ETIOPIA – Ciclica o endemica? A proposito di fame in Etiopia

Domenica 11 maggio 2003 a Cachachulo. Dopo la messa, i capi delle Associazioni contadine ripetono davanti a padre Paolo Marré una litania di problemi: «Nessuno ci aiuta. Dopo varie relazioni alle autorità, abbiamo solo promesse. Le organizzazioni umanitarie non vengono qui perché non ci sono strade. Intanto moriamo di fame e sete. Le donne fanno fino a 8 ore di cammino per attingere l’acqua. Buona parte del bestiame è morto. Venite a vedere».
Non ne abbiamo bisogno: abbiamo già incontrato carcasse di capre per la strada; il padre ha visitato le famiglie un mese fa. Finalmente può comunicare la bella notizia: mercoledì inizierà la distribuzione di cibo alle famiglie bisognose.
Cachachulo, a 95 km da Shashemane, ai confini sud-orientali dell’Oromia, con oltre 100 persone, è un’icona della disperazione di un intero paese con oltre 63 milioni di abitanti, di cui nove decimi vivono in aree rurali, le più colpite dalla carestia.

DISASTRO ANNUNCIATO
L’allarme fu lanciato dal Programma alimentare mondiale (Pam) fin dal giugno 2002: 6 milioni di persone in Etiopia rischiano di morire di fame. Il 18 novembre, a Londra, il primo ministro etiopico, Meles Zenawi, chiese più aiuti alla comunità internazionale, per la sopravvivenza di 12 milioni di etiopi; oggi si parla di 15 milioni e potrebbero arrivare a 20. «In un solo paese – afferma Georgia Shaver, segretario del Pam in Etiopia – il numero di bisognosi di cibo potrebbe essere pari a quello di tutto il resto dell’Africa».
Ad aggioare le cifre, oltre al Pam, l’agenzia di soccorsi umanitari dell’Onu, è pure la Commissione per prevenire e prepararsi ai disastri (Dppc), organo del governo etiopico per monitorare l’andamento della sicurezza alimentare nel paese e sollecitare gli aiuti inteazionali.
I paesi donatori (Usa in testa) hanno inviato tonnellate di granaglie; la Dppc ha riunito le Associazioni dei contadini, steso le liste delle famiglie bisognose e cominciato a distribuire mezzo quintale di grano a ogni gruppo di 5 persone: tale aiuto, però, si riduce a una manciata di grano tostato al giorno, con cui un’intera famiglia deve sopravvivere per un mese.
Per quanto misero, tale soccorso non arriva regolarmente a tutti, sia perché molte zone del paese sono lontane dai punti di distribuzione, sia perché gli aiuti inteazionali sono insufficienti: la tragedia è più grave del previsto e, dopo i primi mesi, l’attenzione mondiale è stata rivolta al disastro umanitario e alla ricostruzione dell’Iraq. Di fronte al disastro annunciato, i mezzi di comunicazione mondiale non hanno speso una parola, troppo assorbiti dalle vicende del Golfo.

«INCUBO RICORRENTE»
L’espressione è del presidente etiopico. La crisi è peggiore di quelle del 1983-84 e del 1993-94, in cui 10 milioni di persone furono colpite dalla carestia, causando un milione di vittime. Questa volta, il numero potrebbe essere triplicato, senza contare le conseguenze che la denutrizione lascerà nei superstiti.
Sembrerebbe che tale incubo ritorni ciclicamente ogni dieci anni. Le statistiche foite dal Dppc testimoniano che in Etiopia fame e denutrizione sono endemiche.
Dal 1984 tutti gli anni si susseguono carestie di varia intensità, con la differenza che, negli anni «normali», la distribuzione di cibo procede bene; quando la crisi è troppo estesa, la mancanza di strutture e risorse adeguate impedisce interventi rapidi e capillari. Di solito si dà la colpa ai fenomeni climatici. Nel caso attuale la crisi è attribuita al fatto che da un paio d’anni piove poco e nel 2002, soprattutto, le precipitazioni sono state pressoché nulle, sia durante le piccole (febbraio-maggio) che le grandi piogge (agosto-novembre).
In teoria, l’Etiopia non manca d’acqua: numerosi fiumi, tra cui il Nilo blu, nascono sugli altipiani, attraversano il paese ed esportano acqua in Sudan e Kenya; nella Rift Valley, una delle zone più colpite dalla carestia, ci sono una dozzina di laghi, alcuni grandi come il Garda. In alcune zone piove più che in Nord Italia: mentre in certe aree c’è la siccità, in altre i raccolti sono più che abbondanti.

DISASTRO POLITICO
Qual è, allora, la vera causa della fame in Etiopia? Il professor Mesfin Wolde Mariam, fondatore del locale Movimento per i diritti umani, studioso e autore di vari libri sul problema, afferma che la fame in Etiopia è di «origine socio-politica» e spiega: «L’85% della popolazione etiopica vive di agricoltura di sussistenza ed è vulnerabile alla fame, perché oppressa e sfruttata da regimi dispotici e sfavorita dalle condizioni di mercato. Il regime marxista ha nazionalizzato la terra e i contadini non hanno più diritto di proprietà né sicurezza di tenuta: essi possono coltivare piccoli appezzamenti di terreno finché esprimono lealtà al regime. L’obbligo di partecipare agli incontri di indottrinamento sottrae tempo prezioso al lavoro dei campi; la chiamata alle armi lascia il lavoro agricolo a donne, vecchi e bambini. Ogni anno, poi, al tempo del raccolto, piombano sui contadini esattori di tasse, contributi, debiti, forzandoli a pagare o andare in prigione. Gli agricoltori vendono i loro prodotti quasi allo stesso tempo, provocando il crollo dei prezzi. Più devono pagare più prodotti sono costretti a vendere: così 5-6 milioni di persone rimangono senza cibo e non hanno soldi per comperarlo, neppure negli anni di abbondanza.
Malnutrizione e fame si trascinano di anno in anno. Se poi falliscono le piogge stagionali, la fame diventa un killer di massa».
Per superare la povertà ereditata dal passato, il governo ricorre a iniziative come quelle del «cibo o denaro in cambio di lavoro», ma esse non bastano per mantenere la promessa di dare a tutti «tre pasti al giorno». Sono state introdotte misure positive: economia mista, liberalizzazione del mercato, decentramento amministrativo, investimenti nell’agricoltura, ma i risultati non si vedono.
Le spese militari assorbono almeno il 5% del prodotto interno lordo (Pil); il regime continua a essere oppressivo e l’amministrazione burocratica e corrotta; la proprietà è ancora negata; l’assegnazione della terra dipende dai venti politici; i sistemi di produzione e allevamento sono arretratissimi; le strutture di stoccaggio, mercato e ridistribuzione dei prodotti quasi inesistenti; la ricerca scientifica e difesa del suolo dalle erosioni totalmente assente…
E mentre milioni di persone rischiano di morire di fame, il problema più discusso dal governo sono i quattro sassi di Badme, per cui il paese si è dissanguato di uomini e denaro nella guerra contro l’Eritrea.

SINDROME DA DIPENDENZA
«Finché piove negli Stati Uniti e in Canada, non importa se le piogge sono totalmente assenti in Etiopia» recita una trita e ritrita facezia. A parte il sarcasmo, essa fotografa la crescente sindrome da dipendenza del paese.
Tale dipendenza fa comodo al regime. Le donazioni inteazionali sono la principale industria dell’Etiopia: quest’anno dovrebbero sfiorare il miliardo di dollari (un sesto del Pil). E poiché tali aiuti sono gestiti dalla Dppc, parte di essi resta impigliata tra le maglie dell’intricato labirinto burocratico, a livello nazionale e locale.
Inoltre, la fame può essere usata come strumento di potere per muovere le pedine della politica e degli equilibri etnici. Nonostante i proclami di sostegno all’agricoltura, afferma il prof. Mesfin, «la politica inespressa del regime consiste nel tenere i contadini politicamente senza potere, economicamente impoveriti e socialmente arretrati: così, nelle cosiddette elezioni, alcuni membri del partito ottengono fino al 100% dei voti e il regime mantiene una legittimazione di facciata per governare il paese».
La sindrome da dipendenza fa comodo anche alla comunità internazionale, che chiude un occhio sulle cause delle carestie, tutt’altro che inevitabili.
Controllata con pugno di ferro dall’esercito, l’Etiopia è diventato un paese strategico del Coo d’Africa nella lotta internazionale al terrorismo. Gli americani elogiano il ruolo di Addis Abeba in tale lotta e meditano di collocare basi militari Usa nel paese, lungo il confine con la Somalia. Lo ha rivelato il segretario alla difesa Usa, Donald Rumsfeld, a metà dicembre 2002, durante la visita al Coo d’Africa, dove ha incontrato il presidente Meles Zenawi.

SOLUZIONE POLITICA
«Le potenzialità agricole dell’Etiopia (terra, risorse idriche, diversità climatiche) possono diventare talmente produttive – continua il professor Mesfin – da permettere al paese di esportare una grande quantità di prodotti. Non ho alcun dubbio al riguardo. Ma fino a quando i contadini rimangono impotenti e in servitù, e fino a quando continua la cattiva amministrazione di tali risorse, la carestia sarà sempre un problema per il quale la comunità internazionale sarà chiamata a provvedere soccorsi di emergenza».
«In ultima analisi, la fame è una creazione politica e dobbiamo usare mezzi politici per porvi rimedio» afferma James Morris, direttore esecutivo del Pam. L’alternativa è il caos.
La fame provocò scioperi, manifestazioni studentesche e proteste generali, portando alla caduta dell’imperatore Hailé Salassié (1974). La carestia del 1983-84 diede origine ai partiti di opposizione e alla guerra civile, culminata con la fuga di Menghistu. Anche oggi le proteste di studenti e contadini vengono represse nel sangue. Se il regime non cambia atteggiamento, l’Etiopia potrebbe diventare teatro di una tragedia simile a quella dei Grandi Laghi.

Benedetto Bellesi




A Fatou manca la ricetta

Storie di malati e malattie nel Sud del mondo
In un ospedale africano:
«Per favore, dottore, niente anestesia locale.
Io ho i mezzi: mi faccia un’anestesia d’importazione».
(Serge Latouche, La fine del sogno occidentale)

Presentazione
SALUTE?
Dovrebbe essere un diritto universalmente riconosciuto. Non è così.
Nei paesi del Sud si muore di Aids, tubercolosi, malaria,
ma anche di morbillo e altre patologie normalmente curabili.
Intanto, in quelli del Nord…

Nei paesi occidentali il progressivo smantellamento
dei sistemi sanitari pubblici sta producendo
un sistema all’americana: soltanto chi può
permetterselo avrà le cure migliori. Sarah Delaney,
una giornalista statunitense, ha raccontato (1) la vicenda
di un amico riemerso da un coma profondo:
«Adesso, dopo circa un mese di cure dagli esiti incoraggianti,
il suo tempo è scaduto: la sua assicurazione
(privata) ha deciso che 30 giorni potevano bastare
e dall’ospedale l’hanno rispedito a casa. La sua
famiglia non può permettersi di pagare le costose cure
di cui avrebbe bisogno ancora per un anno. (…)
Negli Usa, l’assistenza sanitaria può essere eccellente,
ma solo per chi se la può permettere».
Se al Nord il problema è soprattutto di qualità, al Sud
è ben più grave. Nella quasi totalità dei paesi del Sud,
soprattutto in quelli dell’Africa (ma anche in America
Latina e in Asia), un servizio di sanità pubblica universale
e gratuito non è mai esistito. «Sono stanco di
vedere – ha denunciato James Orbinski di Medici
senza frontiere (2) – donne, bambini e uomini morire,
mentre so che un trattamento efficace esiste e potrebbe
essere alla loro portata. Sono stanco di constatare
come il profitto abbia sempre la meglio sul
diritto alla salute. Non ne posso più della logica per
cui chi non può pagare, muore».
«Mancava – si legge nel libro di Andrea Moiraghi (3)
– solo un’ulteriore tragedia che, puntualmente, è arrivata:
l’Aids. La sindrome da immunodeficienza acquisita
(…) è la nuova malattia dei poveri e sta causando
in Africa la più devastante epidemia che l’umanità
ricordi: il numero dei contagiati è tale che
intere generazioni di africani rischiano di scomparire.
Ma questo in Africa, non nei paesi occidentali, dove
l’infezione è relativamente sotto controllo, grazie
a costosissimi farmaci, inavvicinabili alla stragrande
maggioranza degli africani; tant’è che all’equatore è
nato questo slogan: “Il Nord del mondo produce i farmaci
e il Sud produce Aids”».
Si stima che ogni giorno 15.000 persone contraggano
l’Aids. La Sars, la polmonite atipica individuata
da Carlo Urbani, è a 6.500 casi mondiali in 3 mesi.
Il vaccino non c’è ancora, ma è già guerra (mondiale)
per i brevetti. Avvenne così anche negli anni
Ottanta per il virus Hiv, ma allora la guerra fu circoscritta
a due contendenti: l’équipe dello statunitense
Robert Gallo e l’Istituto Pasteur di Parigi. «L’argomentazione
– scrive Paul Benkimoun (4) – è chiara:
senza brevetti, niente profitti; senza profitti,
niente ricerca e sviluppo. Se non si colloca su un piano
etico, il ragionamento non fa una grinza, anche
se sarebbe necessario dimostrare che le aziende farmaceutiche
compiono effettivamente sforzi considerevoli
per coprire i costi di ricerca e sviluppo. In
realtà, dai bilanci pubblicati dai grandi laboratori
emerge che questi spendono una quantità di denaro
nettamente superiore per il marketing, la pubblicità
e le spese di gestione che per la ricerca e lo sviluppo,
mentre i profitti ammontano a cifre impressionanti».
Chissà cosa avrebbe detto e scritto Carlo Urbani sulla
corsa al deposito dei diritti sulle scoperte che riguardano
la Sars…
Per concludere, mi si conceda un piccolo ricordo
personale. Nel lontano 1988, con Carlo Urbani,
sua moglie Giuliana e altri amici facemmo un viaggio
in India del Nord e Nepal. Al ritorno in Italia Carlo
fu subito ricoverato per febbre tifoide. Già allora
egli aveva la volontà di conoscere luoghi, culture e
soprattutto persone ben al di là del consueto. Fino
al punto di prendersi una malattia tipica del luogo.
In questo dossier ritroverete alcuni vecchi articoli di
Carlo, pubblicati nell’ambito di «COME STA FATOU?»,
la rubrica che MC gli aveva affidato. Ora, in ricordo
dell’amico e collaboratore prematuramente scomparso,
noi abbiamo inventato il «PREMIO GIORNALISTICO
DOTTOR CARLO URBANI» che, al contrario di altri
concorsi, invece di distribuire riconoscimenti in denaro,
manderà i vincitori… a esercitare la loro professione
di medici.
Proprio là, dove l’«assenza di salute» è prassi quotidiana.
PAOLO MOIOLA

(1) Su Internazionale del 27 settembre 2002.
(2) Riportato in «Accesso ai farmaci», dossier di Msf – Italia
(si veda in bibliografia).
(3) Andrea Moiraghi, Pole pole, 2003 (in bibliografia). Segnaliamo
che lo scorso 26 maggio l’Unione europea ha
approvato una nuova regolamentazione che dovrebbe permettere
alle aziende farmaceutiche di vendere nei paesi
poveri i medicinali contro Aids, malaria e tubercolosi a
prezzi inferiori.
(4) Paul Benkimoun, Morti senza ricetta (in bibliografia).

