LETTEREPannelli solari in Africa

Caro direttore,
mi consenta un commento alla lettera di Isa Monaca (M.C., giugno 2004) circa i pannelli solari da un «addetto ai lavori».
Questi apparati sono conosciuti in Africa da decenni, usati principalmente per scaldare e pompare acqua o provvedere minuscole quantità d’energia elettrica; ma sono solo alla portata dei ricchi.
I pannelli scalda-acqua non sono molto costosi. L’impiego è limitato alle case dei ricchi (o istituzioni), perché, per funzionare, richiedono in casa un impianto fisso. Per tantissimi africani «l’impianto idraulico» è… la donna, che attinge acqua al fiume o al rubinetto comunale (dove esiste), portando sulle spalle o sulla testa un bidone di lamiera.
Il pompaggio d’acqua dai pozzi, tramite energia solare, ha avuto poco successo, se non per chi ha «la villa in campagna». Per i pastori delle lande semidesertiche sono state prodotte efficienti pompe a mano, in ferro, quasi indistruttibili, ovvero a «prova d’Africa».
I pannelli fotovoltaici servono solo a migliorare la vita di chi c’è l’ha già buona, ossia fabbricanti e rivenditori…
Recentemente in Kenya sono in «offerta speciale» pannelli solari della potenza di 20 watts, sufficienti per quattro lampadine speciali, una radio e una piccola televisione: costano «solo» 105 euro; ma bisogna aggiungere una batteria (50 euro), un invertitore di corrente (40 euro) e circa 20 euro per lampade, fili, scatola di controllo, impianto. Totale 215 euro.
Con una popolazione il cui reddito medio giornaliero è inferiore a 1 euro, è difficile capire come «questi (pannelli) potrebbero migliorare le condizioni di vita degli abitanti». Certamente sarebbero utili nelle immense baraccopoli. Ma un pannello solare e un’antenna tivù su un tetto di lamiera servirebbero ottimamente a… far pubblicità ai ladri.

Giorgio Ferro




ARTICOLO Lebbra & lebbre

Da mezzo secolo, l’ultima domenica di gennaio è dedicata alla lotta contro la lebbra: un’occasione per sensibilizzare la coscienza umana e cristiana su altre lebbre modee: ingiustizia e indifferenza.

Fu celebrata per la prima volta nel 1954, l’ultima domenica di gennaio. Dieci anni dopo, 116 nazioni avevano aderito all’iniziativa; oggi la Giornata mondiale per malati di lebbra (Gml) è celebrata in tutti i paesi del globo.
Ispiratore di tale iniziativa fu il giornalista e scrittore francese Raoul Follereau (1903-1977), il quale ha dedicato tutta la vita a combattere la lebbra, una malattia antichissima e molto temuta, che costringeva chi ne era affetto a una emarginazione tale che causava una morte sociale prima ancora di quella fisica.
Aveva capito che la lebbra era una delle tante conseguenze del sottosviluppo e che le sue radici sono nell’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta e nell’indifferenza di chi è stato privilegiato dalla sorte. Follereau si è, quindi, impegnato contro la lebbra e contro quelle che ha definito «tutte le lebbre: indifferenza, egoismo e altre forme di ingiustizia».
Ancora oggi, la Gml vuole dare voce a coloro che più di ogni altro al mondo soffrono non solo le conseguenze di una terribile malattia, ma quelle più atroci dell’emarginazione, abbandono, riduzione a una condizione subumana.

Lebbra: stigma sociale

È una malattia contagiosa, causata dal mycobacterium leprae, bacillo isolato nel 1873 da Gerhard Armauer Hansen. Da allora la malattia è definita hanseniasi o morbo di Hansen e i malati hanseniani.
Anche se la malattia è perfettamente curabile, ancora oggi le si accompagna spesso un pesante stigma sociale: le persone che ne sono affette, anche se completamente guarite, sono considerate «diverse» e socialmente emarginate.
Tale stigma è dovuto al retaggio della paura secolare per una malattia che a lungo ha evocato terrore a causa dell’incurabilità e delle tremende mutilazioni che provoca, devastanti e inconfondibili.
CIFRE E CURE
Il bacillo distrugge i nervi periferici, provocando insensibilità, che espone la persona a ferite e conseguente distruzione dei tessuti. Se non trattata con una cura precoce e tempestiva, provoca danni progressivi e permanenti a pelle, nervi, arti ed occhi.
Sono circa 514 mila i nuovi casi registrati nel 2003 (vedi riquadro). Tra i nuovi casi molti sono bambini e 250 mila hanno già danni permanenti che li renderanno disabili per tutta la vita.
In realtà nessuno può dire esattamente quanti siano i malati nel mondo. Quelli diffusi sono i dati provenienti da zone in cui sono presenti servizi sanitari funzionanti. Ma chi può dire oggi quanti malati ci siano in paesi lacerati da guerre o con infrastrutture allo sfascio?
Di fatto, quando si avviano i piani di ricerca dei casi di lebbra in aree poco raggiungibili, si continuano a scoprire numerose persone affette dalla malattia. Tra loro la percentuale dei bambini rimane relativamente alta e prevale la forma tubercolare, cioè il tipo di lebbra che provoca rapidamente le disabilità. Tutto ciò indica una morbilità ancora elevata.
Solo nel 1940, con il dapsone, si cominciò ad avere una cura, ma il farmaco andava assunto per tutta la vita e aveva il solo effetto di rallentare l’avanzata della malattia. A partire dai primi anni ’80, con l’introduzione della polichemioterapia (rifampicina, clofazimina e dapsone), finalmente dalla lebbra si può guarire.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) raccomanda la polichemioterapia dal 1981. Da 5 a 20 anni è il periodo d’incubazione del bacillo che causa la malattia. Da 6 mesi a 2 anni dura il periodo di trattamento farmacologico. Si stima che più di 6 milioni di persone subiscano oggi le conseguenze fisiche e sociali della malattia.

