ANCHE LUI DEVE QUADRARE

Torino, 27 aprile, ore
22,30. In Corso Ferrucci 14, ci imbattiamo in un

picciotto di Messina, un
toso di Padova, un guaglió di Napoli e un bagai di Como. Con
altri 230 camerati, partecipano al Convegno nazionale «Santità è missione»
dei seminaristi diocesani. Tutti sui 22-25 anni. A Torino, dal 26 al 29
aprile, sono ospiti dei missionari della Consolata, anche per celebrare
insieme i loro 100 anni di vita.


Il

picciotto ci domanda: «È
possibile far quadrare Dio?». Strabuzziamo gli occhi. Al che, il

guaglió racconta: «Oggi pomeriggio, dalle 15 alle 22, abbiamo percorso
il quadrilatero della santità». E il toso precisa:
«Abbiamo visitato i luoghi dove hanno operato quattro grandi personaggi:
il rondó della forca di Giuseppe Cafasso, l’oratorio di Giovanni Bosco, la
casa della provvidenza di Benedetto Cottolengo, il santuario della
Consolata di Giuseppe Allamano». «È questo il quadrilatero della santità»
conclude il
bagai.


Ed è così che, secondo il
quartetto, si può «far quadrare» anche Dio.

Ossia renderlo vicino,
interessato, operoso, alla portata di tutti, specialmente dei poveri.

Non distante e isolato sul Monte Kenya, come

Ngai dei kikuyu
tradizionali. Né chiuso in un tabeacolo, come una cassaforte o un
fortino.


Per far quadrare Dio
,
il Cafasso accompagnava al patibolo i condannati a morte: non solo li
incoraggiava, ma li rendeva persino felici di fronte ad una sorte infame.
Don Bosco giocava con i ragazzi più difficili e, soprattutto, li
coinvolgeva con grandi ideali. Il Cottolengo si chinava sugli ammalati,
per «lavare loro i piedi». L’Allamano «ha globalizzato un santuario buio e
stretto», per farci entrare e cantare anche i «pagani» e gli «incivili»
dell’Africa.



Globalizzare il santuario: è
un’altra originalissima espressione del quartetto seminaristico. Forse è
nata ascoltando Giovanni Paolo che, proprio durante il Convegno
missionario (il 27 aprile), è ritornato a parlare di globalizzazione. Il
fenomeno, a priori, non è né buono né cattivo. Sarà ciò che gli individui
ne faranno.


Qualcuno ne ha fatto
un’alleanza fra società
e dio-mercato, con sei comandamenti.


1. Non impedire la costruzione
del mercato mondiale. 2. Lascia che il mercato si autoregoli e aiutalo a
svincolarsi dallo stato. 3. Liberalizza.


4. Privatizza. 5. Sii
competitivo. 6. Non ostacolare l’espropriazione.


Sono comandamenti anche
pericolosi: rispondono troppo alla logica del profitto individuale.


Alla globalizzazione il papa
pone due limiti invalicabili:

la persona
,
fonte di ogni diritto e ordine sociale, nonché

il rispetto della diversità di
tutte le culture.

Comprese quelle nel sud del mondo. Altrimenti la globalizzazione è
colonialismo.



Francesco Beardi



Francesco Beardi




ADDIS ABEBA (ETIOPIA): bambini profughi, maratoneti in erba. UN PAESE… DI CORSA

Venti anni
fa, quando fui destinato alle missioni in Etiopia, sapevo poco di questo
paese. Furono gli amici, ferrati più di me nel tifo sportivo, che mi
diedero la prima conoscenza di questa nazione, identificando l’Etiopia con
Abbebe Bikila, l’atleta che, correndo a piedi scalzi, vinse la maratona
delle Olimpiadi di Roma nel 1960.

Oggi, a 40
anni di distanza, mi sono più che familiari i nomi di Hailé Ghebre
Selassié, Ghezahegn, Derartu Tullu, Million Wolde, Ghiete Wami, i podisti
che tengono alta la bandiera nazionale, come hanno fatto nelle recenti
Olimpiadi di Sydney in Australia. Il primo, Hailé Ghebre, è il più
popolare: il suo ritratto occupa l’intera parete di un alto edificio nel
centro di Addis Abeba.

Il giorno
che egli vinse i 10 mila metri a Sydney, davanti al kenyano Paul Tergat,
mi trovavo per commissioni immerso nel traffico del centro cittadino.
Improvvisamente, in pieno pomeriggio, un’auto accese i fari abbaglianti;
un’altra cominciò a suonare il clacson; altre si unirono al coro. La città
sembrava impazzita. Il traffico si fece più caotico e giornioso, anche se
assordante. In poco tempo tutta la città era in festa.

Queste
vittorie hanno dato un forte incremento a questo genere di sport in tutta
l’Etiopia. Da vari anni è normale vedere, al mattino prestissimo, quando
non c’è ancora traffico, numerosi giovani che corrono lungo l’arteria
principale della città, da piazza Mexico verso le zone più basse della
capitale. Sovente questi corridori in erba indossano tute variopinte di
nailon, che chiamano con un termine onomatopeico kesh-kesh, dal rumore
prodotto dalla stoffa al contatto con il vento.

Oggi, il
numero di coloro che praticano la corsa è aumentato anche nelle cittadine
di provincia. Studenti di tutte le età, ragazzi e ragazze, fanno di corsa
la strada che dal villaggio porta alla scuola, anche senza essere in
ritardo, e sfruttano il tempo libero per continuare l’allenamento.

C onfesso
che l’entusiasmo di quei giorni mi ha contagiato. È naturale. Dopo 20 anni
spesi in questo paese, in qualche occasione lo sento un poco mio. Ma non
avrei mai creduto che il contagio mi potesse spingere a correre anch’io.
Non per diventare un atleta: avrei dovuto iniziare molto prima della fine
del millennio! Ma non si sa mai, nella vita tutto torna utile.


L’occasione di fare un po’ di corsa mi fu offerta, un giorno, da alcuni
bambini, rifugiati dall’Eritrea, che dal 1992 vivono nel campo profughi di
Makanissa e frequentano il nostro oratorio. Sono Abùsh, un nanerottolo di
11 anni, molto forte e resistente, e sua sorella Kokòb (stella), maggiore
di due anni e un po’ più alta; Tighist (pazienza) 12 anni, vivace e
simpatica, e il fratello minore Walellìgn, anche lui nanerottolo, e la
loro tredicenne compagna Sinnàit.

Alla mia
età, mettermi a correre con dei bambini mi suonava un poco strano; ma
dovetti subito ricredermi: per loro non era una novità. Accettai la sfida.
Il pomeriggio del giorno seguente, dopo la scuola, si trovarono tutti
puntuali davanti al nostro seminario in «tenuta sportiva». Si fa per dire.

Le tute da
bambino sono comuni anche tra i rifugiati, ma non è detto che siano nuove
fiammanti. Abùsh aveva una tuta scolorita e calzava un paio di scarpe di
cuoio più grandi dei suoi piedi, ereditate da qualche parente. La divisa
di Tighist era spaiata: maglietta bianca, pantaloni di nailon, entrambi
piuttosto malandati, e senza scarpe. Kokòb era più o meno nelle stesse
condizioni di Tighist. Anche Sinnàit era scalza.

Da
Makanissa, periferia della capitale, prendemmo la direzione delle colline
che circondano Addis Abeba. In cinque minuti di corsa siamo fuori città,
tra campi aperti e aria pura. Cerco di moderare la loro velocità e imporre
il ritmo, in modo che respirazione e movimenti si armonizzino, ci si
stanchi meno e si gusti l’esercizio fisico.

Abùsh va
perfettamente d’accordo col ritmo imposto; Tighist rimane indietro, oppure
accelera e abbina alla corsa altri esercizi, visti probabilmente nei campi
sportivi, come flessioni del busto, movimenti e roteazioni delle
braccia… Un’ora dopo siamo tutti di ritorno.

Da parte
mia, mi prendo qualche giorno di assoluto riposo da esercizi sportivi; poi
ripartiamo nuovamente. Questa volta c’è più organizzazione: appare qualche
paio di scarpe nuove da ginnastica, una maglietta fiammante. Anche il
livello tecnico è migliorato. In un batter d’occhio siamo ai piedi delle
colline, pur rallentando ogni tanto o procedendo al passo. Azzardiamo una
specie di competizione negli ultimi tre chilometri: bravo Abùsh! Di fiato
ne hai da vendere. Bravi anche gli altri, che arrivano con mezzo minuto di
scarto.

Ai piedi
delle colline c’è un villaggio tradizionale; una casa di campagna vecchio
stile, un vitello nel cortile, due cani, galline che razzolano per strada.
È la casa di Netzannèt. Questa ragazza mi venne incontro, una volta,
mentre passavo in quella zona con un confratello missionario. Non
conoscendo le sue intenzioni, pensai subito che volesse chiedere aiuto,
come succede spesso da queste parti, quando la gente ti si avvicina.
Cercai di evitarla, con una breve corsa verso il prato, per non dovere
ascoltare i soliti piagnistei. Ma mi ero sbagliato. Netzannèt voleva solo
scambiare con noi quattro chiacchiere in inglese. Questa lingua è
insegnata a scuola, ma gli studenti non hanno possibilità di praticarla.
Ci disse che recentemente aveva vinto i 1.500 metri della sua categoria in
una competizione regionale. È la seconda volta che la incontro. Netzannèt
si mostra molto gentile:  vuole preparare il tè per il nostro gruppetto di
podisti. Purtroppo dobbiamo rifiutare: il sole sta per tramontare e
dobbiamo rientrare prima che faccia  buio.

La gente,
al vederci correre veloci, guarda sorpresa e incuriosita. Qualcuno batte
le mani o grida «bravo!». Il termine, conosciuto anche in Etiopia, è
invariabile, vale per il maschile e femminile, singolare e plurale.

Siamo
quasi a casa. Tighist, rimasta un poco indietro, scatta davanti a tutti.
Qualche passante le grida: «Derartu!», nome della campionessa olimpionica
dei 10 mila metri. Quel grido fa piacere anche a me. Per la rifugiata
dodicenne, oltre che incoraggiamento, suona come augurio per un futuro più
fortunato.

Vincenzo Clerci




Lettere: cari missionari


Che significa «gonzo»?


Spettabile redazione,

vi
ringrazio di aver pubblicato la mia lettera (Missioni Consolata, marzo
2001). Mi dispiace solo che, con i tagli (anche se condivisibili), il tono
generale della lettera (che era aspro ma fraterno) sia apparso ostile.
Però le parole forti usate (ho dato del «gonzo» a chi odia Berlusconi) non
mi suonano come insulti, ma il linguaggio colorito di due persone che
parlano animosamente, ma vogliono senz’altro intendersi.

In un
contesto più formale confermo l’aggettivo: sono fortemente convinto che
sia gonzo chi, qui e oggi, nel panorama politico italiano e con la storia
recente che abbiamo (i grandi ideali periti miseramente; il grande partito
moderato che, all’ombra del cattolicesimo militante, ha fatto il bello e
cattivo tempo; la parabola craxista…), si senta di amare a rotta di
collo chicchessia e di odiare il suo antagonista.

Mi fa
ridere (cioè pena) chi oggi amasse acriticamente Berlusconi o Fini e
odiasse Veltroni o Rutelli. Criticare, parodiare, avversare,
simpatizzare… senz’altro. Ma odiare è da gonzi (è assai pericoloso,
specie considerando il pulpito da cui si parla).