Dove povertà e malattia
si generano a vicenda

di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

Nel corso degli ultimi anni
si è assistito ad un
miglioramento globale della
salute delle popolazioni.
Tuttavia resta ancora
elevatissimo il numero di
individui, soprattutto nei
paesi della fascia
intertropicale, che non hanno
accesso alle cure sanitarie, e
lo scarto tra poveri e meno
poveri si è ulteriormente
approfondito.
Secondo l’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS),
2 miliardi di individui vivono
nella povertà, e di questi 700
milioni vivono in situazioni di
estrema precarietà. Per queste
persone l’accesso a servizi
sanitari e a cure mediche non
è assolutamente assicurato,
quando addirittura
impossibile. La povertà genera
malattie, attraverso la
mancanza di igiene, strutture
sanitarie e adeguati
trattamenti, educazione. Per
questo in
molti paesi
l’attesa di
vita alla
nascita non supera i
50 anni, e sono malnutrizione
e tutta una serie di malattie
tropicali a compiere la
decimazione soprattutto nei
primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS
nell’Assemblea generale
hanno fissato l’obiettivo di
garantire la salute per tutti i
popoli del mondo entro l’anno
2000. Purtroppo tale
traguardo sembra ancora ben
lontano, e addirittura in
alcune aree si è assistito ad
un deterioramento della
situazione sanitaria e della
qualità della vita.
Per chi vive in un paese
sviluppato è in genere
difficile immaginare la
situazione nella quale la gran
parte dell’umanità vive nei
paesi in via di sviluppo. E di
molte delle
malattie più
diffuse al mondo
si sa quasi nulla,
spesso anche il nome
suona del tutto insignificante,
come avitaminosi,
schistosomiasi, dracunculosi,
dengue, e così via. Si
impiegano nel mondo risorse
enormi per la ricerca sul
cancro, o le cardiopatie, o le
malattie vascolari, ma non
tutti sanno che non è per
queste malattie che la
maggioranza dell’umanità
soffre e muore.
In questa rubrica, attraverso
brevi resoconti di giornate
di lavoro in alcuni paesi
tropicali, ci racconteremo
qualcosa che riguarda la
salute, o meglio l’assenza di
salute, in questo mondo dei
più sfortunati, dove povertà e
malattia si generano a
vicenda.

Pcome parassiti
I PARASSITI DEL MEKONG
Troppi bambini cambogiani hanno la «pancia grossa» o addirittura la
cirrosi epatica. Basterebbero 180 lire contro la schistosomiasi, ma…
Viaggio in un paese stremato dalla guerra civile e dalla povertà.
di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

L’ATR72 della «Royal Air
Cambodge» sfiora con il
carrello le cime di alcuni
alberi. Dopo aver posato rumorosamente
le ruote sulla corta pista in
terra battuta, le turbine frenano
con un ruggito la corsa dell’aereo.
Un’ora abbondante di volo ci ha
portati all’aeroporto di Stung
Treng, nel nord-est della CAMBOGIA,
dove il Sesan e il Sekong si versano
nel Mekong, a circa 40 chilometri
dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino
al finestrino, osservavo il paesaggio
sotto di me e, nei varchi tra
i cumuli di condensa tipici di quell’ora,
intorno a mezzogiorno, scorrevano
lentamente risaie, foreste e
fiumi. Il corso del Mekong, visto
dall’alto, lascia immaginare l’imponenza
di questo fiume, che disegna
ampie curve nel verde intenso
della vegetazione. A stento si possono
vedere i piccoli villaggi sulle
sue sponde, giusto una linea di
quadratini di un altro colore, tra
cui è magari identificabile il tetto
variopinto di una pagoda. Ed è difficile
immaginare in questo stupendo
quadro quante incredibili
atrocità siano state consumate, e
quanta sofferenza sia nascosta sotto
quegli alberi. Il verde intenso
della foresta a tratti scompare, per
lasciare il posto ad ampie macchie
grigiastre, testimonianza della
deforestazione selvaggia che incombe
nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di
Stung Treng, ci prepariamo a risalire
un tratto del Sekong, per andare
a visitare gli abitanti di un gruppo
di villaggi più a monte. Poco più
tardi stiamo già scivolando sulle acque
blu e perfettamente lisce del
fiume, tra due pareti di impenetrabile
verde. Con me viaggiano due
medici e due microscopiste cambogiani.
Trasportiamo farmaci e
materiale di laboratorio.
Sulla piroga sventola la bandiera
di Médecins Sans Frontières
(MSF), che dal 1993 cerca di
far fronte in questa regione al grave
problema della schistosomiasi.
Oggi stiamo andando a verificare
la presenza della malattia in una zona
molto remota, ed eventualmente
distribuire il farmaco che trasportavamo,
il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi
sanitari più importanti dei
paesi della fascia intertropicale, e la
forma diffusa lungo il fiume
Mekong è una delle più gravi. In
Cambogia le dimensioni del problema
sono state comprese solo di
recente, grazie all’intervento di
MSF che ne ha identificato l’area
più colpita e ha messo in opera delle
misure di controllo. In molti villaggi
lungo il Mekong i segni della
malattia sono drammaticamente
evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono
di dolori addominali cronici, emettono
feci con sangue e muco, il loro
addome si gonfia progressivamente
per l’ingrossamento di milza
e fegato, ed a partire dagli anni
dell’adolescenza sviluppano i primi
sintomi della cirrosi epatica, la
stessa malattia che colpisce gli alcolisti.
Si forma acqua nella pancia
(ascite), si gonfiano le vene sulla superficie
dell’addome e si formano
varici nell’esofago. Negli stadi
avanzati della malattia il soggetto è
estremamente emaciato, sofferente,
con una enorme pancia, gambe
magre ed edematose, fino a che la
rottura delle varici esofagee e la
conseguente emorragia ne causa il
decesso. Coloro che sono infettati
da molti parassiti hanno anche un
arresto della crescita e dello sviluppo
sessuale, così che l’età apparente
trae spesso in inganno e un
ventenne può essere facilmente
preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da
un piccolo verme che vive nelle vene
intorno alla parete dell’ultimo
tratto dell’intestino. Se le uova prodotte
con le feci arrivano nelle acque
del fiume, si schiudono e liberano
un piccolo organismo che,
nuotando, viene attirato particolarmente
da un certo mollusco, una
piccola conchiglia che vive nelle
fessure delle rocce semisommerse
nel fiume. All’interno della conchiglia
il parassita matura e forma una
piccola larva. Questa lascia la conchiglia
e si libera nelle acque del
fiume. Se entra in contatto con la
pelle umana, è in grado di perforarla
ed attraversarla. Una volta penetrato
il parassita si lascia trasportare
dal sangue e, dopo un
complicato percorso, raggiunge la
sede definitiva del suo sviluppo,
appunto le vene intorno all’intestino,
per diventare adulto.
Il problema principale è causato
da quelle uova che, prodotte dalla
femmina, non riescono a mescolarsi
alle feci come previsto, ma vengono
portate via dalla corrente sanguigna
nelle piccole vene dove i
vermi vivono. Queste uova finiscono
intrappolate nel fegato, causandone
l’ingrossamento, la fibrosi, e
poi la cirrosi. Questo fa ingrossare
la milza e fa aumentare la pressione
del sangue nella vena porta.
Questa «ipertensione» causa l’ascite
e la formazione di varici esofagee.
Più sono numerosi i vermi adulti,
più grave è la malattia. Ne deriva
che solo i soggetti continuamente
esposti a nuove infezioni sviluppano
gravi sintomi. Essere esposti all’infezione
significa avere molti
contatti con l’acqua del fiume, nelle
zone dove ci sono quelle conchiglie
e dove nelle acque finiscono le
feci umane. In zone disabitate la
trasmissione non può esistere. E
chi ha più contatti con il fiume? Basta
arrivare in un villaggio per capirlo.
La nostra piroga quel pomeriggio
è arrivata a Sdau, un
villaggio di un migliaio di abitanti,
lungo il Sekong. È quasi il tramonto:
i colori del fiume e del cielo
sono stupendi. Spento il motore
dell’imbarcazione per arrivare dolcemente
sulla riva, piombiamo in
un piacevole silenzio, nel quale è facile
sentire le grida dei bambini che
giocano poco lontano, tutti immersi
nell’acqua del fiume… vicino le
rocce dalle quali si tuffano. Ecco il
primo bersaglio della malattia: i
bambini.
Il loro contatto con l’acqua del
fiume è importante. È forse l’unico
gioco disponibile e offre un piacevole
ristoro nell’afa soffocante. E
poi correre nei campi non è, forse,
così raccomandabile… in un paese
con una delle più alte concentrazioni
al mondo di mine antiuomo!
Poco più vicine alla riva le sorelle
più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti,
a lavare i poveri panni
o intente a sciacquare gli umili
utensili domestici: un cesto di
bambù, un mestolo, o qualche ciotola.
E sulla riva qualche bambino
più piccolo, che fa la cacca nel fiume.
Una scena normale lungo un
fiume tropicale, ma è questo il ritratto
della trasmissione della schistosomiasi.
Bambini infetti fanno
la cacca, dove probabilmente ci sono
delle uova di schistosoma. Poco
lontano le rocce ospitano la conchiglia
che fa diventare infettante la
larva, e nella stessa zona altri che
nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi
dal nostro arrivo i bambini
escono all’asciutto, mostrando i
loro enormi ventri, costellati di tante
piccole cicatrici. Ci accompagnano
silenziosi lungo il sentirnero
che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno
o di bambù per i più poveri, incontriamo
altri bambini, quelli che
non hanno abbastanza forza per
andare a schiamazzare nel fiume.
Sono seduti sulla scala che sale al
piano rialzato, con lo sguardo più
triste degli altri, e la pancia ancora
più grossa. Alcuni adulti sanno che
quei bambini sono malati di qualcosa
che ha a che vedere con il fiume,
ma sanno anche che per loro,
gli abitanti di Sdau, come per quelli
di tantissimi altri villaggi in Cambogia,
non ci sono cure. L’ospedale
più vicino è a due ore di piroga,
e poi bisogna pagare le medicine, e
quassù soldi non ce ne sono. Non è
facile avvicinare le persone, tutti
sembrano diffidenti, ed anche un
po’ spaventati. La strategia del terrore
fa ancora sentire il suo alito in
Cambogia. In questi villaggi è facile
morire anche per molto meno:
basta una diarrea o una polmonite,
quando poi non si accanisca su
questa gente una epidemia di febbre
emorragica o di malaria. Le
donne partoriscono nelle loro capanne
senza alcuna assistenza sanitaria
ed in precarie condizioni igieniche.
Ci dicono che a volte i bambini
muoiono vomitando sangue
(la rottura delle varici esofagee).
Nonostante l’evidenza decidiamo
di esaminare alcuni campioni di feci
per confermare la presenza della
malattia.
Intanto do un’occhiata al resto
del villaggio, mentre penso a
cosa servirebbe per restituire la
salute a queste persone. Sono colpito
dalla loro povertà. L’unico bene
che custodiscono in casa è una
piccola riserva di riso e qualche
utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna
Huong, silenzioso ragazzino
con una fionda appesa al
collo, un viso pallido e affilato, ed
un enorme ventre che lo obbliga a
camminare con la schiena curvata
indietro, come una donna alla fine
della gravidanza. Mi osserva curioso
e, dal modo di sorridere, sembra
evidente che si aspetta qualcosa da
me.
Passiamo la notte nel villaggio,
rassicurati dagli abitanti che ci mostrano
i loro AK47, con i quali ci difenderebbero
dai khmer rossi. Al
mattino cominciamo a distribuire il
farmaco. Verrebbe voglia di curare
anche tutte le polmoniti, congiuntiviti,
anemie e quanto altro scorre
sotto i nostri occhi. Purtroppo,
quando le risorse sono carenti, occorre
stabilire delle priorità e la
schistosomiasi, per la grave malattia
e la mortalità che ne derivano,
qui a Sdau rappresenta una priorità.
Distribuiamo la dose di praziquantel
ad ogni abitante. In queste
situazioni costa meno trattare tutti
che esaminare tutti e trattare solo le
persone infette. È una delle regole
in simili programmi di sanità pubblica
nei paesi in via di sviluppo.
Huong vuole essere il primo
a ricevere la medicina, e rimane
vicino a noi ad assistere
al trattamento degli altri del
villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso
del suo ventre enorme. La
medicina tradizionale di queste regioni
tratta il dolore addominale facendo
delle piccole bruciature con
dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per
questo le pance di chi ha la schistosomiasi
qui sono piene di cicatrici:
sono le bruciature che i bambini
crescendo accumulano, ogni
volta che si lamentano dei loro dolori.
Purtroppo chi è già gravemente
malato non beneficia del
trattamento: la cirrosi del fegato è
una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare
la sopravvivenza è possibile, ma tali
trattamenti sono completamente
fuori della portata di chi vive in villaggi
come Sdau. Dopo due giorni
lasciamo il villaggio, con almeno un
problema in meno, ma allontanandoci
lo immaginiamo sprofondare
di nuovo nell’isolamento e nella
mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi
interessa anche l’80% dei
bambini, e il trattamento costa 12
centesimi di dollaro: circa 180 lire.
Ma moltiplicare le 180 lire per le decine
di migliaia che aspettano di essere
trattati fa diventare il costo insostenibile
per il paese, e poi la mancanza
di infrastrutture ne rende
difficile la distribuzione, e negli
ospedali non c’è personale formato
per controllare la distribuzione del
farmaco e l’evoluzione della malattia,
e ancora in molte aree l’accesso
è difficile a causa dell’insicurezza:
khmer rossi, banditi, anche gli infermieri
cambogiani hanno paura
ad andare in certe zone. Così un
problema in apparenza semplice diventa
in realtà difficile in paesi (e
non sono pochi) come la Cambogia.
Quando, sei mesi dopo, torniamo
a Sdau, Huong è già
morto, ma in tanti altri l’infezione
è scomparsa. L’infermiere
che ci assisteva sa ora riconoscere
agevolmente i malati attraverso i
sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta
dando i suoi frutti. Dopo tre anni
di attività, in molti villaggi le «pance
grosse» stanno scomparendo,
ma ne restano altri in attesa. Di un
po’ di salute e pace. E magari di
una piroga di Msf.

