I neri, ancora incatenati – Speciale BRASILE

Il conto è presto fatto: tre secoli
di schiavitùe uno di libertà, fanno
quattrocento anni di sfruttamento. Cosìi neri brasiliani riassumono la loro storia… in attesa di riscatto.

AFRICA ADDIO
All’inizio sono gli indios a essere costretti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Poi qualche colono importa illegalmente alcuni schiavi neri. Forti e muscolosi, danno risultati eccellenti. Le poche gocce diventano un diluvio.
Nel 1539 è inoltrata a Lisbona la richiesta di schiavi africani. Nel 1550 la tratta dei neri diventa sistematica, con tutti i timbri dell’ufficialità. Nel 1570 inizia l’importazione in massa.
A mano a mano che si sviluppano industria zuccheriera e coltivazione del tabacco, industrie minerarie e piantagioni di caffè, il traffico negriero aumenta di anno in anno con un crescendo vertiginoso. In tre secoli arrivano in Brasile quasi 4 milioni di africani. Nella tabella seguente sono riportate le cifre più attendibili, calcolate per difetto.
Africa-Bahia, viaggio diretto, ma terribile: metà degli schiavi periscono in alto mare. Solo i più giovani e forti sopravvivono alle burrasche della traversata, con poco cibo e acqua rancida. «Ne muoiono troppi sulle navi negriere. Sotto sotto non ci sarà un imbroglio?» si lamentano i sovrani portoghesi; non per compassione, ma perché riscuotano le tasse per ogni nero che sbarca vivo.
I neri sbarcati in Brasile appartengono a due gruppi principali: bantu e sudanesi. Il primo proviene dal Mozambico (angico), Congo e Angola (cabinda, bakongo, benguela). Il secondo è composto da etnie e regni affacciati sul Golfo di Guinea: minas, jeje, ewe, nagô (di lingua youruba, Nigeria), haussá e tapa. Gli ultimi tre gruppi sono islamizzati, per cui sono detti muçulmis o più comunemente malês.
Portati al mercato, gli schiavi sono subito sottoposti al processo di distruzione d’identità e memoria storica: i preti li battezzano per farli cristiani; i compratori li dividono: marito dalla moglie, genitori dai figli; quelli di una stessa cultura sono mescolati in altri gruppi etnici; così non avranno la possibilità di fare combutta e ribellarsi.

A SUON DI FRUSTA
Una certa letteratura brasiliana parla di «schiavitù soave» e «signori buoni». La schiavitù è crudele per natura; se cessa di esserlo, non è perché il padrone diventa migliore, ma perché il servo si rassegna all’annullamento della sua personalità. Di fatto la giornata non ha nulla di «soave» per i neri brasiliani: lavorano dalle quattro del mattino fino a tarda sera. Toati alla senzala trovano altri lavori da sbrigare. Alle nove vanno a dormire: le porte sono chiuse; chi ha grilli per la testa viene incatenato.
Disobbedienza e impertinenza sono pagate a colpi di chicote (frusta). Legati al pelourinho (palo della gogna), i colpevoli vengono fustigati in pubblico, perché gli altri schiavi imparino la lezione. A volte essi vengono consegnati al calabouço, luogo di tortura istituzionale, dove altri fanno il lavoro sporco: il padrone deve solo stabilire il numero di frustate e avrà la coscienza a posto.
Se il servo alza la mano contro il padrone o un familiare, gli può essere tagliata una o tutte e due le mani, o subire torture ancor più sadiche, secondo le Ordenações Filipinas (1603). Un editto reale del 1741 ordina che lo schiavo fuggitivo sia marchiato con una grande F sulle spalle, impressa con un ferro rovente; di tagliargli un orecchio se recidivo.
Di fatto il signore ha sullo schiavo potere assoluto, compreso quello di vita o di morte. Lo può vendere, torturare o liberare. La legge lo protegge in ogni caso. Agli schiavi, invece, considerati come cose o bestie da soma, non è riconosciuto alcun diritto; neppure quello di fondare una famiglia. La proibizione di separare i coniugi e le madri dai figli minorenni arriverà solo nel 1871, 17 anni prima dell’abolizione della schiavitù.
Naturalmente tutto dipende dal buon cuore del padrone. In generale, però, i signori sono pomposi e ignoranti; spesso più ignoranti di certi schiavi, come i malês: poliglotti e matematici, contabili maliziosi, essi tengono i conti e fanno da precettori ai figli del padrone.

RESISTENZE
Molti neri portati in Brasile sono guerrieri e figli di re: nessun castigo può piegare la loro fierezza. La maggioranza fa finta di sottomettersi; ma poi, lontana dall’occhio del padrone, estrae dalla memoria riti e feticci per riaffermare la propria cultura e gettare il malocchio sugli oppressori.
Le forme di resistenza alla schiavitù sono molte e variegate: dall’assassinio del padrone e suoi attendenti al suicidio individuale e collettivo, al banzo, tragica nostalgia che approda alla morte. Con la propria fine lo schiavo sa di privare il padrone di un importante capitale.
La forma di protesta più frequente, però, è la fuga per rifugiarsi nei quilombos: villaggi fondati nel cuore della foresta per riconquistare la propria libertà. Ne sorgono a migliaia, dappertutto e di ogni dimensioni. Spesso vi confluisce tutta la gamma degli oppressi della società schiavista: indios, meticci, bianchi impoveriti, giovani che fuggono il servizio militare. Nei villaggi più consistenti i neri organizzano tutti gli aspetti della vita: sociale, politica, economica, religiosa e militare, soprattutto per respingere i tentativi di riportarli in cattività.
Il quilombo più famoso è quello di Palmares. Iniziato prima del 1600, tra i monti della Serra Barriga, nell’attuale stato di Alagoas, raggiunge il massimo splendore verso il 1630, quando gli olandesi occupano Peambuco. Palmares si organizza in repubblica confederale di 18 villaggi, presieduta da un capo, chiamato «re», e da un consiglio. Lo sviluppo agricolo permette di vendere il surplus ai bianchi circostanti.
Espulsi gli olandesi (1654), per quasi 70 anni il governo di Peambuco e i signori dello zucchero cercano inutilmente di distruggere Palmares. Nel 1695 il quilombo viene spazzato via da un’armata di 11 mila uomini, il più grande esercito organizzato in periodo coloniale.
Nella resistenza si distingue il capo Zumbi. Nato libero a Palmares, egli rifiuta di barattare la libertà e indipendenza del suo popolo col perdono e terre, offertegli dal governatore di Peambuco e dallo stesso re del Portogallo, a patto che cessi di difendere la causa degli schiavi.
Tradito dai collaboratori, Zumbi è catturato e decapitato a Recife il 20 novembre 1695. Oggi egli è una bandiera per tutti gli emarginati brasiliani, simbolo di lotta per la libertà e la costruzione di una nazione senza padroni e senza schiavi.
Intanto le rivolte dei neri si propagano anche alle città. Le più note scoppiano a Salvador de Bahia: nel 1807, 1809, 1813 si ribellano gli haussás islamizzati; nel 1826-30 si rivoltano i nagôs, che finiscono in un bagno di sangue; nel 1835 ancora gli haussás: sono massacrati tutti, dai bambini appena nati ai vecchi cadenti. Non minore sconcerto suscita la rivolta di Tupá (São Paulo, 1813), dove 600 neri attaccano tutte le proprietà della regione e vengono eliminati senza misericordia.
PADRONI «LIBERATI»

Nel secolo XIX la condizione disumana degli schiavi è denunciata con veemenza in tutto il mondo. Le motivazioni umanitarie si mescolano a quelle di pura convenienza. José Bonifacio de Andrada, «padre dell’indipendenza» del Brasile, dimostra come la schiavitù sia un’assurdità economica e causa di corruzione sociale: «Venti schiavi richiedono 20 zappe, che si possono risparmiare con un solo aratro… Colui che vive del sudore degli schiavi, vive nell’indolenza e l’indolenza porta al vizio».
Sotto le pressioni intee e inteazionali, nel 1850 il Brasile proibisce la tratta degli schiavi (legge Eusebio de Queiroz). Questi vengono importati di contrabbando; ma i prezzi sono proibitivi. Inoltre, nell’economia capitalista, il lavoro salariale è ormai più conveniente della schiavitù, che comporta il mantenimento di africani tristi e ribelli, di «merce» improduttiva come vecchi e bambini.
Ci pensa il governo a «liberare» i padroni dal mantenere tante bocche «inutili»: nel 1871 la «legge del ventre libero» affranca tutti i nati dopo tale data; nel 1885 è la volta degli schiavi sessantenni. Nel 1888, quando la regina Isabella firma la «legge aurea», che abolisce definitivamente la schiavitù, appena il 5,6% della popolazione nera beneficia di tale evento. Ormai di veri schiavi ne sono rimasti pochi: molti sono già affrancati, altri si sono liberati da soli, con la fuga.

RAZZISMO ALLA BRASILIANA
La «legge aurea» introduce il Brasile nel consesso delle nazioni civili; ma non cambia nulla per i neri. A suo tempo José Bonifacio aveva suggerito come procedere all’affrancamento: «Fate dei neri degli uomini liberi e fieri; offrite loro incentivi, proteggeteli, ed essi si riprodurranno e diventeranno cittadini preziosi».
I neo-liberti, invece, restano senza casa, né terra, né famiglia (0,8% di sposati). Per loro non c’è nessuno degli incentivi concessi agli immigrati. Analfabeti al 99%, buttati senza alcuna preparazione nel mondo competitivo del capitalismo, i neri costituiscono da subito un serbatornio di manodopera usa e getta, in balia del mercato del lavoro e della miseria più nera: cessano di essere schiavi e diventano «il problema» del Brasile, da rimuovere al più presto.
La società brasiliana pensa di risolvere «il problema» con lo «sbiancamento» della popolazione, favorendo l’entrata massiccia di immigrati europei dalla pelle più chiara possibile. L’idea è bene illustrata da Roosvelt, presidente Usa, in visita al paese nel 1914: «In Brasile l’ideale principale è la scomparsa del nero, gradualmente assorbito nella razza bianca. L’enorme immigrazione europea tende, decenni dopo decenni, a rendere il sangue nero un elemento insignificante in tutta la nazione».
Qualcuno calcola il tempo necessario per completare tale processo di sbiancamento. Così scrive, e prega, Afrânio Peixoto nel 1923: «Forse impiegheremo 300 anni per mutare l’anima e sbiancare la pelle… per depurare questo immane miscuglio umano. Avremo albumina sufficiente a raffinare tutta codesta scoria? Dio ci assista, se è brasiliano».
La preghiera è rimandata al mittente: i brasiliani di pelle nera aumentano di anno in anno, fino a formare oggi il 70% della popolazione del paese; e non hanno intenzione di sbiancarsi, né di continuare a essere dominati.
Per spezzare le catene dei meccanismi di oppressione e rivendicare i loro diritti, i neri si organizzano: nel 1931 nasce il Fronte brasiliano nero e promuove una forte presa di coscienza economica e politica. Il dittatore Vargas lo sopprime nel 1937.
Negli anni ’70 sorgono altri movimenti di «coscientizzazione» della gente di colore e della società brasiliana in generale: Unione e coscienza nera, Movimento nero unificato, gruppi di agenti pastorali neri… Arriva qualche risultato: i primi deputati neri entrano in parlamento; a scuola, radio, televisione e nei giornali vengono dibattuti i problemi della popolazione di colore.
Matura così una duplice presa di coscienza: la popolazione nera, da una parte, riacquista la memoria del ruolo storico giocato nello sviluppo del paese e rivendica il proprio posto nella situazione presente. Dall’altra parte, i brasiliani nel loro insieme prendono coscienza che, senza i neri, il Brasile non sarebbe il Brasile.
Da decenni si parla di «democrazia razziale»; a cento anni dall’abolizione della schiavitù il paese ha riscritto la costituzione, affermando che «la pratica del razzismo costituisce un crimine imprescrittibile, soggetto alla pena di reclusione»; ma il nero continua a essere discriminato in tutti i campi della vita sociale, politica, economica e religiosa.
«Il Brasile resta uno dei paesi più razzisti del mondo – afferma José de Souza Martins, docente di sociologia -. È un razzismo diverso da quello nordamericano; non si vede; la gente tace, ma discrimina. I ghetti sono sempre neri. Nelle università pochi neri e tanti bianchi; il rapporto si rovescia nelle prigioni. E quando un nero ce la fa, diventa campione di calcio o re del samba, ripetono quello che dicevano di Pelé: “Ha tanto buonsenso che sembra un bianco”».

Benedetto Bellesi




Se nero significa brutto – Speciale BRASILE

Salvador Bahia – È bella la città di Jorge Amado. Le chiese, i palazzi barocchi, le case dalle tonalità pastello, le piazze linde e ben pavimentate richiamano folle di turisti, muniti di shorts e macchine fotografiche. Ma forte è l’impressione che tutto sia ad uso e consumo del visitatore. Un persona questa che quasi sempre ignora la vastità delle favelas che circondano la città vecchia (nota come «città alta»), quella sulla quale si sono riversati finanziamenti miliardari.
La Salvador non turistica deve fronteggiare problemi giganteschi: disoccupazione, povertà, analfabetismo. Tutto questo genera un forte clima di violenza. Non nasconde i problemi dom Gilio Felicio, dal 1998 vescovo ausiliare di Salvador. Lo incontriamo al «Centro di formazione per leaders» dell’arcidiocesi. Volto sorridente e coinvolgente simpatia, monsignor Felicio è un vescovo dalla pelle nera.

Nello stato di Bahia gli afro-brasiliani rappresentano più del 70 per cento dei 13 milioni di abitanti. E sono di gran lunga i più poveri ed emarginati. «Sulla popolazione nera – spiega mons. Felicio – ricade tutta l’ampia gamma dei problemi brasiliani. Molti di questi hanno una motivazione storica. Infatti, 300 anni di schiavitù e 100 di sottomissione alla cultura del “bianco” hanno lasciato il segno. Perché nella testa dei neri si è sedimentato un pesante senso di inferiorità».
È vero – chiediamo – che molti afro-brasiliani usano una terminologia particolare per nascondere la propria identità? «Purtroppo è proprio così. A volte, si arriva a situazioni assurde, ridicole. Quando un afro-brasiliano fa un buon lavoro, può accadere che lui stesso dica di avere fatto un lavoro… “da bianco”. La negritudine, l’essere neri non è assunto come un valore in sé, come esempio di vero, di bene o di bello. Anzi, è proprio il contrario: nero è brutto».
Lei è ottimista riguardo alla pastorale afro-brasiliana? «Vedo un lungo cammino ancora da percorrere, ma continuo ad essere ottimista. La chiesa cattolica, partendo dal Concilio Vaticano II, ha guardato in modo speciale al concetto del popolo di Dio, cercando di valorizzare le qualità di ogni soggetto. Nel passato la chiesa ha sempre avuto un occhio privilegiato per la misericordia e l’assistenza al povero, ma è stata più restia a considerare l’elemento culturale dei popoli. Giovanni Paolo II, nella conferenza dei vescovi latinoamericani di Santo Domingo, parlando agli indigeni e agli afro-americani, li ha invitati a coltivare e celebrare degnamente la propria identità e cultura. Credo che si stiano facendo grandi passi su questa strada. In Brasile la pastorale cerca di rispondere alle necessità della popolazione afro-brasiliana: essere riconosciuta per la cultura di cui è portatrice ed avere piena cittadinanza nella chiesa».
Nelle favelas di Salvador si tocca con mano un’offerta religiosa molto diversificata. Domandiamo a monsignor Felicio se il sentire dell’afro-brasiliano è quello del candomblé (nel quale confluisce la tradizione religiosa africana), della chiesa cattolica o delle sètte. «Su questa terra – risponde il prelato – c’è stata una confluenza, un incontro di diverse religiosità: quella indigena, quella europea e quella degli afro-discendenti. Questi elementi si sono accavallati, formando una specie di simbiosi religiosa che alcuni chiamano sincretismo, ma che in realtà è qualcosa di unico. Questo crea, non si può negarlo, delle difficoltà. Tuttavia, la chiesa cattolica ha riconosciuto l’importanza di vari aspetti del candomblé. Attraverso il dialogo si sta costruendo una nuova via per l’inculturazione del messaggio cristiano».

Nel 1995 sono stati commemorati i 400 anni del martirio di Zumbì, l’eroe per antonomasia della popolazione afro-brasiliana. La chiesa cattolica ha partecipato alle celebrazioni, riconoscendo l’importanza di questo schiavo nero nella storia del Brasile. «È stato un gesto carico di significati. Però non è stato né l’unico né l’ultimo. Oggi abbiamo gruppi di lavoro e movimenti di sacerdoti, vescovi e diaconi neri. Lo scopo è di studiare la spiritualità afro-brasiliana e valorizzare la presenza e la cultura dei neri in questo grande paese».
Ma quanti sono i vescovi afro-brasiliani nella Conferenza episcopale del Brasile? «Sei su 400 prelati». Non sono molti, monsignore. Il sorriso di dom Gilio Felicio vale più di qualsiasi risposta.
Paolo Moiola

Paolo Moiola




Le favelas, le antenne sulle baraccopoli – Speciale BRASILE

Pigramente sdraiato su una spiaggia
di Rio de Janeiro, in auto sull’interminabile ponte «Niteroi», tifando nella calca
dello stadio «Maracaná»…
O a passeggio per la trafficata via Rio Branco, intimorito dai grattacieli e abbagliatodai flash pubblicitari…
Poi ti volti e scopri le «favelas». Un’altramegacontraddizione
nel paese «maior do mundo».

