’attività dell’Istituto si estendeva all’Etiopia (1916) e Tanzania (1919). Mons. Perlo metteva a disposizione i suoi migliori missionari; da Torino veniva consultato o suggeriva nuovi progetti e mezzi per attuarli. Al tempo stesso il vescovo escogitava per il vicariato una miriade di iniziative e ne controllava strettamente l’esecuzione. Tre di esse costituirono il fiore all’occhiello della sua geniale attività: tipografia (1916) e pubblicazione del mensile Wathiomo mukinyu, diventato strumento indispensabile per lo sviluppo delle scuole e consolidamento dell’attività catechetica; seminario di Nyeri per il clero locale (1919); congregazione delle suore indigene della Immacolata Concezione (1920).
Ritenendo la donna indispensabile nella evangelizzazione, il Perlo aveva voluto le suore fin dall’arrivo in Kenya, «prestate» dal Cottolengo; poi insistette perché l’Allamano estendesse la sua pateità anche al ramo femminile: nel 1910 nacque l’Istituto delle missionarie della Consolata. Egli sapeva quanto una missione dipendesse dalle suore. Non fu sempre tenero con loro, ma per lui contavano quanto i missionari, a volte anche di più.
Nel 1924 il vescovo dovette tornare in patria per seguire da vicino e a tempo pieno la vita dell’Istituto. Alla morte dell’Allamano divenne superiore generale. Durante la visita apostolica si ritirò dalla carica (1930). Avrebbe voluto tornare nel suo vicariato. Ormai con la nomina del nuovo vicario, mons. Giuseppe Perrachon, i ponti erano tagliati. Si ritirò a Roma, dove morì nel 1948.

Dall’antico vicariato apostolico del Kenya, sono nate l’arcidiocesi di Nyeri, con le suffraganee di Meru, Murang’a, Embu, Marsabit, Garissa e vicariato di Isiolo. Tali chiese locali restano la migliore testimonianza che l’opera, avviata e guidata per 22 anni da mons. Perlo, aveva radici profonde, capaci di portare frutti abbondanti.

INAFFERRABILE
mons. Gaudenzio Barlassina (1880-1966)

Era il sogno dell’Allamano: continuare il lavoro del Massaia in Etiopia. Turbolenze per la successione al trono, opposizione del clero copto, intrighi inteazionali rendevano impossibile l’entrata ai missionari.
Dal vicariato dei galla, affidato ai cappuccini francesi, nel 1913 Propaganda fide staccò la prefettura del Kaffa e nominò prefetto padre Gaudenzio Barlassina. «Trovata chiusa la porta, non mi resta che la finestra» decise il missionario: travestito da mercante, cavalcando un mulo, la sera di natale del 1916 entrò in Addis Abeba; affittò una casetta annessa all’Hotel Bollolakos e cominciò a studiare la situazione, oltre alla lingua e costumi del paese.
«Guardare senza copiare; sentire senza parlare; fare senza dire; procedere senza curarsi degli apprezzamenti umani…» era la strategia adottata per riuscire nella sua complicatissima missione. Per non dare nell’occhio, si dedicò a minuscoli commerci; lavorò come traduttore nella Banca Abissina; diventò socio della falegnameria dell’italiano Felice Gullino, col quale cercò i contatti giusti per raggiungere i suoi scopi.
Riuscì a farsi ricevere da ras Tafari, reggente al trono dell’impero etiopico. Questi apprezzò il progetto sociale e umanitario proposto da Barlassina; ma non concesse alcun permesso esplicito, per non provocare la suscettibilità del clero copto, sostenuto dalla regina Zauditù.
Gli andò meglio con alcuni ministri imperiali e capi locali, dai quali ottenne un lasciapassare per entrare nella regione del Kaffa per svolgere attività commerciali.

Alla fine del 1917 arrivarono i primi rinforzi, anch’essi camuffati da mercanti. Non potendo agire allo scoperto, Barlassina progettò scuole agricole e laboratori industriali, con cui entrare in contatto con la gente, soprattutto con i giovani: nasceva la stazione missionaria di Ghimbi, 500 km a ovest di Addis Abeba.
L’anno seguente, scoppiata un’epidemia di spagnola, i missionari si mobilitarono per soccorrere i malati: allacciarono relazioni con «molti cattolici abissini», residui delle cristianità del Massaia, cacciati dai paesi d’origine dalla persecuzione.
Con una fitta serie di leggendarie carovane mons. Barlassina perlustrò il territorio a lui affidato, strinse amicizie con i capi locali, studiò posizioni strategiche dove aprire nuovi centri commerciali-missionari. Nella prima carovana (1919) ebbe una stupenda sorpresa: a Giren incontrò abba Mattheos, ultimo superstite dei sacerdoti ordinati dal Massaia, costretto a domicilio coatto in mezzo ai musulmani. Si riannodava così l’ultimo filo che legava le gesta del grande cappuccino alle avventurose iniziative dei missionari della Consolata.

Era il tempo delle «catacombe». I missionari circolavano in incognito, chi con una vecchia Singer, cucendo tuniche e braghe per la gente dei villaggi; chi con pentole per raccogliere cera da fondere; chi fabbricando per capi, capetti e benestanti porte, finestre, divani, tavolini, casse per i vivi e per i morti. Intanto incontravano vecchi cristiani del Massaia e li accoglievano in segreto nelle loro capanne.
In due anni sorsero cinque stazioni missionarie. «Niente visibili monumenti di religione – scriveva monsignore -. Tutto è ancora piccolo: piccole cappelle, piccole scuole, piccoli ambulatori, piccoli catecumenati e piccole cristianità. I sacramenti sono amministrati all’ombra delle aziende e laboratori. Viaggiamo da poveri; ci stabiliamo come onesti lavoratori. Tra un lavoro e l’altro puramente materiale, trova comodo passaggio l’annuncio nascosto del vangelo».
Nel 1921 mons. Barlassina ottenne da ras Tafari la concessione di sfruttare la foresta di Sayo, ai confini col Sudan; fu allestita una falegnameria dove si costruiva di tutto, fino a case smontabili e trasportabili a distanza. La regina Zauditù e ras Tafari ordinarono due palazzine, completamente arredate. Il trasporto del materiale fino alla capitale, oltre 700 km, richiese 80 giorni di viaggio, due carovane di 3.600 portatori ciascuna e la collaborazione di 22 governatori, obbligati dall’autorità imperiale a procurare il ricambio del personale. L’impresa leggendaria aprì definitivamente i cuori dei sovrani nei riguardi di Barlassina: nel 1924 ottennero il permesso di fare entrare in Etiopia le prime suore della Consolata.
Era un tacito riconoscimento dell’attività religiosa dei missionari. Accanto ai laboratori, dispensari e bazar sorsero opere di autentica missione. Nel 1927 il Kaffa contava 11 stazioni missionarie, disseminate in un territorio esteso come l’Italia continentale, un seminario e un convento di suore indigene: le Ancelle della Consolata.

Negli anni di presenza in Etiopia Barlassina si era fatto etiope con gli etiopi, tanto che grandi studiosi di cose abissine si rivolgevano a lui come fonte esperta in materia. Non meno benemerita fu l’attività di mons. Barlassina per combattere la piaga della schiavitù. Oltre a raccogliere fondi per affrancare gli schiavi, studiò un progetto per restituire loro dignità, organizzando i «villaggi della libertà». Per liberare la gente da epidemie e malattie, fondò ospedali nella capitale e nell’interno del paese, chiamando a dirigerli medici italiani.
Nel 1932, alla posa della prima pietra dell’ospedale italiano di Addis Abeba, mons. Barlassina aveva accanto a sé l’amico ras Tafari, diventato imperatore col nome di Hailé Selassié. Era un riconoscimento esplicito di 16 anni di instancabile attività, condotta con eroica abnegazione e mirabile prudenza.
Quando la prefettura del Kaffa era ormai consolidata, nel 1933 mons. Barlassina fu eletto superiore generale, carica riconfermata nel capitolo del 1939. Per 17 anni guidò l’espansione dell’Istituto in Europa e America Latina. Nel 1949 fu nominato procuratore generale presso la Santa Sede, ufficio che rivestì fino alla morte (1966).

