Dossier – Bisturi miracoloso

È il primo volontario laico che ha legato la sua vita a quella dei missionari e missionarie della Consolata, spendendosi a favore degli africani.
A 50 anni dalla morte, la sua memoria è sempre viva tra la gente del Kenya, non solo per la sua professionalità, ma soprattutto per la grande umanità e profonda fede cristiana che hanno animato la sua scelta.

«Ho l’onore di incontrarmi con il medico più famoso del Kenya e il più grande amico degli africani»; così Jomo Kenyata, in visita all’ospedale della Consolata di Nyeri, salutava il dottore Paolo Chiono, nel 1950, mentre il leader kenyano percorreva il paese arringando le folle contro il potere coloniale.
Il dottore non fece caso alla prima definizione, ma si compiacque della seconda: era quello che voleva essere e tale si sentiva, grande amico degli africani.
«dottore buono»
Era nato a Castellamonte (Torino), il 20 agosto 1909, da famiglia benestante. Frequentò il liceo Botta di Ivrea; quindi s’iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Torino, dove conseguì la laurea nel 1933 e fu assunto come assistente volontario presso la clinica chirurgica all’ospedale «San Giovanni». In breve tempo acquisì notevolissime capacità professionali, specialmente in campo chirurgico e urologico.
Scoppiata la guerra in Etiopia, nel 1935, chiese e ottenne di parteciparvi come sottotenente medico. L’anno seguente sbarcò a Massaua e proseguì verso il cuore dell’altopiano etiopico, al seguito dell’esercito. Negli scontri con i soldati etiopici i feriti erano così numerosi da dovere operare notte e giorno. Senza risparmiarsi, il dottor Chiono curava tutti, sia italiani che etiopici. Nei momenti tranquilli si dedicava all’ambulatorio degli indigeni.
Da Addis Abeba così scriveva alla zia Antonietta: «La mia vita qui è piena di lavoro senza soddisfazione. Però il maggiore medico ora non muove un dito senza chiedermi consiglio. Il lavoro è enorme; e tu sai che se io lavoro, non faccio le cose a metà. Ne ho da mattina a sera».
Alla fine del 1937 si fece trasferire all’ospedale militare di Lechemti, nel Wollega, 400 km a ovest della capitale, perché «stanco di stare sotto padrone – scriveva alla zia -. Volevo essere libero di fare a modo mio per i pochi mesi che rimangono da trascorrere ancora in Africa».
Fare a modo suo significava non concedersi un momento di riposo, fino a soffrire di esaurimento e inappetenza: operava nell’ospedale, prestava servizio presso l’ambulatorio della missione dei padri e suore della Consolata, visitava i malati a domicilio, si spingeva nei villaggi più sperduti, curava i più poveri e dimenticati, fino a distribuire loro corredo e stipendio. A una suora che gli faceva osservare come in una settimana la busta paga era già vuota, rispose con un sorriso: «Che m’importa di avere più quattrini o meno? Quando ne ho a sufficienza per vestirmi e nutrirmi, mi basta».
Gli africani lo definirono subito «il grande medico che vuole bene agli africani». Il tam tam della brughiera ne sparse la fama di dottore prodigioso, che curava le malattie inguaribili: i pazienti affluivano dalle regioni più lontane.
All’inizio del 1938 fu chiamato in Italia al capezzale del padre. La popolazione di Lechemti e dintorni salutò l’akimi garidà (il dottore buono) piangendo e accompagnandolo per 4 km; anche lui si commosse fino alle lacrime.
medico e missionario
A Torino il dottor Chiono riprese l’attività nella clinica chirurgica dell’Università; si iscrisse a corsi di specializzazione in chirurgia e urologia; vinse due concorsi per un posto in ospedale ad Aosta e Savona, ma vi rinunciò. Amici e colleghi gli prospettavano una brillantissima carriera professionale e accademica, ma nulla riusciva a renderlo felice.
L’esperienza etiopica, la povertà degli africani e i loro bisogni in campo medico, il contatto con i missionari e missionarie della Consolata lo avevano cambiato. Ancor prima di tornare in patria, aveva ventilato l’idea di spendere la vita a servizio dei poveri in qualche paese africano, dove sarebbe stato più utile che in Italia. Ma come? Non esistevano organizzazioni inteazionali a cui appoggiarsi.
L’idea del dottor Chiono era giunta, tramite le suore, nella missione di Nyeri (Kenya), dove l’ospedale appena costruito era alla ricerca disperata di un medico. Nel maggio 1939 mons. Carlo Re, vicario apostolico di Nyeri, di passaggio in Italia, propose al dottore di recarsi nella sua diocesi per dirigere i servizi sanitari come medico missionario. La proposta fu per lui come un invito a nozze; seduta stante rispose: «Sarò medico missionario».
Per evitare che il lento distacco diventasse un’agonia, tenne nascosta la sua scelta ad amici e colleghi: diede loro l’addio per telefono, da Messina, prima d’imbarcarsi sulla nave Rosandra. Era il 23 ottobre 1939. «È fatto, padre! Sono missionario come voi» disse a uno dei missionari che lo accompagnavano, appena la nave uscì dal porto.
Giunto a Nyeri, ancora vestito da viaggio, fu chiamato per un difficile intervento su una partoriente: il laborioso taglio cesareo salvò madre e figlio. E subito, come capita in Africa, si sparse la voce che alla missione era arrivato un medico «giovane e buono» che si sarebbe preso cura degli africani.
In poco tempo organizzò l’attività dell’ospedale con tutti i suoi servizi e visite periodiche ai dispensari delle altre missioni. Di notte scriveva articoli su elementari norme di igiene, da pubblicare in lingua kikuyu sul mensile Wathiomo Mukinyu (L’amico vero). Insisteva nel dire che non bastava curare le malattie, ma bisogna cogliere ogni occasione per istruire ed educare.
Per otto mesi si prodigò come era suo stile, prendendosi uno svago e riposo mentale, in qualche fine settimana, andando a caccia. Al ritorno, distribuiva di persona la carne alle varie cucine della missione.
tra i reticolati
Ma arrivò il fatidico 10 giugno 1940: l’Italia entrò in guerra e tutti i missionari italiani, lui compreso, furono arrestati e inteati, prima a Kabete, presso Nairobi, poi a Koffiefontein (Sudafrica), dove rimase per tre anni, insieme a un migliaio di altri prigionieri civili e militari.
Anche qui il dottor Chiono continuò la sua opera di medico e di missionario: fu soprattutto grazie a lui che il 98% degli inteati ritornarono alla pratica religiosa.