Non ho
capito, nel vostro commento, il «distinguo» tra gli applausi al papa e
quelli a Berlusconi nel Meeting di Rimini. È naturale che «una cosa è la
dottrina sociale del papa, un’altra quella del cavaliere» (ci manca solo
che al Berlusca gli si faccia fare anche il papa). A me pare che
l’applauso di Rimini dimostri che i miei argomenti non erano fuori tema…
Sono contento che abbiate stimolato il dibattito, specie fra i cattolici.


Luigi Fressoia
Perugia

A
proposito di «gonzo», Il vocabolario della lingua italiana di G. Devoto e
G.C. Oli recita: «persona tarda e stupida (anche come epiteto
ingiurioso)».

Tutti
mercanti


Egregio direttore,


intervengo nel dibattito aperto dai signori L. Fressoia e L. Trobbiani sul
numero di marzo. In molti casi ormai non c’è più distinzione tra destra e
sinistra.

Ho
sempre votato a sinistra; ma ho visto sussiegosi politici sorridere e
ridere all’affermazione che «la sinistra dovrebbe difendere i poveri».
Ingenuità imperdonabile vero? Ora siamo tutti liberi mercanti. Che
amarezza!


Francesco Benegiamo
Galatina (LE)


Nell’amarezza del lettore scorgiamo anche un positivo senso di rivolta.


Ipocrisia «armata»

Signor
direttore,

la
lettera del signor Fressoia è molto discutibile, specialmente quando
afferma che la ricchezza economica favorisce la maturazione sociale e
culturale. I soldi non hanno certo fatto maturare molto la nostra epoca.
Parecchi – è vero – posseggono un buon conto in banca. Ma è «maturazione
sociale e culturale»?

Quanto
al terzo mondo, non facciamo gli ipocriti! In Africa impazzano dittatori
rozzi e armati fino ai denti. Ma chi vende loro armi e non pasta? Sono
anche personaggi di fabbriche italiane, eleganti, pacati, persino con
parole da «vangelo». E qui mi incavolo, perché se vogliamo eliminare le
guerre, dobbiamo prima smettere di costruire armi. Invece, nel mercato
libero della globalizzazione…

La
verità è che i dittatori dell’Africa o dei Balcani stanno al gioco di
altri dittatori: dittatori veri, che il signor Fressoia tende ad esaltare.
Gli Stati Uniti e l’Europa ne sono pieni.


L’Africa vanta un sottosuolo ricchissimo, eppure annaspa fra mille
problemi. Allora non sempre la ricchezza fa ricchezza. Un problema di
fondo è pure il clima. Non per niente, in genere, i paesi più
industrializzati godono di buone condizioni climatiche. Se l’Europa avesse
il clima del Sudan, non ci sarebbero Agnelli e Berlusconi che tengano. E,
dinanzi a siccità e uragani, la nostra fatica quotidiana conterebbe zero.


Alessandro B.
Modena

Nel 2000
l’Italia ha esportato armamenti per 1.658 miliardi di lire. Fra le armi
non scordi quelle leggere. Uccidono una persona ogni due minuti: 300 mila
vittime all’anno. Nel 1999 è stato di 600 miliardi il nostro profitto
delle armi leggere. La legge 185 del 1990 impone restrizioni, ma…
l’Italia è terza al mondo in questa «specialità».

Un
tesserato della… speranza

Signor
direttore,

sono
stupefatto nel leggere, oltre ad ascoltare, di tante persone che
descrivono Berlusconi come un alfiere della libertà e del progresso.
Costoro alimentano una confusione terribile tra «liberalismo» e
«neoliberalismo».


Innanzitutto una precisazione doverosa, per evitare ulteriori confusioni e
distinguere in maniera chiara in quali «acque stiamo nuotando».

Il
liberalismo nasce come un fenomeno di emancipazione (della borghesia), con
un senso di libertà e progresso di fronte alla monarchia assoluta e al
feudalesimo. Invece il neoliberalismo non si afferma contro un governo
reazionario, ma ha un forte sentimento di conservazione, rifiuta la
politica come qualcosa di sporco e, soprattutto, domina il grande
capitale.

Anche
il tratto psicologico è diverso: rispetto alla società del liberalismo, in
quella del neoliberalismo c’è ansietà, paura di quelli che vivono in
«basso» e si difende la propria nicchia di benessere. A tale proposito, lo
studioso tedesco E. Fromm diceva che esistono solo due grandi partiti
nella storia: quello della speranza e quello della paura. Nel primo le
persone lottano per un futuro migliore dell’umanità, rifiutano lo status
quo e il sistema vigente perché non lo considerano umano. Le persone del
partito della paura, invece, cercano rifugio nel passato, nelle nicchie
dove possono proteggersi di fronte ad un futuro che non conoscono.

A mio
avviso, stiamo vivendo in un periodo di oscurantismo culturale, sociale ed
economico chiamato neoliberalismo, che ha ereditato troppo poco dal
liberalismo. Questo sistema è capeggiato a livello internazionale dalla
Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione
mondiale per il commercio. In Italia il suo degno rappresentante politico
si chiama Silvio Berlusconi, leader del «partito della paura».


Intendiamoci: non considero Berlusconi un’appendice nazionale delle
organizzazioni mondiali menzionate, bensì il prodotto della loro cultura
e, in particolare, di coloro che danno dignità e rappresentanza al partito
della paura descritto da Fromm. Perché?

Perché
si auspica che la competizione di mercato possa regolare tutti i rapporti
economico-sociali, escludendo ogni forma di mediazione che metta in
contrasto con il «Dio denaro» e il «Dio successo».

In Perù
ho assistito all’instaurazione del regime neoliberalista di Alberto
Fujimori, che della paura fece il partito della farsa e dell’inganno. Ho
anche visto, a causa delle privatizzazioni selvagge, le scuole
trasformarsi in privilegio per pochi e gli ospedali diventare un business
per i più facoltosi, anziché rappresentare un diritto e un patrimonio
sociale collettivo. Infine ho costatato che la precarietà di ogni giorno
può, nei soggetti deboli, cambiare i rapporti fra le persone, la cui
regola di vita diventa il peggiore individualismo, sinonimo di paura.


Personalmente mi considero un tesserato del «partito della speranza» e
spero di essere in numerosa compagnia con tanti lettori di Missioni
Consolata, affinché i «partiti della paura» siano sconfitti nelle prossime
elezioni.


Gabriele Vaccaro
Comiso (RG)

Ai
vincitori delle ultime elezioni ci permettiamo, con il signor Gabriele
Vaccaro, di rivolgere un invito.

«Per
vincere “il partito della paura”, si deve rompere con l’individualismo
neoliberalista, e cioè: aprirsi alla solidarietà, passare da un mondo che
ha il suo epicentro nell’“io” ad uno che parta dall’“altro”. Un “io” che
si riscopra di fronte all’altro, dando priorità a una relazione che
permetta di rivendicare la propria libertà, ma che non esiga la
subordinazione degli altri».

Cresciuta
con… voi

Cari
missionari,

ho
letto per anni la vostra stupenda rivista. Come docente, mi sono
professionalmente formata leggendola. In seguito al mio trasferimento da
Palagrano (TA) a Capurso (BA), da quest’anno non mi arriva più. Sono
dispiaciuta; ci terrei tanto a riceverla ancora.

Vi
mando anche una foto della nostra bimba, Françoise Anna, nata un anno fa
dall’incontro di due «razze»: una vera rappresentante del terzo millennio,
l’era multirazziale.


Immacolata Antonacci
Capurso (BA)

Eccola
Françoise Anna! Presto imparerà a leggere anche Missioni Consolata, in
compagnia dei genitori.


Padre Giovanni Milo

Caro
direttore,

sono un
fratello di padre Giovanni Milo, tragicamente scomparso di recente e di
cui, penso, siate a conoscenza. A nome di mia madre, affranta ancora da
profondo dolore e dei familiari tutti, ringrazio sentitamente per quanto
avete fatto per lui.

So che
padre Giovanni era molto legato ai missionari della Consolata e l’ha
dimostrato sempre e in ogni modo. Nell’esaminare la sua documentazione, ho
riscontrato che ha stipulato cinque polizze-vita presso una banca del
luogo, il cui beneficiario è l’Istituto Missioni Consolata. E questo
nell’ultimo mese, prima di morire, quasi come un segno premonitore.

Accludo
anche copia di uno scritto in forma poetica, indirizzato a padre
Giovanni, che meglio sintetizza e descrive la sua figura, nella speranza
che voglia pubblicarlo sulla sua rivista.

Michele
Milo
Patù (LE)


Eri il
vincastro
di nostro Signore
a tutti additavi
la strada priore,
eri severo
da confessore
ma, a chi pentito,
donavi il tuo cuore.
Sei stato per noi gran testimone cristiano
di sagge parole
e molto umano,
avevi per tutti
un sincero sorriso
e proseguivi con
la saggezza sul viso.
Le tue omelie
scavavan la mente
d’ogni fedele
che era presente,
eran penetranti
le tue parole,
che scuotevan
la coscienza
e arrivavan al cuore.
Una volta affermasti, spiegando il Vangelo,
a chi pensa:


«C’è tempo
per le cose del cielo,


Dio vuol la
primizia


e non i
miseri resti».


Io rimasi
colpito


di quanto
dicesti.


Or hai
lasciato



tragicamente


questa vita
terrena



improvvisamente.


Nella tua
vita,


primizia tu
hai dato


e colmo
d’amore


a Dio sei
arrivato.



Francesco Petracca

Nessuno
sconto

alle
mine antiuomo

Caro
direttore,

mi
riconosco in pieno nell’appello di Massimo Veneziano (Missioni Consolata,
marzo 2001): «Facciamo guerra alla guerra!». Le mine antiuomo e le bombe
cluster sono diverse solo nel nome, non negli effetti sulle popolazioni,
sull’agricoltura, sull’ambiente, compreso quello marino (come hanno
dimostrato gli ultimi inquietanti episodi nell’Adriatico).

Non
dimentichiamo che, come è già avvenuto nel recente passato, le aziende
produttrici di mine sono più vive che mai: è il caso della Società
Esplosivi Industriali (SEI) di Ghedi che, aggirando la legge 22/10/1997,
nota anche come Legge Antimine o Legge Occhetto, sta per realizzare un
nuovo impianto a Domusnovas (Cagliari): intende costruire «una linea di
ordigni militari da destinare al mercato mondiale».

Uniamo
dunque la nostra voce a quella del vescovo di Iglesias, Tarcisio Pillolla,
che rifiuta la retorica vigliacca dell’industria diversificata, portatrice
(si dice) di lavoro per i giovani e di sviluppo per il territorio locale.
Ribelliamoci a chi, come la Regione Sardegna, sembra disponibile a
incoraggiare l’impresa con denaro pubblico.

Non
dimentichiamo l’appello alla pace e alla riconversione vera (non truccata)
dell’industria bellica, che un altro vescovo, Bruno Foresti, lanciò ai
funerali di Giuseppe Bignotti, Dario Cattina e Franco Sentimenti, uccisi
il 22/8/96 dall’esplosione del capannone per la lavorazione delle bombe MK
82 di proprietà della SEI.

È stata
proprio la SEI a provvedere al caricamento degli stampi della Valsella
Meccanotecnica di Castenedolo, con migliaia di schegge (vetro, plastica e
metalli vari), tanto minute quanto devastanti, disseminate a milioni in
decine di paesi e in grado di colpire indiscriminatamente uomini e
animali, militari e civili, donne che lavorano nei campi e bambini che
giocano in cortile. E, in un numero non trascurabile, anche volontari che
portano soccorso alle vittime e sminatori impegnati nell’ingrato compito
della bonifica.


