Articolo 1
SEMPRE
"AL TROTTO"
Il beato Giuseppe Allamano affermava che, se vogliamo conoscere la
nostra identità, è sufficiente ricordare il nostro nome: "missionari della
Consolata". Missionari che egli ha sognato come persone che andassero incontro alla
gente, qualificate nel campo spirituale, scientifico, culturale e pastorale. Il fondatore
non voleva gente mediocre. Essendo i suoi missionari destinati ad avere come orizzonte il
mondo, esigeva che avessero un cuore aperto alle sue dimensioni, capace di ampie visioni e
di accoglienza verso tutti. Il missionario è colui che va, che cammina. L’Allamano,
però, diceva (con un tocco originalissimo) che non dobbiamo solo camminare, ma correre,
"trottare". Missionari che camminano sempre, come i "samburu" o come i
magi, che non si sono fermati di fronte alle difficoltà; come ha corso la Consolata, per
andare ad aiutare Elisabetta; come hanno corso i cristiani "atleti" ricordati da
san Paolo.
Persone che trottano, dice l’Allamano, come la Madonna faceva
"trottare Gesù" (non so dove l’abbia letto o saputo, ma lui lo dice!). In ogni
caso questo esprime il suo sentimento e il dinamismo richiesto ai missionari della
Consolata oggi. Allora il sogno è che, a 100 anni dalla fondazione dei missionari della
Consolata, quando si sente il peso del tempo, noi vinciamo la tentazione di adagiarci, di
non sapere più correre. Trottare con entusiasmo. Se non lo facciamo, diventiamo inutili.
L’Allamano, nonostante l’età, non è mai invecchiato, perché ha sempre avuto attenzione
a ciò che avveniva al di fuori della sua stanza, a quello che vedeva; ha sempre
conservato l’attenzione ai tempi, ai cambiamenti; non si è fossilizzato, non si è
accontentato di ripetere, non è stato contento delle mete raggiunte, ma ha cercato di
andare incontro alle situazioni, alle necessità. È anche il nostro compito: non
fossilizzarci, non accontentarci di quello che abbiamo compiuto, ma andare oltre, obbedire
al comando di Gesù, prendere il largo, affrontare le situazioni che sfidano la missione,
il vangelo, il bene dell’umanità. E non solo partire, ma partire in comunione.
"L’unità di intenti" è il principio vincente: o si lavora insieme o si
perde tempo. E questo diventa particolarmente evidente oggi in un mondo globalizzato.
Ricordo le parole che il fondatore scriveva, nel 1909, a fratel Benedetto Falda: "La
nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata.
Passeranno gli uomini, cadranno alcune foglie, cadranno i rami secchi, ma l’albero
prospererà e diventerà gigantesco. Io ne ho le prove in mano". Le prove ci sono
ancora. Ce lo conferma anche l’esperienza di tanti nostri fratelli e sorelle che, nel
silenzio di ogni giorno, continuano a portare la "consolazione di Dio tra i più
poveri del mondo". È con questo spirito che vanno accolte le testimonianze di alcuni
missionari della Consolata, rilasciate in occasione del centenario dell’Istituto e
riproposte dal presente "dossier".
p. Gottardo Pasqualetti,
superiore dei missionari della Consolata in Italia
Articolo 2
Mozambico
Tenacemente presenti
"Mi tempestavano di domande:
"Perché rimani? Perché ti preoccupi di noi?".
E poter rispondere nel cuore: "Perché sono cristiano"".
di Franco Gioda (*)
Racconto quello che ho visto in Mozambico, quello che abbiamo vissuto
insieme e si sta vivendo oggi, con il sogno che ci ha guidato in questi anni. Se
togliamo il sogno, non comprendiamo il significato della nostra presenza missionaria nel
paese. Bisogna ricordare e comprendere la storia: il tempo coloniale portoghese,
l’inizio dell’indipendenza nazionale e la rivoluzione comunista, la guerra, la pace e
oggi l’oblio. Dopo il 1975, con la libertà concessa a malincuore dal Portogallo in
seguito ad una lunga lotta, il Mozambico è caduto in un sistema che ha gravato
pesantemente su tutto: il marxismo-leninismo nel suo modello più radicale. Sono seguite
le nazionalizzazioni affrettate, la paralisi del commercio, la fuga degli imprenditori,
l’indottrinamento socialista, la mancanza di libertà minime, il controllo generale
su tutto. Come se ciò non bastasse, ecco la tragedia della guerra civile tra Frelimo
(Fronte di liberazione del Mozambico) e Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), guerra
aggravata da siccità e fame. Di qui l’insicurezza totale. Nel 1992 la pace, firmata
a Roma, con una grande speranza di rinascita.
Oggi, però, il Mozambico rischia di essere dimenticato
dall’opinione pubblica mondiale. Ultimamente il paese è stato ancora oggetto di
attenzione, ma solo a causa dell’alluvione: un momento drammatico e isolato, nel senso che
ha toccato solo una parte della nazione.
Calati nelle situazioni
I missionari della Consolata, che arrivarono in Mozambico nel 1925,
avevano in cuore la formazione impartita dal beato Giuseppe Allamano: quindi una
spiritualità del concreto, del quotidiano. I primi pionieri giunsero nel territorio
senza tanti progetti, ma con una fortissima carica umana e spirituale, con l’ideale di
vivere in mezzo alla gente.
Oggi sono ancora presenti nelle zone più sperdute, dove le persone
sono abbandonate da tutti. Direi che hanno quasi timore della città, anche perché si
cercano i più poveri, con l’idea chiara dello sviluppo-consolazione. Quando il
missionario si cala nella realtà, non fa distinzione tra sviluppo e consolazione:
non ci può essere l’uno senza l’altra, e viceversa.
Con queste premesse, è importante sottolineare alcuni aspetti del
nostro lavoro in Mozambico. Abbiamo sempre cercato di immergerci nelle situazioni
concrete, per dare risposte utili.
La prima è stata la formazione attraverso le scuole: scuole di
arti e mestieri per l’avvio professionale al lavoro. In questo i fratelli missionari
sono stati una benedizione enorme. Naturalmente lo stato portoghese ne ha approfittato:
concedendoci la libertà di insegnamento (nel 1942), si è creato un intenso sviluppo con
il moltiplicarsi di scuole, soprattutto in foresta.
Con il tempo si è capito che, dietro il permesso del Portogallo,
c’era una strategia (non troppo velata) di espandere e rafforzare la colonizzazione.
C’è stato, allora, un momento di ripensamento e di ribellione al sistema con la
tentazione, per i missionari, di abbandonare tutto. Ma, guardando all’interesse della
gente, si è deciso di restare, di non abbandonare le comunità, almeno finché si è
potuto, cioè fino alla rivoluzione marxista-leninista, allorché tutto si è bloccato:
scuole, ministero, attività sociali.