Miele della solidarietà

In Italia, la Giornata mondiale dei malati di lebbra è uno dei principali eventi legati all’impegno dell’Associazione italiana amici di Raoul Follereau (Aifo).
Nata nel 1961, l’Aifo ha esteso la sua presenza in tutta Italia: centinaia di volontari, ispirandosi al messaggio di giustizia e pace di Follereau, continuano a dare voce agli ultimi, lottando contro la lebbra e contro tutte le lebbre, cioè contro le forme più estreme di ingiustizia ed emarginazione.
Riconosciuta come Organismo non governativo (Ong) di cooperazione sanitaria internazionale, l’Associazione è attualmente presente in 24 paesi dell’Africa, Asia e America Latina e collabora attivamente con alcune agenzie delle Nazioni Unite, in particolar modo con l’Oms, di cui è partner ufficiale.
Per sensibilizzare la gente nei confronti del problema della lebbra e dei temi legati allo sviluppo sociale e sanitario nei paesi più poveri del mondo, i volontari dell’Aifo animano la Giornata mondiale dei malati di lebbra con diverse iniziative, tra le quali la vendita del «miele della solidarietà» e altri prodotti del commercio equo e solidale. In centinaia di piazze italiane allestiscono banchetti, coinvolgendo le comunità locali, per raccogliere fondi a favore dei progetti dell’Associazione.
Lo scorso anno la distribuzione del «miele della solidarietà» ha coinvolto ben 447 piazze italiane, nelle quali sono stati offerti oltre 30 mila vasetti di miele.
Tra le varie iniziative di sensibilizzazione, grande importanza è data agli incontri con scuole, parrocchie e altre istituzioni, svolti in tutta Italia dai «testimoni della solidarietà». Si tratta di persone direttamente impegnate nella cura dei lebbrosi in vari paesi del mondo.
Per l’edizione 2005 giungeranno in Italia cinque testimoni che operano nei progetti contro la lebbra in Africa (vedi riquadro). Inoltre, per celebrare la 52a Giornata mondiale, è stata organizzata una touée della compagnia teatrale African Footprint Inteational del Ghana, un gruppo di fama mondiale, composto prevalentemente da artisti con disabilità, che si esibiranno in numerose città italiane per testimoniare la ricchezza di valori e di cultura di cui il continente africano è portatore e anche la ricchezza di doti umane e artistiche che le persone diversamente abili sanno esprimere.

Box 1

Stato globale della lebbra nel 2004*

Regione Nuovi casi trattamento rilevati 2003

Africa 50.691 46.205
America 86.652 52.435
Mediterraneo orientale 5.798 3.940
Asia sud-est 304.292 405.150
Pacifico occidentale 10.359 6.068
Mondo 457.792 513.798

* Come riportato da 110 stati – fonte Oms

Box 2

TESTIMONI 2005

Chiara Castellani. Nata a Parma nel 1956, laureata in medicina all’Università cattolica del Sacro Cuore in Roma, ha lavorato per 7 anni in Nicaragua, come medico volontario e chirurgo in zona di guerra.
Dal 1991 è responsabile di un progetto sanitario nella Repubblica democratica del Congo. L’anno seguente perde il braccio destro in un incidente stradale: impara a scrivere e operare con la sinistra e, ancora oggi, continua la sua attività presso l’ospedale di Kimbau. (Della sua incredibile storia abbiamo parlato in Missioni Consolata ottobre-novembre 2004, pp. 87-89).

Padre Emidio Demeneghi. Nato a Mussolene (VI) nel 1939, sacerdote nel 1964 è missionario in Angola dal 1968.
Dal 1994 opera a Kangola, nord del paese, e si occupa dei lebbrosi. Grazie a un progetto Aifo, sono stati diagnosticati 1.064 casi di lebbra su una popolazione di circa 80 mila abitanti; 850 le guarigioni; 96 abbandoni causati dalla guerra; 20 i decessi registrati. Attualmente la lebbra è in regresso.

Saverio Grillone. Nato a Reggio Calabria nel 1940, laureato in giurisprudenza, specializzato in psicologia, diplomato in leprologia e chirurgia ausiliaria in Spagna, dal 1969 al 1976 si è occupato di cura e riabilitazione dei lebbrosi in un programma di cooperazione del nostro Ministero affari esteri in vari centri dell’Eritrea.
Dal 1978 al 1980 è stato esperto del Ministero in qualità di responsabile della campagna di lotta contro la lebbra nella Repubblica delle Comore. Dal 1980 è rappresentante dell’Aifo alle Comore per la realizzazione di vari programmi: lotta contro la lebbra e la tubercolosi, sanità di base di 15 villaggi nella regione di Pomoni; attività a favore dell’infanzia con la creazione di 7 scuole elementari e di una scuola media, con 1.200 bambini scolarizzati.

Suor María Marcela López. Di origine argentina, appartiene alla congregazione religiosa Figlie della Carità, Canossiane. Infermiera professionale, da alcuni anni lavora presso il progetto di lotta alla lebbra nell’Ituri (R.D. del Congo).

Suor Esther Athieno. Di nazionalità kenyana, è infermiera, ostetrica e fa parte della congregazione delle suore dell’Immacolata Concezione di Ivrea. Ha svolto la sua attività in differenti campi medici. Da due anni lavora con i pazienti affetti da lebbra e tubercolosi nell’unità sanitaria di Kadem. Oltre ai malati di lebbra-tubercolosi ricoverati in ospedale, segue quelli che vivono nelle loro comunità, attraverso le cliniche mobili, foendo loro medicine, beni di prima necessità.