Delusione a Rio de Janeiro! Avevo sognato, atterrando sulla metropoli brasiliana, che i morros (colline) che ne vivacizzano il panorama scattassero sull’attenti, che il jumbo mi scodellasse dolcemente sulla baia dell’Atlantico, decantata dai manuali turistici come la più pittoresca del mondo. E il Cristo del Corcovado? Avevo sperato d’incontrae subito l’abbraccio nella luce smagliante del sole. Invece sono catapultato sul cemento ribollente senza troppi complimenti. Foschia, fracasso, afa.
All’aeroporto cerco padre Ivanilson, brasiliano, che non c’è. Diventa un’impresa galleggiare sull’onda travolgente dei viaggiatori frettolosi e dei facchini ossessivi. Una dozzina di taxisti, nell’arco di altrettanti minuti, mi «offre» il carro. È tanta l’insistenza che… Però la mano amica di Ivanilson mi «salva».
Padre Ivanilson guida una sgangherata Volkswagen alla «Rio de Janeiro»: sorpassi da brivido, slalom acrobatici fra le auto in corsa, frenate precipitose sul filo del… paraurti. «Se non fai così non ti muovi!» si scusa l’autista gridandomi all’orecchio.
Di fronte all’occhio intransigente del semaforo rosso, la Volkswagen si arresta e cessa di sferragliare. Allora ci si intende. «Vedi il colle Pão de açucar? Devi salirci. Di lassù gusterai uno spettacolo unico. Una geografia da favola nel paese maior do mundo: colline che si ammirano a vicenda da ogni versante, spiagge dorate sorvolate da decine di alianti…». Padre Ivanilson parla proprio come un libro stampato.
Ma, al verde del semaforo, l’autista ingrana subito la quarta e la poetica descrizione sfuma. Nuovo semaforo: siamo circondati da alcuni ragazzetti, che si aggrappano ai finestrini e ci sollecitano di comprare un infilato di arance, un mazzetto di fiori, un cartoccio di verdura, una gabbietta per uccelli.
– Chi sono?
– Favelados.
non esistono, ma lavorano

Fra le sue «attrattive» Rio de Janeiro ostenta anche le favelas. O baraccopoli. Se ne contano 375 con circa 3 milioni e mezzo di individui. La Rocinha ospita 350 mila baraccati. A Rio tre persone su otto sono favelados.
I primi insediamenti incominciarono nel secolo XVII, allorché alcuni schiavi neri in fuga si rifugiarono sui morros di Rio, costituendo delle vere comunità: è il caso della favela di San Carlos. In seguito vi entrarono altri gruppi, compresi dei delinquenti. Di qui l’idea che le favelas siano spelonche di ladri: il che corrisponde a verità, ma non è «la» verità. Nella favela le persone equivoche sono una minoranza, rispetto ad una maggioranza onesta.
Dal 1950 le favelas sono aumentate a causa del massiccio esodo dalle campagne: molti brasiliani poveri del nordest si sono inurbati, sognando di trovare l’«eldorado» in città. E i morros si sono trasformati in accampamenti di nullatenenti. I braccianti non avevano altra scelta che installarsi in una favela, dove potevano costruirsi una baracca senza pagare il terreno e con il vantaggio di trovarsi a due passi da un lavoro in città.
Un’altra ragione per rifugiarsi nelle baraccopoli erano i bassi stipendi, erosi pure da un’inflazione alle stelle (ha raggiunto persino il 950% annuo). Oggi la moneta real è abbastanza stabile. Ma i lavoratori, dati i salari da fame, sono presto al verde.
Da anni ormai i baraccati di Rio de Janeiro assorbono una grande fetta della manodopera nel settore dei servizi: autisti, meccanici, elettricisti, spazzini e muratori, come pure domestiche, portinaie, camerieri, sarte, impiegati nelle banche, poliziotti. Rappresentano un grosso potenziale economico e politico, ma le baraccopoli non esistono legalmente. Gli stessi residenti «non esistono».
Il governo vi buttò l’occhio solo per decretare la fine di alcune favelas attraverso il trasferimento forzato dei favelados. Ciò avvenne negli anni ’30. Fuori Rio sorsero quartieri di Santa Croce, Mesquita e Città di Dio, che però non offrirono alcuna possibilità di lavoro, scuola, strutture sanitarie. Per accedere a tali servizi (lontani), si esigeva tempo, denaro e resistenza fisica. Inoltre, nei nuovi barrios, con la disoccupazione e l’anonimato, la criminalità toccò indici elevati.
Fu così che molti ritornarono sui morros precedenti, perché «Città di Dio» non era affatto tale e «Santa Croce» era davvero un calvario. E, tuttavia, alcuni restarono trasformando il barrio in favela!

sono davvero Banditi?

Favela della Mangueira. Entro in una «casa monostanza», abitata da una donna con sette bambini, più un altro marmocchio che non è suo, ma non sa dove rifugiarsi. Poi attraverso un ponticello di bastoni sconnessi e scricchiolanti per affacciarmi su un vano dalle pareti «multicolori»: una di fango, una di latta, una di compensato, mentre la quarta parete è… l’ingresso senza porta. Ci vive una ragazza di 17 anni con due figli.
Costeggio un muro, abbastanza alto, di cemento armato. La costruzione fa da disco rosso all’avanzare della favela: al di là del muro è proprietà privata di un grileiro, che affitta il terreno a caro prezzo. È triste rilevare come il povero sfrutti il più povero…
Esuberanti, creativi, innamorati della samba… i baraccati della Mangueira. Gente quasi tutta nera, proveniente dal nordest del Brasile, dove, quattro secoli fa, furono deportati schiavi razziati dall’Africa. Nel 1888 cessò la schiavitù, ma non gli schiavi.
Eccoli oggi ancora alla Mangueira. Un favelado è esplicito: «Da oltre 100 anni siamo liberi solo sulla carta. I nostri bisnonni, pur discriminati dal padrone bianco, lavoravano e mangiavano. Noi lavoriamo e tiriamo cinghia. Se non ci dessimo da fare, avremmo solo la libertà di morire affamati e…».
L’interlocutore interrompe il discorso, attratto da due ragazzi che scappano per scomparire in uno dei mille meandri dell’ambiente. Poco dopo, sulla via, compare la polizia: un’occhiata qua e là, qualche parola… e gli uomini in divisa ritornano sui loro passi.
«I ragazzi fuggiti – riprende il favelado – sono piccoli spacciatori di droga. Fanno un lavoro che scotta; però garantisce sicurezza economica all’intera famiglia. Prima o poi cadranno in trappola; tuttavia preferiscono vivere un giorno da leone che cento da pecora. Per lo stato sono banditi. Per noi sono anche amici, perché finanziano le nostre feste popolari, regalano fiori e caramelle ai bambini…».
Mentre lo stato esige dalla favela «ordine» e «moralità», senza muovere un dito per sanare le piaghe della disoccupazione, dell’analfabetismo e dell’igiene, i «banditi» assicurano almeno un giorno di allegra evasione. Ma fino a quando il gioco vale la candela?

quale soluzione
per le baraccopoli?

La favela lotta ogni giorno per sopravvivere. Il principale problema è l’insicurezza: la paura dello sfratto, il terrore che il terreno frani e seppellisca tutti. Sono pochissimi i proprietari legalmente riconosciuti del fazzoletto di terra dove vivono, spesso, da generazioni. I favelados nella quasi totalità sono abusivi.
Non mancano i grileiros: individui che, invasa la terra e impadronitisene con documenti falsi, speculano sugli affitti e giungono perfino a farsi pagare una sorta di tassa demaniale. In favela le baracche sono abitazioni clandestine e, di conseguenza, gli affitti sono insindacabili dalla legge. Di più: se i favelados sono fuorilegge, lo sono altresì i fittavoli. Tutto questo perché il mondo della favela è «inesistente» per la legge brasiliana.
C’è una soluzione al problema? È evidente che la questione cesserà solo quando in Brasile si risolverà, con giustizia, il cruciale problema della terra. Ma questo, purtroppo, non è in vista.
Intanto è urgente che le comunità dei favelados e gli organismi governativi si accordino su alcuni punti scottanti: legalizzare la favela, riconoscere agli abitanti la proprietà del terreno, affrontae gli aspetti logistici secondo i suggerimenti dei residenti. Nessuno meglio di loro (che hanno costruito abitazioni con miracoli di ingegneria spicciola) conosce le soluzioni urbanistiche più idonee. Si erigano asili, scuole professionali, centri sanitari e sportivi.
Si devono prevedere piccoli progetti, che il governo appoggerà foendo assistenza tecnica e mezzi finanziari, mentre gli «ex favelados» presteranno il lavoro.
Forse qualcosa sta muovendosi nel verso giusto. Fino agli scorsi anni ’80 dominava l’idea che le baraccopoli fossero un’anomalia, che il progresso avrebbe riassorbito. Ma con l’attuale modello di sviluppo il disagio, anziché diminuire, cresce. Di conseguenza incomincia a cambiare l’atteggiamento dei governi e delle agenzie finanziarie inteazionali.
Invece di espellere, si inizia a vagliare quanto i favelados hanno prodotto, investendo risorse per dotare gli insediamenti spontanei dei servizi essenziali, regolarizzando la proprietà, integrando gradualmente le aree e i loro abitanti nel contesto urbano normale. Questo pure in sintonia con la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla casa, Habitat II, svoltasi a Istanbul nel 1996.
Però la soluzione del problema «baraccopoli» non è dietro l’angolo, perché troppi remano contro. Inclusa la tivù.

R incaso con padre Ivanilson dopo una visita in favela. È il tramonto. Tra poco moltissimi favelados si legheranno al tubo catodico per l’ennesima telenovela. Invidieranno palazzi sfarzosi e abiti firmati, sogneranno avventure e amori impossibili con uomini aitanti e donne procaci. Tutti individui raggianti quanto falsi, opulenti quanto bugiardi. Infatti la telenovela è una gigantesca alienazione, peggiore di quella che si consuma allo stadio Maracaná nella calca di 220 mila tifosi scatenati. È così che in Brasile «la telenovela continua».
Tra le tante antenne televisive che imperano sulle bidonvilles di Rio de Janeiro, São Paulo, Salvador, Manaus… ho adocchiato pure qualche parabolica. C’è da augurarsi che, almeno questa, non serva a propinare un’insulsa soap opera in inglese o italiano.

Francesco Beardi




Il boomerang della miseria – Speciale BRASILE

Sono circa 7 milioni e sono tristemente famosi.
Si danno all’alcornol, alla droga, al furto,alla prostituzione. Dunque cattivi. O meglio «colonizzati».
Da chi, come, perché?

Come è sorto il problema

In Brasile, durante l’epoca coloniale, la nascita di un «figlio illegittimo» era un fatto abbastanza comune. Aveva origine da relazioni tra uomini portoghesi e donne indigene o nere.
I «bambini illegittimi», anche se non erano riconosciuti dal genitore, non si trasformavano in un problema sociale, perché l’organizzazione rurale del tempo li accoglieva nelle grandi fazendas. Pur non ricevendo protezioni speciali, essi instauravano ugualmente dei vincoli con i loro protettori, ottenendo così i mezzi di sostentamento e riparo.
Tra la fine del secolo XVII e l’inizio del XVIII, con l’avvento dei cercatori d’oro, l’organizzazione urbana acquistò forza e il problema degli «illegittimi» iniziò ad assumere un’altra connotazione. Nel 1693 il re del Portogallo e del Brasile, Pietro ii (1648-1706), ricordò al governo di Rio de Janeiro che, se gli istituti religiosi di carità non avessero più aiutato i bambini, si sarebbe dovuto imporre una tassa con tale finalità. Ma non si fece nulla.
All’inizio del secolo XVIII il problema (non risolto dagli enti pubblici) incominciò ad essere affrontato da laici cattolici benestanti. In quell’epoca proliferava anche l’abbandono di bambini sulle strade: li chiamavano expostos (esposti). Erano i primi «meninos de rua» (bambini di strada). Nel 1738 ottennero una casa a Rio de Janeiro.
Dal 1726 la situazione degli expostos diventava sempre più grave con bambini e bambine abbandonati in riva al mare (trascinati poi via dalle onde) o lungo strade deserte, dove morivano di fame.
L’abbandono degli expostos era dovuto a mancanza di risorse economiche da parte di genitori poveri e a motivi sociali, come nel caso di «ragazze-madri» appartenenti alle élites. Tali ragazze, perseguitate dalla rigida morale del tempo, risolvevano la questione della «vergogna pubblica» o con il suicidio o con l’abbandono dei figli.
Nel secolo XIX il compito particolare di proteggere e aiutare i bambini di strada passava progressivamente agli ordini religiosi. E questo per quattro ragioni:
1. l’accresciuta presenza di missionari europei, dedicati all’educazione dei poveri;
2. il modello di chiesa marcatamente clericale, che non valorizzava il laico;
3. il crescente disinteresse dei laici, più preoccupati del lavoro scientifico;
4. la crisi della classe signorile, dovuta al progressivo scomparire della schiavitù.
La storia che trascinava i bambini sulla strada era connessa alla pressione economica e sociale dell’epoca coloniale. Nella loro indigenza, furono discriminati anche con il nome di exposto, ingênuo e oggi, più genericamente, menor (minore).
i caratteri «della» strada

Il menor è un adolescente o giovane povero, abbandonato, emarginato: è presente in ogni angolo del Brasile. Fanno parte di tale categoria soprattutto ragazzi neri, indios e ragazzi della foresta, prostitute baby e ragazze-madri.
Generalmente si distinguono due categorie di minori: quelli «in» strada (menor na rua) e quelli «di» strada (menor de rua).
Il menor na rua trascorre la maggior parte del suo tempo girovagando, vendendo svariati oggetti ai semafori, facendo baratti; però conserva ancora vincoli familiari, ossia sa «dove» ritornare a casa, anche se non lo fa tutti i giorni. Il menor de rua, invece, vive sempre in strada, facendone la sua casa. Ha perso ogni rapporto con la famiglia e si organizza in gruppi, scegliendo determinati luoghi pubblici come punti di ritrovo. Si dedica a baratti e a piccoli furti.
Pertanto si intuisce che, dietro alla differenza tra «na rua» e «de rua», nel secondo caso esiste un maggiore degrado nel processo sociale.
Più specificatamente i «meninos de rua» presentano le seguenti caratteristiche:
– come posto di «lavoro», scelgono luoghi di grande movimento, perché dove maggiore è il flusso di persone, maggiore è la possibilità di guadagnare con baratti e furti;
– dormono poco e in orari diversi;
– non pensano al futuro né prossimo né remoto, come se per loro il futuro non dovesse arrivare mai; vivono alla giornata;
– si organizzano in gruppi e camminano in bande;
– gli elementi estranei al gruppo rappresentano una minaccia: quindi usano codici di riconoscimento per proteggersi;
– sviluppano un linguaggio tipico, molte volte incomprensibile al primo contatto;
– sanno di essere ritenuti dei potenziali delinquenti;
– lasciano la famiglia perché obbligati dalla miseria e violenza che vi hanno subìto;
– provengono da famiglie povere o miserabili, spesso immigrate dalla campagna verso i centri cittadini;
– pur essendo abbandonati a se stessi, possono legarsi a qualche istituzione;
– molti non sanno il proprio nome: hanno solo nomignoli o soprannomi e disconoscono o dimenticano la loro origine;
– presentano un deficit intellettivo o motorio; molti sono analfabeti o con una bassa scolarizzazione;
– non danno valore alle proprietà altrui, perché non hanno sviluppato il senso di proprietà personale;
– indossano anche più vestiti, sovrapponendoli, perché non hanno un luogo dove riporre le loro cose;
– hanno difficoltà a coinvolgersi affettivamente per paura di essere abbandonati; sono emotivamente instabili;
– rappresentano un esempio di «selezione della specie», perché solo i più forti sopravvivono e, anche così, con una salute precaria;
– moltissimi sono tossicodipendenti da colla.