L’unico permesso concessoci era di "essere presenti":
condividere le sofferenze e attese del popolo, aiutare a non perdere la speranza. Questo
fino al momento della pace, della ricostruzione, delle nuove scelte: scelte diverse da
quelle precedenti. Anche per noi, missionari, non più proprietari e gestori, ma
"servi" in aiuto e sostegno alle scuole governative; collaboratori senza
potere, onesti e umili.
C’è stata, con la pace, l’intuizione formidabile dell’università
cattolica. In Mozambico c’era una sola università nel sud. Nel remoto nord del paese,
persino a 3 mila chilometri dalla capitale Maputo, la scuola era solo quella elementare,
con pochissime scuole superiori. L’intuizione di qualche missionario della Consolata è
sfociata nel progetto di una università, che al presente può vantare 1.500 studenti, con
quattro facoltà in tre città del nord. Una carta vincente.
Con grande "nostalgia"
Un altro aspetto del nostro lavoro missionario attuato in questi anni,
ma soprattutto in quelli della rivoluzione e della guerra, è stato la vicinanza con la
gente.
La prima "strategia" del governo comunista fu di isolarci, di
tagliarci fuori, di fare sì che non avessimo più alcun contatto con la popolazione. Ecco
la concentrazione in determinati posti, con missionari derisi ed espulsi. Per visitare le
comunità dei cristiani (fatica e denaro a parte), erano necessari permessi su permessi,
controlli meticolosi, attese estenuanti, limitazioni. Da qui ancora l’interrogativo:
che facciamo? Abbiamo cercato di resistere e di non mollare, sfruttando ogni occasione che
ci veniva concessa. Le visite alle comunità avvenivano con il rappresentante del partito
comunista alle calcagna, che controllava tutto. Ma (fatto inaspettato) il rapporto con la
gente è diventato più forte, più coinvolgente. In alcune comunità dura tutt’oggi.
I missionari di Cuamba, ad esempio, facevano pervenire (attraverso
persone) delle schede catechetiche da compilare nei villaggi; gli animatori locali
rispondevano alle domande, descrivevano i fatti, segnalavano gli esempi, e inviavano tutto
per iscritto al missionario, che ci rifletteva e programmava il lavoro pastorale.
È nata così una chiesa "ministeriale", dove i catechisti e
gli animatori facevano quasi tutto. Grazie a loro, le comunità resistevano alla
propaganda atea, vivevano nella fede e, addirittura, si moltiplicavano. In luoghi dove le
comunità, prima della rivoluzione e della guerra, erano 10-15… sono diventate 20-25. Ne
è derivata anche una "purificazione" per i missionari troppo legati
ancora alle strutture, ai metodi del passato, forse pure al governo. In quel tempo si è
capito che l’unico "buon pastore" è il Signore: è Lui che pascola il
gregge, al di là del nostro molto o poco lavoro. Un terzo aspetto della nostra presenza,
oltre alla formazione e condivisione di vita, è stata la testimonianza. Il Mozambico, con
la guerra, ha avuto circa 1 milione di morti, 2 milioni di rifugiati all’estero (nei
campi-profughi del Malawi e dello Zimbabwe), 5 milioni di sfollati interni… Tutto il
paese era in gravissime difficoltà. Poi la guerriglia, che sequestrava, rubava e
bruciava, seminando morte e distruzione anche fra i missionari.
Ma siamo rimasti. Abbiamo incoraggiato, testimoniato la speranza,
nonostante continui segni di morte. Forse ho portato anch’io un po’ di
consolazione, e solo con la testimonianza della mia presenza. Quante volte, dopo aver
viaggiato in bicicletta di notte, arrivavo ad un villaggio e mangiavo quello che
c’era. Mi tempestavano di domande: "Padre, perché sei qui? perché rimani?
perché ti preoccupi di noi?". E poter rispondere nel cuore: "Perché sono
cristiano… Per amore e nel nome di Gesù Cristo".
Quello che ho fatto io l’hanno fatto molti altri missionari, ognuno nel
suo stile, ma tutti con la stessa passione, la stessa voglia di essere
"testimoni" di Qualcuno per cui abbiamo dato la vita. Un po’ come Maria, sotto
la croce e accanto al figlio in agonia, ma senza poter fare nulla. Solo esserci!
Oggi, dopo gli accordi di pace dell’ottobre 1992, lo sforzo è di
aiutare il paese a vivere gli ideali stupendi conquistati con sofferenza nel periodo buio
del passato. Ricordare i valori appresi, il volto nuovo delle comunità cristiane, la
voglia di continuare a crescere nella formazione umana e cristiana… Cercare di non
cadere nelle nuove trappole, come quella degli aiuti facili, della delega in bianco,
dei miraggi del benessere occidentale che generano divisioni, gelosie, discriminazioni,
povertà umana e morale.
Se volessi riassumere tutto, potrei farlo con la parola portoghese "saudade",
che è intraducibile; indica nostalgia e rimpianto di alcune situazioni, anche di
sofferenza. Credo che la chiesa in Mozambico senta "saudade" del tempo di
persecuzione e guerra. Un tempo tragico, certo, ma durante il quale in cui i cristiani
erano aggrappati alla parola di Dio. Non avevano nulla, ma erano luce. Una comunità di
testimoni e martiri (come i 21 catechisti trucidati a Guiúa), presenza viva di Cristo.
(*) Padre Franco Gioda, missionario in Mozambico durante il
colonialismo, la rivoluzione comunista, la guerra civile e il raggiungimento della pace.
È stato anche superiore dei missionari della Consolata operanti nel paese.
Articolo 3
dossier Kenya
Dal Kenya all’Ecuador
Dialogo con le culture
"La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,
ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti".
di Giuseppe Ramponi (*)
Quando operavo in Kenya (nel distretto dei samburu, diocesi di
Marsabit), ho potuto dialogare con vari rappresentanti di etnie vicine, i frequentatori
della missione, maestri e anziani che diventavano amici. Avvertivo il bisogno di capire
"la vita samburu": come era organizzata la tribù negli aspetti sociali,
educativi e religiosi. Il popolo viveva la cultura senza essee protagonisti: la vita di
ogni giorno era guidata dal capo-famiglia, in comunione con gli altri che formavano la
manyatta, il recinto.
Gli sperimentati missionari dicevano che il dialogo era previo e
necessario per l’evangelizzazione. E si doveva cercare una piccola "crepa"
dove mettere il dito e, allargandola, cominciare la predicazione; poi, come fa la sonda,
esplorare e capire se c’era posto per la nostra fede. Se ci lasciavano entrare, era nostro
compito costruire subito la chiesa, con messe, preghiere, canti, sacramenti, catecumeni.
Era il metodo di allora. Oggi, dopo tanta riflessione e polemiche durate anche anni, non
si è d’accordo su tutto. Io sono disposto ad accettare tutti i punti di vista e guardo da
ogni angolo, escluso quello "ottuso".