Benedetto Bellesi




È partita «salute Africa»

 Secondo le stime del Rapporto Unaids 2004, a fine 2003 l’epidemia Hiv/Aids mostrava queste drammatiche cifre:
• 37,8 milioni di persone affette dal virus, di cui 17 milioni di donne e 2,1 milioni di bambini sotto i 15 anni
• 4,8 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,9 milioni di morti nell’anno
• 15,1 milioni di bambini orfani.
L’Africa sub-sahariana, con appena il 10% della popolazione mondiale, presenta la situazione più drammatica:
• 25,1 milioni di persone affette dal virus, di cui 13,1 milioni di donne e 1,9 milioni di bambini
• 3 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,2 milioni di morti nell’anno
• 12,1 milioni di bambini orfani.

A fine novembre 2004, è partito – con presentazioni pubbliche a Torino, Milano e Roma – il progetto denominato «Salute Africa. Nella giustizia la lotta all’Aids».
Il Comitato di Salute Africa è stato costituito per volontà di: missionari e missionarie della Consolata, Ospedale Koelliker, Associazione Impegnarsi Serve Onlus, Associazione Amici Missioni Consolata con lo scopo di perseguire programmi finalizzati alla lotta contro l’Aids. Per raggiungere questo scopo, il Comitato si propone di
• sensibilizzare alla prevenzione con il coinvolgimento delle comunità locali
• prevenire e ridurre la trasmissione materno-infantile
• ridurre l’impatto socio-economico dell’Aids nelle comunità di riferimento
• assistere i malati terminali con gesti di consolazione, come accoglienza, cura palliativa e sepoltura.

Salute Africa si propone di operare nei seguenti paesi: Congo Rd, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Mozambico, Somalia, Sud Africa, Tanzania, Uganda.
Nei prossimi mesi, anche attraverso questa rivista, si darà informazione su tutte le iniziative del progetto.

SALUTE AFRICA E’…

Sede ufficiale:
• c/o Istituto Missioni Consolata – Corso Ferrucci, 14
10138 Torino
Presidente:
padre Giordano Rigamonti
Segreteria: dott.ssa Elisa Franzò (tel. 011.4400610)

Le E-mail:
• sede di Torino: saluteafrica.torino@consolata.net
• sede di Milano: saluteafrica.milano@consolata.net
• sede di Lecco: saluteafrica.bevera@consolata.net
• sede di Roma: saluteafrica.roma@consolata.net

La redazione



EDITORIALEPace preventiva

Era nella sua casa natale, vicino a Nyeri (Kenya), il 9 ottobre scorso, quando le fu comunicato che le era stato assegnato il premio Nobel per la pace 2004. Per celebrare l’inaspettata notizia, Wangari Maathai ha piantato con le proprie mani un piccolo nandi flame, un albero tipico della vegetazione locale.
Prima africana a ricevere il Nobel per la pace, Wangari Maathai, 64 anni, vanta altri primati: laureata in biologia all’università del Kansas (Usa), fu la prima donna in Africa centro-orientale a ottenere un dottorato di ricerca; entrata nel dipartimento di medicina veterinaria all’università di Nairobi come ricercatrice e poi docente, diventò, nonostante lo scetticismo e l’opposizione maschilista di allievi e colleghi, la prima preside della stessa facoltà; nel 1977 fondò il movimento Green Belt (cintura verde), che ha piantato oltre 30 milioni di alberi.
Nella sua crociata ambientalista Maathai coinvolse decine di organizzazioni non governative e centinaia di migliaia di persone, donne soprattutto, creando progetti dal basso e offrendo occupazione, per frenare l’erosione del terreno e lo spreco delle riserve d’acqua: un fenomeno che, specie in Africa, causa una reazione a catena, i cui anelli sono siccità, sottosviluppo, malnutrizione e malattie d’ogni genere.

A lla salvaguardia del creato, la leader kenyana ha sempre unito la lotta per la democrazia e la difesa dei diritti umani dei più poveri e marginali, fino a sfidare lo strapotere del presidente Daniel Arap Moi. Nel 1997 si candidò alla presidenza del paese, ma il suo partito ritirò la sua candidatura pochi giorni prima del voto; nel 1998 riuscì a bloccare un progetto del governo, che prevedeva la distruzione di una parte dell’Uhuru Park, polmone verde di Nairobi, per fare spazio a un complesso residenziale di 60 appartamenti.
Tale impegno civile le procurò fama internazionale, insieme all’opposizione del regime e incomprensioni familiari: fu più volte incarcerata; nel 1999 venne ferita alla testa mentre piantava alberi nella foresta di Karura (Nairobi); negli anni ’80 fu abbandonata dal marito, un ex deputato da cui ha avuto tre figli, protestando che era «troppo istruita, troppo forte, troppo riuscita, troppo testarda e troppo difficile da controllare».
Ripresentatasi alle elezioni del dicembre 2002, è stata eletta al parlamento e, attualmente, ricopre la carica di sottosegretario al ministero dell’ambiente, risorse naturali e fauna selvatica.

N on c’è pace senza la salvaguardia del creato, abbiamo scritto nell’editoriale di settembre. Lo conferma la signora Maathai, commentando a caldo la notizia della sua premiazione: «La maggior parte dei conflitti in Africa e in altre parti del mondo derivano da una lotta per accaparrarsi le risorse naturali. Dobbiamo garantire che vi sia giustizia nella distribuzione di queste ricchezze. Occorre una pace preventiva: è necessario evitare le guerre, invece di risolverle quando sono ormai iniziate. La protezione dell’ambiente e la gestione delle sue risorse sono essenziali; ma per una vera pace è necessario garantire anche equità e giustizia».
L’attribuzione del premio Nobel alla coraggiosa donna kenyana è una pietra miliare nel riconoscimento del ruolo, ancora misconosciuto, delle donne in tutto il continente africano. Mogli, madri, infaticabili lavoratrici, esse sono le spine dorsali della società. Sulle loro spalle gravano il peso e le responsabilità del vivere quotidiano.
Le donne sono, le mani invisibili che, silenziosamente, da sempre, costruiscono l’Africa, ne strutturano la società e ne provocano i cambiamenti: esse sono il motore del futuro, a patto che vengano loro riconosciuti tutti i diritti e maggiore spazio e voce nella vita culturale, politica e sociale.