A metà agosto del 1943, dottore e missionari furono riportati nel campo di Kabete. Dopo un anno di trattative diplomatiche, i padri poterono tornare nelle loro missioni, mentre il dottore, sospettato per i suoi trascorsi in Etiopia, fu trattenuto ancora un anno, «il più terribile della mia vita» racconterà più tardi.
«La mia anima è piena di mestizia – scriveva ai familiari – e cerco disperatamente rifugio in Chi solo può tutto». Nonostante godesse di grande prestigio presso i compagni di sventura e le autorità, tanto da essere chiamato per i casi più difficili a operare nell’ospedale civile di Nairobi, solo la preghiera e le notizie provenienti da Nyeri riuscivano a fargli superare lo stato di tristezza.
I missionari tentarono tutte le strade, fuori e dentro la colonia, per liberarlo dalla prigionia, finché si rivolsero al «Consiglio indigeno» di Nyeri: l’assemblea di cattolici e protestanti inviò una petizione alle autorità coloniali, illustrando come l’opera del dottore era indispensabile ai kikuyu. E fu liberato finalmente.
«da paolo non si muore»
Nel settembre 1945 il dottor Chiono fece ritorno al suo ospedale e riprese il lavoro con entusiasmo e dinamismo, come se volesse recuperare i cinque anni perduti in prigionia. Anzitutto istituì un corso per infermiere africane, per avere personale locale specializzato sia in ospedale che negli ambulatori delle varie missioni: tre di essi furono affidati a suore indigene. «La loro formazione – scriveva – mi è costata enormi sacrifici, se pensiamo alla poca istruzione avuta in precedenza, ma sono felice di averli fatti, vedendo gli ottimi risultati».
Alcune operazioni chirurgiche e conseguenti guarigioni avevano del miracoloso agli occhi degli africani, che pensarono a diffondee la fama in tutto il Kenya. Il suo nome era diventato una leggenda. «Kwa Paulo gutikuaguo» (da Paolo non si muore) dicevano con uno slogan che passava di bocca in bocca.
Ma la fama moltiplicava il numero dei pazienti, obbligando il dottore a orari massacranti, interrotti soltanto dal tempo dedicato alla preghiera e all’hobby della caccia e pesca.
Ben presto arrivarono i riconoscimenti ufficiali: nel 1950 Kenyata lo definiva «il più grande amico degli africani»; le autorità coloniali lo additavano ad esempio; lo stesso anno, dal Vaticano, arrivò la nomina a Cavaliere dell’Ordine di san Gregorio Magno. L’anno seguente scoppiò improvvisa la rivolta dei mau mau contro il governo coloniale inglese. Il dottor Chiono curava tutti, feriti ribelli e loro vittime, senza chiedere da che parte stessero, guadagnandosi il rispetto dei guerriglieri, che gli fecero pervenire questo messaggio: «Uccideremo tutti i bianchi, te no!». Avvalendosi di tale garanzia, si spingeva nei posti più pericolosi per soccorrere i feriti.
bisturi e rosario
«Mi sono creato un piccolo mondo e me lo vivo» scriveva alla sorella Nella. L’ospedale, curato nei minimi dettagli, portato da 20 a 100 posti letto, aggiornato con laboratori e attrezzature sempre più modee ed efficienti, e poi la formazione del personale, la ricerca scientifica sulle patologie tropicali, medicine vegetali, cura e prevenzione di malattie dovute a situazioni sociali, ambientali e culturali… erano il suo mondo, in cui si sentiva pienamente realizzato.
La chirurgia, soprattutto, era per lui un’arte bella: dopo certi interventi provava la soddisfazione che ha un artista davanti alle sue opere migliori. «Ho meditato sul mio bisturi – confessava un giorno a suor Giulietta, sua aiutante -. Più lo medito e più comprendo che grande cosa abbia fatto il Signore, quando diede all’uomo la capacità e la scienza di usarlo: quante vite si può salvare!».
Ma il dottor Chiono non si attribuiva il merito dei suoi successi, come aveva scritto in un foglietto, conservato nel suo libro di preghiere: «Sono io che taglio, ma chi fa tutto il resto e guarisce è il Padre Eteo: che cosa potrei fare io se Egli non mi aiutasse?».
In gioventù egli aveva ostentato un certo snobismo da libero pensatore; ma durante l’esperienza etiopica ritoò con fervore alla pratica religiosa; negli anni seguenti, preghiera e meditazione furono la spina dorsale della sua vita di medico e missionario. «Credi alle mie parole – scriveva al cognato dottor Pesando -, conosco la vita, gli uomini e le cose. La mia conoscenza è stata affinata da anni di sofferenza e di solitudine, solo rallegrata dalla parola scritta dai Grandi, che sono gli unici miei amici».
Prima di ogni intervento pregava e faceva pregare assistenti e pazienti. Il rosario, soprattutto, era la preghiera preferita. In auto era sempre lui a invitare i compagni di viaggio, missionari compresi, a recitarlo, dicendo «che quello era il migliore preventivo contro il mal di schiena».
Un giorno smarrì il suo rosario; lo trovò la mattina seguente su un tavolo dell’ospedale: lo prese con un sospiro di sollievo, dicendo: «L’ho cercato fino a mezzanotte».
«Con le scarpe ai piedi»
Impegnato senza riserve per la salute altrui, il dottor Chiono non ebbe altrettanta sollecitudine per quella propria. Nel 1951 fu colpito da malaria cerebrale, che superò con un periodo di vacanze al mare di Mombasa. L’anno seguente ebbe un secondo attacco: ancora convalescente riprese il suo lavoro all’ospedale.
Era cosciente della gravità della sua situazione; ma a chi gli consigliava di tornare in Italia per rimettersi in sesto, un giorno rispose: «Vorrei morire con le scarpe ai piedi, come un soldato sul campo di battaglia: morire in sala operatoria, con il bisturi in mano». E fu così.
Il 3 luglio 1953, visitò tutti i pazienti e preparò strumenti e libri per andare a sostituire un collega nell’ospedale di Nkubu; ma durante la notte fu colpito dal terzo attacco di malaria e fu fatale. Spirò la mattina del 6 luglio, assistito dai missionari e dal vescovo mons. Carlo Cavallera, dopo aver cercato di dare un ultimo bacio al crocifisso.
Fu sepolto nel cimitero della missione e, dieci anni dopo, i suoi resti furono trasferiti all’interno stesso del suo ospedale, vicino alla cappella, ove si trovano tutt’ora. Accanto alla tomba è stato di recente inaugurato il reparto di oculistica, ad opera della Fondazione Paolo Chiono, creata dall’omonimo nipote dell’illustre medico missionario.
Ancora oggi in Kenya la sua figura è ricordata con grande venerazione, non solo per la professionalità, ma soprattutto per i valori umani e cristiani profusi a favore degli africani, come testimonia pure il suo testamento: «Ho amato i kikuyu senza misura né limite, come del resto loro sanno; e auguro loro da questo letto la elevazione e la redenzione completa e sollecita». •