INARRESTABILE
padre Pietro Calandri (1893-1967)

Da piccolo sognava di fare il «bandito». Entrato nel seminario diocesano, non sapeva come conciliare sogni di avventura e vocazione; «ed eccoti saltar fuori la chiamata alla missione» racconterà lui stesso. E fu una vita al cardiopalmo.
Dopo cinque anni di esperienza in Kenya, nel 1925 padre Pietro Calandri fu inviato in Mozambico, con i primi missionari della Consolata destinati alla missione di Miruru. In tasca, però, aveva l’ordine di recarsi nella regione del Niassa insieme a padre Amiotti. Si stabilì a Mandimba, ai confini con il Malawi. Nel frattempo i superiori avrebbero richiesto i dovuti permessi.
Invece dell’autorizzazione, il prelato del Mozambico, dom Rafael Assunção, intimò di uscire immediatamente dal paese, sotto pena di sospensione da ogni attività religiosa. Da Torino arrivò l’ordine di restare. Per padre Calandri seguirono due anni di «purgatorio»; «una situazione così terribile» da farlo piangere giorno e notte.
Nel 1928 la proibizione del prelato fu revocata e padre Calandri cominciò immediatamente la costruzione della missione di Massangulo. Ma non ebbe vita facile: appena iniziati i lavori, il governatore del Niassa gli ritirò il permesso di residenza. Due anni dopo, il delegato apostolico gli ordinò di chiudere la missione. Per chiarire la faccenda, il padre dovette correre prima a Porto Amelia, poi a Beira, migliaia di chilometri con mezzi sgangherati e sentirneri da capre.
Altre minacce venivano da ladri, leoni e capi musulmani. «La lotta è il mio pane quotidiano» diceva spesso e i lavori continuarono frenetici. Con l’arrivo delle suore furono avviate le scuole elementari, la visita sistematica ai villaggi, la cura dei malati in missione e a domicilio.
Progettava altre missioni, ma dom Rafael negava ogni permesso di espansione. Padre Calandri concentrò i suoi sforzi per ingrandire Massangulo: collegi e scuole per oltre 200 alunni; laboratori di arti e mestieri; elettricità in tutta la missione; trapianto di migliaia di piante coltivate nei vivai; frutteto e orto, campi di caffè e grano; scuole-cappelle nei villaggi, affidate a maestri formati alla missione; formazione dei primi nuclei di famiglie cristiane.

Tensioni e scontri tra il missionario e il vescovo durarono fino al 1936. Da Roma dom Rafael si sentiva dire che l’evangelizzazione del Mozambico «era indietro di 300 anni», per cui egli aveva bisogno di personale. A Lisbona si vedevano con sospetto i missionari stranieri, specie italiani, visti come la lunga mano di Mussolini. Torino inviava missionari più del richiesto. E il vescovo scaricava il suo imbarazzo su Calandri.
Per eliminare l’equivoco, Roma sostituì dom Rafael con dom Teodosio de Gouveia; il superiore generale, mons. Gaudenzio Barlassina, spedì Calandri a São Manuel (Brasile), per dipingere la chiesa di Santa Teresina.
Oltre alla pittura, Calandri si dedicò anima e corpo al lavoro missionario. La gente lo adorava. Esteamente era entusiasta e ottimista, ma nel cuore sentiva quella destinazione come un castigo immeritato. Una ferita che lo fiaccò fisicamente, fino ad ammalarsi. A liberarlo dalla «terribile oppressione e agonia», che da quattro anni lo stavano consumando, arrivò il permesso di ritornare nella sua missione.
A Massangulo trovò come superiore provinciale un missionario della sua statura, ma di mentalità totalmente differente: interveniva in ogni decisione presa da Calandri. Dopo una serie di scontri e arrabbiature indescrivibili, il provinciale ebbe la bella idea di stabilirsi a Mitucué. Padre Calandri rimase a Massangulo con i suoi collaboratori, lavorando in armonia e frateità: la missione cresceva, fino ad accogliere oltre 500 alunni.

Nel 1948 padre Calandri fu richiamato in Italia; ma il vescovo di Nampula gli ordinò di restare al suo posto fino alla visita canonica del superiore generale. «Che cosa ho fatto di male?» si domandava il padre.
Da tempo lo si criticava per aver fondato la missione in una zona totalmente musulmana; perché perdeva tempo con gli orfani meticci, da qualche testa fasciata definiti «figli del peccato»; per la sua ospitalità, che avrebbe trasformato la missione in un albergo… A distanza e senza vedere la realtà, le critiche diventavano macigni.
Arrivato il superiore generale per la visita canonica padre Calandri fu chiamato a Mitucué: l’incontro si trasformò in «una bufera con tuoni e lampi». Ma quando mons. Barlassina arrivò a Massangulo, cambiò totalmente atteggiamento: non finiva di meravigliarsi per lo splendore e numero delle opere e attività della missione. Per il resto della vita monsignore continuò a definire Massangulo «una meraviglia».

Toata la bonaccia, padre Calandri continuò a lavorare col solito entusiasmo e determinazione, realizzando i sogni coltivati da tanti anni: la missione sul lago Niassa, a Cobué, e la costruzione della chiesa dedicata alla Consolata, subito definita «cattedrale del Niassa».
E continuava a battagliare contro le ingiustizie: prima con i produttori di cotone, che sfruttavano la gente in modo vergognoso; poi con le autorità coloniali che, scoppiata la guerriglia indipendentista, vedevano terroristi dappertutto e molti innocenti venivano uccisi o torturati.
Ma gli acciacchi dell’età si facevano sentire. Nel 1962 chiese e ottenne di essere sostituito dalla responsabilità di superiore. Seguirono gli anni della gloria: il presidente del Portogallo in persona gli appuntò sul petto la medaglia dell’Ordine di Cristo; il governo italiano lo nominò Cavaliere della Repubblica; il Vaticano gli conferì la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice.
Nel 1967, tre mesi dopo aver celebrato il 50° anniversario di sacerdozio, morì nell’ospedale di Nampula. Fu sepolto nella sua «cattedrale», secondo il suo ultimo desiderio: «Voglio che la mia anima scenda dal cielo a prendere il mio corpo a Massangulo».

U na vita tutta in salita; ma non si arrese mai. Padre Calandri fu pioniere, eroe, gigante, artista, antropologo… ma soprattutto educatore, difensore e padre degli africani, specie degli ultimi. Cuore sincero e sensibile, li amò tutti, senza distinzione, cristiani e musulmani. E fu riamato.

TRAVOLGENTE
padre Giovanni Battista Bisio (1903-1947)

A 21 anni (era nato a Garessio, Cuneo, nel 1903), ancora studente, Giovanni Battista Bisio dirigeva i lavori per la costruzione della cattedrale di Mogadiscio, dove fu ordinato sacerdote nel 1926. Amministratore della scuola di arti e mestieri e delle attività agricole, fece appena in tempo a farsi le ossa: nel 1930 il vicariato della Somalia fu consegnato ai cappuccini. Il padre toò in Italia e passò alla formazione dei fratelli coadiutori.

N el 1937 padre Bisio fu inviato in Brasile per studiare la possibilità di raccogliere mezzi e vocazioni. A offrire un piede a terra era il vescovo di Botucatú, chiedendo in cambio di assumere la responsabilità della parrocchia di São Manuel e portare a termine la costruzione del santuario di s. Teresa di Lisieaux.
A poche settimane dall’arrivo, padre Bisio era già sui ponteggi per dirigere i lavori, tra la meraviglia dei muratori: l’anno seguente il santuario fu inaugurato. Con l’arrivo di due confratelli iniziò a rinnovare la vita della parrocchia, guadagnandosi stima e amore della gente.
Entusiasta e intuitivo, vide nel Brasile enormi potenzialità vocazionali e cominciò a sognare qualcosa di impensabile in quei tempi: l’inteazionalità dell’Istituto. Tenace e pratico, faceva progetti dettagliati e chiedeva l’approvazione dei superiori, insieme all’invio di personale per la formazione degli aspiranti. Suggeriva di cercare un campo di prima evangelizzazione, di cui il paese era ricco, per mandarvi i futuri missionari brasiliani.
A sostenere il suo entusiasmo arrivò padre Domenico Fiorina, con visioni più avanzate: missionari della Consolata brasiliani inviati ad altri popoli e continenti.
A Torino, però, si consigliava di procedere con i piedi di piombo, finché l’avventura brasiliana non fosse passata al vaglio del capitolo straordinario del 1939. All’assemblea capitolare partecipò anche padre Bisio. La sua relazione fu accolta con favore, anche se furono poste restrizioni più di forma che di sostanza.