Benedetto Bellesi




LETTERANatura=bontà? Non sempre.

Cari missionari,
vi ringrazio degli spunti e provocazioni. Mi piace riportare in famiglia, presso amici e conoscenti, le informazioni che trovo su Missioni Consolata, perché è importante non chiudersi e, soprattutto, conoscere chi e come si vive nel mondo.
Trovo pure stimolanti i servizi sui problemi ambientali e le risorse mondiali della rubrica «Una sola madre terra». Per formazione (sono laureata in agraria) e per lavoro (mi occupo di analisi di alimenti) mi ha molto interessato l’articolo sugli organismi geneticamente modificati (ogm), apparso in giugno 2004.
Non ritengo costruttivo l’atteggiamento «basta ogm!»: mi sembra un preconcetto, che non indaga su qualcosa che può essere utile per chi muore di fame e malattie. Sono d’accordo che una manipolazione genetica, volta (per esempio) a inserire geni per consumare fragole tutto l’anno, serva solo ad arricchire qualcuno. Inoltre, rimane essenziale sottolineare come la biodiversità sia un patrimonio troppo importante, che non va distrutto. Per cui non vale neppure lo slogan «ogm a ogni costo!».
L’equazione «natura uguale bontà» non sempre vale. Infatti esistono sostanze naturali dannose, anche cancerogene. Ad esempio: alcuni funghi, microscopici, emettono micotossine che, a piccole dosi provocano tumori o, a dosi elevate, conducono alla morte tra molte sofferenze. Non sempre l’emissione di tali tossine viene evidenziata da «muffe»; per cui, essendo impossibile analizzare ogni partita di alimento, occorre sfavorire la presenza di funghi sulle derrate alimentari per evitare la produzione eventuale di micotossine.
Nel caso del mais, l’infestazione fungina è favorita da un precedente attacco di un insetto (la piralide), che, fessurando la pianta, consente ai funghi di penetrarvi. Cosa propone la biotecnologia? Un mais con un gene (tratto da un microrganismo, il bacillus turingensis) che funzioni da insetticida biologico e protegga la coltura dalla piralide e dal conseguente instaurarsi dei funghi.
Perché vi racconto tutto ciò? Perché ho appreso, da un programma di Inteational Society for Infectious Diseases, che in Kenya stanno morendo decine di persone per aver consumato mais con elevate percentuali di micotossine, in particolare quelle chiamate aflatossine. Forse non è pensabile il mais ogm nella realtà africana, senza prima studiare la situazione locale; però voglio far riflettere su come sia facile giudicare «cattiva» una tecnica, che, se ben usata, potrebbe essere uno strumento al servizio dell’uomo.
Sento già l’obiezione circa la creazione di dipendenza da alcune ditte per l’eventuale approvvigionamento del seme. Non conosco come avviene in Africa. Da noi il mais prodotto non può essere seminato e il seme ibrido è sempre acquistato da ditte sementiere.
So di non aver esaurito l’argomento, né ho la pretesa di suggerire la soluzione al problema ogm. Tuttavia mi pareva utile apportare un piccolo contributo alla conoscenza della questione….
Cari missionari, continuate a farmi crescere!

Laura Bersani
Torino

Grazie, signora Laura, per la lezione di biotecnologia, che supera l’aspetto accademico. «È il segno di un’accresciuta sensibilità ai temi della salvaguardia del creato, che indicano come gli uomini e donne del nostro tempo se ne sentano in qualche modo corresponsabili» (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 29).

Laura Bersani




BRASILEMa il sole non brilla ancora

Missionario della Consolata kenyano, studente
nel seminario di San Paolo, Daniel si prepara
alla missione collaborando alle attività parrocchiali nella favela di Heliopolis, il cui nome significa
«città del sole». Ma la realtà è ben differente.

È una delle 1.999 favelas con cui si espande la megalopoli di San Paolo. È nata nel 1970, quando alcune famiglie, rimosse dalla prefettura da un quartiere della metropoli brasiliana, per fare spazio a una grande avenida, si rifugiarono a sud della città.
Negli anni seguenti la favela si è ingrandita gradualmente, con l’arrivo di migrati provenienti dal nord-est del Brasile, in cerca di lavoro e nella speranza di una vita più dignitosa. Oggi, conta oltre 85 mila abitanti: è una delle più grandi favelas del Brasile. Di questa popolazione oltre 30 mila sono bambini in età scolare, tra i 7 e i 14 anni.
Afflitta da enormi carenze strutturali e sociali, oggi, Heliopolis (città del sole) è ben lontana dallo splendere suggerito dal nome: il 40% delle abitazioni non ha adeguate condizioni igieniche, con il conseguente dilagare di malattie d’ogni genere; oltre il 60% delle strade non è asfaltato; più di 250 famiglie vivono in baracche che rischiano di franare alla prima pioggia torrenziale; costruzioni di ogni tipo formano un labirinto in cui è difficile districarsi.
Povertà e disoccupazione sono all’origine di enormi problemi sociali: violenza, droga, fame, emarginazione, analfabetismo (14 milioni di brasiliani non sanno leggere né scrivere). Ai problemi locali, infatti si aggiungono gli squilibri che affliggono il resto del Brasile.
Pur essendo l’ottava potenza economica mondiale, il Brasile è il paese con la maggiore disuguaglianza al mondo nella ridistribuzione di ricchezza, concentrata in mano a pochi nababbi. Per cui, come dimostrano le statistiche ufficiali, oltre 32 milioni di brasiliani sono al di sotto della soglia della povertà e il 29% vive con meno di un euro al giorno.
I sociologi definiscono tale miseria «apartheid sociale»; e questa è ben visibile a Heliopolis. Per i più fortunati, cioè per chi ha un lavoro, il salario oscilla tra i 90 e i 400 euro al mese. La paga minima copre appena l’1% del cosiddetto «paniere» dei beni di prima necessità: ciò significa che migliaia di persone non guadagnano a sufficienza neppure per comprare gli alimenti.