Benedetto Bellesi




Buona fortuna sister Magdalena

Una nidiata di orfani, circondati
dall’affetto di cinque «missionarie
della carità».
Che continuano
a diffondere
nel mondo
il «dono»
di Madre Teresa.

Ormai sono passati due anni dalla nostra indimenticabile esperienza in Kenya; ma è come se avessimo ancora nelle orecchie le voci e le grida allegre dei bimbi dell’orfanotrofio di Maralal.
Ma facciamo un passo indietro.

Agosto 2001,
Torino-Nairobi, Nairobi-Suguta Marmar, dove c’era il nostro «campo base», coloratissima sede da cui, ogni mattina, partivamo per una «missione» diversa: c’erano giornate in cui andavamo a visitare i villaggi più sperduti, per portare vestiti o medicinali; altre con l’impegno della catechesi alle donne e ai bambini; altre ancora, in cui si correva per celebrare la messa in più posti; e poi, finalmente, il meritato giorno di riposo, in visita al vivacissimo mercato di Maralal! Ci assaliva subito un’euforia strana: gli occhi ci si riempivano di colori e il naso degli odori più diversi: stoffe, spezie, animali, pile di collanine di tutte le forme e dimensioni, e, dulcis in fundo, caratteristici personaggi nostrani.
Ed è proprio durante queste nostre giornate a Maralal, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere sister Magdalena e la sua grande schiera di «tesori». Nella cittadina, infatti, c’è l’unico orfanotrofio del distretto Samburu. Sulla via principale, dietro un muro completamente scrostato e una piccola porticina di ferro, in realtà si apre un grande mondo: panni colorati stesi al sole, giochini sparsi per il cortile e poi loro, le cinque magnifiche padrone di casa, attorniate da una schiera di pulcini, tutti occhioni e sorrisi!
A capo delle cinque suore missionarie della carità (l’ordine di Madre Teresa di Calcutta) c’è suor Magdalena, la superiora, responsabile della struttura, ormai da cinque anni. Dopo le presentazioni e una visita nei locali dell’orfanotrofio, le suore ci hanno gentilmente offerto un thè caldo, mentre suor Magdalena si è seduta con noi, iniziando a raccontarci la sua storia e quella del suo operato a Maralal…

Raccontava,
per esempio, di quando la mattina uscendo in strada, a volte trovavano fagottini lasciati espressamente davanti alla loro porta, con dentro bimbi abbandonati: le famiglie infatti, sapendo di non poterli accudire e mantenere, preferivano privarsene, lasciandoli in un porto sicuro, dove cibo e una sana educazione non sarebbero mai mancati! O quando tutti i bimbi piangevano insieme, perché era l’ora della pappa e le cinque suorine, da sole, non riuscivano a tenere il ritmo!
La cosa che ci ha colpito di più è stata quella di entrare nel dormitorio: tante piccole testoline nere, dentro una trentina di lettini blu, si sono girate al nostro arrivo e, dopo il primo momento iniziale di silenzio e stupore, c’è stato chi si è messo a ridere, chi a piangere e chi si rintanava sotto le copertine per la timidezza. Erano bellissimi, ce li saremmo portati a casa tutti quanti!
Ora siamo ancora in contatto con suor Magdalena. In questi due anni ci siamo scritti lettere e cartoline, noi raccontando il nostro solito tran-tran quotidiano e loro aggioandoci sui piccoli progressi dell’orfanotrofio: ampliamento delle strutture, camerette per i bimbi, rinnovo della sala mensa e nuove divise scolastiche per gli scolaretti.
Per due anni abbiamo anche raccolto e mandato loro vestitini, scarpe e giochi; loro ci ringraziavano, mandandoci disegni e foto. Non avremmo potuto chiedere di meglio!

Con l’ultima lettera
però, abbiamo appreso che suor Magdalena, alla fine di gennaio, è stata trasferita in un’altra città, in un altro continente, per un’altra missione. Il suo operato a Maralal è finito.
Ci ha detto che è triste, che i «suoi bimbi» le mancheranno parecchio, che ha paura di soffrire il cosiddetto «mal d’Africa»… ma anche che «le strade del Signore sono infinite» e che, dunque, è pronta ad affrontare il nuovo incarico con la stessa vitalità e lo stesso entusiasmo. Perché lei ha stretto un patto con il Signore: ha scelto di essere missionaria della carità nel mondo!
Cara suor Magdalena, sai che dovunque andrai, noi ti sosterremo sempre e ti saremo vicini, con il pensiero e la preghiera…
Buona fortuna!

Rosa e Rosetta

«H o conosciuto la famiglia di Madre Teresa, sua mamma Drane e la sorella Aga, quando sono venute a vivere nell’appartamento sopra al mio. Come d’abitudine, mi sono presentata, dando il benvenuto. Sono stata accolta con grande calore e subito tra di noi si è sciolto il ghiaccio». Sono le prime parole della signora Myzejen Mero, vicina di casa della famiglia di Madre Teresa, negli anni trascorsi a Tirana.
«La signora Drane aveva già 82 anni ed io la chiamavo Loke (che significa mamma), come voleva essere chiamata da tutti. Era una donna piccola, molto magra, con grandi occhi e uno sguardo solare. Parlava la lingua kosovara; chiamava Teresa “Gonxhe Jul” (che in turco significa rosetta) e da lei veniva chiamata “Drano File”, rosa. Tutte le lettere che riceveva dalla figlia suora iniziavano con “Cara Drano File”.
È stato quando Teresa aveva terminato il ginnasio che Loke, vedendo la figlia silenziosa e pensierosa, scoprì che stava maturando il desiderio di consacrarsi al Signore, ma glielo impedì. Forse per paura di una nuova perdita, dopo quella del marito (avvelenato) e di vari cugini (morti di tubercolosi). Ma il Signore opera per vie a noi sconosciute e, successivamente, Teresa si ammalò di tifo e cadde in coma per tre giorni. Ormai le avevano già preparato l’abito bianco quando, piano piano, si riprese.
Di fronte ad un tale avvenimento e all’insistenza della figlia, Loke le rispose: “Va bene, mi hai convinta. Se fossi morta, non ti avrei più vista con gli occhi e non avrei più udito la tua voce; ma adesso che sei ancora in vita, anche se sarai lontana, non potrò vederti, ma almeno potrò ancora sentire la tua voce”. E fu così che ebbe inizio la grande avventura di colei che oggi, con affetto, noi chiamiamo Madre Teresa.
Lo stile di Madre Teresa si vedeva nella corrispondenza che teneva con la sorella Aga. Le lettere erano sempre brevi, ma non mancavano mai le foto dei bambini lebbrosi, a cui la Madre stava dedicando la vita. Così, anche quando Loke fu colpita da sclerosi multipla ed Aga le raccontò tutte le cure che le prestava, Madre Teresa le rispose brevemente: “Beata te, che stai curando la mamma e stai diventando per lei come un angelo custode”. Quando morì, scrisse semplicemente: “Beata la mamma, che si è riunita agli angeli del cielo”.
Ancora in vita, Loke ed Aga erano sempre serene e vivevano aiutando i bambini del vicinato. Aga veniva chiamata zia e ogni anno, a settembre, preparava a tutti la divisa per la scuola. Era una ragazza molto onesta, di forte esempio, che entrava nelle case e custodiva i segreti di ognuno. Erano entrambe benvolute da tutti; quando Loke morì, ognuno diede il suo contributo, seppellendola secondo il rito cristiano, in un paese dominato dalla dittatura e dal rancore verso ogni forma di fede.
Abbiamo continuato a stare vicino ad Aga, ma dopo un anno anche lei è stata poco bene; ha avuto un infarto ed è stata ricoverata. Spontaneamente, tutti ci siamo organizzati per darle l’assistenza che meritava! Personalmente, sono riuscita a salutarla proprio il giorno prima della sua morte: era molto triste, ma serena. Hanno vissuto bene ed hanno lasciato un importante messaggio di speranza attorno a loro».
Chiara Minutella
e Ermal Rexhepi

Alessia Magnetto




Come padre Luigi

Cari missionari,
Missioni Consolata mi piace molto. È sempre ricca di servizi con temi di varia natura. Apprezzo gli articoli riguardanti i missionari; li ammiro tantissimo, perché danno tutto, compresa la vita.
Io ne so parecchio, essendo anche cugina di padre Luigi Andeni, ancora oggi rimpianto da tutti in Kenya.