La cultura della vita
Un cambio radicale nella diocesi di Marsabit avvenne all’inizio
del 1970, quando il vescovo Carlo Cavallera accettò il parere dei missionari, che
suggerivano più impegno per la cultura: ricerca e studio di usi e costumi e conoscenza
della lingua tribale, e non soltanto di quella nazionale (swahili). Io venni scelto per il
distretto dei samburu e, nello stesso tempo, mi nominarono responsabile delle scuole
(Education Secretary). Cominciava un sogno ad occhi aperti.
Nei due settori educativi comuni a tutti i popoli (cultura e
istruzione) c’era finalmente l’opportunità di lavorare ad un progetto che mi stava
molto a cuore: elevare a dignità la cultura e farla entrare nella scuola come
educazione-base (per divenire persone) e completarla con l’istruzione (per
diventare cittadini). La scuola a Maralal era diventata un modello e un centro per
sincerare, identificare e dare dignità alla cultura locale e, allo stesso tempo, dotare
la persona di tutte le qualità garantite dai diritti umani e dal vangelo. Speravo, in
quel contesto, che la persona avrebbe saputo parlare e chiedersi: perché, come, quando,
dove, con chi?… Mi piace inorgoglirmi e affermare che la scuola era un paradigma nel
progetto storico del popolo samburu.
Con la mia partenza, l’impostazione cambiò, perché i successori
erano pratici: non volevano teorie, ma fatti pieni di numeri e guadagni.
Lasciato il Kenya, raggiunsi la Colombia. Nel 1983 ero a Cartagena de
Indias. Pensavo di lavorare con i negri, per cercare i legami con l’antica cultura
africana e dare il brivido della dignità originale a chi era stato spogliato di tutto. La
casa accogliente e comprensiva doveva essere la chiesa. Doveva essere pure un
laboratorio di ricerca e ricostruzione, partendo da qualsiasi calore ancora vivo,
nonostante l’immensa cenere. Era una sfida. Fallì, perché i responsabili locali si
sforzavano solo di credere nelle verità divine, non nella Verità.
Nel 1987, dopo due anni passati nel Caquetá (importantissimi, perché
mi introdussero nel mondo indigeno, che mi mancava), arrivai in Ecuador, con gli indios in
lotta, portabandiera delle rivendicazioni culturali e organizzative proprie di un popolo
oppresso. In Ecuador sono diventato "pellegrino" con gli indios di lingua
quichua nella loro solitudine, angustia, indignazione ed ira. La gente era ai margini già
al tempo degli incas, diventando solo lavoro bruto e a buon mercato dai conquistatori
spagnoli in poi. Ma quando a Riobamba arrivò il vescovo Leonida Proaño, incominciò il
cammino di riscatto ed emancipazione. Ora l’indio ha un suo progetto di vita e
rivendica la propria storia.
Ho imparato di nuovo tutto e ho abbandonato un po’ la cultura dei
libri per abbracciare quella della vita reale e quotidiana. Oggi mi dedico anima e corpo
alle scuole, dove studiano i bambini indios, e voglio rendere la sede bella, idonea e
qualificata. L’educazione offrirà le "armi" per la "riconquista".
Lavoro anche nella pastorale indigena, con un buon numero di
catechisti: tutti volontari e tutti della base, popolo-popolo. Con essi faccio la lettura
critica della realtà comunitaria in trasformazione, per decifrare gli "enigmi
culturali", proponendo e avviando l’aggancio con l’utopia del Regno di Dio,
l’unica ragione per essere missionari e risposta ancora sempre valida per dipingere di
speranza il progetto storico dei popoli.La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,
ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti. Mi piace ragionare con i
collaboratori, specialmente maestri: il discorso è sempre interessante. La lettura di
segni, immagini, miti, gesti e relazioni non si può fare alle spalle del gruppo
interessato. Però è vero che c’è bisogno dell’"osservatore esterno". E
sono ancora convinto che è indispensabile il cammino indicato da Gesù Cristo e, più che
mai, sono attuali i suoi segni: chiavi per aprire, occhi, orecchie, bocche, mani, cuori
e… sepolcri.
L’innesto sull’albero buono
La scena ecclesiale mondiale ci ha regalato parole "chiavi".
Il Concilio ecumenico Vaticano II ci ha dato la parola "dialogo"; la
Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellín (1968) "liberazione",
quella di Puebla (1979) "stare con i poveri" e, con la Conferenza
ecclesiale di Santo Domingo (1992), entra nella storia l’esigenza dell’"inculturazione".
In America Latina essa diventa un imperativo per seguire Gesù Cristo nella solidarietà
verso i volti umani sfigurati.
In Ecuador non parliamo di dialogo con le culture, ma di grido della
cultura e clamore persistente che esige spazio e riconoscimento nel palazzo della
politica e nella chiesa. La cultura india vuole entrare nella chiesa in nome del
cristianesimo che, bene o male, è diventato suo e si presenta "inculturato"
nell’arco di 500 anni. E si vuole pensare, parlare e agire nella chiesa con una
lingua propria e categorie di pensiero proprie.
Non si accontenta di riti e segni, ma si chiede il diritto di studiare
la filosofia partendo dalla propria cosmovisione, di costruire una teologia muovendosi dal
proprio progetto storico. È un’inculturazione speciale, che richiede la caduta
della chiesa monoculturale e reclama il diritto di sedersi accanto alle altre culture,
già canoniche, accedendo con diritto completo alla piena cittadinanza ecclesiale. Ora
sogno e lavoro per un "innesto culturale" nella chiesa, affinché questa capisca
e utilizzi tutte le cose buone che la cultura ha, rivedendo e rettificando la struttura
monoculturale che, finora, ha reso "visibile la grazia" con parole, concetti
espressioni liturgiche e dottrinali tratte da un solo vocabolario.
È l’idea sottile di san Paolo (Rom 11, 11-24). Di solito si innesta il
ramo buono nell’albero selvatico. Il missionario insegna, invece, ad innestare la parte
selvatica nell’albero buono. Quindi diventa logica l’azione di inculturare la chiesa,
ossia innestare la cultura indigena nella chiesa.
Paolo vedeva i "pagani selvatici" innestati nell’"albero
buono" del popolo dell’alleanza, cioè la chiesa. E mi diverte l’idea di innestare
gli indios nella chiesa. Mi fa ricordare i barbari, che sconsacrarono l’impero romano, e
immagino lo stupore nel vedere questi "rambo" entrare nelle basiliche, un
po’ chiassosi, e chiedere ascolto. Che cosa impedisce che nel 2001 gli indios entrino
nella loro chiesa, parlino, cantino, adorino e si salvino? E questo senza chiedere in
prestito simboli, ideogrammi, concetti di vita, definizioni di sapienza e conoscenza, di
intelletto e fortezza, di consiglio, pietà e timor di Dio? Passi più lunghi della gamba?
