GLI OGM (2) Sfameremo il mondo con il cibo di Frankestein?

La «biodiversità» è in grave pericolo anche a causa delle biotecnologie e dei prodotti geneticamente modificati. Le multinazionali si appropriano
di organismi viventi e di saperi del Sud del mondo (è la pratica della «biopirateria») e li brevettano per fae commercio e profitti. Nell’Unione europea oggi è obbligatoria l’etichettatura dei prodotti Ogm. Allo stesso tempo, la Commissione Ue ha ceduto alle pressioni dell’industria togliendo la moratoria sull’importazione degli Ogm (come il mais dolce «Bt11»). Sarebbe meglio decidere: prima il business o prima le persone? (Seconda parte)

«Attualmente il 95% del nostro fabbisogno alimentare è legato a 30 piante, e tre quarti della nostra dieta si fondano su 8 colture. Il re dei Boscimani, in Sud Africa, pranza con 85 tipi di verdure selvatiche. E noi? I nostri supermercati moltiplicano le confezioni e le cosmesi di prodotti, e spacciano la “diversità ottica” per “diversità biologica”. L’uomo dei paesi industrializzati acquista involucri diversi e mangia le stesse cose» (1).
Giorgio Celli visualizza così una delle conseguenze dell’industria agroalimentare: la perdita di biodiversità, destinata ad acutizzarsi con l’introduzione massiccia delle biotecnologie in agricoltura. Soddisfatti l’occhio e lo stomaco, ci siamo «dimenticati» di porre l’attenzione al modo in cui è stato ottenuto il cibo di cui ci nutriamo.

BIODIVERSITÀ: LA DIVERSITÀ BIOLOGICA

Per biodiversità, ossia «diversità biologica, diversità della vita», si intende sia la ricca varietà delle forme viventi che popolano il nostro pianeta sia gli ecosistemi in cui le diverse specie sono inserite.
Secondo le stime, il numero di specie viventi è compreso tra 3,6 e 100 milioni. Attualmente si conoscono circa 3.000 specie di batteri, 260.000 piante vascolari, 70.000 funghi, 500.000 virus, 45.000 vertebrati e 950.000 insetti.
L’uomo rappresenta solo una delle milioni di specie esistenti, ma l’industria agroalimentare e biotech considera tutte le altre come semplici fonti di materia prima e di profitto. Al di là degli aspetti etici e del rispetto per tutte le forme viventi, preoccuparsi esclusivamente delle specie vegetali e animali considerate «utili» all’uomo può risultare molto rischioso. Ad esempio, microbi apparentemente insignificanti giocano un ruolo fondamentale per il mantenimento di processi ecologici che permettono la vita di tutte le specie, compresa la nostra. Eppure, evidenzia Vandana Shiva, non esiste alcun movimento di opinione per la loro tutela e protezione, come c’è invece per salvare la tigre o l’elefante.
Ogni anno si estinguono circa 27.000 specie, mille volte di più di quanto avverrebbe senza il contributo umano. «L’uomo – continua la scienziata indiana – almeno nei paesi occidentali, pensa infatti di occupare il vertice della piramide della vita, anziché considerarsi un semplice tassello nel complesso teatro biologico del pianeta, dove il grande dipende dal piccolo e dove l’estinzione di una specie significa non solo perdere quella specie, ma anche creare una situazione di pericolo per le altre». Per fare un esempio, quando scompare una pianta, con lei si estinguono da 20 a 40 specie animali. Un metro cubo di terreno estratto da una faggeta in Danimarca e analizzato in laboratorio, ha rivelato la presenza di 50.000 anellidi, 50.000 fra insetti e acari, 12 milioni di nematodi. Un grammo dello stesso campione conteneva 30.000 protozoi, 50.000 alghe, 400.000 funghi e miliardi di cellule batteriche. Batteri, funghi e protozoi dell’intestino di molti animali svolgono funzioni fondamentali per la digestione: senza questi organismi microscopici i cosiddetti animali superiori non potrebbero esistere. L’ignoranza umana sulle funzioni ecologiche delle specie viventi non può quindi essere il pretesto per manipolarle a piacimento, senza preoccuparsi delle conseguenze sull’ambiente e, dunque, sull’uomo.
La distruzione della biodiversità è stata sicuramente accelerata dalla globalizzazione: centinaia di migliaia di ettari di foreste e terre agricole sono convertite in monocolture industriali, ossia in distese di territorio coltivate ad un’unica coltura, scalzando e distruggendo, quindi, la diversità biologica. Ad esempio, rispetto ad una foresta pluviale ricca di specie, che sostiene gli ecosistemi e i cicli ecologici, la concezione dominante privilegia le monocolture, come quella dell’eucalipto, utile all’industria della carta e della polpa di legno. Mantenute grazie all’uso intensivo di fertilizzanti chimici, energia e acqua, le monocolture distruggono la biodiversità e consumano più risorse naturali. Per fare un altro esempio, in India le varietà indigene di grano richiedono 300 mm d’acqua, mentre le varietà dell’agricoltura industriale ne usano circa 900.
Avendo come obiettivo la selezione di piante con una presunta maggiore produttività, l’estensione delle coltivazioni Ogm su tutto il pianeta rientra quindi perfettamente in questa tendenza alla monocoltura ed anzi la incentiva.

DIVERSITÀ CULTURALE

Quando i modelli di produzione e consumo della popolazione ricca del pianeta contribuiscono all’erosione della biodiversità, compromettono la possibilità dei poveri del Sud del mondo di mangiare e curarsi: per loro la biodiversità si traduce, infatti, in sopravvivenza umana.
«Per il cibo e le medicine, per l’energia e le fibre, per i cerimoniali e l’artigianato, i poveri dipendono proprio dall’abbondanza delle risorse biologiche, dalla conoscenza e dall’esperienza accumulata nel tempo sulla biodiversità – dichiara Vandana Shiva -. Tre miliardi di persone, cioè il 60% della popolazione mondiale, utilizzano le medicine tradizionali per il trattamento delle malattie». In India e in Cina l’80-90% di queste cure si basa sulla conoscenza dei principi attivi delle piante: il solo erbario officinale cinese utilizza circa 5.000 specie vegetali. In Kenya, il 40% dei principi curativi vegetali viene estratto dalle piante delle foreste native. Gli stessi chinino e morfina sono prodotti di origine vegetale: negli Usa il 40% delle prescrizioni mediche dipende ancora da principi attivi ricavati dalle risorse naturali. Anche la popolazione che vive nel mondo industrializzato ha bisogno della biodiversità per la propria economia: dal cibo, al petrolio e al carbone, al cemento, tutta l’economia dipende dalle risorse biologiche.
«Se si fa una valutazione in termini di biodiversità anziché di capitali finanziari, il Sud del mondo è ricchissimo, mentre il Nord è povero. Al contrario, il Nord ha accumulato benessere esercitando il controllo sulle risorse biologiche del Sud». Con l’avvento degli Ogm tale controllo è incrementato ed è destinato ad aumentare.

IL MITO (FALSO) DI SFAMARE IL MONDO

I fautori degli Ogm affermano che lo sviluppo delle colture transgeniche è essenziale per sfamare la crescente popolazione mondiale e per abbassare i prezzi delle derrate alimentari. Qualsiasi rischio derivante dalla tecnologia agroalimentare di ultima generazione, sostengono, non può essere paragonato ai benefici apportati da maggiore quantità di cibo a prezzo più basso (2).
Chi si oppone alle biotecnologie, offre, però, diverse argomentazioni. Innanzitutto, spiega Greenpeace, «l’insicurezza alimentare – come elegantemente viene oggi definita la fame – non si caratterizza per l’insufficiente disponibilità di alimenti, ma per la squilibrata distribuzione dei redditi e l’iniquo accesso alle risorse produttive, che rendono precario l’accesso al cibo. La produzione odiea di alimenti a livello mondiale è tale da soddisfare il consumo umano per un valore medio pari a 2.800 calorie pro capite al giorno, a fronte di 2.500 calorie ritenute la soglia media per un’alimentazione adeguata». In linea con questo punto di vista, l’economista indiano Amartya Sen, vincitore del premio Nobel nel 1998, afferma che «la fame è il risultato del non avere abbastanza da mangiare. Non è il risultato del non esserci abbastanza da mangiare».
In Argentina, secondo produttore mondiale di colture geneticamente modificate e unico paese in via di sviluppo che coltiva piante transgeniche su larga scala, gli Ogm hanno concentrato la ricchezza e gli introiti nelle mani di poche aziende, contribuendo all’ulteriore impoverimento dei piccoli agricoltori. «La causa principale della fame risiede in problemi di natura sociale e politica, e puri strumenti tecnologici, quali sono gli Ogm, non offrono soluzione a questi problemi. Sono troppo costosi per i contadini e non sono appropriati per il consumo locale, tanto che le colture Gm, come mais, soia, colza e cotone, vengono esportate e utilizzate soprattutto come alimento per il bestiame.
I dati mostrano, inoltre, come i raccolti transgenici stiano soppiantando alimenti che popolazioni di culture diverse usano da sempre. «L’industria si sta concentrando su raccolti non alimentari, come il tabacco e il cotone, e sulla soia che, prima d’ora, rappresentava un alimento base solo nell’Asia dell’est – incalza Vandana Shiva -. Tabacco, cotone e soia non sono alimenti base e non sfameranno gli affamati». Semmai, preoccupazioni sulla produttività dei terreni agricoli provengono dai crescenti fenomeni di desertificazione che, negli ultimi 50 anni, hanno interessato l’85% circa della superficie agricola mondiale: erosione, salinizzazione, compattamento, impoverimento dei nutrienti, inquinamenti di vario tipo.
Molta enfasi è stata data al cosiddetto Golden rice, ossia riso Gm alle popolazioni con carenza di vitamina A. Tuttavia, affinché sia fonte di vitamine per chi se ne ciba, la dieta deve contenere quantità sufficienti anche di grassi e proteine, situazione evidentemente non realistica.

IL MITO DEGLI ALTI RENDIMENTI

Il bihmal è un albero diffuso nella regione dell’Himalaya. Si tratta di una pianta «polivalente»: le foglie offrono nutrimento agli animali d’allevamento durante la stagione secca, i rami foiscono fibre per la fabbricazione di corde, combustibile per cucinare e sostanze detergenti per i capelli. Per gli esperti dell’agricoltura industriale sarebbe da eliminare, per incrementare la resa delle colture. Molte varietà agricole sono state ingegnerizzate per ottenere maggiori rendimenti in termini di chicchi, ossia solo di una parte del raccolto effettivo: la paglia idonea a nutrire il bestiame e il suolo viene invece prodotta in quantità modeste.
Ciò che si ottiene con gli Ogm è quindi un aumento del prodotto su cui c’è interesse commerciale, a spese della componente utile per gli animali, i suoli e per l’economia locale. Secondo alcuni esperti, prima fra tutti Vandana Shiva, «l’ingegneria genetica porta in realtà ad una diminuzione complessiva della produzione».
Piantare una sola coltura sull’intera superficie di un campo, come prescrive la tecnica della monocoltura, ovviamente ne accresce il rendimento; piantare diverse colture intercalate comporterà una resa minore per ognuna di esse, ma una più elevata produzione totale di cibo. «Il mito degli alti rendimenti degli Ogm è fondato sul confronto con le grandi monocolture industriali anziché con l’agricoltura biologica, che è la vera alternativa», conclude Vandana Shiva.
Se vogliamo eliminare fame e povertà è necessario conservare la diversità, biologica e culturale.