A capo di sei missionari, padre Bisio martellava i superiori per avere altro personale. La guerra in corso ne aveva assottigliato la disponibilità. Gli fu risposto: «Arrangiatevi come potete». «Fecero miracoli di abnegazione e buona volontà» come testimoniava il superiore del gruppo. Il 16 febbraio 1940, adattando ambienti già esistenti, venivano inaugurati due seminari «embrionali», l’uno ad Aparecida, nei pressi di São Manuel, l’altro mille chilometri lontano, a Rio do Oeste, stato di Santa Catarina, affidato a padre Domenico Fiorina.
Nel 1942, quando il Brasile entrò in guerra al fianco degli alleati, i missionari si trovarono dalla parte sbagliata e furono annoverati tra i nemici. I massoni di São Manuel cercarono di tirare padre Bisio per la giacca; il suo nome comparve in una lista di spie. Ma riuscì a difendersi e scagionarsi totalmente. Ma più logoranti furono l’isolamento in cui erano costretti i missionari in Brasile e le difficoltà di comunicare con i superiori in Italia, per ricevere chiare direttive ed evitare incomprensioni.

Finita la guerra, padre Bisio riprese a stendere progetti sorprendenti per l’espansione dell’Istituto in Cile, Argentina e altri paesi sudamericani. Ne illustrava i vantaggi con dovizie di particolari. Ma Torino frenava i suoi bollori e centellinava il personale.
Nel 1946 il padre rientrò in Italia per un periodo di riposo e per riaffermare l’attaccamento all’Istituto: lo sforzo di autosostenersi economicamente aveva destato in qualcuno il sospetto che il gruppo del Brasile fosse diventato troppo autonomo. Padre Bisio non ebbe difficoltà a dimostrare la lealtà all’Istituto e ai superiori. Continuò a battere il chiodo del personale e toò in Brasile con la nomina di superiore provinciale e una decina di missionari e altrettante suore.
Con i nuovi arrivati si poteva consolidare la formazione di oltre 100 aspiranti missionari, aprendo noviziato e seminario filosofico, e assumere la responsabilità di nuove parrocchie. Mentre le suore, oltre a collaborare con i lavori in corso, accoglievano nel noviziato una ventina di aspiranti, già preparate spiritualmente da padre Fiorina.
Nel 1947 i missionari espulsi dall’Etiopia e quelli che non poterono tornare nelle colonie inglesi, furono dirottati in Brasile. «Troppa grazia, sant’Antonio!», pensò padre Bisio, che dovette sobbarcarsi a interminabili trasferte per cercare nuovi campi di lavoro.
Dopo 10 anni di attività intensa, viaggi spossanti, responsabilità sempre crescenti, il padre si sentiva stanco e chiese ai superiori di passare la responsabilità di guida a padre Fiorina. Da Torino lo si riteneva ancora necessario: era l’uomo giusto al posto giusto.
Ma il 17 maggio 1947, ricoverato all’ospedale di Jahù per una banale appendicite, padre Bisio morì a causa di una misteriosa complicazione.

«Muoio giovane, a 44 anni, per andare a vivere la vita vera. Muoio contento: mi è forza e gioia il pensiero di aver compiuto il mio dovere di sacerdote, religioso e cristiano. Per primo venni in Brasile, per primo devo morire» furono le ultime parole.
Una vita breve, ma vissuta intensamente. Il seme da lui piantato e coltivato ha maturato decine e decine di missionari della Consolata brasiliani, inviati in tutti i continenti. I suoi sogni sono stati superati dalla realtà: oltre ai vari stati brasiliani, l’Istituto si è esteso ad altri quattro paesi dell’America Latina.

benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – I generosi

FINO ALL’ULTIMO
RESPIRO
padre Giovanni Borra (1900-1986)

Domenica al tramonto. Dalla gradinata della chiesa della Consolata di Iringa (Tanzania) i cristiani sciamano, dilagando sul piazzale antistante. Appoggiato al bastone, un anziano missionario fende decisamente la folla, aggredito da un vespaio di marmocchi affettuosi e scoccianti che implorano una caramella. La scena è da gustare. Sul volto asciutto e forte del missionario, temperato da uno sguardo dolce e penetrante, vi sono tracce di stanchezza e soddisfazione: è padre Giovanni Borra, 86 anni, 62 dei quali trascorsi in Africa, felice di essere ancora sulla breccia.
Così lo ricorda un gruppo di amici toscani: «Volto dolce, occhi penetranti, sorriso sereno e cuore grande come l’Africa. Siamo subito commossi e conquistati da questo patriarca, nel quale generosità, affabilità e simpatia si fondono armoniosamente. Mente viva, voglia di lavorare, nonostante gli acciacchi degli anni, gli si legge sul volto la serenità di un uomo realizzato, che con fede, perseveranza e carità ha vinto tutte le battaglie».

Era nato il 26 luglio 1900 a Benevagienna (Cuneo). Entra nell’Istituto a 15 anni. Dall’inizio del 1918 all’aprile del ’19 cambia la tonaca con il grigio-verde, arruolato in fanteria come aiutante infermiere: di giorno fa il soldato; di notte studia filosofia, che «ovviamente ne uscì piuttosto malconcia e sbrindellata» affermerà egli stesso.
Nel 1924 è in Tanzania. A Bihawana (presso Dodoma) Giovanni subisce il primo shock umano e missionario: incontra spettri affamati e consunti da siccità e carestia. Immagine raccapricciante che ricorderà tutta la vita.
La trasferta a Tosamaganga (300 km) avviene su carri trainati da buoi: 15 giorni di carovana estenuante; per compassione delle bestie spesso si va a piedi. Un mese dopo padre Giovanni è di nuovo in marcia: altri sei giorni per raggiungere Mchombe, nella regione dell’Ulanga. Rimasto solo a reggere la missione, con una infarinatura su usi e costumi, si sente sperduto. Gli basta un anno per comunicare con la gente e non sentirsi più un pivello.
«Ulanga» significa «regno delle acque». Il territorio è una ragnatela di fiumi, torrenti e pantani; la vegetazione è lussureggiante; la terra fertilissima: sono possibili almeno due raccolti all’anno. Ma è anche il regno delle zanzare, che si accaniscono contro padre Giovanni. La malaria lo coglie spesso, con fremiti violenti, cefalee, nausee e dolori di ossa paralizzanti.
Durante un attacco malarico più irruente e prolungato del solito, il padre invia un giovanotto a Tosamaganga per implorare un po’ di chinino. Il superiore gli risponde: «Chinino non ne abbiamo. E poi, se sarai ancora vivo quando toerà quest’uomo, il chinino non sarà più necessario. Ti benedico». Quando la febbre è più vertiginosa, il missionario cerca sollievo dentro un fusto da benzina pieno d’acqua fredda: accovacciato, si fa versare secchi d’acqua fresca sulla testa scottante.
Solitudine e difficoltà finanziarie non permettono di fare grandi sogni. Con illimitata fiducia nella Provvidenza e rimboccandosi le maniche, padre Giovanni riesce a dotare la missione con un minimo di strutture e sostenee le varie attività: scuola, dispensario, catechisti, catecumenati. E non si scoraggia davanti agli insuccessi, come quello capitato col primo gruppo di giovani raccolti alla missione per prepararli al battesimo. Erano una trentina; per sfamarli ha procurato alcuni sacchi di granoturco, riso e fagioli con grandi sacrifici. Tutto procede bene, fino a quando il padre va a Tosamaganga per gli esercizi spirituali: al ritorno i 30 catecumeni sono spariti insieme alle vettovaglie. «Santa pazienza!» esclama il missionario e ricomincia da capo.