Non me ne sono mai invaghito. Ho sempre cercato di partire da quello che è possibile.
Prima di arrivare alla teologia, c’è la pastorale, che è un lavoro per costruire la
comunità di fede, speranza e carità. Dopo, basta un niente per dire: è la chiesa. Il
vangelo è spirito, forza, visione, una visione di vita che parte da Gesù. Ma gli hanno
dato corpo, segni, sensi, oratoria, logica, parola, ragionamento, mezzi comunicativi. Se
nel passato talora (per non dire spesso) c’è stato bisogno di discutere e disceere la
vera teologia, per definire che cosa si doveva insegnare e credere, ciò significa che
l’interpretazione non è stata subito unanime. E perché non oggi? Anche i popoli
dialogano, ragionano e cambiano. In Kenya i kikuyu (descritti da padre Costanzo Cagnolo in
una celebre monografia di 68 anni fa) sono cambiati; non operano più nei villaggi, nei
campi e nei mercati come allora. Anche in Ecuador l’impero inca non c’è più. Ma c’è
Pilatuña e ci sono io. Pilatuña vive la cultura e io predico il vangelo. Però con
questa differenza: Pilatuña vive la cultura e non sa predicarla; io so forse annunciare
il vangelo, ma faccio molta fatica a viverlo.
(*) Padre Giuseppe Ramponi, missionario in Kenya, Colombia e, oggi,
in Ecuador. Ha scritto: "Preghiere samburu", Consolata Fathers, Nairobi (pro
manuscripto); "Missionari e indios. Sentire la vita", Edizioni Siaca, Cento
(FE), 1999.
Articolo 4
dossier Congo
Repubblica democratica del Congo
Tra i fuochi della guerra
Una guerra con 2 milioni di morti dal 1998.
Alta la tensione: "Siamo tutti uguali, però loro…".
Ma, con il missionario, si dice pure: "Se tu resti…".
di Santino Zanchetta (*)
La mia è una piccola testimonianza, con qualche particolare
drammatico, che giustifichi perché siamo rimasti nella Repubblica democratica del Congo,
nonostante la guerra. Lo faccio a nome di tutti i missionari: quelli che sono rimasti per
scelta o perché costretti… e che hanno anche dato la vita. Parlo della guerra vissuta
(dalla gente e dai missionari), per rispondere alla domanda: perché restare in tale
contesto? Recentemente il Congo ha subìto due guerre successive; la seconda è scoppiata
nell’agosto del 1998 ed è tuttora in corso.
Per noi, missionari, guerra sono i bombardamenti con armi
pesanti, quando le bordate non sono mai precise, né indovinate, né tanto meno…
chirurgiche. Le bombe cadono ovunque, perché il nemico da perseguire non ha un campo
preciso e occupa generalmente i quartieri popolari. Noi abbiamo avuto la fortuna di
sopravvivere, mentre 2 milioni di persone sono state uccise.
Guerra sono gli scontri, quartiere per quartiere, con gente che fugge e
cerca disperatamente rifugio; con soldati che, aspettando l’evoluzione degli avvenimenti,
si danno al saccheggio, rubando tutto il possibile, forse per appagare la propria fame o
per rifarsi dei salari mai ricevuti.
Guerra è l’odio verso i nemici e i loro alleati: un odio
alimentato dalla stampa, dai discorsi, dai canti e ritoelli, ma anche dalla sofferenza
di chi ha dovuto patire fame, lutti, atrocità, privazioni di medicine, luce, acqua.
Guerra è pure l’Aids, trasmesso (consciamente e inconsciamente) dai soldati e vissuto con
terrore da parte delle vittime.
Guerra è la rabbia contro la povertà mal sopportata (e ciò
spiega i saccheggi e furti), sfogo del tribalismo in atto.
Tasselli di un mosaico
In questo quadro fosco, noi missionari abbiamo vissuto la guerra
insieme alla gente. Con tensione, per avvenimenti che non hanno mai fine; con terrore, per
ciò che potrà ancora capitare, senza sapere quando e come; con silenzio, ignorando
assolutamente cosa fare per proteggersi o proteggere la popolazione. Con paura incessante:
della morte, della tortura, del sequestro, dell’isolamento, della mancanza di
comunicazione e informazioni.
Guerra è stata anche, per noi, la partecipazione al dolore del popolo,
superando il voltastomaco nel vedere persone bruciate vive con la tecnica del
"pneumatico sui corpi", pestate con il mattarello del mortaio. E poi i
ripetuti saccheggi a missioni, parrocchie, seminari, conventi, sotto la minaccia delle
armi; obbligati a caricare tutto sulle autoblindo dei militari e vederle partire.
In guerra, però, non sono le lacrime che salvano, ma come si affronta
la situazione, soprattutto per noi missionari, divenuti punti di riferimento. Abbiamo
vissuto ogni sorta di sopruso; siamo stati anche feriti nei sentimenti più profondi: come
uomini, come stranieri, come sacerdoti, suore e consacrati. Sorgono tante domande, tutte
cariche di angoscia: perché restare nel paese? Perché amare la gente? Perché, dopo
tutto quello che abbiamo vissuto e visto, dobbiamo credere che la nostra presenza abbia
significato e valore?… Perché, invece, non partire, in attesa di tempi migliori e più
sicuri? La mia risposta (mentre la guerra continua) non è né definitiva né esaustiva:
è un insieme di piccoli tasselli, come in un mosaico.
Il primo motivo che, come missionari, ci fa rimanere è l’affetto,
la parte umana di noi. Siamo vissuti per tanti anni insieme: abbiamo pregato e partecipato
al dolore comune nei funerali, alle difficoltà materiali e spirituali; abbiamo
chiacchierato a lungo visitando le case e prendendo in braccio i bambini; abbiamo sognato
iniziative comuni di sviluppo. La nostra esistenza è intimamente legata a quella della
gente.
Date queste realtà, chi ha il coraggio di spezzare i legami,
abbandonare l’amico nel dolore o nella lotta per la sopravvivenza? La vicinanza fratea
infonde coraggio ad una comunità disorientata, la fa sentire amata e valorizzata.
"Se tu resti – mi sento dire -, significa che noi siamo importanti, ci vuoi
bene e sei uno di noi".
Il secondo tassello del mosaico è più profondo: dipende dalla stessa
missione che ci vincola, senza sconti, alle comunità cristiane. Quali che siano le
circostanze (abbondanza, penuria, gioia, pericolo, gratitudine o indifferenza), il vangelo
della carità (cioè il dono di sé) deve essere proclamato in ogni situazione. Pertanto la
missione non è una passeggiata occasionale, una manciata di emozioni che passano, ma
condivisione di vita, costantemente e concretamente.