Rispettiamo le atroci sofferenze di Tonina Cordedda, bambina di 9 anni di
Nughedu San Nicolò, che nel 1973 incappò in un ordigno antipersona
(probabilmente un residuato della seconda guerra mondiale) perdendo occhi
e braccia.

La
costruzione di una nuova fabbrica di esplosivi militari in Sardegna, a
un’ora di macchina dal luogo dell’episodio che cambiò brutalmente la vita
di Tonina, sarebbe un cinismo imperdonabile.


Francesco Rondina


Fano (PS)

Varie
volte Missioni Consolata ha denunciato il business e le tragedie provocate
dalle mine antiuomo, senza concedere sconti.

La
verità è verità


Spettabile redazione,

ho
letto il «numero straordinario» sui 100 anni dei missionari della
Consolata. Nel 1936 la rivista Missioni Consolata esaltò il trionfo
dell’Italia in Etiopia. Ma oggi voi parlate di «aggressione da parte
dell’Italia fascista». Non voglio più ricevere la rivista.


Claudio Simonetti


Cumiana (TO)

Signor
Simonetti, il suo rifiuto della verità storica ci lascia perplessi.

cari
missionari box 1

Mau mau,
missionari della Consolata… e

La lettera
dell’«inafferrabile»

Ritengo
opportuna qualche osservazione sull’articolo di Missioni Consolata,
febbraio 2001, che presenta la travagliata lotta di liberazione dei mau
mau
in Kenya.

Il
direttore africano della Chinga Girls’ Secondary School, dove
insegnai come volontaria laica missionaria (1970-72), mi regalò il libro
Mau Mau General di Waruhiu Itote. È stato uno dei testi da cui ho
tratto i brani per l’antologia Un angolo d’Africa, che presenta «il
Kenya visto dai suoi scrittori». L’essere vissuta in zona mau mau,
ascoltando la storia scritta dai kikuyu, mi ha molto influenzata.
Con i dovuti «distinguo», ho paragonato la loro lotta di liberazione al
nostro risorgimento.

Invito a
leggere Un chicco di grano di Ngugi Wa Thiong’o, presentato su
Missioni Consolata
, giugno 1998. Scrivo: «Gikonyo e Mumbi,
protagonisti del romanzo, portano i nomi che la tradizione kikuyu
attribuisce ai progenitori della tribù e incarnano le sofferenze di un
popolo umiliato e oltraggiato dalla dominazione coloniale, diviso e
perseguitato durante l’emergenza mau mau, ma caparbio nel volere
conquistare libertà e dignità». Purtroppo la violenza genera sempre morte
e distruzione. Leggendo però le cifre al termine della rivolta, risultano
morti: mau mau 10 mila; lealisti 2 mila; forze governative 534;
europei 63; civili 32.

Come si
comportarono i missionari della Consolata in quel tempo? Durante il sinodo
della diocesi di Nyeri (1975-76), che mi vide impegnata come sociologa,
raccolsi molte testimonianze, redatte da gruppi di lavoro, sulla storia
della loro parrocchia. Ne cito alcune riportate nel mio libro Una
chiesa africana s’interroga. Cultura tradizionale kikuyu e cristianesimo
.

«Fra i
missionari citati dal 1904 al 1961, a Ruchu ricordano padre Francesco
Comoglio
come loro leader spirituale per tutto ciò che fece.
Durante l’emergenza mau mau aiutò in tutti i modi i cristiani,
anche coloro che erano in carcere. Battezzò moltissime persone e costruì
tantissime cappelle, malgrado fosse un periodo difficile, e dimostrò un
notevole coraggio».

«Padre
Bartolomeo Negro
fu parroco di Karima dal 1946 al 1955: attivo,
generoso, misericordioso, allegro, coraggioso e gentleman. Amò
amici e nemici. Aiutò chiunque avesse bisogno. Si acquistò le simpatie
della maggioranza della gente e tutte le scuole “protestanti”, chiuse
durante l’emergenza, furono riaperte grazie a lui».

«Nel 1954
la gente fu rinchiusa in villaggi. Padre Ottavio Sestero, aiutato
dalle suore, iniziò l’insegnamento del catechismo in ogni villaggio.
Grazie a tale notevole lavoro, la parrocchia mise radici ovunque. Padre
Sestero lavorava giorno e notte per conquistare i leaders che predicavano
contro la chiesa cattolica. Riuscì nel suo intento e divenne amico di
tutti, che iniziarono a rispettare i cattolici» (Kerugoya).

Allego
pure la lettera che il capo dei mau mau, Dedan Kimathi, scrisse a
padre Nicola Marino. La lettera, conservata a Roma nell’archivio
dell’Istituto Missioni Consolata, fu pubblicata nel maggio 1957 su
Wathiomo Mukinyu
, settimanale della diocesi di Nyeri.

Silvana
Bottignole – Torino

Ecco
la lettera di Dedan Kimathi, impiccato dagli inglesi. Una testimonianza
della misericordia di Dio e di fiducia verso i missionari.

Caro
Padre Marino, è circa l’una di notte e mi sono munito di matita e carta
per ricordare lei e tutti gli amici, prima che scocchi la mia ora. Sono
indaffarato e felice di andare in Cielo domani, 18 febbraio 1957.


Desidero farle sapere che padre Whellan venne a visitarmi in carcere, non
appena seppe del mio arrivo. È una persona molto cara e gentile, come non
mi sarei aspettato. Mi ha visitato spesso e incoraggiato in tutti i modi.
Mi ha dato dei libri importanti, che più di ogni cosa mi hanno acceso di
speranza per la strada verso il Paradiso… Padre Whellan mi visitò anche
il giorno di natale, mentre ebbi parecchie visite negli altri giorni. Mi
spiace che non mi abbiano ricordato il giorno della nascita del Nostro
Salvatore. È un peccato che mi abbiano dimenticato in una ricorrenza così
felice.

Ho il
problema di mandare mio figlio a scuola. È lontano da voi, ma spero che
possiate fare qualcosa perché sia istruito sotto la vostra cura. Cerchi
anche di visitare mia madre, molto anziana, e di confortarla perché sarà
tanto addolorata.

Mia
moglie è prigioniera nel carcere Kamiri e spero che venga rilasciata.
Vorrei che le suore avessero cura di lei, ad esempio suor Modesta, perché
si sente molto sola. Avrei piacere che fosse vicina alla missione di
Mathari, così da essere accanto alla chiesa.

Addio a
questo mondo e a quanto c’è in esso. I migliori auguri agli amici che non
incontrerò più in questo mondo nervoso.


Trasmetta i miei complimenti a quanti leggono Wathiomo Mukinyu. Mi ricordi
a tutti i padri, fratelli e sorelle. Pieno di speranza, la saluto, caro
padre. Con affetto, il suo convertito che sta per lasciare questo mondo.


Dedan Kimathi

cari
missionari box 2


L’imbarazzo del buon Dio

Cari
missionari, la mamma (abbonata alla vostra rivista) è mancata il 18 giugno
2000, vigilia del suo compleanno e onomastico. Infatti era stata
battezzata con il nome di Maria Consolata su suggerimento di una sorella
del nonno, devota della Vergine Consolata.


Mamma Maria Consolata fu malata per diversi anni e, dal 1996, rimase a
letto, immobilizzata, a causa di una forma di demenza senile che l’aveva
colpita nel 1993, a 70 anni. La malattia, grave, progressiva e
invalidante, l’aveva trasformata in una persona «diversa», completamente
alla dipendenza degli altri… Il dolore è stato il compagno fedele di
nostra madre. Non ci è stato facile accettare il suo inesorabile
decadimento fisico e psichico.


Spesso mi sono affidata alla Vergine: nei momenti di scoraggiamento ho
chiesto aiuto a Lei, la Consolata.

Ora
desidero che Missioni Consolata sia indirizzata a me, per continuare la
tradizione familiare di lettura e riflessione di questo mensile. È una
«finestra aperta sul mondo», una testimonianza di fede e coraggio di tanti
uomini e donne, che hanno saputo scoprire l’essenzialità, l’umiltà, la
carità.


Lettere
come questa ci ricordano le parole di Gesù: «Alzati e cammina!»; ed anche
quelle del beato Allamano: «Coraggio e avanti». Grazie, Teresa.

E grazie
pure a Maddalena Soccini, di Montodine (CR), che ci scrive:

Cari
missionari, vi mando un’offerta a nome di mio nipote: lui non va a messa,
ma crede ai missionari e si serve di me per fare un po’ di bene.

Sono
una povera vecchia, che ha battezzato 10 figli. Il 1° aprile ho compiuto
95 anni. Prego sempre il buon Dio che mi chiami, però Lui sta tardando un
po’. Ho anche un altro nipote, sacerdote. Lui invece prega così: «Signore,
se vuoi, lascia ancora un po’ la nonna con noi…».

Da parte
nostra, commossi, osiamo commentare: ecco come si può mettere in imbarazzo
anche il Padre Eteo.

AAVV




Anche lui deve quadrare

T orino, 27 aprile, ore 22,30. In Corso Ferrucci 14, ci imbattiamo in un picciotto di Messina, un toso di Padova, un guaglió di Napoli e un bagai di Como. Con altri 230 camerati, partecipano al Convegno nazionale «Santità è missione» dei seminaristi diocesani. Tutti sui 22-25 anni. A Torino, dal 26 al 29 aprile, sono ospiti dei missionari della Consolata, anche per celebrare insieme i loro 100 anni di vita.
Il picciotto ci domanda: «È possibile far quadrare Dio?». Strabuzziamo gli occhi. Al che, il guaglió racconta: «Oggi pomeriggio, dalle 15 alle 22, abbiamo percorso il quadrilatero della santità». E il toso precisa: «Abbiamo visitato i luoghi dove hanno operato quattro grandi personaggi: il rondó della forca di Giuseppe Cafasso, l’oratorio di Giovanni Bosco, la casa della provvidenza di Benedetto Cottolengo, il santuario della Consolata di Giuseppe Allamano». «È questo il quadrilatero della santità» conclude il bagai.
Ed è così che, secondo il quartetto, si può «far quadrare» anche Dio.Ossia renderlo vicino, interessato, operoso, alla portata di tutti, specialmente dei poveri. Non distante e isolato sul Monte Kenya, come Ngai dei kikuyu tradizionali. Né chiuso in un tabeacolo, come una cassaforte o un fortino.
Per far quadrare Dio, il Cafasso accompagnava al patibolo i condannati a morte: non solo li incoraggiava, ma li rendeva persino felici di fronte ad una sorte infame. Don Bosco giocava con i ragazzi più difficili e, soprattutto, li coinvolgeva con grandi ideali. Il Cottolengo si chinava sugli ammalati, per «lavare loro i piedi». L’Allamano «ha globalizzato un santuario buio e stretto», per farci entrare e cantare anche i «pagani» e gli «incivili» dell’Africa.