Dal 1997 nella favela di Heliopolis lavorano i missionari della Consolata, da quando, cioè, si sono ritirati i missionari di un’altra congregazione religiosa.
Oltre alla necessità di assistenza religiosa alla popolazione, l’accettazione di questo nuovo campo di apostolato è motivata dalla vicinanza al seminario teologico: la favela offre un’opportunità ai giovani studenti di prepararsi concretamente alla missione.
Quando i missionari della Consolata incominciarono la loro presenza, Heliopolis non era ancora parrocchia, ma un’«area pastorale», organizzata in comunità cristiane di base, che cercavano di conciliare la loro fede con l’impegno sociale, la solidarietà e l’aiuto reciproco, lottando per la casa e altri diritti basilari.
Incontri di preghiera, celebrazioni eucaristiche, catechesi, novene, corsi biblici e altre attività religiose avvenivano in abitazioni private. Finché ci si è organizzati per trovare terreni e costruirvi spazi adeguati alle varie attività comunitarie.
Il 14 dicembre del 2003 l’«area pastorale» di Heliopolis è stata elevata a parrocchia e padre Ricardo Gonçalves Castro, dopo tanti anni di lavoro nella zona, è stato nominato parroco.
La parrocchia è dedicata a santa Paulina, la quale, nata in Italia, a 9 anni andò in Brasile, dove visse e morì, diventando la prima santa brasiliana che dedicò tutta la vita al servizio dei poveri.
La nuova parrocchia è composta da sei comunità: San Giuseppe Operaio, Santa Elisabetta, San Benedetto, Immacolata Concezione, Sant’Angela e Sant’Antonio. Quella di San Giuseppe è sede parrocchiale; la sua chiesa è stata una delle prime ad essere costruita, con l’aiuto di benefattori stranieri e la collaborazione della comunità.
La cappella della comunità di Santa Elisabetta, con l’adiacente centro sociale, è nata per l’iniziativa di gruppi del quartiere, che hanno comperato il terreno e offerto praticamente tutta la mano d’opera. Lo stesso coinvolgimento locale si è avuto anche con le comunità di San Benedetto e Sant’Antonio.
Sant’Angela, invece, ceduta alla parrocchia di Santa Paulina dai padri Oblati di San Giuseppe, era già una comunità matura, con cappella e centro sociale. Solo la comunità dell’Immacolata non ha ancora alcuna struttura e continua a radunarsi nelle abitazioni private.

Scopo della nostra presenza è, naturalmente, l’evangelizzazione e la promozione umana. Oltre al parroco e ai seminaristi, nella parrocchia di Santa Paulina lavorano due comunità religiose: le suore dell’Immacolata Concezione e le Francescane Angeline. In concreto, tale lavoro abbraccia tutte le normali attività di una parrocchia.
«I l lavoro missionario a Heliopolis richiede pazienza e tempi lunghi – afferma padre Ricardo, che da tempo vive nella favela -. L’organizzazione della parrocchia non è facile, anche perché la gente, abituata a vivere autonomamente, come comunità di base, stentano a inserirsi nella complessa organizzazione di una parrocchia. Ma a forza di insistere che la chiesa non è mia ma della gente, qualcosa si sta muovendo».
Molte responsabilità, infatti, sono affidate ai laici. Una volta al mese, i cornordinatori e animatori di tutte le comunità, si radunano insieme al parroco, ai seminaristi e alle suore per valutare il lavoro svolto, programmare e cornordinare le attività essenziali della parrocchia: catechesi, liturgia, cura degli anziani, infanzia missionaria, pastorale dei bambini, dei giovani e delle famiglie.
Esistono, poi, diversi gruppi e movimenti impegnati in varie attività religiose e sociali: gruppo delle donne, gruppi di preghiera, di studio della bibbia, di alfabetizzazione, di visite alle famiglie.
Ciò non significa che a Santa Paulina sia tutto rose e fiori. La partecipazione a incontri e attività è molto varia, anche perché si svolgono di sera, dopo una giornata di duro lavoro. Così pure la domenica: alcuni uomini lavorano anche nei giorni festivi; altri approfittano per riposarsi o per migliorare la propria casa.
Sorte migliore hanno le iniziative rivolte a donne, adolescenti e bambini. La pastorale dei bambini, che si occupa della loro salute, per esempio, è inserita nel programma a livello nazionale. Secondo le statistiche, il 41% dei bambini tra i 6 e i 14 mesi sono denutriti; uno ogni 16 muore prima di raggiungere i 5 anni, per malattie che possono essere prevenute.
A Heliopolis ci occupiamo dei bambini da zero a sei anni: una volta al mese essi vengono al centro sociale per essere pesati e nutriti; negli altri giorni, gli agenti di pastorale li visitano a domicilio. Il programma comprende pure la formazione delle mamme, per insegnare loro a proteggere la salute dei loro figli.
Il coinvolgimento delle comunità riguarda pure i mezzi per sostenere le loro attività. E bisogna dire che sono ingegnose: organizzano lotterie e bazar, cercano liberi contributi e donazioni di vario genere.