Un terzo motivo: la nostra presenza deve diventare segno di una cultura
di pace contro ogni logica della guerra, facendo capire che, nonostante la violenza,
è la frateità che deve reggere la vita… Attraverso riflessioni, incontri e gesti di
carità, il missionario approfondisce il vangelo con l’uomo della strada, provocando
(non senza fatica) pensieri di riconciliazione. Un esempio: furono fatti prigionieri dei
rwandesi, ed era "normale" insultarli, denigrarli e considerarli animali per
tutte le sofferenze che avevano provocato… Nella nostra riflessione, in missione,
abbiamo affrontato il tema della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che
supera l’appartenenza ad una tribù o stato. La riflessione ha incontrato molta
resistenza… perché "è vero che siamo tutti uguali, loro però…". Ciò
nonostante, dopo reazioni anche violente, siamo riusciti a raccogliere cibo e soldi per
andare a trovare i prigionieri "nemici", con un atteggiamento di pace e perdono.
Preparando il futuro
È importante rimanere e, soprattutto "come" si rimane. Non
è la presenza fisica che gioca il ruolo determinante, ma il significato che acquista e
l’azione quotidiana: cioè la vicinanza che faccia crescere la comunità cristiana,
che infonda speranza (ma anche soluzione) nei problemi concreti, che educhi alla non
violenza e al perdono.
In frangenti drammatici (come è avvenuto nelle nostre missioni del
Congo settentrionale) a volte è più utile la "partenza momentanea", perché il
missionario, restando, può mettere a repentaglio la vita della sua gente. Spesso,
infatti, "il bianco" è ricercato per quello che possiede o ha nascosto; e, per
sapere e trovare qualcosa (macchine, soldi, viveri), si può anche ricorrere alla tortura
delle persone. In questi casi, forse, la soluzione migliore è l’allontanamento
temporaneo, per permettere alla gente di vivere senza subire ulteriori pressioni e
violenze.
I missionari non sono eroi; non sono nati per questo (io, almeno);
però la presenza-missione li interpella e si esprime "con" la gente in tante
piccole cose.
Infine il nostro restare è un investimento per il futuro. La
situazione, anche pastorale, esige nuove visioni e prospettive; suppone che i missionari
lavorino non soltanto cercando di "sopravvivere" oggi, ma guardando alle
generazioni future. La guerra, purtroppo, non finirà domani e la ricostruzione del Congo
non avverrà dopodomani. I giovani, specialmente, devono saper convivere con la violenza,
stimolati però a cercare valori nuovi, umani e cristiani, per costruire un futuro di pace
per il paese. Ecco perché, in barba alla guerra (o, meglio, a motivo di essa), il nostro
gruppo missionario di Kinshasa ha voluto offrire un segno "forte". Prendendo lo
spunto dalla conferenza "Il coraggio dell’annuncio", abbiamo aperto una nuova
parrocchia nella "periferia più periferia" della capitale, dove bisogna
incominciare da zero. È una testimonianza di chiesa, di vicinanza missionaria, che
esprime, a dispetto della scarsità di mezzi e personale, la fiducia di poter dare un
volto nuovo al Congo. Noi siamo sempre "i missionari della Consolata".
(*) Padre Santino Zanchetta, missionario in Zaire-Congo. Il paese,
spaccato in due, è in guerra dal 1998: le vittime superano i due milioni. La separazione
incide anche sui missionari della Consolata, costituitisi in due gruppi che non possono
incontrarsi.
Articolo 5
dossier America Latina
America Latina
L’indio al centro
"Per gli indios, noi missionari non siamo importanti:
con la chiesa o senza la chiesa, faranno il loro cammino. Siamo noi che
abbiamo bisogno di loro".
di Antonio Bonanomi (*)
È importante chiarire subito un "dettaglio": l’indio non
esiste. Esiste come termine, non come realtà; nessuno degli indigeni dell’America si
riconosce come indio, perché è una parola sbagliata; è un "errore" di
Cristoforo Colombo, che pensava di avere raggiunto le… Indie!
Pertanto meglio sarebbe parlare di popoli indigeni o, come si
dice in Argentina, di popoli aborigeni, che occupano un determinato territorio fin
dall’"inizio": quindi padroni della loro terra e storia. Tuttavia fare la
scelta degli indios non è una moda; significa incominciare a guardare il mondo non
dall’occidente, da noi, ma da loro. Non solo il mondo, ma anche la chiesa sarebbe
più povera senza la loro presenza, perché gli indios apportano una grande ricchezza, con
una saggezza, una storia e un progetto di vita diversi. Siamo noi che abbiamo bisogno di
loro, più che loro di noi. Qual è il panorama degli indigeni nell’America Centrale e
Meridionale? Sono circa 45 milioni coloro che si dichiarano indigeni, anche se credo che
siano il doppio, perché la maggioranza dei popoli che vivono in America hanno una
percentuale di sangue indi al 20-60%; quindi il volto indigeno è molto più comune di
quanto appare nelle nostre mappe. Essere indigeni in America è stato un motivo di
vergogna per tanto tempo e molti si sono mimetizzati per poter sopravvivere! Si passa dal
70-80% della Bolivia e del Guatemala, allo 0,2% del Brasile, all’1% del Venezuela, al 2%
della Colombia. Quindi c’è una diversità di presenza enorme.
C’è pure una diversità di situazioni: popoli che vivono ancora come
cacciatori, raccoglitori, pescatori e popoli che sono alle soglie della modeità con i
vantaggi e gli svantaggi che questo implica. Oggi questi popoli stanno facendo "la
riconquista" della loro storia, cultura, territorio.
Oggi il grande problema in America è il non riconoscimento della
propria identità. Il futuro dirà chiaramente che, se l’America vorrà diventare un
continente con un volto, una storia e un progetto originali, dovrà necessariamente
riscoprirsi plurietnico e multiculturale: latina, india, nera. Una sfida enorme, ma
anche la ricchezza d’America.
Il quinto sole
Ci sono tre grandi tappe nella storia dei popoli indigeni. La prima è
il tempo che precede la conquista, e non è conosciuta. Tutti pensiamo che la storia
d’America sia incominciata quando è arrivato Colombo, ma quei popoli "scoperti"
avevano già migliaia di anni di civiltà, di cui è rimasto solo qualche rudere, alcune
iscrizioni e pochi reperti nei musei.
La seconda tappa della storia comincia con "la conquista".
Per noi il 1492 è una data gloriosa, perché spalanca all’Europa un mondo
sconosciuto; per gli indios è l’inizio della colonizzazione, del genocidio e della
"scomparsa", non solo fisica, ma soprattutto culturale, di identità.
Verso gli anni ’70 incomincia una terza tappa per i popoli
indigeni: è quella della "riconquista". Vissuti finora ai margini,
vogliono riappropriarsi della loro storia e identità; vogliono essere di nuovo
protagonisti e signori della loro terra espropriata. Per questo il terzo millennio, per
l’America, sarà il millennio degli indigeni e dei neri. Oggi il grande problema
americano è il non riconoscimento della propria identità, bensì l’essere un
continente senza identità.