BREVETTI E BIOPIRATERIA

L’ingegneria genetica ha aperto la strada ai brevetti sulla vita, il primo dei quali è stato concesso nel 1980 alla General Electric per un batterio modificato geneticamente. Negli ultimi anni, con l’introduzione sul mercato di piante transgeniche e di organismi misti, come ad esempio il maiale serbatornio di organi da trapiantare su esseri umani, la richiesta di brevetti per vegetali ed animali ha subito un’accelerazione. All’Ufficio europeo brevetti (Epo) di Monaco sono state presentate più di 15.000 richieste di brevetti nel campo dell’ingegneria.
I sostenitori della brevettabilità degli organismi viventi affermano che la concessione del brevetto consente, al mondo scientifico ed industriale, di accedere ad informazioni importanti da utilizzare per migliorare il benessere umano.
Tuttavia, chi si oppone alla brevettabilità adduce differenti motivazioni, sostenendo che la «libertà di ricerca» viene scambiata con la «libertà di vendere». Innanzitutto, un organismo vivente non può essere considerato propriamente un’invenzione umana. «I geni non sono creati dagli ingegneri genetici che, semplicemente, li spostano da una parte all’altra – come ha sottolineato un gruppo di scienziati inglesi -. Se questo principio fosse stato applicato alla chimica, sarebbero stati brevettati anche gli elementi» (3).
I brevetti rappresentano inoltre un incentivo commerciale allo sviluppo di organismi geneticamente modificati: avendo generalmente una validità compresa tra 17 e 20 anni, esso garantisce al suo possessore i diritti esclusivi per sfruttare l’invenzione a fini commerciali. Infatti, dichiara Greenpeace, nel caso delle colture geneticamente modificate gli agricoltori devono per esempio pagare un diritto sul brevetto, delle royalties per l’uso dei semi ingegnerizzati, nonché le sementi stesse prodotte dalle piante ingegnerizzate per tutta la durata del brevetto.
I potenziali profitti derivanti dalla brevettabilità incoraggiano quindi le multinazionali a ricercare per il mondo i geni che potrebbero avere applicazioni proficue dal punto di vista commerciale. Come si è visto in precedenza, una delle ricchezze peculiari dei paesi del Terzo mondo è rappresentata proprio dalla diversità genetica: nelle foreste pluviali del Sud vive più della metà delle specie animali e vegetali del mondo. I ricercatori vengono quindi inviati in queste zone per scovare organismi o piante di valore, riportano in laboratorio i campioni, e da questi vengono isolati i principi attivi o le sequenze geniche che saranno brevettate come «proprie» invenzioni.
Come denuncia Greenpeace, l’accordo TRIPs sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (Trade related aspect on intellectual property rights), iniziativa di una coalizione di multinazionali, non impone né che le compagnie biotech chiedano un permesso prima di accedere alle risorse biologiche, né che i proprietari dei brevetti condividano i benefici con le popolazioni che da un lato abitano le terre da cui hanno origine i geni, e che dall’altro hanno mantenuto e sviluppato la biodiversità nel corso di migliaia di anni. Anzi, in molti casi, le comunità devono pagare alle multinazionali i diritti per usare qualcosa che precedentemente era parte integrante della loro civiltà.
In India, l’albero di Neem rappresenta un classico esempio: utilizzato per migliaia di anni grazie alle sue proprietà antibatteriche ed insetticide, proprio su queste caratteristiche le multinazionali occidentali hanno ottenuto dozzine di brevetti.
Un rapporto commissionato da Christian Aid ha valutato che la biopirateria sta drenando risorse dal Terzo mondo per un valore equivalente a 45 miliardi di dollari all’anno.

IL CONSUMATORE PRIGIONIERO

«Nell’era della comunicazione – spiega Giorgio Celli – si è verificata, su una materia universale e tanto delicata come quella degli alimenti, un’imperdonabile omissione di comunicazione». Nell’era della democrazia, i cibi transgenici sono stati immessi sul mercato prima ancora che i consumatori potessero capire di cosa si trattasse. Nell’era della libertà, il cittadino non ha potuto scegliere se acquistare o meno prodotti Ogm, semplicemente perché non è stato informato che essi erano già presenti in commercio.
Nell’Unione europea, il 18 aprile 2004, sono entrati finalmente in vigore i nuovi regolamenti europei sull’etichettatura di alimenti e mangimi geneticamente modificati e sulla tracciabilità degli Ogm. Ora tutti i prodotti contenenti ingredienti o derivati da un ingrediente che contiene più dello 0,9% di Ogm dovranno essere etichettati con la dicitura «questo prodotto contiene Ogm» oppure «questo prodotto deriva da Ogm».
L’etichettatura sarà richiesta anche per i prodotti in cui il Dna degli Ogm non può più essere identificato nel prodotto finale, come oli vegetali, amidi, zuccheri, ecc., finora esclusi dall’obbligo di etichettatura. Anche mangimi e additivi dovranno finalmente essere etichettati; basti pensare che i mangimi per gli allevamenti zootecnici (pollame, suini, bovini, pesci), costituiscono l’80% degli Ogm che entrano in Europa da oltreoceano. Secondo la Fao, nei paesi industrializzati il 70% della produzione dei cereali, ed in particolare della soia, viene infatti dirottato verso l’alimentazione zootecnica.
Anche se ancora lacunosi su alcuni aspetti, i nuovi regolamenti rappresentano attualmente le misure più rigide sull’etichettatura degli Ogm su scala mondiale, e dimostrano una certa attenzione nei confronti dei consumatori. Dati resi noti nel novembre 2003 dal Censis nell’ambito delle indagini condotte dal Monitor Biomedico, svelano infatti che il 57,3% degli italiani si dichiara favorevole agli interventi di ingegneria genetica se finalizzata alla prevenzione delle malattie. Ma la situazione si ribalta quando si parla di alimentazione: il 56,6% del campione è contrario e il 30,6% è favorevole. In seguito alla pressione dei consumatori, dettaglianti e grandi compagnie del settore hanno cominciato a puntare sugli alimenti non Gm. I primi sono stati Nestlè, Unilever e Cadbury nel 1999. Nello stesso anno la Monsanto ha addirittura deciso di eliminare per quanto possibile l’impiego di soia e mais transgenici dalla propria mensa aziendale!

DILEMMI E VINCOLI DEGLI SCIENZIATI

Secondo molti studiosi, non essendo ancora in grado di padroneggiare le nuove biotecnologie, l’unico atteggiamento razionale è quello di adottare il principio di precauzione, e quindi proporre controlli rigorosi alla sperimentazione e una moratoria sulle fasi successive. Il commercio dovrebbe essere guidato dal sapere scientifico, non il contrario.
Tuttavia, mentre da un lato gran parte dei biologi favorevoli agli Ogm lavora grazie a finanziamenti privati, dall’altro le risorse economiche pubbliche sono sempre minori. Il rischio che ne deriva è che sparisca una comunità scientifica indipendente, oltre che interdisciplinare. Dice Vandana Shiva: «I costruttori di refrigeratori non sono esperti dei danni prodotti alla fascia di ozono e i produttori di automobili non sono esperti di cambiamenti climatici, così come i genetisti non sono competenti di bioinquinamento».
La protezione della biodiversità richiede alcune radicali modifiche nel nostro modo di pensare, nei nostri modelli di produzione e consumo e nelle nostre politiche. E l’Occidente industrializzato dovrà attuare dei cambiamenti ancora più radicali. «La lezione da imparare – secondo Vandana Shiva – è la cooperazione, non la concorrenza: il grande dipende dal piccolo e non può sopravvivere se lo stermina».
(Seconda parte – fine)

(1) G. Celli, N. Marmiroli, I. Verga, I semi della discordia. Biotecnologie, agricoltura e ambiente, in bibliografia
(2) Worldwatch Institute, State of the World 2004. Consumi, in bibliografia
(3) Dalton H. et al, Patent threat to research, Nature 1997.

BOX 1

L’APPELLO DI GREENPEACE: «Entra in azione!»

I consumatori hanno un grande potere, quello di fare in modo che i supermercati, i ristoranti, gli alimenti che quotidianamente vengono acquistati, rimangano NON Ogm. Adesso che nuove norme sull’etichettatura, maggiormente restrittive, sono entrate in vigore (a partire dal 18 aprile 2004), con il tuo aiuto possiamo trovare i prodotti contenenti Ogm, identificarli, evitarli e mostrarli a tutti i consumatori. Alcune aziende proveranno ad introdurre prodotti etichettati Ogm nei mercati europei. Più persone rifiuteranno questi prodotti, più facile sarà salvaguardare il nostro diritto di dire NO agli Ogm.

Informa altri consumatori
Stampa il nostro volantino informativo e fallo leggere alla tua famiglia, agli amici, ai vicini di casa. Se è possibile lasciane alcune copie in negozi, ristoranti o dal tuo medico.

Diventa un Detective di Ogm
Ogni volta che vai a fare la spesa, guarda attentamente la lista degli ingredienti. Se trovi un prodotto etichettato Ogm, prendi nota dei dettagli del prodotto, del produttore, del nome e dell’indirizzo del supermercato, della data in cui hai trovato il prodotto in questione e dell’ingrediente Ogm segnalato sull’etichetta. Informa il Responsabile della Campagna Ogm di Greenpeace e, se possibile, fai una foto del prodotto (in particolare dell’etichetta) e carica la tua foto sul nostro sito. Apprezziamo molto il tuo supporto perché è essenziale per mantenere informati i consumatori in tutta Europa.

Restituzione – sostituzione – rimborso
Se senza saperlo compri un prodotto etichettato Ogm, dovresti riportarlo indietro al supermercato dove lo hai comprato e richiedere la sostituzione di questo con uno NON Ogm. Porta anche i tuoi amici a fare la stessa cosa. Perché non ci andate tutti insieme per dare più forza alle vostre idee? Più siete meglio è!

Protesta contro i cibi Ogm
Manda una lettera di protesta al tuo supermercato o all’azienda produttrice del prodotto Ogm per chiedere cibi NON Ogm. Perché non scrivi una lettera anche ai giornali locali e non incoraggi una discussione a livello locale?

Se vuoi puoi accedere al sito di Greenpeace Inteational dove puoi anche trovare le ultime notizie su come i consumatori stanno lottando a livello europeo per il proprio diritto di dire NO agli alimenti Ogm.

Fonte: www.greenpeace.it

BOX 2

La nuova normativa: i pro e i contro

• Pro. Nuova soglia dello 0,9% per ogni ingrediente.
La soglia massima, definita come «presenza accidentale o tecnicamente inevitabile», sotto la quale non vi è alcun obbligo di etichettatura, ha subito una modifica più di forma che di sostanza: è passata dall’1% allo 0,9%. Tale soglia fa riferimento a ogni singolo ingrediente usato nel prodotto e non alla massa o volume totale; questo significa, per fare un esempio, che se la lecitina di soia contenuta in una tavoletta di cioccolato deriva da materia prima transgenica per più dello 0,9%, dovrà essere etichettata anche se la lecitina è solo l’1% del totale degli ingredienti. È importante notare che questa soglia è applicabile soltanto a quei produttori che possono dimostrare di aver adottato tutte le possibili misure per evitare tale contaminazione.

• Pro. Controllo del processo.
Fino a oggi non dovevano essere etichettati quei prodotti contenenti ingredienti di provenienza transgenica nei quali, a seguito del processo di lavorazione, non erano più rintracciabili Dna o proteine transgeniche (come ad esempio oli, amido o glucosio), anche se provenienti al 100% da materie prime transgeniche. Grazie alle pressioni dei consumatori, volte a una maggiore trasparenza e informazione, con le nuove norme non sarà più così e anche questi prodotti dovranno essere etichettati se derivanti da materie prime transgeniche.

• Pro. Mangimi, transgenici o no?
Si stima che circa il 90% degli Ogm importati in Europa siano utilizzati nella mangimistica animale e nella produzione di oli e amidi. Finalmente, grazie ai nuovi regolamenti, si comincia a porre rimedio all’assoluta mancanza di regole in questo settore per ciò che riguarda l’utilizzo di Ogm: i mangimi dovranno essere etichettati rispettando la stessa soglia degli ingredienti alimentari, 0,9%.

• Contro. Senza etichetta i prodotti derivati da animali nutriti con Ogm.
Purtroppo, vanno segnalate ancora gravi carenze. A cominciare dai prodotti derivati da animali nutriti con Ogm, tuttora non soggetti all’obbligo di etichettatura. Parliamo di uova, carne, latticini, per i quali i produttori non sono obbligati a specificare in etichetta se gli animali dai quali provengono sono stati nutriti o meno con mangimi transgenici. Anche per questo motivo Greenpeace ha scelto di continuare a informare i consumatori attraverso la guida «Come difendersi dagli Ogm», contenente notizie sull’origine dei prodotti in commercio ottenuti o meno da animali nutriti con Ogm. Le liste di prodotti che Greenpeace propone (www.greenpeace.it) sono realizzate in base alle dichiarazioni scritte ricevute dalle aziende alimentari. Queste liste non comprendono tutti i prodotti disponibili sul mercato italiano, e poiché il mercato muta costantemente, le liste sono aggiornate periodicamente.

• Contro. Ogm non autorizzati.
Altro punto dolente delle nuove regole riguarda la tolleranza, fino a un massimo dello 0,5%, concessa per quegli Ogm non ancora autorizzati che arrivano comunque sul mercato europeo. Tale soglia scadrà automaticamente dopo 3 anni; a partire dalla scadenza, è tolleranza zero per gli Ogm non autorizzati.

Fonte: www.greenpeace.it

Silvia Battaglia




ANNIVERSARI”E adesso, su ancora le maniche!”