B come bambini
SE I BAMBINI
URINANO ROSSO

Può un’opera idrica aggravare un problema sanitario?
Sì, purtroppo…
Viaggio tra i piccoli malati di uno sconosciuto paese africano.
di Carlo Urbani
(marzo 1999)

Da Nouakchott a Rosso –
Scendiamo verso sud sulla
strada asfaltata che unisce
Nouakchott, capitale della MAURITANIA,
alla frontiera con il Senegal,
segnata dal fiume omonimo. Duecento
chilometri di asfalto, a tratti
completamente inghiottito da alte
dune che si muovono secondo il
vento, sommergendo palmeti e pali
del telegrafo.
Dopo un viaggio di 4 ore si arriva
a Rosso, capoluogo della regione
e posto di frontiera. Qui la sabbia
del deserto, solo punteggiata da
una timida vegetazione di arbusti e
palmeti, incontra le acque del fiume
Senegal. Di Rosso colpisce la
povertà e la desolazione di una
sconfinata bidonville, dove migliaia
di persone vivono (o meglio sopravvivono)
in piccoli ripari di teli
di plastica o sotto latte. In questa
zona negli ultimi 3 anni i medici del
locale ospedale riferiscono un netto
incremento del numero di bambini
che urinano sangue.
Urinare sangue in Africa è sinonimo
di schistosomiasi urinaria,
una varietà dell’infezione dovuta
ad una specie del parassita che vive
nelle vene intorno alla vescica,
causandone alterazioni che portano,
tra l’altro, alla presenza di sangue
nelle urine.
In questa zona fino a 2-3 anni fa
la schistosomiasi urinaria, pur già
presente, non sembrava costituire
un grosso problema. Ora in alcuni
villaggi lungo il fiume pressoché
tutti i bambini urinano rosso, e da
alcuni mesi alcuni hanno anche
sangue e muco nelle feci, un segno
di schistosomiasi intestinale, finora
sconosciuta nella regione.
Sull’altra sponda del fiume, in
Senegal, sta accadendo la stessa cosa
e la situazione sanitaria costituisce
ormai una seria emergenza. Cosa
sta succedendo? Da circa 8 anni
è entrata in funzione una grossa diga
poco più a valle di Rosso. Le
modificazioni chimico-fisiche delle
acque del fiume hanno notevolmente
favorito la diffusione dell’infezione,
agevolando lo sviluppo
della conchiglia necessaria al parassita
per maturare.
Questa conchiglia vive attaccata
ad alcune piante acquatiche, che
proliferano semi-sommerse sulle
sponde dei corsi di acque dolci in
ambiente tropicale. Prima della diga,
quando il livello del fiume, seguendo
l’alternarsi delle stagioni,
variava notevolmente tra stagione
secca e piogge, queste piante non
avevano vita facile e, in genere, seccavano
nei mesi in cui il livello dell’acqua
del fiume scendeva.
Ora, invece, si è creato un nuovo
variegato e diffuso ambiente favorevole
al loro sviluppo. Infatti il fiume,
alzandosi di livello, ha portato
l’acqua nei canali o piccoli laghetti
di ogni villaggio, formando piscine
naturali usate per lavare, lavarsi e
soprattutto giocare. Ora il livello è
costante per 12 mesi l’anno e la vegetazione
cresce rigogliosa. Così in
queste acque la trasmissione del
parassita è ormai altissima e l’infezione
si è diffusa raggiungendo livelli
impressionanti.
Andiamo a visitare una scuola
a Rosso. Spiegata agli insegnanti
la ragione della visita,
questi ci accompagnano a incontrare
una classe. La scena è
comune alle migliaia di scuole dei
paesi più poveri dell’Africa subsahariana.
I bambini sono ordinatamente
seduti in terra, perfettamente allineati,
con una piccola lavagna sulle
gambe e un gessetto per scrivere.
La parete di fronte, tinteggiata di
nero, è piena di scritte e disegni
esplicativi. Chiediamo ai bambini
chi di loro ha visto la propria pipì
di colore rosso. Una buona metà,
dopo le prime esitazioni, alza la mano
con un timido sorriso. Il maestro,
non soddisfatto, insiste, dicendo
che la pipì rossa non costituisce
motivo di vergogna. Così un
altro gruppetto si unisce ai primi.
Restiamo a lavorare nella scuola
per tutta la giornata. Dopo aver
esaminato con una tecnica di filtrazione
ed esame al microscopio
campioni di urine di tutti i bambini,
confermiamo l’allarmante dato.
In un villaggio poco lontano da
Rosso, Boghè, troviamo una zona
dove tutti i bambini hanno ematuria
(sangue nelle urine) e, poiché ce
l’hanno tutti, nessuno si ritiene malato.
Considerando che i bambini
iniziano ad infettarsi quando passano
parte del loro tempo a giocare
nell’acqua, quindi verso i 5-6 anni,
e che la malattia impiega qualche
anno prima di determinare
sintomi importanti, è intorno alla
pubertà che i bambini cominciano
a sviluppare una ematuria visibile
ad occhio nudo. Questo fa sì che
molti, nelle popolazioni residenti
nelle aree endemiche, ritengano
che le urine rosse siano un segno
della avvenuta o incipiente maturità
sessuale, un po’ l’equivalente
delle mestruazioni nelle femmine!
Ma purtroppo non si tratta solo di
una questione di colore.
Anzitutto la perdita di sangue
contribuisce all’anemia. In queste
regioni la malnutrizione, la malaria,
ed alcuni vermi intestinali costituiscono
già importanti fattori di rischio
per l’anemia, e il sanguinamento
dovuto alla schistosomiasi
non fa che aggravare il quadro clinico.
Ricordo di aver visto bambini
seduti in un’aula scolastica (che
qui significa sul pavimento) risultare
avere 4 gr. di emoglobina per
decilitro di sangue (i valori normali sono tra 12 e 14, e l’OMS giudica
anemico un bambino quando il
livello scende ad 11). Un’anemia
così grave costituisce una seria malattia,
mettendo in pericolo la vita
stessa.
Ci spostiamo a Tonguene,
un piccolo villaggio
che vive prevalentemente
della
coltivazione della
menta, richiestissima
al mercato di
Rosso per la preparazione
del tipico
thè mauro, e di ortaggi,
prevalentemente
pomodori, melanzane, patate
e okra.
Il villaggio è costituito da un
grappolo di casupole addossate su
un dolce pendio ad anfiteatro. Nella
piccola valle centrale, un tempo
terreno sabbioso dove pascolavano
le capre, ora si è formato un laghetto,
in connessione con il
bacino del fiume aumentato
di livello per la costruzione
della diga.
Questo marigot è considerato
dagli abitanti
una vera miniera: con
l’acqua trasportata nei
catini sul capo delle
donne si innaffiano gli
orti, si cucina e tutti i bambini passano
interminabili ore a sguazzare
felici nelle sue acque.
La sera al tramonto, sotto due
fromagers che si protendono sulle
sue acque, le donne si raggruppano
per lavare le vesti, i bambini più
piccoli e loro stesse. Tutto sembra
andare per il verso giusto, sennonché
da alcuni mesi sono sempre più
numerose le donne di Tonguene
che si recano a piedi all’ospedale di
Rosso, per portare i loro figli stanchi,
inappetenti, che lamentano talvolta
bruciore a urinare. La diagnosi
è facile: è sufficiente guardare
il colore delle loro urine.
Così capita che un anziano del
villaggio guardi con preoccupazione
quel laghetto e dica che «tutto
questo progresso» lo riempie di
preoccupazioni!
Come porre rimedio al problema
della schistosomiasi in
Mauritania? Occorre formare
il personale sanitario per metterlo
in condizione di conoscere la
malattia e saperla trattare, ed educare
la popolazione riguardo ai sintomi
e alle possibilità di guarigione,
qualora sia assunto un determinato
farmaco. Nelle scuole si deve insegnare
ai bambini a non urinare
nel fiume: meglio in brousse, nella
savana, se non ci sono latrine. E poi
altre strategie, ormai sperimentate
e certamente efficaci nel controllare,
se non l’infezione, almeno la
malattia.
Il problema è sempre lo stesso,
un ritornello noioso che interrompe
spesso i progetti di sviluppo a
queste latitudini: la mancanza di
danaro.
In Mauritania problemi come la
schistosomiasi sembrano insormontabili,
e solo il supporto di un
donatore esterno (in genere, organizzazioni
inteazionali o un governo
o una Ong) può permettee
la gestione. Proprio in queste
settimane nella regione di Rosso,
compreso il villaggio di Tonguene,
grazie al supporto di una fondazione
tedesca e dell’OMS, è iniziata la
distribuzione di praziquantel, un
farmaco efficacissimo nel curare
l’infezione. Ma per molti altri villaggi
in altre regioni o paesi le urine
resteranno rosse a tempo indeterminato.

F come farmaci
PRIMA IL PROFITTO,
POI LA SALUTE

Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore
è la possibilità di guadagnare, indipendentemente dai bisogni.
I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono
trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto.
Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta
dell’umanità.
Carlo Urbani

(febbraio 2000)