Dal 1930 al 1933 padre Giovanni deve ricominciare da capo spesse volte, cambiando missione: Taweta, Madibira, Ujewa, Mdabulo e finalmente Wasa. Qui rimane per 37 anni, spendendo tutto se stesso: intelligenza, lavoro, salute e soprattutto il suo grande cuore. Provate a pronunciare il suo nome con qualsiasi abitante del posto: il suo volto si illuminerà; molti di essi diranno con orgoglio: «Sono stato battezzato da padre Borra».
Nel 1952 è nominato superiore provinciale. Non c’è missionario che non abbia goduto della sua squisita umanità. Finito il mandato, ricomincia a Wasa, Ulete, Makalala, Mafinga, Tosamaganga, Iringa; magari come vice parroco, purché gli permettano di restare sulla breccia, fino all’ultimo respiro, esalato a Iringa, il 24 luglio 1986.

UN UOMO TUTTO CUORE
padre Vincenzo Dolza (1880-1946)

Ragioniere, impiegato con un buon salario, una ragazza già adocchiata… A 22 anni si presentò all’Allamano, chiedendo di andare in Kenya come fratello coadiutore. Il fondatore gli disse di studiare il latino per diventare prete. Alla vigilia dell’ordinazione chiese di rimanere diacono. «Vai avanti!» gli rispose l’Allamano. Nel 1910 Vincenzo Dolza diventò prete. Aveva 30 anni. Era nato a Novara nel 1880.

G li fu chiesto di fare il «missionario in patria» come aiutante economo di Giacomo Camisassa nelle multiforme attività dell’incipiente Istituto. Padre Vincenzo cominciò a scarpinare per Torino, per provvedere il necessario alla vita della casa madre e alle missioni. Per 12 anni i suoi sogni rimasero chiusi in casse e cassoni che spediva in Africa dopo accorati addii.
Esuberante ed estroverso, non gli era facile accontentare il meticoloso e precisissimo canonico; ma era uno specialista nell’imbonire i creditori con battute spiritose e aneddoti di missione, convincendoli a pazientare, fare sconti e perfino diventare padrini dei «moretti» abbandonati nella foresta.
Un giorno, in un ufficio pubblico, s’imbatté in una segretaria carina, ma «imbranata»: padre Vincenzo le sedette accanto, le mise in ordine i registri e le insegnò come tenere la contabilità, sotto gli occhi sgranati dei presenti. La notizia arrivò fino alle orecchie dell’Allamano, che, tra il serio e il faceto, lo rimproverò: «Caro figliolo, sei sempre lo stesso: tutto cuore e niente testa».

Nel 1922 Vincenzo poté partire per il Kenya. Arrivato in vista di Mombasa, afferrò con ambo le mani il crocifisso che gli pendeva sul petto e benedisse tutta l’Africa; rimettendolo a posto, la mano sfiorò una tasca rigonfia. «L’Africa si converte con la croce, non col denaro» esclamò: estrasse il portafoglio e lo gettò in mare.
Destinato al Meru, svolse la sua attività in varie missioni: Mikinduri, Oringo, Ighembe, Egoji. Di soldi ne ebbe sempre pochi, ma suppliva con la vita spartana, inarrestabile operosità e fiducia sterminata nella Provvidenza. La sera, davanti al tabeacolo e alla Consolata, raccontava crucci e problemi: iniziava sospirando «ma!» e continuava ad alta voce finché non avesse vuotato il sacco. A volte, vinto dalla stanchezza, si accasciava sulla predella dell’altare e vi dormiva tutta la notte.
Pioggia o sole, distanze e asperità dell’ambiente, niente lo fermava nella brama di donarsi, dovunque ci fosse un dolore da condividere e sollevare. E poiché con i motori era una frana, termina i suoi viaggi col cavallo di s. Antonio, cioè facendo decine di chilometri a piedi, sfinito dalla canicola e spesso con la febbre.
Ma sapeva parlare una lingua comprensibile da tutti: quella dell’amore, bontà e comprensione. La sua parola, ricca di arguzia e comicità, gli conciliava stima e affetto e riusciva sempre ad attirare recalcitranti e impenitenti.
Gli africani si accorsero subito del suo cuore vulnerabile: a nessuno rifiutava mai un aiuto. Venivano anche gli «scrocconi». Pur leggendo loro in fronte le bugie, dopo un lungo tira e molla, tra borbottamenti in piemontese, padre Vincenzo metteva la mano in tasca e consegnava i pochi scellini che vi erano rimasti.
I confratelli dicevano che padre Dolza aveva le mani bucate. Ma con se stesso egli era spartano fino all’indigenza. «Per andare avanti – scriveva in una lettera del 1935 – ho venduto anche la mia macchina fotografica, i vestiti di lana e il fucile».
R ientrato in Italia per riposarsi e riprendersi in salute, nel 1935 partì per il vicariato di Gimma (Etiopia). Mentre imparava l’amarico, fece il cappellano dell’ospedale italiano di Addis Abeba. Sulla porta dell’ufficio aveva scritto: «Avanti! Sempre aperto!». Civili e militari, sani e malati, europei e africani, cristiani e «mangiapreti» lo definirono: «Figura magnifica di missionario».
Passato alla missione di Cengia, sulle rive del lago Margherita, padre Dolza riprese a lavorare senza risparmiarsi: in sei mesi furono costruiti la casa dei padri e cinque capannoni per ospitare collegiali, catecumeni e bambini dell’asilo. Qui lo colse lo scoppio della seconda guerra mondiale e la successiva ribellione degli indigeni. Rifugiatosi ad Addis Abeba, seguì i connazionali nel campo di concentramento di Mandera, fino al rimpatrio (1943). Ridotto a pelle e ossa, continuò a prendersi cura dei dolori altrui. Benché riuscisse sempre a nascondere la ricchezza del suo cuore sotto una coltre di facezie. Un giorno confessò senza avvedersene: «Mai ho dovuto asciugare tante e tante lacrime come nel campo di inteamento e sulla nave».

A Torino, sebbene malandato in salute, trovò un nuovo campo di lavoro tra i soldati dell’ospedale militare. Finita la guerra ritoò in comunità; ma un tumore alla vescica lo costrinse a sottoporsi a un intervento chirurgico nell’ospedale del Cottolengo. Visitato dai confratelli e dalle suore vincenzine che avevano condiviso con lui le fatiche missionarie nel Meru, seguitava a scherzare sul suo male e a far progetti per il futuro. Spesso però finiva dicendo: «Sono un povero crocifisso».
Moriva il 7 ottobre 1946.

NEL CUORE DEI POVERI
mons. Antonio Torasso (1914-1960)

«Non mi darò pace finché vedrò un infelice che piange, finché non vi sarà pace in tutta la regione, finché non vi sarà gioia in tutti i cuori». Con queste parole, pronunciate nella chiesa di Florencia nel primo incontro con la popolazione del vicariato del Caquetá (Colombia), mons. Antonio Torasso sintetizzò il suo programma missionario e la sua vita.
Zelante senza riserve, organizzatore intelligente e dinamico, era il più giovane vescovo di quei tempi. Aveva 38 anni. Era nato a Verolengo (Torino) nel 1914. Entrato tra i missionari della Consolata a 12 anni e ordinato sacerdote nel 1940, svolse varie attività in Italia fino al 1947, quando fu scelto come superiore del primo gruppo di missionari destinati al nuovo campo di lavoro affidato all’Istituto nella regione del Rio Maddalena in Colombia.