20 GIUGNO: LA CONSOLATA
due centenari significativi nel santuario di Torino

Narra la tradizione: nell’anno 1104 un cieco parte da Briançon,
raggiunge la chiesa di S. Andrea di Torino, trova sotto le macerie di una cappella
l’immagine della Madonna Consolata e riacquista la vista…
Oggi il santuario della Consolata di Torino celebra il 9° centenario di quell’evento.
Il santuario celebra pure un altro centenario: quello del 1904,
allorché Giuseppe Allamano gli diede spazio, aria, vita. Anche in Africa.

Il centenario 1904 – 2004
Durante il Congresso mariano, svoltosi a Torino nel 1898, maturò in Giuseppe Allamano, già rettore del santuario della Consolata, l’idea di fondare una rivista per aggioare i fedeli su quanto si svolgeva al santuario (ndr: la rivista iniziò nel 1899 e si chiamò La Consolata, per divenire nel 1928 Missioni Consolata).
Un altro motivo suggeriva la nascita della rivista. Si era prossimi alle celebrazioni dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (1104-1904). L’Allamano e il suo collaboratore, Giacomo Camisassa, intendevano giungervi con un santuario completamente rinnovato, ma soprattutto ampliato. La popolazione doveva essere coinvolta in questa grandiosa impresa, anche molto dispendiosa.
I lavori, iniziati nel 1889 e terminati nel 1904, erano necessari: non solo perché l’interno del santuario era in uno stato pietoso (pavimento dissestato, pareti affumicate e sgretolate), ma soprattutto perché risultava troppo piccolo. L’antifona che l’Allamano si sentiva continuamente ripetere era: «Occorre maggior spazio. La gente si pigia all’inverosimile…».
Il rettore fece scrivere che il santuario, così com’era, poteva andare bene nel 600, quando Torino contava una popolazione inferiore di un sesto dell’attuale. Diceva: «Bisogna trovarsi al santuario nei giorni di festa, o anche solo un sabato qualsiasi, per avvertire tutti gli inconvenienti di questa deficienza di spazio e la mancanza d’aria, insufficiente non solo nelle grandi circostanze, ma anche nelle funzioni ordinarie».
A dare prestigio ed interesse alla nuova rivista contribuì non poco la fondazione, nel 1901, dei missionari della Consolata per l’Africa. La gente avvertì subito che, in tal modo, il santuario apriva porte e finestre. In breve tempo gli abbonati a La Consolata raggiunsero il numero di 19 mila.
Anche gli aderenti alla Compagnia della Consolata (nata nel 1522), riformata in senso popolare dall’Allamano, raggiunse in poco tempo centinaia di migliaia di iscritti. Così le comunioni eucaristiche nel santuario: 97.820 nel 1881, salirono nel 1890 a 127.980.
Con queste iniziative avvenne che, attorno al santuario, ancora prima della fondazione dell’Istituto missionario, gravitasse già un «mare di gente», come scrisse nel 1990 don Dario Berruto, rettore del santuario. Anzi, è per l’esistenza di questo «mare di gente» che, accanto al santuario, poté nascere l’Istituto missionario.
Il tutto con calma, senza strafare, senza esorbitare nella richiesta di denaro. Però l’impronta era quella descritta in modo suggestivo da un cugino francescano dell’Allamano, il quale, in una visita al santuario, si sentì dire in piemontese dallo stesso rettore: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti».
Così dicendo, l’Allamano aveva alzato le mani, agitandole, assumendo l’atteggiamento di chi si dà da fare e vuole lavorare. In tale modo il santuario da devoto o contemplativo divenne anche apostolico.
DUE AUREOLE DI DIAMANTI
Il santuario della Consolata, come è noto, è composto da due chiese: quella di S. Andrea, in forma ovale, e il santuario vero e proprio, in forma esagonale e con cupola, che si apre sul fianco interno della prima chiesa e contiene l’altare maggiore con l’icona della Consolata.
Le due chiese, prima dei restauri, comunicavano tra loro solo per una apertura di pochi metri, cosicché la maggioranza dei fedeli si ammassava nella navata di S. Andrea e nulla poteva scorgere. Di più: tra l’una e l’altra chiesa vi era un notevole dislivello, superato da una gradinata, che rendeva poco agevole la circolazione. I lavori d’ingrandimento, iniziati nel 1899, consistettero nel costruire ai due fianchi del santuario quattro nuove cappelle (due per lato e con cupola), capaci ciascuna di 500 persone, così da costituire quasi due nuove navate che, partendo dalla chiesa di S. Andrea, introducevano all’altare maggiore. Il santuario fu così ingrandito di 400 metri quadri, con la capacità di 2.000 persone in più. I finanziamenti giunsero sempre puntuali e sufficienti.
Se avesse potuto, l’Allamano avrebbe voluto incoronare la Vergine e il Bambino del quadro. Ma ciò era impossibile, perché l’immagine era già stata incoronata il 20 giugno 1829. Lanciò, allora, la proposta di porre attorno al capo della Madre e del Figlio due aureole con 12 stelle di brillanti.
Naturalmente i diamanti (in tale quantità!) non si potevano trovare tra i ciottoli del Po. L’invito ad offrire i giornielli fu rivolto a chi poteva. Aderirono le dame di Casa Reale, ma anche persone comuni. Le due aureole raccoglievano 759 brillanti, mentre ne erano stati preventivati solo 384…
Le celebrazioni centenarie dovevano aprirsi l’11 giugno 1904. Molti si attendevano che l’Allamano costituisse una commissione organizzativa. Ma così non fu: l’Allamano e il Camisassa assunsero su di loro tutto il peso del lavoro… Il 18 giugno il rappresentante del Papa, cardinale Vincenzo Vannutelli, procedette all’imposizione delle due aureole.
Le feste si conclusero con la solenne processione del giorno 19 (durata cinque ore), che terminò alle 21. Vi parteciparono 6 cardinali, 23 vescovi, 104 parroci… e una folla immensa. Fu una manifestazione religiosa imponente che non aveva precedenti «nella memoria dei torinesi di mezza età» (La Stampa, 20 giugno 1904).
In appendice, si può aggiungere che, nella notte tra il 7 e l’8 febbraio 1979, le due preziose aureole vennero rubate. Però l’Allamano, già al suo tempo, aveva provveduto a sostituire le due aureole, tanto appetibili ai ladri, con due finte. Quelle vere erano in cassaforte. Pertanto i ladri asportarono pietre false.
Ma che fine fecero i diamanti veri? Con l’autorizzazione della Santa Sede vennero alienati e venduti, dopo la seconda guerra mondiale, per ricostruire il santuario e il convitto ecclesiastico danneggiati dai bombardamenti del 13 agosto del 1943.
ATTIVI, LABORIOSI, INTRAPRENDENTI
Alle celebrazioni del 1904 parteciparono anche i missionari della Consolata, presenti a Torino: un piccolo gruppo, perché la maggior parte era in Kenya. La Consolata, giugno 1904, accenna al nuovo Istituto missionario e riporta una frase del cardinale Richelmy, che lo presenta come un’istituzione indipendente dal santuario, ma nello stesso tempo come un ingrandimento importantissimo del medesimo, nella lettera e nello spirito.
Nella lettera circolare del 6 gennaio 1905 ai suoi missionari in Africa l’Allamano, nell’apertura, accenna alle solenni celebrazioni: «Un sacrificio ben doloroso fu certo per voi l’essere così lontani… e non poter rimirare la santa Effige adoa delle nuove corone… Se i chierici, vostri confratelli, furono giustamente orgogliosi di assumersi in quei giorni la rappresentanza di voi ai piedi della Consolata, io me ne feci un dovere specialissimo. Lasciai in certo modo da parte le altre attribuzioni per non dimenticare la mia qualità di padre di questa nuova famiglia…».
Dopo le celebrazioni così ben riuscite, l’Allamano, che si era preso cura del programma da realizzare, «venne interpellato se non avrebbe accettato qualche distinzione onorifica. A questa proposta… rispose che egli personalmente nulla desiderava, ma che avrebbe volentieri accettato qualcosa che tornasse d’onore per il santuario. Chiese a Pio x che il santuario venisse eretto a basilica pontificia». Fu esaudito il 7 aprile 1906.
Ritorna alla mente la figura del rettore di fronte al cugino francescano, al quale dice: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti». L’Allamano invita anche i suoi missionari a tirarsi su le maniche.
la Consolata e la «Consolatina»
Nel gennaio 1902 l’Istituto missionario aveva un anno di vita. Il mensile La Consolata ricorda anche il nuovo Istituto, del quale nel giugno 1901 era stata benedetta la cappella della prima Casa Madre in corso Duca di Genova (oggi corso Stati Uniti), denominata in modo allusivo «La Consolatina», con questo commento: «L’importanza di tale funzione sta a dimostrare come il culto della Consolata non sia solo contemplativo, ma attivo, né si restringa solo a Torino o all’Italia».
Il santuario era stato retto per secoli da monaci (Benedettini, Cistercensi, Minori osservanti) o da religiosi (Oblati di Maria, che contavano pure delle missioni). Certamente l’atmosfera che vi si respirava era monastica: una devozione alquanto centripeta, quasi fine a se stessa, come un focolare in pieno inverno… con la gestione di un pensionato per preti anziani. Dopo secoli, il santuario era invecchiato, senza che qualcuno pensasse a restauri.
Nel 1871 il santuario, per ragioni politiche, divenne diocesano, alle dipendenze del vescovo locale, gestito da sacerdoti. Il passaggio da un regime monastico ad uno diocesano si consolida, nel 1880, con l’Allamano. Questi nel 1883 inizia i restauri estei del santuario, per ricordare nel 1885 il 50° della cessazione del colera. Libera la cupola da un ballatornio esterno, che la cinge con poca eleganza; elimina gli speroni che sporgono dai tetti più bassi; riveste la cupola di piombo; rinforza con uno zoccolo in pietra il perimetro esterno del santuario… Poi, in occasione dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (che cadeva nel 1904), iniziò nel 1889 i grandi restauri interni.
Intanto – come si è detto – intorno al santuario gravitava un mare di gente. Ed è per questo «mare» che poté sorgere l’Istituto missionario, immettendo aria nuova, aprendo porte e finestre, dando la certezza a tutti che il santuario, anche da un punto di vista finanziario, si era trasformato da «conca» a «canale». I fedeli compresero molto bene.
Oggi questa apertura deve, forse, essere in qualche misura ricuperata… sull’esempio di un prete diocesano, quale fu l’Allamano: senza strafare, seppe tirarsi su le maniche, insieme ai sacerdoti del santuario del suo tempo e, soprattutto, dei missionari (che restano pur sempre «i missionari della Consolata»), memori del detto profetico: «Guardate la roccia da cui siete stati tagliati» (Is 51, 1).

NON DI SOLO PANE

«La messa è finita: andate in pace!». Il coro esplode in un canto giornioso, ritmato dal rullio dei tamburi. I bambini guardano estasiati. Le donne conversano. Gli uomini sono già sul sagrato della piccola e pericolante chiesa di paglia e fango. Qualcuno discute animatamente con il missionario.
Io osservo tutto, distaccata. Nel mio pensiero non vedo le donne, né gli uomini, non risento i canti né il rullio del tamburo. Non vedo gli occhioni spalancati dei bambini. Non vedo nemmeno la loro povertà disegnata su abiti scoloriti, su piedi scalzi, su ventri gonfi. Sono assente.
Sono stupita di me stessa, oltre che dell’Africa e dei suoi cristiani.
Mi aspettavo richieste di aiuto: per la scuola senza banchi, per il dispensario senza siringhe, per la strada che non è una strada…
E invece no! Mi hanno chiesto di aiutarli a pregare. A pregare come si deve, in una chiesa decorosa, con finestre dalle quali entri la luce del sole, un pavimento sul quale possano sedersi i bambini accanto alle mamme, un tetto che non rischi di cadere loro in testa, un inginocchiatornio… mi hanno chiesto queste cose per pregare meglio. Perché «non di solo pane vive l’uomo…» (Mt 4,4).