G lobalizzare il santuario: è un’altra originalissima espressione del quartetto seminaristico. Forse è nata ascoltando Giovanni Paolo che, proprio durante il Convegno missionario (il 27 aprile), è ritornato a parlare di globalizzazione. Il fenomeno, a priori, non è né buono né cattivo. Sarà ciò che gli individui ne faranno.
Qualcuno ne ha fatto un’alleanza fra società e dio-mercato, con sei comandamenti.
1. Non impedire la costruzione del mercato mondiale. 2. Lascia che il mercato si autoregoli e aiutalo a svincolarsi dallo stato. 3. Liberalizza.
4. Privatizza. 5. Sii competitivo. 6. Non ostacolare l’espropriazione.
Sono comandamenti anche pericolosi: rispondono troppo alla logica del profitto individuale.
Alla globalizzazione il papa pone due limiti invalicabili: la persona, fonte di ogni diritto e ordine sociale, nonché il rispetto della diversità di tutte le culture. Comprese quelle nel sud del mondo. Altrimenti la globalizzazione è colonialismo.
E i conti… non quadrano affatto.
Francesco Beardi

Francesco Bermardi




La lettera dell’inafferrabile

R itengo opportuna qualche osservazione sull’articolo di Missioni Consolata, febbraio 2001, che presenta la travagliata lotta di liberazione dei mau mau in Kenya.
Il direttore africano della Chinga Girls’ Secondary School, dove insegnai come volontaria laica missionaria (1970-72), mi regalò il libro Mau Mau General di Waruhiu Itote. È stato uno dei testi da cui ho tratto i brani per l’antologia Un angolo d’Africa, che presenta «il Kenya visto dai suoi scrittori». L’essere vissuta in zona mau mau, ascoltando la storia scritta dai kikuyu, mi ha molto influenzata. Con i dovuti «distinguo», ho paragonato la loro lotta di liberazione al nostro risorgimento.
Invito a leggere Un chicco di grano di Ngugi Wa Thiong’o, presentato su Missioni Consolata, giugno 1998. Scrivo: «Gikonyo e Mumbi, protagonisti del romanzo, portano i nomi che la tradizione kikuyu attribuisce ai progenitori della tribù e incarnano le sofferenze di un popolo umiliato e oltraggiato dalla dominazione coloniale, diviso e perseguitato durante l’emergenza mau mau, ma caparbio nel volere conquistare libertà e dignità». Purtroppo la violenza genera sempre morte e distruzione. Leggendo però le cifre al termine della rivolta, risultano morti: mau mau 10 mila; lealisti 2 mila; forze governative 534; europei 63; civili 32.

C ome si comportarono i missionari della Consolata in quel tempo? Durante il sinodo della diocesi di Nyeri (1975-76), che mi vide impegnata come sociologa, raccolsi molte testimonianze, redatte da gruppi di lavoro, sulla storia della loro parrocchia. Ne cito alcune riportate nel mio libro Una chiesa africana s’interroga. Cultura tradizionale kikuyu e cristianesimo.
«F ra i missionari citati dal 1904 al 1961, a Ruchu ricordano padre Francesco Comoglio come loro leader spirituale per tutto ciò che fece. Durante l’emergenza mau mau aiutò in tutti i modi i cristiani, anche coloro che erano in carcere. Battezzò moltissime persone e costruì tantissime cappelle, malgrado fosse un periodo difficile, e dimostrò un notevole coraggio».
«Padre Bartolomeo Negro fu parroco di Karima dal 1946 al 1955: attivo, generoso, misericordioso, allegro, coraggioso e gentleman. Amò amici e nemici. Aiutò chiunque avesse bisogno. Si acquistò le simpatie della maggioranza della gente e tutte le scuole “protestanti”, chiuse durante l’emergenza, furono riaperte grazie a lui».
«Nel 1954 la gente fu rinchiusa in villaggi. Padre Ottavio Sestero, aiutato dalle suore, iniziò l’insegnamento del catechismo in ogni villaggio. Grazie a tale notevole lavoro, la parrocchia mise radici ovunque. Padre Sestero lavorava giorno e notte per conquistare i leaders che predicavano contro la chiesa cattolica. Riuscì nel suo intento e divenne amico di tutti, che iniziarono a rispettare i cattolici» (Kerugoya).

A llego pure la lettera che il capo dei mau mau, Dedan Kimathi, scrisse a padre Nicola Marino. La lettera, conservata a Roma nell’archivio dell’Istituto Missioni Consolata, fu pubblicata nel maggio 1957 su Wathiomo Mukinyu, settimanale della diocesi di Nyeri.
Silvana Bottignole – Torino

Ecco la lettera di Dedan Kimathi, impiccato dagli inglesi. Una testimonianza della misericordia di Dio e di fiducia verso i missionari.
Caro Padre Marino, è circa l’una di notte e mi sono munito di matita e carta per ricordare lei e tutti gli amici, prima che scocchi la mia ora. Sono indaffarato e felice di andare in Cielo domani, 18 febbraio 1957.
Desidero farle sapere che padre Whellan venne a visitarmi in carcere, non appena seppe del mio arrivo. È una persona molto cara e gentile, come non mi sarei aspettato. Mi ha visitato spesso e incoraggiato in tutti i modi. Mi ha dato dei libri importanti, che più di ogni cosa mi hanno acceso di speranza per la strada verso il Paradiso… Padre Whellan mi visitò anche il giorno di natale, mentre ebbi parecchie visite negli altri giorni. Mi spiace che non mi abbiano ricordato il giorno della nascita del Nostro Salvatore. È un peccato che mi abbiano dimenticato in una ricorrenza così felice.
Ho il problema di mandare mio figlio a scuola. È lontano da voi, ma spero che possiate fare qualcosa perché sia istruito sotto la vostra cura. Cerchi anche di visitare mia madre, molto anziana, e di confortarla perché sarà tanto addolorata.
Mia moglie è prigioniera nel carcere Kamiri e spero che venga rilasciata. Vorrei che le suore avessero cura di lei, ad esempio suor Modesta, perché si sente molto sola. Avrei piacere che fosse vicina alla missione di Mathari, così da essere accanto alla chiesa.
Addio a questo mondo e a quanto c’è in esso. I migliori auguri agli amici che non incontrerò più in questo mondo nervoso.
Trasmetta i miei complimenti a quanti leggono Wathiomo Mukinyu. Mi ricordi a tutti i padri, fratelli e sorelle. Pieno di speranza, la saluto, caro padre. Con affetto, il suo convertito che sta per lasciare questo mondo.
Dedan Kimathi

Silvana Bottignole




ETIOPIA – Un paese… di corsa

Non si tratta delle visite alle nostre missioni
di chi vuole in pochi giorni conoscere
la cultura della nazione e vivere un’esperienza missionaria;
ma del verbo «correre», nel senso letterale
del termine: l’Etiopia è famosa per i suoi maratoneti; ma anche i ragazzi di un campo profughi alla periferia della capitale non scherzano.

V enti anni fa, quando fui destinato alle missioni in Etiopia, sapevo poco di questo paese. Furono gli amici, ferrati più di me nel tifo sportivo, che mi diedero la prima conoscenza di questa nazione, identificando l’Etiopia con Abbebe Bikila, l’atleta che, correndo a piedi scalzi, vinse la maratona delle Olimpiadi di Roma nel 1960.
Oggi, a 40 anni di distanza, mi sono più che familiari i nomi di Hailé Ghebre Selassié, Ghezahegn, Derartu Tullu, Million Wolde, Ghiete Wami, i podisti che tengono alta la bandiera nazionale, come hanno fatto nelle recenti Olimpiadi di Sydney in Australia. Il primo, Hailé Ghebre, è il più popolare: il suo ritratto occupa l’intera parete di un alto edificio nel centro di Addis Abeba.
Il giorno che egli vinse i 10 mila metri a Sydney, davanti al kenyano Paul Tergat, mi trovavo per commissioni immerso nel traffico del centro cittadino. Improvvisamente, in pieno pomeriggio, un’auto accese i fari abbaglianti; un’altra cominciò a suonare il clacson; altre si unirono al coro. La città sembrava impazzita. Il traffico si fece più caotico e giornioso, anche se assordante. In poco tempo tutta la città era in festa.
Queste vittorie hanno dato un forte incremento a questo genere di sport in tutta l’Etiopia. Da vari anni è normale vedere, al mattino prestissimo, quando non c’è ancora traffico, numerosi giovani che corrono lungo l’arteria principale della città, da piazza Mexico verso le zone più basse della capitale. Sovente questi corridori in erba indossano tute variopinte di nailon, che chiamano con un termine onomatopeico kesh-kesh, dal rumore prodotto dalla stoffa al contatto con il vento.
Oggi, il numero di coloro che praticano la corsa è aumentato anche nelle cittadine di provincia. Studenti di tutte le età, ragazzi e ragazze, fanno di corsa la strada che dal villaggio porta alla scuola, anche senza essere in ritardo, e sfruttano il tempo libero per continuare l’allenamento.
C onfesso che l’entusiasmo di quei giorni mi ha contagiato. È naturale. Dopo 20 anni spesi in questo paese, in qualche occasione lo sento un poco mio. Ma non avrei mai creduto che il contagio mi potesse spingere a correre anch’io. Non per diventare un atleta: avrei dovuto iniziare molto prima della fine del millennio! Ma non si sa mai, nella vita tutto torna utile.
L’occasione di fare un po’ di corsa mi fu offerta, un giorno, da alcuni bambini, rifugiati dall’Eritrea, che dal 1992 vivono nel campo profughi di Makanissa e frequentano il nostro oratorio. Sono Abùsh, un nanerottolo di 11 anni, molto forte e resistente, e sua sorella Kokòb (stella), maggiore di due anni e un po’ più alta; Tighist (pazienza) 12 anni, vivace e simpatica, e il fratello minore Walellìgn, anche lui nanerottolo, e la loro tredicenne compagna Sinnàit.
Alla mia età, mettermi a correre con dei bambini mi suonava un poco strano; ma dovetti subito ricredermi: per loro non era una novità. Accettai la sfida. Il pomeriggio del giorno seguente, dopo la scuola, si trovarono tutti puntuali davanti al nostro seminario in «tenuta sportiva». Si fa per dire.
Le tute da bambino sono comuni anche tra i rifugiati, ma non è detto che siano nuove fiammanti. Abùsh aveva una tuta scolorita e calzava un paio di scarpe di cuoio più grandi dei suoi piedi, ereditate da qualche parente. La divisa di Tighist era spaiata: maglietta bianca, pantaloni di nailon, entrambi piuttosto malandati, e senza scarpe. Kokòb era più o meno nelle stesse condizioni di Tighist. Anche Sinnàit era scalza.

