I grandi missionari: Giovanni Bonzanino MILLE E UN SOGNO

Giovanni Bonzanino

Missionario di frontiera, irresistibilmente attratto dal più difficile,
lontano e bisognoso, padre Giovanni Bonzanino moriva a Shashemane
(Etiopia) 20 anni fa, il 30 gennaio 1983. Amò la «sua Africa» con
passione contagiosa, fino a consumarsi a soli 56 anni.
«Non sono nato in Africa.
Questo mi dispiace un
poco. Avrei voluto essere
sfornato in questa verde, dolce, ubertosa
Africa, dove si viene al mondo
inguantati in un’ambra vellutata
e soave e la vita scorre smorzata come
un venticello che sfarfalla tra ramificazioni
di alberi giganteschi».
Così inizia una specie di diario in cui
padre Bonzanino racconta l’esperienza
dei suoi primi anni in Africa.

SOGNANDO L’AFRICA
«Invece sono nato a Biella» continua.
Era il 29 gennaio 1927. Prima
ancora che venisse al mondo, sua
madre lo aveva offerto alla Madonna,
conservando quel segreto per 30
anni, fino a quando visitò il figlio in
Kenya: padre Giovanni l’abbracciò,
sollevandola da terra e, in un impeto
di gioia, le disse: «Mamma, quel
giorno mi hai fatto il più bel regalo».
Alberta Maria era una donna che
«sapeva il fatto suo, dai battibecchi
con le vicine al far filare dritto i figli,
dallo speculare fino all’osso per sbarcare
il lunario a lavorare in fabbrica
e passare tra posti di blocco in bicicletta
con un carico di granoturco».
Papà Vittorio non era da meno.
«Tutto casa e lavoro, vecchio socialista,
dovette assoggettarsi a portare il
fez in testa per campare, rischiare la
galera per racimolare due chili di farina
al mercato nero, poiché il pane
della tessera finiva troppo in fretta».
Erano i tempi duri del fascismo e
della seconda grande guerra. Ciò
non impedì al piccolo Giovanni di
coltivare sogni e avventure, come un
ragazzo normalissimo. Nei tempi liberi
dalla scuola faceva qualche lavoretto
in fabbrica, per arrotondare
il bilancio familiare. In classe si appassionava
di storia e geografia, ma
era allergico alla matematica. «Non
fui mai uno sgobbone – confessa -. La
mia specialità era il pallone e il tifo
per la Juventus: primo amore che mi
portai in Africa come un soldato il
suo fucile».
A volte, con la banda del quartiere,
marinava la scuola per esplorare
la campagna o alleggerire la pianta di
fichi nell’orto del prevosto. «Un
giorno Tavio, il vecchio sacrestano,
mentre si riallacciava la cinghia dei
calzoni appena usata sui piccoli furfanti,
mi domandò cosa sarebbe stato di una canaglia come me da grande;
risposi innocentemente: “Mi farò
missionario”. Si sbellicò dalle risa.
Ma quando celebrai la prima messa,
mi diede una pacca sulle spalle e sorrise:
“L’ho sempre detto che ti saresti
fatto prete”».
Entrato nel seminario di Biella,
Giovannino sognava di essere torturato
dagli africani e finire martire. In
quinta ginnasio decise di farsi missionario
della Consolata. «Coi miei
17 anni, lieto, baldanzoso e impaziente
– racconta -, iniziai il liceo a Varallo.
Non all’algebra e trigonometria.
Avevo qualche ebbrezza poetica,
ma il mio ideale era l’Africa. In
noviziato, alla Certosa di Pesio, non
ho avuto sussulti mistici, né impennate
carismatiche. Tra i miei compagni
c’era un africano: fu il migliore
stimolo missionario».
Durante gli studi teologici continuò
a respirare aria di missione, più
dalle figure di missionari incontrate
nella casa madre di Torino che dalle
lezioni accademiche. Arrotondò il
suo curriculum con discipline utili
per l’Africa: diploma magistrale, fotografia,
dattilografia. Finché fu ordinato
prete nel 1953, a 26 anni. L’anno
seguente partì per il Kenya: «Fu il
giorno più bello della mia vita».

L’INAFFERRABILE JOHN
Destinato alla missione di Mujwa,
nel Meru, John cominciò subito a
studiare la lingua locale, familiarizzare
con usi e costumi della gente e
smontare qualche idee preconcette,
alla scuola della figura poliedrica e
briosa di padre Chiardo.
Appena riuscì a masticare qualche
parola in kemeru, prese a scorrazzare,
prima con una vecchia moto, poi
con una Land Rover scassata, per visitare
le comunità, portare uno all’ospedale,
un’altra alla mateità, un
terzo al brefotrofio. «Mai paura! Passo
per uno che pialla le curve e mangia
i freni» scriveva nel diario.
A giugno del 1954 era professore
d’inglese e storia nella scuola secondaria
di Nkubu. «Come è impartita
qui – scriveva -, la storia ha una piuma
bianca sul cappello scozzese: testi
in inglese di autori inglesi. È una
storia colonialista». Ma ci pensò lui a
metterci la penna nera dello struzzo
africano, evidenziando le scoperte archeologiche
fatte in Africa orientale,
sciorinando imprese coloniali e tratta
degli schiavi, «pagine che facevano
impazzire gli studenti».
Alla fine del 1956 fu nominato
parroco di Meru, capitale dell’omonimo
distretto, dove si stava costruendo
la cattedrale. «Sono uscito
dalla fase di amore avventuroso-romantico
per l’Africa e posso dire, parafrasando
san Paolo: sono cittadino
africano» scriveva nel diario.
E continuò a sognare e dare sfogo
alla creatività vulcanica con innumerevoli
iniziative di successo: pubblicazione
del Twi ba Meru, mensile
di 10 mila copie; compilazione, con
l’aiuto di un prete africano, di innumerevoli
fascicoli, libri, sussidi, catechismi
in lingua locale; uso di modei
strumenti di comunicazione
come radio e cinema, guadagnandosi
il nome di Patere Kameme (padre
radio); fondazione del Meru Sport
Club e organizzazione di popolarissime
competizioni sportive, corse ciclistiche
e toei di calcio, collezionando
un altro titolo onorifico: Thuranira,
l’organizzatore.
«La nostra squadra ha vinto la
coppa del distretto – scriveva nel
1960 -. I ragazzi sono in orbita; io ho
un ginocchio gonfio. Naturalmente
la maglia indossata dalla squadra era
quella della Juve».
John era uno specialista nel coinvolgere
la gente in progetti di chiese,
cappelle, scuole, asili o altre opere
sociali e si meritò un altro gallone:
Patere Lotari (padre lotteria). Quasi
tutte le costruzioni da lui promosse
nascondono nelle fondamenta, come
«pietra» angolare, una manciata
di due scellini, il prezzo del biglietto
della lotteria.
In una parrocchia di 5 mila cristiani
e 60 mila abitanti, padre John si
buttava a pesce nel lavoro missionario:
catecumenati e battesimi a bizzeffe.
«Vacci piano, mi dicono – scrive
nel quarto anniversario dell’arrivo
in Kenya -. Piano un corno. Non
sono io a cercare il numero; sono loro
che vengono a cercare Cristo».
Come se non bastasse, estendeva la
sua attività a tutta la diocesi: formazione
della gioventù; supervisione di
una quindicina di scuole cattoliche;
estenuanti trattative per fondae altre;
animazione dell’Azione cattolica;
visite ai campi di concentramento,
dove erano rinchiuse migliaia di persone
accusate o sospettate di appartenere
al movimento mau-mau.

LA PRIMA AFRICA
Padre John era arrivato in Kenya
quando la tensione tra guerriglia
mau-mau e repressione dell’amministrazione britannica era al culmine
e si trovò subito schierato dalla parte
degli africani.
«Nel mercato tra Mujwa e Nkubu
– scriveva il 23 agosto 1954 – hanno
disteso a terra, allineati, sette cadaveri
di mau-mau uccisi nella foresta.
C’erano lunghe file di persone a guardare.
Mi sono fermato anch’io. Ho
detto una preghiera e tracciato un segno
di croce sui morti. Ho sentito alle
spalle una risata: “Padre, neanche
i tuoi sortilegi possono più farli vivere”.
Era l’ispettore di polizia, che
continuò: “È comodo essere neutrali
per voi missionari, che benedite tutti.
Vorrei esserlo anch’io; invece mi
tocca fare questo maledetto lavoro e
ammazzare questi bastardi”. “Non
sono neutrale” gli ho risposto. Mi ha
guardato con faccia da carciofo, come
un macellaio che affonda la mannaia
per staccare una bistecca; ma
non ha più fiatato. Me ne sono andato
a fare la mia lezione di storia».
Nel suo diario, pubblicato una decina
d’anni dopo, insieme ad altri articoli,
col titolo di Le due Afriche, padre
John non fu solo testimone di
nove anni di convulsioni, ma anche
protagonista del passaggio dall’Africa
coloniale a quella indipendente.
Dall’intreccio socio-politico dei
suoi scritti emergono pure problemi,
riflessioni e intuizioni squisitamente
missionarie: inculturazione, ecumenismo,
chiesa locale, rispetto delle
culture, problemi tribali, divergenze
con altri evangelizzatori, impegno
scolastico e religioso per costruire la
nuova Africa.
Le sue riflessioni possono apparire
un po’ daltoniche: il «nero» è bello;
il «bianco» da cancellare. John
guardava l’africano con occhi di missionario
ciecamente innamorato,
sorvolando sulle pecche e dipingendolo,
o meglio «sognandolo», come
«dovrebbe essere». Ma non senza
apprensione. «Non ho paura di fame
o lebbra, leopardo o serpente,
freccia o fucilata – scriveva alla fine
del ’57 -. Forse ho paura di quello
che potrà accadere al Kenya».

LA SECONDA AFRICA
«Mentre il paese marcia verso l’indipendenza,
anche la chiesa deve avere
una certa autonomia» scriveva
alla fine del 1960. John propose al vescovo
di nominare parroco della cattedrale
un prete africano. L’idea fu
approvata, ma passarono quasi due
anni prima che fosse messa in atto.
Nominato padre Salesio, John scese
al rango di viceparroco e accelerò
il ritmo delle attività. «Il mio lavoro
è un mosaico – scriveva nel 1963 -.
Arrivo alla sera che annaspo. Stampa,
Azione cattolica, cine, conferenze
e raduni in continuità. Ogni missione
vuole una settimana, con ritiri
e proiezioni alla sera. Sono piuttosto
stanco di fare il giradischi». Eppure
trovava tempo per partecipare a comizi
e adunate, incontrare leaders
politici e altri «pezzi grossi».
Le pagine del Twi ba Meru sprizzavano
politica, facendo arricciare il
naso ai missionari stagionati. Ma lui
imperterrito, con idee chiare e benedizione
del vescovo. «Ho preparato
gli schemi per gli incontri del
prossimo anno sul tema: libertà e cristianesimo
– scriveva a una settimana
dall’indipendenza -. Si tratta di far
scendere tutti i cristiani nell’arena e
aiutarli a non essere spettatori: il lavoro
è il padre della libertà; l’ozio è
il padre del colonialismo. Passerà la
febbre dell’indipendenza e occorrerà
rimboccarsi le maniche, soprattutto
i cristiani. È un lavoro eccitante
progettare l’Africa nuova».
Quei giorni John doveva avere una
febbre da cavallo. «Sale la pressione
dell’entusiasmo – scriveva -. Ho una
serie di pellicole sulla libertà di altri
stati africani e tutte le sere le proietto
in qualche parte del Meru. Massa
di gente anche in cattedrale: nella
predica padre Salesio ha detto che i
presenti sono stati battezzati da me
e che, con l’indipendenza, divento
più africano di prima».
Nella notte dell’11 dicembre 1963
toccò a padre John introdurre il Meru
all’indipendenza, intrattenendo la
folla con film, musica e discorsi, inno
nazionale a mezzanotte e trasmissione
radio della cerimonia di
Nairobi. Il giorno seguente fu un’apoteosi,
come racconta nell’ultima
pagina del diario (vedi riquadro).
Alla fine del 1963 padre John fu
nominato parroco di Nkabune e cominciò
a costruire la nuova Africa:
pozzi, chiesa, orfanotrofio, strutture
per le opere parrocchiali e sociali; soprattutto
formazione di comunità responsabili
del proprio futuro civile e
religioso.

DESERTO CHE FIORISCE
Metà della diocesi di Meru, grande
come mezza Italia, non aveva mai visto
la barba di un missionario. Per
sfondare occorreva un uomo di fegato,
fantasia e testa dura. John lesse nella
mente del vescovo e si offrì volontario:
fu subito nominato vicario episcopale
della North Easte Province
(Nep), così si chiama la regione.
In passato il governo l’aveva chiusa
ai missionari, per non scontentare
i musulmani; poi gli schifta (ribelli
somali) vi seminarono terrore e
morte (1963-67), producendo 4 mila
orfani. Siccità, fame e colera stavano
mettendo a rischio la sopravvivenza
di quasi 300 mila abitanti.
Nel 1968 padre John raggiunse
Garissa e, con fratel Mario Petrino,
distribuì aiuti umanitari e trasformò
una caserma diroccata in Boys’ Town
(città dei ragazzi) per accogliere gli
orfani del luogo. Tre anni dopo passò
a Wajir, 400 km più a nord, nel
cuore del deserto, per dare una mano
a padre Baldazzi: sfamati vecchi
e bambini, fondò la Girls’ Town per
un centinaio di bambine orfane. Nel
1972 era a Mandera, altri 400 km più
a nord, ai confini con Somalia ed Etiopia.
Anche qui fondò una Boys’
Town, affidata a Manlio e Lorenza,
due volontari italiani, e sostenuta
dall’adozione a distanza di un gruppo
di 500 famiglie italiane.
Spendere tante forze in un ambiente
totalmente musulmano, quando
altrove si mietevano conversioni a
tutto spiano, per qualcuno era uno
spreco. Ma John ribatteva: «In uno
scenario che è un’orgia di sole e sabbia,
la gente ha soprattutto fame e sete.
Corre voce che il papa abbia presentato
al nostro vescovo l’urgenza
della presenza cristiana in questa zona,
anche soltanto per offrire un bicchiere
d’acqua all’assetato».
Solo Dio sa quanti ne furono distribuiti:
dal fiume Tana, una pompa
foiva alla missione un milione
di litri d’acqua al giorno e la gente attingeva
liberamente.
I giornali parlavano di «miracolo a
Garissa». La missione contava 24 edifici,
chiesa, distributore di benzina
e piscina; accoglieva 225 orfani; impiegava
200 operai locali; ogni sabato
sfamava 300 fra vecchi e bambini;
30 ettari di terra producevano 12 tonnellate
di meloni al mese per il mercato
di Nairobi; poi mais, melanzane,
fagioli, cipolle, peperoni, angurie,
pomodori, arachidi e 5 mila piante di
banane, papaia, uva, datteri.
Identico prodigio, ma con enormi
sacrifici, si ripeté a Mandera, con
l’acqua stagionale del fiume Dawa:
città dei ragazzi, scuola secondaria,
cornoperativa agricola, artigianato, sviluppo
dell’habitat e commercio iniettarono
nella città di nomadi la
voglia di vivere più dignitosamente.
Questo fu il miracolo più vero nel
deserto: schiodare la gente dall’atavica
apatia e rassegnazione alla sopravvivenza:
gli operai impiegati nelle
costruzioni impararono a farsi case
più decenti; i braccianti arruolati
nei lavori agricoli si misero a produrre
in proprio; i pastori, abituati al
numero di bestie, cominciarono a
puntare sulla qualità. Perfino il governo
avviò progetti agricoli e incoraggiò
la gente a fare altrettanto.
Più difficile era fare attecchire il seme
del vangelo. Padre John non esitò
a studiare il Corano e insegnarlo
nella scuola, come ordinava la legge
del Kenya per quell’ambiente; ma
non senza accostare gli insegnamenti
morali di Maometto a quelli
di Gesù. E ci riusciva troppo bene;
tanto che gli fu ingiunto di non profanare,
lui infedele, il messaggio del
profeta.
John continuò a seminare la testimonianza
dell’amore verso i più
bisognosi; oggi se ne vedono i frutti:
la Nep costituisce la diocesi di
Garissa, con 10 missioni e una trentina
di succursali, dove lavorano i
cappuccini di Malta e vari missionari
laici.

VANGELO
NELLA RIVOLUZIONE

Nel 1974, a pochi mesi dal colpo
di stato di Menghistu, John fu destinato
all’Etiopia, dove una
decina di confratelli, da
pochi anni, lavoravano
nel sud del vicariato
di Harar, provincia
degli Arussi. Fu
subito chiamato
dal vescovo a salvare
la scuola secondaria
di Dire
Dawa, intossicata
dai fumi rivoluzionari.
Ascoltati
studenti e genitori,
con pazienza e
fermezza ristabilì
subito ordine e disciplina;
per tre anni
continuò a dirigere
la scuola con
grande discrezione e coraggio, specie
durante la guerra somala.
Non essendo il tipo da restare incollato
a una poltrona, si occupò di
una cornoperativa agricola fuori della
città; aprì una scuola in un quartiere
povero; fondò un pensionato per i
ciechi e insegnò loro un mestiere.
Nel 1978 John fu eletto superiore
del gruppo di confratelli. Quando la
provincia degli Arussi fu staccata da
Harar per formare la prefettura apostolica
di Meki (1980), ne diventò amministratore
apostolico, in attesa della
nomina del prefetto. Sarebbe stato
l’uomo ideale per tale carica, ma insistette
perché vi fosse posto un etiope,
accontentandosi di fare il vicario generale.
Al tempo stesso, John fu eletto
presidente della Conferenza dei religiosi
del sud Etiopia.
Calatosi con tutte le forze in tali responsabilità
e nella realtà socio-politica
del paese, padre John portò la rivoluzione
nel modo di fare missione,
per rispondere alle sfide antireligiose
del regime marxista.
Rivoluzione e missione, diceva, sono
legati da un filo di speranza: entrambe
vogliono sviluppo, giustizia
e liberare tutti dall’oppressione. «Ma
il punto debole della rivoluzione –
continuava – è che non s’interessa di
Dio. Per noi missionari, il nocciolo
della questione rimane questo: dimostrare
che non può esserci vera
giustizia e sviluppo senza Dio. La nostra
vocazione inequivocabile nella
rivoluzione è operare in modo che
uomini e donne della nuova Etiopia,
con tutto il progresso e sviluppo che
meritano, non siano tagliati fuori dal
loro Creatore e Redentore».
«La rivoluzione – spiegava – trascura
le lacune di miseria: non può rallentare
la marcia del progresso per
stare al ritmo degli storpi. Il vangelo,
invece, è buona notizia per tutti; l’evangelizzazione
porterà frutti, solo se
avremo con noi i ciechi e gli storpi».
Insieme agli altri missionari, padre
John si gettò a capo fitto nelle opere
sociali, consolidando quelle già esistenti
e creandone di nuove appena
ne intuiva la necessità.
L’ospedale rurale di Gambo, rimasto
a lungo senza medici, diventò il
centro di controllo e cura della lebbra
e, con 267 dispensari sparsi nella
provincia, assisteva oltre 4 mila colpiti
da tale infermità. Accanto all’ospedale
costruì un villaggio di 25 casette
per dare dignità a quelli già guariti.
Il centro di riabilitazione per handicappati
a Gighessa fu potenziato
con nuove strutture e attrezzature.
Una «casa-famiglia» per handicappati
e orfani fu costruita ad Asella; a
Shashemane nacque la scuola per
bambini e bambine non vedenti.
In ogni missione fu costruito il dispensario;
venne organizzata la distribuzione
di tonnellate di viveri ai
poveri, specie nei periodi di emergenza;
si moltiplicarono le scuole. In
un paese col 90% di analfabeti, l’istruzione
era una priorità e un’occasione
provvidenziale per l’evangelizzazione.
John viaggiava da una missione all’altra
per incoraggiare i confratelli,
sostenere e lanciare nuove iniziative;
ma senza mai perdere di vista l’evangelizzazione
diretta: visita alle scuole
dei villaggi, messa domenicale nelle
cappelle, formazione della gioventù
e aspiranti al sacerdozio, animazione
delle piccole comunità cristiane.
Le vacanze in patria si trasformavano
in estenuanti scorribande da un
capo all’altro della penisola, per
sconvolgere coscienze, snidare egoismi,
costruire solidarietà, coinvolgere
la gente nella sua avventura missionaria.
Talvolta si sobbarcava, fino
a 10-15 incontri al giorno in scuole,
circoli giovanili, chiese, convegni.
Nascevano gruppi di appoggio in Italia
e Nord America; professionisti
di ogni genere (medici, maestri, agronomi,
assistenti sociali…) lo seguirono
in Africa.

COMPLEANNO IN PARADISO
Durante le ultime vacanze in Italia
il dottore gli aveva detto di darsi una
calmata, se voleva arrivare a 70 anni.
«Se me ne restassero solo due, cosa
importa? Ciò che conta è come e cosa
si vive» rispose sorridendo.
Era un presentimento? Due anni
dopo, la sera del 28 gennaio 1983,
John toò a Shashemane dopo 10
giorni di incontri tenuti ad Addis Abeba:
confessò che quella fatica «lo
aveva ammazzato».
Il giorno seguente ricorreva il suo
compleanno. Per fargli una sorpresa,
suor Flaminia stava preparando una
torta, quando il padre la chiamò. Lo
trovò a letto con brividi e febbre alta;
gli somministrò medicine antimalariche,
ma la situazione si aggravò.
Accorsero i medici della zona; diagnosticarono
un blocco renale e tentarono
di salvarlo con flebo, antibiotici,
diuretici, cortisone. Inutilmente.
Per padre John i sogni si spensero
la sera del 30 gennaio, a 56 anni. Una
vita stroncata precocemente, ma vissuta
in pienezza fino all’ultimo respiro,
come si legge nell’ultima lettera
alla madre: «Oggi faccio 56 anni.
Certo che sono stati intensamente
vissuti. Non ho avuto tempo
di annoiarmi neppure
per un’ora».

JOHN SCRITTORE
Fin dal liceo Giovanni Bonzanino aveva
«una voracità innata di lettura;
non era mai sazio di libri. Lettura
non superficiale, ma riflessiva: fissava
idee, espressioni e parole che interiorizzava
» testimonia il suo professore
d’italiano. Passione che lo accompagnò
tutta la vita. Leggeva articoli e
saggi di storia, politica, teologia, tenendosi
aggiornato su tutto ciò che
capitava nel mondo e nella chiesa,
specie di quanto avveniva in Africa.
Nella frenetica attività che caratterizzò
la sua vita, trovò il tempo
per scrivere. E scrisse moltissimo: lettere,
poesie, articoli, saluti appelli, libri.
«È il mio relax» soleva dire, anche
se rubava il tempo al sonno necessario.
Il suo stile snello, agile, frizzante, volentieri
anche sferzante, faceva sgranare
gli occhi al lettore e lo coinvolgeva
nella sequenza di miseria e fame
del terzo mondo.
Ecco alcuni titoli dei libri più famosi:
Cittadini d’Africa (1974), ritratti di
missionari e missionarie.
Un uomo per l’Africa (1977), presentazione
della figura del beato Allamano.
Missionari nella rivoluzione (1978),
note di pastorale missionaria per i
paesi africani a regime socialista.
Queste mie verdi colline (1979), profilo
di padre Luigi Eandi.
Africa casa mia (1979), quadri di esperienza
missionaria.
Il primo figlio (1980) e Gli insabbiati
(1982), romanzi a sfondo missionario.
Quattro volumi pubblicati postumi:
Due Afriche e un po’ d’Italia, prima e
dopo l’indipendenza.
Momenti d’Africa, riflessioni sull’attività
missionaria in Africa.
Ritoo a casa, romanzo con protagonista
un lebbroso guarito.
Africa mia, raccolta di poesie.

Benedetto Bellesi




MOZAMBICO: un cammino di pace che dura da dieci anni

UNA DOMENICA AL MARE, E NON SOLO
Dopo 16 anni di guerra civile, il paese ha imboccato la via della pace. Una pace operosa, che dura da un decennio, sia pure con qualche «sbandamento».
Non è un risultato di poco conto in Africa…
Su questo ed altro interviene un missionario della Consolata

Maputo, ore 7,30. L’aria nella capitale del Mozambico è frizzante. Sul cielo terso resiste ancora un quarto di luna calante: appare con un’esile sagoma in negativo bianco su un fondo azzurro intenso.

È domenica, e sto per andare in chiesa. «Prendi anche la macchina fotografica – mi ricorda padre Manuel Tavares (*) -, perché ci sarà una messa speciale». Una messa non in chiesa però, bensì nella cappella di un imponente liceo.

All’epoca del colonialismo portoghese l’istituto scolastico era retto con successo dai Fratelli maristi, religiosi. Dopo l’indipendenza del Mozambico (1975), come altre opere missionarie, la struttura venne nazionalizzata dalla Frelimo, il partito unico al potere di rigida fede marxista: e la cappella fu trasformata in magazzino. Dal 1978, nella guerra civile tra Frelimo e Renamo (il partito di opposizione clandestina), il liceo è divenuto un triste simbolo del paese, abbandonato al degrado, alla disperazione.

Con la pace è riaffiorata la speranza. E la cappella del liceo è ritornata ad essere «casa di preghiera». Questa mattina festeggia 10 anni di vita nuova, mentre in tutta la nazione si celebra il 10° anniversario degli accordi di pace, siglati a Roma il 4 ottobre 1992 presso la Comunità di sant’Egidio.

La celebrazione è davvero «speciale», con canti possenti e danze fantasiose al ritmo di tamburi e nacchere. Le parole più ricorrenti sono «fede giorniosa, speranza incrollabile, carità generosa». Non un accenno agli scontri armati, terribili, tra gli allora «comunisti al potere» e i «banditi dell’opposizione», alle tragedie subite e inferte. Forse perché entrambi i «nemici» sono ora in… ginocchio.

Mentre scatto le ultime foto della processione finale, mi vengono in mente due versi del poeta swahili Robert Shaaban:

«Ricordare è un dovere, dimenticare è un sollievo».

Durante il pranzo

Nel rincasare a piedi, mi perdo. Finisco in Avenida O Chi Ming ed anche in Avenida Mao Tze Tung. Finalmente (dopo qualche richiesta di informazioni) incrocio l’Avenida 24 de Julho, dove al numero 496 risiedono i missionari della Consolata. Padre Manuel Tavares mi accoglie con una smagliante risata di comprensione e, guardando l’orologio (sono le 12 abbondanti), mi invita subito a pranzo.

Le vie della capitale dedicate a O Chi Ming e Mao Tze Tung ricordano il recente passato marxista-leninista del paese. Però, come mai non è stato cambiato il nome coloniale 24 de Julho? «Forse perché questa data non significa niente per nessuno» risponde padre Manuel con un briciolo di ironia. Intanto mi scodella un saporito minestrone di verdura.

Portoghese, padre Tavares ha operato in Mozambico anche durante il colonialismo, non condividendo però le scelte della madre patria. Oggi analizza pure lo spirito missionario del tempo e afferma: «Durante il potere coloniale noi, portoghesi, ci sentivamo padroni. Anche altri missionari, di nazionalità diversa, difendevano il regime. C’era la convinzione di avere un messaggio assolutamente indiscutibile da portare alla gente; ci si riteneva salvatori del popolo, il quale doveva soltanto accettare le nostre parole per migliorare umanamente e spiritualmente. Questo era l’atteggiamento, sia pure inconscio, nel colonialismo. Poi…».

Poi è divampata la lotta al regime coloniale e il Mozambico ha raggiunto l’indipendenza. «Questi eventi sono serviti a purificare il nostro pensiero; hanno fatto rientrare in proporzioni più giuste anche l’azione missionaria».

Con l’indipendenza, tutto è mutato: il potere politico, ma anche quello ecclesiastico; prima i vescovi erano portoghesi, poi (dal mattino alla sera) quasi tutti mozambicani, e con una mentalità africana.

«Oggi la chiesa vuole essere sempre di più mozambicana. Questo esige da noi missionari un atteggiamento molto diverso rispetto al passato».

Se la lotta al colonialismo, l’indipendenza nazionale e il successivo regime marxista-leninista non fossero bastati a mettere in crisi il missionario, il colpo fatale gli è stato inferto da 16 anni di guerra civile… Al presente nella nazione è in atto «la costruzione della pace».

Padre Manuel, come sta sviluppandosi il processo? «Bene, pur nelle difficoltà. Mi riferisco, in particolare, alle elezioni del 2000, che sarebbero state vinte dal partito di opposizione Renamo. Ma la Frelimo avrebbe imbrogliato nella conta dei voti e così ha conservato il potere. Non sono mancate accuse; però, di colpo (data anche l’emergenza dell’alluvione), sono cessate. Il che fa supporre che la maggioranza abbia concesso qualcosa all’opposizione».

Cosa… non si sa.

Un altro scontro violento tra governo e opposizione si verificò l’anno scorso, allorché a Maputo una manifestazione di protesta della Renamo fu caricata dalla polizia, con un centinaio di vittime. E altrettanti furono i morti per asfissia in una prigione dello stato. Nemmeno su questo si saprà mai la verità.

Vi furono anche omicidi di singoli «eccellenti»: quello del giornalista Carlos Cardoso, per esempio; stava smascherando la corruzione, che alligna fra gli stessi politici… e pagò con la vita.

Eppure questi fatti gravi non hanno impedito a maggioranza e opposizione di dialogare, di accordarsi con taciti compromessi, certamente discutibili in una democrazia compiuta. In Mozambico, però, tutto è subordinato alla comune costruzione della pace, per la quale si sacrifica tutto. «E forse non a torto, specialmente se si ricordano (e tutti lo fanno) gli interminabili 16 anni di guerra civile, gli innumerevoli profughi, le immani distruzioni e oltre un milione di cadaveri straziati…».

Padre Manuel mormora le ultime parole sottovoce, come se parlasse a se stesso. Segue una pausa di silenzio. Di botto, quasi per un comune accordo, lasciamo il refettorio. Non ci dispiace una siesta. Fa caldo. L’aria fresca del mattino è un ricordo.

Sul Lungomare

Al risveglio, padre Manuel propone una passeggiata sul pittoresco lungomare del porto di Maputo. La conversazione continua seduti su una panchina del molo della città, lo sguardo sull’infinito.

Il missionario, pur essendo stato critico del regime coloniale del Portogallo, ha tuttavia sofferto per il patatrac politico della sua nazione. Subito dopo l’indipendenza, i bianchi in Mozambico hanno corso il pericolo di sommarie cacce all’uomo. Drammatica, tragica, è divenuta la situazione quando diversi missionari di varia nazionalità sono stati sequestrati, feriti, uccisi.

Oggi, padre Manuel, come ti senti quale portoghese? «Mi sento bene, perché l’attuale potere politico non fa discriminazioni. In Mozambico c’è un piccolo gruppo di bianchi che teme lo spauracchio del passato. In realtà c’è poco da temere; lo dimostra il fatto che alcuni portoghesi, costretti ad andarsene al tempo delle nazionalizzazioni, ora sono ritornati e fanno ottimi affari… Però noi missionari non dobbiamo dimenticare che siamo in casa d’altri. Come europei, vorremmo che il governo e la chiesa fossero diversi. Ma occorre fare i conti con la realtà. Bisogna rispettare le sensibilità culturali locali e lo stile africano».

«Stile africano» anche fra gli stessi missionari della Consolata, che ormai sono anche kenyani e congolesi, brasiliani e colombiani. Questo genera problemi d’intesa?

«Non vedo in Mozambico grossi problemi al riguardo, a parte qualche caso particolare, che però interessa anche i missionari europei. La diversità culturale è sicuramente un arricchimento per la missione, o può diventarlo».

Si dice che il missionario europeo prediliga le opere sociali (centri sanitari, scuole, ecc.), mentre quello africano o latinoamericano si dà alla pastorale pura…

«Non esageriamo!… C’è un missionario italiano dedito esclusivamente alla pastorale, come vi sono missionari africani e latinoamericani assai impegnati nel sociale: dipende dai progetti e dai mezzi che dispongono per realizzarli. Ritengo che dobbiamo condividere fra tutti noi (europei e non europei) anche le iniziative di promozione umana. Quando l’abbiamo fatto, i risultati sono stati ottimi».

Come vengono accolte dalla popolazione gli aiuti stranieri? Favoriscono l’intraprendenza del mozambicano o lo relegano nella passività del mendicante?

«Il popolo mozambicano non ha ancora preso in mano le sorti del proprio sviluppo. Questo è un grave problema, perché obbliga ancora il paese a dipendere dall’estero. D’altro canto il Mozambico, talora, è costretto a fronteggiare improvvise emergenze (come l’alluvione di due anni fa o la siccità di quest’anno), che ritardano lo sviluppo di decenni: in questi casi gli aiuti estei sono necessari».

Pertanto è necessario trovare un equilibrio tra il «facciamo da soli» e il «tendiamo la mano ad altri», puntando però con maggiore forza sulla prima strategia. Dopo la guerra, per circa due anni il paese è sopravvissuto grazie solo agli aiuti esteri; ma quando la gente è ritornata a lavorare, tutto è rifiorito e si è raggiunta persino l’autonomia alimentare. Peccato che, nel 2000, sia arrivata quella tremenda alluvione!

«Occorre anche lavorare con un occhio rivolto a possibili catastrofi, immagazzinando scorte alimentari in silos: questo i missionari l’hanno sempre fatto. Oltre a scongiurare la fame, tale azione preventiva frena i prezzi degli alimenti, che salgono alle stelle nelle emergenze…».

Abbandoniamo la panchina del molo. Camminiamo scortati da una maestoso filare di palme, accarezzate da una dolce brezza. Al cospetto di un bar, entriamo senza esitare: una bibita ci sta bene. Non c’è anima viva nel modesto locale. Forse proprio per questo mi lascio andare ad una domanda indiscreta: «Manuel, si dice che tu sia un vescovo mancato; o hai ancora una possibilità?».

La risposta dell’interlocutore è una risata così sonora da attirare la curiosità dello stesso barista… che ride divertito anche lui senza sapere la ragione. «Se devo essere schietto – commenta tosto il missionario -, le calze rosse dei vescovi non mi sono mai piaciute. La mia preoccupazione è stata sempre un’altra».

E cioè? «Lavorare senza protagonismi, sentirci tutti fratelli. Ciò che conta non è quanto facciamo, ma lo spirito con cui lo facciamo…». Scuote la testa padre Manuel. Un raggio di sole ne illumina il volto, mentre dichiara quasi con solennità: «Eppoi, mio caro, l’era dei vescovi stranieri è tramontata per sempre!».

Sta tramontando anche il sole sull’Oceano Indiano. Sprazzi di luce morbida vivacizzano le onde increspate dalla brezza, e dilatano l’orizzonte.

Ci avviamo in auto al 496 dell’Avenida 24 de Julho. Lungo le vie O Chi Ming e Mao Tze Tung sono ancora attivi i mercatini… Due giorni fa, nella città di Beira, mi aggiravo incuriosito tra le chiassose bancarelle di un «mercato informale». Mi è piaciuto molto il suo nome Chunga moyo, ossia «fatti coraggio».

«Chunga moyo» è stato anche il tacito programma del popolo mozambicano nel trascorso decennio, dopo la guerra. E lo sarà ancora.

Francesco Beardi




«LA PARTENZA» grandi attori interpretano Giuseppe Allamano

IL «SALGARI» DELLA MISSIONE

Come esprimere le emozioni
dopo una ricerca appassionante, tesa a far conoscere un grande uomo?
«Io conoscevo poco Giuseppe Allamano: fra i “santi sociali” del
Piemonte,egli mi era apparso solo un “silenzioso”.
E per molti torinesi Allamano è soprattutto “un corso”.
Sì, avete capito bene: un corso, che collega Torino a Grugliasco.Ma è
possibile?».
È l’interrogativo provocatorio di Paolo Damosso, regista del film «La
partenza».
Il protagonista? Lui, ovviamente: il beato Giuseppe Allamano,fondatore
dei missionari e delle missionarie della Consolata

 

La prima riunione è in Corso
Ferrucci 14, Torino, nella casa madre dei missionari della Consolata:
quasi due anni fa.

I padri Francesco Beardi e
Giacomo Mazzotti parlano con entusiasmo di Giuseppe Allamano, ed io
ascolto le prime informazioni con la curiosità di chi si addentra in un
mondo sconosciuto. «Deve scattare qualcosa “dentro”. Occorre trovare
un’idea» ripeto meccanicamente ai due missionari, senza sapere ancora da
che parte parare. Li lascio con un borsone zeppo di libri e… tanta
confusione mentale.

Dopo giorni di decantazione,
leggo, annoto, sottolineo: e (sorpresa!) scatta quel «qualcosa». Inizio ad
intravvedere un percorso, una strada. Sono di fronte ad una storia, una
bella storia, unica e particolarissima.

I missionari della Consolata, tra
l’altro, vantano una grande tradizione nel settore dell’immagine. Molti
sono i programmi televisivi, i documentari realizzati: alcuni
preziosissimi anche per il periodo storico in cui sono stati realizzati.

Per questa ragione s’impone una
scelta: sviluppare un progetto su una personalità forte, con
caratteristiche mai sovrapponibili a quanto è già stato fatto. Che sfida!

 Giuseppe Allamano inizia a
sbalordirmi, ad occupare i miei pensieri. Ne parlo con tutti. Alcune notti
lo sogno.

Mi colpisce il carattere mite, ma
con idee chiare. Una persona che rispecchia le caratteristiche della sua
terra, Castelnuovo (AT), dove nasce nel 1851. Un uomo «con i piedi per
terra» e la mente sempre in viaggio, in perenne movimento fino alla morte
(Torino, 1926). Nasce così l’idea de «La partenza», il titolo del film che
riassume bene le prime sensazioni provate.

Ciò che mi sorprende è che
l’Allamano, un secolo fa, abbia parlato dell’Africa ed abbia entusiasmato
i giovani a fare una scelta missionaria difficile e «misteriosa», a
partire… E lui non parte! Un uomo che trascorre 46 anni nel santuario
della Consolata, e che, nello stesso tempo, si fa carico dei problemi nel
sud del mondo. Terre sconosciute, inesplorate; però ne parla con
competenza, convinzione, fede soprattutto! Lo si nota leggendo il suo
bollettino La Consolata, ricco di immagini sul continente nero.

Non c’è la tivù, non c’è internet,
non c’è «il villaggio globale», eppure l’Allamano «abbraccia il mondo
intero» con uno slancio e una progettualità invidiabile anche per noi, che
quotidianamente ci interroghiamo sullo squilibrio fra nord e sud del
mondo. Stupefacente è pure il fatto che non siamo di fronte ad «un
avventuroso»; viceversa, è nitida la profonda spiritualità che guida ogni
decisione, sempre ben ponderata.

Per l’Allamano, l’idea di
«partenza» è elastica. Non si può ridurla ad un fatto meramente fisico.
«Si può partire, viaggiare e fare tanta strada anche stando fermi»: è una
delle battute finali nella sceneggiatura che ho scritto. Non è solo un
gioco di parole, ma la traduzione di una delle mie primissime riflessioni.

«L’Allamano è il Salgari della
missione» dico a mia moglie una sera a cena. Una provocazione, per far
capire che si può comunicare un’emozione anche su un luogo mai conosciuto
di persona. La giungla, mai vista da Emilio Salgari, ha segnato un
successo editoriale. L’Africa, mai visitata dall’Allamano, ha
rappresentato «un successo missionario», un nuovo modo di evangelizzare,
di vivere la vocazione, di incontrare l’uomo.

Questo mi invoglia ad approfondire
lo studio. Inizio ad «immaginare l’Allamano». Che tipo è? Come si muove e
come parla?

Incontro le persone che ancora lo
ricordano. E scopro che, a Venaria (il comune in cui vivo), tra le
missionarie della Consolata ci sono ancora «testimoni oculari»,
preziosissime. Suor Antonietta ha 100 anni. Incontrarla è un’enorme
emozione per me, affamato di informazioni dirette, di dettagli, anche
minimi.

 Il film è molto articolato. È un
lavoro che alterna momenti di fiction a monologhi teatrali e parti
documentaristiche.

La vicenda si sviluppa su vari
livelli. In primo luogo, c’è una storia ambientata ai giorni nostri:
riguarda Tullio e Anna, due anziani coniugi. Tullio è ultranovantenne, ha
conosciuto l’Allamano e ne è rimasto così colpito da avere «la tentazione»
di partire per la missione: una decisione che non ha realizzato. Per tale
ragione, ora che è vecchio, trascorre il tempo a ricordare, leggere,
guardare filmati missionari, e tormenta moglie e figlio sulla sua mancata
partenza.

In secondo luogo, c’è la vicenda
di Bruno, il figlio dei due coniugi. È un attore che sta preparando un
recital proprio sull’Allamano; quindi, oltre a cercare di far ragionare il
vecchio padre, viaggia attraverso i luoghi legati al personaggio da
rappresentare, provando alcuni brani dello spettacolo tratti dagli scritti
dell’Allamano.

Infine, ecco l’amico, il braccio
destro del fondatore dei missionari e missionarie della Consolata: Giacomo
Camisassa. È una colonna portante, da evidenziarsi nel modo più efficace.
Camisassa sarà presente con la voce affascinante (fuori campo) di Aoldo
Foà: una voce che accompagna lo spettatore nel percorso biografico del
protagonista.

Non mancano i filmati d’epoca, che
ci calano dentro una storia centenaria, che continua a svilupparsi negli
angoli più remoti della terra, là dove operano e faticano i missionari
della Consolata.

Questi sono gli ingredienti della
«torta», che vanno impastati, fatti lievitare e cotti a puntino. A tutti
l’onore di «assaggiare il dolce della casa». Ed anche… buona «partenza»!

 


Intervista con gli attori


PARTIRE, MA ANCHE ARRIVARE


Franco Giacobini
,
grande attore
romano, oltre 100 film, con la voglia di misurarsi ancora con un nuovo
personaggio, motivato da una tensione spirituale che non lo abbandona mai.

 Signor
Giacobini, dopo una lunga carriera, in questi ultimi anni spesso
interpreta santi. Perché?

Ho scoperto i santi dopo i 70
anni. In essi mi colpisce la coerenza, merce rara in questi tempi. Sono
persone che hanno preso alla lettera una o due verità fondamentali del
cristianesimo. Sarebbe imperdonabile non meditare su loro.

 Del beato Giuseppe Allamano
che cosa l’ha colpita?

Sono strabiliato dal «paradosso
Allamano»: il suo slancio verso una terra sconosciuta come l’Africa ha
dell’incredibile. È «la follia dei santi», che è contagiosa.

 Il suo personaggio è Tullio,
di 96 anni, che ha conosciuto l’Allamano. Come si è trovato in tale ruolo?

Il regista mi conosce bene, e ha
creato un personaggio che mi assomiglia. L’unica differenza è che Tullio
ha 20 anni più di me.

 È stato difficile
«invecchiarsi»?

Ero soprattutto preoccupato di
rendere credibile la mia età. Oggi a 96 anni si può ancora essere
autosufficienti; ma il mio personaggio ha caratteristiche complesse: è un
visionario, un po’ arteriosclerotico, ma con momenti di lucidità quasi
imbarazzante. La cosa più faticosa è che ho dovuto farmi crescere una
lunga barba: oltre sei mesi di sofferenza…

 La sua maggiore
preoccupazione?

Essere credibile. Deve sempre
essere evidenziata la verità. C’è un solo comandamento nella recitazione:
«Non bisogna dire bene; bisogna dire vero».

 Il titolo dello sceneggiato è
«La partenza». Che significa per Franco Giacobini?

«La partenza» ha senso se si
individua anche un «arrivo»: non è un gioco di parole. Ecco perché invidio
i missionari: sono accecati da un’energia vitale e la comunicano agli
altri. Di fronte a gente triste e spenta, «illuminano una strada» e
indicano la meta da raggiungere.

 C’è una curiosità legata a
quest’esperienza?

Certo. Ultimamente ho problemi di
memoria. In questo caso è stato tutto poco faticoso. È stato l’Allamano a
suggerirmi le battute all’orecchio?

 


Angela Goodwin
, moglie di Franco Giacobini anche nella vita,
ha lavorato con la professionalità di sempre. Lei, che ha recitato con
Sofia Loren, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, ecc.

 

Signora Goodwin, qual è il suo
ruolo?

Io interpreto Anna, la vecchia
moglie di Tullio, il testimone oculare dell’Allamano. È una donna
semplice, che ha dedicato tutta se stessa al marito. Una donna d’altri
tempi. Positiva in tutti i sensi, un po’ ansiosa; però, mi auguro,
simpatica.

 Quanto è importante essere la
moglie di Tullio anche nella vita?

È indubbiamente un aiuto
psicologico; facilita ad essere più vera nell’atteggiamento amoroso e c’è
sicuramente più feeling. Sono stata moglie di vari attori sul set, come
Philippe Noyret o Renato Rascel. In quei casi dovevo concentrarmi di più,
perché c’era il rischio di essere meno spontanea. E poi… bisogna
piacersi!

 E dell’Allamano cosa pensa?

È delizioso: uno che ha camminato,
ha attraversato la storia, «apparentemente» senza far rumore. È il vero
prete, l’uomo umile, che tutti vorremmo incontrare quando entriamo in
chiesa.

Ho guardato e riguardato le sue
foto: il portamento, i tratti somatici e le espressioni rivelano una
personalità docile. Il fatto è che sapeva molto bene quello che voleva, e
lo ha dimostrato. Ciò significa che, per costruire grandi cose, non
occorre gridare, né prevaricare sugli altri. Meglio sorridere, parlare a
voce bassa, comunicare amore.

 Com’era il clima umano sul
set?

È stata una vacanza. Lo
sottolineo: e questo è dovuto alla troupe della Nova-T. Una festa di
affetti ed attenzioni. Mai un momento di disagio.

 Chi è il missionario per
Angela Goodwin?

Una persona dedicata agli altri,
non a se stesso. Un uomo che non mette mai in evidenza il proprio io.

 


Flavio Bucci
, un talento artistico, una vis teatrale senza
pari, ha creduto fin da principio ne «La partenza» e ha conferito forza
alle parole dell’Allamano, rendendole vive e attuali.

 

Signor Bucci, perché ha
accettato questo ruolo?

Nella mia vita di attore, con 35
anni di carriera, ho interpretato diversi preti, tra cui don Sturzo; sono
stato vescovo, però mai mi ero calato nel ruolo di un santo o beato. Per
me l’Allamano è una grande scoperta.

 C’è qualcosa che le è rimasto
impresso nel viaggio piemontese sui luoghi di Allamano?

Due luoghi in particolare mi hanno
incuriosito: il museo etnografico dei missionari della Consolata a Torino.
È interessantissimo. Sono rimasto colpito dal fatto che, in questi grandi
saloni, pieni di oggetti, si può fare un viaggio nel tempo e nello spazio.
Molte cose ti sembrano stranissime e di mille anni fa; in realtà, spesso,
sono oggetti comuni e magari sono lì da pochi giorni… Capisco allora che
la mia ottica di uomo, figlio del benessere dei paesi dominanti, è
profondamente distorta. In secondo luogo, mi ha colpito il salone dei
vescovi in curia. Cento volti avvolgono la sala; provengono da epoche
lontane e mi hanno fatto uno strano effetto.

 Dell’Allamano che cosa le è
rimasto?

È un uomo incredibile con aspetti
anche curiosi. Penso, per esempio, al fatto che sia riuscito ad
appassionarsi all’Africa senza averla mai vista: eppure ha creato un
evento importante. È un leader con un grande carisma.

 Lei è un uomo di cinema. È
vero che l’Africa è penalizzata anche in questo campo?

Ho scoperto l’Africa quattro anni
fa, mentre giravo un film in Kenya. Non posso dire di conoscerla, perché
vivevo in modo confortevole e protetto. È vero però che il cinema ha
snobbato l’Africa e, in genere, il sud del mondo. Forse il grande pubblico
preferisce storie disimpegnate, futili. Ma siamo noi, dell’ambiente, che
dovremmo educarlo meglio.

 Chi sono i missionari per
Flavio Bucci?

Quando penso ai missionari non so
se invidiarli o meno. Sono una spinta che, potenzialmente, si nasconde in
molti di noi. Poi magari, come succede nel film girato, non si «parte».
Però si può essere missionari sotto vari aspetti: anche nel mio ambiente.
In questo momento potrei essere «missionario nel nome del teatro».

Paolo Damosso




La «charta magna» delle BEATITUDINI

T orino, santuario della Consolata. La
coice è quella delle occasioni solenni.
Il tempio risplende di cascate di luci,
che si rinfrangono sui marmi multicolori e
preziosi. L’altare maggiore è ammantato di
gigli dall’intenso e inconfondibile profumo. È
il 19 maggio 2002, solennità di Pentecoste…
con l’apostolo Pietro, gli altri apostoli, la madre
di Gesù e alcune donne che annunciano
la discesa dello Spirito Santo.
Pietro e compagni sbalordiscono gli ascoltatori,
non solo per il contenuto del loro messaggio,
ma anche perché parlano in aramaico,
mentre l’uditorio è composto da «parti, medi, elamiti»… piemontesi e siciliani, cinesi e
tibetani, russi e ceceni, palestinesi e israeliani,
americani, indiani, australiani…
E tutti capiscono…
Nel santuario torinese pregano il cardinale
Crescenzio Sepe (massimo responsabile dell’evangelizzazione
dei popoli), il vescovo
Mino Lanzetti (che rappresenta l’arcivescovo
Severino Poletto), i superiori dei missionari e
delle missionarie della Consolata. Ma gli occhi
dei numerosi fedeli sono puntati sui padri
Paolo Fedrigoni e Giorgio Marengo, le suore
Lucia Bartolomasi e Maria Inés: sono «della
Consolata», stanno per ricevere il crocifisso
e partire per la Mongolia.
S antuario della Consolata, maggio
1902. Il cardinale Agostino Richelmi
consegna il crocifisso ai primi quattro
missionari della Consolata in partenza per il
Kenya. Sono «figli» di Giuseppe Allamano,
rettore del tempio, oggi «beato»; appartengono
all’Istituto Missioni Consolata, che
l’Allamano ha fondato dopo aver miracolosamente
superato una gravissima malattia. E
raggiungono ii kikuyu del Kenya.
Sull’allora carta geografica del paese africano
compare anche «hic sunt leones» (questa
è terra di leoni). I leoni ci sono, eccome! Ma
il Kenya è abitato soprattutto da uomini e
donne: r meru, samburu, turkana, borana, rendille, el molo, luo…
I missionari della Consolata li incontreranno
tutti per annunciare le beatitudini di Dio.
Questo «numero speciale»
KENYA, AMORE NOSTRO
insegue una (stra)ordinaria missione.

Dunque 100 anni sono trascorsi dalla
prima partenza dei missionari per il Kenya. «Dal 1902 ad oggi ogni missionario
della Consolata – afferma il cardinale
Sepe – parte idealmente da questo santuario;
parte con l’intento di vivere la missione ad
gentes con le caratteristiche suggerite dal titolo
“Consolata”, consegnato dal fondatore
Giuseppe Allamano come principio ispiratore
dell’attività: “elevare” la condizione delle
persone attraverso l’annuncio del vangelo, la
promozione umana, la difesa dei diritti umani,
la lotta contro le ingiustizie; incontrare la
gente e stare con essa, specialmente con chi è
emarginato, solo, triste, sfruttato; preoccuparsi
delle sue necessità e mirare al bene integrale
delle persone».
Al presente i missionari e le missionarie della
Consolata sono circa 2 mila, presenti in 25
nazioni: in Africa, nelle Americhe, in Asia, in
Europa. E oggi puntano verso le sterminate
steppe del mitico Gengis Khan, con una piccola
squadra multiculturale (vi sono pure una
colombiana e un argentino). È «una partenza
insieme»: non a caso per l’Asia, dove vive e
soffre la stragrande maggioranza dei non cristiani.
«La Pentecoste continua oggi – prosegue il
cardinale -. La consegna del crocifisso a questi
missionari ci ricorda che il dovere di annunciare
il vangelo in ogni parte del mondo è
di tutti i battezzati. “Non possiamo starcene
tranquilli – afferma pure Giovanni Paolo II –
di fronte a milioni di fratelli e sorelle, anch’essi
redenti dal sangue di Cristo, che vivono
ignari dell’amore di Dio. Per il singolo credente,
come per l’intera chiesa, la causa missionaria
deve essere la prima, perché riguarda
il destino eterno degli uomini e risponde
al disegno misterioso e misericordioso di
Dio” (Redemptoris missio, 86)».
È«lo zoccolo duro» o «la natura» della
chiesa cattolica, che è tale (cioè universale)
solo se missionaria. Lo ribadì con
forza il Concilio ecumenico Vaticano II, che 40
anni fa (l’11 ottobre 1962) aprì i battenti per
celebrare l’evento ecclesiale più significativo
del secolo.
Un evento attualissimo, per rilanciare la pace
e la giustizia, il dialogo interculturale, la libertà
religiosa, senza tuttavia demordere dall’annunciare
Gesù Cristo.
Ma la missione non è un andare a senso unico:
è «andata e ritorno». Così, Joseph Gitonga,
Reuben Kanake e James Lengarin (rispettivamente kikuyu , meru e samburu) sono missionari
della Consolata in Italia.
Cent’anni fa i «nostri» partivano
per il Kenya. Oggi si
assiste al processo inverso.
Questo perché la
«casa», in Africa o in
Europa, è di tutti. Con
la certezza che invano
si affaticano i loro costruttori,
se non lo fanno
secondo le «beatitudini»
del vangelo.
La «charta magna» di
tutti i cristiani.

FRANCESCO BERNARDI




Buona permanenza in…

Kenya. Quando chiudo
gli occhi, strade affollate
di volti percorrono i miei
ricordi. Odori densi, bancarelle
di legno scuro, frutti
verde-arancio riposano
sulla strada ad aspettare
passaggi.
Villaggi su villaggi lungo
l’asfalto che corre verso
nord, che apre paesaggi
variegati, senza orizzonte,
verdi, brulli, inaspettatamente
brulicanti di vita.
Acacie maestose ristorano
la vista di quell’Africa assaporata
sui libri di scuola.
Quando popoli, lingue,
colori si fondevano in
un’unica figura, disegnando
un continente tutto uguale,
senza voce.
Ora l’Africa ha per me
una voce. Volti diversi
s’affacciano a raccontarmi
la loro storia, le loro diverse
e infinite storie, ora si
distinguono al mio udito
lingue dai suoni variopinti.
Riconosco le tracce di
culture lontane, alterate, a
volte lasciate da parte. Ora
vedo. Mi sembra di vedere.
E così vado avanti in
questa ricerca, in questo
cammino da cui non riesco
più a distogliermi.
Nairobi, Sagana,
Nanyuki, South Horr, il
Turkana, Marsabit, nuovamente
Nairobi. Tutto si è
aperto, mi ha ospitato, mi
sono fatta ospitare, ho
parlato con tutti, ho pianto
commossa mille volte.
Ho visto dignità, fermezza,
donne dal volto sincero,
bambini veloci, vivaci,
curiosi. Gentilezza.
Ho sentito qualcosa di
sacro tra le immondizie di
Korogocho, una storia sacra
di sofferenza, sopravvivenza,
ma anche di devozione,
devozione verso
un Dio che vive tra le preghiere,
le mani unite, il rispetto
di chi lavora lì. Di
chi non riesce più a tornare.
Di chi ama troppo e
non riesce a dimenticare.
Sono partita, ho imparato,
ho portato con me a casa
una strana discrezione.
Leggera leggera l’Africa ritorna
in tutto ciò che faccio,
provo, penso.
Con discrezione.
Mi sento più vicina a
tutti, ai miei familiari, ai
miei progetti, a tutto ciò
cui giro intorno. Un’incredibile
discrezione. Non
posso descrivere in altro
modo il mio rientro. E ora,
ora mi preparo a ritornare.
Seriamente.
Ora voglio davvero lavorare.
Finirò i miei studi,
lascerò la fanciullezza che
ancora mi circonda e poi
prenderò in mano le mie
responsabilità. Discreta,
attenta, sincera.
Quando chiudo gli occhi…
Preghiere su preghiere.
La distesa del
Turkana. Il cielo giallastro
di Nairobi. Nanyuki e tutti
i suoi bambini.
Io e la mia decisione.
Grazie, grazie. Questo
piccolo viaggio spero sia
l’inizio di una vita intera.

Giulia è stata in Kenya.
Ha visitato pure le missioni.
E ci ha rivelato le
sue emozioni. Ma anche
gli impegni. Il tutto con
stile intenso.
Nel presente luglio e
nel successivo agosto altri
ragazzi e ragazze, altri uomini
e donne stanno
scrutando «il cielo giallastro
di Nairobi» o «la distesa
del Turkana». Altri
raggiungeranno il Tanzania
o il Brasile. A tutti
l’augurio di buona permanenza.
E che bello sarebbe se,
tornando a casa, tutti potessero
dire «grazie, grazie
»! E iniziare subito una
vita diversa.

Giulia Cavallo




«Storielle» benvenute

Caro direttore,
innanzitutto mi congratulo
per la sua ottima conduzione
professionale di
Missioni Consolata. Senza
entrare in lunghi dettagli,
ritengo che i contenuti espressi,
la presentazione
fotografica, l’impaginatura
e tutto il resto facciano
della rivista una pubblicazione
di «classe».
Abbiamo un legame comune
con «la Consolata»,
che si perde nel passato,
ma che si rifiuta di sparire
dalla mente e dal cuore,
nonostante il passare del
tempo.
Senza alcuna pretesa,
continuerò a mandarle
qualche «storiella» dal
Kenya. La lunga permanenza
nel paese mi ha
messo in contatto con
quasi tutti gli strati della
società kenyana: dai ban-
diti somali (shifta) negli
anni ’60, sulla rotta Isiolo-
Marsabit, ai personaggi
attuali che hanno raggiunto
i gradini più alti della
scala politica. Gli aneddoti
sono una legione.
Tuttavia la «nostra» rivista
è diventata internazionale
e bisogna giustamente
dare spazio a tutti.

Le sue storielle, signor
Giorgio, non sono affatto
tali, ma tessere di un
complesso mosaico. Ben
vengano dunque! E controlli
quanto abbiamo riportato
a pagina 28-30.

Giorgio Ferro




Voci fuori del coro

Caro direttore,
esprimo il mio apprezzamento
per gli articoli di
PAOLO MOIOLA e per la
posizione assunta da Missioni
Consolata (cui i miei
genitori sono abbonati)
sugli avvenimenti di Genova
e New York: una posizione
aperta a più voci,
equilibrata; equilibrata
proprio perché a più voci.
Sono stato in Kenya
con l’associazione di p.
Giordano Rigamonti
«Impegnarsi serve». Mi
ha colpito ciò che ho visto
e quanto mi hanno raccontato
i missionari della
Consolata e i volontari
sulla situazione sociale
del paese, simile a quella
di tanti altri stati subsahariani.
Tornato a casa, ho cercato
una risposta alla fastidiosa
domanda: «c’è un
legame tra la miseria e
l’ingiustizia in cui vivono
tanti popoli e il nostro benessere?
». Ho trovato
delle risposte (parziali,
certo, ma convincenti) negli
interventi di padre Zanotelli
e di altri cattolici
(vescovi, teologi e «semplici
» laici) che cantano
«fuori dal coro».
Secondo me, c’è proprio
un coro, cui si aggregano
purtroppo tanti cattolici
(compresi sacerdoti
e religiosi consacrati), che
cantano: «Va tutto bene,
va come deve andare e
noi viviamo nel migliore
dei mondi possibili». Un
coro che alza la voce per
sovrastare altre voci deboli
e (per ora) divise.
Quanto a voi, grazie
perché presentate vari
punti di vista per ricordare
che la verità è più sfaccettata
e distribuita di
quanto crediamo per pigrizia
mentale (o addirittura
cattiva coscienza).

«Cos’è la verità?» chiese
Pilato a Gesù. Ma non
attese la risposta. Accettò
che Gesù fosse ucciso…
«lavandosi le mani» (cfr.
Gv 18, 38; Mt 27, 24).

Fabio Dechigi




IL BENE SENZA RUMORE di quattro generazioni insieme

Nella quaresima di quest’anno i bambini e i ragazzi
delle scuole elementari e medie di Corti
Sant’Antonio in Costa Volpino hanno raccolto una
somma, che intendono devolvere ai missionari. Di
questi ragazzi, che frequentano la catechesi, non
molti sanno dell’esistenza dei missionari della Consolata;
però ciò che conta è il messaggio che proviene
dal loro cuore, diffuso anche con l’impegno
generoso che hanno dimostrato.
Non sempre ci rendiamo conto del sacrificio dei
missionari, testimoni della fede, che offrono interamente
la vita per gli altri; ma siamo certi che la
preghiera che innalziamo per essi sia la
massima espressione della nostra solidarietà;
e, se talvolta ce ne dimentichiamo,
i nostri don Gianfranco e
don Endrio riaccendono la fiamma.
La somma che inviamo serva a
sostenere l’operato dei padri Rinaldo
Do (Congo) e Sandro Moreschi
(Kenya), che vivono realtà diverse,
ma entrambe difficili.
Cari missionari, nelle vostre preghiere
alla Madonna Consolata ricordatevi
anche della comunità di Corti
Sant’Antonio, perché sia sempre unita nella
fede e nell’amore.
LUIGI COCCHETTI – CORTI SANT’ANTONIO (BG)

Cari missionari, siamo un gruppo di giovani dai
16 ai 25 anni. Tutti gli anni, nel mese di maggio,
facciamo un pellegrinaggio in pullman ad un
santuario che dista 10 chilometri da casa nostra…
L’anno scorso, invece di prendere il pullman, siamo
andati a piedi; inoltre abbiamo fatto pranzo al sacco
e non al solito ristorante.
È stata un’esperienza bellissima, soprattutto
perché, con i soldi risparmiati, abbiamo potuto adottare
un bambino in Brasile. È stata pure una
grande gioia aiutare chi è meno fortunato di noi.
Alcuni ragazzi (che non si sono uniti a noi, ma
sono andati in pullman pensando che si sarebbero
stancati), vedendoci così felici, hanno deciso per il
prossimo anno di fare con noi la stessa camminata.
Facciamo conoscere l’esperienza ad altri giovani
sperando che seguano il nostro semplice esempio.
IL «GRUPPO GIOVANI» – BUSSETO (PR)

Siamo 10 anziani, abitanti in un paesino dell’alta
Val Tidone. Da quando è venuto a trovarci un padre
missionario (che ci ha parlato del terzo mondo),
abbiamo sentito il desiderio di adottare a distanza
un bambino; però non sapevamo come fare,
perché la nostra pensione ci consente ben poco.
Ma ecco che Tina Paulat, catechista dei nostri nipoti
(una santa donna!), ci ha dato un’idea: bere
qualche caffè in meno e destinare gli euro risparmiati
al progetto dell’adozione.
Da allora sono passati tre anni. Oggi siamo molto
orgogliosi di quanto stiamo facendo. Senza atteggiarci
ad eroi, ci sentiamo di dire: «C’è più gioia nel
dare che nel ricevere».
DIECI ANZIANI DI PIANELLO – VAL TIDONE (PC)

Spettabile redazione, fino a qualche tempo fa, una
volta alla settimana ci riunivamo per giocare
a carte; e, fra una partita e l’altra, ci rimpinzavamo
di torte e pasticcini, con l’immancabile spumante.
Siamo un gruppetto di amiche di mezza età.
Tempo fa la nipote di una di noi (missionaria
in Africa) è ritornata al paese per un
breve periodo di riposo. Una sera ci
ha fatto vedere una videocassetta,
che illustra la sua missione. Vedendo
alcuni lebbrosi anziani che
vivono in condizioni precarie (solo
una ciotola di cibo al giorno),
ci siamo sentite un po’ colpevoli.
Pertanto abbiamo deciso di non
mangiare più dolci (che ci fanno anche
male alla salute). Così, quando ci
ritroviamo per la solita partita, ci accontentiamo
di una tazza di caffè. I soldi (che
prima spendavamo per i dolci) li mettiamo in un
salvadanaio e, quando abbiamo raccolto una certa
cifra, li spediamo a quei poveri lebbrosi.

«LE AMICHE DELLA BRISCOLA»
POST SCRIPTUM
Non ci firmiamo, né riveliamo il nome del nostro
paese, perché non vogliamo metterci in mostra e
nemmeno farci intervistare da Emilio Fede.
Quello ci farebbe una telenovela.

Un «bravo» speciale alle «amiche della briscola»,
che rifuggono dai paparazzi della pubblicità. «Il bene
va fatto bene, e senza rumore»: affermano da sempre i
missionari della Consolata…
Le lettere ci propongono modi semplici e concreti di
fare il bene. È un bene che ci piace per tre ragioni:
– coinvolge quattro generazioni (bambini, giovani, adulti,
anziani);
– supera il «privato» ed entra nel «pubblico»: cioè è
fatto insieme; in altre parole (usando la celebre favola
dello scrittore e politico irlandese Jonathan Swift), la
generosità imprigiona il «mostro dell’indifferenza» con
la strategia di «tanti esili fili»… che diventano una
«rete» fitta e robusta;
– c’è pure l’invito a fare altrettanto…
Recita un noto principio etico-filosofico bonum diffusivum
sui: il bene si propaga di per sé… e contagia.

vari




40° ALL’OMBRA

Tre giovani missionari
della Consolata, Flavio
Pante, lo spagnolo
Ramon Lazaro e il
kenyano Michael
Wamunyu, hanno da
poco preso in consegna
la missione di Dianra,
nel nord della Costa
d’Avorio. Ristrettezze
materiali e novità della
lingua e cultura sono
iniezioni di entusiasmo.

Da Grand Béréby padre Zaccaria
mi porta a Dianra, l’ultima
missione affidata ai missionari
della Consolata nell’estremo
nord della Costa d’Avorio, oltre 700
chilometri dal litorale. Per 200 km la
strada si snoda tra la fitta foresta tropicale,
finché sfocia gradualmente in
larghe praterie, punteggiate da diradati
alberi di alto fusto.

CATTEDRALE NEL DESERTO
Al confine tra foresta e savana, la
strada si dilata fino ad avere otto corsie
che immettono nella città di Yamoussoukro
(120 mila abitanti), costruita
in tempo di vacche grasse dal
defunto presidente Houphouët Boigny,
per elevare il suo villaggio natale
a capitale politica del paese. Ecco
all’improvviso apparire la basilica
della Madonna della Pace: «La San
Pietro africana; la più grande cattedrale
del mondo» nella mente del
suddetto presidente.
In effetti, essa è costruita «a immagine
» della basilica vaticana; in
realtà è più piccola, anche se in fatto
di dimensioni non scherza: l’area totale
misura 30 mila mq e può contenere
7 mila persone. È costata oltre
200 milioni di lire italiane: una cifra
enorme per un paese appena entrato
in una profonda crisi economica.
L’idea fu molto criticata, più all’estero
che nell’interno del paese in verità.
Il presidente si è sempre difeso
dicendo di avere pagato di tasca sua.
Le polemiche si sono riaccese quando
Boigny ne fece dono al papa, che
la consacrò di persona nel ’90.
Per l’occhio occidentale, rimane la
classica «cattedrale nel deserto»; ma
per gli avoriani è motivo di orgoglio,
meta di turismo e pellegrinaggi.
Le guide si affannano a sottolineare
le somiglianze con la basilica romana
e perfino elementi di superiorità.
Lascio il cicerone africano e continuo
per mio conto, soffermandomi
ad ammirare i colori sfolgoranti delle
vetrate. Alla fine della visita provo
un senso di piacevole ammirazione,
aumentata dalla suggestione del tramonto,
quando il disco rosso del sole
circonda la cupola di un’aureola di
autentico mistero.
La scena fa dimenticare ogni polemica:
in fondo, se ammiriamo le cattedrali
medioevali dell’Europa, costruite
quando la gente tirava la cinghia
più degli avoriani, perché questo
angolo africano non dovrebbe avere
qualcosa di bello da ammirare?
Riprendiamo il viaggio e attraversiamo
la città. Su una collina troneggia
il palazzo del parlamento, ma il
resto delle case sono di modeste proporzioni.
I viali che s’intersecano
nell’abitato sono esageratamente larghi,
ma scarsamente frequentati, eccetto
le strade di attraversamento. Fa
un certo effetto vedere una mandria
di bovini sfilare tranquillamente nella
capitale, come in un qualsiasi villaggio
di campagna.
A notte fonda raggiungiamo la
missione di Sakassou, accolti calorosamente
dai preti fidei donum di Belluno
e abbracciati dai tre confratelli,
venuti a prelevarmi e, al tempo stesso,
per confabulare con padre Zaccaria,
loro superiore regionale.

RITI DI BENVENUTO
Il risveglio è avvolto da una nebbia
fitta e appiccicosa, che sale da un
grande lago artificiale. Ma, appena
fuori della zona, la nebbia si dirada
e un sole che spacca le pietre ci accompagna
per tutto il viaggio: 100
km di asfalto, con fermata a Bouaké
per le provviste, e altri 170 su terra
battuta fino a destinazione.
Appena entrati nel territorio della
parrocchia, ci fermiamo nei villaggi
più importanti, per salutare catechisti
e leaders delle comunità. Ad ogni
sosta si ripete il rito della nouvelle
(notizia), già sperimentato nelle missioni
della costa, ma con qualche novità.
Si inizia con calorose strette di
mano, quindi ci si siede all’ombra di
un albero; ed ecco arrivare una donna
con in mano dei bicchieri e una
bottiglia d’acqua. Dopo chilometri di
polvere, a 40 gradi all’ombra, nulla è
più gradito di un bicchiere d’acqua.

Quindi inizia lo scambio di saluti:
– Qui niente di male.
– Anche per noi niente di male.
– Grazie a Dio sono qui e vi vedo.
– Grazie a Dio, anche noi siamo
qui e ti vediamo.
Si prosegue con la «notizia» che,
nel nostro caso, consiste nel dire la
provenienza e scopo del viaggio. Il
pezzo forte della nouvelle, naturalmente,
è la spiegazione della mia presenza.
«L’ospite viene dall’Italia». I
leaders saltano in piedi e mi stringono
la mano dicendo: «Fo tama na»
(benvenuto). Il padre continua: «È
mio confratello, missionario come
me». Nuove strette di mano condite
di sorrisi. «Ha lavorato come missionario
in Sudafrica. È giornalista. Si
fermerà alcuni giorni. Verrà a visitarvi
e fare qualche fotografia». A ogni
mozzicone di notizia si ripetono sorrisi
e strette di mano. Alla fine perdo
il conto di quante volte mi alzo in piedi
per ricambiare i saluti, con un esercizio
ginnico che rimette in sesto
le ossa indolenzite dal viaggio.
La «notizia» continua con la comunicazione
di futuri incontri o la
discussione di eventuali problemi
della comunità. Esauriti gli argomenti,
padre Flavio dice: «Ora chiediamo
la strada».
Non si tratta di domandare informazioni
sulla via per arrivare a casa,
dal momento che di strada ce n’è
una sola e i padri ormai la conoscono
troppo bene. Anche questa espressione
fa parte del rituale di ospitalità:
chi riceve un visitatore si
sente in qualche modo responsabile
perché egli giunga sano e salvo a destinazione;
per cui le ultime parole
rituali sono sempre: «Buona strada!
Cammina bene!».

SPIRITI SFRATTATI
Di fatto il viaggio procede bene,
condito da una miriade di notizie. La
missione di Dianra faceva parte della
parrocchia di Mankono. Con due
missionari, in un territorio vasto come
una diocesi, era impossibile una
evangelizzazione sistematica; perciò
nel 2000 il territorio fu diviso in quattro;
la parte settentrionale è stata affidata
ai missionari della Consolata;
quando sarà arrivato altro personale,
essi prenderanno in consegna anche
quella confinante di Marandallah.
Mentre passiamo accanto a Dianra
Village, padre Ramon mi indica la
chiesa, in bella posizione panoramica,
su un’altura a ridosso dell’abitato,
e ne racconta la storia singolare:
«I primi fedeli si radunavano nella
scuola. Quando questa non fu più
disponibile, chiesero al capo del villaggio
di usare la collinetta. “Non sapete
cosa chiedete: quel luogo è abitato
da spiriti vendicativi, che spesso
bruciano il villaggio” disse il capo.
Coperta da fitto sottobosco e grandi
alberi, la collina era ritenuta un
luogo sacro e la gente vi si recava per
pregare e offrire sacrifici a spiriti e
antenati. Spesso, durante la stagione
secca, la sterpaglia s’incendiava e il
fuoco si propagava alle capanne circostanti. La disgrazia veniva attribuita
all’ira degli spiriti, offesi da
qualche malefatta della gente».
Il catechista insistette, dicendo che
i cristiani non temono il potere di tali
spiriti. E poiché la gente non oppose
alcuna difficoltà, dal momento
che i cristiani avrebbero usato il luogo
sacro per venerare i propri spiriti,
il capo acconsentì. «A vostro rischio
e pericolo» aggiunse lavandosi
le mani.
«Piano piano – contina padre Ramon
– i cristiani ripulirono l’altura. I
più zelanti avrebbero voluto abbattere
anche gli alberi secolari, per cancellare
ogni traccia di superstizione,
ma i missionari ordinarono di non
toccarli. Eliminata la sterpaglia, finirono
gli incendi: un fatto portentoso
agli occhi di tutta la popolazione
del villaggio.
La gente continuò a frequentare la
collina con i propri riti, finché un
giorno una vecchietta toò indietro
trafelata e domandò al catechista:
“Chi c’era oggi sulla collina? Chi era
l’uomo bianco, con la lunga veste
bianca e un libro in mano?”. “Nessuno.
Oggi non vi abbiamo fatto la
preghiera” rispose il catechista. “No,
no! – insisteva la donna -. Ho visto
un uomo vestito di bianco, che leggeva
e pregava con un grosso libro in
mano”. “Sarà lo spirito del nuovo
culto cristiano, la religione della bibbia”
spiegò il catechista divertito.
La notizia della visione si sparse in
un baleno e i cristiani si affrettarono
a spianare la collina, costruire la cappella
e altri modesti fabbricati: oggi
tutta l’altura è a disposizione dei cattolici,
con tanta invidia dei protestanti
che, arrivati molto prima di
noi, non hanno avuto tanto coraggio
e fantasia».

DESERTO… SENZA CATTEDRALE
Ancora 20 km e siamo in vista di
Dianra Centro. Passiamo davanti alla
fabbrica per la lavorazione del cotone,
quindi tra un modesto motel e
belle case per gli impiegati della fabbrica,
infine arriviamo nel grosso del
paese: case in muratura e capanne di
fango allineate lungo due strade che
s’incrociano a sghimbescio.
Svoltiamo a sinistra e siamo nella
missione. Sembra di essere in un piccolo
deserto: il sole canicolare è allo
zenit; il termometro sfiora i 40° all’ombra,
ma è un caldo molto secco,
ben diverso da quello umido del sud.
Le strutture sono ridotte all’osso:
una modesta cappella, un piccolo
centro per i catechisti, ancora in costruzione,
e l’abitazione dei missionari,
simile a un minuscolo cubo in
muratura, per metà usato come sala
da pranzo e d’accoglienza; il resto adattato
a camerette, in cui si sta come
sardine.
«L’evangelizzazione della zona di
Dianra – spiega padre Ramon – è iniziata
nel 1985: un padre arrivava in
motocicletta da Mankono, 110 km
di distanza, una o due volte all’anno.
I primi incontri avvenivano in qualche
famiglia; poi nella scuola, finché
nel 1989 fu costruita la cappella e,
più tardi, la casetta per il prete di
passaggio».
«Siamo ancora agli inizi – continua
padre Flavio -. Prima che alla nostra
sistemazione, dobbiamo pensare a
organizzare la vita cristiana delle comunità,
catechesi e catecumenati soprattutto.
Ma il problema è avere
bravi catechisti. Per questo stiamo
costruendo un piccolo centro, in cui
accogliere e formare i leaders. Vogliamo
cominciare dalla base, senza
dare nulla per scontato, per progredire
gradualmente con una formazione
sistematica».
«Siamo arrivati alla fine di maggio
2001- aggiunge padre Ramon -. Nei
primi mesi abbiamo imparato la geografia
del luogo. Ora sappiamo che
ci sono 75 villaggi, alcuni dei quali
hanno visto il missionario per la prima
volta. Nei quattro centri più grandi
c’è la chiesa in muratura, con comunità
di un centinaio di fedeli, in
maggioranza non ancora battezzati;
in una trentina di villaggi il numero
dei cristiani non supera la ventina e si
radunano in cappelle di fango o sotto
gli alberi».
I tre missionari parlano con l’entusiasmo
dei pionieri, mettendo in evidenza
speranze e difficoltà. «Rispetto
alle missioni del sud – dice padre
Ramon – qui abbiamo un popolo solo:
l’80% è senufo, con forte identità
linguistica e culturale: dobbiamo imparare
una sola lingua». «Che è molto
difficile» aggiunge padre Michael.
In realtà i senufo, 2 milioni circa,
sono divisi in una trentina di gruppi
linguistici che, in generale, s’intendono
tra loro. Nella zona di Dianra
ci sono 7 gruppi, con prevalenza dei
batto; ma la loro lingua è ancora intonsa:
non esiste nulla di scritto. Inoltre,
nell’insegnamento scolastico
viene usato il francese; per cui gli stessi
senufo non sanno leggere il proprio
idioma, eccetto pochi intraprendenti
autodidatti.
Tutti e tre i missionari si sono tuffati
nello studio autodidatta della lingua
e cultura locale: padre Michael
comincia a capire e farsi capire a sufficienza;
padre Ramon lo segue a ruota;
padre Flavio riesce a leggere l’ordinario
della messa e a pronunciare
le frasi convenzionali.

È FESTA VERA
«Di tutta la diocesi, noi siamo i primi
a usare il senufo nella liturgia»
confessa padre Michael con un pizzico
d’orgoglio. Ma viene usato anche
il francese, poiché parte della comunità
è composta da famiglie di impiegati
nella fabbrica di cotone e
funzionari governativi, provenienti
da altre regioni della Costa d’Avorio.
In chiesa, la domenica, i senufo si
accomodano da una parte, i francofoni
dall’altra, non per ragioni etniche,
ma per motivi pratici: ogni
gruppo ha la propria corale, con relativi
tamburi, xilofoni e altri strumenti
musicali, ed esegue i canti nel
proprio idioma. Letture, omelia e
canti sono tutti ripetuti nelle due lingue.
La messa dura almeno un paio
d’ore, ma non ci si accorge. Ogni celebrazione
è indimenticabile, come la
notte di natale, vissuta insieme a padre
Michael a Dianra Village.
Fin dal tardo pomeriggio la gente
comincia a gremire la collina dove
sorge la cappella. Ai cristiani e catecumeni
si è unita una folla di simpatizzanti
e semplici curiosi. Alle 10 di
notte inizia la celebrazione; ma i catechisti
fanno fatica a selezionare coloro che devono entrare in chiesa.
E inizia la festa, come solo gli africani
sanno fare. Vengono cantate
tutte le parti possibili e immaginabili
della messa. Sostenuta dal coro, la
gente partecipa con tutto il proprio
essere. Dall’altare si vede una marea
di teste che si piegano a destra e a sinistra,
avanti e indietro con sincronia
perfetta, accompagnando i movimenti
con battiti di mani e piedi,
seguendo il ritmo di tamburi e xilofoni.
Pur restando tra i banchi, nessuno
resta fermo, ma canto e danza
s’intrecciano in un ritmo travolgente,
che contagia vecchi e bambini.
Lo scambio della pace è un’esplosione
di frateità: cantando e danzando,
tutti stringono la mano a tutti,
finché il celebrante, a fatica, richiama
al dovuto raccoglimento.
La messa finisce dopo mezzanotte,
ma la gente continua la festa, cantando
e danzando fino all’alba. Padre
Michael ed io ci ritiriamo in due capanne,
agli antipodi del villaggio,
messe a disposizione dalla gente per
farci riposare. Potremmo tornare a
casa, ma da queste parti solo i malintenzionati
viaggiano di notte.

FRATERNITÀ
La mattina di natale padre Flavio
passa a prelevarmi e mi porta con sé
a Biélou, uno dei quattro centri della
parrocchia di Dianra. La cappella
in muratura è molto grande e piena
come un uovo.
La messa si svolge come al solito:
letture bilingue e canti e danze al ritmo
di xilofoni e tamburi indiavolati.
Ma quando questi tacciono, qualche
testa comincia a piegarsi sotto il peso
del sonno: anche a Biélou la gente ha
fatto la veglia, pregando, cantando e
danzando tutta la notte. Alcuni catechisti
passano tra i banchi e, con discreti
colpi di bacchetta, invitano a
sollevare il capo e aprire gli occhi.
Alla fine della messa il padre augura
a tutti buon natale, li ringrazia per
la festosa partecipazione alla liturgia
e chiama per nome tutte le comunità
dei villaggi circostanti e le incoraggia
a perseverare nella fede, come hanno
dimostrato nel giorno di natale: alcuni
hanno fatto 40 km a piedi e meritano
un caloroso battimano.
Ma ce n’è anche per me: non contento
di avermi presentato all’inizio
della messa, padre Flavio invita la
gente a darmi il benvenuto ufficiale:
mi siedo davanti all’altare, su un basso
scranno di legno, a pochi centimetri
dal pavimento, e tutti i presenti
sfilano a stringermi la mano, ripetendo:
«Fo tama na» (benvenuto).
Dovendo alzare le braccia centinaia
di volte, alla fine della cerimonia i
muscoli sono indolenziti per l’insolito
esercizio, ma il cuore è pieno di
grata ammirazione.
Ma le sorprese non sono finite. La
comunità di Biélou ha preparato il
pranzo per tutti i convenuti alla festa
di natale. Seduti all’ombra di
due giganteschi alberi di mango, gli
ospiti sono serviti per primi, perché
possano al più presto riprendere la
strada di ritorno e arrivare a casa
prima del tramonto. I più lontani
dovranno peottare in qualche villaggio
intermedio.
Padre Flavio e io siamo serviti in
casa del catechista. Un piatto di riso,
una coscetta di pollo con relativa salsa
e una gassosa è il nostro pranzo di
natale. Eppure, l’ospitalità della gente,
la condivisione della loro gioia, la
testimonianza di frateità e solidarietà,
nonostante la loro povertà, tanto
ricca di valori umani ed evangelici,
è un’esperienza indimenticabile,
che fa toccare con mano il mistero
del natale: Dio fatto uomo
per insegnarci a vivere come
fratelli veri.

Benedetto Bellesi




ASSASSINO PER STRADA

Da Mombasa al Congo
(ex Zaire) e ritorno,
i camionisti trasportano
anche… l’Aids.
Salgaà, fermata quasi
obbligatoria per autocarri,
ne è diventato un focolaio
di diffusione, dove
centinaia di donne
vi consumano storie
di miseria
e disperazione.

Entrambe le rotte, che da Nairobi
portano agli altipiani del
Uasin Gishu, offrono bellissimi
panorami. Su quella alta, di ultima
costruzione, non è consigliabile
fermarsi se non si è in un gruppo sostenuto:
la zona ospita la più forte
concentrazione di ladri e banditi del
Kenya. Imbocchiamo quella bassa,
antica, costruita dai prigionieri italiani
dell’ultima guerra mondiale.
Tutto sembra sereno: le panoramiche
sono straordinariamente varie
e belle. La visione della Rift Valley
è meravigliosa. I turisti si fermano
per godersi lo spettacolo e sono
subito assediati dai venditori di souvenirs,
che sbucano dalle numerose
baracche impiantate sulla strada.
Una di esse, chiamata «Milano Curious
», è specializzata nella vendita
di lance «originali» dei maasai, da loro
usate per uccidere i leoni. In realtà
vengono da un’officina alla periferia
di Nairobi; altre, più rudimentali,
dalle forge di fabbri kikuyu abitanti
nella zona. Solo i turisti troppo ingenui
si lasciano convincere.
Nonostante la serenità, il viaggio è
accompagnato da tristi ricordi per le
centinaia di persone che hanno perso
la vita in orrendi incidenti stradali
sulla rotta Nairobi-Nakuru. Al primo
cavalcavia dopo Limuru, anni
orsono, un missionario irlandese,
mio caro amico, venne ucciso in circostanze
sospette, ma ufficialmente
si parlò di «tentativo di sequestro di
vettura».
Appena oltre Naivasha una semplice
croce di legno segna il posto
dove fu trovato morto il missionario
americano padre Kaiser. Gli investigatori,
statunitensi dell’Fbi (che si fecero
rubare le pistole) e le autorità
locali affermarono trattarsi di suicidio;
ma nessuno vi ha creduto: l’ex
marine americano avrebbe dovuto
compiere centinaia di chilometri,
dalla sua missione tra i maasai, per
commettere il suicidio lungo una
strada a lui sconosciuta, a tre chilometri
da una stazione di servizio in
cui aveva fatto il pieno di benzina.
Oltre Nakuru, 25 km a nord,
all’incrocio per Rongai, s’incontra
Salgaà, una fermata
per autocarri che dal Kenya vanno in
Congo (ex Zaire), attraverso Uganda
e Rwanda. La località non compare
sulle mappe del paese, tanto
meno sulle brochures delle agenzie di
viaggi; ma è tristemente famosa per
i frequenti incidenti stradali. Fino a
cinque anni fa vi si fermavano solo la
polizia, per ragioni di lavoro, e i matatu
(taxi superaffollati) che, per evitare
rischi e pericoli, viaggiano in
compagnia.
Da qui, infatti, comincia la lunga
salita che, dal fondo della Rift Valley,
sale verso gli altipiani. Gli autocarri,
sempre sovraccarichi, viaggiano a
passo di lumaca, facilitando gli attacchi
dei banditi, a volte senza fermare
gli automezzi: tagliano i lucchetti
di cassoni e container e gettano
la mercanzia sulla strada, mentre
i complici seguono con i camioncini
e ricuperano la refurtiva.
Da alcuni anni, con l’aggravarsi di
tali fatti, i camionisti hanno paura di
affrontare di notte la salita: la sosta
nottua è praticamente obbligatoria.
Così Salgaà è nata ed esiste solo
per i soldi che i camionisti vi spendono
ed è diventato tristemente famoso
anche come centro di propagazione
dell’infezione di Aids.
Salgaà non è altro che una piccola
«Sodoma e Gomorra», un grande
postribolo. Un agglomerato di baracche
con una popolazione di circa
2 mila persone; 21 bar e vari hotel,
oltre 300 prostitute e quattro cliniche
per malattie veneree. Nessun distributore
di benzina, né botteghe,
né un servizio sanitario, come drenaggi
e fogne; l’acqua è sempre insufficiente.
Al calare delle tenebre i camionisti
parcheggiano gli autotreni
in doppia fila, formando
una solida muraglia in entrambi i
lati della strada. Bar e rosticcerie entrano
in azione. Arrivano le donne;
atmosfera e locali si riempiono degli
odori di birra, carne arrostita, spezie
varie, sapone e sudori umani.
In tempo di piogge, Salgaà è un
mare di fango nero, tipico della terra
locale chiamata cotton soil (terreno
da cotone), che entra nelle scarpe
e le risucchia via dai piedi; si attacca
dappertutto, scivoloso come
sapone. Poche ore di sole e diventa
dura come cemento. E ricomincia il
polverone.
Ma nessuno si lamenta. Se tutti si
adattano al fango o polverone, le
prostitute cercano di premunirsi al
pericolo d’infezione dell’Hiv-Aids,
ma non riescono ad evitarla: nel giro
di sette anni sono raggiunte dalla
sentenza di morte.
Tutti in Kenya sono al corrente di
tale epidemia: è stata ufficialmente
dichiarata «stato di emergenza nazionale
». Ma negli ospedali governativi
non vi sono più posti letto.
Quelli privati si sbarazzano dei pazienti,
a meno che non siano in grado
di pagare un prezzo esorbitante
per una cura che non esiste. I dati ufficiali
del 2001 dicono che in Kenya,
su una popolazione di circa 30 milioni
di persone, ne sono morte 250
mila. Il numero è molto più alto.
Tra la gente comune raramente si
parla di tale sindrome: significherebbe
un’implicita aberrazione sessuale.
Gli annunci per radio o sui
giornali parlano di «lunga malattia
coraggiosamente sopportata». In
modo figurativo si usano frasi come
slim o kauzi (magro come un filo),
mikingo (lenta foratura) e altre colorite
espressioni dei dialetti locali.
«Sono venuta qui per disperazione
– spiega Jane G. -.
Non mi piace quel che faccio,
ma non ho altra scelta. Rischiamo
la vita senza nessun profitto».
Tutte le donne che arrivano a Salgaà,
sfidando un rischio così alto per
un prezzo irrisorio (due-tre dollari,
un vestito o un pezzo di stoffa), sono
spinte da miseria e destituzione dal
lavoro. Le statistiche, per quel che
valgono, dicono che il reddito medio
dei kenyani è di 290 dollari per anno,
meno di un dollaro al giorno. L’esplosione
demografica continua; cresce
il tasso di disoccupazione.
Ultima nata in una famiglia numerosa,
condannata fin dalla nascita a
vivere nella miseria, Jane era rimasta
orfana dei genitori quando frequentava
la scuola media. Accolta dalla
nonna, anch’essa povera in canna, rimase
incinta a 17 anni e fu espulsa
dalla scuola. Abbandonato il villaggio
natio, trovò rifugio e qualche lavoro
presso un convento di suore cattoliche.
A 19 anni è finita a Salgaà.
Con la figlia di quattro anni, vive
in una piccola baracca di legno. I
muri della stanza sono coperti di vecchi
giornali, che servono a tenere
fuori vento e pioggia. Una tendina
divide la stanza in «soggiorno» e «camera
da letto». In un angolo sono
ammucchiati gli utensili da cucina. Il
focolare a legna si trova nel cortile.
La stanza è mantenuta scrupolosamente
pulita.
La baracca di Jane è in un angolo
del cortile, sul quale se ne affacciano
altre 15. Vi è un rubinetto dell’acqua,
che spesso non funziona; due cosiddette
docce e quattro latrine comuni
sono in uno stato pauroso: il tutto
per 30 persone.
In una capanna di fango, dietro al
Good Time Bar, troviamo Monica
M., 32 anni, Aids all’ultimo stadio.
Sta adagiata su un sofà mezzo scassato,
la pelle giallastra, marcata da segni
d’infezioni cutanee, il corpo deperito.
Da un anno soffre di polmonite
e tubercolosi. Sembra arrivata a
pochi giorni dalla morte.
All’improvviso arriva Peter, fratello
di Monica. Insiste nel dire che la
sorella soffre di tubercolosi e sta «migliorando
». Ma Jane, che mi accompagna,
m’informa che Peter è appena
ritornato dal villaggio natio, dove
si era recato per informare la parentela
dell’imminente trapasso della sorella.
Anche lui è disperato: ultimo adulto
della famiglia rimasto in salute,
deve provvedere a tutto; ma per le
cure mediche non ci sono più soldi.
Da Mombasa al Congo e ritorno, i
camionisti trasportano nel loro sangue
il morbo dell’Hiv e lo distribuiscono.
Salgaà è diventato un amplificatore
della tragedia dell’Aids, che
infetta circa il 14% della popolazione
kenyana.
In questa stagione non c’è il fango;
ma il polverone pervade l’atmosfera.
La zona appare desolata
come sempre e le storie di disperazione
provocano un attacco di
depressione. Neppure i verdi e freschi
altipiani del Uasin Gishu riescono
totalmente a far dimenticare
le sordide realtà
di Salgaà.

Giorgio Ferro