Fermatosi a Bogotá per meglio provvedere allo sviluppo dei centri del Rio Maddalena, a padre Torasso fu affidata anche la nuova parrocchia del rione Vergel, alla periferia della capitale. In breve tempo portò a termine la chiesa-santuario della Consolata e residenza dei padri; costruì le strutture necessarie per le prime suore della Consolata: casa, noviziato, collegio femminile e scuola professionale.
Bastarono cinque anni per farsi conoscere e apprezzare: nel 1952 padre Torasso fu nominato primo vescovo del vicariato di Florencia, che Propaganda fide aveva da poco creato e affidato ai missionari della Consolata.
Il vasto territorio (102.000 kmq), che comprendeva la regione del Caquetá e parte del Putumayo, era teatro di immigrazione disordinata, con una presenza dello stato quasi nulla. A cavallo, in canoa o a piedi monsignore cominciò subito a visitare il vicariato e continuò fino alla morte, per portare a tutti, missionari e popolazione, il conforto della sua parola e l’amore del suo cuore.
Senza guardare in faccia ai politicanti e ai loro partiti, si schierò dalla parte della gente, difendendone strenuamente i diritti, specie di coloro che non potevano far udire la loro voce: poveri, deboli, sofferenti, malati, abbandonati e indios. Questi, soprattutto, amò con speciale attenzione e fu da essi tanto stimato.

Fedele al motto scritto sul suo stemma episcopale, «sicut palma florebit» (fiorirà come palma), con la collaborazione dei missionari, suore e laici, mons. Torasso disseminò il vicariato di numerose opere di carattere religioso, educativo e sociale. Per offrire un punto di riferimento alle famiglie sparse lungo i fiumi e nella selva amazzonica, fece costruire numerose chiese in muratura, attorno alle quali fiorirono grandi centri abitati fino allora inesistenti.
In una regione dove i governanti si facevano vivi solo in occasione delle elezioni, mons. Torasso organizzò una formidabile rete di scuole primarie e secondarie, curandone l’amministrazione e la formazione degli insegnanti, radunandoli spesso per corsi di aggioamento; nei centri più popolati e strategici fece costruire grandi collegi maschili e femminili e istituti professionali; per la gente sperduta nella foresta organizzò scuole radiofoniche.
Non meno importanti furono le opere sociali fiorite per sua ispirazione, tra le quali il barrio «La Consolata» in Florencia, un intero rione di casette per un centinaio di famiglie indigenti; la tipografia «Allamano», con annessa scuola tipografica; un ospedale in Villa Fatima; 52 km di strada per congiungere i fiumi Orteguaza e Caquetá.
Non è esagerato affermare che lo sviluppo civile e sociale di tutto il Caquetá è opera dei missionari e del loro ispiratore e guida.

Dopo otto anni di infaticabile attività, qualcuno cominciò a mettere il bastone tra le ruote delle iniziative di mons. Torasso. Ne parla lui stesso in una lettera dell’aprile 1960. «Quanti nemici hanno cercato di dividere il nostro popolo! L’ultimo attacco fu sferrato dai comunisti, protestanti e libertini; con una propaganda subdola e calunniosa cercavano di imbrattare tutto: vita e intenzioni, azione e successi dei missionari. Una vera tempesta, presto placata dal sole di verità e giustizia».
Fu una dura prova per il vescovo missionario. Le sofferenze morali si aggiunsero a quelle causate dallo stato di salute. Sottoposto a esami clinici, gli fu scoperta una «leucemia all’ultimo stadio». Sentì tutta la gravità del momento. Alla ribellione della natura sensibile oppose la forza della sua fede: «Voglio ciò che vuole lui! – scriveva a un suo amico -. Mi sento bene, con Gesù, in Croce. Forse il Calvario durerà poco, forse vedrò presto la Madonna: i miei occhi si riempiono di lacrime di gioia».
«Vieni, Signore Gesù!» furono le sue ultime parole. E fu un placido incontro: il 22 ottobre 1960.
Sulla sua tomba, nella cattedrale di Florencia, la gente continua a portare fiori freschi, chiedendo di continuare nella sua promessa, poiché nella regione per cui ha dato la vita molti infelici piangono ancora e la pace fatica a farsi strada.

TUTTO PER I POVERI CRISTI
padre Eugenio Menegon (1912-1996)

«Gesù, Gesù!» esclamava quando ingranava la marcia sbagliata della Land Rover. La caricava di materiali, persone e animali da farla schiattare. Spesso rimaneva in panne. E continuava il viaggio a piedi, arrivando a destinazione distrutto dalla stanchezza, ma sempre allegro e gioviale come d’abitudine. Erano leggendarie le sue camminate lungo i sentirneri accidentati delle missioni di Cobué e Metangula, nell’estremo nord del Niassa, per raggiungere la gente dovunque si trovasse.
Padre Eugenio Menegon era fatto così: con i motori non aveva dimestichezza né misericordia; di fronte alle necessità della gente non aveva pietà neppure per se stesso. Un esercizio cominciato presto. Nel 1940, con in tasca la destinazione al Mozambico, fu chiamato sotto le armi come cappellano in vari ospedali militari. «Arrivano direttamente dal fronte feriti gravi e leggeri, tutti bisognosi di qualcosa: telegrammi da compilare, denaro da cambiare, lettere da scrivere, piccole spese da fare – scriveva ai superiori -. E devo fare tutto subito. In fatto di adattabilità tengo come principio d’essere napoletano con i napoletani, toscano coi toscani, piemontese coi piemontesi». E sognava di farsi africano con gli africani.
Finita la guerra, fu fermato in Italia per svolgere il compito di animatore missionario in varie case, finché nel 1949 poté partire per il Niassa (Mozambico). Aveva 37 anni. Era nato a Montebelluna (Treviso) nel 1912.

«Signore, dammi due vite; una non basta» ripeteva spesso a mo’ di cantilena. Avrebbe voluto fare mille cose allo stesso tempo; e si lamentava che gli altri non facessero altrettanto. Forte come un leone, tenace come una quercia, instancabile, i giovani missionari stentavano a tenergli il passo. Per lui non esistevano tempi e orari, quando qualcuno ricorreva a lui per chiedere aiuto o semplicemente per essere ascoltato. Il suo cuore era aperto a tutti, piccoli e grandi, bisognosi e imbroglioni, ubriachi e senza bussola. Donava senza risparmio. Per sé non riservava nulla.
Durante la lotta contro il potere coloniale, non esitò ad affrontare la polizia segreta portoghese per liberare dalla prigione varie persone sospettate di appoggiare la guerriglia. Neppure le pallottole dei ribelli riuscivano a intimorirlo, finché, in un agguato, fu ferito a una gamba, mentre si recava in visita ai suoi cristiani. All’ospedale ci fu una processione mai vista di visitatori.
Indipendenza del paese (1975) e rivoluzione marxista gli resero più difficile la vita: le opere della missione nazionalizzate; restrizione dei movimenti dei missionari e fame per tutta la popolazione del Niassa. Padre Eugenio non poteva rassegnarsi di fronte alle sofferenze della sua gente: racimolava dappertutto un po’ di sapone, sale, cibo, vestiario da distribuire ai più poveri. A Metangula i rivoluzionari lo sorpresero mentre dava a un poveraccio un pezzo di sapone: fu accusato di candongueiro (contrabbando) e condannato a domicilio coatto nella casa del vescovo a Lichinga; poi espulso dal Niassa (1979).
Toò in Italia per qualche settimana; poi eccolo di nuovo a Maputo, la capitale del Mozambico.