La storia unisce i popoli indigeni, anche se la cultura a volte li
differenzia; e li unisce il progetto del futuro che sentono come proprio: gli indios
vivono dell’utopia, credono e sono convinti che sorgerà il "quinto sole", il
nuovo impero degli indios in America.
Se la società latinoamericana non accetta la sfida di assumere la
cultura e il progetto indigeno come radici della sua storia, difficilmente il continente
incontrerà la pace, perché non s’incontrerà con se stesso.
Alle radici
Noi missionari della Consolata in America Latina abbiamo compiuto un
lungo cammino per giungere alle… radici. Quando siamo partiti per il continente,
l’abbiamo fatto con un progetto particolare: incontrare l’America degli
emigranti e, quindi, la ricerca-scoperta di paesi o quartieri totalmente veneti, trentini,
siciliani, calabresi… tutta gente che era partita dall’Italia per cercare da
mangiare e sfuggire alla miseria.
La prima tappa dei nostri missionari è stata quella di stabilirsi dove
c’erano gli europei; arrivando, si sono sentiti più o meno a casa loro; non hanno
avvertito il cambiamento provato dai missionari in Africa, dove il "salto" era
più evidente.
Poi c’è stata la seconda tappa, a volte più lunga e a volte più
breve. Il fatto di essere missionari li ha resi inquieti e si sono, allora,
aperti alle zone più povere e abbandonate: il Chaco in Argentina, Roraima in Brasile, il
Caquetá in Colombia… Ma l’indio era sempre invisibile. Se si prendono in mano i
documenti ufficiali (come le Conferenze regionali) fino agli anni ’70, non si parla
mai di indios. È come se uno prima vede i rami, poi il tronco e, solo alla
fine, le radici.
Soltanto in una terza tappa i missionari e le missionarie della
Consolata sono arrivati agli indios. All’inizio è stato come giungere dal centro alla
periferia; poi si sono resi conto che giungere all’indio non è arrivare alla periferia
d’America, ma alle sue radici. A São Paulo, in Brasile, si contano 600-700 mila
giapponesi, una delle culture asiatiche più ricche; si trovano più cattolici giapponesi
in Brasile che nello stesso Giappone… In Colombia si incontrano pure turchi o colonie
libanesi. Le colonie sono come rami, che non hanno in sé la vita; questa viene dalle
radici. C’è anche il tronco, che è il mondo dei meticci, della colonizzazione: un
mondo inquieto, incerto, disposto a tutte le avventure. E, infine, le radici, che sono i
popoli indigeni.
Per gli indios, noi missionari non siamo importanti, né necessari: con
o senza la chiesa, essi faranno il loro cammino. Siamo noi che abbiamo bisogno di loro.
Non incontreremo mai le radici, né costruiremo una chiesa che sia davvero cattolica,
cioè con una pluralità di valori, senza gli aborigeni. Dobbiamo andare incontro agli
indios, perché sono "diversi"… La loro è una cultura che privilegia lo
spirito sulla materia. Per l’indio tutto è vita.
L’uomo può diventare animale o pietra… Noi occidentali non siamo il
centro di tutto, perché, avendolo fatto per ragioni di profitto, stiamo rovinando tutto.
È la tragedia dell’homo homini lupus, che si ripete.
Poi c’è la comunità. L’indio non esiste come
"individuo"; non dice "io", ma "noi"; si sente parte di un
corpo. Se volete annullare un indio, portatelo fuori dalla comunità: non esiste più, è
un uomo morto…
Come missionari, la nostra funzione è: stare con gli indios, sorretti
dal vangelo, per rafforzae l’identità. Nel momento presente essi devono
fronteggiare ad una sfida grande: unire, in una sintesi nuova, la loro storia e tradizione
con… altre realtà, in un processo di interculturalità. È questo il nostro compito di
missionari, membri di una famiglia ormai intercontinentale: non richiudere gli indios come
oggetti da museo, ma rafforzarli, aprendoli al dialogo interculturale; perché la loro
ricchezza non solo sia conosciuta, ma diventi valore per altri. Ricordo due figure
significative: la prima è quella di padre Giovanni Calleri, il primo missionario della
Consolata ucciso (nel 1968), per avere amato gli indios del Brasile; la seconda riguarda
un altro sacerdote, padre Alvaro Ulcué, colombiano, anch’egli ucciso (nel 1984),
perché si era schierato dalla parte degli indios. Questo dice qualcosa: che la scelta
degli indios in America Latina è anche scelta di martirio. Ciò vale pure per il nostro
istituto. È bello sapere che un missionario della Consolata colombiano, padre Ariel
Granada, sia morto martire in Mozambico e un italiano abbia avuto la stessa sorte in
Brasile… Questo "filo rosso", che caratterizza la storia delle missioni, lega
anche la storia dei popoli indigeni.
(*) Padre Antonio Bonanomi, missionario fra gli indios "nasa"
della Colombia. Dopo una significativa presenza in Italia come professore e formatore, ha
raggiunto l’America Latina.
Articolo 6
dossier Kenya nord
Kenya del Nord
Samburu a rischio
"Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca
di realizzarsi fuori della comunità… La popolazione
è "in guerra" per divenire più potente e ricca".
di James Lengarin (*)
Io sono un samburu. Appartengo ad un popolo nomade di pastori nel Kenya
del nord. I samburu sono un ramo dei masai (eravamo "cugini"): il 95% della
lingua, degli usi e costumi sono uguali, anche se non mancano le diversità. I samburu
sono circa 150 mila e vivono su una superficie di 20 mila chilometri quadrati. Un
territorio vasto, ma povero, perché senz’acqua. Quando ritorno a casa per trovare i
parenti, non li trovo mai sullo stesso luogo, perché, essendo pastori nomadi, devono
spostarsi alla ricerca di acqua e pascoli erbosi.
Mucche al centro
La società samburu è formata da otto clan (o insieme di famiglie), a
loro volta divisi in due: "vacche nere" e "vacche bianche". Il nome
non deve stupire, perché la nostra vita ruota attorno alle mucche. Con la loro pelle, ad
esempio, si confezionano vestiti, stuoie, tabacchiere, sandali: tutto proviene dalla
mucca. Essa è il centro di tutto, non la… new economy!
La nostra è anche una società gerontocratica, perché tutte le
decisioni vengono prese dal "Consiglio degli anziani": solo gli anziani, non
altre persone; nonne e mamme possono dire la loro, dare un parere, ma la decisione finale
spetta al Consiglio! È composto da tutti i capifamiglia, che devono dialogare e restare
uniti per il bene del popolo. La vita dell’individuo passa attraverso vari momenti di
crescita (classi di età) e diversa è la responsabilità sociale: il bambino deve restare
bambino e il guerriero… guerriero. I lavori sono organizzati secondo i ruoli: i ragazzi
pascolano i vitellini o le caprette; i guerrieri il bestiame più grosso e difendono la
società dai nemici; gli anziani guidano la vita attraverso il Consiglio, decidono su riti
ed iniziazione, controllano i matrimoni; le donne costruiscono le dimore, mungono il
bestiame, procurano acqua, legna e cibo per tutti; esse sono al centro della famiglia e
rispettate nel loro ruolo.
In ciò concee la vita religiosa tradizionale, i samburu credono in
un unico Dio, Ngai, che rimanda non solo ad un essere supremo, ma significa pure
"pioggia" e "cielo". Nell’acqua c’è la vita. Il nostro
è un Signore che dona la vita attraverso la pioggia. E può manifestarsi in vari luoghi:
in una casa, sotto la pianta, sulla montagna, dove si prega, si offrono sacrifici, si
invocano le benedizioni (che sono quasi infinite). Si prega mattino e sera.
I samburu tradizionali sono molto lontani dalla fede in Gesù Cristo.
Il messaggio cristiano è di difficile accettazione. Un uomo-Dio: come è
possibile? I missionari devono faticare non poco per comunicare questa "buona
notizia", sconvolgente per i samburu.
La vita sociale è legata ai periodi di siccità e pioggia; quando
questa manca, la gente sta male, gli animali muoiono e la vita si ferma. Per questo Dio è
pioggia, cioè cibo, carne, sangue, latte: ciò che garantiscono gli animali.
Negli ultimi tempi i samburu sono cresciuti di numero, ma la qualità
dei pascoli è scaduta. Le frequenti siccità e carestie hanno costretto la gente ad una
maggiore dipendenza da cibi estei, come riso, polenta… Tutte cose che prima non
mangiavano; ora, invece, ne fanno uso per sopravvivere. Al presente dipendono anche dal
governo nazionale e dagli aiuti stranieri.
I samburu sono stati a lungo "fuori dal mondo". Quando in
Kenya c’erano i coloni inglesi, alla gente non era permesso di lasciare il territorio. È
rimasta, dunque, isolata per parecchio tempo, divenendo un problema per i colonizzatori,
che faticavano a concepire e dominare una società… senza capo, in quanto tutto è
determinato dal Consiglio degli anziani.
I missionari della Consolata ebbero i primi contatti con i samburu nel
1946, allorché padre Carlo Andrione giunse a Maralal per visitare alcuni amici kikuyu.
Così è iniziato l’avvicinamento, con qualche scuola.
La prima missione sorse a Baragoi nel 1951; vi era anche un centro per
ragazzi, una scuola, un dispensario; il tutto con la presenza delle suore. Fu un passo
molto importante per la nostra storia. I missionari osservavano, imparavano dalla gente,
dialogavano con gli anziani. La scuola è stata l’iniziativa più "utile",
come quella di Wamba e l’omonimo ospedale: un’oasi nel deserto, con medici che
arrivano dall’Italia.
Accennando ai missionari, è doveroso ricordare i confratelli martiri:
padre Michele Stallone ucciso nel 1965 e padre Luigi Graiff nel 1981. Nel 1998 cadde anche
padre Luigi Andeni. Missionari uccisi in un clima di "guerra", mentre essi
aiutavano in "pace" la gente e portavano cibo ai bisognosi.
L’antenna sulle capanne
Contese ce ne sono sempre state nel nord del Kenya, soprattutto fra le
tribù. Noi samburu, ad esempio, non mangiamo con i turkana, perché ce lo vieta la
tradizione che abbiamo ereditato dai nostri padri. Ricordo anche i bellicosi ngorokos e le
azioni di banditismo dei somali.
Ma ben altri sono gli scontri con operazioni tipicamente militari; sono
soldati che combattono altri soldati. E lo stato centrale ha le sue responsabilità.
Un proverbio recita: "Se chiudete la bocca al popolo, ne armate la
mano". Ecco allora che la lotta nel nord del Kenya è diventata una "guerra
civile". Lo stato, invece di garantire alla gente sicurezza e speranza di
vita, mette a disposizione fucili. Una nota preoccupante nei conflitti samburu è
la "giovinezza": la violenza è diventata un modo di vivere per i giovani; sono
ragazzi disoccupati che non hanno nulla da perdere e, di conseguenza, non posseggono né
etica né disciplina. Ma non si tratta di lotte tribali per impossessarsi di mucche o di
sorgenti d’acqua, bensì di banditi organizzati per un fine politico. Tra i rovi del
deserto si aggirano uomini con fucili a tracolla. In tale situazione la cultura samburu è
davvero a rischio. Finora i samburu, pur cambiando, hanno sostanzialmente conservato
l’identità culturale (tanto da essere subito riconosciuti) e il senso di libertà.
Invece altri gruppi hanno subìto in modo violento le spinte del cambiamento: coinvolti
nel processo di urbanizzazione, hanno perso le loro radici.
Quindi i samburu potrebbero rappresentare un esempio di mutamento
positivo (persino nella religione), conservando tuttavia i tratti culturali fondamentali.
Alcuni sono diventati cristiani, lavorano in città, dirigono piccole aziende, ma restano
samburu. Inoltre si sostengono a vicenda. Ognuno ha diritto alla propria libertà di
pensiero, purché non vada contro il bene comune. Al centro c’è la persona: tutto ruota
attorno ad essa e alla vita. Questo almeno fino a ieri.
Oggi però anche i samburu sono a rischio, perché c’è il miraggio
del benessere. Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca di realizzarsi
fuori della comunità. Il problema grave è che, al presente, la popolazione è "in
guerra" per divenire più potente e ricca. Quando un giovane samburu lascia il
villaggio per motivi di studio o lavoro, al ritorno a casa non si trova più a suo agio,
non è più uno di "loro": non va ad attingere acqua con i compagni, non segue
il gregge al pascolo. Forse il nuovo comportamento è determinato dal fatto che il ragazzo
non ha ricevuto l’educazione tradizionale. Infatti alcuni giovani non ascoltano più gli
anziani (che sono emarginati); invece sono impegnati nell’ascolto della radio e,
possibilmente, della televisione.
Su alcune capanne svetta persino l’antenna parabolica. Solo
musica. La cultura tradizionale tace. Ha voce solo l’immediato, l’economico.
Questo è il rischio che stiamo vivendo: essere individui che cercano
solo di avere di più e a prezzi facili. E dove finiremo con i nostri traumi?
(*) Padre James Lengarin, primo missionario della Consolata
"samburu" (Kenya). Ha studiato a Londra e Roma. Oggi svolge animazione
missionaria a Galatina (LE).
Articolo 7
San Vicente/Puerto Leguízamo (Colombia)
Nell’inferno della coca
"Io vorrei maledire la coca. Invece i veri maledetti
siamo noi. Ci siamo lasciati ingannare
dal miraggio di quelle foglie…".
di Javier Francisco Múnera (*)
Mi sento sinceramente un po’ a disagio con il titolo
"nell’inferno della coca", perché io ci vivo. Ma per me non è un inferno,
anche se potrebbe apparire tale. Quindi mi permetto di cambiare il titolo con
"Colombia: tensione armata e coca; la sfida della pace e dell’armonia con il
creato".
In Colombia, in un conflitto sociale che dura da oltre 50 anni e che
non si riesce ancora a risolvere, la pace è la nostra sfida più grossa. Impegna le
migliori risorse anche nel vicariato apostolico di San Vicente/Puerto Leguízamo.
Intreccio di armi e droga
Il vicariato ricopre un’area di circa 100 mila chilometri quadrati, con
quattro comuni principali: Cartagena del Chairá, Solano, San Vicente e Puerto Leguízamo.
Un territorio che rivela l’assenza dello stato per tutto ciò che riguarda i servizi
e le infrastrutture, nonché per i costanti scontri. L’attuale popolazione proviene
da altre regioni della Colombia, colpite dalla violenza politica degli anni ’50-60:
ha cercato qui lavoro e rifugio. La nostra regione si caratterizza per la coltivazione
della coca, oltre che per la presenza della guerriglia. I contadini hanno incominciato
lentamente a piantare coca e a vendee le foglie raccolte; hanno imparato a trattarle,
per ricavare la "pasta basica"; questa viene poi raffinata in polvere bianca e
venduta ai commercianti che alimentano i mercati di cocaina in Europa e America del Nord.
Oggi in Colombia (nella nostra zona in particolare) il conflitto
armato e il traffico di stupefacenti si intrecciano, condizionando la vita della
popolazione e, quindi, anche la nostra presenza pastorale. È un’incredibile sfida
missionaria. Siamo convinti che solo la via del negoziato può aiutarci ad uscire dal caos
in cui annaspa la nazione; non possiamo accettare alcuna soluzione militare, che rechi
altro sangue e sacrifichi nuove vite umane. Riteniamo utile, come male minore, una
"zona di distensione", per realizzare una intesa con i guerriglieri delle Forze
armate rivoluzionarie colombiane (Farc).
Tuttavia la guerriglia è divenuta ormai un "quasi stato",
che domina e controlla il territorio e le persone, non solo nella nostra zona, ma anche
altrove: vi sono tasse, leggi, punizioni, reclutamento di ragazzi e ragazze, lavori
forzati, abusi contro i diritti umani. La gente lo sa: o resta a tali condizioni o se ne
va; non c’è via di mezzo, anche perché il controllo è forte e si esercita maggiormente
nelle aree rurali.
Un esempio: quest’anno a Remolino non si è celebrato il natale,
nonostante che i padri Giacinto Franzoi e Beppe Cravero avessero preparato la comunità.
La comandante guerrigliera Jessica, infatti, aveva ordinato alla gente di rimanere in
piazza per il "carnevale", durato tre giorni. I missionari avevano chiesto due
ore per poter almeno celebrare la messa di natale; ma la richiesta non fu accolta…
L’aspetto peggiore dell’episodio è che la gente non ha avuto la capacità di
reagire, di resistere al sopruso della guerriglia.
Come missionari, dobbiamo educare tutti alla pace e alla
riconciliazione. La popolazione ha fiducia nella chiesa, anche se conflitti armati e
traffici di coca hanno soffocato i valori di convivenza sociale tipici di un tempo. Si
vive in una situazione assai confusa di "legalità illegittima", e i riferimenti
ai valori umani e cristiani non sono all’ordine del giorno. Però io credo che ci sia
ancora spazio per continuare a seminare, con più capacità "profetica", tutti
insieme e come équipes ecclesiali.
Il problema rende necessaria la formazione per il coinvolgimento
sia nel processo di pace sia nella costruzione di nuove forme di convivenza sociale, per
divenire più responsabili. Pertanto abbiamo iniziato, con altre diocesi, le "scuole
di pace", affrontando temi importanti e fondamentali: identità e appartenenza
(necessarie dove il tessuto sociale è molto fragile); conflitti sociali e il loro
ragionevole superamento; partecipazione politica. Il tutto illuminato dalla bibbia e dal
magistero sociale della chiesa.
A mani vuote
L’altro grande conflitto che colpisce la nostra regione è quello della
coca. È un fatto grave, che si inserisce nella storia e nell’economia di uno sfruttamento
selvaggio che ha ferito e ferisce l’Amazzonia, creando un profondo squilibrio tra
persone e "habitat".
Dalla coltivazione della coca, dal suo mercato e traffico
internazionale traggono grandi guadagni anche diversi gruppi armati. In particolare, nella
nostra regione, sono le Farc che controllano il commercio della polvere di coca; e non si
può negare che, nelle aree di loro dominio, è aumentato il numero degli ettari
coltivati. Sono loro che decidono i prezzi e a chi vendere la "neve bianca". Ma
c’è anche un versante positivo: le Farc hanno obbligato a seminare mais, riso,
platano, iucca, perché la gente pensava solo alla coca.
Tuttavia resta l’"economia illecita" della coca. Su di
essa si sono scaricate le politiche errate dello stato centrale, ricattato dagli Stati
Uniti, con metodi repressivi. Ma le fumigazioni dei campi di coca e i prodotti chimici non
sono serviti a nulla; anzi, hanno compromesso l’ambiente, favorendo la deforestazione
dell’Amazzonia. Da registrare anche danni irrimediabili alle acque.
C’è il probema della cocasa: pare che questo sottoprodotto
(un residuo della lavorazione delle foglie di coca) contenga un elevato tasso di piombo,
con il rischio che sia assimilato da altre colture, i cui frutti sono di largo consumo
(pomodori e verdure varie). L’impatto su donne e bambini, destinati alla raccolta e
soprattutto alla lavorazione degli avanzi di coca, è nefasto, perché sono a contatto
(senza alcuna protezione) con prodotti chimici nocivi alla salute.
Spesso la popolazione è coinvolta in tale lavoro più per necessità
che per volontà: praticamente viene costretta, altrimenti non potrebbe sopravvivere. Mancano
le condizioni per una economia sostenibile con altri prodotti: la scarsità di vie di
comunicazioni e di centri di raccolta fanno sì che si perdano tanti prodotti, mentre i
contadini non trovano un appoggio statale valido per rendersi autonomi con altre risorse.
E i soldi che entrano nelle tasche dei coltivatori di coca non giovano a nulla, perché
non recano né benessere né sviluppo; invece aumentano gli alcornolizzati e i prodotti di
lusso, totalmente non necessari. La qualità di vita non è migliorata; al contrario,
tutti gli articoli di prima necessità costano cari. L’economia della coca si è riversata
come una maledizione sui nostri contadini.
Ecco la testimonianza di un’anziana: "Di fronte al dolor
Giacomo Mazzotti