Era l’agosto del 2003. Accompagnavo sette giovani di Torino per un campo di lavoro e conoscenza nella missione di Cuamba nella regione del Niassa, nel nord del Mozambico.
Qui opera e lavora con grande efficienza, ma soprattutto efficacia, padre Carlo Biella, missionario della Consolata, affiancato da padre Alberto De Jesus, diocesano aggregato, venezuelano.
Perché la nostra conoscenza fosse più ampia possibile, padre Alberto aveva organizzato, per le tre settimane del nostro soggiorno, incontri con la gente, che accorreva incuriosita per vedere i mucunha (i bianchi), dei quali però hanno paura. Sovente scappavano e i bambini si mettevano a piangere a pieni polmoni, quando uno di noi si avvicinava. Purtroppo gli sporadici contatti con l’uomo bianco, unica eccezione i missionari, si sono sempre rivelati «trappole»; hanno dovuto imparare a diffidae.
Gli ammalati, fiduciosi, attendevano la nostra visita, come se la nostra presenza potesse allontanare il male e insieme a loro pregavamo, per tutti.
Visitavamo le comunità con capanne sparse, anch’esse rigorosamente di fango e paglia, accompagnati dagli animatori che, durante il cammino, ci parlavano della guerra, ormai, fortunatamente, un lontano ricordo, dell’«esodo» di tanta gente che cercava rifugio altrove per sfuggire alla morte, di «un popolo in cammino». Nei loro racconti e nella semplice conversazione si ispiravano alla parola di Dio.
Rimanevo affascinata e meravigliata per la loro profonda conoscenza delle sacre scritture. Ho visto la loro fede!

L a cappella della comunità di Nakhapa, una delle circa 50 che fanno parte della missione di Cuamba, intitolata alla beata Vergine Consolata, era veramente messa male. I continui visibili rabberci erano ormai del tutto inutili; pezzi di fango si staccavano dalle pareti e il tetto sembrava che volesse crollare da un momento all’altro. La gente se ne vergognava; soprattutto temeva di dover rinunciare a incontrarsi nel giorno di festa, la festa vera, per pregare, vista la propria impossibilità di costruire una chiesa nuova perché troppo poveri.
Fu al termine della celebrazione che un animatore, alzatosi, disse qualcosa in macua, che il padre mi tradusse in portoghese: ora avrebbe avuto luogo l’offertorio ed era per noi.
Iniziò a sfilare una lunga processione di persone e ognuna portava il suo povero dono: un piatto di fagioli, una papaia, due patate di manioca, un po’ di riso, una manciata di fagioli. Probabilmente era il «pane quotidiano» dell’intera famiglia («l’obolo della vedova»).
In cambio mi chiedevano che, tornando in Italia, sensibilizzassimo la gente su questo problema al quale nessuno di noi dà più importanza. I fedeli africani ci chiedono di poter pregare in un ambiente dignitoso. Ci chiedono di aiutarli a ricostruire il loro «tempio», che considerano vitale quanto una casa, un dispensario, una scuola, una strada.

Non sono ancora riuscita a trovare il denaro necessario, sebbene la cifra non sia elevata. Questo mi fa vivere in sospeso, in una costante sensazione di incompiutezza. Ma quello che più mi rattrista è constatare che la generosità che distingue gli italiani si esaurisce… quando si chiede loro di costruire una chiesetta!

Gloriana Babbini

Igino Tubaldo




110 anni di missione, fedeli cambiando / Asia

Asia

Fino agli estremi confini (orientali) del mondo

Profetizzata dal beato Allamano: «Io non lo vedrò, ma forse andrete nel Giappone, nella Cina, nel Tibet», l’apertura ufficiale di una missione della Consolata in Asia dovette essere attesa per qualche decennio. Fu il VII Capitolo Generale (1981) ad iniziare a coltivare il sogno asiatico dell’Istituto che vide l’approvazione definitiva sei anni più tardi, nel Capitolo del 1987. La destinazione non fu il Giappone, né tanto meno la Cina o il Tibet, ma la Corea del Sud, alla volta della quale i primi quattro missionari, tutti giovanissimi (il più “anziano” aveva solo 35 anni) e provenienti da aree culturali diverse, partirono il 18 gennaio 1988. Inutile dire che dietro l’apertura in Corea aleggiava il sogno missionario della Cina, un desiderio destinato a rimanere tale fino ad oggi a causa degli insormontabili problemi di ordine politico e burocratico.
L’avventura asiatica rappresentava per l’Istituto una nuova frontiera missionaria dopo quella africana (a partire dal 1902, in Kenya) e, dal dopoguerra, latinoamericana. Come le due precedenti esperienze anche questa in Estremo Oriente era caratterizzata da alcuni tratti distintivi che individuavano l’originalità della nuova missione. Innanzitutto la dimensione di dialogo e di incontro. Avvicinarsi al mondo culturale asiatico significava farsi prossimi di tradizioni religiose molto più antiche della nostra e, quindi, da trattare con assoluto rispetto e con profondo atteggiamento di ascolto. In Corea si è voluto seguire questo stile di missione, dedicando anni di studio alla difficile (per noi) lingua e alla cultura del posto, un periodo di ambientamento che ha messo a dura prova la pazienza e la resistenza di molti missionari che hanno seguito negli anni le orme dei primi quattro pionieri.
A partire dal 2003, la nostra presenza in Asia si è impreziosita e completata con l’apertura della missione in Mongolia, pensata e concretizzata in collaborazione con le missionarie della Consolata. L’opzione di andare in un paese grande cinque volte l’Italia e con una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti (di cui poco meno di un terzo vivono nella capitale Ulaan Baatar), a grande maggioranza buddista, va esattamente nella stessa direzione della precedente esperienza coreana.
Ciò che l’Asia grida a gran voce oggi all’Istituto è un qualcosa che appartiene al nostro Dna, ma che sovente tendiamo a dimenticare: noi siamo per i non cristiani. Così ci ha voluti il fondatore, ma così deve essere in ogni caso chiunque si professa missionario ad gentes. Attraverso la loro esperienza quotidiana, fatta spesso di testimonianza isolata e silenziosa, i nostri missionari ci richiamano all’essenza della nostra vocazione.
Vivere la novità
Ciò ha fatto sì che oggi in Asia si punti a proporre uno stile differente di missione, che non sia centrata soprattutto sulle opere, quanto sull’incontro con le persone. È la gente, soprattutto i poveri, con la sua quotidianità e le sue esigenze, a dare il passo e il tempo della nostra presenza là. Più che le strutture vengono favoriti i momenti di incontro, accoglienza e scambio vicendevole di doni culturali. L’ospitalità e l’ascolto diventano allora le parole chiave di una missione che vuole essere nuova.
Inutile dire che questo stile di evangelizzazione fondato su ciò che è piccolo e fragile, come può esserlo il nostro esporci al dialogo con l’altro, richiama anche un altro punto fondante del nostro carisma: la santità di vita. La missione in Asia passa oggi attraverso la scelta di una spiritualità forte come via preferenziale della missione, nell’essere, in altri termini, dei veri contemplativi in azione.
Dietro l’angolo il sogno cinese continua a fare capolino. Sono i nostri stessi confratelli impegnati in Asia a invitare con fermezza l’Istituto a fare una scelta radicale per il continente dove più numerosi sono i non-cristiani. La Cina, col suo miliardo e mezzo di abitanti rappresenta una frontiera che non può non essere presa in considerazione. Il Capitolo dovrà quindi avere tanto coraggio e anche molto equilibrio nel valutare le possibilità che il nostro Istituto ha di lanciarsi in una nuova missione di questo calibro. A prima vista, in un’analisi della realtà basata rigidamente su calcoli di natura umana, molto consiglierebbe di lasciare perdere. Bisogna però lasciare che lo Spirito soffi, è lui che da sempre spinge i missionari ad andare a dissotterrare tesori che lui stesso ha precedentemente seminato nel cuore delle culture. E allora, con la preghiera si vedrà!

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Annalena Tonelli martire

Caro direttore,
grazie per lo stupendo articolo-testimonianza su Annalena Tonelli (Missioni Consolata, marzo 2004). Da ottobre dello scorso anno, la sua figura (che avevo conosciuto nel febbraio 1984 a causa del massacro di Wajir, in Kenya), mi «perseguita».
A seguito di quel racconto, con alcuni missionari Fidei donum avevo scritto una lettera di protesta a mons. Ndingi, allora presidente della Conferenza episcopale kenyana per il silenzio dei vescovi.
Annalena, che incontravo talvolta a Nairobi, mi dava la carica. Ringrazio Dio di averla conosciuta.
don Piero Gallo
Torino

Missionaria laica in Kenya e Somalia per 33 anni, Annalena Tonelli fu assassinata a Borama (Somaliland) il 5 ottobre 2003. Una martire vera.

don Piero Gallo




“Un personaggio da conoscere”

La FAND, Associazione Italiana Diabetici, è una associazione di volontariato fondata nel 1982 dal dottor Roberto Lombardi, che riunì in una Federazione le numerose associazioni già esistenti, ricche di ideali e di buona volontà, ma divise e senza alcun peso «politico». R. Lombardi introdusse nel mondo del volontariato una strategia dinamica, obiettivi e programmi volti a concretizzare le attese dei diabetici in campo sanitario e sociale.
Una malattia cronica, comune a più del 3% della popolazione e in continua crescita, è divenuta per tanti cittadini ragione di aggregazione, allo scopo di migliorare le proprie conoscenze sulla malattia, curarla meglio e richiedere allo stato (Legge 115/1987) una rete di servizi diabetologici efficiente e diffusa su tutto il territorio.
In Piemonte, la FAND è rappresentata da 15 associazioni, ciascuna con un Consiglio direttivo, un Presidente ed un Coordinatore regionale (il sottoscritto), che fa parte della Commissione diabetologica regionale e del Consiglio nazionale della FAND.
Una volta all’anno il Coordinatore riunisce i Presidenti delle associazioni piemontesi e i loro collaboratori per un aggioamento sui problemi scientifici ed organizzativi dell’assistenza diabetologica. A conclusione di questo annuale appuntamento, viene presentato un «Personaggio da conoscere» per i suoi meriti etici e sociali.

Q uest’anno sono stato particolarmente orgoglioso di presentare un amico, missionario della Consolata: padre Giordano Rigamonti.
La nostra amicizia risale alla fine degli anni Sessanta, quando, lui giovane missionario, ed io, giovane medico, collaborammo con Mani Tese al progetto (realizzato) dall’ospedale di Tosamaganga, diocesi di Iringa, Tanzania. Fummo ancora insieme nel ‘71 per una visita agli ospedali missionari nel nord del Kenya.
Negli anni successivi le nostre strade si divisero, e la sua lo riportò in Kenya, in Tanzania e a tante iniziative missionarie che lo videro protagonista.
Ma un altro evento fece sì che le nostre strade si ritrovassero. A gennaio 2002 terminava l’avventura terrena del dottor Lombardi, e la FAND mise a disposizione 50.000 euro per una iniziativa che lo ricordasse. Tra le proposte avanzate trovò unanime consenso la mia: COSTRUIAMO UNA SCUOLA IN AFRICA.
I padri Mario Valli e Giordano Rigamonti si prodigarono per la definizione del progetto-scuola, che sorgerà a Porò, missione di Morijo, diocesi di Maralal.
Alla nostra riunione annuale padre Giordano è stato accolto con curiosità ed interesse e, man mano che parlava, l’interesse si è trasformato in commozione specialmente quando padre Giordano ha concentrato il suo intervento sull’epidemia di Aids, che sta travolgendo l’Africa sub-sahariana. Trenta milioni di sieropositivi, 3,5 milioni di nuovi casi e 2,5 milioni di morti nel solo 2003!
Saremo capaci, noi occidentali, con la nostra ricchezza e le nostre tecnologie di porre un argine a questo genocidio?
Dice un canto africano: «Quante orecchie occorrono, dunque, ad un uomo per sentire gli altri piangere?».
Grazie, padre Giordano, di averci comunicato così intensamente il tuo personale tormento e di averci aperto orecchie e cuore alla ricerca di un contributo alla soluzione di una difficile sfida.

Gian Maria Ferraris
Coordinatore di FAND in Piemonte

Gian Maria Ferraris




Felice di servire

Dopo vari anni di attività in Kenya e in Italia, dall’ottobre 2003 suor Gina Motta presta servizio infermieristico
ai missionari della Consolata bisognosi di cure, nell’infermeria della casa madre a Torino.
Ecco la sua storia.