Il problema più grave di Heliopolis è certamente la violenza: la maggior parte degli assassinii sono provocati dai trafficanti di droga. Molta gente è coinvolta nello spaccio, non per scelta, ma come mezzo di sopravvivenza.
La chiesa cerca di rispondere alla sfida della violenza soprattutto con la catechesi familiare, che, dall’inizio dell’anno, ha subito una svolta significativa: stiamo coinvolgendo i genitori nella formazione religiosa dei loro figli. Sono essi che, in casa, danno lezioni di catechismo, con l’aiuto di un catechista, che visita regolarmente le famiglie. In tali visite si discute dei mezzi per difendere i più piccoli dai pericoli della droga.
Per ora ci sembra il metodo migliore. È impossibile prendere di petto i trafficanti: si rischierebbe la vita. La loro presenza è di per se stessa causa d’insicurezza, anche per noi seminaristi stranieri, almeno all’inizio: non essendo conosciuti da tutta la popolazione, si rischia di essere scambiati per trafficanti. Una volta raggiunte le comunità, ci sentiamo al sicuro.
Ad aiutarci nella lotta contro la violenza si è unito un organismo non governativo: l’Unione dei nuclei e associazioni di abitanti di Heliopolis (Unas). Da 5 anni, all’inizio del mese di giugno, Unas e comunità cristiane organizzano la «Marcia della pace» per chiedere la fine della violenza nella favela. Il motto dell’ultima manifestazione era: «La pace comincia qui».
La collaborazione tra chiesa e Unas comprende altre iniziative per migliorare la formazione di 1.100 ragazzi e adolescenti: per toglierli dalla strada sono stati creati spazi di incontro per il tempo libero; vengono organizzate attività culturali e sportive, come scuola di teatro e di pallone, dopo-scuola per supplire alle carenze dell’insegnamento statale.
Molte di queste attività per i più piccoli sono gestite dai giovani, preparati appositamente per tale responsabilità. Per i giovani, inoltre, organizziamo corsi di abilitazione per entrare nel mercato del lavoro, evitando così di cadere nelle maglie della droga.

Daniel Mkado Onyango




GLI OGM (2) Sfameremo il mondo con il cibo di Frankestein?

La «biodiversità» è in grave pericolo anche a causa delle biotecnologie e dei prodotti geneticamente modificati. Le multinazionali si appropriano
di organismi viventi e di saperi del Sud del mondo (è la pratica della «biopirateria») e li brevettano per fae commercio e profitti. Nell’Unione europea oggi è obbligatoria l’etichettatura dei prodotti Ogm. Allo stesso tempo, la Commissione Ue ha ceduto alle pressioni dell’industria togliendo la moratoria sull’importazione degli Ogm (come il mais dolce «Bt11»). Sarebbe meglio decidere: prima il business o prima le persone? (Seconda parte)

«Attualmente il 95% del nostro fabbisogno alimentare è legato a 30 piante, e tre quarti della nostra dieta si fondano su 8 colture. Il re dei Boscimani, in Sud Africa, pranza con 85 tipi di verdure selvatiche. E noi? I nostri supermercati moltiplicano le confezioni e le cosmesi di prodotti, e spacciano la “diversità ottica” per “diversità biologica”. L’uomo dei paesi industrializzati acquista involucri diversi e mangia le stesse cose» (1).
Giorgio Celli visualizza così una delle conseguenze dell’industria agroalimentare: la perdita di biodiversità, destinata ad acutizzarsi con l’introduzione massiccia delle biotecnologie in agricoltura. Soddisfatti l’occhio e lo stomaco, ci siamo «dimenticati» di porre l’attenzione al modo in cui è stato ottenuto il cibo di cui ci nutriamo.

BIODIVERSITÀ: LA DIVERSITÀ BIOLOGICA

Per biodiversità, ossia «diversità biologica, diversità della vita», si intende sia la ricca varietà delle forme viventi che popolano il nostro pianeta sia gli ecosistemi in cui le diverse specie sono inserite.
Secondo le stime, il numero di specie viventi è compreso tra 3,6 e 100 milioni. Attualmente si conoscono circa 3.000 specie di batteri, 260.000 piante vascolari, 70.000 funghi, 500.000 virus, 45.000 vertebrati e 950.000 insetti.
L’uomo rappresenta solo una delle milioni di specie esistenti, ma l’industria agroalimentare e biotech considera tutte le altre come semplici fonti di materia prima e di profitto. Al di là degli aspetti etici e del rispetto per tutte le forme viventi, preoccuparsi esclusivamente delle specie vegetali e animali considerate «utili» all’uomo può risultare molto rischioso. Ad esempio, microbi apparentemente insignificanti giocano un ruolo fondamentale per il mantenimento di processi ecologici che permettono la vita di tutte le specie, compresa la nostra. Eppure, evidenzia Vandana Shiva, non esiste alcun movimento di opinione per la loro tutela e protezione, come c’è invece per salvare la tigre o l’elefante.
Ogni anno si estinguono circa 27.000 specie, mille volte di più di quanto avverrebbe senza il contributo umano. «L’uomo – continua la scienziata indiana – almeno nei paesi occidentali, pensa infatti di occupare il vertice della piramide della vita, anziché considerarsi un semplice tassello nel complesso teatro biologico del pianeta, dove il grande dipende dal piccolo e dove l’estinzione di una specie significa non solo perdere quella specie, ma anche creare una situazione di pericolo per le altre». Per fare un esempio, quando scompare una pianta, con lei si estinguono da 20 a 40 specie animali. Un metro cubo di terreno estratto da una faggeta in Danimarca e analizzato in laboratorio, ha rivelato la presenza di 50.000 anellidi, 50.000 fra insetti e acari, 12 milioni di nematodi. Un grammo dello stesso campione conteneva 30.000 protozoi, 50.000 alghe, 400.000 funghi e miliardi di cellule batteriche. Batteri, funghi e protozoi dell’intestino di molti animali svolgono funzioni fondamentali per la digestione: senza questi organismi microscopici i cosiddetti animali superiori non potrebbero esistere. L’ignoranza umana sulle funzioni ecologiche delle specie viventi non può quindi essere il pretesto per manipolarle a piacimento, senza preoccuparsi delle conseguenze sull’ambiente e, dunque, sull’uomo.
La distruzione della biodiversità è stata sicuramente accelerata dalla globalizzazione: centinaia di migliaia di ettari di foreste e terre agricole sono convertite in monocolture industriali, ossia in distese di territorio coltivate ad un’unica coltura, scalzando e distruggendo, quindi, la diversità biologica. Ad esempio, rispetto ad una foresta pluviale ricca di specie, che sostiene gli ecosistemi e i cicli ecologici, la concezione dominante privilegia le monocolture, come quella dell’eucalipto, utile all’industria della carta e della polpa di legno. Mantenute grazie all’uso intensivo di fertilizzanti chimici, energia e acqua, le monocolture distruggono la biodiversità e consumano più risorse naturali. Per fare un altro esempio, in India le varietà indigene di grano richiedono 300 mm d’acqua, mentre le varietà dell’agricoltura industriale ne usano circa 900.
Avendo come obiettivo la selezione di piante con una presunta maggiore produttività, l’estensione delle coltivazioni Ogm su tutto il pianeta rientra quindi perfettamente in questa tendenza alla monocoltura ed anzi la incentiva.