«Gesù, Gesù! Cosa ho mai visto! Non te lo dico!» diceva spesso. E cominciava a raccontare, sia perché il suo cuore non reggeva alle miserie incontrate, sia per chiedere aiuto. Non gli restava mai un soldo in tasca; ma tutti dovevano aiutarlo, perché potesse aiutare tutti.
A Maputo padre Eugenio cominciò una seconda vita a servizio dei poveri, ammalati e carcerati. Per raggiungerli più rapidamente, a 70 anni suonati, diede l’esame di patente per guidare il motorino. Ogni giorno, zaino da alpino sulle spalle, attraversava la caotica città e raggiungeva le sue mete.
Era proibita qualsiasi assistenza religiosa agli ammalati, tanto più ai carcerati. Ma quando poliziotti, vigili, dottori, membri del partito lo vedevano, non potevano fare altro che sorridere e lasciare passare quel vecchietto, diventato segno vivente della carità. Si fermava accanto a tutti, credenti o non credenti. Arrivava carico di ogni cosa, anche giornali e riviste, che elemosinava nelle case, ambasciate, negozi, «perché – diceva – non si sentissero abbandonati e tagliati fuori dalla vita».
Molti poveri venivano a casa per chiedere un aiuto. Di fronte al via vai di estranei nell’abitazione, qualche confratello borbottava. Un giorno il superiore sorprese nell’atrio della casa un povero in mutande che, sotto gli occhi innocenti del missionario, provava un vecchio paio di calzoni; e gli espresse il suo disappunto. «Padre, ma è Gesù!» disse candidamente padre Eugenio.
Se padre Menegon vedeva Gesù in tutti i poveri, questi vedevano il volto di Cristo in quello del missionario.

«I poveri danno fastidio – soleva dire -, ma non a chi ha un cuore misericordioso». Lui stesso era un uomo scomodo per tutti. Per le autorità civili, prima di tutto, che nel Niassa vedevano nel suo amore verso i poveri un atteggiamento «controrivoluzionario». Per i confratelli e per la chiesa in generale era coscienza critica: la sua carità senza calcoli e barriere metteva in discussione le loro «strategie e cammini di liberazione». Quando sentiva parlare di azione politica, educativa… il padre soffriva: «La carità troppo programmata non era più carità, perché fagocitava i più poveri» ripeteva.
Non pensiate, però che padre Eugenio fosse un rompiscatole. Era, invece, un uomo di grande compagnia. Divoratore di giornali e riviste, si interessava di tutto e sapeva parlare su qualsiasi argomento. Aveva un cuore di fanciullo, che si incantava e commuoveva per qualsiasi cosa, come gli capitava quando vedeva il tricolore sventolare davanti all’ambasciata italiana di Maputo. Amava la vita, con tutte le sue giornie e dolori. Bisognava vederlo seguire alla televisione le partite di calcio: a 80 anni sembrava un tifoso da curva nord.

«Che sbaglio ho fatto lasciare il Mozambico!» gli sfuggì una volta: era rientrato in Italia all’inizio del 1996, perché l’età e gli acciacchi non gli permettevano più di guidare il motorino e non voleva essere di peso ai confratelli. Nei pochi mesi di vita che gli restarono (morì il 2 ottobre 1996), continuò a stare vicino ai suoi poveri, con la preghiera. Passava lunghe ore davanti al tabeacolo, dimenticandosi dei pasti. Bisognava andarlo a chiamare. «Padre, è ora di mangiare!» gli disse una sera un confratello. «È quello che sto facendo», rispose seraficamente padre Eugenio.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – Illustrissimi

Li potremmo chiamare «i missionari con la penna», pur essendo abilissimi anche con strumenti meno nobili. Hanno messo a servizio della missione le loro doti intellettuali, spesso eccellenti e brillanti. Mossi da affetto e simpatia per la gente, si dedicarono allo studio della lingua, tradizioni, costumi, arte, modi di vivere, folclore. Pur non avendo sempre la patente di specialisti, sono diventati linguisti, etnografi, cartografi, scrittori, romanzieri, esperti di scienze naturali. Oltre a portare alla ribalta, spesso per la prima volta, popolazioni e ambienti sconosciuti, sono stati educatori di generazioni di altri missionari.

CAPIRE L’ANIMA
padre Costanzo Cagnolo (1887-1961)

Scoccava la mezzanotte del 6 luglio 1961 quando, a Nyeri, padre Costanzo Cagnolo chiudeva la sua giornata terrena, durata 74 anni, 48 dei quali sul campo missionario. Nato a Draguignan (Francia) nel 1887, a un anno rimase orfano di madre e fu educato a Spinetta (Cuneo) da una zia matea. Entrato nell’Istituto nel 1906 e ordinato prete nel 1912, partì per il Kenya nel 1913.
Missionario geniale e polivalente, padre Cagnolo fu carrettiere e carovaniere, muratore e cappellano militare, direttore di seminario e vicario generale della diocesi; parroco e fondatore dell’Azione cattolica, direttore di tipografia e scrittore di articoli e libri; etnologo e musico. Costruì scuole-cappelle in paglia e fango e la prima chiesa in muratura della diocesi di Nyeri. Fu chiamato a svolgere incarichi di fiducia in India, Somalia e Sud Africa. Ma il cuore rimase sempre tra i kikuyu, dei quali conosceva la lingua kikuyu come le sue tasche: ciò gli permise di penetrare nell’anima di quel popolo.
È soprattutto nel campo culturale che padre Cagnolo profuse intelligenza e zelo missionario. Fu incaricato di ordinare il materiale raccolto da vari missionari che, fuso con i frutti della sua esperienza, venne pubblicato in inglese, nel 1933, col titolo: The Akikuyu. Questo studio etnografico, il primo del genere su costumi e tradizioni, folclore e religione dei kikuyu, riscosse grande interesse e fu altamente apprezzato in ambienti scientifici. Un estratto della monografia fu pubblicato in italiano nel 1954 col titolo: Kikuyu e mau mau.
Oltre ai numerosi articoli di carattere etnografico e missiologico, pubblicati in Missioni Consolata e altre riviste, padre Cagnolo compose un’infinità di articoli e libri di argomento religioso in kikuyu, come Athure a Eklesia: profili di santi per tutti i giorni dell’anno.
Spese gli ultimi anni della vita nel settore stampa della diocesi di Nyeri; diresse la tipografia e la pubblicazione del Wathiomo Mokinyu (amico vero), mensile che giocò un ruolo fondamentale nella formazione religiosa, civile e culturale del popolo kikuyu.
Anche il suo estro musicale si rivelò prezioso per l’evangelizzazione: studiò motivi ed elementi dei canti kikuyu e su di essi compose inni sacri e canzoni che incontrarono larga popolarità.

«Sovente muore l’uomo, ma non la sua idea» aveva scritto nel 1938 nella prefazione al direttorio dell’Azione cattolica. Mettere tutta l’intelligenza a servizio della missione, per incarnare il vangelo nella cultura locale, fu l’ideale perseguito da padre Cagnolo e lo vide realizzato: in punto di morte ricevette la prima benedizione del primo vescovo kikuyu, mons. Cesare Gatimo. Per tale evento, nel lontano 1915, aveva raccolto i primi seminaristi a Tuthu e poi, per tanti anni, era stato formatore nel seminario di Nyeri.

COME UN OROLOGIO
padre Giovanni Chiomio (1889-1979)

«Se si perdesse il libro delle regole – diceva l’Allamano – ognuno di voi ne sia una copia vivente». Padre Giovanni Chiomio lo prese alla lettera, fino a sconfinare abbondantemente nella pedanteria. Non perdeva occasione per abbordare i confratelli, specie i seminaristi, per ripetere le parole del fondatore, con precisi dettagli su giorno, ora e luogo in cui erano state pronunciate. E continuava per ore, finché qualche smaliziato accennava al suono del campanello. Sordo come un battaglio di campana, padre Chiomio si chiudeva la bocca con la mano e diceva: «È la voce di Dio!».
Alto e solenne come un monumento, barba bianca e bastone in mano, incuteva riverenza. Passo sicuro e misurato, un metro esatto, con 33 falcate raggiungeva il suo posto in refettorio e rimetteva a posto la sedia che i chierici burloni avevano spostato di qualche centimetro.
Il beato fondatore gli aveva detto che sarebbe morto a 90 anni. L’orologio della sua vita si fermò con appena due mesi di ritardo: era nato a Garzigliana (Torino) il 19 ottobre 1889; morì il 13 dicembre del 1979.