Un pomeriggio di ottobre del
1999, nella Cambogia nordorientale.
Stiamo percorrendo
una pista che costeggia il fiume
Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento
di un programma di controllo
delle malattie parassitarie, gestito
dal ministero della sanità con
il nostro supporto tecnico. Il programma
sembra andar bene, e siamo
orgogliosi di aver abbattuto i
tassi di mortalità per queste malattie
nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta
per sgranchirci un po’ e bere
dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso
villaggio, affacciato su una
bella insenatura del grandioso fiume.
L’aria è pulita e profumata, e la
luce dell’imminente tramonto colora
di violetto le acque del fiume, incoiciato
dal verde della esplosiva
vegetazione. Mi allontano un po’
dalla Toyota, e mi fermo sotto una
delle casupole, tutte uguali, tutte
estremamente precarie: un pavimento
di bambù su quattro alti pali
(le case sono così, anche per proteggersi
dalle inondazioni), quattro
pareti di foglie di palma intrecciate
e un tetto, anch’esso di foglie. Una
bambina sorridente sta appoggiata
alla ripida scala che conduce all’interno,
e in alto sua madre – così credo
– è seduta intenta a eliminare le
scorie da una manciata di riso. Mi
sorride. Così mi tolgo le scarpe e
salgo.
Seduta sul pavimento, la donna
ha sulle gambe un fagotto, che si
muove ritmicamente. Lei sposta un
lembo degli stracci e scopre un bimbetto
(10-12 mesi) ansimante, viso
affilato, occhi spalancati e una colata
di muco dal naso. Chiamo l’interprete,
per avere notizie di quel
piccolo visibilmente sofferente. È
così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche
smesso di succhiare il seno. Lo
tocco: è bollente. Avvicino un orecchio
al suo dorso: polmonite. Non
si lamenta mentre lo esamino, continua
solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo
di utile in quella condizione:
trovo delle compresse di ampicillina
e di paracetamolo. Dovrebbero
andare. Poi l’interprete spiega alla
mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in
una ciotola, scioglierla e dae un
cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi
reidratarlo con acqua, zucchero e
sale, poi il paracetamolo… cose banali
insomma, una serie apparentemente
semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto
della mamma sembra indicare tutto
il contrario: manovre complicate,
quasi impossibili, gesti del tutto
estranei alla quotidianità della sua
vita. Ci allontaniamo dalla casupola
lasciando il rantolo del bambino
con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno,
ci fermiamo di nuovo. La mamma
in lacrime ci dice che la sera prima
il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il
tramonto e durante la notte ha
smesso di respirare.
Cosa ha di particolare questa
storia? Nulla, assolutamente
nulla. Rivela semplicemente
quanto accade ogni giorno, in migliaia
di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi
piede in Africa, fresco di studi di
medicina tropicale. Aspettavo con
ansia di vedere malati affetti da quei
misteriosi e «affascinanti» morbi
esotici. Rimasi quasi deluso quando,
nella prima giornata di consultazioni
mediche, vidi solo bambini
gravemente malati o prossimi al decesso
per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie:
sono queste le prime cause
di morte nei paesi in via di sviluppo.
Il 95% dei decessi sono dovuti
a malattie infettive, per le quali
esistono efficaci trattamenti. Ma un
terzo della popolazione mondiale
non ha accesso ai farmaci basici.
Gran parte di queste malattie sarebbero
facilmente curabili; però,
proprio là dove più servono, i farmaci
relativi non sono disponibili,
spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza
tra bisogni
e offerta risiede in
rigide leggi di mercato,
in base alle
quali i prezzi dei farmaci,
protetti da
brevetto, sono fissati
sulla disponibilità a
pagarli nei mercati
dei paesi industrializzati.
Alla base di gran parte dei disastri
sanitari, dell’impossibilità a
gestire epidemie o endemie, a prevenirle,
a impedire la morte per banali
infezioni, alla base di tutto possiamo
affermare oggi con certezza
che c’è un problema di farmaci. Vediamo
di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci
utili in medicina tropicale, che
siano poco tossici, a basso costo ed
efficaci per debellare le malattie
(parassitarie, ad esempio), causa di
sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni,
tra i 1.233 nuovi farmaci offerti
dal mercato internazionale, solo 11
avevano come indicazione malattie
tropicali, e di questi 7 venivano dalla
ricerca veterinaria. Per cui appena
lo 0,3% della ricerca farmaceutica
contemporanea è indirizzata alle
malattie ai vertici di ogni classifica
mondiale di morbosità e mortalità.
Perché? Semplice, perché queste
malattie imperversano in mercati
poco remunerativi. Le priorità sono,
quindi, più di ordine economico-
commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono
investiti sulla ricerca di nuove
pillole contro l’obesità e l’impotenza,
dall’altro quasi niente per malattie
tropicali. Se poi talvolta (e c’è
l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un
farmaco attivo su una malattia tropicale,
spesso il fabbricante decide
di non commercializzarlo, poiché la
sua vendita sarebbe poco remunerativa
nei paesi dove i pazienti interessati
sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci
già disponibili, efficaci e semplici
da somministrare scompaiono
improvvisamente, come è stato il caso
della sospensione oleosa di cloramfenicolo,
usata per trattare la
meningite meningococcica (malattia
capace di uccidere in 24 ore). Tale
farmaco era l’alternativa al trattamento
con ampicillina, che richiede
4 infusioni endovenose al giorno,
contro un paio di iniezioni intramuscolari
in tre giorni per il cloramfenicolo.
Una bella differenza,
per trattare pazienti in strutture sanitarie
carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina.
Questo farmaco serve per
trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi,
più conosciuta come
malattia del sonno (trasmessa dalla
famosa mosca tse-tse). Bene, mentre
il vecchio farmaco usato (un derivato
dell’arsenico estremamente
tossico e somministrabile in dolorose
iniezioni) diveniva anche inefficace
per l’insorgenza di ceppi di
parassiti resistenti, appare questo
nuovo ritrovato. Sfortunatamente
due anni fa la ditta produttrice, detentrice
del brevetto, ha deciso di
sospendee la produzione per motivi
commerciali. E i circa 300 mila
malati si vedono rioffrire il vecchio
melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo
mercato globalizzato.
Uno dei problemi principali è
causato dal brevetto che
protegge il farmaco. Il brevetto
rappresenta un diritto sacrosanto
dell’industria per salvaguardare
i frutti dei suoi investimenti in
sperimentazioni. Accade però che
i brevetti si tramutino in micidiali
armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di
sviluppo, ma in realtà detentori di
tecnologie sufficienti per una produzione
farmaceutica. Nazioni come
India, Thailandia, Sudafrica o
Brasile sono in grado di produrre
farmaci utili per le loro popolazioni
e quindi rivenderli a prezzi accessibili.
Il prezzo di farmaci come
il fluconazolo, efficace in gravi infezioni
fungine, crolla così dai 20
dollari al giorno per un trattamento
in Kenya, dove è importato, a
meno di un dollaro al giorno in
Thailandia, dove è prodotto da una
azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una
norma che si chiama compulsory licensing,
o licenza obbligatoria.
A questo punto, la domanda che
sorge è: etica e sviluppo economico
del settore farmaceutico sono obiettivi
incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche
inteazionali (ad esempio, British
Medical Joual e JAMA) sostengono
che l’etica è compatibile con l’economia.
Per questo i medici, che
operano in questi contesti, sono
stanchi di dover pensare, di fronte
all’ennesima morte di un loro paziente:
«Mi spiace. Stai morendo a
causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’Aids mostra poi cifre
apocalittiche. Il 95% dei malati di
Aids nel mondo non ha accesso a
farmaci efficaci per restituire salute
e dignità. Ma (fatto ancor più
grave) i trattamenti per ridurre significativamente
la trasmissione
verticale dell’infezione da madre
sieropositiva a figlio al momento
del parto non sono disponibili proprio
nei paesi dove questa modalità
di trasmissione sta segnando le
nuove generazioni, condannando a
morte entro 5-8 anni un bambino
già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina,
efficaci anche se somministrati
per solo 4 settimane intorno alla data
del parto, sono vittime delle stesse
regole di mercato. Spietati brevetti
ne permettono la vendita a
prezzi proibitivi e ne impediscono
la produzione da parte di altre
aziende. Se è vero, si può sempre
applicare la licenza obbligatoria. Ci
ha provato la Thailandia iniziando
a produrre Azt per le sue donne
(tantissime) incinte e sieropositive.
Il farmaco ha avuto il costo abbattuto
del 7000%.
La reazione degli Usa, dove risiede
la ditta detentrice del brevetto, è
stata: non possiamo impedirtelo,
ma possiamo però ridurre le importazioni
dalla Thailandia… Cosa
questa insostenibile in questo momento
di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano
troppo; farmaci che esistono,
ma non vengono prodotti,
germi che divengono resistenti ai
comuni trattamenti (Tbc, leismaniosi,
tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca
farmaceutica ha altri obiettivi…
e le cifre di morte e malattia
continuano ad avere parecchi zeri
nei paesi dei poveri del mondo.
Quello che basterebbe è esigere un
«diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

SUGGERIMENTI
BIBLIOGRAFICI

ESPERIENZE
Andrea Moiraghi,
Pole pole.
Dentisti volontari in Africa,
Edizioni Camilliane, Torino 2003
CRITICHE AL SISTEMA
Paul Benkimoun,
Morti senza ricetta.
La salute come merce,
Edizioni Elèuthera, Milano 2002
Medici senza frontiere (Msf)
Accesso ai farmaci:
la malattia del profitto,
Dossier di Msf-Italia, Roma 2001
SANITÀ ITALIANA
Paolo Coaglia-Ferraris,
Camici e pigiami,
Editori Laterza, Roma 1999
Paolo Coaglia-Ferraris,
Pigiami e camici,
Editori Laterza, Roma 2000
Informatore anonimo,
La mala-ricetta,
Fratelli Frilli Editori, Genova 2000
SITI INTERNET
• Medici senza frontiere: www.msf.it
• Organizzazione mondiale
della sanità: www.who.org
Tutti i libri sono acquistabili
od ordinabili presso la
«Libreria Missioni Consolata»,
via Cialdini 2/a, Torino;
tel./fax 011.4476695,
e-mail: libmisco@tin.it.

Carlo Urbani (a cura di Paolo Moiola)




NOVA MAMBONE (Mozambico) opere di promozione umana

SAPORE DI SALE
Una missione, idee chiare sullo sviluppo,
un «fratello» tuttofare…
E tante attività che non sono venute mai meno,
anche nei momenti più difficili.
Grazie a un «ragioniere» onesto…

Dopo la seconda guerra
mondiale, i missionari della
Consolata che avevano evangelizzato
il nord-ovest del Mozambico
da 25 anni, decisero di aprire
un nuovo campo di lavoro
missionario. Fu scelta l’attuale regione
costiera a nord di Maputo,
nella provincia di Inhambane, diventata,
in seguito, la diocesi di
Inhambane.
Una serie di missioni fu pianificata
lungo la strada nazionale che univa
la capitale con la seconda città più
importante del paese, Beira, 100
chilometri più a nord. Agli inizi degli
anni ’50, padre Vespertini si installò
al limite estremo della provincia,
presso la città coloniale
di Nova Mambone, sulla riva
del fiume Save, che separa la
provincia di Inhambane da
quella di Beira. Fu lì che, nel
1954, inaugurò la parrocchia
del Sacro Cuore, sette chilometri
circa a ovest della città.
Tutto questo per far ricordare
come, nel 2004, si festeggeranno
i 50 anni di fondazione di questa
parrocchia. E bisogna dire che l’evangelizzazione
fu davvero intensa
se oggi i cattolici costituiscono il
6% della popolazione e i cristiani il
20%. Due sono le etnie che hanno
accolto il vangelo: i vatshwa e i vandau.
I primi abitano la regione costiera
(la maggioranza dei quali nella
provincia di Inhambane); i secondi
si sono piazzati lungo il corso
del fiume Save, all’interno, verso
lo Zimbabwe. Numerose sono le
sètte tra i vatshwa, mentre i vandau
sono rimasti più attaccati alle loro
tradizioni ancestrali.

UN «FRATELLO» E TANTE OPERE
Quando i missionari si installarono
a Doane (a circa 7 chilometri
dalla città di Nova Mambone), non
c’era praticamente nulla. Cominciarono,
dunque, non solo a evangelizzare,
ma anche a dedicarsi a
un’intensa promozione umana.
Questa cominciò subito attraverso
una fitta rete di scuole e
dispensari; ogni una decina di chilometri,
nasceva una scuoletta elementare,
mentre le superiori trovavano
posto nella missione centrale,
arricchite anche da un collegio per
gli alunni più lontani.
Accanto alle scuole, per venire
incontro ai bisogni sempre più numerosi
delle varie istituzioni e della
popolazione, cominciò anche a
sorgere un atelier (segheria e falegnameria),
famoso per la sua produzione
di sedie, mobili, banchi di
scuola (la prima segheria dei missionari
della Consolata era stata installata
in Kenya, nel 1905, da fratel
Benedetto Falda). Con le costruzioni
in muratura, divenne
indispensabile pensare a mattoni e
blocchi di cemento; da qui le varie
foaci e una scuola per preparare
valenti muratori. E, viste le distanze,
l’uso dei veicoli portò alla creazione
di garages e alla formazione
di numerosi meccanici.
Tutte queste incombenze «tecnico-
materiali» venivano normalmente
svolte dai «fratelli coadiutori
», preparati a questo scopo. A
Nova Mambone, maestro incontrastato
è fratel Pietro Bertone; è lui
a farmi da guida nei vari laboratori
e officine, mostrandomi un’infinità
di aggeggi, di cui talvolta ignoravo
non solo l’uso, ma perfino l’esistenza.
– Fratel Pietro, ma tu sei capace di
far funzionare tutti questi marchingegni?
– Sì, ma il problema più grosso è la
loro riparazione. Sovente manchiamo
di pezzi di ricambio e, per farli
arrivare, occorre talvolta molto
tempo e, soprattutto, pazienza. Allora,
supplisce la fantasia.
Naturalmente il fratello non è solo
in questa impresa; in 50 anni la
missione ha formato decine di giovani,
oggi esperti nei vari mestieri e
capaci di mantenere la famiglia con
la loro attività.
Parroco della missione è il giovane
Arlei Pivetta, originario del Brasile.
Mentre mi fa visitare la chiesa,
pur non essendo io un esperto, mi
accorgo che la costruzione, ormai
cinquantenaria, ha bisogno di
qualche riparazione. «Ma – mi spiega
il padre – non è solo questione di
anni, bensì anche del terribile ciclone,
che ha investito la regione
nel febbraio del 2000. Dalle cronache
risulta che i grandi nubifragi arrivano
raramente: due o tre per secolo;
quello del 2000 è stato uno di
questi. C’erano delle onde alte seisette
metri, che hanno spazzato via
tutto; centinaia di persone sono
morte e migliaia sono rimaste senza
casa».
Uno dei sogni della missione, in
occasione dei festeggiamenti per il
cinquantesimo, sarebbe quello di
una buona riparazione della chiesa,
soprattutto con la sostituzione totale
del tetto, davvero danneggiato.