DIVERSITÀ CULTURALE

Quando i modelli di produzione e consumo della popolazione ricca del pianeta contribuiscono all’erosione della biodiversità, compromettono la possibilità dei poveri del Sud del mondo di mangiare e curarsi: per loro la biodiversità si traduce, infatti, in sopravvivenza umana.
«Per il cibo e le medicine, per l’energia e le fibre, per i cerimoniali e l’artigianato, i poveri dipendono proprio dall’abbondanza delle risorse biologiche, dalla conoscenza e dall’esperienza accumulata nel tempo sulla biodiversità – dichiara Vandana Shiva -. Tre miliardi di persone, cioè il 60% della popolazione mondiale, utilizzano le medicine tradizionali per il trattamento delle malattie». In India e in Cina l’80-90% di queste cure si basa sulla conoscenza dei principi attivi delle piante: il solo erbario officinale cinese utilizza circa 5.000 specie vegetali. In Kenya, il 40% dei principi curativi vegetali viene estratto dalle piante delle foreste native. Gli stessi chinino e morfina sono prodotti di origine vegetale: negli Usa il 40% delle prescrizioni mediche dipende ancora da principi attivi ricavati dalle risorse naturali. Anche la popolazione che vive nel mondo industrializzato ha bisogno della biodiversità per la propria economia: dal cibo, al petrolio e al carbone, al cemento, tutta l’economia dipende dalle risorse biologiche.
«Se si fa una valutazione in termini di biodiversità anziché di capitali finanziari, il Sud del mondo è ricchissimo, mentre il Nord è povero. Al contrario, il Nord ha accumulato benessere esercitando il controllo sulle risorse biologiche del Sud». Con l’avvento degli Ogm tale controllo è incrementato ed è destinato ad aumentare.

IL MITO (FALSO) DI SFAMARE IL MONDO

I fautori degli Ogm affermano che lo sviluppo delle colture transgeniche è essenziale per sfamare la crescente popolazione mondiale e per abbassare i prezzi delle derrate alimentari. Qualsiasi rischio derivante dalla tecnologia agroalimentare di ultima generazione, sostengono, non può essere paragonato ai benefici apportati da maggiore quantità di cibo a prezzo più basso (2).
Chi si oppone alle biotecnologie, offre, però, diverse argomentazioni. Innanzitutto, spiega Greenpeace, «l’insicurezza alimentare – come elegantemente viene oggi definita la fame – non si caratterizza per l’insufficiente disponibilità di alimenti, ma per la squilibrata distribuzione dei redditi e l’iniquo accesso alle risorse produttive, che rendono precario l’accesso al cibo. La produzione odiea di alimenti a livello mondiale è tale da soddisfare il consumo umano per un valore medio pari a 2.800 calorie pro capite al giorno, a fronte di 2.500 calorie ritenute la soglia media per un’alimentazione adeguata». In linea con questo punto di vista, l’economista indiano Amartya Sen, vincitore del premio Nobel nel 1998, afferma che «la fame è il risultato del non avere abbastanza da mangiare. Non è il risultato del non esserci abbastanza da mangiare».
In Argentina, secondo produttore mondiale di colture geneticamente modificate e unico paese in via di sviluppo che coltiva piante transgeniche su larga scala, gli Ogm hanno concentrato la ricchezza e gli introiti nelle mani di poche aziende, contribuendo all’ulteriore impoverimento dei piccoli agricoltori. «La causa principale della fame risiede in problemi di natura sociale e politica, e puri strumenti tecnologici, quali sono gli Ogm, non offrono soluzione a questi problemi. Sono troppo costosi per i contadini e non sono appropriati per il consumo locale, tanto che le colture Gm, come mais, soia, colza e cotone, vengono esportate e utilizzate soprattutto come alimento per il bestiame.
I dati mostrano, inoltre, come i raccolti transgenici stiano soppiantando alimenti che popolazioni di culture diverse usano da sempre. «L’industria si sta concentrando su raccolti non alimentari, come il tabacco e il cotone, e sulla soia che, prima d’ora, rappresentava un alimento base solo nell’Asia dell’est – incalza Vandana Shiva -. Tabacco, cotone e soia non sono alimenti base e non sfameranno gli affamati». Semmai, preoccupazioni sulla produttività dei terreni agricoli provengono dai crescenti fenomeni di desertificazione che, negli ultimi 50 anni, hanno interessato l’85% circa della superficie agricola mondiale: erosione, salinizzazione, compattamento, impoverimento dei nutrienti, inquinamenti di vario tipo.
Molta enfasi è stata data al cosiddetto Golden rice, ossia riso Gm alle popolazioni con carenza di vitamina A. Tuttavia, affinché sia fonte di vitamine per chi se ne ciba, la dieta deve contenere quantità sufficienti anche di grassi e proteine, situazione evidentemente non realistica.