Poliedrico, metodico, esatto come un orologio svizzero, padre Chiomio è una figura eccezionale e irripetibile: «Dio lo ha fatto e poi ha gettato via lo stampo». Fu esploratore e cartografo, etnografo e linguista.
Arrivato in Kenya nel 1919, fu incaricato dell’amministrazione del vicariato di Nyeri e ispettore delle scuole. Nel frattempo tracciò una stupenda serie di mappe dei territori e attività dell’Istituto: presentate alla Esposizione missionaria vaticana dell’anno santo 1925, egli meritò la «medaglia di benemerenza» da parte della S. Sede.
Nel 1925-26 fu incaricato di esplorare le regioni del Mozambico comprese tra i fiumi Rovuma e Zambesi. Fibra robusta, inquisitore pignolo, pedometro a una gamba, notes e matita in mano, teodolite e strumenti vari nella borsa, percorse a piedi migliaia di chilometri, misurando distanze e rilievi, percorsi di fiumi e torrenti, registrando nomi di popolazioni e località, flora e fauna e quant’altro attirava il suo sguardo indagatore. Tutto si trasformava in schizzi e pagine di diario preciso e minuzioso fino all’inverosimile.
Fece altrettanto nel 1927-28, insieme a padre Giovanni Ciravegna, nell’esplorazione delle regioni dell’Etiopia meridionale, Kaffa, Alto Giuba e Uebi Shebeli.

Alla fine del 1928 padre Chiomio si stabilì a Torino e cominciò a sistemare materiale e dati raccolti in quegli anni. Sotto la sua direzione, la scuola cartografica dell’Istituto produsse un impressionante numero di carte geografiche, elogiate da vari enti e andate a ruba nei ministeri italiani, specie in quello militare.
Fioccarono i riconoscimenti. Nel 1938 il re d’Italia lo nominò commendatore dell’Ordine coloniale d’Italia «per benemerenza geografico-etnica, in seguito all’esplorazione del Sud Etiopia». L’anno seguente ricevette la medaglia d’argento dalla Società geografica italiana.
Altrettanto impressionante è il numero di studi sulle lingue dei popoli incontrati nelle sue esplorazioni: kaffina, wollana, galla, amarica, magi, hadiya (Etiopia), somala (Somalia), kemeru (Kenya), kibena (Tanzania), ronga, elomwe, chopi, citswa (Mozambico). Ogni studio, spesso consistente di centinaia di pagine, comprende introduzione etnografica, grammatica e dizionario.
Tanto lavoro aveva uno scopo preciso: scegliere i luoghi più adatti per la fondazione di stazioni missionarie e aiutare i confratelli a inserirsi con maggiore facilità ed efficacia nelle popolazioni a cui erano destinati.
Ciò non toglie che le sue opere trascendano il semplice scopo missionario. «Relazioni e disegni di padre Chiomio – affermò il governatore della Somalia, dr. Guido Coi – sono un lavoro veramente interessante e ancor più sta a dimostrare le grandi benemerenze che l’Istituto ha saputo acquistarsi non solo nella propaganda missionaria, ma oltresì nel campo della scienza».

Se Chiomio fu una copia ambulante della regola dell’Istituto, Vittorio Merlo Pich fu una icona vivente del padre fondatore. Ne ereditò lo spirito e calda umanità; lo amò profondamente e si sentì da lui amato fin dal giorno in cui la madre lo presentò all’Allamano: aveva appena 10 anni. Era nato a Nole Canavese (Torino) nel 1899. Fu un amore che si trasformò in venerazione e durò tutta la vita.
Ordinato sacerdote nel 1921, padre Vittorio raggiunse il Kenya nel 1923. Studiò per un anno lingua, usi e costumi kikuyu e fu subito lanciato nel lavoro missionario: a 24 anni, era superiore (da solo) di Kianyaga, la più isolata missione del vicariato di Nyeri. Continuò a farsi le ossa alla direzione di una fattoria agricola; poi come aiutante e superiore della missione di Limuru, finché furono scoperte le sue doti di intelligenza e preparazione culturale.
Nel 1931 fu nominato preside della scuola elementare e media di Nyeri. Venne quindi nominato «segretario per l’istruzione», con la responsabilità di rappresentare la diocesi di fronte al governo. Due anni dopo fu eletto membro del «Comitato per fissare l’ortografia della lingua kikuyu». Il suo valido contributo gli attirò la stima e simpatia delle autorità locali. Al tempo stesso si sentì stimolato ad approfondire lo studio delle lingue bantu. Nel 1938 pubblicò Elementi di grammatica kikuyu.
Per quasi 20 anni, salvo quelli passati in campo di concentramento, padre Vittorio fu responsabile dell’organizzazione scolastica della diocesi di Nyeri. Un lavoro intenso e delicato: si trattava di imprimere un contenuto religioso alla formazione laica proposta dal governo coloniale. Non mancarono le reazioni acerbe da parte dei protestanti, superate con la sua proverbiale bontà, ma senza cedimenti.
Alla fine del mandato di consigliere generale (1949-59), avrebbe voluto ritornare in Africa; il suo nome era apparso nella «rosa» per diventare vescovo del Kenya, ma la salute lo fermò in Italia: nel 1953 si era ammalato gravemente; ma riuscì a guarire (secondo la sua profonda convinzione) per grazia speciale del padre fondatore.

In Italia continuò la sua missione mettendo a disposizione degli altri la profonda conoscenza di lingue e culture africane. Nel 1953-54 portò a termine un lavoro iniziato già in campo di concentramento: la compilazione e pubblicazione della Grammatica della lingua swahili e il Dizionario kiswahili-italiano e italiano-kiswahili: due opere aggiornate a più riprese che, ancora oggi, rimangono strumenti insuperabili per lo studio di tale idioma. Aprì a Torino un corso di lingua e cultura swahili, il primo in Italia, che continua tutt’oggi.
Con la padronanza delle lingue, padre Vittorio era penetrato nell’anima del popolo. Lo testimoniano i numerosi articoli e libri di carattere etnografico, tra i quali: Miti e leggende kikuyu (1967); Favole kikuyu (1967); Ndai na gikandi – Kikuyu enigmas – Enigmi kikuyu (1973), raccolta di proverbi pubblicati in tre lingue; Cultura e letteratura kikuyu, in Africa (1968).
Nel 1974 fu insignito della massima onorificenza del Kenya dallo stesso presidente Kenyatta, che riconobbe nei suoi studi sulla cultura bantu un ponte di comunicazione tra l’Italia e l’Africa.
Un missionario linguista è anche il titolo della tesi di laurea con cui Adriano Bianco ha conseguito il dottorato in Scienze politiche presso l’università di Torino nel 1996: presentando le vicende missionarie di padre Merlo Pich e della sua copiosa produzione letteraria, il neo dottore non esita a definirlo uno dei massimi esponenti della cultura kikuyu.

MISSIONARIO
MONELLO
padre Ottavio Sestero (1901-1980)

Vivace, brioso, amante del gioco e un po’ sbarazzino; ma intelligente e buono come il pane: così lo ricordano quanti lo conobbero dal giorno in cui entrò tra i missionari della Consolata. Aveva 13 anni. Era nato a Chiusa S. Michele (Torino) nel 1901.
Socievole e arguto, zelante e di piacevole compagnia lo definiscono i confratelli che condivisero con lui la vita missionaria. Arrivò in Kenya nel 1926 e vi rimase per 40 anni, lavorando in varie parrocchie delle diocesi di Meru e di Nyeri. «Artista» è la parola che riassume la sua vita e personalità.