«Sono l’ultima di quattro figli: un fratello e tre sorelle. In famiglia ho respirato armonia e gioia, pur nella semplicità.
Come tutti i giovani, nell’età dell’adolescenza mi ponevo la domanda: che cosa vuole Dio da me? Di una cosa ero sicura: desideravo vivere pienamente la mia vita ed essere felice. Ma come? Nel matrimonio? Oppure rimanendo nel mondo e consacrando la mia vita per il bene dei fratelli e sorelle? O come suora?». Così suor Gina comincia a raccontare la sua storia.
A quei tempi si chiamava Franca. Non lo dice, ma è certo che parecchi giovani le ronzavano attorno. L’attrazione di Dio, però, era più forte. Attirata dal silenzio e dalla preghiera, un giorno sentì perfino un forte desiderio della vita claustrale. Volle fare l’esperienza di condivisione con la comunità di un monastero di clausura. Alla fine della settimana, però, comprese che quel tipo di vita non era fatto per lei.
Provò un’altra strada: accettò l’invito a partecipare a un corso di esercizi spirituali presso le missionarie della Consolata, a Grugliasco (Torino). Seguì una breve esperienza di «vieni e vedi» con alcune suore e juniores di quella stessa casa: il loro stile di vita le piaceva, l’ideale di servire Cristo nei più poveri rispecchiava la sua indole. Forse era proprio lì che Dio la voleva.

«A 19 anni feci una drammatica esperienza – continua a raccontare -: Gino, il mio unico fratello, mentre stava assistendo a una corsa automobilistica a Monza, venne falciato insieme ad altri da una Ferrari uscita di pista».
Era il 10 settembre 1961: all’inizio della gara, il pilota Von Trips fu tamponato dalla Lotus, guidata da Jim Clark; la Ferrari schizzò contro le reti di protezione della tribuna della leggendaria curva parabolica, mietendo la vita di 13 spettatori.
L’improvvisa e tragica morte del fratello, accrebbe in Franca l’innato desiderio di aiutare chi soffre e cominciò a prestare servizio in un ospedale. Dopo solo due anni, il ricordo della morte del fratello ravvivò in lei la decisione di una scelta radicale: essere missionaria a vita.

«Il 28 ottobre 1963
salutati i miei amatissimi genitori e le sorelle, lasciata la casa, tante persone amiche e il lavoro, mi presentai alle missionarie della Consolata. Da quel giorno non mi voltai più indietro e ancora oggi, dopo 40 anni, sto vivendo in pienezza e con gioia la mia vita missionaria» continua suor Gina.
Non sono mancate le difficoltà; la principale veniva proprio da suo padre, che amava teneramente e da cui si sentiva profondamente amata. Egli non aveva alcuna obiezione che sua figlia abbracciasse la vita religiosa, ma la scelta di farsi missionaria le sembrava troppo radicale e obiettava: «Perché andare in Africa, così lontano…?». La sentiva perduta per sempre.
Tuttavia, Franca poté trascorrere gli anni della formazione in serenità. Giunto il giorno della professione religiosa cambiò nome, come si usava ancora a quei tempi, e prese quello del fratello.
Arrivò anche il giorno della destinazione: era proprio l’Africa. Suor Gina si recò in famiglia per salutare i genitori, parenti e amici. Il papà toò alla carica: «Perché in Africa? Perché tanto lontano…?».
«Senza minimamente pensare a san Francesco di Assisi – racconta la suora -, feci il gesto di slacciarmi l’abito religioso, dicendo: “È questo che vuoi, papà?”. Da quell’istante cessò ogni perplessità e mio padre approvò in pieno la mia scelta».
Prima di spiccare
il volo per l’Africa, suor Gina fu inviata in Inghilterra, per imparare la lingua inglese e specializzarsi nel campo infermieristico. Vi arrivò nel 1967 e cominciò a frequentare i corsi di infermiera professionale e ostetrica nell’ospedale di Kendal.
Per cinque anni lavorò in un ospedale protestante a Londra, facendosi subito stimare per la sua servizievole attenzione, non solo verso i malati affidati alle sue cure, ma anche a quelli di altri reparti.
La sua popolarità era alle stelle. Un giorno, una paziente ricevette un mazzo di fiori. «Che belli! Sono meravigliosi, stupendi! Ma che pensiero gentile…» diceva la signora con questi e altri convenevoli che solo gli inglesi sanno fare; in fine, rivolgendosi alla suora che la assisteva notte e giorno, concluse: «Grazie, grazie! Portateli a suor Gina, per favore».

Il 2 settembre 1972
suor Gina raggiunse il Kenya e cominciò il suo servizio nel Nazareth Hospital, gestito dalle missionarie della Consolata a Nairobi. Era stato appena avviato il nuovo reparto di mateità, voluto e inaugurato da suor Prisca, poco prima della sua tragica morte. Le fu affidato il compito di attendere alle mamme, che giungevano da varie parti del Kenya per essere assistite nel parto o per problemi connessi con la mateità.
Furono tempi indimenticabili, carichi di ricordi, vissuti intensamente e ripagati dalla gioia di aiutare una media di 2.000 bambini a venire al mondo ogni anno.
Una di quelle mamme, appena giunta all’ospedale, le disse: «Sister, voglio che il mio dodicesimo figlio nasca qui, perché sento che morirò… Sono venuta all’ospedale missionario perché voglio essere battezzata». La battezzò personalmente e le prestò tutte le cure necessarie per salvarla.
Purtroppo, poco dopo aver dato alla luce la sua creatura, Mary, la neo-battezzata, morì a causa di un’inarrestabile emorragia post partum. Era serena, sicura di lasciare il suo piccolo in buone mani. Le sue ultime parole furono: «Sono contenta di riunirmi ai miei antenati».

Nel 1977 si presentava
in Kenya un’urgenza inderogabile: trovare personale capace di formare infermiere locali. A suor Gina fu chiesto di prepararsi a tale compito, frequentando il corso biennale in Community Nursing Training presso il Nairobi Hospital.
Unica suora cattolica presente nell’ospedale statale, a contatto con persone di ogni razza, cultura e religione, suor Gina visse altri tre anni (1978-1980) indimenticabili, ricchi di episodi che lasciano il segno.
Un giorno, un indiano di religione sikh, ricoverato per sottoporsi a una difficile operazione, le disse: «Suora, lei è una donna di Dio: mi metta le mani sulla fronte e mi dia la pace».
La richiesta la colse di sorpresa. Pochi giorni prima, alla fine di un incontro del «Rinnovamento dello spirito», il prete, un americano, le aveva domandato se imponeva le mani sui malati; la suora aveva risposto con un sorriso di diniego; ma il prete, con una fanatica filippica, le aveva ordinato di imporre le mani sui pazienti e operare guarigioni. E lei, per nulla convinta, aveva risposto con serafico sorriso che avrebbe continuato a pregare per i suoi malati, ma le mani non le avrebbe imposte mai.
Passato il flash back, suor Gina rispose all’indiano: «Le mani sulla fronte te le metto volentieri, ma quanto alla pace, questa non viene da me: devi essere tu a riconciliarti con Dio e con i fratelli». Il paziente confessò che aveva litigato con un fratello a causa di un garage. Ma come riconciliarsi?
Si avvicinava il giorno dell’operazione e del compleanno dell’indiano: la suora gli suggerì di invitare tutta la parentela per la duplice occasione. E così avvenne: chiamò tutti familiari e si riconciliò con loro.
Una signora anglicana era in attesa di sottoporsi a una gastroscopia, poiché soffriva di tremendi crampi allo stomaco. Confidandosi con la suora, raccontò di avere litigato con il suo datore di lavoro e le chiese consiglio sul da farsi. «Cosa leggi nel vangelo – rispose suor Gina -? Se hai qualche cosa contro un tuo fratello, vai e riconciliati con lui». La donna chiese qualche ora di permesso; si fece accompagnare dal marito dal suo datore di lavoro e chiarì la faccenda: i crampi scomparvero e la donna non toò più in ospedale.
Più preoccupato della prenotazione cancellata e relativa perdita della parcella che dell’improvvisa guarigione, il responsabile dell’ospedale domandò alla suora che cosa avesse fatto a quella signora. «Niente; le ho solo consigliato di rappacificarsi con il suo datore di lavoro» rispose serafica suor Gina.

Conseguito il diploma
di abilitazione, suor Gina fu inviata all’ospedale missionario di Nkubu, come direttrice e insegnante della scuola per infermieri: aveva a carico la formazione di 140 allievi e allieve.
Furono cinque anni di stressante lavoro e responsabilità, che minarono la salute della suora, tanto da dover lasciare quella missione che, nonostante tutto, le procurava immense soddisfazioni.
Toò in Italia e, poco dopo, a Londra, dove rimase tre anni, dedicandosi alle più svariate attività: animazione missionaria nelle parrocchie, assistenza alle giovani suore venute in Inghilterra per imparare l’inglese, incontri ecumenici di preghiera con pastori protestanti e… lavori casalinghi.
Ritornata in Italia, per sei anni fece parte della piccola comunità di Albisano di Torre del Benaco (Verona). Anche là continuò la sua «missione»: oltre a dedicarsi ai malati, sia in comunità che nelle famiglie, si prestò con entusiasmo come catechista e animatrice liturgica nella parrocchia, senza dimenticare i servizi richiesti dalla comunità, compreso quello di autista.
Quando le fu offerta l’occasione di partecipare a un corso di aggioamento spirituale all’università Urbaniana di Roma, nel 1988 si trasferì nella capitale, prestando il suo servizio infermieristico alle sorelle e alle pensionanti della casa di Via Foscari. Nel 2001 continuò lo stesso lavoro nella casa di spiritualità a Caprie (Val Susa, Torino).

Nell’ottobre del 2003
dovette improvvisamente interrompere la sua attività nella comunità di Caprie, perché richiesta di sostituire la sorella infermiera presso i confratelli missionari della casa madre di Torino.
«Devo umilmente e con gioia ammetterlo – conclude suor Gina -: dal giorno in cui ho lasciato l’Africa, Dio ha continuamente aperto nuovi orizzonti nella mia vita, facendomi sentire sempre di più e in modi differenti la bellezza della mia vocazione missionaria.
Oggi ho la gioia di poter servire Cristo nei suoi figli prediletti, curando i confratelli missionari ammalati. Molti vengono dalla missione, altri sono impegnati in attività in vari centri dell’Istituto; alcuni stanno trascorrendo un periodo post-operatorio e abbisognano di cure specifiche, ma tutti vivono e offrono per la missione che desiderano rivedere al più presto.
Qui mi sento autentica missionaria, indirettamente impegnata nell’evangelizzazione. Con loro mi arricchisco nella conoscenza di altri continenti, di vita missionaria concretizzata nelle più diverse culture. Con loro condivido le ansie e le giornie del regno. Di tutto ciò non posso che ringraziare e lodare il Signore». •

Benedetto Bellesi




TANZANIA – Piedone l’africano

Una sconosciuta località africana ha conservato,
per milioni d’anni, i «segni» di una presenza umana.
Quasi un piccolo miracolo, che lascia ammirati e pensosi.

Laetoli è una piccola località del Tanzania, a 45 km da Olduvai, sul confine con il Kenya. Fra tutti i luoghi di interesse di ricerca fossile nella Rift Valley, che ormai sono moltissimi, Laetoli è davvero un luogo molto strano, diverso da tutti gli altri.
Il comune denominatore degli altri siti fossili è il deserto, o un luogo assai caldo, disidratato, inabitabile, anche se in un’epoca remotissima era forse rigoglioso, magari lacustre o, almeno, servito da tortuosi torrenti. Laetoli, invece, ha conservato la caratteristica di un tempo, circondato da diversi piccoli laghi. Non è certo il paradiso dei fossili, dato che non compaiono a fior di terra come nel triangolo di Afar (Etiopia) o nei canyon dell’Omo.
Louis Leakey, padre dell’attuale paleontologo Richard Leakey, sin dal 1935 aveva fatto un sopralluogo a Laetoli, in cerca di fossili ominidi. Aveva trovato qualcosa, ma aveva definito la sua scoperta «un canino di babbuino» e, con questa etichetta, ne aveva fatto omaggio al British Museum di Londra.
Quel dentino restò nascosto in mezzo ai tanti altri finché, nel 1979, un giovane studioso di nome Tim White non lo notò e lo studiò a fondo e finì per essere «riscoperto» come il più antico reperto fossile di ominide esistente. Se Leakey l’avesse saputo, avrebbe fatto salti di gioia, nonostante i suoi proverbiali dolori artritici.
Leakey abbandonò Laetoli, lasciando il posto a un tedesco, Kohn Larsen, che scoprì un pezzo di mascella con un paio di premolari. Anche questo studioso si accontentò di classificare il reperto con l’etichetta di «scimmia antropomorfa». A quel tempo, oltre 60 anni fa, era inconcepibile per gli antropologi pensare a un fossile del genere homo o ominide, vecchio di milioni di anni.