Andreina Biondi Ferrari




Grazie, padre Franco

Egregio direttore,
se crede opportuno, la prego di far pervenire a padre Franco Soldati la seguente lettera.
«Carissimo padre Franco, mi hanno detto ciò che ti è capitato. Pertanto hai dovuto cedere e sei tornato in patria, nella nostra civiltà… avanzata, che ti farà vivere più a lungo, finché i medici non ti molleranno. Tu hai detto: fiat.
Tu che in Kenya, insieme al professor Operti, hai compiuto «il miracolo delle stampelle» per tanti poliomielitici (miracolo che il tuo caro fratello, padre Gabriele, ha pure filmato)… tu che hai ridonato la speranza (anche umana) a tante persone, oggi ti ritrovi blocccato per sempre.
Mi dicono che anche la tua mente… vagola.
Così le estremità del corpo (testa e gambe) incominciano odorare di… aldilà.
Volevo venirti a trovare ad Alpignano, dopo 32 anni dal nostro ultimo incontro in Kenya. Ma ho preferito non disturbare i tuoi ricordi. Preferisco ricordarti «in cammino», per aiutare i malati nel corpo e nello spirito. Preferisco rivedere i miei filmati, fatti a Tuuru nel 1971, le foto, le lettere che i miei alunni spedivano ai tuoi bambini…
Grazie di esserti donato a tutti. Grazie ai tuoi confratelli che ti stanno vicino con tanta tenerezza.

A padre Franco Soldati, 83 anni, rientrato dal Kenya per ragioni di salute, sono stati amputati interamente gli arti inferiori. Il 4 gennaio scorso moriva ad Alpignano (TO) nella «casa anziani» dei missionari della Consolata.

Tanina Vitale




La vita è sempre missione

Sono un’animatrice missionaria e non so a chi scrivere. Ma devo contattare, in qualche modo, qualcuno dei missionari della Consolata per dire grazie di aver mandato nella nostra parrocchia i padri Pietro Moretti e James Lengarin.
Mentre facevo una valutazione dell’andamento della nostra comunità parrocchiale (molto complessa, perché numerosa e con tante realtà), mi rendevo conto di quanto lavoro si sia fatto da quando ci sono i padri Pietro e James. Solo se i «pastori del gregge» sono forti e perseveranti nella provvidenza di Dio può avvenire questo.
Si, è vero: stiamo cambiando il nostro modo di vedere la parrocchia, la quale sta diventando un vero e proprio campo di missione. Diciamo: una piccola Africa a portata di mano. È questo che i nostri padri cercano sempre di insegnarci: vivere nella comunità e per la comunità, come una seconda casa, una famiglia, dove ogni componente deve sentire corresponsabilità che diventa «con-passione» per il prossimo.
Io appartengo, in un certo senso, ai missionari della Consolata, soprattutto da quando, tre anni fa, partecipai al pellegrinaggio Torino-Assisi-Roma, in occasione del centenario dell’Istituto Missioni Consolata. Quella meravigliosa esperienza ha dato un senso alla mia esistenza, delle risposte chiare: fare missione ovunque mi trovo. Non importa se non andrò in Africa. Voglio che la mia vita sia sempre missione.
Ma questo ideale svanisce subito se non si hanno testimonianze forti accanto. Queste le ho avute e le abbiamo con i padri Pietro e James, «i padri col grembiule», sempre «al servizio», anche solo per farti «una scrollata di pianto come sfogo».
Ringrazio il beato Giuseppe Allamano per la vocazione di questi missionari; ringrazio la Provvidenza che li ha mandati nella nostra parrocchia.
Grazie a chiunque legga questa lettera.

I padri Pietro Moretti e James Lengarin (il primo già missionario in Kenya e il secondo un samburu dello stesso paese) sono stati rispettivamente parroco e viceparroco di Galatina (LE). Oggi padre Pietro opera a Bedizzole (BS) e padre James a Martin

Maria Luce Bianco




Davvero poco praticante?

G razie, grazie di cuore per il numero di ottobre/novembre, interamente dedicato alle guerre. Ho letto e riletto ogni articolo, ogni annotazione, ogni piccolo inserto. Mi sono serviti per riflessioni, per prendere appunti, per parlarne e sensibilizzare altre persone.
Da appassionato viaggiatore, alla continua ricerca di gente da incontrare e realtà da conoscere (avevate pubblicato qualcosa di mio nel 2002 sullo «speciale Kenya»), ho trovato, negli articoli delle zone che meglio conosco, piena rispondenza con quanto la gente mi confidava (quasi parlasse a se stessa) davanti ad un tè, una focaccia o un pugno di riso.
In ogni articolo traspare la verità (mille e mille volte ripetuta, anche senza citarla) che a subire le peggiori conseguenze di ogni conflitto è sempre la «gente normale», la gente che noi incontriamo ogni giorno in ascensore, in autobus, nei supermercati.
Su una immaginetta, che per motivi affettivi conservo come una reliquia da oltre 40 anni, c’è una frase a cui ho sempre cercato di attenermi: «Solo lo stolto percorre correndo il cammino della vita, senza soffermarsi ad osservare le bellezze del creato». E, al centro di queste bellezze, il Grande Artefice ha posto l’umanità. Riuscirà mai il politico, l’uomo di governo e l’ambizioso di potere a capirlo?
Se guardiamo a ritroso la storia, le risposte sono poco confortanti. Ma la speranza non costa niente. Soprattutto se comincia a farsi strada nei giovani la volontà di propagarla. Che vita difficile avrebbero i fabbricanti e trafficanti d’armi! Né più né meno come i produttori di superalcornolici e sigarette in comunità di astemi e non fumatori.
Sicuramente qualche lettore (spero pochissimi) sarà in disaccordo con l’impostazione del numero. Forse quei lettori vorrebbero sempre foto di bambini che corrono felici sul cortile della missione, o che assistono a funzioni religiose. Ma a quanti bambini tutto questo viene negato dall’imposizione di una divisa militare o da lavori disumani dall’alba al tramonto?
Nelle realtà attuali dimentichiamo il «missionario/predicatore porta a porta», che misura il suo successo nel numero di conversioni, quasi si trattasse di un venditore di aspirapolvere. È il vivere la quotidianità con la gente del posto, condividee i sacrifici, lottare al loro fianco contro le ingiustizie, aiutare a risolvere i problemi contingenti che i governi trascurano (acqua, cibo, scuole, dispensari, assistenza medica, ecc.), predicare l’amore con l’esempio… che rende una missione (e lo spirito religioso che la anima) forte e credibile.
È possibile che molti i quali frequentano missioni e missionari non si convertiranno mai totalmente al cattolicesimo, perché il legame con la religione ancestrale è troppo forte per poterlo abiurare. Ma la loro stima, la loro lealtà, il loro attaccamento, il loro aiuto materiale non verrà mai a mancare.
«La legge dell’amore – scriveva Carrel in “Viaggio a Lourdes” – dà a ciascun individuo due ordini essenziali. Il primo è di voler bene agli altri. Il secondo è di correggersi dei difetti e dei vizi che impediscono agli altri di volergli bene».
E in un altro passo: «Voi dunque non insegnate ai vostri novizi a fare orazioni – diceva un prete a don Alexis -. E don Alexis rispose: “Io insegno loro a fare della vita una perpetua orazione”».
E dall’esempio di molte di queste orazioni, praticate dai missionari (uomini e donne), io, credente ma poco praticante (se per praticante intendiamo solo regolare frequentazione dei luoghi di culto), ho ricevuto tantissimo.

Mario Beltrami




ETIOPIA – Fame di Dio

Crocevia tra nord, sud ed est del paese, Modjo è pure un luogo strategico delle attività dei missionari della Consolata: opere sociali e pastorali, seminario minore e animazione missionaria vocazionale, fino a diventare un punto di riferimento per la formazione giovanile e centro di spiritualità per preti e religiosi.