Artista nel cuore e nella fantasia, padre Ottavio Sestero maneggiava con la stessa facilità la zappa e la penna, il pennello e l’aspersorio, il flauto e la cazzuola.
Nella pittura non era un Michelangelo, eppure molti devoti africani s’infervoravano davanti alle sue madonne e santi che oavano le chiese. Molti amici custodiscono gelosamente un suo acquerello, rappresentante una scena di villaggio o il balzo di un leone che ghermisce un’antilope in fuga. Molti ufficiali inglesi di guardia ai campi di concentramento conservano nei loro salotti in Inghilterra la loro caricatura, eseguita dal simpatico missionario prigioniero. L’originalità e senso umoristico dei suoi disegni servivano soprattutto per rendere più attraenti i suoi scritti.
Padre Sestero è stato, infatti, un missionario scrittore, ricco di concetti e molta verve; sapeva cogliere nella vita quotidiana del missionario quei particolari che, tratteggiati dalla sua penna, formano una piacevole lettura. Nei suoi scritti manifesta le risorse inesauribili della sua mente, comunica la sua allegria semplice e ingenua, insieme al suo amore per l’africano.
Oltre ai Fioretti di padre Cencio (vita di padre Vincenzo Dolza), padre Sestero scrisse una quindicina di libri, pubblicati in collane dai titoli accattivanti: «I romanzi del brivido», come L’inafferrabile Dan (un generale della mau mau) e «I racconti della brughiera».
Ma quelli che lo resero famoso tra i giovani lettori, e anche meno giovani, furono i «Racconti per la gioventù», vivi, allegri, eroicomici, pubblicati a mo’ di romanzo d’appendice su Missioni Consolata dal 1947 al 1961. La sua creatività pareva inesauribile.
A conclusione seguiva la Storia di un missionario monello, una specie di autobiografia in cui raccontava le birichinate giovanili e qualche monelleria combinata «nonostante il duro lavoro di apostolato in terra africana». «Oggi – scriveva -, con la barba e i pochi capelli bianchi che mi sono rimasti, continuo a essere allegro: missionario allegro, anche se non più monello».

FORGIATORE DI UOMINI FORTI
padre Olindo Pasqualetti (1916-1996)

«La mia data di nascita l’avrò scritta centinaia di volte, in ogni occasione in cui la burocrazia civile, ecclesiastica, scolastica e accademica lo richiedeva: 12 settembre 1916; giorno di una delle tante feste della Madonna che, liturgicamente costellano (costellavano) i mesi dell’anno; quindi giorno di buoni, anzi, ottimi auspici. Effettivamente è stato ed è tuttora così: la Madonna è decus, clypeus, auxilium, consolatio (decoro, scudo, aiuto, consolazione)». Così inizia il curriculum vitae tracciato dallo stesso padre Olindo Pasqualetti pochi mesi prima di lasciarci.
Nel 1928 iniziò la sua formazione nella casa di S. Maria a Mare. «Ero entrato spiritualmente allo stato brado – continua -: ero soltanto battezzato, senza precise nozioni di catechismo. Ero entrato con il solo scopo di studiare. Ma dopo il primo mese, udendo attentamente le brevi conferenze del padre direttore, mi convinsi che avrei dovuto scegliere: andarmene o rimanere solo a condizione di seguire, rendendolo sempre più esplicito, il cammino della vocazione. E fin d’allora (avevo compiuto appena 12 anni) della vocazione non ebbi più dubbi, se non in qualche momento oscuro, in cui mi faceva velo la ricerca di un certo perfezionismo.
Anche le prime elementari nozioni di linguistica erano in sintonia con la vocazione: mi suscitò interesse l’etimologia di missionario e apostolo, che sentii dal padre rettore. Sicché il primo accostamento al latino e greco, che in seguito sarebbero state le due lingue antiche da me più conosciute e… professate, passò attraverso un richiamo missionario, sia pure a solo livello linguistico. Di più; la prima frase latina che cominciai a capire fu: «Ite: ecce ego mitto vos sicut agnos inter lupos» (andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi). La curiosità per il latino continuava, dunque, a passare attraverso l’interesse missionario».
A Torino, durante il biennio di filosofia, approfondì per conto suo lo studio del greco e cominciò quello della lingua ebraica, che continuò negli anni di teologia. «Leggevo e capivo gran parte della bibbia scritta in questa lingua. E oggi sono contento solo a pensare di essermi accostato alle fonti della rivelazione attraverso la lingua in cui furono concepite e scritte, e non attraverso la mediazione di un qualsiasi interprete antico o moderno.
Cominciai a studiare l’arabo e il siriaco, lingue di cui purtroppo ora leggo solo l’alfabeto; lo stesso mi succederà per il sanscrito, appreso molto bene durante i due ultimi anni di università e poi rimasto anch’esso allo stadio di pura lettura d’alfabeto».

Ordinato sacerdote nel 1940, fu destinato alla casa di Montevecchia (Como), come insegnante alle medie. «Iniziava la lunghissima serie dei miei anni d’insegnamento. L’anno successivo ero professore nel nostro liceo di Cereseto (AL), dove mi preparai per gli esami di maturità classica (1943), sostenuti da privatista nel senso più stretto della parola: non avendo alcun attestato civile di studi antecedenti, venivo ammesso agli esami per età, ma con la qualifica di analfabeta.
L’anno seguente m’iscrissi all’Università cattolica di Milano: portai in segreteria il diploma di maturità avvolto nella pompa della bicicletta per non sgualcirlo. Nei primi due anni di sporadica frequenza universitaria, mi servivo della bicicletta per recarmi da Cereseto a Milano».
Conseguita la laurea in lettere classiche (1948), padre Olindo cominciò a insegnare latino e greco nel liceo di Varallo Sesia. A partire dal 1959, fu chiamato a tenere corsi di esercitazione presso l’Università cattolica. «Il duplice insegnamento, al liceo e all’università, durò fino al 1970, quando, dopo aver vinto il concorso di assistente ordinario, attesi soltanto all’attività didattica e scientifica presso l’Università cattolica.
In 53 anni d’insegnamento, sono stato professore di tutti gli ordini e gradi di scuola a base umanistica: ginnasio inferiore e superiore, liceo classico privato e statale, teologia biblica, università, istituto di filologia classica.

A partire dal 1950 circa, ho pubblicato oltre un centinaio di saggi in varie riviste: Latinitas, Aevum, Euphrosyne, Vox Latina, Latina Lingua, Gymnasium (di Torino e Bogotá), Hermes Americanus, Commentarii curante Instituto Studiis Romanis provehendis, Gioale Filologico Ferrarese. Sono composizioni poetiche e prose saggistiche in lingua latina e italiana, commenti a scrittori antichi per le scuole medie superiori, liriche greche, voci per l’Enciclopedia Virgiliana, Fondazione Treccani.
Molti sono i premi in medaglie d’oro o d’argento, publicarne e magnae laudes, in concorsi nazionali e inteazionali di prosa e poesia latina: Certamen Hoeufftianum (Amsterdam), Certamen Vaticanum, Certamen Capitolinum, Certamen Vergilianum, Certamen Catullianum, Certamen Avenionense, Certamen Pascolianum, primi premi Fermo, Montalto (AP), Popoli (CH)».

Padre Olindo è stato uno dei massimi latinisti del secolo. I suoi capolavori di poesia greca e latina, raccolti in due volumi dal titolo Gemina Musa, sono presenti in quasi tutte le università italiane e in molte straniere.
È stato e rimane, soprattutto un missionario della Consolata «speciale» per la formazione impartita a generazioni di missionari e laici, che continuano a nutrire per lui stima e venerazione. «Sì, venerazione, perché per noi, già suoi alunni sparsi in tutto l’orbe terracqueo, egli era il professore per eccellenza, il dotto umanista, padre, guida – affermava un ex alunno nel discorso di addio -. Sapeva mutare l’aula scolastica nella sacra officina dello spirito, dove si temprano e si forgiano gli uomini forti. Era l’uomo di valore, il “forgiatore”, il docente per antonomasia, che formava carattere e cultura.
Ti rivedo sulla cattedra, ma senza atteggiamenti cattedratici, col tuo sorriso aperto e cordiale, la tua figura quasi dimessa, ma piena di umanità, fratello maggiore o padre, a spiegarci e farci gustare le bellezze della lingua di Roma; ricordo la tua gioia, intima commozione, quando qualcuno di noi si affermava nella scuola o nella vita» (Gabriele Nepi).
Padre Olindo se ne è andato in punta di piedi, con la modestia che gli era propria, il 21 novembre 1996, festa della presentazione della Vergine Maria: un giorno mariano come quello della sua nascita.

benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti