Grazie, padre Franco

Egregio direttore,
se crede opportuno, la prego di far pervenire a padre Franco Soldati la seguente lettera.
«Carissimo padre Franco, mi hanno detto ciò che ti è capitato. Pertanto hai dovuto cedere e sei tornato in patria, nella nostra civiltà… avanzata, che ti farà vivere più a lungo, finché i medici non ti molleranno. Tu hai detto: fiat.
Tu che in Kenya, insieme al professor Operti, hai compiuto «il miracolo delle stampelle» per tanti poliomielitici (miracolo che il tuo caro fratello, padre Gabriele, ha pure filmato)… tu che hai ridonato la speranza (anche umana) a tante persone, oggi ti ritrovi blocccato per sempre.
Mi dicono che anche la tua mente… vagola.
Così le estremità del corpo (testa e gambe) incominciano odorare di… aldilà.
Volevo venirti a trovare ad Alpignano, dopo 32 anni dal nostro ultimo incontro in Kenya. Ma ho preferito non disturbare i tuoi ricordi. Preferisco ricordarti «in cammino», per aiutare i malati nel corpo e nello spirito. Preferisco rivedere i miei filmati, fatti a Tuuru nel 1971, le foto, le lettere che i miei alunni spedivano ai tuoi bambini…
Grazie di esserti donato a tutti. Grazie ai tuoi confratelli che ti stanno vicino con tanta tenerezza.

A padre Franco Soldati, 83 anni, rientrato dal Kenya per ragioni di salute, sono stati amputati interamente gli arti inferiori. Il 4 gennaio scorso moriva ad Alpignano (TO) nella «casa anziani» dei missionari della Consolata.

Tanina Vitale




La vita è sempre missione

Sono un’animatrice missionaria e non so a chi scrivere. Ma devo contattare, in qualche modo, qualcuno dei missionari della Consolata per dire grazie di aver mandato nella nostra parrocchia i padri Pietro Moretti e James Lengarin.
Mentre facevo una valutazione dell’andamento della nostra comunità parrocchiale (molto complessa, perché numerosa e con tante realtà), mi rendevo conto di quanto lavoro si sia fatto da quando ci sono i padri Pietro e James. Solo se i «pastori del gregge» sono forti e perseveranti nella provvidenza di Dio può avvenire questo.
Si, è vero: stiamo cambiando il nostro modo di vedere la parrocchia, la quale sta diventando un vero e proprio campo di missione. Diciamo: una piccola Africa a portata di mano. È questo che i nostri padri cercano sempre di insegnarci: vivere nella comunità e per la comunità, come una seconda casa, una famiglia, dove ogni componente deve sentire corresponsabilità che diventa «con-passione» per il prossimo.
Io appartengo, in un certo senso, ai missionari della Consolata, soprattutto da quando, tre anni fa, partecipai al pellegrinaggio Torino-Assisi-Roma, in occasione del centenario dell’Istituto Missioni Consolata. Quella meravigliosa esperienza ha dato un senso alla mia esistenza, delle risposte chiare: fare missione ovunque mi trovo. Non importa se non andrò in Africa. Voglio che la mia vita sia sempre missione.
Ma questo ideale svanisce subito se non si hanno testimonianze forti accanto. Queste le ho avute e le abbiamo con i padri Pietro e James, «i padri col grembiule», sempre «al servizio», anche solo per farti «una scrollata di pianto come sfogo».
Ringrazio il beato Giuseppe Allamano per la vocazione di questi missionari; ringrazio la Provvidenza che li ha mandati nella nostra parrocchia.
Grazie a chiunque legga questa lettera.

I padri Pietro Moretti e James Lengarin (il primo già missionario in Kenya e il secondo un samburu dello stesso paese) sono stati rispettivamente parroco e viceparroco di Galatina (LE). Oggi padre Pietro opera a Bedizzole (BS) e padre James a Martin

Maria Luce Bianco




Davvero poco praticante?

G razie, grazie di cuore per il numero di ottobre/novembre, interamente dedicato alle guerre. Ho letto e riletto ogni articolo, ogni annotazione, ogni piccolo inserto. Mi sono serviti per riflessioni, per prendere appunti, per parlarne e sensibilizzare altre persone.
Da appassionato viaggiatore, alla continua ricerca di gente da incontrare e realtà da conoscere (avevate pubblicato qualcosa di mio nel 2002 sullo «speciale Kenya»), ho trovato, negli articoli delle zone che meglio conosco, piena rispondenza con quanto la gente mi confidava (quasi parlasse a se stessa) davanti ad un tè, una focaccia o un pugno di riso.
In ogni articolo traspare la verità (mille e mille volte ripetuta, anche senza citarla) che a subire le peggiori conseguenze di ogni conflitto è sempre la «gente normale», la gente che noi incontriamo ogni giorno in ascensore, in autobus, nei supermercati.
Su una immaginetta, che per motivi affettivi conservo come una reliquia da oltre 40 anni, c’è una frase a cui ho sempre cercato di attenermi: «Solo lo stolto percorre correndo il cammino della vita, senza soffermarsi ad osservare le bellezze del creato». E, al centro di queste bellezze, il Grande Artefice ha posto l’umanità. Riuscirà mai il politico, l’uomo di governo e l’ambizioso di potere a capirlo?
Se guardiamo a ritroso la storia, le risposte sono poco confortanti. Ma la speranza non costa niente. Soprattutto se comincia a farsi strada nei giovani la volontà di propagarla. Che vita difficile avrebbero i fabbricanti e trafficanti d’armi! Né più né meno come i produttori di superalcornolici e sigarette in comunità di astemi e non fumatori.
Sicuramente qualche lettore (spero pochissimi) sarà in disaccordo con l’impostazione del numero. Forse quei lettori vorrebbero sempre foto di bambini che corrono felici sul cortile della missione, o che assistono a funzioni religiose. Ma a quanti bambini tutto questo viene negato dall’imposizione di una divisa militare o da lavori disumani dall’alba al tramonto?
Nelle realtà attuali dimentichiamo il «missionario/predicatore porta a porta», che misura il suo successo nel numero di conversioni, quasi si trattasse di un venditore di aspirapolvere. È il vivere la quotidianità con la gente del posto, condividee i sacrifici, lottare al loro fianco contro le ingiustizie, aiutare a risolvere i problemi contingenti che i governi trascurano (acqua, cibo, scuole, dispensari, assistenza medica, ecc.), predicare l’amore con l’esempio… che rende una missione (e lo spirito religioso che la anima) forte e credibile.
È possibile che molti i quali frequentano missioni e missionari non si convertiranno mai totalmente al cattolicesimo, perché il legame con la religione ancestrale è troppo forte per poterlo abiurare. Ma la loro stima, la loro lealtà, il loro attaccamento, il loro aiuto materiale non verrà mai a mancare.
«La legge dell’amore – scriveva Carrel in “Viaggio a Lourdes” – dà a ciascun individuo due ordini essenziali. Il primo è di voler bene agli altri. Il secondo è di correggersi dei difetti e dei vizi che impediscono agli altri di volergli bene».
E in un altro passo: «Voi dunque non insegnate ai vostri novizi a fare orazioni – diceva un prete a don Alexis -. E don Alexis rispose: “Io insegno loro a fare della vita una perpetua orazione”».
E dall’esempio di molte di queste orazioni, praticate dai missionari (uomini e donne), io, credente ma poco praticante (se per praticante intendiamo solo regolare frequentazione dei luoghi di culto), ho ricevuto tantissimo.

Mario Beltrami




ETIOPIA – Fame di Dio

Crocevia tra nord, sud ed est del paese, Modjo è pure un luogo strategico delle attività dei missionari della Consolata: opere sociali e pastorali, seminario minore e animazione missionaria vocazionale, fino a diventare un punto di riferimento per la formazione giovanile e centro di spiritualità per preti e religiosi.

Non c’era un filo d’erba verde, 10 anni fa, quando padre Domenico Zordan mi fece visitare il luogo dove stava costruendo la missione di Modjo, lembo meridionale della diocesi di Addis Abeba. Non un albero per ripararsi dal sole, che, sull’altipiano etiopico, sembra più implacabile che altrove. Nel grande prato arido, reso più vasto dalla mancanza di recinzione, unico segno di vita erano i muratori, intenti a ultimare la costruzione dell’asilo e innalzare i muri del salone e del seminario.

Oggi, ritornato nello stesso luogo, mi sembra di sognare: un bel viale di jacarande immette in un’oasi di pace, con prati verdi, vialetti alberati e siepi in fiore che circondano una nutrita serie di edifici; da una parte la casa dei padri, il seminario, il salone l’ampia chiesa e gli edifici del centro di animazione missionaria; dall’altra parte, divisa da una rete metallica e un enorme cancello in ferro, sorgono l’asilo, il dispensario, il centro di promozione della donna e l’abitazione delle suore della Consolata che gestiscono queste attività; in fondo c’è la scuola elementare, costruita dai missionari e consegnata alla gestione governativa. Nonostante l’ampiezza dello spazio, tanti edifici sembrano allo stretto.

UNA SCELTA RESPONSABILE

Si sa come vanno le cose in Etiopia: la chiesa cattolica è considerata quasi come una Ong e la presenza di missionari è condizionata dalla gestione di opere sociali; ma, una volta ottemperata a tale condizione, è libera di svolgere le attività religiose a piacimento.
È così che a Modjo, nel grande terreno concesso dal comune per le opere sociali, i missionari della Consolata hanno costruito anche un seminario minore, per preparare gli aspiranti missionari.

«Attualmente abbiamo sette seminaristi – spiega padre Antonio Benitez -: quattro hanno terminato i dieci anni della scuola d’obbligo e frequentano l’undicesima e dodicesima classe nella scuola statale della città; gli altri tre fanno un anno di propedeutica, cioè di preparazione per entrare nel seminario maggiore di Addis Abeba e frequentare i corsi di filosofia».

Padre Antonio, giovane missionario della Consolata colombiano, è arrivato in Etiopia due anni fa e da pochi mesi è approdato a Modjo, immergendosi totalmente nella vita della missione: insegna nella scuola matea, aiuta nella pastorale e nella formazione dei seminaristi. Anzi, al momento della visita ha la piena responsabilità del seminario, poiché il direttore, il kenyano padre Gabriel Odwori, è in vacanza.

«È un’esperienza gratificante – continua il padre -, anche se non mancano le difficoltà, soprattutto a livello di comunicazione: io sono ancora alle prese con l’apprendimento della lingua amarica e i seminaristi, provenienti da diverse etnie, kambatta, adiya, oromo, hanno difficoltà ad esprimersi in inglese».

Quello dell’inglese è un problema cruciale per tutti i giovani che vogliono accedere agli studi superiori, dove l’insegnamento è impartito in questa lingua: un esame di stato, tutto in inglese, dichiara l’idoneità a tale passaggio. Ma poiché nella scuola statale questa lingua viene appresa ad orecchio, senza badare troppo alla scrittura, per affrontare tale esame è necessario un supplemento di preparazione.

Per questo, buona parte del tempo dell’anno propedeutico è impiegato dai seminaristi nello studio dell’inglese e in corsi di vario genere, per colmare eventuali lacune nella formazione intellettuale e spirituale.

«Anzitutto – continua padre Antonio – i giovani hanno bisogno di approfondire la dottrina cristiana, poiché le nozioni apprese sono alquanto superficiali e tradizionali; inoltre, diamo loro lezioni di bibbia, psicologia e formazione umana. Essi sono ancora alla ricerca della loro vocazione e hanno bisogno di chiarire le motivazioni delle loro scelte».

Negli anni passati il seminario di Modjo aveva più di una ventina di aspiranti missionari; quest’anno sono solo sette. Eppure in Etiopia c’è abbondanza di ordinazioni sacerdotali e vocazioni alla vita religiosa.
«È vero. Ma dovremmo domandarci come mai ci siano tante vocazioni – interviene padre Paolo Angheben -. Si rimane stupiti se le confrontiamo col piccolo numero dei nostri cristiani. Una superiora provinciale etiopica, passando a Modjo, mi fece questa confessione: “Se in Etiopia ci fosse più lavoro, ci sarebbero meno vocazioni”. Venendo da una suora locale, questa frase dice molto. Data la disoccupazione, i problemi di sopravvivenza, l’incertezza del futuro, non mi meraviglio più di tanto che tanti giovani vogliano entrare in seminario, dove hanno da mangiare e possono proseguire gli studi. Capitava così anche in Italia, subito dopo la guerra. La tentazione è forte. Per questo è necessario aiutare questi giovani a un serio discernimento e alla responsabilità delle loro scelte».

GIORNI DI FUOCO

Padre Paolo è ormai un veterano in Etiopia. Vi arrivò nel 1985 e, dopo un intermezzo nel Centro missionario di spiritualità nella Certosa di Pesio (Cuneo), è ritornato al primo amore, prendendo le redini della complessa missione di Modjo.

Essa è nata e cresce come «Centro di animazione missionaria vocazionale»; ma l’arrivo di padre Paolo ha aggiunto una nuova dimensione: è diventata pure centro di spiritualità, un servizio di cui la chiesa locale ha estrema necessità.

In Etiopia, infatti, non ci sono solo problemi di carattere economico e sociale, ma anche a livello di chiesa, soprattutto nella formazione del clero: i giovani affrontano gli studi di filosofia e teologia con profonde carenze di base e la scarsità di personale non permette al seminario maggiore di offrire una formazione adeguata alle sfide della situazione.
«In Etiopia c’è tanta fame, non solo di pane, ma anche di Dio – afferma padre Paolo -. Preti, suore, religiose sentono il bisogno di maggiore profondità spirituale. I sette anni di esperienza nella Certosa di Pesio mi hanno preparato a rispondere a questa sfida della chiesa in Etiopia».

Per ora il centro di Modjo organizza incontri e ritiri spirituali di una giornata; ogni mese si svolge la scuola di preghiera: il sabato per le religiose, la domenica per i giovani, il lunedì per i sacerdoti. Sono chiamati «la tre giorni di fuoco». Nel corso dell’anno sono accolti gruppi giovanili delle singole parrocchie della diocesi di Addis Abeba e di quelle circostanti, per una giornata di formazione e approfondimento della vita cristiana.
L’iniziativa sta riscuotendo un crescente successo: oltre all’apprezzamento del vescovo, sono molte le singole persone, preti, suore e laici impegnati, che vengono al Centro per trascorrere un fine settimana o più giorni in preghiera e meditazione, o fare un ritiro spirituale sotto la direzione di padre Paolo.

A tale scopo, Modjo offre molte possibilità: la città è un nodo stradale di comunicazione tra nord, sud ed est del paese; la missione è lontana dal traffico, per cui offre ampi spazi di silenzio; l’ambiente è ombreggiato e il Centro è dotato di alcune camerette semplici ma confortevoli.

Sono molte le richieste di corsi prolungati da parte di giovani e catechisti. «Finora mi sono recato nelle singole parrocchie – spiega padre Paolo – e ho guidato settimane di formazione e spiritualità nel centro catechetico di Gighessa; ma ci stiamo attrezzando per accogliere e alloggiare i gruppi giovanili anche a Modjo. Avere dei giovani che risiedono per più giorni in questo centro dà la possibilità di fare un lavoro più in profondità. Non bisogna dimenticare che la vocazione nasce dalla preghiera e noi vogliamo formare i giovani alla preghiera».

STORIA DELLA SALVEZZA

Per comprendere meglio lo scopo del suo lavoro, padre Angheben mi porta in cappella e mi spiega il significato degli oggetti che ne adoano le pareti. «È la cappella della storia della salvezza» spiega il padre.
Nella parete di fondo, in basso a sinistra, un ceppo secco richiama la profezia di Isaia: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto spunterà dalle sue radici». Il germoglio, promessa di nuova speranza per il popolo d’Israele e per tutta la storia umana, è Gesù, spiega padre Paolo, indicando l’icona della Madonna della tenerezza, che raffigura Maria mentre stringe al petto il figlio divino.

La storia della salvezza culmina nella morte e risurrezione di Cristo, raffigurata in una grande croce etiopica che domina il centro della parete. «È la croce gloriosa, la croce della risurrezione, secondo la tradizione etiopica».

Sotto la croce c’è un bastone rosso. Esso ricorda il serpente di bronzo di Mosè, che Gesù prese come simbolo del suo innalzamento sulla croce (cfr Giovanni cap. 3); al tempo stesso, richiama il bastone del pellegrino, che nell’iconografia è sempre di colore rosso. Il bastone è sostenuto da una specie di contenitore rotondo, tipico della tradizione etiopica: i viandanti vi mettono il cibo per il viaggio; qui funge da tabeacolo, dove è conservata l’eucaristia, il cibo che sostiene il pellegrinaggio della vita cristiana. «Meta del nostro cammino è la comunione con la Trinità» continua padre Paolo, indicando, a destra della croce, la grande icona della Trinità di Rublev.

«Questa storia la celebriamo ogni giorno nella messa. Al centro della cappella ci sono due massob, altro oggetto tipico della cultura etiopica: viene regalato agli sposi il giorno delle nozze: è il loro tavolo da pranzo. Quello più grande lo usiamo come altare per celebrare l’eucaristia, il banchetto delle nozze etee dell’Agnello. Su quello più piccolo c’è una bibbia aperta: entrambi i massob ci ricordano il pane della parola e il pane del corpo di Cristo».

Sulla parete destra è appeso un grande quadro del beato Giuseppe Allamano. «L’eucaristia porta subito alla missione – conclude padre Paolo -. È necessario raccontare agli altri la storia della salvezza, come ha fatto e continua a fare il nostro fondatore, chiamando e inviando i suoi missionari».

I FIGLI DEL MASSAIA

La missione di Modjo ha tutte le attività di una parrocchia. La comunità è ancora piccola: conta appena una decina di famiglie cattoliche e altrettante miste, con un genitore cattolico e l’altro ortodosso. È una situazione familiare non priva di tensioni, ma potrebbe diventare un punto di partenza per il dialogo ecumenico, con un approccio ancora tutto da inventare.
La maggior parte di coloro che frequentano la chiesa sono giovani, a volte con afflusso massiccio, ma incostante, attirati dalle iniziative religiose e sportive promosse dalla missione e, forse, dalla speranza di avere qualche aiuto materiale.

Modjo dà l’impressione di essere una zona ricca; ma in realtà c’è molta povertà, soprattutto morale. Essendo un importante nodo stradale nel cuore del paese, la cittadina è nata e vive di attività legate a piccoli commerci e alberghetti per gente di passaggio, specie camionisti, con conseguente diffusione di prostituzione e Aids. Un bambino su cinque è orfano a causa di tale flagello.

«Non è facile parlare di Dio in una situazione del genere – confessa padre Paolo – Modjo è una missione complessa e difficile. Tuttavia facciamo il possibile per rispondere ai problemi della popolazione col nostro lavoro pastorale, di formazione giovanile e opere sociali».

In queste attività, i missionari sono affiancati dalle suore missionarie della Consolata, che gestiscono l’asilo, dispensario medico e un centro di promozione della donna, frequentato da ragazze e madri di famiglia. In esso imparano cucito, economia domestica e a gestire piccoli progetti con cui guadagnare qualche soldo e sostenere dignitosamente la famiglia.
Provvidenziale è pure il lavoro che le suore svolgono nel dispensario, sia nella cura della popolazione della città, sia con campagne di vaccinazioni nei vari villaggi della zona.

La missione, infatti, si sta estendendo anche nelle zone rurali. A Dibandiba, periferia della città, è stata costruita una scuola cappella che raccoglie 250 bambini e giovani della zona; un’altra è in progetto a Ejersa, a 15 km da Modjo: per ora giovani e bambini si radunano all’ombra di un grosso sicomoro.

Di recente, padre Paolo ha visitato anche i villaggi più lontani da Modjo, dove si trovano alcuni discendenti dei cattolici battezzati dal cardinal Massaia, rifugiatisi in questa zona per fuggire alle persecuzioni che, negli anni 1880, l’imperatore Giovanni iv, istigato dal patriarca copto, scatenò contro il grande missionario e la chiesa da lui fondata. Anche questi cristiani hanno fame di Dio.

Benedetto Bellesi




Carissimo Mario

Lettera a padre MARIO BIANCHI viale dei teologi e missionari ciità di Dio

ti scrivo dopo la tua morte.

Stranamente ti dò del «tu», cosa che non ho mai fatto prima… Ecco alcune riflessioni sulla tua figura, basate su ricordi personali nell’arco dei tuoi ultimi 24 anni. I lettori valuteranno la validità o meno del mio scritto.

Nel 1969-1975,

quale superiore generale dell’Istituto Missioni Consolata (imc), numerosi giovani confratelli ti ritenevano un po’ conservatore, eletto per frenare le iniziative che uscivano dal solco tradizionale dell’Istituto. Pareva tu volessi comprimere le aperture iniziate o tollerate dal predecessore, padre Domenico Fiorina.

Non dico che tu non stimassi padre Fiorina: tutt’altro. Ma eri fermo nei tuoi principi, decidevi. Così hai accettato (sia pure a malincuore) l’uscita dall’Istituto di parecchi missionari, soprattutto in Brasile. La tua preoccupazione era quella di salvare l’imc, e pensavi di farlo basandoti sulla tradizione della Chiesa.

Come professore di teologia dogmatica, prendevi con serietà il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ma ragionavi: il Concilio non ha promulgato dogmi; la dottrina è la stessa. Quindi gli appelli del Concilio a cambiare e adattarsi al mondo d’oggi non erano vincolanti.

Volevi evitare pratiche rischiose, che potevano snaturare il fine dell’IMC; volevi scongiurare comportamenti secolarizzanti. Tuttavia accettavi la critica e il dialogo. Quando un missionario commentava per iscritto le tue circolari, non solo eri pronto ad ascoltare, ma eri anche riconoscente. Al termine ribadivi le posizioni che ritenevi giuste.
Delegavi responsabilità concrete al vicesuperiore generale, ai consiglieri e ai superiori delle circoscrizioni in Africa, nelle Americhe e in Europa. (Allora non eravamo ancora in Asia).

Rieletto superiore

per altri sei anni (1975-1981), la tua posizione è rimasta la stessa. Tuttavia hai avuto un vicegenerale che dialogava con i missionari fuori dei «parametri normali» dell’IMC. Il vice si è sforzato di trattare bene gli esclaustrati giustificati e non giustificati. Tu ne hai visitati alcuni nel loro posto di lavoro, informandoti sulle loro attività.

Volevi persone decise a lavorare «dentro» l’IMC. Altrimenti, dovevano decidere diversamente… Però, di fronte ad un missionario che ha lasciato l’Istituto per incardinarsi in una diocesi, hai scritto: «Il problema reale con lui (ma anche con altri) è forse un altro: quello di misurare il tempo necessario ad ogni individuo per maturare la decisione se restare o no nell’Istituto… In tale situazione può accadere che i superiori chiedano all’individuo di decidere prima che egli sia pronto a farlo. È un problema di discernimento non facile; e si può sbagliare, senza volerlo. Penso che, se si sbaglia, per l’individuo resta sempre aperta la porta per rientrare nell’Istituto. Tale porta è aperta anche per il padre…».

Come superiore generale
hai avuto contatti con altri omologhi di varie congregazioni. Hai parlato, per esempio, con i padri Pedro Arrupe e Theo Van Asten, superiori dei Gesuiti e Padri Bianchi. Con loro hai trattato il problema del Mozambico durante la lotta anticoloniale nei primi anni ’70. Tu non eri molto entusiasta dei missionari che, in blocco, abbandonavano il paese per protesta contro i vescovi portoghesi, che appoggiavano troppo il governo coloniale. Tuttavia hai rispettato la decisione dei missionari, esprimendo loro solidarietà.

Ai missionari della Consolata hai concesso piena libertà di lasciare o restare in Mozambico. Esortavi chi rimaneva ad essere difensore della causa dei nativi. Hai maturato questo atteggiamento dietro consiglio e informazione dell’allora superiore dei missionari nel paese.

Un missionario della Consolata, mozambicano, fuggì dal suo paese per raggiungere il Fronte di liberazione del Mozambico. E, anche se viveva con i ribelli, l’hai sempre considerato dell’IMC. Perché? Penso due motivi: primo, quella persona si trovava in una zona con la presenza di missionari della Consolata; secondo, il superiore dell’IMC in Tanzania aveva rapporti regolari con lui. Quindi, anche se era con i ribelli, manteneva contatti con l’Istituto.

Dopo 12 anni

al comando-servizio dell’IMC, hai operato a Roma presso le pontificie Opere missionarie (1987-1995).
Passando per la capitale mi piaceva ricordarti alcuni episodi, quando eri generale. Eri anche contento di discutere sulla tua tesi di laurea in teologia, sostenuta all’università Angelicum di Roma. Il tema elaborato fu «il sacerdozio dei fedeli nella teologia di san Tommaso di Aquino».

Una volta ti chiesi: «Quale esperto sul sacerdozio dei fedeli secondo san Tommaso, cosa pensi di quanto dice il Vaticano II al riguardo?». La risposta fu: «Poiché il Vaticano II non ha definito dogmi, il pensiero equilibrato di san Tommaso è anche discutibile».
Per questa posizione ti ritengo un pensatore lucido ed onesto. Ma ti era difficile accettare i cambiamenti nella traditio christiana con il sottofondo aristotelico-tomista. Oggi, nella Città di Dio, non so come vedi le cose… Intanto sta a noi risolvere i problemi fino alla nostra morte.

Nel 1997, sempre a Roma,

mi hai pregato di sostituirti nel celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata. Tornato a casa, mi hai domandato:

– Cosa hai detto ai fedeli?

– In cinque minuti ho detto che sono mozambicano e che sono missionario della Consolata. Educato dai missionari della Consolata sin da bambino, sono felice di celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata.

Ricorderò sempre il tuo sorriso e le parole: «Oggi sei più maturo, hai superato il “sessantotto”, ti sei convertito».

L’ultimo nostro incontro
avvenne nella casa-madre di Torino (novembre 2002). A pranzo e cena ti facevo ridere con i miei «spropositi». Ma tu capivi che scherzavo.

Una volta dissi: Giovanni XXIII, dopo la prima sessione del Concilio, ha saputo dai medici di avere una malattia che lo avrebbe presto portato alla morte, se non si fosse sottoposto a cure speciali. E ti domandai:
– Perché papa Giovanni ha risposto ai medici che preferiva la morte e dissolversi in Cristo?

– Papa Giovanni era un uomo di fede: credeva nella vita dopo la morte…

Subito ti incalzai:
– Tanti parlano di fede, ma hanno una grande paura di morire; ci tengono a questa vita e ai posti che occupano e si fanno prolungare la vita con numerosi farmaci.

– Sì, è vero…
– Allora significa che costoro non hanno fede?
Sorridesti… Padre Mario, perché non mi dicesti chiaramente: «Il tuo pensiero potrebbe offendere personaggi a cui si deve venerazione»?…

Perché questa lettera? Per farti conoscere, affinché molti si sentano motivati ad essere onesti e decisi nella vita. Tu sei stato così. E meriti rispetto, ammirazione.

Nato a Coriano (FO) il 30 luglio 1925, Mario Bianchi entrò nell’Istituto Missioni Consolata (IMC) nel 1947, proveniente dal seminario di Rimini. Sacerdote, si laureò in teologia all’Angelicum di Roma. Per 13 anni professore di dogmatica nel seminario teologico IMC di Torino, fu pure direttore della rivista Missioni Consolata.

Destinato al Kenya nel 1966, nel 1969 fu eletto superiore generale dell’Istituto. Rieletto per un secondo mandato, terminò il servizio nel 1981. Poi fu superiore della Delegazione centrale e, nel 1987-1995, segretario generale della Pontificia Unione Missionaria del clero (Roma). Trascorse gli ultimi anni della vita a Torino, nella casa-madre, impegnato nell’animazione missionaria. L’11 agosto 2003 fu chiamato alla casa del Padre a 78 anni, di cui 55 di sacerdozio.

Il suo testamento

Ringrazio il Signore di avermi chiamato ad essere sacerdote,
religioso e missionario nell’Istituto della Consolata.
Egli ha disposto che avessi la responsabilità della direzione
dell’Istituto in un periodo non facile della sua storia.
Chiedo perdono a Dio e ai confratelli per ciò che non ho fatto
o avessi fatto non bene nello svolgimento del mio servizio.
Prego il Signore di donarmi la perseveranza nella vocazione
missionaria, per la quale non Lo ringrazierò mai abbastanza;
e mi raccomando con fiducia e umiltà alla misericordia di Dio
e alle preghiere dei confratelli.
La Consolata, che mi volle nella famiglia dei suoi missionari,
mi ottenga dal Signore la corona dell’apostolato
per le preghiere del Padre Fondatore e di coloro
che, fedeli alla vocazione missionaria e religiosa,
hanno già terminato il servizio alla Chiesa
e si sono ricongiunti al padre della nostra famiglia.

p. Mario Bianchi (Roma, 12 luglio 1981)

D i fronte ad un mondo che si caratterizza per sfiducia, insoddisfazione e negatività, padre Mario Bianchi ha cercato di essere per tutti, ma soprattutto per i confratelli, un missionario che parlava della tenerezza di Dio padre, una tenerezza che conforta, che dà gioia e speranza.
Sentiva, in questo modo, di essere un vero missionario della Consolata.
p. Piero Trabucco

padre Felipe Couto




Ex profugo somalo

Egregio direttore,
spero ardentemente che la pateità sua reverenda pubblichi la presente e la recapiti alla reverenda suor Giannasilvia Quaranta, missionaria della Consolata. La suora è stata superiora nella mia parrocchia S. Cuore di Gesù a Mogadiscio, Somalia.
Ella riuscì a creare un ambiente familiare nella comunità locale. Durante i mesi mariani, tutti noi indistintamente ci riunivamo nella navata della chiesa per recitare il S. Rosario ogni giorno. Inoltre, durante la S. Quaresima, ogni venerdì andavamo alla via crucis.
È da menzionare, altresì, la madre superiora che insegnava ai neocomunicandi e cresimandi, ma anche a noi adulti, che frequentavamo l’insegnamento molto interessante.
Personalmente, sono legato alla reverenda suor Giannasilvia da filiale rapporto. Ogni volta che avevo problemi personali e familiari, il suo grande cuore era aperto per me e potevo rifugiarmi. Inoltre Lei è stata la maestra della mia cara figlia Mona Lisa.
Poi, sebbene vivessimo separati da immensa distanza, io e la mia reverenda madre spirituale eravamo vicini col cuore, nelle preci. Quando una delegazione della mia diocesi andò a Roma per la beatificazione di Giuseppe Allamano, un amico fraterno era membro della nostra delegazione, Fulgenzio Benedetto Osman, che venne anche al mio studio tecnico professionale. Io rimasi male della sua improvvisa partenza.
Ad ogni modo lo pregai di salutarmi la molto reverenda Giannasilvia, se l’avesse incontrata durante la sua visita in Italia. La incontrò, e lei mi mandò una cartolina che conservavo in mezzo al mio breviario: ogni giorno, quando recitavo le ore liturgiche, ricordavo questa straordinaria suora. Purtroppo, durante la mia permanenza in Kenya come profugo, un incendio distrusse completamente il campo-rifugiati. Ma, nelle mie preci, ricordo sempre la reverenda suor Giannasilvia Quaranta.
Grazie in anticipo, pateità sua reverenda. Nel Signore.


Hugo ci rimanda anche alla triste vicenda di tanti profughi somali. Ora egli vive in Canada. La sua lettera è bella non solo per l’affetto che lo lega a suor Giannasilvia, ma anche per lo stile un po’ aulico.

Hugo G. Yassin




Se ti piace il filetto di pesce persico

Cari missionari, sono contenta che, nel bellissimo numero dedicato interamente al Kenya (Missioni Consolata, ottobre/novembre 2002), abbiate parlato anche dei problemi ambientali che affliggono il paese.
Bene ha fatto Paolo Moiola a elencare i parchi nazionali e a ricordare le cifre che documentano il declino di elefanti e rinoceronti. Questi animali, simbolo del Kenya, grazie anche alla loro maestosa dimensione e alla facilità con cui è possibile fotografarli, hanno attirato le attenzioni dei conservazionisti. Stimolante è pure l’immagine dei fenicotteri del Lago Nakuru.
Il Kenya, oltre che di grandi savane, è anche un paese con grandi laghi, e purtroppo le tragedie che si consumano SOTTO la superficie non sono da meno di quelle che si consumano SOPRA
.
Malgrado l’abnegazione di tanti rangers nei parchi, malgrado le campagne del WWF e i fondi raccolti, su elefanti, rinoceronti e giraffe incombe la minaccia dell’estinzione. E nei laghi un numero incredibile di specie (pesci, crostacei, molluschi) è già scomparso. La scomparsa ha avuto conseguenze catastrofiche sulla vita di tantissimi kenyani.
La catastrofe ha assunto i connotati più vergognosi nel Lago Vittoria, che i colonizzatori anglosassoni hanno piegato alla spietata logica imperialista, infischiandosene delle necessità dei pescatori kenyani, ugandesi e tanzaniani. Infatti anche Tanzania e Uganda sono bagnate da questo lago.
Consideriamo, ad esempio, i danni causati dall’introduzione del PESCE PERSICO del Nilo, decisa nel 1854 dall’amministrazione coloniale britannica, nonostante il parere sfavorevole degli esperti di allora. Il persico del Nilo (un predatore che raggiunge 2 metri di lunghezza e 200 chili di peso) ha conosciuto una espansione enorme, che ha favorito lo sviluppo di una fiorente industria ittica; ma, nello stesso tempo, ha provocato il crollo dei ciclidi (pesci di piccola taglia che, da sempre, costituivano la base alimentare degli indigeni).
Se è vero ciò che ha scritto la biologa Janet N. Abramovitz, nel 1996 il Lago Vittoria aveva perso già 200 tra specie e sottospecie endemiche di ciclidi e le rimanenti 150 erano in grave pericolo. Un altro biologo, Les Kaufman, ricercatore alla Boston University, ha descritto la perdita nel Lago Vittoria come «la prima estinzione di massa di vertebrati che gli scienziati hanno avuto l’opportunità di studiare».
Privata della possibilità di mangiare sia i pesci piccoli (perché spariti) sia i pesci grossi (non catturabili con piccole imbarcazioni), la gente del posto è da tempo costretta a ripiegare su altre soluzioni: ad esempio, comprare a prezzi tutt’altro che accessibili gli scarti della lavorazione del pesce persico fatta nelle industrie impiantate dagli inglesi.
Però queste industrie stanno attraversando un momento non felice, perché le popolazioni di pesce persico sono a loro volta in forte calo, e per effetto della diminuzione delle specie predabili, e per effetto dell’inquinamento, e per effetto della pesca eccessiva, condotta da vascelli troppo grandi che lavorano per conto di compagnie troppo ingorde.
Il Lago Vittoria NON è un piccolo lago; con i suoi 62 mila chilometri quadrati di superficie (però negli anni ‘50 erano 68 mila) è il terzo lago del mondo, preceduto solo dal Mar Caspio e dal Lago Superiore. NON è modesto per quanto riguarda il volume (in certi tratti raggiunge i 100 metri di profondità). Se, dunque, su un lago così grande l’impatto della «civiltà» è stato così devastante, che speranze possono esserci per i laghi minori?
Il 2003 è stato proclamato ANNO INTERNAZIONALE DELL’ACQUA. Se vogliamo che lo sia anche per il Kenya, cerchiamo di fare qualcosa per il Lago Vittoria (così lo chiamarono gli inglesi in onore della loro regina, ma le popolazioni locali lo avevano sempre chiamato «Nyanza» che significa «ACQUA»).
Ogni volta che ci viene voglia del filetto di pesce persico, cerchiamo di ricordare i danni incalcolabili procurati dall’introduzione di specie esotiche in habitat non in grado di sostenerle. E, soprattutto, cerchiamo di non lasciar sole persone come la professoressa Wangari Mathai, cofondatrice del Green Belt Movement (cfr. Missioni Consolata, ottobre/novembre 2002).
I guai di questa coraggiosa kikuyu con il corrotto regime di Nairobi iniziarono proprio sulle rive del Lago Vittoria: dopo appena un anno di attività, il Green Belt Movement era riuscito a mettere a dimora una quantità di alberi superiore a quella che il governo era riuscito a piantare nei 10 anni precedenti. Però il discorso non è solo quantitativo, ma anche qualitativo: troppe volte la riforestazione è intesa come AGROFORESTRY, come BUSINESS e come introduzione di specie esotiche, dotate di apparati giganteschi, che prelevano acqua a dismisura e creano i presupposti per altro degrado ecologico.
Se il Kenya vuole davvero uscire dalla crisi che lo attanaglia, dovrà restituire alle foreste naturali lo spazio loro sottratto dalle piantagioni di tabacco, cotone, caffè, canna da zucchero, ananas, e fare in modo che anche attorno ai laghi, come il Vittoria, sia ricreata la lussureggiante vegetazione presente fino ad alcuni decenni fa.
Speriamo che almeno i cattolici del Kenya prendano a cuore questi problemi, così come è sembrato di capire dall’intervista di Paolo Moiola ai quattro vescovi e, in particolare, dalle parole pronunciate da monsignor Virgilio Pante.
Aiutiamo il Vittoria a… vincere, ad essere un lago di vita e non di morte.

Ave Baldassarretti




ETIOPIA – Ciclica o endemica? A proposito di fame in Etiopia

Domenica 11 maggio 2003 a Cachachulo. Dopo la messa, i capi delle Associazioni contadine ripetono davanti a padre Paolo Marré una litania di problemi: «Nessuno ci aiuta. Dopo varie relazioni alle autorità, abbiamo solo promesse. Le organizzazioni umanitarie non vengono qui perché non ci sono strade. Intanto moriamo di fame e sete. Le donne fanno fino a 8 ore di cammino per attingere l’acqua. Buona parte del bestiame è morto. Venite a vedere».
Non ne abbiamo bisogno: abbiamo già incontrato carcasse di capre per la strada; il padre ha visitato le famiglie un mese fa. Finalmente può comunicare la bella notizia: mercoledì inizierà la distribuzione di cibo alle famiglie bisognose.
Cachachulo, a 95 km da Shashemane, ai confini sud-orientali dell’Oromia, con oltre 100 persone, è un’icona della disperazione di un intero paese con oltre 63 milioni di abitanti, di cui nove decimi vivono in aree rurali, le più colpite dalla carestia.

DISASTRO ANNUNCIATO
L’allarme fu lanciato dal Programma alimentare mondiale (Pam) fin dal giugno 2002: 6 milioni di persone in Etiopia rischiano di morire di fame. Il 18 novembre, a Londra, il primo ministro etiopico, Meles Zenawi, chiese più aiuti alla comunità internazionale, per la sopravvivenza di 12 milioni di etiopi; oggi si parla di 15 milioni e potrebbero arrivare a 20. «In un solo paese – afferma Georgia Shaver, segretario del Pam in Etiopia – il numero di bisognosi di cibo potrebbe essere pari a quello di tutto il resto dell’Africa».
Ad aggioare le cifre, oltre al Pam, l’agenzia di soccorsi umanitari dell’Onu, è pure la Commissione per prevenire e prepararsi ai disastri (Dppc), organo del governo etiopico per monitorare l’andamento della sicurezza alimentare nel paese e sollecitare gli aiuti inteazionali.
I paesi donatori (Usa in testa) hanno inviato tonnellate di granaglie; la Dppc ha riunito le Associazioni dei contadini, steso le liste delle famiglie bisognose e cominciato a distribuire mezzo quintale di grano a ogni gruppo di 5 persone: tale aiuto, però, si riduce a una manciata di grano tostato al giorno, con cui un’intera famiglia deve sopravvivere per un mese.
Per quanto misero, tale soccorso non arriva regolarmente a tutti, sia perché molte zone del paese sono lontane dai punti di distribuzione, sia perché gli aiuti inteazionali sono insufficienti: la tragedia è più grave del previsto e, dopo i primi mesi, l’attenzione mondiale è stata rivolta al disastro umanitario e alla ricostruzione dell’Iraq. Di fronte al disastro annunciato, i mezzi di comunicazione mondiale non hanno speso una parola, troppo assorbiti dalle vicende del Golfo.

«INCUBO RICORRENTE»
L’espressione è del presidente etiopico. La crisi è peggiore di quelle del 1983-84 e del 1993-94, in cui 10 milioni di persone furono colpite dalla carestia, causando un milione di vittime. Questa volta, il numero potrebbe essere triplicato, senza contare le conseguenze che la denutrizione lascerà nei superstiti.
Sembrerebbe che tale incubo ritorni ciclicamente ogni dieci anni. Le statistiche foite dal Dppc testimoniano che in Etiopia fame e denutrizione sono endemiche.
Dal 1984 tutti gli anni si susseguono carestie di varia intensità, con la differenza che, negli anni «normali», la distribuzione di cibo procede bene; quando la crisi è troppo estesa, la mancanza di strutture e risorse adeguate impedisce interventi rapidi e capillari. Di solito si dà la colpa ai fenomeni climatici. Nel caso attuale la crisi è attribuita al fatto che da un paio d’anni piove poco e nel 2002, soprattutto, le precipitazioni sono state pressoché nulle, sia durante le piccole (febbraio-maggio) che le grandi piogge (agosto-novembre).
In teoria, l’Etiopia non manca d’acqua: numerosi fiumi, tra cui il Nilo blu, nascono sugli altipiani, attraversano il paese ed esportano acqua in Sudan e Kenya; nella Rift Valley, una delle zone più colpite dalla carestia, ci sono una dozzina di laghi, alcuni grandi come il Garda. In alcune zone piove più che in Nord Italia: mentre in certe aree c’è la siccità, in altre i raccolti sono più che abbondanti.

DISASTRO POLITICO
Qual è, allora, la vera causa della fame in Etiopia? Il professor Mesfin Wolde Mariam, fondatore del locale Movimento per i diritti umani, studioso e autore di vari libri sul problema, afferma che la fame in Etiopia è di «origine socio-politica» e spiega: «L’85% della popolazione etiopica vive di agricoltura di sussistenza ed è vulnerabile alla fame, perché oppressa e sfruttata da regimi dispotici e sfavorita dalle condizioni di mercato. Il regime marxista ha nazionalizzato la terra e i contadini non hanno più diritto di proprietà né sicurezza di tenuta: essi possono coltivare piccoli appezzamenti di terreno finché esprimono lealtà al regime. L’obbligo di partecipare agli incontri di indottrinamento sottrae tempo prezioso al lavoro dei campi; la chiamata alle armi lascia il lavoro agricolo a donne, vecchi e bambini. Ogni anno, poi, al tempo del raccolto, piombano sui contadini esattori di tasse, contributi, debiti, forzandoli a pagare o andare in prigione. Gli agricoltori vendono i loro prodotti quasi allo stesso tempo, provocando il crollo dei prezzi. Più devono pagare più prodotti sono costretti a vendere: così 5-6 milioni di persone rimangono senza cibo e non hanno soldi per comperarlo, neppure negli anni di abbondanza.
Malnutrizione e fame si trascinano di anno in anno. Se poi falliscono le piogge stagionali, la fame diventa un killer di massa».
Per superare la povertà ereditata dal passato, il governo ricorre a iniziative come quelle del «cibo o denaro in cambio di lavoro», ma esse non bastano per mantenere la promessa di dare a tutti «tre pasti al giorno». Sono state introdotte misure positive: economia mista, liberalizzazione del mercato, decentramento amministrativo, investimenti nell’agricoltura, ma i risultati non si vedono.
Le spese militari assorbono almeno il 5% del prodotto interno lordo (Pil); il regime continua a essere oppressivo e l’amministrazione burocratica e corrotta; la proprietà è ancora negata; l’assegnazione della terra dipende dai venti politici; i sistemi di produzione e allevamento sono arretratissimi; le strutture di stoccaggio, mercato e ridistribuzione dei prodotti quasi inesistenti; la ricerca scientifica e difesa del suolo dalle erosioni totalmente assente…
E mentre milioni di persone rischiano di morire di fame, il problema più discusso dal governo sono i quattro sassi di Badme, per cui il paese si è dissanguato di uomini e denaro nella guerra contro l’Eritrea.

SINDROME DA DIPENDENZA
«Finché piove negli Stati Uniti e in Canada, non importa se le piogge sono totalmente assenti in Etiopia» recita una trita e ritrita facezia. A parte il sarcasmo, essa fotografa la crescente sindrome da dipendenza del paese.
Tale dipendenza fa comodo al regime. Le donazioni inteazionali sono la principale industria dell’Etiopia: quest’anno dovrebbero sfiorare il miliardo di dollari (un sesto del Pil). E poiché tali aiuti sono gestiti dalla Dppc, parte di essi resta impigliata tra le maglie dell’intricato labirinto burocratico, a livello nazionale e locale.
Inoltre, la fame può essere usata come strumento di potere per muovere le pedine della politica e degli equilibri etnici. Nonostante i proclami di sostegno all’agricoltura, afferma il prof. Mesfin, «la politica inespressa del regime consiste nel tenere i contadini politicamente senza potere, economicamente impoveriti e socialmente arretrati: così, nelle cosiddette elezioni, alcuni membri del partito ottengono fino al 100% dei voti e il regime mantiene una legittimazione di facciata per governare il paese».
La sindrome da dipendenza fa comodo anche alla comunità internazionale, che chiude un occhio sulle cause delle carestie, tutt’altro che inevitabili.
Controllata con pugno di ferro dall’esercito, l’Etiopia è diventato un paese strategico del Coo d’Africa nella lotta internazionale al terrorismo. Gli americani elogiano il ruolo di Addis Abeba in tale lotta e meditano di collocare basi militari Usa nel paese, lungo il confine con la Somalia. Lo ha rivelato il segretario alla difesa Usa, Donald Rumsfeld, a metà dicembre 2002, durante la visita al Coo d’Africa, dove ha incontrato il presidente Meles Zenawi.

SOLUZIONE POLITICA
«Le potenzialità agricole dell’Etiopia (terra, risorse idriche, diversità climatiche) possono diventare talmente produttive – continua il professor Mesfin – da permettere al paese di esportare una grande quantità di prodotti. Non ho alcun dubbio al riguardo. Ma fino a quando i contadini rimangono impotenti e in servitù, e fino a quando continua la cattiva amministrazione di tali risorse, la carestia sarà sempre un problema per il quale la comunità internazionale sarà chiamata a provvedere soccorsi di emergenza».
«In ultima analisi, la fame è una creazione politica e dobbiamo usare mezzi politici per porvi rimedio» afferma James Morris, direttore esecutivo del Pam. L’alternativa è il caos.
La fame provocò scioperi, manifestazioni studentesche e proteste generali, portando alla caduta dell’imperatore Hailé Salassié (1974). La carestia del 1983-84 diede origine ai partiti di opposizione e alla guerra civile, culminata con la fuga di Menghistu. Anche oggi le proteste di studenti e contadini vengono represse nel sangue. Se il regime non cambia atteggiamento, l’Etiopia potrebbe diventare teatro di una tragedia simile a quella dei Grandi Laghi.

Benedetto Bellesi




A Fatou manca la ricetta

Storie di malati e malattie nel Sud del mondo
In un ospedale africano:
«Per favore, dottore, niente anestesia locale.
Io ho i mezzi: mi faccia un’anestesia d’importazione».
(Serge Latouche, La fine del sogno occidentale)

Presentazione
SALUTE?
Dovrebbe essere un diritto universalmente riconosciuto. Non è così.
Nei paesi del Sud si muore di Aids, tubercolosi, malaria,
ma anche di morbillo e altre patologie normalmente curabili.
Intanto, in quelli del Nord…

Nei paesi occidentali il progressivo smantellamento
dei sistemi sanitari pubblici sta producendo
un sistema all’americana: soltanto chi può
permetterselo avrà le cure migliori. Sarah Delaney,
una giornalista statunitense, ha raccontato (1) la vicenda
di un amico riemerso da un coma profondo:
«Adesso, dopo circa un mese di cure dagli esiti incoraggianti,
il suo tempo è scaduto: la sua assicurazione
(privata) ha deciso che 30 giorni potevano bastare
e dall’ospedale l’hanno rispedito a casa. La sua
famiglia non può permettersi di pagare le costose cure
di cui avrebbe bisogno ancora per un anno. (…)
Negli Usa, l’assistenza sanitaria può essere eccellente,
ma solo per chi se la può permettere».
Se al Nord il problema è soprattutto di qualità, al Sud
è ben più grave. Nella quasi totalità dei paesi del Sud,
soprattutto in quelli dell’Africa (ma anche in America
Latina e in Asia), un servizio di sanità pubblica universale
e gratuito non è mai esistito. «Sono stanco di
vedere – ha denunciato James Orbinski di Medici
senza frontiere (2) – donne, bambini e uomini morire,
mentre so che un trattamento efficace esiste e potrebbe
essere alla loro portata. Sono stanco di constatare
come il profitto abbia sempre la meglio sul
diritto alla salute. Non ne posso più della logica per
cui chi non può pagare, muore».
«Mancava – si legge nel libro di Andrea Moiraghi (3)
– solo un’ulteriore tragedia che, puntualmente, è arrivata:
l’Aids. La sindrome da immunodeficienza acquisita
(…) è la nuova malattia dei poveri e sta causando
in Africa la più devastante epidemia che l’umanità
ricordi: il numero dei contagiati è tale che
intere generazioni di africani rischiano di scomparire.
Ma questo in Africa, non nei paesi occidentali, dove
l’infezione è relativamente sotto controllo, grazie
a costosissimi farmaci, inavvicinabili alla stragrande
maggioranza degli africani; tant’è che all’equatore è
nato questo slogan: “Il Nord del mondo produce i farmaci
e il Sud produce Aids”».
Si stima che ogni giorno 15.000 persone contraggano
l’Aids. La Sars, la polmonite atipica individuata
da Carlo Urbani, è a 6.500 casi mondiali in 3 mesi.
Il vaccino non c’è ancora, ma è già guerra (mondiale)
per i brevetti. Avvenne così anche negli anni
Ottanta per il virus Hiv, ma allora la guerra fu circoscritta
a due contendenti: l’équipe dello statunitense
Robert Gallo e l’Istituto Pasteur di Parigi. «L’argomentazione
– scrive Paul Benkimoun (4) – è chiara:
senza brevetti, niente profitti; senza profitti,
niente ricerca e sviluppo. Se non si colloca su un piano
etico, il ragionamento non fa una grinza, anche
se sarebbe necessario dimostrare che le aziende farmaceutiche
compiono effettivamente sforzi considerevoli
per coprire i costi di ricerca e sviluppo. In
realtà, dai bilanci pubblicati dai grandi laboratori
emerge che questi spendono una quantità di denaro
nettamente superiore per il marketing, la pubblicità
e le spese di gestione che per la ricerca e lo sviluppo,
mentre i profitti ammontano a cifre impressionanti».
Chissà cosa avrebbe detto e scritto Carlo Urbani sulla
corsa al deposito dei diritti sulle scoperte che riguardano
la Sars…
Per concludere, mi si conceda un piccolo ricordo
personale. Nel lontano 1988, con Carlo Urbani,
sua moglie Giuliana e altri amici facemmo un viaggio
in India del Nord e Nepal. Al ritorno in Italia Carlo
fu subito ricoverato per febbre tifoide. Già allora
egli aveva la volontà di conoscere luoghi, culture e
soprattutto persone ben al di là del consueto. Fino
al punto di prendersi una malattia tipica del luogo.
In questo dossier ritroverete alcuni vecchi articoli di
Carlo, pubblicati nell’ambito di «COME STA FATOU?»,
la rubrica che MC gli aveva affidato. Ora, in ricordo
dell’amico e collaboratore prematuramente scomparso,
noi abbiamo inventato il «PREMIO GIORNALISTICO
DOTTOR CARLO URBANI» che, al contrario di altri
concorsi, invece di distribuire riconoscimenti in denaro,
manderà i vincitori… a esercitare la loro professione
di medici.
Proprio là, dove l’«assenza di salute» è prassi quotidiana.
PAOLO MOIOLA

(1) Su Internazionale del 27 settembre 2002.
(2) Riportato in «Accesso ai farmaci», dossier di Msf – Italia
(si veda in bibliografia).
(3) Andrea Moiraghi, Pole pole, 2003 (in bibliografia). Segnaliamo
che lo scorso 26 maggio l’Unione europea ha
approvato una nuova regolamentazione che dovrebbe permettere
alle aziende farmaceutiche di vendere nei paesi
poveri i medicinali contro Aids, malaria e tubercolosi a
prezzi inferiori.
(4) Paul Benkimoun, Morti senza ricetta (in bibliografia).

Dove povertà e malattia
si generano a vicenda

di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

Nel corso degli ultimi anni
si è assistito ad un
miglioramento globale della
salute delle popolazioni.
Tuttavia resta ancora
elevatissimo il numero di
individui, soprattutto nei
paesi della fascia
intertropicale, che non hanno
accesso alle cure sanitarie, e
lo scarto tra poveri e meno
poveri si è ulteriormente
approfondito.
Secondo l’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS),
2 miliardi di individui vivono
nella povertà, e di questi 700
milioni vivono in situazioni di
estrema precarietà. Per queste
persone l’accesso a servizi
sanitari e a cure mediche non
è assolutamente assicurato,
quando addirittura
impossibile. La povertà genera
malattie, attraverso la
mancanza di igiene, strutture
sanitarie e adeguati
trattamenti, educazione. Per
questo in
molti paesi
l’attesa di
vita alla
nascita non supera i
50 anni, e sono malnutrizione
e tutta una serie di malattie
tropicali a compiere la
decimazione soprattutto nei
primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS
nell’Assemblea generale
hanno fissato l’obiettivo di
garantire la salute per tutti i
popoli del mondo entro l’anno
2000. Purtroppo tale
traguardo sembra ancora ben
lontano, e addirittura in
alcune aree si è assistito ad
un deterioramento della
situazione sanitaria e della
qualità della vita.
Per chi vive in un paese
sviluppato è in genere
difficile immaginare la
situazione nella quale la gran
parte dell’umanità vive nei
paesi in via di sviluppo. E di
molte delle
malattie più
diffuse al mondo
si sa quasi nulla,
spesso anche il nome
suona del tutto insignificante,
come avitaminosi,
schistosomiasi, dracunculosi,
dengue, e così via. Si
impiegano nel mondo risorse
enormi per la ricerca sul
cancro, o le cardiopatie, o le
malattie vascolari, ma non
tutti sanno che non è per
queste malattie che la
maggioranza dell’umanità
soffre e muore.
In questa rubrica, attraverso
brevi resoconti di giornate
di lavoro in alcuni paesi
tropicali, ci racconteremo
qualcosa che riguarda la
salute, o meglio l’assenza di
salute, in questo mondo dei
più sfortunati, dove povertà e
malattia si generano a
vicenda.

Pcome parassiti
I PARASSITI DEL MEKONG
Troppi bambini cambogiani hanno la «pancia grossa» o addirittura la
cirrosi epatica. Basterebbero 180 lire contro la schistosomiasi, ma…
Viaggio in un paese stremato dalla guerra civile e dalla povertà.
di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

L’ATR72 della «Royal Air
Cambodge» sfiora con il
carrello le cime di alcuni
alberi. Dopo aver posato rumorosamente
le ruote sulla corta pista in
terra battuta, le turbine frenano
con un ruggito la corsa dell’aereo.
Un’ora abbondante di volo ci ha
portati all’aeroporto di Stung
Treng, nel nord-est della CAMBOGIA,
dove il Sesan e il Sekong si versano
nel Mekong, a circa 40 chilometri
dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino
al finestrino, osservavo il paesaggio
sotto di me e, nei varchi tra
i cumuli di condensa tipici di quell’ora,
intorno a mezzogiorno, scorrevano
lentamente risaie, foreste e
fiumi. Il corso del Mekong, visto
dall’alto, lascia immaginare l’imponenza
di questo fiume, che disegna
ampie curve nel verde intenso
della vegetazione. A stento si possono
vedere i piccoli villaggi sulle
sue sponde, giusto una linea di
quadratini di un altro colore, tra
cui è magari identificabile il tetto
variopinto di una pagoda. Ed è difficile
immaginare in questo stupendo
quadro quante incredibili
atrocità siano state consumate, e
quanta sofferenza sia nascosta sotto
quegli alberi. Il verde intenso
della foresta a tratti scompare, per
lasciare il posto ad ampie macchie
grigiastre, testimonianza della
deforestazione selvaggia che incombe
nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di
Stung Treng, ci prepariamo a risalire
un tratto del Sekong, per andare
a visitare gli abitanti di un gruppo
di villaggi più a monte. Poco più
tardi stiamo già scivolando sulle acque
blu e perfettamente lisce del
fiume, tra due pareti di impenetrabile
verde. Con me viaggiano due
medici e due microscopiste cambogiani.
Trasportiamo farmaci e
materiale di laboratorio.
Sulla piroga sventola la bandiera
di Médecins Sans Frontières
(MSF), che dal 1993 cerca di
far fronte in questa regione al grave
problema della schistosomiasi.
Oggi stiamo andando a verificare
la presenza della malattia in una zona
molto remota, ed eventualmente
distribuire il farmaco che trasportavamo,
il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi
sanitari più importanti dei
paesi della fascia intertropicale, e la
forma diffusa lungo il fiume
Mekong è una delle più gravi. In
Cambogia le dimensioni del problema
sono state comprese solo di
recente, grazie all’intervento di
MSF che ne ha identificato l’area
più colpita e ha messo in opera delle
misure di controllo. In molti villaggi
lungo il Mekong i segni della
malattia sono drammaticamente
evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono
di dolori addominali cronici, emettono
feci con sangue e muco, il loro
addome si gonfia progressivamente
per l’ingrossamento di milza
e fegato, ed a partire dagli anni
dell’adolescenza sviluppano i primi
sintomi della cirrosi epatica, la
stessa malattia che colpisce gli alcolisti.
Si forma acqua nella pancia
(ascite), si gonfiano le vene sulla superficie
dell’addome e si formano
varici nell’esofago. Negli stadi
avanzati della malattia il soggetto è
estremamente emaciato, sofferente,
con una enorme pancia, gambe
magre ed edematose, fino a che la
rottura delle varici esofagee e la
conseguente emorragia ne causa il
decesso. Coloro che sono infettati
da molti parassiti hanno anche un
arresto della crescita e dello sviluppo
sessuale, così che l’età apparente
trae spesso in inganno e un
ventenne può essere facilmente
preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da
un piccolo verme che vive nelle vene
intorno alla parete dell’ultimo
tratto dell’intestino. Se le uova prodotte
con le feci arrivano nelle acque
del fiume, si schiudono e liberano
un piccolo organismo che,
nuotando, viene attirato particolarmente
da un certo mollusco, una
piccola conchiglia che vive nelle
fessure delle rocce semisommerse
nel fiume. All’interno della conchiglia
il parassita matura e forma una
piccola larva. Questa lascia la conchiglia
e si libera nelle acque del
fiume. Se entra in contatto con la
pelle umana, è in grado di perforarla
ed attraversarla. Una volta penetrato
il parassita si lascia trasportare
dal sangue e, dopo un
complicato percorso, raggiunge la
sede definitiva del suo sviluppo,
appunto le vene intorno all’intestino,
per diventare adulto.
Il problema principale è causato
da quelle uova che, prodotte dalla
femmina, non riescono a mescolarsi
alle feci come previsto, ma vengono
portate via dalla corrente sanguigna
nelle piccole vene dove i
vermi vivono. Queste uova finiscono
intrappolate nel fegato, causandone
l’ingrossamento, la fibrosi, e
poi la cirrosi. Questo fa ingrossare
la milza e fa aumentare la pressione
del sangue nella vena porta.
Questa «ipertensione» causa l’ascite
e la formazione di varici esofagee.
Più sono numerosi i vermi adulti,
più grave è la malattia. Ne deriva
che solo i soggetti continuamente
esposti a nuove infezioni sviluppano
gravi sintomi. Essere esposti all’infezione
significa avere molti
contatti con l’acqua del fiume, nelle
zone dove ci sono quelle conchiglie
e dove nelle acque finiscono le
feci umane. In zone disabitate la
trasmissione non può esistere. E
chi ha più contatti con il fiume? Basta
arrivare in un villaggio per capirlo.
La nostra piroga quel pomeriggio
è arrivata a Sdau, un
villaggio di un migliaio di abitanti,
lungo il Sekong. È quasi il tramonto:
i colori del fiume e del cielo
sono stupendi. Spento il motore
dell’imbarcazione per arrivare dolcemente
sulla riva, piombiamo in
un piacevole silenzio, nel quale è facile
sentire le grida dei bambini che
giocano poco lontano, tutti immersi
nell’acqua del fiume… vicino le
rocce dalle quali si tuffano. Ecco il
primo bersaglio della malattia: i
bambini.
Il loro contatto con l’acqua del
fiume è importante. È forse l’unico
gioco disponibile e offre un piacevole
ristoro nell’afa soffocante. E
poi correre nei campi non è, forse,
così raccomandabile… in un paese
con una delle più alte concentrazioni
al mondo di mine antiuomo!
Poco più vicine alla riva le sorelle
più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti,
a lavare i poveri panni
o intente a sciacquare gli umili
utensili domestici: un cesto di
bambù, un mestolo, o qualche ciotola.
E sulla riva qualche bambino
più piccolo, che fa la cacca nel fiume.
Una scena normale lungo un
fiume tropicale, ma è questo il ritratto
della trasmissione della schistosomiasi.
Bambini infetti fanno
la cacca, dove probabilmente ci sono
delle uova di schistosoma. Poco
lontano le rocce ospitano la conchiglia
che fa diventare infettante la
larva, e nella stessa zona altri che
nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi
dal nostro arrivo i bambini
escono all’asciutto, mostrando i
loro enormi ventri, costellati di tante
piccole cicatrici. Ci accompagnano
silenziosi lungo il sentirnero
che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno
o di bambù per i più poveri, incontriamo
altri bambini, quelli che
non hanno abbastanza forza per
andare a schiamazzare nel fiume.
Sono seduti sulla scala che sale al
piano rialzato, con lo sguardo più
triste degli altri, e la pancia ancora
più grossa. Alcuni adulti sanno che
quei bambini sono malati di qualcosa
che ha a che vedere con il fiume,
ma sanno anche che per loro,
gli abitanti di Sdau, come per quelli
di tantissimi altri villaggi in Cambogia,
non ci sono cure. L’ospedale
più vicino è a due ore di piroga,
e poi bisogna pagare le medicine, e
quassù soldi non ce ne sono. Non è
facile avvicinare le persone, tutti
sembrano diffidenti, ed anche un
po’ spaventati. La strategia del terrore
fa ancora sentire il suo alito in
Cambogia. In questi villaggi è facile
morire anche per molto meno:
basta una diarrea o una polmonite,
quando poi non si accanisca su
questa gente una epidemia di febbre
emorragica o di malaria. Le
donne partoriscono nelle loro capanne
senza alcuna assistenza sanitaria
ed in precarie condizioni igieniche.
Ci dicono che a volte i bambini
muoiono vomitando sangue
(la rottura delle varici esofagee).
Nonostante l’evidenza decidiamo
di esaminare alcuni campioni di feci
per confermare la presenza della
malattia.
Intanto do un’occhiata al resto
del villaggio, mentre penso a
cosa servirebbe per restituire la
salute a queste persone. Sono colpito
dalla loro povertà. L’unico bene
che custodiscono in casa è una
piccola riserva di riso e qualche
utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna
Huong, silenzioso ragazzino
con una fionda appesa al
collo, un viso pallido e affilato, ed
un enorme ventre che lo obbliga a
camminare con la schiena curvata
indietro, come una donna alla fine
della gravidanza. Mi osserva curioso
e, dal modo di sorridere, sembra
evidente che si aspetta qualcosa da
me.
Passiamo la notte nel villaggio,
rassicurati dagli abitanti che ci mostrano
i loro AK47, con i quali ci difenderebbero
dai khmer rossi. Al
mattino cominciamo a distribuire il
farmaco. Verrebbe voglia di curare
anche tutte le polmoniti, congiuntiviti,
anemie e quanto altro scorre
sotto i nostri occhi. Purtroppo,
quando le risorse sono carenti, occorre
stabilire delle priorità e la
schistosomiasi, per la grave malattia
e la mortalità che ne derivano,
qui a Sdau rappresenta una priorità.
Distribuiamo la dose di praziquantel
ad ogni abitante. In queste
situazioni costa meno trattare tutti
che esaminare tutti e trattare solo le
persone infette. È una delle regole
in simili programmi di sanità pubblica
nei paesi in via di sviluppo.
Huong vuole essere il primo
a ricevere la medicina, e rimane
vicino a noi ad assistere
al trattamento degli altri del
villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso
del suo ventre enorme. La
medicina tradizionale di queste regioni
tratta il dolore addominale facendo
delle piccole bruciature con
dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per
questo le pance di chi ha la schistosomiasi
qui sono piene di cicatrici:
sono le bruciature che i bambini
crescendo accumulano, ogni
volta che si lamentano dei loro dolori.
Purtroppo chi è già gravemente
malato non beneficia del
trattamento: la cirrosi del fegato è
una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare
la sopravvivenza è possibile, ma tali
trattamenti sono completamente
fuori della portata di chi vive in villaggi
come Sdau. Dopo due giorni
lasciamo il villaggio, con almeno un
problema in meno, ma allontanandoci
lo immaginiamo sprofondare
di nuovo nell’isolamento e nella
mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi
interessa anche l’80% dei
bambini, e il trattamento costa 12
centesimi di dollaro: circa 180 lire.
Ma moltiplicare le 180 lire per le decine
di migliaia che aspettano di essere
trattati fa diventare il costo insostenibile
per il paese, e poi la mancanza
di infrastrutture ne rende
difficile la distribuzione, e negli
ospedali non c’è personale formato
per controllare la distribuzione del
farmaco e l’evoluzione della malattia,
e ancora in molte aree l’accesso
è difficile a causa dell’insicurezza:
khmer rossi, banditi, anche gli infermieri
cambogiani hanno paura
ad andare in certe zone. Così un
problema in apparenza semplice diventa
in realtà difficile in paesi (e
non sono pochi) come la Cambogia.
Quando, sei mesi dopo, torniamo
a Sdau, Huong è già
morto, ma in tanti altri l’infezione
è scomparsa. L’infermiere
che ci assisteva sa ora riconoscere
agevolmente i malati attraverso i
sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta
dando i suoi frutti. Dopo tre anni
di attività, in molti villaggi le «pance
grosse» stanno scomparendo,
ma ne restano altri in attesa. Di un
po’ di salute e pace. E magari di
una piroga di Msf.

B come bambini
SE I BAMBINI
URINANO ROSSO

Può un’opera idrica aggravare un problema sanitario?
Sì, purtroppo…
Viaggio tra i piccoli malati di uno sconosciuto paese africano.
di Carlo Urbani
(marzo 1999)

Da Nouakchott a Rosso –
Scendiamo verso sud sulla
strada asfaltata che unisce
Nouakchott, capitale della MAURITANIA,
alla frontiera con il Senegal,
segnata dal fiume omonimo. Duecento
chilometri di asfalto, a tratti
completamente inghiottito da alte
dune che si muovono secondo il
vento, sommergendo palmeti e pali
del telegrafo.
Dopo un viaggio di 4 ore si arriva
a Rosso, capoluogo della regione
e posto di frontiera. Qui la sabbia
del deserto, solo punteggiata da
una timida vegetazione di arbusti e
palmeti, incontra le acque del fiume
Senegal. Di Rosso colpisce la
povertà e la desolazione di una
sconfinata bidonville, dove migliaia
di persone vivono (o meglio sopravvivono)
in piccoli ripari di teli
di plastica o sotto latte. In questa
zona negli ultimi 3 anni i medici del
locale ospedale riferiscono un netto
incremento del numero di bambini
che urinano sangue.
Urinare sangue in Africa è sinonimo
di schistosomiasi urinaria,
una varietà dell’infezione dovuta
ad una specie del parassita che vive
nelle vene intorno alla vescica,
causandone alterazioni che portano,
tra l’altro, alla presenza di sangue
nelle urine.
In questa zona fino a 2-3 anni fa
la schistosomiasi urinaria, pur già
presente, non sembrava costituire
un grosso problema. Ora in alcuni
villaggi lungo il fiume pressoché
tutti i bambini urinano rosso, e da
alcuni mesi alcuni hanno anche
sangue e muco nelle feci, un segno
di schistosomiasi intestinale, finora
sconosciuta nella regione.
Sull’altra sponda del fiume, in
Senegal, sta accadendo la stessa cosa
e la situazione sanitaria costituisce
ormai una seria emergenza. Cosa
sta succedendo? Da circa 8 anni
è entrata in funzione una grossa diga
poco più a valle di Rosso. Le
modificazioni chimico-fisiche delle
acque del fiume hanno notevolmente
favorito la diffusione dell’infezione,
agevolando lo sviluppo
della conchiglia necessaria al parassita
per maturare.
Questa conchiglia vive attaccata
ad alcune piante acquatiche, che
proliferano semi-sommerse sulle
sponde dei corsi di acque dolci in
ambiente tropicale. Prima della diga,
quando il livello del fiume, seguendo
l’alternarsi delle stagioni,
variava notevolmente tra stagione
secca e piogge, queste piante non
avevano vita facile e, in genere, seccavano
nei mesi in cui il livello dell’acqua
del fiume scendeva.
Ora, invece, si è creato un nuovo
variegato e diffuso ambiente favorevole
al loro sviluppo. Infatti il fiume,
alzandosi di livello, ha portato
l’acqua nei canali o piccoli laghetti
di ogni villaggio, formando piscine
naturali usate per lavare, lavarsi e
soprattutto giocare. Ora il livello è
costante per 12 mesi l’anno e la vegetazione
cresce rigogliosa. Così in
queste acque la trasmissione del
parassita è ormai altissima e l’infezione
si è diffusa raggiungendo livelli
impressionanti.
Andiamo a visitare una scuola
a Rosso. Spiegata agli insegnanti
la ragione della visita,
questi ci accompagnano a incontrare
una classe. La scena è
comune alle migliaia di scuole dei
paesi più poveri dell’Africa subsahariana.
I bambini sono ordinatamente
seduti in terra, perfettamente allineati,
con una piccola lavagna sulle
gambe e un gessetto per scrivere.
La parete di fronte, tinteggiata di
nero, è piena di scritte e disegni
esplicativi. Chiediamo ai bambini
chi di loro ha visto la propria pipì
di colore rosso. Una buona metà,
dopo le prime esitazioni, alza la mano
con un timido sorriso. Il maestro,
non soddisfatto, insiste, dicendo
che la pipì rossa non costituisce
motivo di vergogna. Così un
altro gruppetto si unisce ai primi.
Restiamo a lavorare nella scuola
per tutta la giornata. Dopo aver
esaminato con una tecnica di filtrazione
ed esame al microscopio
campioni di urine di tutti i bambini,
confermiamo l’allarmante dato.
In un villaggio poco lontano da
Rosso, Boghè, troviamo una zona
dove tutti i bambini hanno ematuria
(sangue nelle urine) e, poiché ce
l’hanno tutti, nessuno si ritiene malato.
Considerando che i bambini
iniziano ad infettarsi quando passano
parte del loro tempo a giocare
nell’acqua, quindi verso i 5-6 anni,
e che la malattia impiega qualche
anno prima di determinare
sintomi importanti, è intorno alla
pubertà che i bambini cominciano
a sviluppare una ematuria visibile
ad occhio nudo. Questo fa sì che
molti, nelle popolazioni residenti
nelle aree endemiche, ritengano
che le urine rosse siano un segno
della avvenuta o incipiente maturità
sessuale, un po’ l’equivalente
delle mestruazioni nelle femmine!
Ma purtroppo non si tratta solo di
una questione di colore.
Anzitutto la perdita di sangue
contribuisce all’anemia. In queste
regioni la malnutrizione, la malaria,
ed alcuni vermi intestinali costituiscono
già importanti fattori di rischio
per l’anemia, e il sanguinamento
dovuto alla schistosomiasi
non fa che aggravare il quadro clinico.
Ricordo di aver visto bambini
seduti in un’aula scolastica (che
qui significa sul pavimento) risultare
avere 4 gr. di emoglobina per
decilitro di sangue (i valori normali sono tra 12 e 14, e l’OMS giudica
anemico un bambino quando il
livello scende ad 11). Un’anemia
così grave costituisce una seria malattia,
mettendo in pericolo la vita
stessa.
Ci spostiamo a Tonguene,
un piccolo villaggio
che vive prevalentemente
della
coltivazione della
menta, richiestissima
al mercato di
Rosso per la preparazione
del tipico
thè mauro, e di ortaggi,
prevalentemente
pomodori, melanzane, patate
e okra.
Il villaggio è costituito da un
grappolo di casupole addossate su
un dolce pendio ad anfiteatro. Nella
piccola valle centrale, un tempo
terreno sabbioso dove pascolavano
le capre, ora si è formato un laghetto,
in connessione con il
bacino del fiume aumentato
di livello per la costruzione
della diga.
Questo marigot è considerato
dagli abitanti
una vera miniera: con
l’acqua trasportata nei
catini sul capo delle
donne si innaffiano gli
orti, si cucina e tutti i bambini passano
interminabili ore a sguazzare
felici nelle sue acque.
La sera al tramonto, sotto due
fromagers che si protendono sulle
sue acque, le donne si raggruppano
per lavare le vesti, i bambini più
piccoli e loro stesse. Tutto sembra
andare per il verso giusto, sennonché
da alcuni mesi sono sempre più
numerose le donne di Tonguene
che si recano a piedi all’ospedale di
Rosso, per portare i loro figli stanchi,
inappetenti, che lamentano talvolta
bruciore a urinare. La diagnosi
è facile: è sufficiente guardare
il colore delle loro urine.
Così capita che un anziano del
villaggio guardi con preoccupazione
quel laghetto e dica che «tutto
questo progresso» lo riempie di
preoccupazioni!
Come porre rimedio al problema
della schistosomiasi in
Mauritania? Occorre formare
il personale sanitario per metterlo
in condizione di conoscere la
malattia e saperla trattare, ed educare
la popolazione riguardo ai sintomi
e alle possibilità di guarigione,
qualora sia assunto un determinato
farmaco. Nelle scuole si deve insegnare
ai bambini a non urinare
nel fiume: meglio in brousse, nella
savana, se non ci sono latrine. E poi
altre strategie, ormai sperimentate
e certamente efficaci nel controllare,
se non l’infezione, almeno la
malattia.
Il problema è sempre lo stesso,
un ritornello noioso che interrompe
spesso i progetti di sviluppo a
queste latitudini: la mancanza di
danaro.
In Mauritania problemi come la
schistosomiasi sembrano insormontabili,
e solo il supporto di un
donatore esterno (in genere, organizzazioni
inteazionali o un governo
o una Ong) può permettee
la gestione. Proprio in queste
settimane nella regione di Rosso,
compreso il villaggio di Tonguene,
grazie al supporto di una fondazione
tedesca e dell’OMS, è iniziata la
distribuzione di praziquantel, un
farmaco efficacissimo nel curare
l’infezione. Ma per molti altri villaggi
in altre regioni o paesi le urine
resteranno rosse a tempo indeterminato.

F come farmaci
PRIMA IL PROFITTO,
POI LA SALUTE

Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore
è la possibilità di guadagnare, indipendentemente dai bisogni.
I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono
trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto.
Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta
dell’umanità.
Carlo Urbani

(febbraio 2000)

Un pomeriggio di ottobre del
1999, nella Cambogia nordorientale.
Stiamo percorrendo
una pista che costeggia il fiume
Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento
di un programma di controllo
delle malattie parassitarie, gestito
dal ministero della sanità con
il nostro supporto tecnico. Il programma
sembra andar bene, e siamo
orgogliosi di aver abbattuto i
tassi di mortalità per queste malattie
nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta
per sgranchirci un po’ e bere
dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso
villaggio, affacciato su una
bella insenatura del grandioso fiume.
L’aria è pulita e profumata, e la
luce dell’imminente tramonto colora
di violetto le acque del fiume, incoiciato
dal verde della esplosiva
vegetazione. Mi allontano un po’
dalla Toyota, e mi fermo sotto una
delle casupole, tutte uguali, tutte
estremamente precarie: un pavimento
di bambù su quattro alti pali
(le case sono così, anche per proteggersi
dalle inondazioni), quattro
pareti di foglie di palma intrecciate
e un tetto, anch’esso di foglie. Una
bambina sorridente sta appoggiata
alla ripida scala che conduce all’interno,
e in alto sua madre – così credo
– è seduta intenta a eliminare le
scorie da una manciata di riso. Mi
sorride. Così mi tolgo le scarpe e
salgo.
Seduta sul pavimento, la donna
ha sulle gambe un fagotto, che si
muove ritmicamente. Lei sposta un
lembo degli stracci e scopre un bimbetto
(10-12 mesi) ansimante, viso
affilato, occhi spalancati e una colata
di muco dal naso. Chiamo l’interprete,
per avere notizie di quel
piccolo visibilmente sofferente. È
così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche
smesso di succhiare il seno. Lo
tocco: è bollente. Avvicino un orecchio
al suo dorso: polmonite. Non
si lamenta mentre lo esamino, continua
solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo
di utile in quella condizione:
trovo delle compresse di ampicillina
e di paracetamolo. Dovrebbero
andare. Poi l’interprete spiega alla
mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in
una ciotola, scioglierla e dae un
cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi
reidratarlo con acqua, zucchero e
sale, poi il paracetamolo… cose banali
insomma, una serie apparentemente
semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto
della mamma sembra indicare tutto
il contrario: manovre complicate,
quasi impossibili, gesti del tutto
estranei alla quotidianità della sua
vita. Ci allontaniamo dalla casupola
lasciando il rantolo del bambino
con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno,
ci fermiamo di nuovo. La mamma
in lacrime ci dice che la sera prima
il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il
tramonto e durante la notte ha
smesso di respirare.
Cosa ha di particolare questa
storia? Nulla, assolutamente
nulla. Rivela semplicemente
quanto accade ogni giorno, in migliaia
di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi
piede in Africa, fresco di studi di
medicina tropicale. Aspettavo con
ansia di vedere malati affetti da quei
misteriosi e «affascinanti» morbi
esotici. Rimasi quasi deluso quando,
nella prima giornata di consultazioni
mediche, vidi solo bambini
gravemente malati o prossimi al decesso
per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie:
sono queste le prime cause
di morte nei paesi in via di sviluppo.
Il 95% dei decessi sono dovuti
a malattie infettive, per le quali
esistono efficaci trattamenti. Ma un
terzo della popolazione mondiale
non ha accesso ai farmaci basici.
Gran parte di queste malattie sarebbero
facilmente curabili; però,
proprio là dove più servono, i farmaci
relativi non sono disponibili,
spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza
tra bisogni
e offerta risiede in
rigide leggi di mercato,
in base alle
quali i prezzi dei farmaci,
protetti da
brevetto, sono fissati
sulla disponibilità a
pagarli nei mercati
dei paesi industrializzati.
Alla base di gran parte dei disastri
sanitari, dell’impossibilità a
gestire epidemie o endemie, a prevenirle,
a impedire la morte per banali
infezioni, alla base di tutto possiamo
affermare oggi con certezza
che c’è un problema di farmaci. Vediamo
di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci
utili in medicina tropicale, che
siano poco tossici, a basso costo ed
efficaci per debellare le malattie
(parassitarie, ad esempio), causa di
sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni,
tra i 1.233 nuovi farmaci offerti
dal mercato internazionale, solo 11
avevano come indicazione malattie
tropicali, e di questi 7 venivano dalla
ricerca veterinaria. Per cui appena
lo 0,3% della ricerca farmaceutica
contemporanea è indirizzata alle
malattie ai vertici di ogni classifica
mondiale di morbosità e mortalità.
Perché? Semplice, perché queste
malattie imperversano in mercati
poco remunerativi. Le priorità sono,
quindi, più di ordine economico-
commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono
investiti sulla ricerca di nuove
pillole contro l’obesità e l’impotenza,
dall’altro quasi niente per malattie
tropicali. Se poi talvolta (e c’è
l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un
farmaco attivo su una malattia tropicale,
spesso il fabbricante decide
di non commercializzarlo, poiché la
sua vendita sarebbe poco remunerativa
nei paesi dove i pazienti interessati
sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci
già disponibili, efficaci e semplici
da somministrare scompaiono
improvvisamente, come è stato il caso
della sospensione oleosa di cloramfenicolo,
usata per trattare la
meningite meningococcica (malattia
capace di uccidere in 24 ore). Tale
farmaco era l’alternativa al trattamento
con ampicillina, che richiede
4 infusioni endovenose al giorno,
contro un paio di iniezioni intramuscolari
in tre giorni per il cloramfenicolo.
Una bella differenza,
per trattare pazienti in strutture sanitarie
carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina.
Questo farmaco serve per
trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi,
più conosciuta come
malattia del sonno (trasmessa dalla
famosa mosca tse-tse). Bene, mentre
il vecchio farmaco usato (un derivato
dell’arsenico estremamente
tossico e somministrabile in dolorose
iniezioni) diveniva anche inefficace
per l’insorgenza di ceppi di
parassiti resistenti, appare questo
nuovo ritrovato. Sfortunatamente
due anni fa la ditta produttrice, detentrice
del brevetto, ha deciso di
sospendee la produzione per motivi
commerciali. E i circa 300 mila
malati si vedono rioffrire il vecchio
melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo
mercato globalizzato.
Uno dei problemi principali è
causato dal brevetto che
protegge il farmaco. Il brevetto
rappresenta un diritto sacrosanto
dell’industria per salvaguardare
i frutti dei suoi investimenti in
sperimentazioni. Accade però che
i brevetti si tramutino in micidiali
armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di
sviluppo, ma in realtà detentori di
tecnologie sufficienti per una produzione
farmaceutica. Nazioni come
India, Thailandia, Sudafrica o
Brasile sono in grado di produrre
farmaci utili per le loro popolazioni
e quindi rivenderli a prezzi accessibili.
Il prezzo di farmaci come
il fluconazolo, efficace in gravi infezioni
fungine, crolla così dai 20
dollari al giorno per un trattamento
in Kenya, dove è importato, a
meno di un dollaro al giorno in
Thailandia, dove è prodotto da una
azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una
norma che si chiama compulsory licensing,
o licenza obbligatoria.
A questo punto, la domanda che
sorge è: etica e sviluppo economico
del settore farmaceutico sono obiettivi
incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche
inteazionali (ad esempio, British
Medical Joual e JAMA) sostengono
che l’etica è compatibile con l’economia.
Per questo i medici, che
operano in questi contesti, sono
stanchi di dover pensare, di fronte
all’ennesima morte di un loro paziente:
«Mi spiace. Stai morendo a
causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’Aids mostra poi cifre
apocalittiche. Il 95% dei malati di
Aids nel mondo non ha accesso a
farmaci efficaci per restituire salute
e dignità. Ma (fatto ancor più
grave) i trattamenti per ridurre significativamente
la trasmissione
verticale dell’infezione da madre
sieropositiva a figlio al momento
del parto non sono disponibili proprio
nei paesi dove questa modalità
di trasmissione sta segnando le
nuove generazioni, condannando a
morte entro 5-8 anni un bambino
già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina,
efficaci anche se somministrati
per solo 4 settimane intorno alla data
del parto, sono vittime delle stesse
regole di mercato. Spietati brevetti
ne permettono la vendita a
prezzi proibitivi e ne impediscono
la produzione da parte di altre
aziende. Se è vero, si può sempre
applicare la licenza obbligatoria. Ci
ha provato la Thailandia iniziando
a produrre Azt per le sue donne
(tantissime) incinte e sieropositive.
Il farmaco ha avuto il costo abbattuto
del 7000%.
La reazione degli Usa, dove risiede
la ditta detentrice del brevetto, è
stata: non possiamo impedirtelo,
ma possiamo però ridurre le importazioni
dalla Thailandia… Cosa
questa insostenibile in questo momento
di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano
troppo; farmaci che esistono,
ma non vengono prodotti,
germi che divengono resistenti ai
comuni trattamenti (Tbc, leismaniosi,
tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca
farmaceutica ha altri obiettivi…
e le cifre di morte e malattia
continuano ad avere parecchi zeri
nei paesi dei poveri del mondo.
Quello che basterebbe è esigere un
«diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