Qualcosa in più
sul disagio

Le abitazioni
dei meninos de rua sono molto scadenti, non solo materialmente, ma anche per la qualità della vita. Si può dedurre che tali ragazzi abbiano poche ragioni di affezionarsi alla loro casa. Pertanto sono più esposti alle «cattive» influenze della strada, ai «cattivi» divertimenti e ai «cattivi» compagni.
I frequenti spostamenti
di residenza portano ad instabilità e ad un relativo anonimato, ostacolando la solidarietà e responsabilità verso i vicini di casa. Questo facilita i comportamenti antisociali e anche delinquenziali. Da alcune indagini risulta, per esempio, che un delinquente su tre ha cambiato casa 11 volte o più, contro 1 su 10 degli altri.
I ragazzi di strada conoscono ambienti molto insoliti: rifugi nottui di fortuna, orfanotrofi o istituti analoghi. Tali esperienze esigono frequenti adattamenti a nuove situazioni, nuovi compagni, nuove attività.
Amano molto l’avventura
e preferiscono tutto ciò che è emozionante, non solo nella vita concreta, ma anche nella loro immaginazione e sentono il bisogno di sfogarsi.
Oltre i 9 decimi dei ragazzi di strada (contro meno di un quarto degli altri) ha l’abitudine di salire su camion o mezzi di trasporto in corsa; il 90% (contro il 23%) incomincia a fumare da piccolo; il 29% (contro lo 0,4%) inizia a bere alcornol eccessivamente dai 13 ai 15 anni ed anche prima; il 67% (contro il 10%) ha l’abitudine di infilarsi nei cinema senza biglietto; il 62% (contro il 4%) si abbandona ad atti di vandalismo. In tutte queste attività «emozionanti», praticate nelle zone urbane e disagiate del Brasile, i ragazzi di strada, come gruppo, superano largamente i ragazzi «per bene».
Ancora: il 95% dei meninos de rua (contro i tre quinti degli altri) sosta agli angoli delle strade; il 46% (contro il 27%) gioca su aree fabbricabili, sui lungomare e nei parcheggi ferroviari. Molti sono vittime di gravi incidenti, in gran parte avvenuti per strada: investiti da automezzi, motociclette o cadendo da veicoli in corsa o da tetti, finestre, staccionate, ponti.
Frateizzano con i coetanei
della loro stessa condizione, e quasi la metà è attirata da giovani più grandi di loro. La tendenza fra i ragazzi di strada delinquenti a cercarsi compagni più vecchi può essere associata al desiderio di un sostituto all’«io ideale», da ammirare ed emulare. Però i genitori dei ragazzi delinquenti sono meno benvoluti dai figli e meno accetti, come modelli, rispetto ai padri dei non delinquenti.
Circa i compagni, i ragazzi delinquenti preferiscono le bande, mentre i non delinquenti le evitano quasi del tutto, preferendo pochi amici intimi. Inoltre i primi mostrano una spiccata antipatia per i lavori organizzati o sorvegliati.
Sotto il profilo socio-morale, il 19% dei ragazzi di strada (contro il 2% degli altri) ha esperienze eterosessuali; il 21% (contro l’1%) pratica vari giochi sessuali e il 29% (contro il 3%) si masturba molto.
Infine i meninos de rua sono ritenuti potenziali delinquenti.
Il bambino o la bambina di strada, che «lavori» o no, può essere arrestato in ogni istante, perché considerato delinquente in fieri; quando non se ne trova la famiglia, viene portato al centro di selezione e smistamento dei vari minori.
I meninos sono spesso sottoposti a procedimenti giudiziari arbitrari, a prescindere dal reato commesso. Il tempo per decidere la loro sorte viene sovente molto dilazionato; ciò è funzionale ad una società che, in questo modo, si libera temporaneamente di soggetti scomodi; i tempi lunghi sono dovuti pure all’esigenza di trovare una soluzione realizzabile.
Nello specifico, il comportamento delinquenziale tipico del menino de rua è il furto, mentre quello della menina è la prostituzione.

la responsabilità
dell’ambiente

L’equivalenza «ragazzo di stradadelinquente» è un luogo comune in molti brasiliani. Tuttavia il menino de rua delinquente sembra essere, soprattutto, la risposta-adattamento alle condizioni ambientali già negative in cui i soggetti vengono a trovarsi. Per cui il candidato a «ragazzo di strada» non è un delinquente, ma facilmente lo diventa.
L’ambiente è fondamentale per lo sviluppo della persona, specie nei primi anni di vita. Ciò ricordato, è la «miseria» la maggiore responsabile delle condotte devianti dei minori. È una miseria non solo economica, ma anche intellettuale ed affettiva, frutto dell’incapacità di gestire e comprendere le proprie dimensioni emotive. Una miseria che pare tramandarsi di padre in figlio.
I genitori in un ambiente squallido, aggravato da inferiorità culturale e intellettuale, malattie fisiche e/o mentali, non offrono ai figli garanzia, sapere, criteri morali, ideali religiosi e serenità d’animo, indispensabili per una sana educazione, specialmente nelle zone urbane dove imperversano la lotta per l’esistenza e l’avidità.
Bowlby individua tutto ciò come «il corrispondente psicologico della delinquenza sociale» e chiama «psicopatia da mancanza di affetto» la quasi totale incapacità di instaurare vincoli affettivi, unita all’impossibilità di aver fiducia nel futuro e nell’altro. Inoltre pesa un senso di colpa riguardante il passato.
Due autori, Kempe R. e Kempe C., hanno analizzato in modo specifico le conseguenze delle privazioni e degli abusi sull’infanzia: i ragazzi antisociali e i giovani violenti di oggi rivelano di essere stati, ieri, vittime di maltrattamenti, trascuratezze e negazioni.
Questo non significa che la maggior parte dei bambini, vittime di violenze, ipso facto si scontrerà con la legge; ma dimostra che quanti la infrangono hanno spesso alle spalle una storia triste e, più di altri, sono indotti alla criminalità. Nella loro situazione il passo è breve.
Secondo molti studiosi, alla base delle condotte criminali esiste un’identità precaria e non integrata, che cerca di compensare le esperienze di vuoto e le privazioni con comportamenti devianti; ciò sfocerebbe nella costituzione di un falso «io»… La delinquenza, quale trasgressione della norma, fornirebbe al ragazzo di strada una nuova e fittizia identità.
Nella favela e negli altri mondi del disagio e dell’abbandono non si entra per caso, bensì sospinti da una condizione precisa, dura e brutale, frutto di uno squilibrio socioeconomico e della propria coscienza.
Più chiaramente: l’abbandono di bambini si verifica perché la sete di potere di alcuni individui, egoisti, immaturi e insicuri della presenza divina, non accetta la regola fondamentale «ama il tuo prossimo come te stesso». Tale insegnamento, considerato seriamente, potrebbe facilitare le persone di potere a superare la loro mentalità di «colonizzatori», per iniziare a trattare le persone con rispetto.

il «sonno» dei colonialisti e Dei colonizzati

In Brasile (e non solo in questo paese) imperversano nuovi colonialisti. Costoro, anche se vivono sulla «loro» terra, si comportano in modo insano; proprio come quel viaggiatore nell’oceano in burrasca che, mentre la nave affonda, diceva ad un altro: «La nave non è mica mia. Allora che affondi!».
I nuovi colonialisti «dormono» nella loro coscienza.
Anche i meninos de rua hanno una coscienza precaria: non riescono a risvegliarsi dal «sonno di colonizzati», come gli indios o i neri di un tempo. Un menino «addormentato» concilia pure, senza saperlo, «il sonno del padrone-colonizzatore». L’accomunamento nel sonno di colonizzatori e colonizzati è fonte di tragedie.
Oggigiorno, se non ci sveglia, il binomio colonizzato-colonizzatore sussisterà anche nei nuovi pianeti. L’impegno contro la fame nel mondo potrebbe, ad esempio, svegliare con benefici comuni.
«Però tu sei cieco nella tua paura di scoprire che non esisti isolato. Le maschere dei tuoi ruoli sociali, il tuo teatro, la tua musica, il tuo cinema, i tuoi libri, la tua tivù, i tuoi confini, la tua famiglia, la tua società, i tuoi amici, il tuo cane, le tue chiacchiere, i tuoi soldi, le tue sigarette, la tua scienza, i tuoi vestiti, la tua moda, i tuoi palazzi, i tuoi giochi, i tuoi sport, la tua macchina, le tue conquiste, i tuoi aerei, il tuo giardino zoologico… e tu finisci per distruggere il dono che Dio ti ha fatto…» (Voz Pierre Weil).
E il menor grida: «Giriamo per le piazze e guardiamo in ogni angolo, finendo ogni speranza e sentendo fame, molta fame di cibo, acqua, letto, ciucciotto… medicinali contro i pidocchi, calore, abbracci, affetto. Fame di silenzio, fame di vita…».

Clovis R. Anversa




Il problema della terra – Speciale BRASILE

In Brasile la terra rappresenta un problema esplosivo. Da una parte, poche famiglie possiedono quasi la metà delle terre coltivabili. Dall’altra, 20 milioni di persone ne sono prive. Il «Movimento dei sem-terra» (Mst), nato per difendere i diritti di questi diseredati, organizza e dirige le occupazioni delle «fazendas» incolte. Le autorità e la polizia sono sempre schierate a fianco dei grandi proprietari e delle loro milizie mercenarie dal grilletto facile. La chiesa, attraverso la combattiva «Commissione pastorale della terra», sta con i senza-terra. Tutti sanno che l’applicazione della riforma agraria porterebbe a immediati risultati, ma…

Non piange Claudimara. È abituata ad essere presa a calci dalla vita. I tre figli ora dormono, apparentemente tranquilli dopo una giornata d’inferno iniziata all’alba.
Suo marito, Aparecido da Silva, faceva il facchino a Curitiba. Poi, spinto dalla speranza di cambiare vita, si è unito al locale gruppo dei sem-terra. Qualche mese fa, assieme ad altre 140 famiglie, Aparecido ha occupato una fazenda incolta. Mesi trascorsi nel timore di un attacco da parte della polizia o dei pistoleros assoldati dai latifondisti. Così, infatti, è stato.
Sono arrivati prima dell’alba, con grida e spari per aria, seminando il terrore per l’accampamento ancora avvolto nel sonno. Erano tanti, poliziotti e sgherri incappucciati. Con le bombe lacrimogene hanno fatto uscire le persone dalle baracche. Poi hanno costretto gli uomini seminudi a sdraiarsi con la faccia a terra. Donne e bambini sono stati fatti sedere sotto il sole.
La baracca degli attrezzi da lavoro (sementi, zappe, picconi, falci) è stata bruciata. Le tende sono state buttate giù.
«Interrogavano gli uomini a forza di calci nella pancia – ricorda Claudimara -. Poi hanno caricato mio marito e una decina di altri sui fuoristrada e li hanno portati via. Non ho idea dove siano finiti».
Le famiglie cacciate con la forza dalla fazenda occupata hanno trovato ospitalità in un insediamento legalizzato. Finché non viene emanato un «decreto di esproprio», ogni accampamento dei sem-terra può essere attaccato.
Claudimara osserva con occhi preoccupati i tre figli. Poi aggiunge: «Speriamo che non abbiano distrutto le nostre cose. Non abbiamo i soldi per comprare nuovi materassi, pentole e piatti».
POLIZIA E «PISTOLEROS»

Storie come quelle di Aparecido e Claudimara sono all’ordine del giorno in quasi tutti gli stati brasiliani, ma soprattutto in Pará, Maranhão, Alagoas, Peambuco, Bahia, Paraná, São Paulo (Pontal do Paranapanema).
Cardoso e l’oligarchia economica brasiliana temono i successi del «Movimento dei sem-terra». Davanti alla sua espansione reagiscono in due modi: accentuando la repressione poliziesca e cercando di caricare di connotazioni politiche il movimento, accusato di voler rovesciare lo stato.
Come non bastasse la polizia ufficiale, contro i senza-terra si accanisce anche la polizia dei fazendeiros. Questi, spalleggiati dalle loro organizzazioni – l’«Associazione nazionale dei produttori rurali» e soprattutto l’«Unione democratica rurale» (Udr) – assoldano infatti milizie private: mercenari incappucciati e dal grilletto facile.
«Il Paraná – si legge in un documento della locale Commissione pastorale della terra – è trasformato in un “laboratorio” del trattamento che il governo vuole riservare ai lavoratori e alle lavoratrici che lottano per la terra in Brasile.
La polizia e le forze armate, buona parte del potere giudiziario e i fazendeiros e i deputati ruralisti si sono uniti tutti per realizzare una strategia di repressione.
La maggioranza delle espulsioni sono state realizzate con ordinanza del giudice, a conferma di un aumento della cosiddetta “violenza legittimata”. Nella maggioranza dei casi il potere giudiziario agisce in accordo con gli interessi dei latifondisti: il senza-terra è un criminale, occupare la terra è illegale e pericoloso.
In ogni caso, l’impunità è la regola per i crimini perpetrati dai fazendeiros e dalla polizia, mentre la giustizia è rapidissima nell’incriminare e arrestare i lavoratori».
In realtà, l’azione dei sem-terra ha una solida base giuridica. Questa è data dalla legge del 1993 che applica gli articoli della Costituzione del 1988. Quest’ultima contempla l’espropriazione per interesse sociale. Purtroppo, l’applicazione della legge è talmente lenta che, senza le invasioni dei sem-terra, ben poca terra sarebbe stata redistribuita.
Per non dire delle speculazioni dei latifondisti che, con la compiacenza dei giudici, esigono indennizzi superiori al valore di mercato per le loro terre incolte.

DOVE STA LO SCANDALO?

Dai tempi della conquista spagnola e portoghese, il carattere fondamentale della struttura agraria latinoamericana è la concentrazione di grandi estensioni di terre, il latifondo, nelle mani di una ristretta minoranza, mentre la grande maggioranza della popolazione non ha terra o possiede minifondi insufficienti per sopravvivere.
Il Brasile possiede 6 volte più terra coltivabile della Cina. Questa però riesce a nutrire quasi un miliardo e mezzo di persone, mentre il paese latinoamericano, con soltanto un decimo della popolazione cinese, ha oltre 40 milioni di affamati.
Questo paradosso trova una duplice spiegazione. In Brasile, la terra si concentra nelle mani di un pugno di latifondisti (nel 1997 meno dell’1% dei proprietari deteneva il 43% delle terre coltivabili). A questa ingiusta distribuzione si aggiunge un altro dato scandaloso: migliaia di fazendas sono classificate come grandi latifondi improduttivi che occupano il 18% del territorio brasiliano (153 milioni di ettari). Con questi dati il Brasile detiene il primato mondiale della diseguaglianza nella proprietà della terra.
La piena applicazione della riforma agraria significherebbe risolvere molti problemi. «La riforma agraria – afferma la Commissione pastorale della terra nel Manifesto per la terra e la vita (1996) – è la soluzione sociale per il Brasile.
È il mezzo più semplice ed economico per combattere la fame e la miseria, aumentando l’offerta di lavoro e di alimenti ed elevando il potere di acquisto delle popolazioni più povere. Arresta l’esodo rurale e decongestiona i grandi agglomerati urbani. Diminuisce i fattori che generano emarginazione, criminalità e insicurezza nelle città. Migliora le condizioni di salute, educazione, abitazione e previdenza sociale nelle campagne. Rafforza le piccole e medie città e dinamizza tutta la società. La riforma agraria è la soluzione politica. Aprire ai senza-terra l’accesso alla proprietà e all’uso della terra è un imperativo della democrazia».
Inoltre, l’insediamento delle famiglie senza-terra su terreni da coltivare frenerebbe l’espansione della frontiera agricola a danno della foresta e comporterebbe anche l’abbandono del lavoro sottopagato e la possibilità per i bambini di frequentare una scuola.
«Le occupazioni di terra – ha detto mons. Tomás Balduino, presidente della Commissione pastorale della terra – sono state il modo di realizzare la riforma agraria del paese. Penso che neppure il 5% degli insediamenti è stato fatto per mezzo di qualche iniziativa che non sia quella dell’occupazione di terra. Mi piacerebbe che in Brasile ci fosse la riforma agraria senza bisogno di occupazioni. Ma, poiché il governo non realizza la riforma agraria, non possiamo scandalizzarci di queste».
Cardoso continua a favorire i grandi possidenti terrieri, come dimostra il progetto denominato «Banca della terra». Questo vede impegnati governo brasiliano e Banca mondiale nella realizzazione di una riforma agraria di mercato. Il progetto permette ai fazendeiros che vogliono vendere la terra di ricevere un pagamento immediato da parte della Banca mondiale e ai senza terra che vogliono acquistarla di ottenere un credito dalla Banca. In questo modo, si cede il potere decisionale ai latifondisti e si pone fine all’esproprio delle terre improduttive dietro indennizzo ai proprietari, come prevede la Costituzione.
L’obiettivo strategico del progetto, ha spiegato João Pedro Stedile, uno dei più noti leader dei sem terra, è quello di «distruggere l’Mst, perché non si ammette il diritto dei poveri ad organizzarsi. Si può tollerare che si lamentino, ma che si organizzino no, perché l’organizzazione è pericolosa». Della stessa opinione mons. Balduino. «È il tentativo – ha detto il prelato – di svuotare la lotta dei senza terra e di dividerli: il contadino lascia il gruppo ed entra nel mercato, con effetti per lui disastrosi».