Non c’era un filo d’erba verde, 10 anni fa, quando padre Domenico Zordan mi fece visitare il luogo dove stava costruendo la missione di Modjo, lembo meridionale della diocesi di Addis Abeba. Non un albero per ripararsi dal sole, che, sull’altipiano etiopico, sembra più implacabile che altrove. Nel grande prato arido, reso più vasto dalla mancanza di recinzione, unico segno di vita erano i muratori, intenti a ultimare la costruzione dell’asilo e innalzare i muri del salone e del seminario.

Oggi, ritornato nello stesso luogo, mi sembra di sognare: un bel viale di jacarande immette in un’oasi di pace, con prati verdi, vialetti alberati e siepi in fiore che circondano una nutrita serie di edifici; da una parte la casa dei padri, il seminario, il salone l’ampia chiesa e gli edifici del centro di animazione missionaria; dall’altra parte, divisa da una rete metallica e un enorme cancello in ferro, sorgono l’asilo, il dispensario, il centro di promozione della donna e l’abitazione delle suore della Consolata che gestiscono queste attività; in fondo c’è la scuola elementare, costruita dai missionari e consegnata alla gestione governativa. Nonostante l’ampiezza dello spazio, tanti edifici sembrano allo stretto.

UNA SCELTA RESPONSABILE

Si sa come vanno le cose in Etiopia: la chiesa cattolica è considerata quasi come una Ong e la presenza di missionari è condizionata dalla gestione di opere sociali; ma, una volta ottemperata a tale condizione, è libera di svolgere le attività religiose a piacimento.
È così che a Modjo, nel grande terreno concesso dal comune per le opere sociali, i missionari della Consolata hanno costruito anche un seminario minore, per preparare gli aspiranti missionari.

«Attualmente abbiamo sette seminaristi – spiega padre Antonio Benitez -: quattro hanno terminato i dieci anni della scuola d’obbligo e frequentano l’undicesima e dodicesima classe nella scuola statale della città; gli altri tre fanno un anno di propedeutica, cioè di preparazione per entrare nel seminario maggiore di Addis Abeba e frequentare i corsi di filosofia».

Padre Antonio, giovane missionario della Consolata colombiano, è arrivato in Etiopia due anni fa e da pochi mesi è approdato a Modjo, immergendosi totalmente nella vita della missione: insegna nella scuola matea, aiuta nella pastorale e nella formazione dei seminaristi. Anzi, al momento della visita ha la piena responsabilità del seminario, poiché il direttore, il kenyano padre Gabriel Odwori, è in vacanza.

«È un’esperienza gratificante – continua il padre -, anche se non mancano le difficoltà, soprattutto a livello di comunicazione: io sono ancora alle prese con l’apprendimento della lingua amarica e i seminaristi, provenienti da diverse etnie, kambatta, adiya, oromo, hanno difficoltà ad esprimersi in inglese».

Quello dell’inglese è un problema cruciale per tutti i giovani che vogliono accedere agli studi superiori, dove l’insegnamento è impartito in questa lingua: un esame di stato, tutto in inglese, dichiara l’idoneità a tale passaggio. Ma poiché nella scuola statale questa lingua viene appresa ad orecchio, senza badare troppo alla scrittura, per affrontare tale esame è necessario un supplemento di preparazione.

Per questo, buona parte del tempo dell’anno propedeutico è impiegato dai seminaristi nello studio dell’inglese e in corsi di vario genere, per colmare eventuali lacune nella formazione intellettuale e spirituale.

«Anzitutto – continua padre Antonio – i giovani hanno bisogno di approfondire la dottrina cristiana, poiché le nozioni apprese sono alquanto superficiali e tradizionali; inoltre, diamo loro lezioni di bibbia, psicologia e formazione umana. Essi sono ancora alla ricerca della loro vocazione e hanno bisogno di chiarire le motivazioni delle loro scelte».

Negli anni passati il seminario di Modjo aveva più di una ventina di aspiranti missionari; quest’anno sono solo sette. Eppure in Etiopia c’è abbondanza di ordinazioni sacerdotali e vocazioni alla vita religiosa.
«È vero. Ma dovremmo domandarci come mai ci siano tante vocazioni – interviene padre Paolo Angheben -. Si rimane stupiti se le confrontiamo col piccolo numero dei nostri cristiani. Una superiora provinciale etiopica, passando a Modjo, mi fece questa confessione: “Se in Etiopia ci fosse più lavoro, ci sarebbero meno vocazioni”. Venendo da una suora locale, questa frase dice molto. Data la disoccupazione, i problemi di sopravvivenza, l’incertezza del futuro, non mi meraviglio più di tanto che tanti giovani vogliano entrare in seminario, dove hanno da mangiare e possono proseguire gli studi. Capitava così anche in Italia, subito dopo la guerra. La tentazione è forte. Per questo è necessario aiutare questi giovani a un serio discernimento e alla responsabilità delle loro scelte».

GIORNI DI FUOCO

Padre Paolo è ormai un veterano in Etiopia. Vi arrivò nel 1985 e, dopo un intermezzo nel Centro missionario di spiritualità nella Certosa di Pesio (Cuneo), è ritornato al primo amore, prendendo le redini della complessa missione di Modjo.

Essa è nata e cresce come «Centro di animazione missionaria vocazionale»; ma l’arrivo di padre Paolo ha aggiunto una nuova dimensione: è diventata pure centro di spiritualità, un servizio di cui la chiesa locale ha estrema necessità.

In Etiopia, infatti, non ci sono solo problemi di carattere economico e sociale, ma anche a livello di chiesa, soprattutto nella formazione del clero: i giovani affrontano gli studi di filosofia e teologia con profonde carenze di base e la scarsità di personale non permette al seminario maggiore di offrire una formazione adeguata alle sfide della situazione.
«In Etiopia c’è tanta fame, non solo di pane, ma anche di Dio – afferma padre Paolo -. Preti, suore, religiose sentono il bisogno di maggiore profondità spirituale. I sette anni di esperienza nella Certosa di Pesio mi hanno preparato a rispondere a questa sfida della chiesa in Etiopia».

Per ora il centro di Modjo organizza incontri e ritiri spirituali di una giornata; ogni mese si svolge la scuola di preghiera: il sabato per le religiose, la domenica per i giovani, il lunedì per i sacerdoti. Sono chiamati «la tre giorni di fuoco». Nel corso dell’anno sono accolti gruppi giovanili delle singole parrocchie della diocesi di Addis Abeba e di quelle circostanti, per una giornata di formazione e approfondimento della vita cristiana.
L’iniziativa sta riscuotendo un crescente successo: oltre all’apprezzamento del vescovo, sono molte le singole persone, preti, suore e laici impegnati, che vengono al Centro per trascorrere un fine settimana o più giorni in preghiera e meditazione, o fare un ritiro spirituale sotto la direzione di padre Paolo.

A tale scopo, Modjo offre molte possibilità: la città è un nodo stradale di comunicazione tra nord, sud ed est del paese; la missione è lontana dal traffico, per cui offre ampi spazi di silenzio; l’ambiente è ombreggiato e il Centro è dotato di alcune camerette semplici ma confortevoli.

Sono molte le richieste di corsi prolungati da parte di giovani e catechisti. «Finora mi sono recato nelle singole parrocchie – spiega padre Paolo – e ho guidato settimane di formazione e spiritualità nel centro catechetico di Gighessa; ma ci stiamo attrezzando per accogliere e alloggiare i gruppi giovanili anche a Modjo. Avere dei giovani che risiedono per più giorni in questo centro dà la possibilità di fare un lavoro più in profondità. Non bisogna dimenticare che la vocazione nasce dalla preghiera e noi vogliamo formare i giovani alla preghiera».