D a Makanissa, periferia della capitale, prendemmo la direzione delle colline che circondano Addis Abeba. In cinque minuti di corsa siamo fuori città, tra campi aperti e aria pura. Cerco di moderare la loro velocità e imporre il ritmo, in modo che respirazione e movimenti si armonizzino, ci si stanchi meno e si gusti l’esercizio fisico.
Abùsh va perfettamente d’accordo col ritmo imposto; Tighist rimane indietro, oppure accelera e abbina alla corsa altri esercizi, visti probabilmente nei campi sportivi, come flessioni del busto, movimenti e roteazioni delle braccia… Un’ora dopo siamo tutti di ritorno.
Da parte mia, mi prendo qualche giorno di assoluto riposo da esercizi sportivi; poi ripartiamo nuovamente. Questa volta c’è più organizzazione: appare qualche paio di scarpe nuove da ginnastica, una maglietta fiammante. Anche il livello tecnico è migliorato. In un batter d’occhio siamo ai piedi delle colline, pur rallentando ogni tanto o procedendo al passo. Azzardiamo una specie di competizione negli ultimi tre chilometri: bravo Abùsh! Di fiato ne hai da vendere. Bravi anche gli altri, che arrivano con mezzo minuto di scarto.
A i piedi delle colline c’è un villaggio tradizionale; una casa di campagna vecchio stile, un vitello nel cortile, due cani, galline che razzolano per strada. È la casa di Netzannèt. Questa ragazza mi venne incontro, una volta, mentre passavo in quella zona con un confratello missionario. Non conoscendo le sue intenzioni, pensai subito che volesse chiedere aiuto, come succede spesso da queste parti, quando la gente ti si avvicina. Cercai di evitarla, con una breve corsa verso il prato, per non dovere ascoltare i soliti piagnistei. Ma mi ero sbagliato. Netzannèt voleva solo scambiare con noi quattro chiacchiere in inglese. Questa lingua è insegnata a scuola, ma gli studenti non hanno possibilità di praticarla. Ci disse che recentemente aveva vinto i 1.500 metri della sua categoria in una competizione regionale. È la seconda volta che la incontro. Netzannèt si mostra molto gentile: vuole preparare il tè per il nostro gruppetto di podisti. Purtroppo dobbiamo rifiutare: il sole sta per tramontare e dobbiamo rientrare prima che faccia buio.
La gente, al vederci correre veloci, guarda sorpresa e incuriosita. Qualcuno batte le mani o grida «bravo!». Il termine, conosciuto anche in Etiopia, è invariabile, vale per il maschile e femminile, singolare e plurale.
Siamo quasi a casa. Tighist, rimasta un poco indietro, scatta davanti a tutti. Qualche passante le grida: «Derartu!», nome della campionessa olimpionica dei 10 mila metri. Quel grido fa piacere anche a me. Per la rifugiata dodicenne, oltre che incoraggiamento, suona come augurio per un futuro più fortunato.

Vincenzo Clerici




GIUSEPPE ALLAMANO – Dalla Consolata al mondo

Chi passa per la casa madre dei missionari della Consolata a Torino si trova davanti a striscioni che ricordano i loro 100 anni di vita: «I missionari della Consolata compiono cento anni!».
Un anniversario ricco di stimoli. Ripercorrere la propria storia è motivo per vedervi la presenza di Dio. Ai missionari partenti, il fondatore, beato Giuseppe Allamano, spesso ripeteva la incoraggiante promessa di Gesù, quando affida ai discepoli di continuare la sua opera di evangelizzazione nel mondo intero: «Io sono con voi tutti i giorni». E commenta: «Egli parte con voi, sarà il vostro sostegno… Questo pensiero deve essere la vostra consolazione: il Signore parte con voi e sarà sempre con voi, non in modo generico, ma tutto particolare» (Conf. III, 470). È lui che opera attraverso i suoi messaggeri.
Ma, prima ancora, egli ha agito nel beato Giuseppe Allamano, a cui si deve la fondazione dell’Istituto. Egli ebbe sempre viva la coscienza di essere soltanto uno strumento nelle mani di Dio per la realizzazione di tante vocazioni alla missione: «Non avendo potuto essere missionario io – diceva – mi sono proposto di aiutare altri a esserlo». Ma si è preoccupato, anzitutto, che fosse il Signore a volerlo, secondo la direttiva fondamentale su cui ha regolato la sua esistenza: fare in tutto e sempre la volontà di Dio.
Alla fondazione di un istituto esclusivamente dedicato all’evangelizzazione dei popoli a cui non è giunto il messaggio del vangelo, l’Allamano pensò in modo abbastanza concreto fin dal 1891, ma non si mosse finché non ebbe la garanzia che ciò rientrava nei disegni di Dio.
La prova da lui ritenuta definitiva la ebbe nel gennaio 1900 quando, assistendo una anziana signora in una gelida soffitta, ne uscì con i brividi della febbre, sviluppatasi poi in broncopolmonite, che lo portò, debole di polmoni fin dagli anni del seminario, in fin di vita. Le suppliche alla Consolata ottennero la guarigione, ritenuta da tutti e dall’Allamano stesso, miracolosa. Erano le prime ore del 29 gennaio. Lui stesso davanti al quadretto della Consolata che stava ai piedi del suo letto promise che, se fosse guarito, avrebbe dato inizio all’Istituto. E mantenne la promessa. Diceva: «Avendo ottenuta la guarigione dalla malattia mortale la fondazione si doveva fare: che io fossi guarito non si poteva negare».
Convalescente nella villa di Rivoli, il 24 aprile spedì al cardinale Richelmy la lettera in cui prospettava tutta la questione relativa alla fondazione dell’Istituto. La mise sull’altare dove celebrò la messa, chiedendo che il Signore manifestasse ancora la sua volontà, come aveva scritto al cardinale nella conclusione: «Rifletti alla cosa presso il Signore, e ritornando fra non molto a Torino, mi dirai il da farsi». Il cardinale gli disse che si doveva fare. E l’Allamano, con le parole di Pietro a Gesù, rispose: «Sulla tua parola getterò le reti». Secondo il suo stile, cominciò subito.
Dopo aver consultato il Dicastero romano di Propaganda Fide, interpellò i vescovi del Piemonte, riuniti alla Consolata nei giorni 12-13 settembre 1900 per la loro assemblea annuale, sul progetto di fondazione dell’Istituto missionario. Il cronista del tempo riferisce che «vivamente caldeggiata dal cardinale Richelmy, l’opera venne discussa, lodata e approvata da tutti i presuli subalpini» (La Consolata, 1,1900, p. 163; cf. L’Italia Reale – Corriere Nazionale, 14-15 ottobre 1900).
Il cardinale manifestò pubblicamente la sua cordiale approvazione con un messaggio pubblicato sulla rivista La Consolata:
«Benediciamo con tutta l’effusione dell’animo al nuovo Istituto, che prendendo il nome della Consolata, ha per scopo di consolare il cuore stesso dell’amatissimo nostro Signor Gesù Cristo col far paghi i desideri del suo amore.
A codesti figli novelli di Maria Consolatrice auguriamo collo spirito di zelo e di sacrificio i doni più eletti dell’apostolato cattolico; e affrettiamo coi voti più ardenti la conversione di quegli infelici, che nelle terre lontane ancor giacciono fra le tenebre e l’ombra di morte.
E mentre sull’opera novella imploriamo i favori del cielo, raccomandiamo la stessa a tutti i nostri figlioli, e specialmente alle anime devote della cara nostra Madre delle Consolazioni. Torino 12 ottobre 1900. Agostino card. Richelmy».
La data «ufficiale» di fondazione dell’Istituto venne stabilita dal card. Richelmy e dal beato Allamano al 29 gennaio 1901, anniversario della guarigione.
Alla culla della Madre
L’ispirazione della fondazione dell’Istituto è venuta dall’intenso dialogo di amore dell’Allamano di fronte alla icona della Consolata. Lì capì che lei è Madre di tutta l’umanità e a tutti desidera che sia fatto conoscere il suo Divin Figlio. Da lei è venuto il segno che doveva partire.
Lei è all’origine dell’Istituto. Il beato Allamano ne è fermamente convinto: «È lei che ideò il nostro Istituto, lo sostenne materialmente e spiritualmente, ed è sempre pronta alle nostre necessità. È lei la fondatrice. Non c’è dubbio che tutto quello che è stato fatto è opera sua».
Era logico che al suo santuario avvenisse la celebrazione principale a cento anni dalla fondazione dell’Istituto, il 29 gennaio 2001, con la presidenza dell’arcivescovo di Torino, Severino Poletto, successore del Richelmy, del rettore del santuario, mons. Franco Peradotto, dei missionari e delle missionarie della Consolata con i loro superiori, e di tanta gente.
Il beato Giuseppe Allamano che ha sempre tenacemente rivendicato la sua funzione unica di trasmettere un carisma e uno spirito, ha anche avuto viva coscienza di non poterlo fare se non insieme a tante persone, dal Camisassa, ai sacerdoti della diocesi, alle tante persone che frequentavano il santuario della Consolata e hanno imparato a esprimere il loro amore alla Madonna contribuendo al cammino della missione e all’aiuto dei fratelli più bisognosi. Questo centenario è di tutta la gente, tante persone che hanno accompagnato, aiutato, incoraggiato e sostenuto l’Istituto e ne hanno reso possibile l’impegno missionario. Tutti insieme hanno espresso il grazie per i 100 anni dell’Istituto, che ha percorso le strade del mondo per portare ai popoli il vangelo, consolazione e vita.
Insieme alla riconoscenza, la celebrazione centenaria è occasione per rinnovare l’affidamento alla Consolata. «Portiamo il suo nome», ricordava l’Allamano; «siamo suoi figli»; da lei prende ispirazione la consacrazione alla missione. Per questo, il superiore generale ha offerto una lampada, che arda davanti a lei durante tutto l’anno, segno di adesione, di rinnovato impegno e fiducia. La Consolata, che «nei momenti difficili è intervenuta in modo straordinario», ha protetto i suoi missionari e le sue missionarie, ha fatto per loro «miracoli quotidiani», continui a prenderli sotto il suo manto e, insieme a loro, quanti ne accompagnano e sostengono il cammino di annuncio del vangelo.
A nome di tutti i missionari della Consolata, il padre generale ha affidato tutto l’Istituto alla loro Madre. Questo gesto ha voluto ricordare e fare proprio l’atteggiamento di fede del beato Allamano. Davanti all’icona della Consolata si inginocchiava affidando a lei i missionari lontani, in viaggio, tra i pericoli, ammalati, presi da sconforto o nostalgia. Nelle difficoltà più grosse, la sicurezza è venuta dal dire con fiducia alla Consolata: «L’Istituto è tuo, pensaci tu!». E ha percepito pure la risposta della Madonna: «Stai tranquillo, ci sono io!». Con questo stesso spirito, il padre generale ha pregato:

«Santa Vergine degli inizi, fidenti ti invochiamo
in quest’alba del secondo centenario di vita dell’Istituto.
Da te, Consolata, è venuta a noi la vita;
per te il Signore ci ha elargito doni
con munificenza regale.

Specchio della nostra identità,
ispiratrice della nostra vita
rendici fedeli collaboratori del regno che viene.
Vincolo della nostra comunione,
ravviva nelle nostre comunità lo spirito di famiglia,
la capacità di lavorare in unità di intenti,
la sollecitudine per i fratelli che ci vivono accanto.

Non si spenga in noi la lampada della speranza,
nella certezza che nulla è impossibile a Dio;
arda in noi il fuoco della missione per illuminare
quanti non conoscono la luce da te generata;
brilli in noi la gioia della consolazione,
perché si diffonda nelle case dei poveri,
degli oppressi e smarriti di cuore.