MST, UNA SPERANZA
PER 20 MILIONI

Quanti sono i senza-terra brasiliani? I conteggi non sono facili. Le stime parlano di 4 milioni di famiglie.
Poiché ogni famiglia è composta in media di 4/5 persone (ogni donna dà alla luce almeno due figli), questo significa che 16/20 milioni di brasiliani possono essere definiti «sem-terra».
Ma la categoria cresce. L’agricoltura commerciale, orientata quasi esclusivamente all’esportazione (caffè, canna da zucchero, carne bovina), favorisce la concentrazione delle terre e, di conseguenza, l’espulsione di piccoli proprietari, affittuari e mezzadri. Molti vanno ad ingrossare le fila dei sem-terra, altri tentano la sorte migrando verso le città.
L’esodo rurale è un problema grave. Trent’anni fa il 75% dei brasiliani viveva nelle campagne, oggi l’80% vive nelle aree urbane. Le periferie si gonfiano giorno dopo giorno, divenendo sempre più invivibili. «La popolazione povera – scrive Ivo Poletto in Liberazione nella terra degli afflitti -, espropriata ed espulsa dalle campagne, emigra verso le città in cerca di casa, lavoro, salute, scuola. In cerca, cioè, di tutto ciò che non trova all’interno del paese. Ma quando arriva in città non trova né casa né lavoro. Alla fine, si avventura ad occupare qualche terreno incolto – le cosiddette invasioni urbane – su cui costruirsi la propria baracca, generalmente in località assai distanti dal centro e dall’eventuale posto di lavoro».
In 15 anni di esistenza il Movimento dei senza-terra ha saputo diventare la principale organizzazione popolare del Brasile. I risultati che ha ottenuto sono considerevoli: 250 mila famiglie (cioè circa un milione di persone) sono state sistemate in 1.600 insediamenti in 24 stati del paese. Ma il movimento non si limita ad organizzare le invasioni delle terre incolte. «Non è sufficiente – spiega un dirigente nazionale del Mst – occupare la terra e avere il coraggio di affrontare la polizia, è necessaria molta organizzazione per riuscire a raggiungere l’obiettivo».
Per questo il movimento ha dato vita a decine di cornoperative di produttori, che stanno ottenendo importanti risultati. Ma negli insediamenti è permesso anche il lavoro individuale, mantenendo in comune solo l’utilizzo di alcune macchine e usufruendo dei servizi predisposti (assistenza sanitaria, trasporti, scuola).
Nei 1.600 insediamenti dei semterra l’educazione è considerata una priorità. Gli obiettivi sono ambiziosi: eliminare l’analfabetismo, favorire la scolarizzazione dei bambini, diffondere la cultura alternativa. Nelle 1.000 scuole dei sem-terra sono iscritti oltre 100 mila bambini, mentre 17 mila giovani e adulti seguono i corsi di alfabetizzazione. Il progetto educativo dei sem-terra ha ottenuto un tale successo che è stato premiato dall’Unesco.

LA TERRA,
PATRIMONIO FAMILIARE?

«Se il latifondo – si chiede il settimanale Veja (peraltro sempre critico verso i sem-terra) – è un cattivo affare, perché ci sono tante terre improduttive nel paese? La risposta, che potrebbe applicarsi a molti altri problemi brasiliani, è che il Brasile utilizza male le proprie risorse, tra cui la terra. L’agricoltura brasiliana è una delle più inefficienti al mondo, mentre il paese possiede alcune tra le più belle distese di terre coltivabili del pianeta. Inoltre, in molte regioni, la terra viene ancora tutelata in quanto patrimonio familiare. Anche se rappresenta un cattivo investimento, è un bene che si può trasmettere ai propri eredi, che ha il valore più tangibile, che è meno soggetto all’inflazione e all’instabilità provocata dai piani economici».
Peccato che questi privilegi, santificati dall’ideologia capitalista e dall’infallibile dio-mercato, vengano preservati a scapito di milioni di persone. Anche se, a ben guardare, quella dei sem-terra non va considerata una battaglia ideologica. Più semplicemente, essi lottano perché al diritto di proprietà sia anteposto il diritto alla vita.

Paolo Moiola




Amazzonia, un crimine infinito – Speciale BRASILE

Cinque milioni di chilometri quadrati,
il più grande serbatornio genetico del mondo emerso, la più importante riserva di acqua dolce e foreste tropicali della terra.
Da decenni la deforestazione e la distruzione della biodiversità dell’Amazzonia
proseguono senza pietà e senza veri
ostacoli. I colpevoli sono facilmente
individuabili. Ma niente e nessuno
sembra riuscire (o volere) fermarli.

È molto difficile, se non impossibile, per chi arriva in Amazzonia farsi subito un’idea chiara delle dinamiche che la caratterizzano e dell’insieme di culture ed etnie che la compongono.
Ancora più difficile è rendersi conto come e da che parte comincino lo sfruttamento e la distruzione dei suoi ecosistemi. E perché, ancora oggi, non si riesca ad arrestare un processo così vergognoso ed assurdo e che, per di più, sta accadendo sotto gli occhi di tutto il mondo.

AVVENTURIERI
E MULTINAZIONALI

La foresta brucia, è saccheggiata, viene abbattuta, sfruttata, ridotta a pascolo perché in uno spazio di 5 milioni di chilometri quadrati può accadere di tutto ed è difficile controllarlo.
La foresta se ne va per un insieme di problemi molto complessi, interdipendenti tra loro, risultato di secoli di storia sbagliata che ne ha fatto una terra di conquista.
L’Amazzonia è un immenso spazio ereditato dalla natura, su cui si muovono i popoli della foresta (vissuti per millenni in equilibrio con l’ambiente) e nuovi contingenti di popolazione extra-amazzonica, spinti dalle classi dominanti, alla ricerca di facili quanto improbabili fortune. Sull’Amazzonia si sono posati gli occhi di tutti: dagli avventurieri alle multinazionali (minerarie o del legame), dalle grandi e piccole imprese ai derelitti (coloni senza terra, cercatori d’oro, tagliaboschi). Tutti con una concezione di sviluppo occidental-capitalistica, poco adatta alla natura del luogo.
In Amazzonia si trova di tutto. Ci si può perdere tra igarapes e foreste, ma ci si può sentire sempre al centro del mondo, un mondo che procede troppo rapidamente rispetto ai suoi ritmi. Vi sono metropoli come Belém e Manaus, in cui la cultura tradizionale si difende a stento tra i centri commerciali ed un traffico sempre più caotico. Ci sono piccoli villaggi che si formano, crescono e scompaiono intorno ad attività produttive più o meno precarie. Si sviluppano centri turistici e di ricerca a livello internazionale; le comunicazioni e la viabilità per terra e per acqua aumentano sempre più.
La ricchezza di questa terra (costituita da giacimenti minerari, petrolio, oro, legname) viene saccheggiata trascurando totalmente le caratteristiche ambientali e delle popolazioni originarie, siano queste indios o caboclos. In base a progetti governativi e tecnocratici, l’Amazzonia è stata svenduta alla Banca mondiale, ai grandi latifondisti, alle compagnie per l’estrazione di legname. L’Amazzonia è stata svenduta al mondo come se lì non vi esistessero individui, come se non ci fosse storia, come se non ci fosse diversità topografica ed ecologica. Per questo, quando si parla dell’Amazzonia, bisogna parlarne con una visione olistica. Bisogna considerae il passato, le genti, la biodiversità fatta di una miriade di ecosistemi la cui natura è ancora in gran parte sconosciuta.
L’Amazzonia è un serbatornio genetico tanto ricco da essere ancora del tutto scoperto. La sua diversità biologica conta circa 80.000 specie differenti di vegetali e 30 milioni di specie animali (in gran maggioranza insetti). Nel Rio Amazonas e nei suoi affluenti vivono più di 2.000 specie di pesci. L’Amazzonia ha il 34% del legno tropicale e il 20% di tutta l’acqua dolce del pianeta.
Purtroppo, migliaia di specie animali e vegetali stanno scomparendo ancor prima di essere studiate. La deforestazione ha raggiunto le dimensioni della Francia, il 13% dell’estensione totale dell’Amazzonia.
Le acque, gli animali e la foresta sono tra loro interdipendenti e la rottura di un equilibrio comporta la rottura di molti altri.

DALL’EPOPEA DEL CAUCCIÙ
A QUELLA DEL LEGNAME

La complessità dei fenomeni sociali ed economici, responsabili della distruzione dell’Amazzonia, si intreccia con le fasi della sua occupazione durante circa 5 secoli. A cominciare dai portoghesi che tentarono di riprodurre un’economia coloniale fondata sulla manodopera indigena ed africana. Ben presto essi si accorsero della scarsa produttività del suolo e del basso ricavato di monocolture di zucchero e tabacco e s’impose un’economia basata sull’estrazione dei prodotti locali.
Nel secolo scorso, con l’epopea del caucciù, il Brasile divenne il primo produttore mondiale di gomma e Manaus una città di 50.000 abitanti con canoni di vita paragonabili a quelli delle capitali europee. Le acque del Rio delle Amazzoni vennero inteazionalizzate e gli insediamenti umani nel bacino aumentarono. Se le prime radici erano amerindie e portoghesi, durante il ciclo della gomma (alla fine dell’800) si riversarono in Amazzonia enormi quantità di uomini provenienti dai sertões (le aree secche del centro del Brasile) sovrapponendosi alle popolazioni indie ed europee.
Tra gli anni 1964-1984 il governo adottò una politica di prestiti agevolati per stimolare l’occupazione di vaste aree dell’Amazzonia, a quell’epoca considerata terra improduttiva. Centinaia di famiglie si stabilirono nel sud del Pará, in Rondonia, in Acre e cominciarono la distruzione sistematica della foresta. Per legge, la foresta doveva essere mantenuta al 50% per ogni appezzamento e quindi si crearono mosaici di foresta, le cui aree deforestate erano adibite al pascolo o all’agricoltura. Ma, dopo tre o quattro anni, i pascoli diventavano inutilizzabili per l’infertilità del suolo e altri lotti venivano sbancati.
In questa fase vennero costruite le prime transamazzoniche. Per esempio, quando venne edificata Brasilia, per collegare la capitale con Belém alle foci del Rio delle Amazzoni, si aprì una strada di 2.280 chilometri. Questa attraversava estensioni con formazioni aperte, vari tipi di vegetazione ed entrava nella foresta tagliandola direttamente fino al cuore della regione Bragantina, nel nord dello stato del Pará.
I nuovi canali di comunicazione facilitarono l’insediamento di migliaia di coloni provenienti dalle aree povere di tutto il Brasile e l’aumento della popolazione fu vertiginoso. L’afflusso di coloni e la successiva interferenza con l’ambiente furono particolarmente aggressivi.
Per esempio, la colonizzazione dello stato di Rondonia, nel sud-ovest dell’Amazzonia, è considerata una delle più rapide distruzioni condotte su di un’area tropicale di tutti i tempi. Se fino al 1960 la popolazione umana era scarsa e l’economia locale si fondava sull’estrazione della gomma e della castanha (conosciuta come noce brasiliana) dopo l’apertura della BR-364 Marechal Rondon (Cuiabá-Porto Velho) si creò un flusso migratorio che portò nello stato migliaia di persone oriunde di tutto il paese. Sotto il cornordinamento del governo dello stato, dell’INCRA (Instituto Nacional de Colonização e de Reforma Agrária) e del progetto «Polonoroeste», finanziato dalla Banca mondiale, in Rondonia furono attirate migliaia di persone attratte dal suo potenziale economico inesplorato.
Molti di questi immigrati erano contadini del sud che arrivarono con l’intenzione di ottenere una rendita dalla vendita di prodotti agricoli, ma subito scoprirono che la speculazione sulle terre era più lucrosa e cominciarono a venderle per un valore più alto di quanto avrebbero guadagnato in anni di lavoro. Molte terre vennero acquistate da latifondisti e madereiras. Nel 1973 in Rondonia vi erano appena 32 segherie e nel decennio successivo l’attività di estrazione di legname ebbe un incremento dell’800%.
La deforestazione in Rondonia è aumentata negli ultimi decenni in forma esplosiva, a ritmi più veloci della popolazione. In altre parole, aumenta non solo la deforestazione ma anche l’indice di deforestazione.

LE STRADE,
CAVALLO DI TROIA

L’apertura di nuove strade porta ad una rapido degrado del territorio: appena completata l’opera, inizia la deforestazione a ritmo accelerato. Nel giro di 2-4 anni, si creano spazi spianati di 10-40 km, disseminati di tronchi bruciati, su entrambi i lati e per tutta la lunghezza della strada. Dopo la costruzione, la deforestazione si espande a lisca di pesce in relazione al tasso di migrazione e si entra in una specie di circolo vizioso: tante e migliori strade attraggono nuovi emigranti, mentre d’altro lato l’aumento della popolazione giustifica la costruzione di nuove e migliori strade.
Il procedere della distruzione in seguito a processi migratori, favoriti da incentivi fiscali governativi, si può osservare anche in altre località. Per esempio, a Paragominas nel sud del Pará.
Qui gli incentivi statali vennero inizialmente stanziati per l’allevamento. Quando i proventi di quest’attività diminuirono in seguito ad una crisi monetaria, i latifondisti cominciarono lo sfruttamento del legname. Il principale prerequisito divenne allora l’apertura di strade, tanto regionali quanto locali, per permettere la rimozione dei tronchi e il loro trasporto verso le segherie. Paragominas si trasformò nel principale polo del Brasile per l’estrazione del legname.
Giunti a Paragominas, il panorama è oggi avvilente: della foresta rimangono solo pochi frammenti, mentre segherie contornano la città e cumuli di segatura ed altri scarti del legno bruciano dovunque e in continuazione. Dalle sue foreste venivano estratti 2 milioni di metri cubi di legname per anno, sufficienti per riempire 67.000 camion. A Paragominas ogni impresa ha sfruttato in media 242 ettari per anno, cioè l’equivalente a 500 campi di calcio. Questo sfruttamento si rivela ancora più inefficiente sapendo che, per ogni metro cubo estratto, altri due sono distrutti.
L’istituto Imazon di Belém (Pará) calcola che, per ogni ettaro di foresta trasformato in pascolo, si ottiene un guadagno di appena 25 dollari. Con l’estrazione di legname si ottengono valori maggiori: 170 dollari annuali per ettaro. Il problema è che, una volta deforestato, quell’ettaro darà di nuovo denaro solo dopo 70 anni. E infatti negli ultimi anni le riserve di legname di Paragominas si sono esaurite e così la maggior parte delle segherie si sta trasferendo ad Itacoatiara, a 296 km da Manaus in piena foresta, dove una concessione governativa permette di sfruttare per 50 anni un’area pari alle dimensioni di Israele.

CERCATORI D’ORO,
TAGLIALEGNA, COLONI

Altre ondate migratorie verso l’Amazzonia vennero favorite dal sogno di nuovo Eldorado. Dagli anni ’80 in poi con la scoperta dei giacimenti della Serra Poerina, nel territorio degli yanomami, e della Serra Pelada nel sud del Pará, si assiste ad un vertiginoso aumento dell’attività di estrazione dell’oro. Vantaggi fiscali sono offerti alle grandi compagnie, soprattutto multinazionali, e viene incoraggiata l’unione tra piccoli e grandi imprenditori. E così l’Amazzonia viene invasa da imprenditori, padroni di garimpos, intermediari, contrabbandieri, arrivisti arricchiti e politici opportunisti. Nella retroguardia un esercito di 600 mila disperati, alcuni colpiti da fame e disoccupazione, altri cacciati da aree povere e attratti dall’illusione di un facile guadagno. In realtà, soltanto alcune centinaia di individui faranno fortuna.
La distruzione che i cercatori d’oro stanno compiendo potrà essere compensata solo con 200 anni di rimboschimenti. Quest’attività inquina i fiumi con il mercurio e, di conseguenza, acque, foresta, pesci, uomini. Per ogni kg d’oro prodotto si libera nell’ambiente 1,4 kg di mercurio. Spesso le tribù indigene, nelle vicinanze delle miniere d’oro, instaurano rapporti commerciali con i cercatori d’oro, con conseguenze sociali negative.
E dopo i cercatori d’oro, dopo i taglialegna ed i coloni, sono arrivati in Amazzonia gli agenti di sviluppo: grandi industrie estrattive, centrali idroelettriche, mega progetti come il Gran Carajas, nel sud del Pará.
Un’area vastissima, pari a Francia e Italia, che ha visto la creazione di enormi infrastrutture. Vi sono 28 industrie sidero-metallurgiche costruite attorno ad un giacimento di ferro a cielo aperto; l’energia viene prodotta dalla idroelettrica di Tucurui, per la cui costruzione sono stati trasferiti circa 25.000 persone dalle aree che dovevano essere allagate. Il progetto si è avvalso di nuove strade intee di collegamento, in vari punti dello stato, e della costruzione della ferrovia Carajas, lunga 860 km. Ha visto la nascita di nuove città, aeroporti e distretti industriali.
Il progetto ha richiamato grandi contingenti di popolazione provenienti dalle aree povere circostanti, dalle terre espropriate per la costruzione di Tucurui, garimpeiros provenienti dalla riduzione di attività estrattive di Serra Pelada. Insomma, si trattava sempre di una manodopera poco qualificata, che viveva d’espedienti e poteva essere sottopagata.

I GRANDI LATIFONDI:
TRA CAPITALI E CORRUZIONE

Le concessioni di terre pubbliche, la politica di incentivi fiscali e gli stimoli all’impadronimento illegittimo, adottati in Amazzonia nel passato, hanno finito col creare una struttura fondiaria caratterizzata dai grandi latifondi. Questa tendenza alla concentrazione ed all’uso indebito della terra si è accompagnata ad un aumento generalizzato dei conflitti sociali, dovuti all’usurpazione delle terre indigene e dei piccoli contadini.
Le aziende agricole hanno sempre dimostrato una grande avidità. Gli agricoltori hanno sfruttato la terra senza rispettare la legge che vietava l’uso del 50% di foresta, nonché la deforestazione lungo le rive dei fiumi. Non vi è mai stato un efficiente controllo per accertare che gli investimenti fossero applicati in maniera corretta.
L’attività delle imprese per lo sfruttamento delle risorse forestali è dedicata in parte a corrompere le forze di polizia forestale (allo scopo di ottenere falsi permessi) e a frodare le leggi forestali che impongono la riforestazione di parte delle aree disboscate. L’IBAMA (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos), con la concessione di permessi di deforestazione senza troppi problemi, è uno dei principali accusati. Gli organismi di controllo sono in numero insufficiente, mancano di obiettivi e dispongono di attrezzature e fondi sempre più scarsi. Basti pensare che vi sono solo 82 centri con poco personale per controllare 5 milioni di chilometri quadrati.
Il continuo saccheggio dell’Amazzonia è riconducibile ad un’errata filosofia, che mira a uno sviluppo basato su una «omogeneizzazione civilizzatrice», che tende ad azzerare le diversità, siano queste biologiche o culturali.