STORIA DELLA SALVEZZA

Per comprendere meglio lo scopo del suo lavoro, padre Angheben mi porta in cappella e mi spiega il significato degli oggetti che ne adoano le pareti. «È la cappella della storia della salvezza» spiega il padre.
Nella parete di fondo, in basso a sinistra, un ceppo secco richiama la profezia di Isaia: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto spunterà dalle sue radici». Il germoglio, promessa di nuova speranza per il popolo d’Israele e per tutta la storia umana, è Gesù, spiega padre Paolo, indicando l’icona della Madonna della tenerezza, che raffigura Maria mentre stringe al petto il figlio divino.

La storia della salvezza culmina nella morte e risurrezione di Cristo, raffigurata in una grande croce etiopica che domina il centro della parete. «È la croce gloriosa, la croce della risurrezione, secondo la tradizione etiopica».

Sotto la croce c’è un bastone rosso. Esso ricorda il serpente di bronzo di Mosè, che Gesù prese come simbolo del suo innalzamento sulla croce (cfr Giovanni cap. 3); al tempo stesso, richiama il bastone del pellegrino, che nell’iconografia è sempre di colore rosso. Il bastone è sostenuto da una specie di contenitore rotondo, tipico della tradizione etiopica: i viandanti vi mettono il cibo per il viaggio; qui funge da tabeacolo, dove è conservata l’eucaristia, il cibo che sostiene il pellegrinaggio della vita cristiana. «Meta del nostro cammino è la comunione con la Trinità» continua padre Paolo, indicando, a destra della croce, la grande icona della Trinità di Rublev.

«Questa storia la celebriamo ogni giorno nella messa. Al centro della cappella ci sono due massob, altro oggetto tipico della cultura etiopica: viene regalato agli sposi il giorno delle nozze: è il loro tavolo da pranzo. Quello più grande lo usiamo come altare per celebrare l’eucaristia, il banchetto delle nozze etee dell’Agnello. Su quello più piccolo c’è una bibbia aperta: entrambi i massob ci ricordano il pane della parola e il pane del corpo di Cristo».

Sulla parete destra è appeso un grande quadro del beato Giuseppe Allamano. «L’eucaristia porta subito alla missione – conclude padre Paolo -. È necessario raccontare agli altri la storia della salvezza, come ha fatto e continua a fare il nostro fondatore, chiamando e inviando i suoi missionari».

I FIGLI DEL MASSAIA

La missione di Modjo ha tutte le attività di una parrocchia. La comunità è ancora piccola: conta appena una decina di famiglie cattoliche e altrettante miste, con un genitore cattolico e l’altro ortodosso. È una situazione familiare non priva di tensioni, ma potrebbe diventare un punto di partenza per il dialogo ecumenico, con un approccio ancora tutto da inventare.
La maggior parte di coloro che frequentano la chiesa sono giovani, a volte con afflusso massiccio, ma incostante, attirati dalle iniziative religiose e sportive promosse dalla missione e, forse, dalla speranza di avere qualche aiuto materiale.

Modjo dà l’impressione di essere una zona ricca; ma in realtà c’è molta povertà, soprattutto morale. Essendo un importante nodo stradale nel cuore del paese, la cittadina è nata e vive di attività legate a piccoli commerci e alberghetti per gente di passaggio, specie camionisti, con conseguente diffusione di prostituzione e Aids. Un bambino su cinque è orfano a causa di tale flagello.

«Non è facile parlare di Dio in una situazione del genere – confessa padre Paolo – Modjo è una missione complessa e difficile. Tuttavia facciamo il possibile per rispondere ai problemi della popolazione col nostro lavoro pastorale, di formazione giovanile e opere sociali».

In queste attività, i missionari sono affiancati dalle suore missionarie della Consolata, che gestiscono l’asilo, dispensario medico e un centro di promozione della donna, frequentato da ragazze e madri di famiglia. In esso imparano cucito, economia domestica e a gestire piccoli progetti con cui guadagnare qualche soldo e sostenere dignitosamente la famiglia.
Provvidenziale è pure il lavoro che le suore svolgono nel dispensario, sia nella cura della popolazione della città, sia con campagne di vaccinazioni nei vari villaggi della zona.

La missione, infatti, si sta estendendo anche nelle zone rurali. A Dibandiba, periferia della città, è stata costruita una scuola cappella che raccoglie 250 bambini e giovani della zona; un’altra è in progetto a Ejersa, a 15 km da Modjo: per ora giovani e bambini si radunano all’ombra di un grosso sicomoro.

Di recente, padre Paolo ha visitato anche i villaggi più lontani da Modjo, dove si trovano alcuni discendenti dei cattolici battezzati dal cardinal Massaia, rifugiatisi in questa zona per fuggire alle persecuzioni che, negli anni 1880, l’imperatore Giovanni iv, istigato dal patriarca copto, scatenò contro il grande missionario e la chiesa da lui fondata. Anche questi cristiani hanno fame di Dio.

Benedetto Bellesi




Carissimo Mario

Lettera a padre MARIO BIANCHI viale dei teologi e missionari ciità di Dio

ti scrivo dopo la tua morte.

Stranamente ti dò del «tu», cosa che non ho mai fatto prima… Ecco alcune riflessioni sulla tua figura, basate su ricordi personali nell’arco dei tuoi ultimi 24 anni. I lettori valuteranno la validità o meno del mio scritto.

Nel 1969-1975,

quale superiore generale dell’Istituto Missioni Consolata (imc), numerosi giovani confratelli ti ritenevano un po’ conservatore, eletto per frenare le iniziative che uscivano dal solco tradizionale dell’Istituto. Pareva tu volessi comprimere le aperture iniziate o tollerate dal predecessore, padre Domenico Fiorina.

Non dico che tu non stimassi padre Fiorina: tutt’altro. Ma eri fermo nei tuoi principi, decidevi. Così hai accettato (sia pure a malincuore) l’uscita dall’Istituto di parecchi missionari, soprattutto in Brasile. La tua preoccupazione era quella di salvare l’imc, e pensavi di farlo basandoti sulla tradizione della Chiesa.

Come professore di teologia dogmatica, prendevi con serietà il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ma ragionavi: il Concilio non ha promulgato dogmi; la dottrina è la stessa. Quindi gli appelli del Concilio a cambiare e adattarsi al mondo d’oggi non erano vincolanti.

Volevi evitare pratiche rischiose, che potevano snaturare il fine dell’IMC; volevi scongiurare comportamenti secolarizzanti. Tuttavia accettavi la critica e il dialogo. Quando un missionario commentava per iscritto le tue circolari, non solo eri pronto ad ascoltare, ma eri anche riconoscente. Al termine ribadivi le posizioni che ritenevi giuste.
Delegavi responsabilità concrete al vicesuperiore generale, ai consiglieri e ai superiori delle circoscrizioni in Africa, nelle Americhe e in Europa. (Allora non eravamo ancora in Asia).

Rieletto superiore

per altri sei anni (1975-1981), la tua posizione è rimasta la stessa. Tuttavia hai avuto un vicegenerale che dialogava con i missionari fuori dei «parametri normali» dell’IMC. Il vice si è sforzato di trattare bene gli esclaustrati giustificati e non giustificati. Tu ne hai visitati alcuni nel loro posto di lavoro, informandoti sulle loro attività.