L’Istituto è opera tua, o Consolata;
alla tua protettrice assistenza ci affidiamo.
Imprimi nel nostro cuore
le parole del beato padre fondatore:
“Coraggio! Avanti!”,
per muovere i nostri passi verso le frontiere dell’umanità,
portando la vera consolazione, Gesù Cristo,
e il lieto annunzio del suo vangelo. Amen».
Tante vite donate
All’inizio della celebrazione è stato espresso il senso di profonda comunione con quanti hanno contribuito alla nascita e alla crescita dell’Istituto; con i missionari e le missionarie e le loro comunità in ogni parte del mondo; con coloro che in cento anni hanno speso la vita per la missione.
Tra questi un posto singolare hanno avuto i missionari, le missionarie, i laici uccisi a causa dell’annuncio del vangelo. Con il dovuto risalto è stata portata all’altare della Madonna una ampolla intrisa del sangue di catechisti martiri del Mozambico. In essi erano presenti tanti altri, molte vite sacrificate per il regno di Dio. Sono il fiore e frutto più valido della missione, la più potente intercessione. L’arcivescovo l’ha invocata a conclusione della preghiera universale, tenendo tra le mani questa ampolla, chiedendo:
«Sia preziosa davanti a te, Signore, questa terra intrisa del sangue di missionari e catechisti martiri; renda a te accetta la nostra preghiera, efficace la nostra intercessione. La loro testimonianza sia seme da cui germoglia la vita, fioriscono nuove vocazioni alla missione, coraggio nell’impegno di oggi fiducia nel futuro».
Dal grembo della diocesi
Nell’omelia, dopo aver fatto memoria dell’evento storico che sta alla base della celebrazione, l’arcivescovo di Torino ha proseguito:
«Da dove è nato l’Istituto dei missionari della Consolata? La risposta ovvia, anche da quello che abbiamo già sentito, è che è nato qui, nella casa della Madonna Consolata. Ha preso il nome da questo nostro carissimo e importante santuario. Potremmo anche dire che è nato dal cuore della SS. Trinità, perché ogni opera, ogni iniziativa di bene viene da Dio: “Ogni dono perfetto viene dal Padre della luce”, ci ricorderebbe S. Paolo. Credo che sia molto importante, volgere questo sguardo verso le vere origini, che sono la SS. Trinità e l’ispirazione della Madonna, accanto a cui l’Allamano è vissuto per ben 46 anni. Lo sguardo però alla realtà storica ci conduce a dire che l’Istituto è nato dal cuore del beato Giuseppe Allamano. Un sacerdote della diocesi di Torino, nato a Castelnuovo Don Bosco, terra di santi, nipote del Cafasso, patria di s. Giovanni Bosco, paese dove è morto, in una frazioncina, anche s. Domenico Savio. Un comune che annovera già al suo interno ben quattro santi, già proclamati tali dalla chiesa.
Il giovane Giuseppe Allamano ha attinto la sua formazione dalla famiglia, indubbiamente profondamente cristiana, ha coltivato la sua preparazione con gli studi filosofici e teologici, fino a raggiungere la laurea in teologia, e ha costruito in questo santuario, accanto alla Vergine e attraverso la devozione alla Consolata, la storia del convitto ecclesiastico, il suo cammino di santità cristiana, lo slancio per attuare l’ispirazione di fondare l’Istituto dei missionari della Consolata, e poi delle missionarie della Consolata.
L’Istituto è nato dal cuore del beato Giuseppe Allamano. E non perché sono arcivescovo di Torino, ma per aderenza alla realtà storica, dico anche che è nato dal grembo del presbiterio diocesano di Torino. L’Allamano, con il consiglio e l’approvazione dell’arcivescovo del tempo, card. Richelmy, e, come abbiamo sentito, di tutti i vescovi del Piemonte, si poneva il problema dell’annuncio del vangelo a immense popolazioni del mondo, ancora distanti dalla conoscenza di Cristo. La situazione, tanto diversa da oggi, era di grande abbondanza di clero locale, da arrivare al punto che l’arcivescovo non sapeva dove mandare i sacerdoti appena ordinati. Ecco allora che all’interno del presbiterio diocesano, l’Allamano intuisce di poter chiamare un gruppo di sacerdoti, che diventeranno il primo nucleo dell’Istituto.
Ci tengo a ripetere che l’Istituto è nato dal grembo del presbiterio diocesano di Torino e, in senso più largo, da questa santa chiesa di Torino. La grande tradizione di santità e di spirito apostolico dei secoli XIX e XX è diventata il giardino in cui sono germogliati tanti fiori, tanti istituti religiosi, tanti esempi di santità e di missionarietà. Questo è il ricordo storico che desideravo fare a cento anni dalla nascita dell’Istituto della Consolata, sottolineando il legame di parentela tra l’arcidiocesi di Torino e il vostro Istituto. Il vostro fondatore è sempre rimasto prete diocesano e per 46 anni, fino alla sua morte, rettore di questo santuario della Consolata; questo mi ha impressionato».
Motivi per dire grazie
«Dalle piccole esperienze dirette che anch’io ho avuto dell’azione dei missionari della Consolata – ha continuato l’arcivescovo – posso dire che il loro stile è quello tipico di coloro che partono per la missione ad gentes. Andare in un luogo dove non si conosce Gesù Cristo, annunciare il vangelo, far sorgere la comunità cristiana, attendere pazientemente che essa si esprima in sacerdoti, laici impegnati, catechisti, per poi spostarsi da un’altra parte, e lasciare che questa comunità cammini con le proprie gambe. Questa caratteristica del missionario non solo della Consolata, ma di tutti gli Istituti missionari, di essere sempre sulla frontiera dell’annuncio, ha caratterizzato i cento anni di storia dei missionari della Consolata.
La vostra storia, nel profondo, ha avuto quello spirito che l’Allamano aveva sempre raccomandato: una grande preparazione culturale, soprattutto teologica, grande santità e fervore di vita, e soprattutto una carità tale da essere disposti a morire anche martiri per l’annuncio del vangelo. Credo che davvero questi cento anni sono stati un camminare su questa traccia indicata dal Fondatore: formazione umana, teologica, spirituale, santità di vita, eroismo fino all’effusione del sangue.
La terra intrisa del sangue dei martiri del Mozambico, come è già stato ricordato nell’introduzione, dà pieno significato al rendimento di grazie che oggi innalziamo al Signore e alla Vergine Consolata.
Vanno pure ricordate le chiese locali nate dall’apostolato dei missionari. Io ne ricordo diverse in Kenya e in Tanzania, dove sono stato, per vostra benevolenza, a predicare un corso di esercizi spirituali ai padri. Dove non c’era niente, ora ci sono parrocchie, fiorenti comunità cristiane. Anche per questo rendiamo grazie».
Riprendere slancio
«Siamo qui anche per un rilancio. Il santo padre nella lettera apostolica che ha voluto donarci a conclusione del grande giubileo del 2000, prende lo spunto dal testo di Luca, dove Gesù dice a Pietro “prendi il largo”, e getta le reti per la pesca. Non bisogna fermarsi al passato, ma guardare il futuro e rilanciare il fervore della prima ora, l’entusiasmo e lo slancio dei primi missionari. Questo ci propone la parola di Dio che abbiamo ascoltato. S. Paolo nel bellissimo inno della lettera agli Efesini (1,3-14) ricorda che siamo dentro il grande progetto di Dio. Un Dio che “ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo”, non per realizzazioni umane “ma per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità”. Un Dio che ci chiama ad entrare nella grande avventura del suo mysterium, “il progetto di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra”.
Cari missionari della Consolata, questo è uno slancio che dovete riprendere nel cuore, nella mente e nelle azioni. Entrare dentro al progetto che il Padre ha di ricapitolare, riassumere, riconciliare nel Signore Gesù Cristo tutta l’umanità. E questo è possibile se noi, come diceva il vangelo (Gv 15,4-15), siamo uniti a Cristo come il tralcio alla vite. Uniti a lui portiamo frutti, e abbondanti, come quelli che avete raccolto in questi cento anni.
Se siamo uniti a Cristo dobbiamo anche accettare di essere potati, provati, nelle difficoltà e nella sofferenza. Anche i missionari della Consolata, come i seminari diocesani, stanno tribolando per la scarsità di vocazioni. Sono tutte prove che il Signore ci dà per purificare la nostra vita, la testimonianza, lo spirito. Il Signore ha i suoi disegni, per cui se un tralcio porta frutto, il Padre lo pota perché porti più frutto. Questa unione con Cristo è certezza della sua amicizia, “vi ho chiamati amici, perché vi ho comunicato tutto ciò che il Padre mi ha detto”. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi. E vi ho detto queste cose, vi comunico la mia amicizia, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.
Lo slancio lo prendiamo qui, ai piedi della Vergine Consolata, il modello, la protettrice, colei che ci sostiene e dà forza nelle difficoltà. Qui l’Allamano ha trovato ispirazione e forza per seguire la sua vocazione e dare al vostro Istituto le caratteristiche che lui ha ricevuto dalla Madonna Consolata. Qui è il riferimento irrinunciabile».
Per sempre
«Ho incontrato alcune missionarie della Consolata a Nairobi nella loro casa per le suore anziane. Dicevano: “Noi siamo partite per l’Africa 50 anni fa, quando eravamo giovani, e non siamo mai più tornate in Italia”. Ho chiesto: “Come mai? Adesso vanno e vengono con i voli aerei, adesso c’è facilità di viaggiare”. “E no – risposero -. Quando siamo partite, il nostro santo fondatore ci diceva che si parte per sempre. E anche se i superiori ci concedono di ritornare, vogliamo rimanere qui fedeli al nostro impegno”. Questo mi ha scioccato, mi ha impressionato: “Siamo partite e non siamo mai ritornate in Italia, vogliamo morire qui ed essere sepolte qui”.
Il “per sempre”, fratelli e sorelle carissimi, oggi non è così ovvio. Tuttavia, anche se oggi non è tanto di moda, è una caratteristica fondamentale dell’amore. Uno che ama Dio, ama Gesù Cristo, e sente il bisogno di portare il vangelo agli altri, dice sì come ha detto Maria, per tutta la vita, per sempre. Così ha fatto il beato Giuseppe Allamano, che si è consegnato a Dio nella fedeltà alla sua vocazione. Così ha fatto la serva di Dio Irene Stefani (speriamo che anche voi suore abbiate poi la vostra santa proclamata tale dalla chiesa). Siamo qui nel santuario della Vergine Consolata, per rinnovare nel ringraziamento, nel ricordo storico, il nostro proposito di perseveranza e di fedeltà alla missione che il Signore ci ha affidato. Questa fedeltà deve durare per sempre».

L’ inizio del centenario, al santuario della Consolata è stato veramente una festa «di famiglia» per la missione: nella «casa della Madre», nel ricordo del padre che ha dato avvio all’Istituto, con la rappresentanza di tutta la diocesi, che ha condiviso attivamente l’intento dell’Allamano e ne ha reso possibile la realizzazione.
Circondati da un gran numero di testimoni fedeli a questo progetto, suscitato da Dio per attuare l’opera di salvezza di Cristo, si è rafforzata la volontà di proseguire per la strada intrapresa.
È cresciuta la fiducia che il beato Giuseppe Allamano aveva per il futuro: «La nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata. Passeranno gli uomini, cadranno pure alcune foglie, ma l’albero prospererà e verrà un albero gigantesco: io ne ho prove prodigiose in mano».

Redazione




Lacrime di una musulmana

Egregio direttore, ci ha disgustati la copertina di Missioni Consolata, gennaio 2001: il volto di una musulmana e non «lacrime di donna samburu».
Così avvenne per il centenario della rivista (ottobre-novembre 1998): anche su quel numero il volto di una musulmana. Idem in quattro o cinque numeri del 1998: sempre facce di musulmane e pagine e pagine di interviste a donne cristiane diventate musulmane.
Ci chiediamo se sia il caso di mettere, come primo messaggio della rivista, donne musulmane. Quale attinenza hanno con la rivista e con i missionari della Consolata? Molti lettori hanno commentato negativamente.
È vero che l’islam è la seconda religione in Italia e che di musulmane ce ne sono a migliaia; ma proporle sulla copertina di una rivista missionaria è del tutto fuori posto.
Egregio direttore, se lei è un «patito» per i volti musulmani, si prenda due o tre segretarie musulmane: così le può contemplare come e quando vuole. Ma abbia rispetto per la rivista, per i suoi lettori, per i missionari della Consolata.
Lettera firmata
Kenya
La copertina incriminata ritrae una donna, con due lacrime che le solcano il volto. La foto fu scattata da padre Benedetto Bellesi, il 18 settembre 1998, nella chiesa di Maralal (Kenya) durante il funerale di padre Luigi Andeni, ucciso quattro giorni prima.
La commozione di quella musulmana per un missionario cattolico è quanto mai eloquente: come minimo esige (questa volta sì) «rispetto».
Secondo la Qabbalàh (tradizione mistica dell’ebraismo), l’Eteo raccoglie le lacrime delle donne, di tutte le donne. Ma qualcuno neppure le vede, perché chi piange è una musulmana!

lettera firmata




Perché non sono americano

Superiore generale dei missionari della Consolata per 12 anni
e oggi superiore di quelli in Tanzania,
padre Giuseppe Inverardi, bresciano,
ci permette di approfondire la situazione di questo paese,
in relazione anche ad altre nazioni dell’Africa…
Il socialismo di Nyerere: successi e fallimenti.
L’importanza del kiswahili. Il dramma dell’Aids e dei ragazzi di strada.
L’azione della chiesa.

Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di auto nomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito del la rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.

Julius Nierere – Il “Gandhi” dell’Africa nera

IL «GANDHI» DELL’AFRICA NERA

L o chiamavano «mwalimu», maestro. Laureato in pedagogia in Inghilterra, si era dedicato all’insegnamento: maestro nella primaria e maestro di vita poi per tutta l’Africa, che voleva liberata senza spargimento di sangue.
Determinanti sono state le sue mediazioni per portare la pace in Sudafrica, Mozambico… Ha liberato il Tanzania con una precisa tattica: esercitando ogni sorta di pressione non violenta sugli inglesi e alle Nazioni Unite, per ottenere autogoverno e indipendenza. Lui, il «Gandhi» dell’Africa nera.
Ha fondato il partito Tanu (Tanganyika African National Union) con il programma Uhuru na umoja (libertà e unità). Ha creato vincoli di amicizia tra le 120 tribù del paese, facendo appello all’unità nazionale, più forte dei vincoli etnici; ha favorito la lingua kiswahili come fattore di coesione nazionale; ha saputo trarre vantaggio dalle tensioni delle «tribù» europee (inglesi, tedeschi e greci), per farsi ascoltare dagli inglesi che accettarono di ritirarsi dal Tanzania senza rappresaglie né sabotaggi. Diventato presidente, non cambiò stile di vita: viveva i principi che insegnava, basati su una particolare forma di socialismo, mirante a raggruppare la gente in villaggi per vivere una vita sociale in forma di cornoperativa, dove tutti potessero interessarsi e partecipare al bene comune, con l’aiuto dello stato nelle grandi opere: strade, acquedotti, ospedali.
Viveva modestamente. Lo posso testimoniare in seguito ad un significativo incontro avuto con lui. Avevo intervistato padre Walsh, dei Padri Bianchi, cappellano degli universitari e direttore spirituale di Nyerere. Grazie a questo missionario, potei incontrare il presidente nella sua casa, semplice e dignitosamente povera. Finito il colloquio, egli stesso ci accompagnò all’università di Dar es Salaam, guidando la sua modesta automobile. Edificante il colloquio sul rapporto tra fede e politica.
Fede in Gesù Cristo: appena poteva, partecipava all’eucaristia inginocchiato tra i ragazzi. Fu anche visto in fila, davanti al confessionale.
Fede nell’uomo, nella sua sostanziale bontà: da qui la scelta di spingere i tanzaniani a vivere con un ideale fin troppo elevato per le deboli forze di queste popolazioni, da sempre chiuse entro i limitati confini delle necessità quotidiane.
Q ualcuno lo chiamava «il maestro rosso», specie per i suoi precisi interventi contro la corruzione di coloro che il popolo aveva argutamente ascritto alla «tribù» dei «Wabenzi», cioè di quanti potevano permettersi il lusso di girare su costosissime Mercedes Benz! Aveva promulgato «il codice dei dirigenti», per impedire ai ricchi di percepire due stipendi.
La gente aveva un’estrema fiducia in lui; per cui lo seguì sulla strada di una riforma che intendeva dare al paese un indirizzo socialista, tipicamente africano, non marxista, alieno dalla lotta di classe, basato sul tradizionale collettivismo rurale e legato alla cultura del passato. «Giustizia, uguaglianza, dignità»: erano i cardini del socialismo e dell’autogestione, proclamati nella famosa dichiarazione di Arusha (1967).
Il suo socialismo si chiamava «ujamaa», termine kiswahili che significa «stato di famiglia». Nyerere sognava che l’intero Tanzania diventasse una famiglia. Cominciò la campagna di nazionalizzazione. Nello stesso tempo nacquero le cornoperative di produzione e consumo autogestite ed autornamministrate. Bellissimo l’ideale. Deboli gli uomini chiamati a metterlo in pratica.
S i parlò di disastro, di completo fallimento. I forti e contrastanti interessi economici, i boicottaggi, le invidie, l’estrema povertà del paese, la mancanza di preparazione e di incentivi personali; poi anche l’aumento del prezzo del petrolio, la guerra contro l’Uganda di Amin…
I malcontenti portarono ad un tentativo di colpo di stato. Quando Nyerere incontrò colui che progettava di destituirlo, gli mise un fucile in mano e lo invitò a sparargli: era disposto a morire se ciò fosse servito ad evitare un bagno di sangue per la sua gente.
Quando, nel 1984, si accorse che c’erano tensioni e rischi di aggravamento delle proteste separatiste, spontaneamente lasciò la presidenza al musulmano Mwinyi. Egli, convinto cattolico, parlò in favore del suo successore, per cementare tutto il paese e facilitare così la transizione del potere.
Si ritirò nel suo villaggio a coltivare la terra e a fare il catechista, lasciando tali occupazioni solo quando percepiva di poter essere ancora utile come mediatore di pace presso popolazioni travagliate dalla guerra.
Valentino Salvoldi

aa.vv




Io sono perchè, noi siamo

L’ Africa non cessa di sorprendere. Nonostante i crescenti problemi, fa di tutto per sopravvivere, anzi per danzare la vita.
Lo scorso anno, in Etiopia, per un corso di aggioamento ai religiosi e al clero, presi lo spunto da un disegno di un artista africano intitolato: «Il Cristo che ride».
Oggi in Tanzania, per sviluppare il tema della salvezza, mi avvalgo come ispirazione del presepio allestito dai missionari della Consolata nella loro casa-procura di Dar es Salaam. Si tratta di una scultura, che si dispiega in uno stupendo groviglio di corpi scolpiti nell’ebano («maconde»), plasticamente culminante in una culla: vi riposa il bambino Gesù, che si massaggia un piede con il particolare atteggiamento che prelude… al sonno. «Dormire è bello – commenta un giovane africano -, dormire e sognare».
Interessante anche l’osservazione di un missionario della Consolata su quel divino infante: «Si sta togliendo una pulce penetrante. Povero Cristo! Ha sperimentato di tutto sulla terra».
I vangeli canonici non ci parlano di pulci penetranti; forse gli apocrifi… San Paolo afferma che, attraverso la sofferenza, il figlio di Dio ha capito che cosa significa essere figlio dell’uomo. E a tutti ha offerto la salvezza.
Anche alla pulce penetrante? Se questa non viene tolta subito, porta a complicanze irreparabili. Presa in tempo, è facilmente eliminabile, come fosse uno scherzo, un gioco da bambini.

«I l sorriso» e «il massaggio del piede»: due immagini che ci parlano dell’arte di ridimensionare ogni cosa, mantenendo un sostanziale ottimismo. Questo atteggiamento, tipico di molti africani, è riscontrabile anche in Tanzania, paese dai mille problemi, sapientemente affrontati con calma uno dopo l’altro, oppure rimandati in attesa di tempi migliori… quando a Dio piacerà.
L’arte di ridimensionare tutto non va confusa con la superficialità né, tanto meno, con il cinismo. Quando il peso della sofferenza è eccessivo e il lavoro per salvare il salvabile cozza contro una serie di fallimenti, è facile scoraggiarsi e sembrare indifferenti al dolore.
Se nell’ospedale di Ikonda, nel sud del Tanzania, durante il fine-settimana muoiono otto pazienti, in prevalenza giovani e tutti a causa dell’Aids, diventa indispensabile radunare gli infermieri e cercare insieme le ragioni per motivare ancora l’impegno al servizio della vita: anziché contare i decessi, si ricordano perciò i successi ottenuti. In ospedale la gente (non abituata agli antibiotici), con poche pastiglie ritrova condizioni di vita accettabili, mentre se fosse rimasta al villaggio, priva di medicinali o con le sole cure del «dottore tradizionale» (stregone), sarebbe morta in tempi brevissimi.
Ridimensionare, in questo caso, significa trasferire tutto in una nuova dimensione: non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e dal senso d’impotenza, ma sentirsi orgogliosi delle vite salvate o che si è tentato di salvare.
L’arte del ridimensionare è teorizzata dall’arcivescovo di Dar es Salaam, Polycarp Pengo, ed è vissuta da lui con la spontaneità di un bambino. Dice: «Bisogna ridimensionare ogni cosa, sforzandosi di vedere prevalentemente le cose belle».
Il bambino attualizza il ridimensionamento e lo mette in pratica attraverso un rito che non ho mai visto in altre parti dell’Africa. Dai tre ai sette anni, i piccoli salutano i grandi ponendo la manina sulla testa degli adulti e ripetendo più volte: «Sono ai tuoi piedi». Per lasciarsi toccare la testa, il grande deve abbassarsi al livello del piccolo e, così facendo, si ridimensiona. Forse chi è coinvolto in questo gesto non ne apprezza a sufficienza la portata. Ma, visto dall’esterno, è molto significativo.
I bambini della scuola matea l’hanno ripetuto più volte anche con me e mia nipote Maria Rosa Lorini, coautrice di questo dossier. C’è da augurarsi che non vada perduto con il passare del tempo e il sovrapporsi delle culture.

C’ è pure da sperare che i tanzaniani mantengano inalterati i valori, ribaditi con forza da Julius Nyerere, il «maestro» per antonomasia del Tanzania.
Visitiamo questo paese ad un anno circa dalla sua morte, anche con l’intento di capire quale ricordo abbia conservato la gente di quest’uomo amante della giustizia, cattolico, convinto del valore della fede, vista pure come mezzo per motivare ulteriormente l’impegno politico.
Anche Nyerere è stato un esperto nel coinvolgere i suoi concittadini nell’arte di ridimensionare tutto: per lui si basava sulla familiarità con il pensiero di Dio, la nascita e la morte. Dava per scontata la vita eterna; considerava quella terrena il bene più grande, affidatoci dal Creatore, e aiutava il suo popolo a vedere ogni realtà nella giusta prospettiva.
E, mentre non usava mezzi termini nel denunziare lo sfruttamento dell’occidente nei confronti dell’Africa, invitava i popoli del continente a convivere in pace, senza sognare l’impossibile, ma vivendo una povertà dignitosa, cercando di essere liberi, autosufficienti e capaci di governarsi gestendo con intelligenza le risorse a loro disposizione.