CHE FARE DELL’AMAZZONIA?

Uno dei motivi della devastazione è che il Brasile non ha ancora deciso cosa vuol fare dell’Amazzonia. Nell’ultimo mezzo secolo tutti i piani per la regione sono falliti.
Il governo di Feando Henrique Cardoso affermava, già qualche tempo fa, che doveva essere varato un piano che prevedesse un programma nazionale di educazione ambientale, una migliore distribuzione degli organi di protezione ambientale e lo stabilirsi di certi percorsi di sviluppo regionali che tengano in conto l’ecosistema.
Nel 1998 è stato approvato un progetto, in cooperazione con la Banca mondiale ed il WWF, secondo cui il 10% delle foreste potranno essere protette a partire dall’anno 2000. Ma per il momento la deforestazione continua ad un ritmo allarmante e sembra che gli errori del passato non siano serviti.
Basta percorrere circa i 400 chilometri della Rodovia transamazzonica tra Humaita e Apui, nel sud dello stato di Amazonas. Lì, con 25 anni di ritardo rispetto a quanto pianificato dal regime militare nel 1970, c’è l’occupazione più recente della frontiera agricola del paese. Tutti i giorni quattro o cinque famiglie di coloni arrivano dal Paraná e Rio Grande do Sul per aprire nuove aree di lavoro nella foresta.
Ogni famiglia guadagna un appezzamento di 60 ettari dall’INCRA e la prima cosa da fare è appiccare il fuoco o tagliare la foresta. I coloni non ci pensano due volte a bruciare ettari ed ettari di foresta, dato che la terra è l’unico loro mezzo di sostentamento.
Alla fine degli anni ’80, il Brasile era indicato come uno dei paesi con il maggior numero di incendi forestali del mondo. In ragione di questo, il governo brasiliano subì una campagna di pressione molto forte da parte dei paesi stranieri e fu obbligato a proteggere la foresta con nuovi provvedimenti. All’inizio i risultati furono incoraggianti. Fino al 1994 il ritmo degli incendi era diminuito della metà, mentre la deforestazione si era ridotta al 40%. Ma nel 1995 i dati erano di nuovo allarmanti: le riprese satellitari erano chiare; migliaia di punti luminosi indicavano che la maggior foresta tropicale del pianeta era in fiamme.
In aprile, il ministro Josè Saey Filho ha rilasciato un’intervista per annunciare i dati sulla deforestazione in Amazzonia nel 1999 e ha presentato come una vittoria il fatto che i 16.926 chilometri quadrati dell’area abbattuta, significano una riduzione del 2,6% sul totale abbattuto nel 1998. A vederla così sembra una notizia positiva, ma in realtà non lo è, se si osserva che il tasso di deforestazione si è stabilizzato ad un valore molto alto.
L’anno scorso il ministero dell’ambiente ha proibito nuove deforestazioni, limitato le autorizzazioni per il trasporto dei prodotti forestali e si è fatto aiutare dall’esercito per punire le irregolarità. I dati per alcuni sono promettenti se si pensa che la legge sui crimini ambientali, recentemente approvata, permette l’applicazione di multe fino a 50 milioni di reais (equivalenti all’incirca a 500 milioni di lire) agli infrattori.
Ma, come osservano le associazioni ambientaliste, maggiori controlli e multe alte sono di poca portata di fronte all’immensità del problema complessivo, considerando anche gli interessi dei piccoli coltivatori portati a devastare nuove aree semplicemente perché le terre abbandonate perdono la fertilità dopo due o tre anni. Sarebbe invece utile se il governo varasse una reale riforma agraria e finanziasse uno sfruttamento sostenibile della foresta, favorendo nuove tecniche agricole per l’utilizzo delle aree già deforestate.
In Amazzonia, dei quasi 600.000 chilometri quadrati deforestati, ben 180.000 sono già abbandonati e oggi risultano inutilizzati.
E così il crimine continua.

Dati generali (*)
estensione: 5 milioni
di chilometri quadrati
su 9 stati, il 60%
del territorio brasiliano
abitanti: 19 milioni
indios: 170.000 divisi in 210 etnie differenti, esclusi quelli che vivono nei centri urbani (circa 120.000)

La diversità biologica
specie vegetali:
circa 80.000
specie animali: 30 milioni
specie di pesci:
almeno 2.000

I delitti
deforestazione: 600 mila chilometri quadrati
(più dell’estensione della Francia) in meno di 30 anni; oggi il ritmo della deforestazione è di circa 16.000 chilometri quadrati all’anno
inquinamento: ogni anno circa 30.000 garimpeiros rilasciano nelle acque amazzoniche più
di 2 tonnellate di mercurio

I miserevoli profitti
della deforestazione (**)
– ogni ettaro di foresta
trasformato in pascolo:
25 dollari annuali
(per solo 2 o 3 anni)
– ogni ettaro di foresta distrutto per il legname: 170 dollari (una tantum)

(*) si veda Veja, «Amazônia. Um tesouro ameaçado»,
24 dicembre 1997
(**) dati dell’istituto Imazon
di Belém, ParáL’AMAZZONIA E IL SUO OMICIDIO

Cecilia Veracini




Brasilia, provincia di Washington Speciale – BRASILE

Se si guarda alle statistiche, il Brasile si colloca tra i primi
10 paesi più industrializzati del mondo. Ma la realtà quotidiana parla di disoccupazione, sottoccupazione, povertà diffusa, violenza crescente. Il presidente Cardoso e il ministro delle finanze
Pedro Malan sono di casa nella sede del «Fondo monetario
internazionale» (Fmi), a Washington. I più critici
(tra cui i vescovi) parlano di ricolonizzazione e sottomissione
del Brasile. Difficile non pensare male quando si vede
il «Banco central» affidato a Arminio Fraga Neto, ex consigliere
di George Soros, ovvero il finanziere statunitense universalmente noto per essere il più grande speculatore del mondo.

Atanagildo de Deus lavora in una fabbrica di San Paolo che produce parti per l’industria automobilistica. Da anni egli vive nella paura di perdere il posto di lavoro, come accaduto a migliaia di altri operai. Nel distretto denominato «Grande San Paolo», il maggior polo industriale ed economico del paese, l’indice ufficiale di disoccupazione è del 18,3%, con 1,6 milioni di lavoratori per la strada.
Nelle settimane successive al crollo del real (13 gennaio 1999), alcune società inteazionali, tra cui Ford, General Motors e Volkswagen, hanno annunciato riduzioni d’attività e licenziamenti. Nel 1999 la Fiat (25.000 dipendenti e il 33,3% della produzione nazionale di automobili) ha prodotto mezzo milione di auto in meno rispetto al 1998.
Tuttavia, la riduzione dei livelli occupazionali nell’industria (e nel terziario) era iniziata ben prima dell’ultima crisi. Le ragioni stanno nelle spinte dirompenti della globalizzazione neoliberista e nel progresso tecnologico.
Elizabeth, moglie di Atanagildo, era impiegata alla Petrobras, la compagnia statale del petrolio. Pur non essendo stata ancora privatizzata, la società ha ridotto il numero dei dipendenti da 68 mila a 41 mila. Anche lei ha perso il posto.
Dopo aver accompagnato i due figli a scuola, Elizabeth si è messa in fila sul marciapiede antistante la filiale della banca Abn-Amro. Deve rinegoziare il prestito (in dollari), sottoscritto un paio di anni fa per l’acquisto dell’automobile.
Mentre attende di entrare, Elizabeth sfoglia il Folha de S.Paulo, il principale quotidiano del paese che non è tenero col presidente. Accanto a lei passano lustrascarpe e venditori di ogni genere d’articolo.
Più di 35 milioni di brasiliani lavorano nella cosiddetta «economia informale». Questa comprende una miriade di attività lavorative non ufficiali (o sommerse): servizi domestici, manodopera edile saltuaria, raccolta di rifiuti (latta, carta, ecc.) nei bidoni della spazzatura, vendita ambulante per le strade o sugli autobus. In ogni caso, si tratta di occupazioni assolutamente precarie.
Ecco perché, nonostante tutto, Atanagildo e Elizabeth sono fortunati rispetto alla maggioranza dei brasiliani. Portano ancora a casa uno stipendio, che consente di sopravvivere e pagare il mutuo dell’auto. Non si possono più permettere di visitare gli amici a Salvador Bahia, ma i loro due figli possono frequentare la scuola.

CARDOSO,
UN PRESIDENTE MODELLO?

Feando Henrique Cardoso è passato dalla relativa popolarità del primo mandato presidenziale (quello della stabilizzazione monetaria) all’enorme impopolarità del secondo (caratterizzato dalla recessione). Sia nel primo che nel secondo periodo il presidente brasiliano si è dato un comune denominatore: il rispetto incondizionato delle ricette neoliberiste e, dunque, l’azione benefica del mercato, la libera circolazione dei capitali finanziari, le privatizzazioni.
Oggi il Brasile si presenta con un’unica, enorme frattura sociale. Da una parte, le élites storiche e quelle nuove, divenute ancora più ricche con le privatizzazioni e la speculazione finanziaria. Dall’altra, la grande massa dei brasiliani poveri e impoveriti (quelli provenienti dalla ex classe media). Al riguardo le statistiche non sono univoche, ma tutte indicano i poveri ben oltre la soglia del 50% della popolazione.
A conti fatti, cosa ha fatto il tanto osannato Cardoso? Ha lavorato con grande diligenza ed abnegazione per applicare alla lettera i dettami neoliberali del Fondo monetario internazionale. Ha deregolamentato l’economia, smantellato buona parte dello stato sociale, disarticolato l’industria nazionale, privatizzato quasi tutte le imprese dello stato, aperto indiscriminatamente l’economia brasiliana al mercato mondiale. Tutto ciò ha fatto salire al 20% il tasso di disoccupazione effettivo.
Per cercare di capire come si è arrivati a questa situazione, vale forse la pena di ripercorrere gli eventi economici e politici che hanno caratterizzato gli ultimi anni.

IL DOMINIO
DELL’ECONOMIA MONETARIA

È l’estate del 1994 quando il ministro delle finanze Feando Henrique Cardoso sale alla ribalta per il varo di un’audace politica monetaria. Il suo «piano real» (dal nome della nuova moneta brasiliana alla quale viene attribuita la parità con il dollaro) è un programma neoliberale, il cui obiettivo è la lotta all’inflazione (che raggiunge il 900% annuo) e la stabilizzazione della moneta. Il piano ha successo sull’inflazione e consente a Cardoso di guadagnarsi la presidenza, ma affossa il paese reale e le classi popolari.
Una delle misure intraprese è infatti l’incremento dei tassi d’interesse, per richiamare i capitali stranieri. Ma ciò comporta conseguenze negative per le imprese brasiliane, impossibilitate a contrarre prestiti e di conseguenza costrette a licenziare personale o a vendere l’attività. Nel contempo, sul mercato interno si affermano i beni importati che scalzano quelli prodotti internamente e fanno lievitare il deficit della bilancia commerciale.
A ciò va aggiunto un altro effetto perverso: l’aumento dei tassi produce automaticamente un aumento del debito pubblico interno.
Nel 1997 Cardoso ottiene le modifiche alla costituzione che gli permettono di essere rieletto. Poi, dà inizio alla sua seconda campagna presidenziale con il consistente sostegno finanziario di banche, imprese e altri grandi organismi verso cui il suo governo si è mostrato tanto generoso. Per non parlare del plateale appoggio dei mezzi di comunicazione. Nonostante queste premesse, il 4 ottobre 1998 Cardoso viene rieletto con un deludente 52% dei suffragi.
Poche settimane dopo la rielezione, esce un comunicato della Conferenza dei vescovi, secondo il quale sarebbe necessario «opporre resistenza alle esigenze imposte al Brasile da organizzazioni inteazionali, più preoccupate della salute delle Borse che della salute del popolo».
Il 13 novembre 1999 queste stesse organizzazioni (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) accordano al Brasile un maxi-prestito di 41 miliardi di dollari.
Gli eventi si susseguono e la realtà supera di gran lunga le previsioni più negative. Il 13 gennaio il real perde il 40% del proprio valore. Il Brasile precipita nella recessione. E nelle avide mani del capitale straniero.
All’inizio di febbraio viene defenestrato il governatore della Banca centrale, Francisco Lopes, nominato da appena due settimane. A presiedere l’istituto di emissione brasiliano viene posto Arminio Fraga Neto, ex consigliere di George Soros (!), il finanziere statunitense considerato il più grande speculatore del mondo.

PRIVATIZZAZIONI E RICOLONIZZAZIONE

La ricolonizzazione del Brasile avviene attraverso i capitali esteri attirati nel paese. Inizialmente, sono richiamati dai tassi d’interesse molto elevati; si tratta, dunque, di capitali volatili e speculativi. In seguito, arrivano per acquistare le attività produttive. Tra il 1994 e il 1997, ben 595 grandi imprese passano da mani brasiliane a mani inteazionali.
Poi, all’inizio del 1999, la svalutazione del real completa l’opera, richiamando il capitale straniero che arriva in Brasile per rilevare a prezzi stracciati le imprese in difficoltà o in fallimento.
Inoltre, la svalutazione del real fa crollare il valore contabile delle attività pubbliche, accelerandone la privatizzazione a condizioni particolarmente vantaggiose per gli investitori esteri o una ristrettissima élite di capitalisti brasiliani. In ogni caso, compagnie statali, costruite con lo sforzo collettivo di tutta la società brasiliana, sono svendute a tutto vantaggio dei profitti privati. Così, tanto per citare qualche nome, vengono privatizzate la rete Telebras, la società elettrica di Rio, le autostrade, la telefonia mobile (è arrivata anche l’italiana Tim), le officine ferroviarie, la compagnia mineraria «Vale do Rio Doce» (la più grande del mondo nel comparto del ferro).
«Continuando su questa strada – ci ha detto lo scorso anno Lula, leader del “Partito dei lavoratori” -, ci troveremo a non avere più patrimonio pubblico».
I brasiliani fanno sentire la loro protesta. Ma né la marcia dei centomila (agosto 1999) né la manifestazione del «grido degli esclusi» (settembre 1999) intaccano la sicumera del presidente-sociologo. «Io non ho in testa il calendario delle manifestazioni – commenta Cardoso -. Ogni anno è la stessa cosa: marce, proteste e non so che altro. Questi pensano di scaldare la società e di portarla alla rivoluzione. Sono soltanto degli anacronisti sobillati dall’opposizione di sinistra». Con sarcasmo e disprezzo l’entourage del presidente conia anche un neologismo per etichettare gli avversari: neo-bobos, i «nuovi scemi».
In perfetto accordo con il governo è Paulo Coelho: «La nostra economia funzionava appoggiandosi soltanto sul 25 per cento dei 164 milioni di brasiliani. Da allora, i responsabili politici ed economici fanno di tutto affinché i miei concittadini entrino in quel processo di espansione dei consumi che contribuisce a rendere grande e prospera una nazione. L’emergenza di una classe media farà del nostro paese un Eldorado all’altezza d’Europa e Stati Uniti. Ce ne stiamo occupando e ci riusciremo». L’ottimismo di Coelho è eccessivo e un po’ sospetto. Forse lo scrittore di Rio è troppo abituato ai temi esoterici e fantastici (sviluppati nei suoi libri) per analizzare la realtà.
Come invece fa la teologa Ivone Gebara, che lavora vicino a Recife: «Il Brasile – afferma – è allo stesso tempo primo, terzo e quarto mondo. Abbiamo tutte le condizioni della tecnologia più avanzata e, al tempo stesso, gente affamata, analfabeta e un sistema sanitario e di educazione pubblica tra i peggiori del pianeta. C’è chi chiama il Brasile “Belgindia”, perché ha un primo mondo come il Belgio e il terzo o il quarto mondo come certe zone dell’India».

CATTIVI CONSIGLIERI

La chiesa brasiliana è durissima verso la politica economica del governo Cardoso. «Le misure economiche – si legge in un documento della Conferenza dei vescovi -, per quanto annunciate dal presidente della Repubblica, sono di fatto emanate, sempre più, in consonanza con il Fondo monetario internazionale e con il segretario del Tesoro nordamericano».
Pedro Casaldáliga, vescovo di São Félix do Araguaia, nel Mato Grosso, ad una domanda sulla situazione del Brasile ha risposto: «Evidentemente il Brasile va male. E va male, fondamentalmente, perché segue alla lettera gli ordini del Fmi e del neoliberismo».
Ecco perché, nonostante tutto, Atanagildo, Elizabeth e i loro due figli sono dei brasiliani fortunati.