La fortuna… in tasca

Ma fortuna e gloria stavano per tornare a bussare in casa Leakey, grazie a sua moglie, anch’essa assai patita come lui di roba fossile. Mary, nel 1976, decise di fare un ennesimo tentativo di ricerca a Laetoli.
Aveva un aiutante kenyano da lei bene addestrato, Kaymoya Kimeu, che in poco tempo scoprì un fossile di ominide. Mary Leakey si precipitò sul luogo con una nutrita squadra e mise insieme 42 reperti. Uno ebbe l’onore di essere classificato «assai interessante»: una mandibola con infissi 9 denti. Il mondo paleoantropologico lo conosce come il fossile ominide lh-4. Ma a rendere ancor più interessante è il fatto che in quel luogo gli ominidi hanno lasciato le loro impronte: orme di piedi umani! Una caratteristica esclusiva di Laetoli per molti anni; oggi condivisa da altri quattro luoghi in Siria, Ungheria, Francia e Italia.
Come è stato possibile che queste orme si siano conservate per oltre 3 milioni di anni?

All’inizio… un’eruzione

Lontano da ogni fantasticheria, uno studioso è riuscito a ricostruire la scena, avvenuta 3,5 milioni di anni fa, quando il vulcano Sadiman si spense per sempre. Sul terreno rimase un sottile strato di carbonatite, simile a finissima sabbia di spiaggia. Poi piovve. Impregnata di acqua, la cenere formò una pasta, come cemento fresco, sulla quale le creature di quel luogo lasciarono le loro impronte: elefanti, giraffe, antilopi, maiali, lepri… e persino struzzi, galline e piccoli insetti.
Ben presto, lo strato di cenere si indurì al sole e, prima che piovesse una seconda volta, il vulcano riprese a eruttare, coprendo le orme con uno strato di cenere di una ventina di centimetri.
La scoperta avvenne in modo fortuito: il gruppo di ricercatori di Mary si divertiva alla… guerra, usando come proiettili l’abbondante sterco di elefante, disseminato in quell’area. A un tratto, un giovanotto di nome Andrew Hill, mentre tentava di sfuggire al lancio di un proiettile e cercava altre munizioni per rispondere, notò strani incavi nel letto asciutto di un torrentello; si fermò a contemplare quelle impronte, che definì subito di animali; ma non diede importanza alla scoperta: erano solo impronte di animali del passato.
Trascorre un anno. Nel 1977 il figlio di Mary, Philip, toò a Laetoli con un collaboratore e scoprì altre orme e tracce; sospettò che alcune di esse fossero di piede umano… o ominide. Mary Leakey diede la notizia della scoperta in una conferenza negli Usa, lavorando anche un po’ troppo di fantasia: parlò anche di un pozzo d’acqua, attorno al quale animali e uccelli dovevano essersi radunati, del panico che dovevano avere provato, fuggendo spaventati per la pioggia di polvere vulcanica.
Alcuni paleoantropologi risero sotto i baffi; altri rimasero elettrizzati dalla descrizione. Un’esperta americana di orme, Louise Robbins, accettò di unirsi alla squadra di ricercatori per l’anno seguente, seguita da altri tre studiosi, seri e critici. La conclusione della campagna di scavi e ricerche mise tutti in subbuglio e in disaccordo.
Paul Abell, uno dei tre studiosi, un giorno scoprì una speciale orma, molto più chiara delle altre e la fotografò. Ma Robbins la definì subito e senza pensarci troppo: impronta simile a quella di una mucca. Abell non ne era convinto, ma dovette ubbidire anche lui agli ordini di Mary Leakey che, esasperata, fece sospendere tutti gli scavi.
Ma Jones, un altro dei tre studiosi aggregati, era sempre più convinto dell’interpretazione di Abell e riuscì a strappare a Mary il permesso di fare ancora un «piccolo» scavo.
«Ma piccolo piccolo!» insisteva Mary. E, per mostrare la sua sfiducia, incaricò degli scavi Ndibo, un uomo addetto alla manutenzione del campo. Questi, pacioccone, si mise all’opera, imitando i suoi «professori» e il giorno dopo toò tutto giulivo.
– Vieni a vedere, mama: ho trovato non una, ma due orme. Una piccola e una molto grande, di 30 cm!
– Ndibo! Sei davvero uno spaccone. Non contare frottole!
– Ndibo non conta frottole!
Mary andò a vedere; rimase con gli occhi spalancati, incapace di credere a se stessa: le orme si dirigevano a nord, verso un intrico di vegetazione, protette da una zona erbosa.
Gli studiosi tornarono all’opera con entusiasmo ed esasperante lentezza. Orma dopo orma, liberarono un lungo pezzo di terreno: alla fine, più di 50 orme appaiate, una piccola e una molto più grande, procedevano in linea retta per circa 23 metri: 3 milioni 700 mila anni or sono, ominidi in posizione eretta avevano camminato su della cenere caduta da poco, a Laetoli, lasciando ai posteri il ricordo del loro passaggio.

Come impronte sulla spiaggia

La conservazione di queste orme ha del «miracoloso». Un incredibile concorso di vari fattori ha permesso tutto ciò. Basti pensare a quanto resistono le orme di un piede umano sulla sabbia, in un pantano o sulla terra umida.
Viene voglia di dubitare sulla sicurezza di questi studiosi, che hanno scoperto e definito tali orme «di ominidi». Ma non ci sono motivi plausibili per controbattere. La serietà degli esami del tufo vulcanico, in cui le impronte sono rimaste impresse, permette di stabilire anche la datazione. L’esame con il metodo potassio-argo ha confermato che i due tipi di tufo esaminati risalgono rispettivamente a 3,59 e 3,77 milioni di anni fa.
Descrivendo la scoperta di Laetoli, così dice Tim White: «Sono orme come quelle di un essere umano moderno. Se ce ne fosse una su qualsiasi spiaggia, oggi, e si chiedesse a un bambino di quattro anni di cosa si tratti, quel bimbo direbbe subito che è di qualcuno che camminava; non la troverebbe differente da altre centinaia. Nelle impronte di Laetoli la morfologia estea è la stessa: tallone moderno ben formato; arcata sostenuta, polpastrelli delle dita. L’alluce è bene allineato, non sporge di lato come quello di una scimmia antropomorfa o di tanti disegni di australopiteci, che si possono vedere riprodotti nei libri.
Non intendo dire che non ci potessero essere delle piccole differenze nella struttura ossea del piede; questo dobbiamo aspettarcelo. Ma, a tutti gli effetti, gli ominidi di Laetoli camminavano eretti come noi, non con andatura strascicata, come molti hanno sostenuto per tanto tempo. Credo che queste orme siano allo stesso livello delle più fantastiche e illuminanti scoperte di questo secolo».

SIAMO TUTTI UN PO’ AFRICANI

Un giorno, parlando con un antropologo sull’insostenibilità del significato scientifico del concetto di razza, questi mi disse: «In fondo siamo tutti africani» volendo intendere, con questa sua frase, che l’antenato comune all’intera umanità compì i primi passi proprio sull’attuale continente africano.
Dalle foreste verdeggianti e rigogliose, il genere umano si è poi espanso ed evoluto, dominando il globo, dimenticando spesso la sua comune origine. Questo ha fatto sì che, per molti europei, l’Africa altro non sia che una terra da contrapporre, generalmente in senso negativo, alla nostra civiltà: è il «continente nero» (non volendo, tra l’altro, vedere che in Africa vivono decine di milioni di altri gruppi umani, tra cui anche i bianchi).
Quante Afriche conosciamo? Sappiamo di una terra in cui è bello e chic andare a trascorrere un paio di settimane l’anno, purché «protetti» dalle rassicuranti mura di un villaggio dell’agenzia di viaggio, dove gli africani li vedi solo quando ti portano gli spaghetti al tavolo o puliscono la camera.
Oppure conosciamo un’Africa meno umana e più animale, dove ti propinano visite «mordi e fuggi» a tribù locali come contorno ai safari.
Infine, c’è un’altra Africa, purtroppo la più vera, raccontata dai mass media e missionari: denutrita, devastata dal colonialismo, dissanguata dalle guerre, sfruttata dalle multinazionali, dileggiata dai razzisti, umiliata dai leaders africani (incivili e antidemocratici), che restano al potere perché appoggiati da governi occidentali (democratici e civili).

Spesso si afferma che l’Africa si è ridotta in questo stato perché è abitata dagli africani, negando a questi una specificità culturale e organizzativa.
È proprio per confutare questo modo di pensare che inviterei a visitare il Museo africano della Basella di Urgnano, ideato e realizzato dai padri Passionisti.
Per dissipare ogni dubbio sin dall’inizio, diciamo subito che nel museo non troveremo l’Africa dei depliant turistici e neppure quella dei negozietti che vendono collanine e statuette comprate per pochi soldi, ma riproposte a caro prezzo.
L’Africa che troveremo, invece, è quella del popolo, dell’africano che finalmente ritrova, nello spazio della Pianura Padana, il suo più ampio respiro.
Quello della Basella è un museo unico nel suo genere, in cui le preziose sculture esposte, per la maggior parte lignee, dimostrano quale elevata forma artistica abbiano raggiunto popolazioni che ci ostiniamo a definire «primitive», per il solo fatto che hanno seguito filosofie e percorsi di sviluppo propri, non coincidenti con i nostri.
Così è possibile restare estasiati ad ammirare l’intensa espressività di una mateità dei bambara del Mali, dove un bambino si avvinghia attorno alla vita della madre, protetto dalle sue braccia, o il realismo di un volto bronzeo degli ashanti o la spiritualità che emana un reliquiario bwestern.

Per evitare che il visitatore meno attento si smarrisca culturalmente tra le figure esposte, i curatori del museo hanno scelto di esibire solo le opere artisticamente più significative (una quarantina in tutto), dislocate in teche di vetro. Attraverso una serie di percorsi tematici, si è condotti da un fascio di luce, accompagnato da una voce fuori campo, a percorrere differenti itinerari che si soffermano su particolari gruppi scultorei. Di particolare interesse è il circuito dedicato alla fertilità della donna, che, oltre a mostrare le opere più interessanti esposte nella sala, delinea l’importanza del ruolo femminile nelle società africane.
Per chi volesse entrare più a contatto con la realtà attuale del continente, un filmato di una ventina di minuti dà allo spettatore la visione dei variegati aspetti delle società africane: dai calmi ritmi di vita delle popolazioni tribali alla frenesia delle città modee, senza trascurare le immagini degli slums che avvinghiano come serpenti i ricchi centri commerciali delle megalopoli.

Ma la grande peculiarità del museo, sicuramente la più amata dai bambini e numerose scolaresche che vi fanno visita, rimane la parte dedicata alle attività interdisciplinari qui proposte. Laboratori di musica e danza guidati da artisti africani o atelier di scultura e pittura, aiutano i ragazzi a immedesimarsi nel vero spirito di un continente geograficamente a noi vicino, ma intellettualmente lontano.
Per i più grandicelli, le mostre tematiche, rinnovate periodicamente, rappresentano un ulteriore approfondimento di usi e costumi delle popolazioni locali. Attualmente il museo ospita una interessante esposizione sulla simbologia dei gesti nelle varie culture africane attraverso cui ci si può rendere conto di come semplici azioni quotidiane possono assumere significati differenti, spesso addirittura opposti, a seconda delle latitudini dove questi vengono espressi.
Nel lasciare il Museo d’arte e cultura africana mi rimane impressa una frase raccolta nella locandina del museo: «C’è comunque un gesto che è universale e che ha lo stesso significato in tutta l’Africa come in tutto il mondo: il sorriso».
E questo gesto, il sorriso, a pensarci bene, in un certo senso ci rende più simili agli africani.
In fondo, tutti noi siamo un po’ africani.
Piergiorgio Pescali

Giuseppe Quattrocchio




Signore, benvenute!

Cari missionari,
desidero abbonare anche mia figlia alla bellissima rivista Missioni Consolata. Noi, in famiglia, la riceviamo da anni: è davvero un documento straordinario, da conservare sempre e da meditare.
Pertanto vi prego di mandarmi il conto corrente postale o di comunicarmi il numero per fare il versamento di denaro.
Carla Pavese
Casorzo (AT)

Cara signora Carla, per abbonare sua figlia a Missioni Consolata, può usare il conto corrente postale (ccp), allegato alla rivista stessa, che porta il suo nome; oppure può servirsi del ccp
numero 33.40.51.35
intestato a
Missioni Consolata Onlus
Corso Ferrucci 14
10138 Torino
Speriamo che sua figlia resti soddisfatta, almeno come lei… Così pure la nuova abbonata, signora Angela, appena ritornata dal Kenya.