IL SALE… DELLA SALVEZZA
Durante le guerre degli anni
scorsi era praticamente impossibile
fare arrivare denaro in Mozambico,
ma sotto la spinta del regime
marxista, bisognava arrangiarsi con
l’autofinanziamento, chiesa e missioni
comprese. Fu allora che il
parroco di Nova Mambone, padre
Amadio Marchiol, ebbe un’idea geniale:
dal momento che la missione
sorgeva in riva all’oceano, si sarebbe
potuto estrarre sale dal mare.
Dopo aver consultato qualche esperto,
la cosa risultò fattibile e il
progetto andò avanti.
È sempre fratel Pietro che mi
porta a visitare le saline. Ogni giorno,
a causa della rapida evaporazione,
una cinquantina di operai vi
lavora a tempo pieno; e, nei periodi
caldi e secchi, quando il sale può
essere estratto in sole 48 ore, il numero
degli operai raddoppia, arrivando
a un centinaio. Per quindici
giorni al mese la marea arriva fino
alle saline e due pompe «succhiano
» l’acqua del mare, inviandola in
un grande bacino. Attraverso diverse
vasche di decantazione, vengono
eliminati gli altri sali minerali
e nell’ultima (dove l’acqua raggiune
i 26-28°) rimane il sale pulito
e commestibile.
Non è il fratello a occuparsi direttamente
del funzionamento delle
saline, che è invece affidato a due
responsabili locali, molto ben preparati
e competenti. Sono proprio
loro a farmi vedere l’ultima tappa:
con dei grandi rastrelli si lava il sale
nell’acqua e poi lo si accumula su
dei piccoli marciapiedi. Viene poi
trasportato in magazzini speciali,
dove viene seccato e «iodato». L’ultima
operazione è l’insaccamento,
perché il sale sia pronto alla vendita
e al consumo.
Questo progetto fu la carta vincente:
da allora, la missione trovò la
sua fonte di sostentamento.
È per venire incontro ai bisogni
della gente e dei missionari che sono
state pensate e realizzate tutte
queste opere sociali: dispensari,
scuole, segherie, garages, falegnamerie…
La missione è così diventata
una vera e propria «azienda» con
un bel numero di operai. Fratel
Pietro mi aggioa sui numeri.
«Abbiamo circa cento-centocinquanta
operai, dei quali i due terzi
lavorano nelle saline. Ci sono poi
otto operai nella falegnameria e sei
meccanici. Sei ragazze lavorano
nell’asilo della parrocchia, mentre
i quattro ragazzi che costruiscono
blocchi di cemento non sono operai
effettivi: ogni mattina diamo loro
quattro sacchi di cemento, con i
quali riescono a produrre un po’
meno di duecento blocchi».
Ma la missione, con le sue scuole
e collegi deve anche mangiare;
per questo non manca l’orto e allevamenti
vari. Un solo operaio (sordomuto)
tiene a bada tutto, soprattutto
il frutteto da cui partono, per
la gente, frutti di varie qualità per
diversificare la loro alimentazione.
Mi sorge spontanea una domanda:
«Come mai tutta questa “impresa”
non è stata toccata durante
il periodo della nazionalizzazione e
della guerra civile?».
– È grazie al nostro “ragioniere” –
mi spiega sempre fratel Pietro -. È
lui che ha salvato la missione.
Quando l’esercito e il governatore
arrivarono a vedere le saline, lui
disse che erano sua proprietà. E dal
momento che venivano nazionalizzate
le opere della chiesa e non
quelle dei privati, tutto fu salvo. Per
parecchi mesi a Nova Mambone vi
fu un solo missionario, ma il ragioniere
continuò a gestire l’attività
con profonda onestà e sui conti
bancari i soldi non mancarono di
essere regolarmente depositati.
Oggi, il ragioniere è in pensione,
ma i due figli ne continuano
l’opera; sempre
allo stesso modo…

Jean Paré




UN SEME CHIAMATO… AMICIZIA

mons. Giovanni Battista Pinardi,
ausiliare di Torino ai tempi
del beato Giuseppe Allamano,
stretto amico di mons. Filippo Perlo
e di altri missionari della Consolata,
è in corso il processo di beatificazione.

«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche,
dolori e illimitata fiducia in
Dio, fruttificherà il cento per uno».
Così si esprimeva il cuore di un vescovo,
mons. Giovanni Battista Pinardi,
che si apriva alla confidenza di
un altro vescovo, mons. Filippo Perlo,
primo successore del beato Giuseppe
Allamano alla guida dell’Istituto
dei missionari della Consolata.
L’indizio di un sincero legame tra
i due grandi pastori del secolo scorso
ci viene offerto dalla lettera di felicitazioni
che mons. Pinardi scrisse
al Perlo nell’agosto 1945, in occasione
del giubileo sacerdotale di
quest’ultimo.
Parroco e ausiliare di Torino il primo
(1880-1962), missionario e vicario
apostolico del Kenya il secondo
(1873-1948), che cosa alimentava
l’amicizia di questi due vescovi, così
differenti tra loro per stile ed esperienza
pastorale concretamente vissuta?

La loro amicizia
cominciò ai tempi degli studi nel seminario
di Torino. Nato a Castagnole
Piemonte (TO) il 15 agosto
1880, Giovanni Battista Pinardi era
di sette anni più giovane del Perlo,
nato nel 1873 e ordinato prete nel
1895.
Il loro legame continuò anche
quando il Perlo, dopo un breve periodo
di attività pastorale e servizio
come economo al santuario della
Consolata, entrò tra i primi nell’Istituto
missionario fondato dall’Allamano.
In occasione del suo invio in
Kenya, nella prima spedizione missionaria,
l’allora giovane chierico Pinardi
partecipò come cantore alla
celebrazione della partenza.
Ordinato sacerdote nel 1903 e
consacrato vescovo nel 1916, mons.
Pinardi seguì sempre con commozione
e interesse l’opera del Perlo,
attraverso due testimoni di eccezionale
importanza: il canonico Giacomo
Camisassa, zio di Filippo, e, soprattutto,
il beato Giuseppe Allamano,
del quale mons. Pinardi si
disse, visitandolo nel 1926, «uno dei
suoi più affezionati discepoli».
Mons. Pinardi stimò grandemente
l’attività missionaria di mons. Perlo,
ritenuto l’anima e l’artefice delle
fondazioni missionarie in Kenya, poi
consacrato vescovo nel 1909 nel santuario
della Consolata. «Pochi come
il sottoscritto – confidava mons. Pinardi
a mons. Perlo – hanno seguito
la tua vita, i tuoi sacrifici, i tuoi dolori,
le tue aspirazioni di vero missionario
del Signore; perciò doverosamente
e sentitamente mi sento accanto
ai tuoi confratelli…».
Ecco ciò che ha accomunato e alimentato
l’amicizia tra queste due figure
luminose di pastori: il sacrificio
della propria vita per il vangelo.

Mons. Pinardi conobbe
l’intelligenza brillante e concreta dell’attività
di mons. Perlo nella nuova
missione in Kenya, parlandone come
di un terreno completamente da
dissodare e che costò all’intrepido
vescovo missionario «sacrifici senza
nome», al punto da affermare che il
Perlo «…molto ha fatto, quanta
umana azione da Dio benedetta poteva
compiere».
Il sacrificio richiesto a mons. Perlo
toccò sul vivo la tempra della sua
fede, quando il mondo intero fu
sconvolto dalla seconda guerra mondiale,
le cui conseguenze si fecero pesantemente
sentire anche in terra
d’Africa: «L’immane guerra d’Africa
e mondiale si è abbattuta sul terreno
sì bene coltivato – scriveva ancora
mons. Pinardi, riferendosi alla
giovane missione africana -; penso
quanto ha sofferto il suo cuore, nel
vedere il frutto di tante fatiche sue e
dei suoi cari confratelli, ritardato e,
in apparenza, compromesso. Dico,
in apparenza, compromesso».
Ma l’uomo di fede è capace di una
diversa e ben più profonda visione
del mondo, scorgendo la crescita del
regno di Dio anche nelle sue apparenti
smentite e contraddizioni.
Il cuore di mons. Pinardi fu capace
di un sentimento di tanta e tale
compartecipazione alle fatiche del
Perlo per una sorta di connaturalità:
lo stesso mons. Pinardi era provato
nelle stesse sofferenze a motivo del
vangelo, seppure in contesto differente,
custodendo nel suo animo gli
stessi sentimenti che furono già dell’apostolo
Paolo: «È giusto, del resto,
che io pensi questo di tutti voi,
perché vi porto nel cuore, voi che
siete tutti partecipi della grazia che
mi è stata concessa sia nelle catene,
sia nella difesa e nel consolidamento
del vangelo» (Fil 1,7).

Per vocazione
e temperamento, mons. Pinardi non
fu missionario alla maniera del Perlo.
Il «terreno» dove egli si spese come
parroco e vescovo non richiedeva
il primo annunzio, ma una sempre
nuova incarnazione nei diversi
contesti storici: in questo fu davvero
missionario e pioniere, impegnato su
tanti fronti, tra cui spicca quello per
la stampa cattolica. In una congiuntura
storica che sfavoriva ogni iniziativa
di questo genere, nell’ottobre
1917 fondò l’Opera della buona
stampa e sostenne, pagando di persona,
la diffusione della stampa cattolica.
Quando nel 1930 Pio XI chiamò
da Sassari a Torino mons. Maurilio
Fossati, il papa disse al nuovo arcivescovo:
«A Torino avete un vescovo
santo, ma bisogna lasciarlo nell’ombra,
per non avere problemi con
il regime».
Mons. Pinardi non fu più confermato
né vescovo ausiliare, né provicario
generale e se ne stette, apparentemente,
nell’ombra nascosta del
suo servizio di parroco presso la parrocchia
di San Secondo. Ma il chicco
di frumento non teme l’ombra
della terra; anzi, l’accoglie come la
vera possibilità di portare frutto, che
non tardò a maturare. Esso ha il volto
di migliaia di poveri, malati e sofferenti,
che furono quotidianamente
accolti e aiutati da mons. Pinardi.
A San Secondo e in tutta la diocesi
di Torino è ancora vivissimo il suo ricordo
come di un vero padre dei poveri.
«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche, da tanti dolori, da
illimitata fiducia in Dio, fruttificherà
il cento per uno»: quanto mons. Pinardi
scriveva del Perlo delinea bene
il suo stesso ministero pastorale.
È proprio il progressivo approfondimento
dei suoi frutti spirituali che
ha portato la diocesi di Torino ad avviare
il processo di canonizzazione,
che si trova ora depositato presso la
Congregazione romana per le Cause
dei Santi, dove è iniziata la seconda e
più impegnativa fase del processo,
nella speranza di poterlo un giorno
onorare come santo, venerando in lui
un pastore da imitare e un intercessore
da pregare.
Qui tornano a intrecciarsi le storie
dei santi torinesi, perché proprio un
figlio del beato Allamano, un altro
missionario della Consolata come
mons. Perlo, sarà il postulatore della
causa di mons. Pinardi, padre
Gottardo Pasqualetti, al quale vanno
il ringraziamento e l’augurio per
il suo impegno.
«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche, da tanti dolori, da
illimitata fiducia in Dio, fruttificherà
il cento per uno»: la lunga amicizia
tra mons. Pinardi e le missioni della
Consolata è sicuramente uno di questi
frutti. E che la storia continui.

Luca Ramello




Missionari «babbo natale»?

Caro direttore,
ho ricevuto qualche lettera
di amici italiani, che
hanno commentato l’articolo
«Fare… non basta
più!» (Missioni Consolata,
gennaio 2003). Alcuni
hanno giudicato l’articolo
positivamente, nel senso
che predicare il vangelo
non è facile; altri hanno
reagito negativamente nei
nostri confronti, ritenendo
che noi missionari siamo
in Africa per fare il
«babbo natale».
Nell’articolo c’è del vero,
ma anche parecchio di
discutibile. Per rendere onore
a Dio, l’africano ha
bisogno di cantare e danzare
anche in chiesa; se
questi fatti non piacciono
ad un antropologo o, secondo
lui, non rendono
lode al Signore, lasciamo
il giudizio al Buon Dio.
Non penso che l’intera
comunità cristiana di Baragoi,
in Kenya, sia composta
da bambini, donne e
poveracci che vengono in
chiesa per chiedere aiuto
materiale. C’è un bel
gruppo di leaders (maestri,
capi locali, studenti universitari)
che cercano di
comportarsi da cristiani,
anche se non sempre ci
riescono, come avviene in
ogni parte del mondo.
«Sono gli ammalati che
hanno bisogno del medico,
non i sani» diceva pure
Gesù.
Accludo una lettera di
monsignor Virgilio Pante,
vescovo di Maralal. La lettera
è rivolta soprattutto
al clero.

La lettera del vescovo
Pante affronta vari problemi.
Al sacerdote, per
esempio, ricorda: in missione
ciò che conta non è
il protagonismo (del singolo),
ma il servizio in
collaborazione con l’intera
comunità.

p. Lino Gallina




Don Antonio, ricorda quel panino?

Cari missionari,
«pace e gioia» è il mio augurio,
accompagnato dalla
preghiera perché diventi
realtà in tutto il mondo.
Questa mattina vi ho
mandato un’offerta per le
vostre missioni in Kenya,
perché oggi nel paese, e
precisamente a Nyahururu,
viene consacrato il primo
vescovo, Luigi Paiaro,
missionario fidei donum
di Padova, che da 40 anni
opera in Kenya. Penso
che molti di voi, specialmente
anziani, l’abbiano
conosciuto.
Qualcuno avrà forse
sentito parlare anche del
sottoscritto, che è stato un
po’ il fondatore della missione
padovana in Kenya,
perché ha provveduto all’erezione
delle prime
missioni in anni difficili.
Adesso, a 94 anni, sono
il decano dei sacerdoti e
devo accontentarmi, mentre
a Nyahururu si fa festa,
di seguirla con la preghiera
nella cappella di
Maria Immacolata.
Mi preme soprattutto
dirvi che noi, preti padovani,
siamo molto debitori
ad alcuni vostri missionari,
ormai in paradiso. Il
mio pensiero va a monsignor
Carlo Cavallera, che
ci ha invitato a collaborare
con voi, ai padri Mauro
Andrione, Camisassi, Cagnolo,
Sestero, Condotta,
Toselli, senza dimenticare
i «fratelli» e le suore. Tutti
ci hanno sempre dato un
buon consiglio, un’accoglienza
fratea, un esempio
di fede; ci hanno aiutato
a seguirli nelle vie del
Signore. Dal paradiso anch’essi
oggi giorniranno con
noi e continueranno a intercedere
presso il trono
di Dio.

Antonio Moletta è
«don», ma anche «monsignore». Lo precisiamo
per evidenziare la sua
semplicità.
A proposito: don Antonio,
ricorda un giorno
di giugno del 1968? Toavamo
da un convegno
missionario a Roma: lei era
direttore del Centro
missionario diocesano di
Padova e chi ora le risponde
era uno studente
di teologia. Allo studente
(squattrinato) lei offrì un
passaggio in auto fino a
Treviso, nonché un panino
e un’aranciata… Bei
tempi, don Antonio!

don Antonio Moletta




TANZANIA come cambiare il sistema economico?