Volevi persone decise a lavorare «dentro» l’IMC. Altrimenti, dovevano decidere diversamente… Però, di fronte ad un missionario che ha lasciato l’Istituto per incardinarsi in una diocesi, hai scritto: «Il problema reale con lui (ma anche con altri) è forse un altro: quello di misurare il tempo necessario ad ogni individuo per maturare la decisione se restare o no nell’Istituto… In tale situazione può accadere che i superiori chiedano all’individuo di decidere prima che egli sia pronto a farlo. È un problema di discernimento non facile; e si può sbagliare, senza volerlo. Penso che, se si sbaglia, per l’individuo resta sempre aperta la porta per rientrare nell’Istituto. Tale porta è aperta anche per il padre…».

Come superiore generale
hai avuto contatti con altri omologhi di varie congregazioni. Hai parlato, per esempio, con i padri Pedro Arrupe e Theo Van Asten, superiori dei Gesuiti e Padri Bianchi. Con loro hai trattato il problema del Mozambico durante la lotta anticoloniale nei primi anni ’70. Tu non eri molto entusiasta dei missionari che, in blocco, abbandonavano il paese per protesta contro i vescovi portoghesi, che appoggiavano troppo il governo coloniale. Tuttavia hai rispettato la decisione dei missionari, esprimendo loro solidarietà.

Ai missionari della Consolata hai concesso piena libertà di lasciare o restare in Mozambico. Esortavi chi rimaneva ad essere difensore della causa dei nativi. Hai maturato questo atteggiamento dietro consiglio e informazione dell’allora superiore dei missionari nel paese.

Un missionario della Consolata, mozambicano, fuggì dal suo paese per raggiungere il Fronte di liberazione del Mozambico. E, anche se viveva con i ribelli, l’hai sempre considerato dell’IMC. Perché? Penso due motivi: primo, quella persona si trovava in una zona con la presenza di missionari della Consolata; secondo, il superiore dell’IMC in Tanzania aveva rapporti regolari con lui. Quindi, anche se era con i ribelli, manteneva contatti con l’Istituto.

Dopo 12 anni

al comando-servizio dell’IMC, hai operato a Roma presso le pontificie Opere missionarie (1987-1995).
Passando per la capitale mi piaceva ricordarti alcuni episodi, quando eri generale. Eri anche contento di discutere sulla tua tesi di laurea in teologia, sostenuta all’università Angelicum di Roma. Il tema elaborato fu «il sacerdozio dei fedeli nella teologia di san Tommaso di Aquino».

Una volta ti chiesi: «Quale esperto sul sacerdozio dei fedeli secondo san Tommaso, cosa pensi di quanto dice il Vaticano II al riguardo?». La risposta fu: «Poiché il Vaticano II non ha definito dogmi, il pensiero equilibrato di san Tommaso è anche discutibile».
Per questa posizione ti ritengo un pensatore lucido ed onesto. Ma ti era difficile accettare i cambiamenti nella traditio christiana con il sottofondo aristotelico-tomista. Oggi, nella Città di Dio, non so come vedi le cose… Intanto sta a noi risolvere i problemi fino alla nostra morte.

Nel 1997, sempre a Roma,

mi hai pregato di sostituirti nel celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata. Tornato a casa, mi hai domandato:

– Cosa hai detto ai fedeli?

– In cinque minuti ho detto che sono mozambicano e che sono missionario della Consolata. Educato dai missionari della Consolata sin da bambino, sono felice di celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata.

Ricorderò sempre il tuo sorriso e le parole: «Oggi sei più maturo, hai superato il “sessantotto”, ti sei convertito».

L’ultimo nostro incontro
avvenne nella casa-madre di Torino (novembre 2002). A pranzo e cena ti facevo ridere con i miei «spropositi». Ma tu capivi che scherzavo.

Una volta dissi: Giovanni XXIII, dopo la prima sessione del Concilio, ha saputo dai medici di avere una malattia che lo avrebbe presto portato alla morte, se non si fosse sottoposto a cure speciali. E ti domandai:
– Perché papa Giovanni ha risposto ai medici che preferiva la morte e dissolversi in Cristo?

– Papa Giovanni era un uomo di fede: credeva nella vita dopo la morte…

Subito ti incalzai:
– Tanti parlano di fede, ma hanno una grande paura di morire; ci tengono a questa vita e ai posti che occupano e si fanno prolungare la vita con numerosi farmaci.

– Sì, è vero…
– Allora significa che costoro non hanno fede?
Sorridesti… Padre Mario, perché non mi dicesti chiaramente: «Il tuo pensiero potrebbe offendere personaggi a cui si deve venerazione»?…

Perché questa lettera? Per farti conoscere, affinché molti si sentano motivati ad essere onesti e decisi nella vita. Tu sei stato così. E meriti rispetto, ammirazione.

Nato a Coriano (FO) il 30 luglio 1925, Mario Bianchi entrò nell’Istituto Missioni Consolata (IMC) nel 1947, proveniente dal seminario di Rimini. Sacerdote, si laureò in teologia all’Angelicum di Roma. Per 13 anni professore di dogmatica nel seminario teologico IMC di Torino, fu pure direttore della rivista Missioni Consolata.

Destinato al Kenya nel 1966, nel 1969 fu eletto superiore generale dell’Istituto. Rieletto per un secondo mandato, terminò il servizio nel 1981. Poi fu superiore della Delegazione centrale e, nel 1987-1995, segretario generale della Pontificia Unione Missionaria del clero (Roma). Trascorse gli ultimi anni della vita a Torino, nella casa-madre, impegnato nell’animazione missionaria. L’11 agosto 2003 fu chiamato alla casa del Padre a 78 anni, di cui 55 di sacerdozio.

Il suo testamento

Ringrazio il Signore di avermi chiamato ad essere sacerdote,
religioso e missionario nell’Istituto della Consolata.
Egli ha disposto che avessi la responsabilità della direzione
dell’Istituto in un periodo non facile della sua storia.
Chiedo perdono a Dio e ai confratelli per ciò che non ho fatto
o avessi fatto non bene nello svolgimento del mio servizio.
Prego il Signore di donarmi la perseveranza nella vocazione
missionaria, per la quale non Lo ringrazierò mai abbastanza;
e mi raccomando con fiducia e umiltà alla misericordia di Dio
e alle preghiere dei confratelli.
La Consolata, che mi volle nella famiglia dei suoi missionari,
mi ottenga dal Signore la corona dell’apostolato
per le preghiere del Padre Fondatore e di coloro
che, fedeli alla vocazione missionaria e religiosa,
hanno già terminato il servizio alla Chiesa
e si sono ricongiunti al padre della nostra famiglia.

p. Mario Bianchi (Roma, 12 luglio 1981)