P iù che riportare le mie impressioni o analisi, nel presente dossier preferisco, con Maria Rosa, cedere la parola ai missionari che stanno spendendo la vita al servizio dello sviluppo integrale del Tanzania.
Abbiamo incontrato parecchi preti e suore anche avanzati in età. Ma nessuno di loro sembra preoccuparsene, e continuano a rimanere sulla breccia: annunciano il vangelo, insegnano, guidano la jeep, fanno operazioni chirurgiche, programmano costruzioni di case e ponti come se non dovessero mai morire.
Vivendo in missione, hanno imparato a ridimensionare anche la morte.
Valentino Salvoldi
Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di autonomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito della rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.
«Batti il tamburo,
non i bambini!»

Q uesto è lo slogan che padre Franco Sordella e i bambini della Faraja House hanno scelto per l’inaugurazione della loro nuova scuola elementare nel settembre scorso. La Faraja House (casa della consolazione) è un centro nella città di Iringa per ragazzi difficili: in maggioranza provenienti dalla strada e parecchi orfani. Ognuno con il suo bagaglio di abbandono, violenza, miseria.
Il progetto (uno dei tanti realizzati dai missionari della Consolata) è iniziato dal nulla tre anni fa. Oggi consta di due settori: il primo, «ragazzi di strada» per la riabilitazione; il secondo, per l’avviamento professionale anche di minori che non vivono nella Faraja House. Il tutto è quasi un villaggio: comprende dormitori, refettori, cucine, laboratori, dispensario e la scuola tecnica, che annovera 60 ragazzi. Con gli altrettanti bambini della Faraja House, si raggiunge un totale di 120.
Ma ci sono anche i frequentatori della domenica: ragazzini che sopravvivono lavorando al mercato e vivendo in «tane» (ad esempio, presso i mucchi di crusca dietro i mulini). Ad essi, «il dì di festa», viene offerto un buon pasto e la possibilità di lavarsi e di non restare analfabeti.
Oggigiorno anche le scuole governative sono a pagamento: perciò pochi sono i bambini che hanno la possibilità di frequentarle. Nel paese scarseggiano strutture e maestri: così non bisogna stupirsi se, entrando in una classe, si trovano anche 100 allievi, che devono solo rimanere seduti e buoni, presente o meno l’insegnante, se non vogliono essere castigati.
Accanto al «problema scolastico», sta aumentando anche il numero di bambini che, come Issa, rimangono orfani a causa dell’Aids. Issa (Gesù) è stato accolto nella Faraja House a natale.
Visto che Gesù bambino fu rifiutato, perché – si sono detti i missionari – non cercare in città il ragazzo più abbandonato e solo? Uno di quelli che dormono nascosti per paura di essere picchiati o abusati dai più grandi… e dargli una famiglia? È saltato fuori Issa, che ha trovato finalmente casa, ma anche chiesa, scuola e lavoro.
Già, lavoro. Non bisogna stupirsi se, nella Faraja House, la prima cosa che si compra all’inizio della scuola non sono i libri, ma la zappa. L’importante è che il lavoro non diventi l’unico riferimento a scapito dell’istruzione e, soprattutto, che gli insegnanti non costringano i ragazzi a lavorare nei loro campi tutto il giorno sotto la minaccia del bastone.

M entre la Faraja House ospita bambini di strada, per i ragazzi che cercano un lavoro (in particolare le ragazze) è stato creato il Centro «Stella del mattino», anch’esso nel territorio di Iringa. Costruito e gestito dai missionari della Consolata, «Stella del mattino» ospita 60 adolescenti provenienti da villaggi dove non esistono le strutture necessarie per l’istruzione.
Il sistema educativo del Centro è «studio e lavoro»: lo stesso che vige nelle scuole statali fin dai tempi dell’ujamaa. La filosofia pedagogica di base enfatizza «l’importanza di trasmettere ai ragazzi le conoscenze che possano situarli in una buona posizione sociale e renderli cittadini capaci di autoguidarsi e portare il loro popolo fuori dalla povertà e dall’ignoranza» (J.T.K. Ulimwengu, capo editore Rai/Mtanzania).
Nel Centro si punta all’autosostentamento: sia per non dover dipendere da aiuti estei, sia per rendere più consapevoli i giovani. Qui essi possono mantenersi allevando animali, coltivando i campi e, nello stesso tempo, formandosi culturalmente per far fiorire domani tutte le potenzialità che la nazione possiede. In Tanzania nel 1996, durante il seminario organizzato dal «Centro per l’energia, lo sviluppo, la sicurezza e la tecnologia», si discusse sul deterioramento del livello qualitativo dell’educazione. Se nelle scuole primarie il problema maggiore è legato al sovrannumero, alle secondarie (dove il numero degli studenti è contenuto a causa della selezione per merito) la violenza sessuale costituisce il principale fattore di ingiustizia e continua ad essere al centro di dibattiti e della cronaca locale.
Il Ministro dell’educazione ha rivelato che, tra il 1995 e il 1998, 12.721 ragazze furono espulse dalla scuola poiché incinte. Anche da parte degli insegnanti.

HO VSTO LA BONTA’ LIBERATRICE

«Abbiamo visto i miracoli dell’amore» potremmo intitolare un libro, se volessimo narrare ciò che uomini e donne di Dio, preti e suore locali, missionari e laici, stanno realizzando a favore dei più poveri nei più remoti angoli della terra, là dove manca tutto: acqua, cibo, strade, ospedali, scuole.
La jeep s’inerpica sui monti a sud della Tanzania, oltre i 2 mila metri: antichi tratturi trasformati in «strade», che si possono affrontare durante la stagione secca, ma che si convertono in rovinosi torrenti durante i sei mesi delle piogge. Nonostante si creda che quattro ruote motrici possano fare miracoli, sovente ci s’impantana al punto da non potersi più muovere.
E quelle zone che sembravano deserte, d’un tratto si animano di persone che sbucano da ogni angolo, si organizzano in breve tempo e rimettono la macchina in condizione di riprendere il viaggio. È uno dei volti della solidarietà africana, una dimostrazione che l’antica massima vale ancora: «Io sono, perché noi siamo». Non si contano i saluti, i complimenti e i ringraziamenti, anche se qualcuno afferma che non è conveniente ringraziare perché, come dicono soprattutto i musulmani, «chi ha una ricompensa in terra non l’avrà in paradiso».
Da Njombe – dove finisce la strada asfaltata – a Ikonda, per percorrere 70 chilometri impieghiamo più di tre ore. Fortunatamente da alcuni giorni non piove. Intoo a noi spazi immensi e verde… verde dappertutto: siamo nella stagione delle piogge. Le poche abitazioni che si scorgono sono in terra rossa e hanno il tetto di paglia, dal quale fuoriesce fumo. Il cibo è cotto in pentole appoggiate su tre pietre, che costituiscono il focolare, per terra, in mezzo all’abitazione «multiuso». E il cibo è tutti i giorni uguale: polenta e fagioli.
Lo stesso cibo ci viene offerto dai parenti degli ammalati nell’ospedale di Ikonda. Quando la struttura venne ultimata, fu chiesto ai capi dei wakinga e wabena (etnie locali) come dovesse essere l’ambiente affinché i degenti si sentissero più a loro agio. Risposta: una grande stanza aerata, dove ognuno posa le sue tre pietre, simbolo dell’unità familiare, sulle quali cuoce la solita farina di mais. È meglio non cambiare troppo le abitudini delle persone. Poi toeranno al loro villaggio…
Ogni tanto suor Magda porta ai bambini un uovo oppure, alle mamme, un po’ d’olio per condire le patate bollite quando ci sono. La malnutrizione non aiuta certamente la guarigione.
L’ospedale è gestito dai missionari della Consolata. Può ospitare 200 ammalati e vi lavorano tre medici africani e tre spagnoli. Attualmente è il governo spagnolo a fornire i fondi per il funzionamento della scuola-infermiere e per la formazione degli assistenti medici; ma il personale competente è insufficiente. L’organizzazione Medicus Mundi cerca costantemente volontari, e si può contare sulla presenza di persone disposte a spendere qualche anno della loro vita per gli altri.

Fra le malattie (che richiedono il ricovero in ospedale) nel 1995 al primo posto c’era la malaria, passata poi al secondo. Oggi è l’Aids che detiene il triste primato: lo è anche nella classifica dei decessi. Nell’ospedale abbiamo sfogliato il voluminoso registro dei pazienti che fanno il test dell’Hiv.
Il fatto che tante persone vi si sottopongono significa che hanno comportamenti a rischio, o che vivono in ambienti dove il contagio può essere frequente, oppure che manifestano già alcuni sintomi. Orbene: ogni pagina del registro reca 18 nomi; quelli scritti in rosso sono «sieropositivi»; solo due (a volte tre) i nomi in nero, cioè i «negativi».
Nella regione di Iringa-Njombe la trasmissione dell’Aids è particolarmente accentuata anche a causa del lavoro «offerto» dalla Brooke Bond, multinazionale del tè. Il lavoro si protrae per 11-12 ore al giorno, anche sotto la pioggia, per una paga mensile che varia da 90.000 a 150.000 lire, a seconda della quantità di foglie raccolte.
I lavoratori, immigrati stagionali per la raccolta, vivono nelle casette degli accampamenti costruiti dalla compagnia, isolati. Ovunque ci sono contadini che non lavorano «in proprio», costretti anche a comprare il cibo (per lo più proveniente dal campo del manager). Non essendoci alcun diversivo, sono facile preda dell’alcornol e della promiscuità.
All’ospedale di Kibao (della Brooke Bond) risulta che 9 operai su 10 sono affetti da Hiv positivo. Quando la malattia comincia a manifestarsi, viene loro corrisposta una piccola liquidazione e sono licenziati. Con l’aggravante che, non essendo stati informati della natura e della pericolosità del male, tornando al villaggio, contagiano chi vi è rimasto. La compagnia del tè ha pensato di risolvere il problema così: un’ora settimanale di istruzione sull’uso di profilattici e sull’importanza di anticoncezionali e abortivi. Nessun accenno viene fatto agli effetti collaterali che, usando i farmaci Depoprovera e Norplan, comportano rischi elevati. Non a caso, nel Nord del mondo, tali farmaci sono stati banditi. E non solo perché, con il passare del tempo, causano sterilità nelle donne.
Se nei centri sanitari governativi non fossero praticate regolarmente «certe» iniezioni, il paese non riceverebbe più gli aiuti dall’estero. E questo sistema sta distruggendo l’«orgoglio delle tanzaniane». Una donna, infatti, diventa tale solo dopo aver partorito il primo figlio: da quel momento sarà «la mamma di…». Col tempo, il ricorso sommario a contraccettivi distruggerà la fertilità di un’intera popolazione.
Inoltre negli ospedali governativi, al momento del parto, soprattutto se c’è stato un cesareo o in seguito a complicazioni, spesso sono i medici a decidere indiscriminatamente, senza chiedere il consenso di alcuno, di chiudere le tube delle giovani madri. Queste vengono a scoprirlo soltanto in seguito quando, vedendo che non arrivano altri figli, effettuano visite di controllo, magari negli ospedali dei missionari.
Una tanzaniana, confidandosi con una missionaria della Consolata, ha commentato: «Noi abbiamo molta più fiducia nei vostri ospedali, perché qui c’è il timore di Dio, mentre in quelli del governo c’è solo il timore della nazione».
Maria Rosa Lorini

Maria Rosa Lorini