«POVERI, SALVIAMOCI A VICENDA!»
Oro, diamanti e pietre preziose non mancano.
Ma dove finiscono i loro proventi?
A quanto ammontano?
Come vengono investiti?…
A dispetto delle ricchezze, la povertà penalizza
soprattutto i villaggi, dimenticati dallo stato.
Per risolvere i problemi, si fa strada una nuova strategia,
fondata sulla «concorrenza» degli stessi poveri.
L’apporto della chiesa è oggi più che mai necessario.

La chiesa cattolica deve puntare
su nuove strategie per aiutare
la popolazione a superare
la grave situazione economica del
Tanzania e valorizzare le ricchezze
del suolo.
Questa dichiarazione è stata fatta
da alcuni professori dell’università
di Dar es Salaam, insieme ad altri intellettuali,
nel Simposio internazionale
organizzato dalla Commissione
«Giustizia e pace» della Conferenza
episcopale del Tanzania.
Il Simposio, con lo slogan «Poveri,
salviamoci a vicenda!», ha approfondito
i problemi della povertà
e dello sgretolamento dell’associazionismo
che incombe sulla popolazione,
nonostante che il Tanzania
sia una nazione tranquilla, dove regna
la pace e con un’unica lingua, lo
swahili.
Il professore Haji Semboya ha dichiarato
che la chiesa ha vaste possibilità
di animare la gente, specialmente
i più poveri, affinché prenda
coscienza dei suoi diritti e delle sue
capacità di migliorare la situazione.
Il docente ha stimolato i vescovi cattolici,
con il cardinale Polycarp Pengo
in testa, a collaborare nell’educare
la popolazione, perché la chiesa è
parte del popolo del Tanzania. Il suo
apporto è oggi più urgente che in
qualsiasi altro periodo della storia.
Le difficoltà sociali non dipendono
dalla mancanza di risorse, ma dal
cattivo sistema economico: un sistema
ritenuto da tanti incapace di
produrre e distribuire beni alla maggioranza
dei cittadini.
A parere di Haji, in Tanzania abbondano
oro, diamanti, nonché la
pietra preziosa tanzanite, superando
molti altri paesi; però l’economia
dipende troppo dagli aiuti estei,
che comportano vincoli ed anche
«trappole» da parte di coloro che
concedono prestiti.
Nazioni come Botswana, Australia
e Sudafrica possiedono minerali
e operatori nel settore; però questi
paesi hanno accordi «societari» e,
perciò, i guadagni vengono ripartiti
fra tutti i soci, mentre il Tanzania incassa
solo tasse fiscali.
Haji ha sfidato i partecipanti all’incontro
con la seguente domanda:
«Chi conosce la quantità d’oro,
diamanti e tanzanite che ogni anno
si produce nel paese?». L’interrogativo
ha destato scompiglio, supposizioni
e dubbi. Ma nessuno ha saputo
dare risposte certe.
Un corrispondente del settimanale
cattolico Kiongozi,
giunto al Ministero delle miniere,
non è riuscito a contattare il
commissario ad hoc per conoscere il
quantitativo di minerali estratti in
Tanzania e quanto il paese si avvantaggi
dei giacimenti affidati a privati,
sia tanzaniani sia stranieri. Tuttavia
alcuni addetti dello stesso Ministero
hanno risposto che i dati sono
in elaborazione e che saranno notificati.
Ma finora non si è saputo nulla.
I delegati al Simposio hanno pure
denunciato che, negli accordi del
settore minerario, i cittadini non godono
di alcuna partecipazione e sono
tenuti all’oscuro di tutto.
Un impiegato del Ministero delle
miniere (non ha voluto rivelare il nome)
al giornalista di Kiongozi ha ricordato
che gli accordi sono segreti:
«Sai… tutti i contratti lo sono, ma
specialmente quelli in campo commerciale.
Nessuno vuole che la gente
conosca troppo da vicino l’ammontare
del suo capitale e l’andamento
del business!».
Damian Dalu, vescovo di Geita, a
chi gli ha chiesto informazioni sul
pagamento versato alle popolazioni
espropriate delle loro terre (ricche
di minerali) e trasferite altrove, ha risposto
laconicamente: «È uno scandalo.
Nessuno sa niente!». Ma l’affermazione
del vescovo contrasta
con quanto ha prospettato un direttore
distrettuale dello sviluppo, il
quale in un suo rapporto si è dimostrato
soddisfatto del risarcimento
pagato ai contadini e del progresso
realizzato dagli investitori nel distretto.
I partecipanti al Simposio hanno
aggiunto un’altra amara osservazione, e cioè: anche quando è evidente
che gli accordi penalizzano i cittadini,
non si fa nulla per modificare
la situazione, perché i contratti
firmati sono considerati «parola sacrosanta
di Dio».
Il professore Mkandala, dell’università
di Dar es Salaam, ha ricordato
che molte direttive sui
piani di sviluppo nazionale vengono
prese dal governo centrale; la loro
applicazione dovrebbe riguardare i
villaggi, ma in loco non si arriva mai.
Il docente ritiene che ai tanzaniani
non serve un’economia retta dalle
leggi del mercato neoliberista, poiché
non hanno strumenti per parteciparvi.
Rispetto al potere centrale, la chiesa
è in una posizione migliore, perché,
data la sua organizzazione decentrata
(diocesi, parrocchie, cappelle),
raggiunge anche i gruppi più
piccoli, sparsi nei villaggi. Mkandala
ha concluso: «Nel distretto è all’opera
un ottimo servizio scolastico;
esistono buone direttive e validi
strumenti per l’uso e il risparmio di
denaro (banche). Nello stesso tempo
nel distretto vivono migliaia di
coltivatori, sparpagliati in numerosi
villaggi: sono questi che devono essere
aiutati ad entrare nei programmi
economici del libero mercato. In
Tanzania la spina dorsale dell’economia
resta l’agricoltura».
Al termine del Simposio internazionale,
che ha visto personaggi di
Tanzania, Uganda, Kenya, Botswana,
Eritrea, Regno Unito, Germania,
Belgio e Olanda, i delegati hanno elaborato
alcune proposte da presentarsi
al presidente del Tanzania,
Benjamin William Mkapa.
Le proposte evidenziano soprattutto
un dato: gli sforzi per superare
la povertà non saranno mai efficaci
se gli stessi poveri, che vivono
nei villaggi e nei quartieri periferici,
non saranno fatti partecipi delle decisioni
generali che riguardano la loro
vita.
Nel consegnare le proposte al
presidente della repubblica
Mkapa, il professore Beda
Mutagahywa ha dichiarato: «Ecco le
conclusioni salienti, elaborate insieme,
sui problemi e modi di combattere
la povertà. In questo paese c’è
bisogno estremo di progetti pubblici
e di servizi sociali: servizi a favore
della popolazione, rivolti con maggiore
precisione e determinazione
soprattutto alla massa dei diseredati:
donne, bambini, giovani e anziani;
handicappati, carcerati, prigionieri
in attesa di giudizio, persone
vittime di credenze antiquate».
Si è pure ribadita la necessità di
rinnovare gli strumenti di potere, di
valutare la loro efficienza nei vari distretti
per renderli più efficaci, di
accertare che i progetti di sviluppo,
destinati al popolo, siano concretamente
realizzati.
Chiudendo il Simposio, il presidente
Mkapa ha affermato che i tanzaniani
dovranno lavorare con maggiore
energia, perché il lavoro è il
primo mezzo per vincere la povertà.
Ha aggiunto che i bisogni hanno
tante facce e voci; ecco perché è necessario
l’apporto di tutti: dal governo
ai singoli, dagli apparati pubblici
alle organizzazioni non governative.
Il fatto che i poveri aiutino se
stessi non è solo un’alternativa per
rispondere ai bisogni, ma anche una
chiamata rivolta a tutti per lavorare,
per avere nuove idee dalla base e cogliere
«l’assoluto della vita».
È certo determinante chi entra
nella guerra contro la povertà; ma lo
è anche il modo, giorno dopo giorno.
«Nel caso in cui un bisognoso ne
aiuti un altro, entrambi dovranno
sostenersi a vicenda nel cercare i
mezzi per superare la povertà, non
per condividerla… dipendendo
passivamente uno
dall’altro».

(*) Missionario della Consolata
in Tanzania per molti anni,
padre Giovanni Medri si è avvalso
di un «reportage» di Kiongozi
(23/29 novembre 2002),
settimanale cattolico nazionale
in lingua swahili.

PARTENDO DAL BASSO
Le proposte del Simposio
al presidente della repubblica Benjamin W. Mkapa

SIGNOR PRESIDENTE,
grazie di averci onorati della sua presenza
per raccogliere i frutti del nostro
Simposio. Lo scopo è stato la ricerca
di soluzioni e programmi per
aiutare i poveri.
Le seguenti proposte sono della Commissione
«Giustizia e pace» dei vescovi
cattolici del Tanzania e dei partecipanti
al Simposio, provenienti da
varie fedi del nostro paese e di altri
paesi dell’Africa e dell’Europa.
Ci piace ricordare che tutti hanno offerto
il loro contributo gratuitamente,
pagandosi anche il viaggio.

1. LA BASE PER LO SVILUPPO
È importantissimo tener presente che
la base di ogni sviluppo è l’uomo. Di
conseguenza tutte le iniziative per
sconfiggere la povertà devono partire
dalla persona, nella sua dignità, e
abbracciare l’intera umanità. Ciò significa:
accettare tutte le cose che
sono a vantaggio delle persone, di
tutti noi. È necessario accettare con
entusiasmo la cooperazione sociale.
Inoltre è necessario riconoscere che i
beni della terra, la nostra vita stessa
e le nostre diverse capacità sono dono
di Dio.
Noi, appartenenti a religioni diverse,
viviamo a contatto con il popolo e,
perciò, ne conosciamo i bisogni e anche
le soluzioni idonee al progresso.
È di grande importanza rinnovare le
strategie di sviluppo partendo dal
basso, per unire le strategie dall’alto.
È vitale irrobustire gli sforzi che si
compiono nei villaggi: è questa l’azione
dal basso.
Vi sono segni che fanno pensare ad uno
sgretolamento della cooperazione
sociale. Tali segni ci preoccupano. Allora
riteniamo di dover offrire la nostra
opera per l’unità del paese, operando
con i diseredati.

2. I SERVIZI ALLA SOCIETÀ
Molti servizi sociali arrivano fino al
gradino del distretto, ma non a quello
del villaggio. Bisogna rivedere gli
strumenti di governo, per accertare se
i progetti di sviluppo, a partire dall’alto,
giungano alla base. Occorre che
le direttive dei pubblici poteri siano
efficaci e siano controllate nei villaggi
dagli abitanti interessati.
In generale abbiamo scoperto che c’è
un vuoto tra distretti e villaggi. Tale
vuoto deve essere colmato, affinché
la popolazione abbia maggiori vantaggi
dai programmi messi in campo
dal governo. Siamo pronti a lavorare
per colmare il vuoto.
Sappiamo che la cooperazione dei cittadini,
a livello di base, non è facile,
poiché tocca campi diversi. Noi siamo
disponibili a cornoperare con il governo
per cercare i migliori metodi.

3. L’ISTRUZIONE
È necessario rivedere il nostro sistema
educativo e la sua efficienza, per
accertare se coloro che terminano le
scuole sono preparati all’azione e ad
incrementarla. L’educazione all’indipendenza,
associata alla creatività e
responsabilità personale verso la società,
deve essere fortemente inculcata.
Nei villaggi si insista su un insegnamento
diligente, favorendo le
scuole artigianali e le nuove tecnologie.
Noi continueremo a cornoperare per una migliore istruzione, per la formazione
artigianale e di nuove tecniche.

4. IL CAMBIAMENTO MENTALE
È penoso scorgere nei villaggi «una
mentalità di dipendenza» nelle opere
di sviluppo, come pure fra i leaders locali.
Dall’esterno, non si apprezzano
le risorse che i poveri possono offrire.
Mancano di partecipazione.
In tale situazione gli sforzi per cambiare
devono essere fatti con la partecipazione
del governo, delle associazioni
religiose e degli stessi abitanti.
È doveroso ricordare che un
posto di responsabilità non è un luogo
per arricchirsi.

5. LE RISORSE NATURALI
L’impiego delle risorse naturali e la loro
privatizzazione riguardano l’intera
nazione. I cittadini hanno diritto di
conoscere come vengono usati i beni.
Perciò è molto importante far conoscere
ai cittadini i progetti di sviluppo,
per associarli in modo più consapevole.
La compartecipazione e una
migliore chiarezza faranno diminuire
i conflitti nella società.

6. VALUTARE IL LIBERO MERCATO
È urgente che il governo valuti i risultati
del sistema del libero mercato,
specialmente tra i poveri. In ogni ambito
si verifichi, il più possibile, se sono
rispettati i diritti fondamentali dei
lavoratori. Il mercato libero, se non è
ben controllato dal governo, finisce
per opprimere maggiormente i bisognosi.
Essi vanno protetti con trasparenza.

7. I PIÙ VULNERABILI
Urgono servizi nazionali e locali, come
pure inteazionali, che vengano
incontro con maggiore attenzione alle
categorie più vulnerabili nella società:
donne, bambini, giovani, vecchi;
e inoltre: portatori di handicap,
quelli in custodia preventiva e in carcere,
quelli legati a credenze e abitudini
ancestrali.
È necessario costruire la società di
tutti, senza esclusioni. I disabili ricevano
i servizi necessari e siano inseriti
nella società, nella scuola e nel
lavoro senza discriminazioni. I diritti
dei detenuti siano rispettati, come
quelli di tutti.