D i fronte ad un mondo che si caratterizza per sfiducia, insoddisfazione e negatività, padre Mario Bianchi ha cercato di essere per tutti, ma soprattutto per i confratelli, un missionario che parlava della tenerezza di Dio padre, una tenerezza che conforta, che dà gioia e speranza.
Sentiva, in questo modo, di essere un vero missionario della Consolata.
p. Piero Trabucco

padre Felipe Couto




Ex profugo somalo

Egregio direttore,
spero ardentemente che la pateità sua reverenda pubblichi la presente e la recapiti alla reverenda suor Giannasilvia Quaranta, missionaria della Consolata. La suora è stata superiora nella mia parrocchia S. Cuore di Gesù a Mogadiscio, Somalia.
Ella riuscì a creare un ambiente familiare nella comunità locale. Durante i mesi mariani, tutti noi indistintamente ci riunivamo nella navata della chiesa per recitare il S. Rosario ogni giorno. Inoltre, durante la S. Quaresima, ogni venerdì andavamo alla via crucis.
È da menzionare, altresì, la madre superiora che insegnava ai neocomunicandi e cresimandi, ma anche a noi adulti, che frequentavamo l’insegnamento molto interessante.
Personalmente, sono legato alla reverenda suor Giannasilvia da filiale rapporto. Ogni volta che avevo problemi personali e familiari, il suo grande cuore era aperto per me e potevo rifugiarmi. Inoltre Lei è stata la maestra della mia cara figlia Mona Lisa.
Poi, sebbene vivessimo separati da immensa distanza, io e la mia reverenda madre spirituale eravamo vicini col cuore, nelle preci. Quando una delegazione della mia diocesi andò a Roma per la beatificazione di Giuseppe Allamano, un amico fraterno era membro della nostra delegazione, Fulgenzio Benedetto Osman, che venne anche al mio studio tecnico professionale. Io rimasi male della sua improvvisa partenza.
Ad ogni modo lo pregai di salutarmi la molto reverenda Giannasilvia, se l’avesse incontrata durante la sua visita in Italia. La incontrò, e lei mi mandò una cartolina che conservavo in mezzo al mio breviario: ogni giorno, quando recitavo le ore liturgiche, ricordavo questa straordinaria suora. Purtroppo, durante la mia permanenza in Kenya come profugo, un incendio distrusse completamente il campo-rifugiati. Ma, nelle mie preci, ricordo sempre la reverenda suor Giannasilvia Quaranta.
Grazie in anticipo, pateità sua reverenda. Nel Signore.


Hugo ci rimanda anche alla triste vicenda di tanti profughi somali. Ora egli vive in Canada. La sua lettera è bella non solo per l’affetto che lo lega a suor Giannasilvia, ma anche per lo stile un po’ aulico.

Hugo G. Yassin




Se ti piace il filetto di pesce persico

Cari missionari, sono contenta che, nel bellissimo numero dedicato interamente al Kenya (Missioni Consolata, ottobre/novembre 2002), abbiate parlato anche dei problemi ambientali che affliggono il paese.
Bene ha fatto Paolo Moiola a elencare i parchi nazionali e a ricordare le cifre che documentano il declino di elefanti e rinoceronti. Questi animali, simbolo del Kenya, grazie anche alla loro maestosa dimensione e alla facilità con cui è possibile fotografarli, hanno attirato le attenzioni dei conservazionisti. Stimolante è pure l’immagine dei fenicotteri del Lago Nakuru.
Il Kenya, oltre che di grandi savane, è anche un paese con grandi laghi, e purtroppo le tragedie che si consumano SOTTO la superficie non sono da meno di quelle che si consumano SOPRA
.
Malgrado l’abnegazione di tanti rangers nei parchi, malgrado le campagne del WWF e i fondi raccolti, su elefanti, rinoceronti e giraffe incombe la minaccia dell’estinzione. E nei laghi un numero incredibile di specie (pesci, crostacei, molluschi) è già scomparso. La scomparsa ha avuto conseguenze catastrofiche sulla vita di tantissimi kenyani.
La catastrofe ha assunto i connotati più vergognosi nel Lago Vittoria, che i colonizzatori anglosassoni hanno piegato alla spietata logica imperialista, infischiandosene delle necessità dei pescatori kenyani, ugandesi e tanzaniani. Infatti anche Tanzania e Uganda sono bagnate da questo lago.
Consideriamo, ad esempio, i danni causati dall’introduzione del PESCE PERSICO del Nilo, decisa nel 1854 dall’amministrazione coloniale britannica, nonostante il parere sfavorevole degli esperti di allora. Il persico del Nilo (un predatore che raggiunge 2 metri di lunghezza e 200 chili di peso) ha conosciuto una espansione enorme, che ha favorito lo sviluppo di una fiorente industria ittica; ma, nello stesso tempo, ha provocato il crollo dei ciclidi (pesci di piccola taglia che, da sempre, costituivano la base alimentare degli indigeni).
Se è vero ciò che ha scritto la biologa Janet N. Abramovitz, nel 1996 il Lago Vittoria aveva perso già 200 tra specie e sottospecie endemiche di ciclidi e le rimanenti 150 erano in grave pericolo. Un altro biologo, Les Kaufman, ricercatore alla Boston University, ha descritto la perdita nel Lago Vittoria come «la prima estinzione di massa di vertebrati che gli scienziati hanno avuto l’opportunità di studiare».
Privata della possibilità di mangiare sia i pesci piccoli (perché spariti) sia i pesci grossi (non catturabili con piccole imbarcazioni), la gente del posto è da tempo costretta a ripiegare su altre soluzioni: ad esempio, comprare a prezzi tutt’altro che accessibili gli scarti della lavorazione del pesce persico fatta nelle industrie impiantate dagli inglesi.
Però queste industrie stanno attraversando un momento non felice, perché le popolazioni di pesce persico sono a loro volta in forte calo, e per effetto della diminuzione delle specie predabili, e per effetto dell’inquinamento, e per effetto della pesca eccessiva, condotta da vascelli troppo grandi che lavorano per conto di compagnie troppo ingorde.
Il Lago Vittoria NON è un piccolo lago; con i suoi 62 mila chilometri quadrati di superficie (però negli anni ‘50 erano 68 mila) è il terzo lago del mondo, preceduto solo dal Mar Caspio e dal Lago Superiore. NON è modesto per quanto riguarda il volume (in certi tratti raggiunge i 100 metri di profondità). Se, dunque, su un lago così grande l’impatto della «civiltà» è stato così devastante, che speranze possono esserci per i laghi minori?
Il 2003 è stato proclamato ANNO INTERNAZIONALE DELL’ACQUA. Se vogliamo che lo sia anche per il Kenya, cerchiamo di fare qualcosa per il Lago Vittoria (così lo chiamarono gli inglesi in onore della loro regina, ma le popolazioni locali lo avevano sempre chiamato «Nyanza» che significa «ACQUA»).
Ogni volta che ci viene voglia del filetto di pesce persico, cerchiamo di ricordare i danni incalcolabili procurati dall’introduzione di specie esotiche in habitat non in grado di sostenerle. E, soprattutto, cerchiamo di non lasciar sole persone come la professoressa Wangari Mathai, cofondatrice del Green Belt Movement (cfr. Missioni Consolata, ottobre/novembre 2002).
I guai di questa coraggiosa kikuyu con il corrotto regime di Nairobi iniziarono proprio sulle rive del Lago Vittoria: dopo appena un anno di attività, il Green Belt Movement era riuscito a mettere a dimora una quantità di alberi superiore a quella che il governo era riuscito a piantare nei 10 anni precedenti. Però il discorso non è solo quantitativo, ma anche qualitativo: troppe volte la riforestazione è intesa come AGROFORESTRY, come BUSINESS e come introduzione di specie esotiche, dotate di apparati giganteschi, che prelevano acqua a dismisura e creano i presupposti per altro degrado ecologico.
Se il Kenya vuole davvero uscire dalla crisi che lo attanaglia, dovrà restituire alle foreste naturali lo spazio loro sottratto dalle piantagioni di tabacco, cotone, caffè, canna da zucchero, ananas, e fare in modo che anche attorno ai laghi, come il Vittoria, sia ricreata la lussureggiante vegetazione presente fino ad alcuni decenni fa.
Speriamo che almeno i cattolici del Kenya prendano a cuore questi problemi, così come è sembrato di capire dall’intervista di Paolo Moiola ai quattro vescovi e, in particolare, dalle parole pronunciate da monsignor Virgilio Pante.
Aiutiamo il Vittoria a… vincere, ad essere un lago di vita e non di morte.

Ave Baldassarretti