Sono arrivata da pochi giorni dal Kenya, dove sono stata per due mesi nella missione di Wamba. Ho letto anche molti numeri della rivista Missioni Consolata, trovandola stupenda e subito mi sono abbonata. Ho trovato molto giusto quello che scrivete sui missionari. Veramente io non immaginavo che si adoperassero così tanto.
Stando due mesi, ho capito un po’ di cose; prima ero molto scettica e non pensavo (sono reduce da un grave lutto) di trovare nelle suore un amore così grande sia verso di me sia verso la gente locale.
Gli italiani, che magari sono come me (prima), sappiano che ogni soldo ricevuto dai missionari va veramente a buon fine. Sapeste quanta gente non muore di fame proprio perché ci sono i missionari. A Wamba c’è un bellissimo ospedale, e quanta gente si aiuta! Io sono tornata meno egoista e un po’ più serena.
Per favore, pubblicate questa lettera: è anche un ringraziamento. Grazie, zia Giordana Pia, grazie suor Micarnelita! Grazie a tutte le altre missionarie, delle quali non vorrei sbagliare il nome.
Angela Tosco
Bra (CN)

Anna Avanzi, Angela Tosco




Fratelli “costruttori”

Missionari a tutti gli effetti che, nel silenzio,
offrono un esempio di laboriosità,
spirito di servizio e dedizione alla gente

Nella realizzazione dei vari progetti dei missionari della Consolata, i «fratelli», nonostante la loro modestia, diventano artigiani essenziali, veri «costruttori» del regno di Dio di cui bisogna riconoscere i meriti. Ecco ciò che abbiamo potuto constatare nel nostro viaggio in Tanzania.

Fr. Paolino Rota
All’inizio della nostra visita in Tanzania, ci siamo fermati qualche ora alla procura di Dar es Salaam, prima di intraprendere la strada per Morogoro, ultima destinazione del nostro itinerario. Poco prima della partenza, per caso, fratel Paolino ci viene incontro e ne approfitto per chiedergli qualche informazione.
«Da 41 anni mi sposto qui e là nel paese – mi risponde – per dirigere gli operai e i lavori di costruzione nelle missioni, quelle dei padri come quelle delle suore».
Un numero così alto di anni mi impressiona, ma il racconto delle opere realizzate da questo fratello ancora di più. Gioo dopo giorno, anno dopo anno, ha reso immensi servizi alla missione costruendo, con l’aiuto di muratori tanzaniani, una mateità, due dispensari, la residenza dei padri nella parrocchia di Kibiti, la clinica delle suore a Mbagala, l’ospedale di Ikonda (10 anni di intenso lavoro), il centro educativo «Stella del mattino» delle suore a Ilamba, il convento di Mafinga… La lista delle opere non finisce qui: ne ha costruite talmente tante, che certamente qualcuna è stata dimenticata.
È felice, ancora pieno di energia e sempre pronto a iniziare nuovi progetti.

Fr. Liduino Lanzi
Incontro a Dar es Salaam anche fratel Liduino. Mi racconta che, dopo aver lavorato in Italia dal 1948 al 1956, è giunto in Tanzania dove è stato in dieci posti, tra il 1956 e il 1983 come falegname. A Ikonda, aggiunge con fierezza, ha pure partecipato al progetto della costruzione dell’ospedale.
Da 20 anni lavora alla procura di Dar es Salaam, rendendo ancora immensi servizi con una devozione e generosità, senza alcuna ostentazione. Oltre agli incarichi relativi al funzionamento della casa, è prezioso per missionari e visitatori che arrivano in Tanzania oppure che la lasciano: problemi di passaporti, biglietti aerei, permessi di soggiorno, viaggi per l’aeroporto… Liduino è diventato l’indispensabile punto di riferimento per tutti.
Non solo fa onore alla comunità, ma anche al suo paese: l’Italia. Per questo gli è stata attribuita una medaglia al merito del lavoro, piccolo segno di riconoscimento per tutti i servizi resi in questi 48 anni. E non pensa ancora di andare in pensione.

Fr. Nahashon Njuguna
È nel 1986 che fratel Nahashon Njuguna, di origine kenyana, scopre la sua vocazione. Influenzato dai missionari della Consolata della sua parrocchia, in particolare dal lavoro dei fratelli, esprime il desiderio profondo di diventare uno di loro. Termina le scuole superiori e si specializza in carpenteria.
Sempre in Kenya, studia filosofia prima di entrare in noviziato. Arriva, poi, in Italia dove ottiene il diploma di geometra e, con tutte queste conoscenze, pronuncia i voti perpetui nell’ottobre 1994.
Sempre in quell’anno viene inviato in Tanzania, dove comincia a realizzare i vari progetti che gli vengono assegnati. Ha già al suo attivo la costruzione di un salone parrocchiale, due chiese, alcuni locali amministrativi a Dar es Salaam, una scuola, un progetto di installazione d’acqua nella diocesi di Singida, un dispensario a Iringa. Lo abbiamo trovato intento alla costruzione di un dispensario-mateità a Ng’ingula.
Davanti agli immensi bisogni dei più poveri, il fratello sente il bisogno di costruire, e con spirito missionario, lavora con gioia nel suo servizio al popolo tanzaniano. Mi confessa di non aver mai desiderato diventare prete, ma di essere sempre stato felice come fratello. Ascoltandolo mentre parla, quando accoglie chi ha bisogno di lui o mentre lavora, è evidente che non ricerca nessuna gloria, ma compie il suo lavoro per amore di Dio e dei poveri della missione. «Mi piace essere utile alla gente» – è stata la sua conclusione al nostro incontro.
Fr. G. Franco Bonaudo
Arrivando a Ikonda, incontro fratel Gianfranco, anch’egli nella lista dei «costruttori» della missione, in Tanzania. Dopo quattro anni di volontariato in Italia, ha scelto di entrare tra i fratelli della Consolata. Inviato in Tanzania, ha già accumulato 10 anni di esperienza, lavorando a diversi progetti di costruzioni: Dar es Salaam, Kigamboni, Ubungo, Iringa e, ora, Ikonda.
I progetti di approvvigionamento d’acqua e di elettricità sono diventati la sua specialità e ne parla con entusiasmo, pensando soprattutto alla loro utilità nel servizio dei poveri della regione.

Fr. Boniface Mutisya
Tra i fratelli non ci sono soltanto falegnami o costruttori. A Mgongo ho incontrato fratel Boniface Mutisya Kyalo, di origine kenyana, che lavora attualmente come direttore del Centro di formazione professionale: una scuola dove si insegnano i mestieri di falegname, meccanico e calzolaio (non solo per riparare scarpe, ma anche fabbricarle).
Tocca a lui selezionare gli studenti, che devono aver concluso il settimo anno delle scuole elementari; saranno accolti se dimostrano desiderio e interesse per questi mestieri e sono disposti ad accettare il regolamento della scuola. Inoltre, fratel Boniface controlla che la scuola tecnica funzioni bene, occupandosi della disciplina e vegliando sull’impegno degli studenti. Dopo tre anni, gli studenti sono invitati a cercarsi un lavoro e il suo sogno sarebbe di fondare due cornoperative, per impiegare coloro che hanno terminato gli studi al Centro.

Concludendo, vorrei sottolineare il lavoro meraviglioso che i fratelli, troppo spesso dimenticati, compiono con generosità, devozione e impegno nei paesi di missione.
A tutti loro, che mettono i talenti al servizio dei più poveri, noi rendiamo omaggio, esprimendo la nostra gratitudine e ammirazione!

Ghisline Crete




I GRANDI MISSIONARI: Il vangelo gridato con la vita


Annalena Tonelli Missionaria laica, per 33 anni a servizio dei più poveri e disprezzati tra le popolazioni somale, Annalena Tonelli ha testimoniato l’amore di Dio con radicalità evangelica fino alle estreme conseguenze.  È salita alla ribalta solo dopo la sua morte, assassinata nel suo ospedale, a 60 anni.

Piccola ed esile come una canna, viso magro circondato dal velo, occhi azzurri di bambina, sorriso disarmante e volontà di ferro: il ritratto di Annalena Tonelli è presto fatto. Ha speso oltre metà della vita tra le popolazioni somale musulmane, con un solo scopo: amare Cristo nei più poveri dei poveri, fino alla morte, 5 ottobre 2003, assassinata alla fine del servizio ordinario ai suoi malati.
Ha sempre aborrito riflettori e pubblicità. In rare occasioni ha parlato di sé e del suo lavoro, per poi rammaricarsi. Nel dicembre 2001, in un convegno per la Pastorale della salute tenuto in Vaticano, costretta dagli amici, accettò di mettere in pubblico la sua storia straordinaria: è il suo «testamento missionario».


IL PRIMO AMORE
«Sono nata a Forlì, il 2 aprile del 1943. Scelsi di essere per gli altri che ero ancora bambina» cominciava così le sue testimonianze.
Mentre frequentava l’Università di Bologna, ferquentò movimenti giovanili «terzomondisti»: si appassionò alla vita di Albert Schweitzer e all’opera dei missionari.
Laureata in giurisprudenza, per sei anni prestò servizio ai poveri della città natale, ai bambini e bambine orfani e disabili.
«Credevo di non potermi donare totalmente rimanendo nel mio paese: i confini della mia azione mi sembravano così stretti, asfittici». Sognava l’India; scelse l’Africa, nonostante i familiari la sconsigliassero. «Partii decisa a gridare il vangelo con la vita, sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui».
All’inizio del 1969 era a Chinga, in Kenya, insegnante nella scuola secondaria della missione di Karima; l’anno seguente in quella governativa di Wajir, dove un altro romagnolo, Salvatore Baldazzi, missionario della Consolata, aveva avviato una Girl’s Town, per bambine orfane di guerre e carestie. Lo stesso anno fu raggiunta da Maria Teresa e insieme iniziarono una comunità.
Gli inizi non furono facili in quella regione desertica del nord-est del Kenya, tra popolazioni somale poverissime, rigidamente musulmane. Quando si seppe dell’arrivo di una maestrina bianca, gli studenti, quasi suoi coetanei o di poco più giovani, giurarono al preside che le avrebbero impedito di entrare in classe: vi insegnò fino al 1974 e fu pure preside della scuola secondaria di Mandera. Oggi molti di essi occupano posizioni importanti nella vita politica ed economica del Kenya e si vantano di averla avuta come insegnante.
«Quasi subito m’innamorai di un bimbo ammalato di sickle cell (anemia falciforme) e fame – racconta Annalena -. Gli donai il sangue e supplicai gli studenti di fare altrettanto. Uno di loro lo donò e dopo di lui tanti altri, vincendo così la resistenza dei pregiudizi. Fu la mia prima esperienza in cui, in un contesto islamico, l’amore generò amore».
Nel frattempo aprì un Centro di riabilitazione per bambini poliomielitici, ciechi, sordi, epilettici. Altre amiche romagnole si unirono a loro, diventando mamme a tempo pieno dei disabili.
«Eravamo una comunità di sette donne, tutte, in maniera e misura diverse, assetate di Dio. Quando capivamo che stavamo per perdere il senso del nostro servizio e la capacità di amare, ci ritiravamo in un eremo, per uno o più giorni di silenzio, ai piedi di Dio: là ritrovavamo equilibrio, saggezza, speranza e forza per combattere la battaglia di ogni giorno, prima di tutto con ciò che ci tiene schiavi dentro».
Mentre le compagne portavano avanti il Centro, Annalena frequentava il reparto dei tubercolosi dell’ospedale di Wajir. «M’innamorai di loro e fu amore per la vita. Erano in un reparto da disperati: li servivo sulle ginocchia; stavo loro accanto quando si aggravavano e non avevano nessuno che si occupasse di loro. Non sapevo nulla di medicina. Cominciai a studiare e osservare, poi a supervisionare la cura dei pazienti dopo la dimissione dall’ospedale».

UN PROGETTO PILOTA
La scoperta di una nuova medicina rendeva possibile curare la Tbc in 6 mesi, anziché i 12-18 richiesti fino allora, purché la cura fosse continua e regolare: condizioni impossibili per i nomadi che, al primo segno di miglioramento, ritornavano alla vita randagia.
Nel 1976 il governo del Kenya le affidò la direzione di un progetto pilota per il controllo e cura della tubercolosi a Wajir. Annalena inventò un sistema per garantire le terapie giornaliere per i sei mesi necessari, senza cambiare le abitudini dei pazienti: organizzò centri di cura a cielo aperto, chiamati T.B. Manyatta (villaggio). I nomadi arrivavano con le loro capanne legate sulla groppa dei cammelli, le smontavano e ricostruivano la loro abitazione. Fatte le diagnosi con l’esame dello sputo al microscopio, per sei mesi le foiture dei farmaci erano assolutamente regolari e l’ingestione rigorosamente supervisionata. Quando il malato era guarito, veniva sparsa la voce e la famiglia del paziente appariva magicamente in una settimana o poco più per riportarlo nel deserto.
«La T.B. Manyatta fu una grande avventura d’amore, un dono di Dio» confessa Annalena. Nel 1978, a Nairobi, tale esperienza fu presentata al Congresso mondiale sulla tubercolosi: il metodo venne subito adottato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e, col nome Dots (acronimo inglese per «breve terapia sotto diretta osservazione»), è ora applicato in tutto il mondo.