LA SAMBA DEI NUMERI

prodotto interno lordo: 1.550.000 miliardi di lire, contro i 2.100.000 miliardi dell’Italia (1998)

disoccupazione (ufficiale e reale): 7,7% secondo l’«Istituto brasiliano di geografia e statistica»; i sindacati parlano, invece, di un tasso di disoccupazione attorno al 20%

lavoratori informali: 35 milioni di brasiliani
poveri: 78 milioni di brasiliani vivono in condizioni di povertà (con entrate inferiori a 72 dollari al mese); altri 43 milioni vivono in condizioni di povertà estrema (con entrate inferiori a 35 dollari mensili)

meninos de rua: 7 milioni (ma altri parlano di 10 milioni)

tasso di omicidi: 25 per 100.000, contro il 4 dell’Italia e il 75 della martoriata Colombia

debito esterno: 229 miliardi di dollari nel 1998, contro i 179 del 1996, secondo i dati della Banca centrale

imprese vendute: tra il 1994 e il 1997, 595 grandi imprese sono state trasferite da mani brasiliane a mani straniere

DAL PIANO REAL AD AVANZA BRASIL

luglio 1994: arriva il «piano real»
Il ministro delle finanze Feando Henrique Cardoso vara il cosiddetto «piano real» per fermare l’inflazione. Questo obiettivo viene raggiunto a scapito di altri parametri economici: tassi d’interesse, disoccupazione, deficit pubblico, dipendenza dall’estero.

ottobre 1994: Cardoso presidente
Sull’onda del «piano real», Feando Henrique Cardoso viene eletto presidente del Brasile, sconfiggendo Luis Inacio da Silva detto Lula, leader del «Partito dei lavoratori» (Pt).

4 ottobre 1998:
Cardoso viene rieletto
Il presidente Cardoso, sostenuto da tutti i principali mezzi di comunicazione, viene rieletto per altri 4 anni. Lula viene sconfitto per la 3 volta consecutiva.

13 novembre 1998:
gli «aiuti» del Fmi
Il «Fondo monetario internazionale» (Fmi) annuncia un aiuto al Brasile per 41,5 miliardi di dollari. L’annuncio contribuisce ad accelerare la fuga di capitali.

13 gennaio 1999: il crollo
Sotto i colpi della speculazione internazionale crolla la borsa di San Paolo. In una settimana il real perde più del 40% del suo valore.

febbraio 1999: la Banca centrale
Il presidente della Banca centrale, Francisco Lopes, in carica da meno di un mese, viene sostituito da Arminio Fraga Neto, ex consigliere di George Soros, il finanziere statunitense considerato il più grande speculatore del mondo.

agosto-settembre 1999:
le proteste
Il 26 agosto arrivano a Brasilia circa 100 mila manifestanti per protestare contro la politica economica di Cardoso. Il 7 settembre, anniversario dell’indipendenza, il movimento «Il grido degli esclusi» riunisce migliaia di persone a Aparecida, 130 chilometri da San Paolo, per protestare contro «la degradazione sociale ed economica».

31 agosto 1999: «Avança Brasil»
Cardoso (caricatura a lato) vara un ambizioso programma triennale chiamato «Avanza Brasile». Secondo il governo con esso verranno creati 8,5 milioni di nuovi posti di lavoro con 165 miliardi di dollari di investimenti in 358 progetti. Il programma è diviso in sezioni dedicate ai lavoratori, ai giovani, agli imprenditori.
(si veda: www.abrasil.gov.br.).

2-7 settembre 2000:
referendum sul debito
La Conferenza episcopale, i partiti dell’opposizione e molti movimenti sociali promuovono un referendum popolare sul debito estero del Brasile e sui rapporti con l’Fmi. Il governo si dissocia dall’iniziativa, mentre il ministro Pedro Malan la definisce «una idiozia».

Paolo Moiola




La croce, con tantissimi poveri cristi – Speciale BRASILE

Dall’alto del Corcovado

Inaugurata nel 1931 come segno
della lotta contro il comunismo,
la mastodontica statua del Redentore,
dall’alto della collina del Corcovado,
domina Rio de Janeiro e l’intero Brasile.
Un simbolo, ma non solo.

Una cosa è certa: la chiesa del Brasile non può passare inosservata, con 119 milioni di abitanti che si dichiarano cattolici.
«La storia del Brasile mostra una chiesa identificata con la vita del popolo. Essa è stata presente in maniera decisiva in ogni momento, ma soprattutto nella vita quotidiana, umile e oscura»: hanno scritto i vescovi del Brasile nel 1972, in occasione del 150° anniversario dell’indipendenza.
Non è sempre stato così. E tutto è cominciato 500 anni fa.

Lenti e non facili inizi

22 aprile 1500. Una spedizione portoghese, guidata da Pedro Alvares Cabral, sbarca sulle coste di un paese sconosciuto, battezzato «Vera Cruz». Ma la terra ha già i suoi «proprietari»: 5-6 milioni di indios.
Pochi giorni dopo, padre Henrique da Coimbra, francescano, celebra la prima messa e pianta la croce (per ricordare il gesto, il 27 marzo 1999 Giovanni Paolo II benedisse una riproduzione della croce, che percorse l’intero Brasile).
Insieme alla colonizzazione, inizia così l’evangelizzazione, che assume caratteristiche particolari. La più evidente è un «ritardo brasiliano» (sia nell’organizzazione ecclesiastica, sia nell’annuncio missionario), poiché per tutta la prima metà del 1500 il Brasile è una «colonia di riserva» del Portogallo. Non esiste né un chiaro progetto di dominazione, né una sistematica azione dei missionari. Il cristianesimo penetra lentamente attraverso vari cicli.
Il 1551 è importante: il papa nomina il re Giovanni III e i suoi successori «grandi maestri dell’ordine di Cristo», conferendo loro la responsabilità di propagare la fede, nominare i vescovi, raccogliere fondi per la chiesa, sorvegliare i tribunali ecclesiastici. Il 25 febbraio, con la bolla Super specula, Giulio III erige la prima diocesi, São Salvador de Bahia, con il vescovo Pedro Sardinha.
Questi non è all’altezza della situazione e finisce divorato dagli indios nel 1556. Ha avuto pure gravi contrasti con i gesuiti. Costoro hanno metodi missionari un po’ tolleranti; il vescovo, convinto dell’assoluta negatività dei culti locali (nonché della superiorità portoghese), li obbliga a modificare il loro stile.
Cresce intanto lo scontro tra indigeni e coloni, sempre più avidi di terre e di lavoratori per le piantagioni. Gli indios fuggono verso l’interno, aiutati dai gesuiti che, per proteggerli, creano speciali aldeias (villaggi).
Il villaggio è una «repubblica indigena»: ottiene un’autonomia quasi assoluta e giunge ad avere anche oltre 10 mila persone. Separati dai centri portoghesi, i villaggi degli indios mirano a far rispettare la loro libertà, mutae il nomadismo, evitare la presenza «scandalosa» dei colonizzatori, promuovere lo sviluppo globale.
I missionari trovano non poche difficoltà nell’evangelizzare gli indigeni, radicati anche nel cannibalismo. Simpatico è l’incontro tra un gesuita e una vecchia india, prossima a morire. Dopo averla battezzata, il padre le chiede se desidera qualcosa. «Se ti portassi dello zucchero o saporiti frutti di mare, li mangeresti?» le chiese. «Ah! – risponde la convertita – Il mio stomaco rifiuta ogni cibo. C’è solo una cosa che potrei toccare: se avessi la mano di un tenero bimbo tupuya, potrei piluccarne le piccole ossa; ma non c’è nessuno che vada ad uccidee per me!»…
Per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, arrivano anche schiavi importati dall’Africa. Si calcola che, dal 1500 al 1852 (anno in cui finì la tratta), siano stati introdotti in Brasile 3 milioni e mezzo di schiavi. Proprio nelle piantagioni si diffonde il primo cristianesimo.
Il problema degli schiavi non attira la giusta attenzione evangelizzatrice e liberatrice. I gesuiti tentano, ove possibile, di risparmiare le sofferenze agli indios, ma non ai neri, che sono abbandonati a se stessi.
In ogni piantagione c’è una cappella: ma, anziché simbolo di riscatto, diventa segno obbrobrioso dell’ordine imposto dal padrone. È lui che si sceglie il cappellano, cui spetta celebrare i sacramenti e sedare i conflitti. L’unico controllo è la visita sporadica di qualche missionario. In tale occasione cappellano e proprietario ricevono l’ospite con onore, perché si convinca che la fede viene praticata e… tolga subito il disturbo.
gesuiti all’assalto
Nel 1576 la diocesi di São Salvador viene divisa, dando origine alla prelatura di Rio de Janeiro. Solo nel 1745 (quasi due secoli dopo) sorgeranno altre due diocesi: Mariana e São Paulo. Nel 1822, anno dell’indipendenza, il Brasile conta appena un’arcidiocesi, sei diocesi e due prelature, per 4 milioni di abitanti.
Ciò è una conseguenza del «patronato», diritto che la Santa Sede ha concesso al Portogallo nel 1493, grazie al quale lo stato è responsabile dell’evangelizzazione nei territori non europei conquistati. Attraverso la Mesa de Consciencia e Ordens (organismo creato nel 1532), si decide la creazione di parrocchie e diocesi, l’installazione di ordini religiosi, la fondazione di conventi. Alla Santa Sede rimane solo la conferma delle nomine episcopali.
L’azione pastorale ha i suoi protagonisti negli ordini religiosi, sostituiti dal clero secolare alla fine del xviii secolo: primi i francescani, seguiti da gesuiti (1549), benedettini (1582), carmelitani (1584) e cappuccini (1612). La maggioranza è portoghese, ma non mancano spagnoli, francesi e italiani.
Sono specialmente i gesuiti a porre le fondamenta delle grandi città, aprire scuole, costruire chiese, ponti, strade e… versare il proprio sangue, come i fratelli Pierre Correa e Jean de Souza, primi martiri brasiliani.
Tre figli di Sant’Ignazio rimangono memorabili nella storia del Brasile: Manoel de Nobrega (capo-spedizione del primo gruppo arrivato nel paese), José de Anchieta e Antonio de Vieira.
In Brasile il 9 giugno è la giornata nazionale dell’educazione ed è questa la data di morte di Anchieta (1597), definito «il primo umanista dell’America e il primo americano dell’umanità». Più discusso è Vieira (1608-1697), in cui si mescolano abilità politica (fu ambasciatore in vari paesi), passione in difesa degli indios (per cui fu rispedito in patria), visioni profetiche troppo in favore del re Giovanni iv e gaffe di fronte alla schiavitù nera.
La lotta antischiavista dura 200 anni. I gesuiti si scontrano con fazendeiros e cercatori di schiavi; sono sostenuti anche dalla corte portoghese, che però è distante; per cui le sentenze, boicottate dalle autorità locali, non sempre raggiungono lo scopo. Nel 1640 la lettura pubblica della bolla di papa Urbano (che vieta il traffico di schiavi indios) provoca tumulti a Rio de Janeiro, Santos e São Paulo. I gesuiti vengono espulsi da São Paulo.
È l’anticipo della cacciata dall’intero Brasile nel 1759: 428 gesuiti lasceranno parrocchie e collegi, causando un tonfo alla chiesa. Ristagna la vita religiosa, gli indios si vedono privati dei loro apostoli, riprende vigore lo schiavismo. Oltre alle autorità civili, anche il clero secolare e gli altri ordini non sopportano tanto i gesuiti, perché sono molto ricchi, hanno troppi privilegi e possono appellarsi a Roma e Lisbona.
Uno storico afferma che «senza i gesuiti, la storia coloniale non sarebbe nient’altro che una catena di atrocità senza nome» (Joaquim Nabuco). Ma c’è chi li accusa di aver ridotto gli indios «a regime di collegio, tenuto da preti… in cui andavano distrutti ogni spirito vitale, freschezza e spontaneità» (Gilberto Freyre).
Facendo un bilancio, la «prima evangelizzazione» è contrassegnata da ombre e luci. Dopo 250 anni di pastorale, non esiste alcun prete indigeno e il cristianesimo non è assimilato dalla popolazione. Si è invece diffusa una fede devozionale. Meticci e neri elaborano propri sincretismi religiosi, accogliendo elementi del messaggio evangelico, interpretando a loro modo i contenuti ricevuti e trovandovi conforto e speranza. La gente semplice si identifica con il Crocifisso e, guardando «all’uomo dei dolori», trova inesauribili risorse per resistere a violenze e umiliazioni.

una chiesa «impacciata»
Nel 1822 i grandi proprietari inducono Pedro i, principe ereditario del Portogallo, a proclamarsi imperatore del Brasile indipendente. Lisbona lo accetta. La Santa Sede riconosce al nuovo imperatore il diritto di «patronato».
Al sovrano si chiede persino il permesso di ordinare i preti. E dom Pedro comanda: «Giudicando che non si deve, senza necessità, aumentare il numero dei ministri della chiesa e rubare all’impero braccia che lo possano difendere contro i nemici, ordina che non si ammetta per ora alcuna persona agli ordini sacri, senza licenza previa dello stesso augustissimo signore».
È un fatto assai negativo. In Brasile nel 1872 si conta solo un migliaio di preti, concentrati specialmente nelle città della costa; all’interno, un sacerdote dirige anche 20 e più parrocchie, sparse per migliaia e migliaia di chilometri quadrati!
Sotto il regno di Pedro ii, la chiesa ha delle scaramucce con il governo. Una parte del clero si oppone alla monarchia. È il caso di Diego Feijao: partecipa alla rivoluzione liberale del 1824, viene arrestato e deportato. La rivoluzione produce anche il primo sacerdote martire repubblicano: fra’ Joaquim Caneca. Né si può dimenticare l’influenza della massoneria nella «questione religiosa». L’epilogo è il processo, la condanna e la prigionia dei vescovi di Olinda e Pará, rei di aver difeso i diritti e la libertà della chiesa.
Con Pedro II inizia la «seconda evangelizzazione» del Brasile. I vescovi, insoddisfatti della situazione, riformano le comunità secondo uno stile tradizionalista: origine divina di ogni potere, alleanza fra trono e altare, primato dello spirituale sul sociale, lotta contro le forze sataniche (come la massoneria).
Per attuare il progetto, ci si appoggia a congregazioni straniere: ai lazzaristi si affida la formazione dei preti; ruoli importanti hanno anche cappuccini e gesuiti (rientrati nel 1846, dopo l’espulsione). Nel 1860 i francescani evangelizzano gli indios del Rio delle Amazzoni, mentre i cappuccini operano tra le tribù della costa orientale.
Spazio anche per le suore: le figlie della carità, le francescane olandesi, le suore di San Giuseppe…
Gli agenti ecclesiali dedicano attenzione particolare ai fedeli di provenienza europea (poveri immigrati che sostituiscono, nel lavoro, gli schiavi), per proteggerli dai sincretismi religiosi. Così il «nuovo cristianesimo» trova il suo habitat nelle aree di recente immigrazione: le regioni meridionali, le cittadine sorte grazie allo sviluppo economico.
Emerge una fede abbastanza disincarnata: nessun impegno sociale, ma sopportazione e buon esempio; molta devozione personale e accettazione rassegnata del proprio stato quale strumento per la salvezza dell’anima.
ripensamenti…

Nel 1889 cade la monarchia e viene proclamata la «Repubblica degli Stati Uniti del Brasile».
La nuova costituzione garantisce alla chiesa libertà e diritto di proprietà. Tuttavia, per la legge della «separazione», è vietato l’insegnamento della religione nelle scuole, è riconosciuto solo il matrimonio civile e vengono secolarizzati i monasteri. I vescovi protestano. Però alcuni si rendono conto che la «separazione» è una «liberazione» dalla protezione-oppressione dello stato.
Nel 1922 il cattolicesimo ritorna religione di stato. Precedentemente, nel 1916, Sebastião Leme, vescovo di Rio de Janeiro, aveva scritto che il Brasile è «la maggiore nazione cattolica del mondo, un paese essenzialmente cattolico». Però la religione è mal compresa. Occorre pertanto evangelizzare ogni ambiente e «cattolicizzare» le diverse realtà.
Nascono diverse opere: l’università cattolica; il Centro dom Vital come strumento di cristianizzazione dell’intelligentia brasiliana; A Ordem, la rivista del pensiero cattolico; l’Azione cattolica; le pasque collettive; la Lega elettorale cattolica; la lotta per una legislazione contro il divorzio e la stipulazione di relazioni diplomatiche con la Russia…
Alle prese con la crisi economica, il presidente-dittatore Vargas cerca l’appoggio dei vescovi. Questi fanno eleggere laici fidati nell’assemblea costituente, intervenendo nella stesura del codice civile e penale. Lo stato concede privilegi alla chiesa, ottenendo in compenso il silenzio di fronte al regime autoritario.
Ma, dagli anni ’40, la chiesa ripensa se stessa partendo dalla promozione umana, pur non osando dichiarare che è il sistema da ribaltare: però incomincia a denunciare le disumane condizioni dei contadini, appoggia le aperture riformiste, ma si oppone alle leghe contadine di ispirazione marxista.
Si discute di riforma agraria. Il 10 settembre 1950 il vescovo Inocêncio Engelke pubblica una lettera pastorale di vasta eco: «Con noi, senza di noi o contro di noi si farà la riforma agraria».
I vescovi sentono il bisogno di progettare insieme: tanto che già nel 1952 nasce la Conferenza episcopale dei vescovi brasiliani (Cnbb), più di dieci anni prima del Concilio! Anche la pratica pastorale incomincia a mutare attraverso sperimentazioni innovatrici.
Nel 1948 il movimento di Natal (nordest) avvia una pastorale fondata su équipes di laici volontari, per combattere la miseria della popolazione e con precisi obiettivi: formazione religiosa dei fedeli, alfabetizzazione degli adulti, trasformazione delle strutture socio-economiche. Significativa è l’esperienza di catechesi di Barra di Piaui (affidata a laici) e di Nizia Floresta, dove si affida a suore la responsabilità di alcune comunità.
Dal 1959 ci si interessa ai sindacati rurali e nel 1960 il Fronte nazionale del lavoro inaugura un nuovo sindacato, ispirato da cristiani nel contesto operaio urbano. Nel 1961 nasce il Meb (Movimento di educazione di base) per l’alfabetizzazione e la formazione delle masse contadine: ottiene uno straordinario successo grazie all’uso della pedagogia liberatrice di Paulo Freire.