8. I RIFUGIATI
La presenza di molti rifugiati in Tanzania
non solo mette in pericolo la sicurezza
del nostro popolo, ma interferisce
nello sviluppo delle regioni di
confine, dove chi è già povero deve
portare anche il peso di altri poveri.
La comunità internazionale cerchi le
strategie per porre fine ai conflitti
nella regione dei Grandi Laghi, come
ha fatto per Timor Est e Bosnia.

9. I MALATI DI AIDS
Ci si impegni di più per indurre la popolazione
a combattere l’Aids, anche
nei villaggi. Ci si preoccupi dei colpiti
da Hiv, che possono contagiare altri
a causa anche di credenze distorte
e abitudini antiche.
Siano protetti dal governo e dalla società.
Noi ci uniremo maggiormente
all’autorità pubblica per scongiurare
questi mali fra la nostra gente.

SIGNOR PRESIDENTE,
nel Simposio abbiamo capito che l’azione,
partendo dal basso della società,
ci aiuterà ad eliminare la povertà
molto più in fretta rispetto al
passato. La chiesa cattolica e le altre
comunità religiose sono pronte a collaborare
ancora di più col governo.
Invitiamo l’esecutivo ad essere più disponibile
per accordarsi con tutti per
il bene del popolo, specialmente nei
villaggi dove i leaders religiosi sono
più vicini alla gente e godono di familiarità.

mons. Paul Ruzoka,
vescovo di Kigoma e presidente
della Commissione «Giustizia e pace»
prof. Beda Mutagahywa,
animatore dei gruppi
di discussione del Simposio

Giovanni Medri




NON SERVONO NÉ «CHIERICI» NÉ «LAICI»

Ho letto con sorpresa la lettera di FERRUCCIO GANDOLINI
(Missioni Consolata, gennaio 2003) sull’ospedale di
Wamba (Kenya). Il signor Ferruccio auspica anche un ampio
«servizio» sull’ospedale.
Certamente i 38 anni di ininterrotto lavoro del dottor SILVIO PRANDONI, in questo ospedale, sono il più bell’elogio del laicato missionario. Silvio è un laico missionario che non solo ha rinunciato alla carriera per stare con i poveri, ma ha anche saputo suscitare un giro di amici e volontari che offrono sostegno economico e servizi specializzati all’ospedale.
Tra loro spicca l’amico TIBERIO, da poco in pensione solo
perché le gambe non lo reggono più.
Non va dimenticato che il laicato missionario è stato possibile grazie alla collaborazione (talora sofferta) con le forze «clericali» locali: a cominciare dal vescovo Carlo
Cavallera, fondatore della diocesi
di Marsabit e dell’ospedale,
dal suo successore monsignor
Ambrogio Ravasi e dal
nuovo vescovo di Maralal, Virgilio
Pante. Né si scordino le missionarie
della Consolata, che
nell’ospedale hanno dato il meglio
della loro vita, le suore indiane
dell’Immacolata e i missionari
della Consolata che hanno sostenuto e amato l’ospedale.
D a quando è nata la diocesi di Maralal, opero come amministratore:
quindi sono anche responsabile dell’ospedale
di Wamba, che è una… patata ben cotta, profumata
e appetitosa, ma anche bollente.
I problemi sono tanti: aumento della povertà della gente
(oltre a non avere mutua o assicurazioni mediche, spesso
non ha neppure i soldi per pagare il minimo che l’ospedale
richiede per medicine, cure e degenza); insicurezza,
razzie e scontri tribali; alti costi di gestione (medicine, salari,
manutenzione); trasporto (siamo a quasi 400 Km da
Nairobi, di cui gli ultimi 100 su strada sterrata); mancanza
di elettricità e di un acquedotto pubblico; il complicarsi
delle patologie mediche, la stabilità e la qualificazione
del personale medico e paramedico… Sono elementi che
rendono gravoso il lavoro. La responsabilità di raccogliere,
ogni anno, 450 mila euro per il funzionamento ordinario
dell’ospedale farebbe perdere il sonno a più di uno.
È in gioco il futuro dell’ospedale, e il bene dei poveri.
Nessuno ha le soluzioni in tasca: né i «chierici» (non
per forza clericali) né i «laici» (non necessariamente anticlericali).
Solo una sincera e aperta collaborazione fra tutti
può aiutare ad affrontare con novità, verità e carità i bisogni
e i problemi di una splendida
opera d’amore, qual è
l’ospedale di Wamba: «la rosa
del deserto».
Non c’è bisogno né di clericalismo
né di laicismo, ma di persone
che, come Prandoni, i missionari
e le missionarie, siano
disposte a pagare di persona,
senza paura del confronto o
dissenso, facendo bene il bene,
come voleva il beato Giuseppe
Allamano.
Ben venga qualcuno dalla penna
facile che scriva sull’ospedale! Gli ammalati samburu,
turkana, rendille, borana, gabbra, meru, kikuyu e quanti beneficeranno
dell’ospedale saranno felici se i loro amici aumenteranno,
se ci saranno persone, dall’Europa e dall’Africa,
con il coraggio di dedicare la vita ai poveri come il dottor
Prandoni, che ritiene che la parola «pensione» non
abbia diritto di cittadinanza nel suo vocabolario…
Mi sono fatto aiutare a scrivere questa lettera, perché le
mie mani sono più abituate alla chiave inglese che alla penna.
E non vorrei che, con questa lettera, succedesse ciò che
avviene quando stringo la mano agli amici: data la «morsa», spesso faccio loro fare una smorfia di dolore.

P. MARIO LACCHIN




Carenza di obiettività?

Caro direttore,
ho letto con molto interesse
il DOSSIER sull’università
cattolica del Mozambico
(Missioni Consolata,
febbraio 2003). Però su alcuni
aspetti l’ho trovato
carente di obiettività circa
coloro che hanno dato un
sostanziale contributo alla
realizzazione dell’università.
Per esempio: non è stato
dato il giusto riconoscimento
a padre Lorenzo Ori
che, lasciato il Kenya, ha
diretto i lavori di ricostruzione
del complesso di
Nampula; non sono stati
menzionati i lavori finanziati
dall’Associazione di
volontariato «Insieme»
(AVI), che con encomiabile
impegno ha raccolto l’equivalente
di un milione
di mattoni (circa 370 mila
euro) e ha finanziato la
scuola pre-universitaria di
Cuamba, dedicata alla memoria
di padre Eugenio
Menegon, composta di
ben 10 fabbricati.
A quel tempo sembrava
che, senza la scuola pre-universitaria,
la facoltà di agraria
di Cuamba incontrasse
difficoltà a nascere!
(Una foto di questo complesso,
al posto del monumento
alla Coca-Cola, sarebbe
stata più opportuna).
Si poteva anche
accennare al Centro nutrizionale
per bambini di
Cuamba, sostenuto da alcuni
anni dalla nostra Associazione
e che quest’anno
sarà ristrutturato con
ben 50 mila euro.
Non voglio ricordare gli
impegni che abbiamo in
Kenya (prossima apertura
di un ospedale), né quelli
in Mozambico… Tutte
queste cose non si potevano
ignorare, perché l’autore
del dossier conosce benissimo
l’attività della nostra
Associazione, che opera
a fianco dei missionari
della Consolata da oltre
17 anni.
Il vero volontariato è discreto
e silenzioso, ma ignorarlo
completamente è
riduttivo del suo grande
apporto. Mi riferisco alle
associazioni che non hanno
finanziamenti pubblici,
ma che quotidianamente
sono impegnate a raccogliere
fondi vendendo torte
e fiori davanti alle chiese
e nei mercati per aiutare
i paesi poveri…
Perché Missioni Consolata
parla così poco del volontariato?

Più che di carenza di obiettività,
si è trattato di
lacune. E siamo grati al
presidente dell’AVI di averle
colmate. Tuttavia
occorre ricordare che le
lodevoli e importanti opere,
realizzate dall’AVI
in Mozambico, sono indipendenti
dall’università
cattolica.
Parliamo poco del volontariato?
L’abbiamo
fatto in marzo con il progetto
«acqua per la vita»
di Matiri (Kenya); lo facciamo
in questo mese (vedi
l’articolo sul Madagascar).
E, se l’AVI scrivesse
un articolo, saremmo
felici di pubblicarlo.

Gino Merlo




I GRANDI MISSIONARI: padre Giovanni De Marchi

È scomparso l’1 gennaio 2003, ma non è troppo presto per annoverarlo tra
i grandi missionari: Giovanni De Marchi è uno di quei personaggi
carismatici che suscitano
simpatia, ammirazione e venerazione, per semplicità, naturalezza e
molteplicità di azione. Innamorato di Maria, pioniere di tre continenti,
fece cose straordinarie
«nell’ordinario», come voleva il beato Allamano.

<centermadonna e="" missione="" Nato ad Arsiè (Belluno) nel
1914, Giovanni De Marchi
entrò tra i missionari della
Consolata nel 1926 e fu ordinato prete
nel 1937. Licenziato in teologia e
sacra scrittura, insegnò tali materie
nel seminario teologico di Torino e,
nel 1941, fu nominato direttore della
casa di Roma. Riprese gli studi all’Istituto
biblico, ma non poté finirli,
perché fu inviato in Portogallo.
Nel 1940, il Concordato e l’Accordo
missionario tra Portogallo e
Santa Sede aveva allargato le porte
dei territori d’oltremare ai missionari
stranieri; un’enciclica di Pio XII esortò
i vescovi lusitani ad accogliere
nel paese ordini e istituti religiosi
stranieri, «per moltiplicare gli operai
dell’evangelo destinati alle colonie».
I missionari della Consolata furono
invitati ad approfittae e il vescovo
di Aveiro si dichiarò disposto
ad accoglierli. Dopo lunghe trattative
diplomatiche, il 10 giugno 1943,
in piena guerra mondiale, padre De
Marchi atterrò a Lisbona, con passaporto
vaticano, e iniziò la sua avventura
di missionario innamorato
di Maria.

COME UN PELLEGRINO
«Dopo quattro giorni di cammino
da Lisbona, giungo a Leiria – scriveva
padre De Marchi del suo “primo
pellegrinaggio” -. Ad ogni costo voglio
arrivare a Fatima prima di notte.
Ancora 25 km: 5 ore di cammino
». Trattenuto a lungo dal vescovo,
fu a destinazione a tarda sera, con
l’auto del prelato.
Era il 13 giugno: la spianata del
santuario brulicava di una marea di
pellegrini. Finita la cena, il padre si
diresse al santuario, per fare le sue
devozioni. Ma fu subito abbordato
da un gruppetto di pellegrini che gli
chiesero di confessarli. «Voi si» disse
agli uomini, lasciando le donne
costeate: a quei tempi era proibito
confessarle al calar della notte.
Pensava di cavarsela in fretta. Invece
si formò una coda che, quando
sembrava esaurirsi, si riproduceva
come file di formiche. Alle due di
notte poté entrare nel santuario. Avrebbe
voluto passare tutta la notte
in «veglia d’armi»; ma fu vinto dal
sonno e si ritirò nella sua stanza.
Il giorno dopo padre Giovanni si
sedette di nuovo nel confessionale,
per ascoltare le confidenze dei pellegrini,
mescolando spesso le sue lacrime
con quelle dei penitenti: alcuni
avevano le ginocchia sanguinanti;
tutti erano lì per adempiere un voto
per grazia ricevuta o chiedere un favore
per un familiare.
Il primo impatto col mistero di Fatima
restò indelebile; fu subito preso
da un impulso irresistibile: scrivere una
storia sulle apparizioni, diversa
dalle altre.
La signora Soledade Freitas, sua
insegnante di portoghese, cercò di
dissuaderlo o, almeno, convincerlo a
procrastinare, dato che masticava
appena la lingua lusitana. E gli riferiva
quanto Ti Marto, il padre dei
veggenti Francesco e Giacinta, diceva
a tutti i giornalisti: «È già tutto
contenuto nei libri». Alla fine fu anch’essa
travolta dal suo entusiasmo.
Padre Giovanni cominciò a leggere
i libri già scritti su Fatima; fece investigazioni
sui luoghi delle apparizioni;
raccolse informazioni sulla vita
dei tre pastorelli; ebbe frequenti
colloqui con Lucia, unica superstite
dei veggenti; interrogò ripetutamente
i testimoni più qualificati. Ridendo,
cantando e commuovendosi, si
metteva alla pari con i suoi interlocutori,
ne guadagnava la confidenza
e li faceva parlare.
Nacque così Era una signora più
splendente del sole, un’opera suggestiva
e completa sulle apparizioni di
Fatima, scritta con vivacità da reporter
e rigore storico, testimonianze
nella forma in cui le aveva ricevute e
fatti inquadrati nella coice dell’ambiente
e storia del paese.
Pubblicata in portoghese nel 1945,
l’anno seguente era già alla terza edizione;
oggi è alla 18a. Stesso successo
ebbero le traduzioni: 15 edizioni in italiano,
13 in inglese, 11 in spagnolo,
8 in francese e varie ristampe in altre
tre lingue. Analoga fortuna riscosse
la versione per ragazzi: La Madonna
parlò così ai tre pastorelli.