GENOCIDIO SCONGIURATO

Nel febbraio del 1984, alcuni camion di militari irruppero in alcuni quartieri di Wajir, incendiando case e arrestando i somali del gruppo degodia, accusati di essere shifta (predoni) o legati alla guerriglia: 5-6 mila uomini furono presi e rinchiusi nell’aeroporto Wagalla; per quattro giorni vennero sottoposti a torture e angherie. Cosparsi di benzina e incendiati, la maggior parte riuscirono a salvarsi togliendosi i vestiti. I sopravvissuti furono caricati sui camion e abbandonati nel deserto.
Quando si sparse la notizia della liberazione, la gente corse alla ricerca dei loro uomini, portando cibo e acqua. Annalena fece altrettanto. Così testimonia Barbara Lefkow, moglie di un diplomatico americano, fisioterapista che spesso si recava al Centro di riabilitazione: «Dipinse una croce rossa sulla Toyota, portò acqua ai sopravvissuti, li raccolse e li curò nel suo Centro; riuscì a salvae molti. Compilò e mi consegnò una lista di morti, perché la portassi a Nairobi di nascosto».
Sorpresa dai miliziani a seppellire i morti, Annalena fu picchiata. La difese un vecchio capo musulmano, confessando che lui non aveva fatto nulla per salvare la sua gente, mentre quella «straniera» aveva rischiato la vita; e gridò forte, perché tutti lo sentissero: «Nel nome di Allah, io ti dico che, se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in paradiso».
Gioali e Bbc parlarono a lungo dell’intervento di Annalena; la lista dei morti e poi le fotografie arrivarono nelle ambasciate di vari paesi occidentali: il governo kenyano dovette porre fine al genocidio. «Avrebbero dovuto sterminare 50 mila persone. Ne uccisero mille» racconta Annalena.
Sfuggita miracolosamente a due imboscate, la missionaria fu arrestata e, portata davanti alla corte marziale, fu bandita dal Kenya nel 1985.

L’AMORE FA MIRACOLI

Dopo qualche mese in Italia, Annalena andò in Spagna per seguire un corso di specializzazione sulla lebbra, poi in Inghilterra, dove conseguì il diploma in medicina tropicale. Nel 1987 partì per la Somalia e prestò servizio volontario a Belet Weyne, in una struttura medica che faceva capo al ministero degli Affari esteri italiano e diventò responsabile del controllo della tubercolosi della regione del nord-est.
Intanto nel paese dilagava la guerriglia: nell’agosto del 1990, insieme al suo team di medici e infermieri, fu aggredita, derubata e sequestrata da un gruppo di ribelli. Le truppe governative riuscirono a liberarli. Per la seconda volta Annalena era miracolosamente viva, ma strappata ai suoi poveri e malati. Da Mogadiscio continuò a spedire loro aiuti e medicinali.
Costretta a lasciare temporaneamente la Somalia, Annalena vi fece ritorno nel marzo del 1991, a Merca, 50 km a sud di Mogadiscio. Vi regnavano anarchia totale e fame nera, come nel resto del paese, privo di tutto: ospedali, dispensari, scuole.
Con grinta da manager e il coinvolgimento della Caritas italiana, prima in denaro e poi con l’invio di volontari, Annalena fece fronte alle varie emergenze: carestia, rifugiati, bambini soli e affamati, bisognosi d’ogni genere e costruì un complesso sanitario e scolastico che ha del miracoloso.
«Cercò di creare speranza, incoraggiando la gente a muoversi, a ricostruire, specialmente se stessi – scriveva in una lettera del 1993 -. Siamo 8 europei, con 131 collaboratori somali: prepariamo 5 mila pasti al giorno; curiamo l’ospedale per Tbc con 148 pazienti, il day hospital con 250 bambini, più di 400 pazienti in terapia antitubercolare, piccoli gruppi di lebbrosi ed epilettici». Organizzò classi elementari e artigianato per i bambini, scuole coraniche per piccoli e grandi, di alfabetizzazione per adulti.
Al tempo stesso Annalena doveva lottare contro l’ambiente culturale. «La tubercolosi – racconta nel suo testamento – è stigma e maledizione: segno di una punizione di Dio per un peccato commesso, aperto o nascosto; per cui si incontra gente che si rifiuta di essere diagnosticata, curata e guarita, per non ammettere di essee affetta».
Furono anni drammatici, che la missionaria sintetizza così: «Sono stata tra guerre e conflitti, testimone di devastanti carestie, violazioni di diritti umani e genocidio: credevo che in vita mia non avrei mai più sorriso, se fossi sopravvissuta a quelle catastrofi».
Tenerissima con i poveri e malati, Annalena era rocciosa e inflessibile con i potenti e prepotenti. Negli ultimi due anni dovette affrontare estenuanti beghe, ricatti, ripetute minacce, un’aggressione e qualche percossa da parte di predoni, capi clan, signori della guerra, fondamentalisti islamici: tutti attirati dall’odore dei dollari che arrivavano per le opere di Merca. Finché passò il testimone a una dottoressa inviata dalla Caritas italiana, Graziella Fumagalli, assassinata tre mesi dopo, con tre colpi d’arma da fuoco alla testa, mentre stava curando un ammalato: era la domenica del 22 ottobre 1995, giornata missionaria mondiale.

«PRINCIPESSA DI BORAMA»
L’Oms le affidò l’ospedale di Borama, cittadina di 100 mila abitanti nel Somaliland, regione relativamente tranquilla nel nord-ovest del paese. Vi arrivò nel 1996. L’accoglienza non fu cordiale: i bambini tiravano i sassi contro la sua casa, gridando: «Allah, tieni lontano quel diavolo bianco!». Ma poi, col passare del tempo, governatore, sindaco, anziani, capi clan e tutto il villaggio era con lei, fino a darle il nome di «Sara Borama» (principessa di Borama). Gli adulti la chiamavano mamma, i bambini nonna.
Cominciò da zero. Con l’aiuto di organismi mondiali (Oms, Unhcr, Undp) e nazionali (Caritas, Comitato contro la fame nel mondo di Forlì) l’ospedale passò da 30 a 250 posti letto, più un centinaio di capanne; uno staff di oltre 50 persone tra medici, infermieri e tecnici di laboratorio; 118 pazienti curati il primo anno; 1.300 il secondo.
Due volte all’anno organizzava campagne per i ciechi: in quattro giorni, un gruppo di amici specialisti operavano di cataratta oltre 330 pazienti: più di 3.700 persone hanno riacquistato la vista.
Al tempo stesso fu avviata la scuola per i figli dei tubercolosi e disabili (la prima in tutta la Somalia e Djibuti), poi ampliata per accogliere i «normali», diventando una fucina di integrazione, tra alunni «normali» e bambini poliomielitici, mutilati di guerra, ciechi, sordi, rifiuti della società (figli di fabbri, conciatori, barbieri, etnie disprezzate). Per vivere e giocare con i sordomuti, i «normali» hanno imparato l’alfabeto muto.
«È una delle esperienze più consolanti e incoraggianti, più capaci di dare speranza in un mondo in cui gli uomini vorranno essere e saranno una cosa sola» racconta Annalena.
Nell’aprile 2003 l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), le assegnò il Nansen Refugee Award, il più importante premio assegnato a chi si occupa di profughi. Oltre a riconoscere la sua opera e i valori a cui si ispira, disse l’alto commissario Ruud Lubbers, il premio voleva «dimostrare che con mezzi limitati, ma con passione ed energia senza limiti, molte vite possono essere salvate e riaccendere la speranza in molti disperati».
Schiva da ogni visibilità, Annalena avrebbe voluto rinunciare; ma gli amici la convinsero a ritirare il premio (una medaglia e 100 mila dollari), anche perché quella era un’occasione per attirare l’attenzione sulla sua «amata Somalia».

«SONO NESSUNO»
A chi le domandava come facesse a gestire una struttura ospedaliera per mille malati, spendendo appena 1.000 dollari al mese, rispondeva: «Nessun segreto: non ho due basi a Nairobi e in Europa o in America; non ho da pagare stipendi da capogiro al personale espatriato; non compro nulla all’estero».
Essa stessa viveva nella più dignitosa e radicale povertà: due tuniche, due scialli e qualche libro era tutto il suo corredo. «Io sono “nobody”, nessuno – diceva di se stessa -. Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza stipendio, senza versamento di contributi per la vecchiaia. Sono una cristiana, con una fede incrollabile, rocciosa, che non conosce crisi dai tempi della giovinezza… che mi manda avanti in condizioni di grande difficoltà».
Ed era felice. «Io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita – si legge nel suo testamento -; più sono feriti, maltrattati, disprezzati, senza voce e di nessun conto agli occhi del mondo, più li amo. Non è merito, ma un’esigenza della mia natura. Rido di chi pensa che la mia sia una vita di rinuncia e sacrifici. La mia è pura felicità; chi altro al mondo ha una vita così bella?».
Unica «sofferenza indicibile» era la povertà spirituale: non aveva nessuno che condividesse la sua fede rocciosa e con cui condividere ciò che provava e sentiva dentro, eccetto il vescovo di Djibuti che, due volte l’anno, attorno a natale e pasqua, andava a Borama per celebrare la messa solo per lei e con lei.
A Borama, come era capitato a Wajir, la gente pregava per la sua «salvezza», cioè, perché diventasse musulmana. Gliene parlavano spesso, con discrezione. Ma, dopo che un imam aveva predicato che in tutta la sua vita non aveva mai visto fare quello che faceva quella «infedele» e che anch’essa sarebbe andata in paradiso, la lasciarono in pace.
Integrata profondamente nella vita della gente, Annalena poteva dire: «Ai somali molto ho dato. Dai somali molto ho ricevuto». Tre doni soprattutto: il valore della famiglia allargata, in cui tutto è condiviso, almeno all’interno del clan; l’esempio di preghiera, cinque volte al giorno, con l’interruzione di qualsiasi cosa per dare tempo e spazio a Dio; l’esempio di fede rocciosa, specie dei nomadi del deserto, l’abbandono incondizionato e la resa a Dio.
E continua: «Poi la vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile… che l’eucaristia racchiude un messaggio rivoluzionario: “Questo è il mio corpo, fatto pane, perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini”».

L’ULTIMA BEATITUDINE
Ma agli occhi dei musulmani più fanatici Annalena aveva tre vizi capitali: era bianca, per cui considerata di razza inferiore a quella somala; era donna, per ciò di nessun peso in una società maschilista; era cristiana, quindi temuta, disprezzata, rifiutata; non era sposata, un assurdo in un mondo in cui il celibato non esiste ed è un non valore.
Inoltre, tubercolosi, Aids, disabilità, epilessia, malattie mentali… per gli integralisti sono sinonimi di castigo di Dio: Annalena aveva fatto di Borama un paese maledetto, screditato in varie parti del mondo dove era giunta la fama della sua opera.
Negli ultimi due anni, poi, Annalena aveva lottato contro certe aberrazioni culturali: con due infermiere ostetriche e due capi locali, portava avanti una grossa campagna per eradicare l’infibulazione e altre mutilazioni femminili. A qualcuno non andava a genio che una donna, bianca, infedele, cercasse di cambiare la loro cultura.
Un imam predicò che quella «infedele» se ne doveva andare: un gruppo di persone presero a sassate il centro ospedaliero, che dovette essere chiuso per tre mesi. Seguirono altre intimidazioni, finché la sera di domenica 5 ottobre 2003, appena rincasata dal solito giro in ospedale, Annalena fu assassinata con due colpi di pistola alla testa.
Si è parlato di un pazzo, di banditi, di vendetta, di fondamentalisti… Serve a poco scoprire il colpevole. Rimane la verità e la logica di tutta la sua esistenza: Annalena ha predicato il vangelo con la vita, vivendolo fino all’ultima beatitudine: «Vi perseguiteranno per causa mia; mentendo, diranno ogni male contro di voi; vi metteranno a morte, credendo di dare gloria a Dio».

Benedetto Bellesi