La miccia è ormai innescata. Siamo alla vigilia del Concilio ecumenico Vaticano II. È l’evento che avrebbe dato il via ad una rivoluzione nella chiesa del Brasile, con la nascita della comunità di base, la teologia della liberazione, la scelta preferenziale per i poveri.
E questa è tutta una storia nuova.

Giacomo Mazzotti




Ascoltare il grido del povero – Speciale BRASILE

Il Concilio ecumenico
Vaticano II ha dato il «là» ad un coro maestoso,
a dispetto di qualche «stecca».
È partendo da questa immagine che accenniamo alla lunga e difficile «caminhada» della
chiesa brasiliana.
La voce più evangelica? Quella dei semplici.

«È questa… un’età in cui la coscienza dell’umanità interroga e scruta con ansiose e drammatiche domande il perché della povertà e il destino dei poveri: dei singoli poveri e di interi popoli poveri, che prendono consapevolezza nuova dei loro diritti… Un’età in cui la povertà di moltissimi (due terzi dell’umanità) è offesa dal confronto con la smisurata ricchezza di pochi…». Queste sono parole del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, durante la prima sessione del Concilio ecumenico Vaticano II. Correva l’anno 1962.
Diversamente da quanto si può pensare, non è un teologo del Sud del mondo a pronunciare quelle espressioni, ma un significativo rappresentante della chiesa del Nord.
E proprio da Roma, centro della cattolicità, iniziamo il percorso della storia contemporanea della chiesa in Brasile. Strano inizio per una riflessione teologica che si farà conoscere per la sua originalità e che, con la Santa Sede, avrà anche seri motivi di incomprensione, se non di aperto scontro.

l’impatto
con i problemi sociali

Il Concilio ecumenico Vaticano II è nuovo nella sostanza e nella forma. Rompe una tradizione secondo la quale, almeno dal secolo XIII, i concili sono la sede privilegiata per affrontare i problemi della decadenza e riforma della chiesa.
Fin dal messaggio di apertura, papa Giovanni XXIII esplicita gli obiettivi speciali del Concilio: apertura al mondo moderno, unione dei cristiani e attenzione ai poveri. È veramente un evento ecumenico, universale, e guadagna nuovi attori: attori, in particolare, nell’America Latina.
Il Vaticano II vuole ridiscutere la risposta ideologica e pratica che la chiesa ha dato alla modeità. Per far questo ha bisogno del contributo di tutti: delle chiese del primo mondo sviluppato, di quelle del secondo mondo (che, all’epoca, vivono l’esperienza del «silenzio imposto»), ma anche di quelle del terzo mondo, che portano al tavolo della discussione i problemi del sottosviluppo. Le questioni sociali approdano a Roma, volenti o meno, grazie ai vescovi del Sud.
L’industrializzazione e l’urbanizzazione hanno già preso piede nell’emisfero nord, mentre in quello sud il cambiamento avverrà più tardi, imposto da regimi populisti e autoritari. È il caso dell’America Latina.
Però anche il contesto socio-ecclesiale latino-americano (che precede il Concilio) è diverso da quello occidentale: mentre, ad esempio, in Europa il cambiamento sociale è avvenuto in modo autonomo, in America Latina si ha una convergenza significativa tra mutamento sociale e rinnovamento ecclesiale.
L’America Latina è nella necessità di cambiare. La «pressione storica» obbliga i vescovi ad occuparsi di povertà e fame, che nella tradizione non sono temi dell’«agenda teologica».
Qui incomincia e prende forza la «novità brasiliana». Una novità che non è frutto di qualche teologo illuminato, ma è un prodotto specifico della realtà locale. Se, infatti, la chiesa europea negli anni ’60 è questionata dal problema «fede-scienza» ed entra in un processo di secolarizzazione, la chiesa brasiliana si confronta con il rapporto «fede-rivoluzione». E l’obiettivo è la liberazione.
In Europa la chiesa è sfidata teologicamente dall’ateismo (prodotto tipico della società modea) e dalla proclamazione della «morte di Dio». In Brasile (e, più in generale, in America Latina) la sfida teologica è rappresentata dal sottosviluppo, causa prima della «morte dell’uomo».

Pensare, volere e agire
cattolicamente

La chiesa brasiliana si interroga sulla «morte dell’uomo». Così facendo si rinnova.
Negli anni ’50 il rinnovamento si attua attraverso il coinvolgimento dei laici. L’Azione cattolica, fondata da Pio XI nel 1922 con l’obiettivo di preparare collaboratori laici della gerarchia all’evangelizzazione del mondo, arriva in Brasile già nel 1935; ma è solo nella decade ’50 che si modifica in Azione cattolica «specializzata». Si costituiscono «rami» giovanili e, per quanto riguarda gli adulti, c’è l’Azione cattolica operaia. Ai lavoratori e agli studenti, riuniti nell’Azione cattolica, la situazione sociale, politica ed ecclesiale del Brasile appare sempre più chiara.
All’inizio c’è l’appello dei vescovi, più preoccupati della loro istituzione che della partecipazione laicale; di fronte al «disordine» della devozione popolare, rispondono con la «romanizzazione» e con un «nuovo ordine» conforme alle nuove esigenze.
La parrocchia, convocando i laici obbedienti al parroco, si propone come il centro propulsore del nuovo ordine. «Dobbiamo essere presenti nelle realtà palpitanti che il mondo suscita. Presenti per realizzare integralmente il nuovo ordine, che è lo stesso ordine perenne della cristianità, riassunto nel programma ideale di Pio XII: pensare, volere, sentire, agire cattolicamente». È quanto si legge nella «Rivista ecclesiastica brasiliana» del 1941.
Ma, alla fine degli anni ’50, i laici nei vari rami di Azione cattolica non si sentono più rappresentati da questa visione e vogliono cambiare il paese reale che gli sta davanti. Anch’essi, insieme ad alcuni teologi e pastori più sensibili, obbligano in qualche maniera l’istituzione ecclesiale a cambiare: dall’«opzione per l’ordine» (nostalgia di un regime di cristianità che non c’è più) all’ «opzione per il progresso», che la modeità sta portando anche in Brasile.
A partire dagli anni ’60, il problema «sviluppo» diventa il tema principale nelle discussioni pastorali. Tema che i latino-americani – come abbiamo accennato – porteranno sul tavolo del Concilio.

In nome del progresso

La nozione di «progresso» appare già nel 1956 nella Dichiarazione dei vescovi del nordest. D’ora in avanti sarà la categoria principale, usata dall’istituzione ecclesiale, per leggere i problemi sociali.
Alla luce anche di importanti encicliche – Mater et magistra (1961), Pacem in terris (1963) e Populorum progressio (1967) -, la chiesa brasiliana, proprio per le caratteristiche sociali in cui vive, rompe i legami con la tradizione rappresentata dai fazendeiros. Finalmente, anche nelle zone rurali più intee, la parrocchia acquista una fisionomia autonoma, indipendente dai «padrini». Questi, però, non si sentono affatto rappresentati dalla «nuova morale» del progresso e dell’industrializzazione che si va espandendo.
L’opzione per il progresso è, nelle intenzioni dell’istituzione ecclesiastica, l’unica capace di spezzare le vecchie relazioni di dipendenza, soprattutto nel mondo rurale. Nello spirito conciliare (con buona pace della oligarchia locale), la chiesa brasiliana intende aderire al mondo moderno che parla di uguaglianza e diritti civili. Il progresso economico appare il treno su cui salire per costruire una società di uguali.
Il progresso non è scelto per motivi economici, bensì per la portata morale che sottornintende. In tale senso, i vescovi (con in testa Helder Camara, grande profeta della chiesa brasiliana negli anni a venire) inizialmente appoggiano il golpe militare del 1964.
I militari sono venuti – parole del segretario della Conferenza episcopale – per «superare l’ostacolo del sottosviluppo e mantenere la pace sociale». L’equivoco sta nel pensare che il mondo moderno, inteso dal regime, sia lo stesso che voglia l’uguaglianza e le pari opportunità. La chiesa, che si è liberata dal liberalismo oligarchico, si allea con lo stato autoritario fino ai primi anni ’70, quando l’alleanza diventa insostenibile.
Intanto la crociata contro il sottosviluppo si fa sempre più accesa. La chiesa vede un pullulare significativo di iniziative, prese dalle singole comunità cristiane, per combattere l’analfabetismo, ma anche per promuovere la sindacalizzazione dei lavoratori. Si crea l’Azione cattolica rurale, sorge il Movimento di educazione di base, aumentano in modo impressionante le radio locali, impegnate nella coscientizzazione di base. Queste ed altre iniziative si avvalgono del patrocinio della chiesa, quando non ne sono un’emanazione.
Insomma il lavoro pastorale deve portare alla «terra promessa» del progresso, perché là finalmente ci sono diritti uguali per tutti. Solo quando il progresso mostrerà la sua faccia elitista e autoritaria, le comunità ecclesiali di periferia prenderanno il coraggio di denunciae la falsità.

La chiesa all’opposizione

Siamo negli anni ’70. Comincia una pagina di storia esaltante per la chiesa brasiliana, che si «converte».
Mentre si assiste al rafforzamento della dittatura militare (visibile anche nella prigionia di qualche vescovo, la tortura di alcuni sacerdoti e molti agenti di pastorale), la chiesa non può più tacere di fronte alle ingiustizie perpetrate dal governo. Se questo non frena lo sviluppo, non si può accettare – scrivono i vescovi del Maranhão nel 1973 – «come vero sviluppo ciò che non rispetta la persona». La concentrazione di terre in poche mani, favorita dalla politica agraria degli anni ’70, costituisce la ragione principale della critica che la chiesa muove al governo.
Sono le comunità cristiane dell’Amazzonia che prendono la parola di fronte ad una realtà sempre più inaccettabile.
Nel 1971 Pedro Casaldaliga, da poco vescovo di São Felix de Araguaia (Mato Grosso), in «Una chiesa in Amazzonia in conflitto con il latifondo e la marginalizzazione sociale», scrive: «Quello che abbiamo visto ci ha reso evidente l’iniquità del latifondo capitalista come prestruttura sociale radicalmente ingiusta e ci ha confermati nella chiara scelta di ripudiarlo». Nell’Acre, nel 1973 la chiesa elabora «Il catechismo della terra» nel quale, basandosi anche sulla legislazione vigente, si foiscono istruzioni per la difesa dei contadini e mezzadri.
L’attacco contro l’ingiustizia non è solo la parola isolata di qualche vescovo di periferia, ma diventa il problema dell’intera Conferenza episcopale. Nel 1976, in «Comunicazione pastorale al popolo di Dio», denuncia che «la cattiva distribuzione della terra in Brasile risale al tempo coloniale. Ma il problema si è accentuato negli ultimi anni come risultato degli incentivi fiscali alle grandi imprese agropecuarie».
È in questo modo che l’opzione evangelica per i poveri, caratteristica dell’azione pastorale della chiesa brasiliana nel post-concilio, diventa scelta politica: la chiesa rompe con lo stato autoritario. Al modello economico introdotto dai militari mancano, secondo i vescovi, i diritti riconosciuti a tutti, in particolare ai poveri. Allora la comunità cristiana fa sua la missione di difenderli e di lottare per la giustizia.
Nel 1980 i vescovi, riuniti in assemblea ordinaria, affermano: «Assumiamo l’impegno di denunciare le situazioni apertamente ingiuste e violente… riaffermiamo l’appoggio a iniziative giuste e alle organizzazioni dei lavoratori… sosteniamo gli sforzi del contadino per un’autentica riforma agraria».
Minacciata dalla repressione militare che investe sempre di più gente di chiesa, l’istituzione ecclesiastica cerca legittimazione non più appoggiandosi allo stato, autoritario e antidemocratico, ma nei poveri, negli esclusi da un progresso che arriva solo per una piccola casta.

Un pullulare
di esperienze

Il cambiamento di «luogo sociale» provoca anche un mutamento nell’organizzazione ecclesiale. Si apre, così, un’altra stagione feconda, non priva di ambiguità e limiti, per la storia della chiesa in Brasile. Secondo i teologi, è una rinascita, un modo nuovo di essere chiesa.
Sorgono le Comunità ecclesiali di base: recano una ventata di freschezza non solo alla chiesa brasiliana, ma anche a quella universale.
Insieme ad esse, si strutturano altre iniziative note come «pastorali sociali»: la Commissione pastorale della terra (Cpt) per la riforma agraria; il Consiglio indigenista missionario (Cimi) in risposta all’annoso problema indigeno; il Movimento nero (Mo) per i discendenti degli schiavi. Si organizza la pastorale operaia, quella della gioventù e dell’ambiente popolare; prende corpo l’impegno per i pescatori, la donna emarginata, ecc.
Si tratta di organismi non confinati nelle strutture ecclesiali, ma, per il lavoro che si prefiggono e il contesto sociale in cui operano, destinati (alcuni più di altri) a recitare un ruolo rilevante nella storia recente del Brasile.
La conquista della democrazia, raggiunta formalmente nel 1986, è avvenuta anche grazie a questi organismi ecclesiali.

tre esperienze
significative

Fra le numerose esperienze, che caratterizzano la chiesa brasiliana del post-Concilio, ne presentiamo tre: il Centro studi biblici, le Comunità ecclesiali di base e la Teologia della liberazione.

Il Centro studi biblici (Cebi)
Il movimento biblico in Brasile (che fa da riferimento anche per la ricerca biblica latino-americana) si propone un nuovo modo di leggere la bibbia.
Dato il particolare contesto socio-politico che caratterizza la società brasiliana nel 1960-70, la parola di Dio viene letta secondo tre angoli: bibbia, realtà, comunità. In tale triangolo l’obiettivo non è interpretare la bibbia, ma, con la bibbia, interpretare la vita.
Questa novità metodologica reca in sé un modo diverso di usare la scienza esegetica. C’è la preoccupazione di cogliere il contesto del testo biblico: prima ancora di studiarlo, si cerca di conoscere i problemi della società in cui è nato quel testo. In tale modo appaiono con facilità le analogie con l’attualità. La bibbia feconda la vita dei suoi lettori e si evita la tentazione del fondamentalismo.
È così che, alla fine degli anni ’70, nasce il Cebi come centro ecumenico: riunisce cattolici e protestanti. Inizia le proprie attività con tre tipi di corsi biblici: di formazione (4 settimane a livello nazionale); di attualizzazione (2 settimane a livello regionale); di base (3-4 giorni a livello locale).
Il Cebi diventa un patrimonio importante dell’intera comunità cristiana, e non solo brasiliana. Lo prova il fatto che, pure in Italia, alcuni gruppi di lettura popolare della bibbia vi fanno riferimento.
Negli anni ’90 la lettura popolare della parola di Dio si rinnova, per rispondere alla sollecitazione di un approfondimento non tanto biblico, quanto delle fonti e della storia in cui vengono a trovarsi oggi i lettori della bibbia. Bisogna – dicono i teologi latino-americani – ritornare a «bere l’acqua del proprio pozzo».
È la riscoperta della dimensione mistica della «parola». Con questo, anche la dimensione ecumenica si fa più matura: leggere la bibbia a servizio della vita aiuta a relativizzare le differenze confessionali e riporta al centro il dialogo ecumenico. Il servizio alla vita (non all’istituzione) esige la conversione di tutti e crea un’unità profonda, senza per questo eliminare le diversità.

Le Comunità ecclesiali di base (Cebs)
Nascono nello spirito conciliare, allorché la Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb), ancora nel 1966, ne appoggia la formazione e strutturazione come importante proposta pastorale. A partire dal 1974, i vescovi le indicano come una delle priorità. Le stesse Conferenze episcopali latino-americane, a Medellin (1968) e specialmente a Puebla (1979), ne parlano in termini di assunzione istituzionale.
La chiesa cattolica conferisce alle Comunità di base un riconoscimento ufficiale quando, specie nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975), ne parla come di «una speranza per la chiesa universale».
Dal 1975 gli incontri interecclesiali delle Cebs, in Brasile, sono – al dire di alcuni teologi – dei concili di base, al punto che la stessa Conferenza episcopale afferma: «le Cebs non sono un movimento, ma una nuova forma di essere chiesa».
Oggi le Comunità ecclesiali di base non sembrano vivere più con la vivacità degli inizi, quando la loro dimensione religiosa e politica era così evidente da essere temuta e citata persino dai rapporti di geopolitica statunitensi. Tuttavia restano un’eredità ecclesiologica da annoverare tra i contributi più originali della chiesa brasiliana contemporanea.