L’INFATICABILE
Ma lo scopo della venuta in Portogallo
era quello di aprire un seminario
per la formazione di missionari
della Consolata portoghesi. La meta
era chiara, il percorso tutto da
inventare, tanto più che si era nei
tempi difficili della guerra.
Era la prima congregazione religiosa
maschile che si stabiliva a Fatima.
Ma la calorosa accoglienza del
vescovo di Leiria e del rettore del
santuario furono per il missionario
un segno di speciale favore da parte
della Madonna, alla quale affidò tutti
i suoi progetti. E non restò deluso.
Padre De Marchi aveva fretta: a
quattro mesi dal suo arrivo, voleva
già iniziare l’anno scolastico con alcuni
aspiranti missionari. Ma il superiore
generale frenò il suo entusiasmo
giovanile, esortandolo a studiare
bene i piani.
Il padre comprò un terreno a un tiro
di scoppio dalla basilica, tracciò il
progetto di un grande seminario e
studiò i mezzi di finanziamento; fece
stampare cartoline e biglietti con
il bozzetto del progetto e li distribuì
a tutti coloro che credevano nella sua
avventura.
Al tempo stesso, per veicolare l’ideale
missionario, diede sfogo alla
sua vena letteraria. Sotto la guida
della signora Soledade, scrisse due
romanzi, Titìri e La figlia del Bramino,
il primo ambientato nel nord del
Mozambico, campo di apostolato
dei missionari della Consolata, l’altro
in India. Pubblicati a puntate su
due differenti mensili religiosi, videro
la luce come libri, rispettivamente
nel 1944 e 1946.
Tanta produzione letteraria non
deve far pensare che padre De Marchi
fosse un uomo da tavolino. Si
spostava da una parte all’altra del
Portogallo in treno, auto o una vecchia
bicicletta per allacciare contatti
e rastrellare fondi. La fama dei suoi
scritti lo precedeva; la rete di amici e
sostenitori si allargava sempre più,
tanto che la costruzione del seminario
non era più un’iniziativa venuta
dall’estero, ma sentita come una necessità
nazionale, per dare continuità
alla vocazione missionaria del popolo
portoghese. Riuscì perfino a ottenere
un sussidio dal governo.
Guerra e burocrazia diplomatica
non permettevano d’inviare rinforzi;
da solo aprì il seminario: il 3 ottobre
del 1944 accolse 11 ragazzi in una
casetta provvisoria. Per la scuola
si fece aiutare dalla signora Soledade
e da un seminarista imprestato
dalla diocesi di Aveiro.
L’anno seguente entrarono altri 12
aspiranti e arrivò il primo confratello;
altri sei nel 1946, segno che la direzione
generale dell’Istituto credeva
nel sogno del dinamico missionario.
Quello stesso anno fu benedetta
la prima pietra del nuovo seminario.
Aumentando gli studenti, nel 1947
furono affittati altri due edifici, per adibirli
a cappella, dormitorio e residenza
dei padri. I seminaristi più
grandi furono dislocati in una casa ad
Alenquer, a pochi chilometri da Lisbona.
Nel 1949 era pronta la prima
parte del grandioso seminario e gli
studenti tornarono tutti a Fatima.
Approfittando delle conoscenze di
pellegrini stranieri che transitavano
nel seminario, padre De Marchi si
spinge in Irlanda e Inghilterra e Stati
Uniti in cerca di sterline, dollari e
vocazioni.
Nel 1951, dopo sette anni infaticabili,
padre Giovanni vedeva consolidata
la presenza di missionari
della Consolata in Portogallo: il seminario
fu ufficialmente inaugurato;
la casa di Albuquer ospitava sei aspiranti
fratelli; a Fatima veniva aperto
il noviziato internazionale per
giovani di lingua inglese.

L’INARRESTABILE
A partire dal 1948 padre De Marchi
fece vari viaggi negli Stati Uniti,
per parlare agli emigrati portoghesi
di Fatima, seminario e missioni. Poi
si rivolse a tutti i cattolici americani.
«Padre De Marchi percorre instancabilmente
le arterie degli Stati Uniti
– si legge nel notiziario dell’Istituto
-, illustrando con impareggiabile
competenza il messaggio di Fatima
e l’attività missionaria del nostro Istituto;
ultimamente ha tenuto conferenze
con largo successo a Detroit,
Pittsburg e Boston» (Da Casa Madre,
settembre 1951).
Tali incontri includevano la proiezione
di un documentario sulle apparizioni
di Fatima e diffusione dei
suoi libri: Fatima the Facts (traduzione
inglese di Era una signora più
splendente del sole), The Crusade of
Fatima e The Imaculate Heart, un
trattato teologico diventato subito
un best seller.
Nel 1952 egli si stabilì definitivamente
negli Stati Uniti. Con l’aiuto di
due scrittori americani migliorò la veste
letteraria dei suoi libri; girò un
nuovo film a colori sulle apparizioni
di Fatima; lanciò Rainbow (1954), rivista
in cui combinava il messaggio di
Fatima con le urgenze delle missioni
in Africa e America Latina.
La Madonna di Fatima apriva tutte
le porte, come scriveva lo stesso superiore
generale, padre Domenico
Fiorina: «Già alcune vocazioni missionarie
si affacciano e saranno una
consolante realtà, appena ci sia possibile
organizzare il nostro seminario
missionario. Fu la Madonna di Fatima
ad aprirci queste porte, attraverso
le conoscenze fatte in Portogallo»
(Da Casa Madre, agosto 1952).
L’anno seguente padre Giovanni
aprì un seminario a Washington; tre
anni dopo una casa di studi a Pittsburg
per giovani missionari che, in
vista dell’apostolato in Africa e America
Latina, frequentavano l’università.
Intanto scovava madrine disposte
a sostenere gli studi universitari
di seminaristi e padri. Una di
esse era la moglie di Ford, il padrone
della casa automobilistica.
Furono 10 anni di attività febbrile,
chiamato da un capo all’altro degli
Usa da comunità religiose e parrocchiali,
associazioni e collegi, centri di
trasmissione radiofonica e televisiva.
Si recò più volte in Kenya, Tanzania
e Colombia per girare cinque documentari
sui popoli e sulle missioni.
Alcuni ottennero premi a livello
nazionale; di un documentario la
marina americana acquistò 12 copie
per i suoi centri di addestramento.
Con l’entusiasmo missionario che
sprizzava da tutti i pori, padre Giovanni
ammaliava quanti lo avvicinavano
e li coinvolgeva nel suo ideale.
E quando ne adocchiava uno ben disposto,
lanciava il sasso: «Perché non
diventi missionario?». Così scovò i
primi missionari della Consolata statunitensi
e più di 100 volontari laici
che inviò nelle missioni in Africa.
Al tempo stesso portò negli Stati
Uniti decine di studenti africani, procurò
loro borse di studio e benefattori,
li accompagnò come se fossero
suoi figli, per poi rimandarli a lavorare
per il bene delle loro comunità.
Bussando a uffici governativi e agenzie
filantropiche, inviò alle missioni
del Kenya, durante la rivoluzione
dei mau mau, tonnellate di aiuti
(vestiti, medicine, libri…) e
convinse un organismo parastatale
canadese a spedire contenitori con
generi alimentari non deperibili in
Kenya e Tanzania.

UN SOGNO TIRA L’ALTRO
Ingolfato in tanti progetti e attività,
sembrerebbe che padre De Marchi
non avesse tempo né spazio per i sogni.
Invece, come i gatti sognano solo
topi, egli sognava le missioni, ma
di lavorarci direttamente. Nel 1963
fu destinato al Kenya. Il figlio di un
amico americano, ricordandogli come
alcuni missionari erano stati appena
uccisi in Congo, da poco indipendente,
gli domandò se non avesse
paura. «Certo – rispose il padre
ridendo -. Ma solo un poco. Sono più
felice che spaventato. Essere lì quando
kikuyu, masai e altre etnie, incontrate
nei film, saranno liberi di governare
il proprio paese, è per me la
più bella avventura».
Proprio quell’anno il Kenya raggiungeva
l’indipendenza; ma i problemi
ereditati dalla lunga rivoluzione
mau mau erano enormi. Padre De
Marchi fu chiamato a Nyeri, come
segretario del vescovo africano Cesare
Gatimu e direttore del Centro
sociale diocesano: lavoro e grattacapi
da tenere occupati una decina di
preti; ma padre De Marchi se la
sbrigò da solo. Procurava aiuti per i
poveri di tutte le missioni; realizzò il
progetto della casa per anziani nella
missione di Gaturi; la scuola-collegio
per sordomuti e la «città dei ragazzi
» al Mathari (Nyeri) per centinaia
di orfani sottratti dalla strada.
Questi furono i suoi prediletti: li sfamava,
vestiva, mandava a scuola e,
soprattutto, li circondava di affetto.
E continuava con le sue visioni di
avanguardia: formare catechisti per
lo sviluppo delle comunità nascenti;
promuovere scuole e creare i futuri
leaders africani, sostenendone la formazione
scolastica e accademica.
L’indipendenza aumentava la sete
d’istruzione. Le scuole gestite dalla
diocesi di Nyeri accoglievano 110 mila alunni: c’era bisogno di insegnanti.
Più di una volta padre De Marchi
si recò in Europa, Canada, Usa e tornava
con decine di professori.
Intanto si profilava all’orizzonte lo
stesso sogno del beato fondatore,
Giuseppe Allamano: evangelizzare
l’Etiopia. I missionari della Consolata
vi avevano lavorato con successo
per quasi 30 anni; ma erano stati espulsi
durante la 2a guerra mondiale
e, per 25 anni, non c’era stato verso
di ritornarvi.
Nel 1970, padre De Marchi riuscì
a ottenere il visto per entrare in quel
paese. A sbloccare la burocrazia, raccontava
lui, fu la sua presentazione
come «missionario della Madonna
di Fatima».
Così descriveva il primo impatto:
«Viaggiando in bus, per strade impraticabili,
la vista della povertà di migliaia
di persone, zoppi, ciechi, lebbrosi,
è insopportabile. Avessi la fede
e la fiducia del Cottolengo! Quando
ho un buon pasto e dormo in un comodo
letto mi sento in colpa».
Ma fu il periodo più fecondo e felice
della sua vita. Stabilitosi a Meki,
vicariato di Harrar, con padre Lorenzo
Ori e una suora americana, egli
cominciò il lavoro di evangelizzazione
e promozione umana. Intanto
cercò altro personale: suore etiopiche
e di altre congregazioni e nazionalità,
volontari laici e, naturalmente, missionari
e missionarie della Consolata.
Nel giro di tre anni funzionavano
quattro parrocchie, con relative opere
religiose e umanitarie: scuole elementari
e «laboratorio permanente»
di arti e mestieri, dispensario e scuola
matea a Meki; istituto professionale
maschile e femminile, collegio
per ciechi a Shashemane; casa per
bimbi handicappati, in maggioranza
colpiti da poliomielite, a Gighessa e
Asella; cura dell’ospedale di Gambo,
con annessi lebbrosario, scuola con
500 alunni e fattoria agricola; e poi
scuole elementari e 35 dispensari in
tutta la regione.
Sotto il regime marxista-leninista,
instaurato da Menghistu con la sua
rivoluzione (1973-74), i missionari
della Consolata poterono continuare
l’evangelizzazione in Etiopia grazie
alle opere di promozione umana
avviate in quei tre anni.
Nel 1978 padre De Marchi passò
il testimone della direzione a un confratello
più giovane, padre Giovanni
Bonzanino; ma continuò per altri
10 anni le operazioni di sussistenza:
più volte volò in America e vari paesi
europei in cerca di personale (suore,
laici, dottori, preti fidei donum…)
e aiuti materiali d’ogni genere, specialmente
nei momenti in cui le carestie
infierivano con più furore.

EVANGELICA COLOMBA
Professore, pioniere in tre continenti,
scrittore di best sellers, conferenziere,
direttore di rivista, produttore
di film, manager, organizzatore
e amministratore di soldi a palate,
procuratore di vocazioni e collaboratori,
frequentatore di uffici governativi
e organizzazioni inteazionali…
Chi non lo ha incontrato di persona,
potrebbe pensare a padre De
Marchi come a uno di quei personaggi
artificiali, cui ci si presenta a
occhi bassi e cappello in mano.
Niente affatto. Schivo, modesto,
mai preoccupato della propria immagine,
gli bastavano un sorriso e una
battuta ingenua per celare la sua
volontà di acciaio inossidabile, mettere
tutti a proprio agio, allacciare amicizie
indistruttibili.
Nessun missionario della Consolata
ha maneggiato tanto denaro come
lui: ma non un centesimo rimase
attaccato alle sue mani. Nessuno lo
ha mai visto con vestito e scarpe nuove,
eccetto le rare volte in cui, di passaggio
in Italia, faceva visita ai parenti:
lo mettevano a nuovo da capo
a fondo. A chi gli faceva i complimenti
per l’eleganza rispondeva ridendo:
«Mi hanno messo la camicia
di forza».
Sempre sereno e pronto alla conversazione,
alla battuta, allo scherzo,
padre De Marchi si interessava di tutti
e di tutto, specie con i confratelli,
fino a sembrare un ficcanaso; ma vedeva
solo il bene. «Semplice come una
colomba», senza la minima «astuzia
dei serpenti», un giorno confidò
a un confratello: «Quando vedo una
donna, mi viene voglia di inginocchiarmi
e baciarle i piedi, perché in
ogni donna vedo una Madonna».

RITORNO A CASA
«Ho fatto un patto con la Madonna
– confidava ancora -: quando non
potrò più lavorare, per età o salute o
perché cieco, voglio tornare a Fatima
e passare gli ultimi anni ascoltando le
confessioni dei pellegrini».
Non diventò cieco; ma per il resto
fu esaudito. Dopo 18 anni in Etiopia,
forze e memoria cominciarono a traballare:
chiese e ottenne di tornare a
Fatima. Ma il suo cuore continuava
a battere per i lebbrosi e i bambini
handicappati, per i quali chiedeva
continuamente aiuti ai pellegrini.
Finché le forze glielo permisero,
continuò ad aiutare i parroci vicini e
lontani, ascoltare le confessioni in casa
e nel santuario, ad accogliere e intrattenersi
con la gente, sempre col
rosario e breviario tra le mani.
Da novembre 2002 non poté più
camminare: un martirio per un «ficcanaso
» come lui. E si preparò all’ultimo
viaggio, «contrattando» con
la Madonna il definitivo appuntamento:
spirò l’1 gennaio
2003, festa di Maria SS.
Madre di Dio.

Benedetto Bellesi