SUGGERIMENTI
BIBLIOGRAFICI

ESPERIENZE
Andrea Moiraghi,
Pole pole.
Dentisti volontari in Africa,
Edizioni Camilliane, Torino 2003
CRITICHE AL SISTEMA
Paul Benkimoun,
Morti senza ricetta.
La salute come merce,
Edizioni Elèuthera, Milano 2002
Medici senza frontiere (Msf)
Accesso ai farmaci:
la malattia del profitto,
Dossier di Msf-Italia, Roma 2001
SANITÀ ITALIANA
Paolo Coaglia-Ferraris,
Camici e pigiami,
Editori Laterza, Roma 1999
Paolo Coaglia-Ferraris,
Pigiami e camici,
Editori Laterza, Roma 2000
Informatore anonimo,
La mala-ricetta,
Fratelli Frilli Editori, Genova 2000
SITI INTERNET
• Medici senza frontiere: www.msf.it
• Organizzazione mondiale
della sanità: www.who.org
Tutti i libri sono acquistabili
od ordinabili presso la
«Libreria Missioni Consolata»,
via Cialdini 2/a, Torino;
tel./fax 011.4476695,
e-mail: libmisco@tin.it.

Carlo Urbani (a cura di Paolo Moiola)




NOVA MAMBONE (Mozambico) opere di promozione umana

SAPORE DI SALE
Una missione, idee chiare sullo sviluppo,
un «fratello» tuttofare…
E tante attività che non sono venute mai meno,
anche nei momenti più difficili.
Grazie a un «ragioniere» onesto…

Dopo la seconda guerra
mondiale, i missionari della
Consolata che avevano evangelizzato
il nord-ovest del Mozambico
da 25 anni, decisero di aprire
un nuovo campo di lavoro
missionario. Fu scelta l’attuale regione
costiera a nord di Maputo,
nella provincia di Inhambane, diventata,
in seguito, la diocesi di
Inhambane.
Una serie di missioni fu pianificata
lungo la strada nazionale che univa
la capitale con la seconda città più
importante del paese, Beira, 100
chilometri più a nord. Agli inizi degli
anni ’50, padre Vespertini si installò
al limite estremo della provincia,
presso la città coloniale
di Nova Mambone, sulla riva
del fiume Save, che separa la
provincia di Inhambane da
quella di Beira. Fu lì che, nel
1954, inaugurò la parrocchia
del Sacro Cuore, sette chilometri
circa a ovest della città.
Tutto questo per far ricordare
come, nel 2004, si festeggeranno
i 50 anni di fondazione di questa
parrocchia. E bisogna dire che l’evangelizzazione
fu davvero intensa
se oggi i cattolici costituiscono il
6% della popolazione e i cristiani il
20%. Due sono le etnie che hanno
accolto il vangelo: i vatshwa e i vandau.
I primi abitano la regione costiera
(la maggioranza dei quali nella
provincia di Inhambane); i secondi
si sono piazzati lungo il corso
del fiume Save, all’interno, verso
lo Zimbabwe. Numerose sono le
sètte tra i vatshwa, mentre i vandau
sono rimasti più attaccati alle loro
tradizioni ancestrali.

UN «FRATELLO» E TANTE OPERE
Quando i missionari si installarono
a Doane (a circa 7 chilometri
dalla città di Nova Mambone), non
c’era praticamente nulla. Cominciarono,
dunque, non solo a evangelizzare,
ma anche a dedicarsi a
un’intensa promozione umana.
Questa cominciò subito attraverso
una fitta rete di scuole e
dispensari; ogni una decina di chilometri,
nasceva una scuoletta elementare,
mentre le superiori trovavano
posto nella missione centrale,
arricchite anche da un collegio per
gli alunni più lontani.
Accanto alle scuole, per venire
incontro ai bisogni sempre più numerosi
delle varie istituzioni e della
popolazione, cominciò anche a
sorgere un atelier (segheria e falegnameria),
famoso per la sua produzione
di sedie, mobili, banchi di
scuola (la prima segheria dei missionari
della Consolata era stata installata
in Kenya, nel 1905, da fratel
Benedetto Falda). Con le costruzioni
in muratura, divenne
indispensabile pensare a mattoni e
blocchi di cemento; da qui le varie
foaci e una scuola per preparare
valenti muratori. E, viste le distanze,
l’uso dei veicoli portò alla creazione
di garages e alla formazione
di numerosi meccanici.
Tutte queste incombenze «tecnico-
materiali» venivano normalmente
svolte dai «fratelli coadiutori
», preparati a questo scopo. A
Nova Mambone, maestro incontrastato
è fratel Pietro Bertone; è lui
a farmi da guida nei vari laboratori
e officine, mostrandomi un’infinità
di aggeggi, di cui talvolta ignoravo
non solo l’uso, ma perfino l’esistenza.
– Fratel Pietro, ma tu sei capace di
far funzionare tutti questi marchingegni?
– Sì, ma il problema più grosso è la
loro riparazione. Sovente manchiamo
di pezzi di ricambio e, per farli
arrivare, occorre talvolta molto
tempo e, soprattutto, pazienza. Allora,
supplisce la fantasia.
Naturalmente il fratello non è solo
in questa impresa; in 50 anni la
missione ha formato decine di giovani,
oggi esperti nei vari mestieri e
capaci di mantenere la famiglia con
la loro attività.
Parroco della missione è il giovane
Arlei Pivetta, originario del Brasile.
Mentre mi fa visitare la chiesa,
pur non essendo io un esperto, mi
accorgo che la costruzione, ormai
cinquantenaria, ha bisogno di
qualche riparazione. «Ma – mi spiega
il padre – non è solo questione di
anni, bensì anche del terribile ciclone,
che ha investito la regione
nel febbraio del 2000. Dalle cronache
risulta che i grandi nubifragi arrivano
raramente: due o tre per secolo;
quello del 2000 è stato uno di
questi. C’erano delle onde alte seisette
metri, che hanno spazzato via
tutto; centinaia di persone sono
morte e migliaia sono rimaste senza
casa».
Uno dei sogni della missione, in
occasione dei festeggiamenti per il
cinquantesimo, sarebbe quello di
una buona riparazione della chiesa,
soprattutto con la sostituzione totale
del tetto, davvero danneggiato.

IL SALE… DELLA SALVEZZA
Durante le guerre degli anni
scorsi era praticamente impossibile
fare arrivare denaro in Mozambico,
ma sotto la spinta del regime
marxista, bisognava arrangiarsi con
l’autofinanziamento, chiesa e missioni
comprese. Fu allora che il
parroco di Nova Mambone, padre
Amadio Marchiol, ebbe un’idea geniale:
dal momento che la missione
sorgeva in riva all’oceano, si sarebbe
potuto estrarre sale dal mare.
Dopo aver consultato qualche esperto,
la cosa risultò fattibile e il
progetto andò avanti.
È sempre fratel Pietro che mi
porta a visitare le saline. Ogni giorno,
a causa della rapida evaporazione,
una cinquantina di operai vi
lavora a tempo pieno; e, nei periodi
caldi e secchi, quando il sale può
essere estratto in sole 48 ore, il numero
degli operai raddoppia, arrivando
a un centinaio. Per quindici
giorni al mese la marea arriva fino
alle saline e due pompe «succhiano
» l’acqua del mare, inviandola in
un grande bacino. Attraverso diverse
vasche di decantazione, vengono
eliminati gli altri sali minerali
e nell’ultima (dove l’acqua raggiune
i 26-28°) rimane il sale pulito
e commestibile.
Non è il fratello a occuparsi direttamente
del funzionamento delle
saline, che è invece affidato a due
responsabili locali, molto ben preparati
e competenti. Sono proprio
loro a farmi vedere l’ultima tappa:
con dei grandi rastrelli si lava il sale
nell’acqua e poi lo si accumula su
dei piccoli marciapiedi. Viene poi
trasportato in magazzini speciali,
dove viene seccato e «iodato». L’ultima
operazione è l’insaccamento,
perché il sale sia pronto alla vendita
e al consumo.
Questo progetto fu la carta vincente:
da allora, la missione trovò la
sua fonte di sostentamento.
È per venire incontro ai bisogni
della gente e dei missionari che sono
state pensate e realizzate tutte
queste opere sociali: dispensari,
scuole, segherie, garages, falegnamerie…
La missione è così diventata
una vera e propria «azienda» con
un bel numero di operai. Fratel
Pietro mi aggioa sui numeri.
«Abbiamo circa cento-centocinquanta
operai, dei quali i due terzi
lavorano nelle saline. Ci sono poi
otto operai nella falegnameria e sei
meccanici. Sei ragazze lavorano
nell’asilo della parrocchia, mentre
i quattro ragazzi che costruiscono
blocchi di cemento non sono operai
effettivi: ogni mattina diamo loro
quattro sacchi di cemento, con i
quali riescono a produrre un po’
meno di duecento blocchi».
Ma la missione, con le sue scuole
e collegi deve anche mangiare;
per questo non manca l’orto e allevamenti
vari. Un solo operaio (sordomuto)
tiene a bada tutto, soprattutto
il frutteto da cui partono, per
la gente, frutti di varie qualità per
diversificare la loro alimentazione.
Mi sorge spontanea una domanda:
«Come mai tutta questa “impresa”
non è stata toccata durante
il periodo della nazionalizzazione e
della guerra civile?».
– È grazie al nostro “ragioniere” –
mi spiega sempre fratel Pietro -. È
lui che ha salvato la missione.
Quando l’esercito e il governatore
arrivarono a vedere le saline, lui
disse che erano sua proprietà. E dal
momento che venivano nazionalizzate
le opere della chiesa e non
quelle dei privati, tutto fu salvo. Per
parecchi mesi a Nova Mambone vi
fu un solo missionario, ma il ragioniere
continuò a gestire l’attività
con profonda onestà e sui conti
bancari i soldi non mancarono di
essere regolarmente depositati.
Oggi, il ragioniere è in pensione,
ma i due figli ne continuano
l’opera; sempre
allo stesso modo…

Jean Paré