La Teologia della liberazione (Tdl)
È doveroso ricordare la riflessione teologica che ha permesso e matura le esperienze citate. Ci riferiamo alla Teologia della liberazione. È un fenomeno che va al di là della chiesa brasiliana, ma che in essa trova una delle protagoniste della sua ideazione e realizzazione.
Anche la Teologia della liberazione non nasce per caso, ma è frutto di un processo storico. Si possono distinguere tre fasi: la preparazione (1962-68), la formulazione (1968-’75), la sistematizzazione (dal 1976).
La Tdl nasce da «un’indignazione etica di fronte alla povertà e all’emarginazione delle masse»: così il teologo Leonardo Boff. Però fin dall’inizio, essa non si pensa come la teologia politica europea, bensì come un nuovo modo di fare teologia. Il suo problema non è un «oggetto specifico» (fosse anche la povertà), ma un «orizzonte» significativo per il pensiero teologico. Da una teologia, quale funzione critica dell’azione pastorale, si vuole passare ad una teologia quale riflessione critica della realtà sociale.
Il concetto di liberazione serve, meglio di altri, ad indicare il fine del pensare e dell’agire ecclesiale. Vegliando sulla teologia per non farla divenire una semplice branchia delle scienze sociali, la Tdl rinnova la riflessione cristologica ed ecclesiologica.
Presentando la figura di Gesù, soprattutto come liberatore, la cristologia evidenzia il primato dell’essere antropologico, utopico, critico e sociale… Spostando l’interpretazione della chiesa, non più ad intra ma ad extra, l’ecclesiologia che ne deriva si preoccupa dello sviluppo, della giustizia, ecc. Un’ecclesiologia che si confronta con la propria efficacia storica, o meno, e che misura i propri risultati in rapporto al cambiamento della società.
Il che è anche discutibile.

E c’è dell’altro…

La chiesa brasiliana del dopo-Vaticano II è un dono alla chiesa universale; un dono reso più ricco dagli incontri dell’episcopato latino-americano a Medellin (1968), Puebla (1979) e Santo Domingo (1992).
Ma non è tutto. Se siamo disposti a guardare extra muros ecclesiali, incontreremo altre novità.
C’è un complesso mondo religioso (sciamanismo amazzonico, teologia e ritualità afro, religiosità popolare), che ha ancora molto da dire e offrire alla vita religiosa di tutti. Si tratta di una ricchezza che, spesso, non appare nei documenti ufficiali; eppure è parte significativa della vita spirituale e materiale di tanti brasiliani.
Un campo di ricerca ancora aperto è quello che investe la religiosità popolare: qui si balbetta appena qualche ipotesi. Non si può fare un resoconto della vita cristiana e, più in generale, religiosa del Brasile senza, almeno, ricordare il patrimonio dell’esperienza popolare.
Se esiste una teologia erudita, razionale ed ufficiale, c’è pure un pensiero teologico popolare con un’altra razionalità. Ci riferiamo al complesso mondo religioso dell’uomo e della donna brasiliani. Vi si incontra un pensiero sincretico, che non ubbidisce al «principio di identità» (proprio del filosofare occidentale), ma al «principio di partecipazione». Non esclude il «tuo», perché diverso dal «mio», ma lo incorpora, proprio perché differente.
Questa è una logica non ancora del tutto esplicitata dagli studi accademici: la logica della vita, dell’emotività, del simbolo, della simultaneità; si contrappone alla logica della ragione, della forma, della linearità. La stessa Teologia della liberazione, almeno nella sua versione ufficiale, si muove su una logica distante da quella popolare, pur volendo e avendo in mente il popolo.

Lo Spirito soffia dove vuole: anche là dove le illuminazioni teologiche non arrivano, l’organizzazione ecclesiastica è precaria e le conferenze non si fanno.
Alla comunità universale dei credenti, quella brasiliana offre qualcosa di autenticamente evangelico. Se ascoltata (ma non inquadrata), controllata e anche illuminata, la fede dei semplici è un grande contributo per costruire un’alternativa. O soltanto per continuare il cammino verso il Regno.

Marco dal Corso




I supermercati della religione – Speciale BRASILE

Ogni anno la Chiesa cattolica perde 600 mila fedeli, che aderiscono a movimenti pentecostali. In genere si tratta di persone povere, che tuttavia vuotano il loro modestissimo portafoglio alla nuova «chiesa», che non fa politica. E si inchina al padrone vincente e conservatore.

Il turista inesperto o il missionario impreparato, che per la prima volta mette piede in Brasile, resta sconcertato dalla molteplicità dei movimenti religiosi in cui si imbatte.
Alcuni provengono dall’Europa, come lo Spiritismo kardeciano; altri dall’Asia, come il Seicho-no-ie, la Perfetta Libertà e gli Hare Krishna; altri dal Nordamerica, come i Testimoni di Geova, i Mormoni, i vari movimenti pentecostali e la Chiesa dell’unificazione, nata in Corea e approdata negli Stati Uniti col suo fondatore Moon.
Vi sono movimenti religiosi alternativi di carattere autoctono, cioè nati in Brasile, come le Chiese cattoliche apostoliche brasiliane, Santo Daime, União Espiritualista Seta Branca, Vale do Amanhecer. Esiste il mondo dei culti afrobrasiliani (candomblé, xangò, jurema, casa de Minas, macumba, quimbanda, umbanda): raccolgono un numero enorme di persone e affondano le radici in Africa.
Nel 1930 le statistiche affermavano che il 95% dei brasiliani era cattolico. Oggi, secondo il Calendario Atlante De Agostini 2000, i cattolici si sono ridotti al 70%.
Il presente articolo affronta solo il movimento più macroscopico, che cresce in tutti i paesi dell’America Latina con una forza d’urto impressionante: è il mondo dei pentecostali. Si calcola che sottragga ogni anno al cattolicesimo brasiliano circa 600 mila membri.

L’Evoluzione
dei pentecostali

Il pentecostalismo giunge in Brasile al principio del 1900 e, precisamente, a Belém come Assembleia de Deus e a São Paulo come Congregação Cristiana no Brasil. Esso però, fino al 1930, si sviluppa lentamente senza creare allarmismo.
Con l’industrializzazione del paese e l’immigrazione intea, il movimento incomincia a mettere radici soprattutto nella fascia più povera della gente: perde il carattere di religione straniera ed assume gli elementi culturali tipici dell’ambiente, rompendo con l’élite e la dicotomia, presente nella religione ufficiale, tra chi «sa» e chi «è ignorante».
Fra i nuovi adepti si nota un fattore costante: il devozionale. Però è avvenuta la seguente trasformazione: il mezzo di comunicazione col divino non è più un santo, ma la bibbia, che nelle mani di analfabeti può diventare una sorta di amuleto e talismano.
Oggi il Brasile conta almeno un centinaio di denominazioni pentecostali. I sociologi della religione le suddividono in due categorie.
n Le chiese pentecostali più antiche, come l’Assemblea di Dio e la Congregazione cristiana in Brasile, che si presentano con una forte identità di gruppo.
n Le chiese neo-pentecostali, come la Chiesa universale del regno di Dio, Deus é Amor, Graça de Deus, che sono piuttosto di tipo clientelare. Tra i membri non vi è una forte coesione. Di regola sorgono sotto l’influenza di un leader carismatico, danno molta importanza alle guarigioni e usano molto i mezzi di comunicazione sociale, come radio e televisione.
Questi gruppi appaiono come uno specchio della società dei consumi del nostro tempo. Alcuni sociologi, anziché considerarli «chiese», li presentano come «agenzie». Secondo la logica commerciale odiea, il «tempio» diviene una specie di supermercato, dove si esibiscono «prodotti religiosi» di vario tipo.

Tre movimenti
significativi

Oggi in Brasile tre sono i movimenti pentecostali significativi, che si caratterizzano per una forte espansione: Assemblea di Dio, Congregazione cristiana in Brasile e Chiesa universale del regno di Dio.
Assemblea di Dio. Gioia e spontaneità sono espresse con canti popolari; si promuovono lunghe adunanze di preghiera con glossolalia (fenomeno già legato ai movimenti messianici: consiste nel parlare lingue sconosciute in stato di trance). Questa «chiesa» propone una morale esigente: proibisce di fumare, bere, cadere nei vizi; stimola a darsi totalmente a Cristo e impegnarsi in una attività religiosa.
Nel luogo di culto non vi è una rigida separazione dei sessi; entrando o uscendo ci si saluta calorosamente e si frateizza. Tutti si impegnano nella costruzione del tempio e nella diffusione del movimento.
La predicazione non è monopolio di una sola persona, ma può essere fatta da chiunque si senta ispirato a prendere la parola.
È ormai notorio che alcuni membri di questa «chiesa» hanno collaborato alla stesura del Documento di Santa Fé (New Mexico – USA), redatto nel maggio 1980 da esperti del Partito repubblicano quale piattaforma elettorale del presidente americano Reagan. Nella proposta n. 3 del capitolo «Sovversione intea» si legge: «La politica estera latinoamericana deve incominciare ad affrontare la teologia della liberazione, per sapere come è utilizzata in America Latina dal clero che aderisce a questa corrente teologica».
La maggior parte dei membri dei movimenti pentecostali, fino a poco fa, era costituita da gente povera. Però negli ultimi anni notiamo una tendenza inversa. Per attirare le persone benestanti non si organizzano culti, ma pranzi e cene.
Nel Mensageiro da Paz, giugno 1986, organo mensile dell’Assemblea di Dio, leggiamo: «I pranzi hanno la forza di attrarre persone danarose che in nessun’altra circostanza hanno avuto modo di ascoltare il vangelo».
Congregazione Cristiana in Brasile. È la prima chiesa pentecostale: sorge nel 1910 nel quartiere «Bras» di São Paulo per opera di un italiano, Luigi Francescon, proveniente dagli Stati Uniti. Nel barrio si parla e si predica unicamente in italiano. Nonostante che Francescon cerchi di attirare i connazionali alla sua chiesa, questi si dimostrano refrattari.
A quell’epoca l’80% degli operai di São Paulo è costituito da stranieri; di questi, il 65% è italiano. Tale classe sociale ha un atteggiamento diametralmente opposto a Francescon, perché proviene da dure lotte sociali in Europa.
A differenza di tutte le altre chiese pentecostali, la Congregazione cristiana in Brasile non è caratterizzata da un forte impegno per il proselitismo; non si serve dei mezzi di comunicazione sociale e sono rarissime le pubblicazioni. Fatto sintomatico: il movimento non ha mai permesso che fosse pubblicata la vita del fondatore, sebbene sia ritenuto santo.
È una «chiesa» che non combatte né il cattolicesimo né lo spiritismo. Al termine del culto, non pratica il rituale di benedizioni di «cura divina», come accade invece in molte comunità pentecostali; né ricorre ad esorcismi per cacciare i demoni.
Si caratterizza per una rigida separazione dei sessi durante la celebrazione del culto ed è completamente estranea ad ogni impegno di carattere sociale.
Chiesa universale del regno di Dio. Nasce nella decade 1970 ad opera del pastore Edir Macedo, che si stacca dalla Casa da Benção e si proclama «vescovo». Essa, come altri movimenti neopentecostali, dà particolare importanza alla radio e televisione; inoltre pubblica un numero impressionante di libri, riviste e giornali. Gestisce in proprio una casa editrice e una televisione di notevoli proporzioni.
Il Vangelo
secondo Macedo

Uno dei tratti fondamentali della Chiesa universale del regno di Dio è il ricorso massiccio agli esorcismi. Il fondatore Macedo è convinto che sia la maniera più efficace per combattere il male. «Nostro compito – afferma Macedo – non è solo predicare che Gesù Cristo salva e battezza nello Spirito Santo, ma innanzitutto e soprattutto che egli libera le persone che sono oppresse dal diavolo e dai suoi angeli».
Nella chiesa pentecostale di Copacabana in Rio de Janeiro, ad esempio, il venerdì è dedicato in modo speciale ai «culti di liberazione». In tale giorno gli incontri sono sette a ore diverse; quello di mezzanotte è il più importante per ottenere la liberazione dal demonio.
Nel suo impegno di «liberazione» Macedo ha trovato i «capri espiatori»: sono i culti afrobrasiliani e lo Spiritismo kardeciano. Nel libro «Dei o demoni?» (nel 1993 era già alla 13ma edizione) si legge: «Se il popolo brasiliano tenesse gli occhi ben aperti e si rendesse conto della magia e stregoneria che vengono propagandate da candomblé, umbanda, quimbanda, dallo spiritismo kardecista e da altri movimenti che stanno distruggendo molte vite e famiglie, certamente saremmo un paese molto più sviluppato».
Tra gli avversari della Chiesa universale del regno di Dio figurano anche i cattolici. Ne è prova il gesto teatrale e provocatorio, compiuto da Von Helder (da non confondersi con il vescovo cattolico dom Helder), nei confronti di una immagine della Vergine Maria, presa a calci durante una trasmissione televisiva.
La «teologia della prosperità» è un altro tema fondamentale della Chiesa universale del regno di Dio. Macedo in «La vita in abbondanza» scrive: «Non avremo mai fede sufficiente nelle promesse di Dio per riuscire a possedere quello che desideriamo, fino a che le nostre labbra parleranno unicamente di sconfitte. Per il cristiano non esiste “non posso” e neppure “questo è difficile”. No, no e no. Tu puoi avere tutte le cose, se ne sei convinto. “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4, 13) deve essere la nostra parola d’ordine».
«Prosperità» è l’argomento-chiave nelle riunioni di tutti i lunedì. Sono numerosi i templi in cui si realizza «la catena degli impresari». In simili riunioni si sottolinea con molta enfasi che «la prosperità» è un diritto di ogni cristiano. Per Macedo, essere cristiano significa essere figlio di Dio e coerede di Gesù Cristo. Questi, per eredità, è proprietario di tutte le cose che esistono sulla faccia della terra, essendo il re dell’universo. Ancora: «Dio non vuole che i suoi figli siano poveri e bisognosi». Essi sono «figli ricchi» di un «Padre ricco», perché «l’uomo fu posto sulla terra per condurre una vita nell’abbondanza. Adamo non aveva scarsità di acqua, di alimenti e non aveva bisogno di condurre sua moglie Eva dal medico. Essi godevano della perfezione di Dio, senza che gli mancasse nulla». Il paradiso terrestre in cui vivevano Adamo ed Eva non è perso del tutto. Esso è a disposizione di quanti accettano il «Gesù della Chiesa universale».
Frequentare un suo tempio significa assumere un impegno con Dio, entrare in alleanza con Lui, riprendere il cammino delle origini e ritornare nel seno della «famiglia della prosperità», nella quale vi è «una vita abbondante», garantita da Dio per mezzo di Gesù Cristo.
Secondo Macedo, l’«alleanza con Dio» deve essere intesa in questo senso: per mezzo di essa ciò che ci appartiene (vita, forza e denaro) passa in proprietà di Dio. E ciò che appartiene a Dio (benedizione, pace, prosperità, gioia) diventa proprietà dell’uomo.
Macedo non solo invita a pagare la decima, ma fa un passo avanti: oltre la decima, il fedele deve dare a Dio (cioè alla Chiesa universale del regno di Dio) tutte le cose preziose che possiede.
Nella società capitalista il denaro e le cose materiali sono le più importanti per la persona. Nell’offrire i propri beni a Dio, l’essere umano strappa, in un certo senso, le stesse sue viscere, soprattutto se offre tutto ciò che possiede. Però Macedo avverte: «Dio non vede i valori che una persona gli offre, vede invece quelli che restano nella borsa… È necessario dare anche ciò che non si vorrebbe. Il denaro, messo a frutto in una banca per realizzare un sogno futuro, questo sì che è importante e deve essere dato. Invece quel denaro che viene dato perché è superfluo, non ha valore né per il fedele e né tanto meno per Dio».
Occhio chiesa cattolica!

Un aspetto peculiare, nei movimenti pentecostali di data più antica, è l’attenzione alla persona: accoglienza calorosa di coloro che intervengono nel culto e possibilità di partecipazione come veri attori, sia nell’eseguire i canti sia nel prendere la parola durante la cerimonia.
Questo è un dato positivo e deve far riflettere i cattolici, ai quali la costituzione Lumen Gentium del Vaticano II e il documento di Puebla ricordano che la chiesa deve essere una comunità di comunione e partecipazione. Ciò che maggiormente dovrebbe preoccupare i cattolici non è la crescita dei templi pentecostali, ma l’atteggiamento di quanti vi entrano: lo fanno come se entrassero in un supermercato per acquistare beni di consumo. Preoccupa anche il loro disimpegno in campo sociale e politico.
Le comunità ecclesiali di base, che in Brasile sono una realtà consolante della Chiesa cattolica, hanno il potere di vaccinare i loro membri e di renderli guardinghi verso i metodi manipolatori praticati da numerosi movimenti pentecostali.
Moltissimi pentecostali sono poveri; ma le loro comunità, a differenza della Chiesa cattolica, non hanno mai fatto l’opzione preferenziale per i poveri. Si ebbe un esempio chiarissimo nel nordest, al tempo delle Leghe contadine, quando parecchi fedeli pentecostali furono imprigionati, ma le loro chiese non si mossero in loro difesa.
In Brasile, nelle ultime elezioni politiche, vari movimenti recenti di indirizzo pentecostale, hanno buttato la maschera e si sono schierati apertamente a favore dell’ala politica conservatrice, il cui impegno non è affatto sulla linea della promozione delle classi povere.
E questo fa paura.

Pietro Canova