IL MITO DEGLI ALTI RENDIMENTI

Il bihmal è un albero diffuso nella regione dell’Himalaya. Si tratta di una pianta «polivalente»: le foglie offrono nutrimento agli animali d’allevamento durante la stagione secca, i rami foiscono fibre per la fabbricazione di corde, combustibile per cucinare e sostanze detergenti per i capelli. Per gli esperti dell’agricoltura industriale sarebbe da eliminare, per incrementare la resa delle colture. Molte varietà agricole sono state ingegnerizzate per ottenere maggiori rendimenti in termini di chicchi, ossia solo di una parte del raccolto effettivo: la paglia idonea a nutrire il bestiame e il suolo viene invece prodotta in quantità modeste.
Ciò che si ottiene con gli Ogm è quindi un aumento del prodotto su cui c’è interesse commerciale, a spese della componente utile per gli animali, i suoli e per l’economia locale. Secondo alcuni esperti, prima fra tutti Vandana Shiva, «l’ingegneria genetica porta in realtà ad una diminuzione complessiva della produzione».
Piantare una sola coltura sull’intera superficie di un campo, come prescrive la tecnica della monocoltura, ovviamente ne accresce il rendimento; piantare diverse colture intercalate comporterà una resa minore per ognuna di esse, ma una più elevata produzione totale di cibo. «Il mito degli alti rendimenti degli Ogm è fondato sul confronto con le grandi monocolture industriali anziché con l’agricoltura biologica, che è la vera alternativa», conclude Vandana Shiva.
Se vogliamo eliminare fame e povertà è necessario conservare la diversità, biologica e culturale.

BREVETTI E BIOPIRATERIA

L’ingegneria genetica ha aperto la strada ai brevetti sulla vita, il primo dei quali è stato concesso nel 1980 alla General Electric per un batterio modificato geneticamente. Negli ultimi anni, con l’introduzione sul mercato di piante transgeniche e di organismi misti, come ad esempio il maiale serbatornio di organi da trapiantare su esseri umani, la richiesta di brevetti per vegetali ed animali ha subito un’accelerazione. All’Ufficio europeo brevetti (Epo) di Monaco sono state presentate più di 15.000 richieste di brevetti nel campo dell’ingegneria.
I sostenitori della brevettabilità degli organismi viventi affermano che la concessione del brevetto consente, al mondo scientifico ed industriale, di accedere ad informazioni importanti da utilizzare per migliorare il benessere umano.
Tuttavia, chi si oppone alla brevettabilità adduce differenti motivazioni, sostenendo che la «libertà di ricerca» viene scambiata con la «libertà di vendere». Innanzitutto, un organismo vivente non può essere considerato propriamente un’invenzione umana. «I geni non sono creati dagli ingegneri genetici che, semplicemente, li spostano da una parte all’altra – come ha sottolineato un gruppo di scienziati inglesi -. Se questo principio fosse stato applicato alla chimica, sarebbero stati brevettati anche gli elementi» (3).
I brevetti rappresentano inoltre un incentivo commerciale allo sviluppo di organismi geneticamente modificati: avendo generalmente una validità compresa tra 17 e 20 anni, esso garantisce al suo possessore i diritti esclusivi per sfruttare l’invenzione a fini commerciali. Infatti, dichiara Greenpeace, nel caso delle colture geneticamente modificate gli agricoltori devono per esempio pagare un diritto sul brevetto, delle royalties per l’uso dei semi ingegnerizzati, nonché le sementi stesse prodotte dalle piante ingegnerizzate per tutta la durata del brevetto.
I potenziali profitti derivanti dalla brevettabilità incoraggiano quindi le multinazionali a ricercare per il mondo i geni che potrebbero avere applicazioni proficue dal punto di vista commerciale. Come si è visto in precedenza, una delle ricchezze peculiari dei paesi del Terzo mondo è rappresentata proprio dalla diversità genetica: nelle foreste pluviali del Sud vive più della metà delle specie animali e vegetali del mondo. I ricercatori vengono quindi inviati in queste zone per scovare organismi o piante di valore, riportano in laboratorio i campioni, e da questi vengono isolati i principi attivi o le sequenze geniche che saranno brevettate come «proprie» invenzioni.
Come denuncia Greenpeace, l’accordo TRIPs sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (Trade related aspect on intellectual property rights), iniziativa di una coalizione di multinazionali, non impone né che le compagnie biotech chiedano un permesso prima di accedere alle risorse biologiche, né che i proprietari dei brevetti condividano i benefici con le popolazioni che da un lato abitano le terre da cui hanno origine i geni, e che dall’altro hanno mantenuto e sviluppato la biodiversità nel corso di migliaia di anni. Anzi, in molti casi, le comunità devono pagare alle multinazionali i diritti per usare qualcosa che precedentemente era parte integrante della loro civiltà.
In India, l’albero di Neem rappresenta un classico esempio: utilizzato per migliaia di anni grazie alle sue proprietà antibatteriche ed insetticide, proprio su queste caratteristiche le multinazionali occidentali hanno ottenuto dozzine di brevetti.
Un rapporto commissionato da Christian Aid ha valutato che la biopirateria sta drenando risorse dal Terzo mondo per un valore equivalente a 45 miliardi di dollari all’anno.

IL CONSUMATORE PRIGIONIERO

«Nell’era della comunicazione – spiega Giorgio Celli – si è verificata, su una materia universale e tanto delicata come quella degli alimenti, un’imperdonabile omissione di comunicazione». Nell’era della democrazia, i cibi transgenici sono stati immessi sul mercato prima ancora che i consumatori potessero capire di cosa si trattasse. Nell’era della libertà, il cittadino non ha potuto scegliere se acquistare o meno prodotti Ogm, semplicemente perché non è stato informato che essi erano già presenti in commercio.
Nell’Unione europea, il 18 aprile 2004, sono entrati finalmente in vigore i nuovi regolamenti europei sull’etichettatura di alimenti e mangimi geneticamente modificati e sulla tracciabilità degli Ogm. Ora tutti i prodotti contenenti ingredienti o derivati da un ingrediente che contiene più dello 0,9% di Ogm dovranno essere etichettati con la dicitura «questo prodotto contiene Ogm» oppure «questo prodotto deriva da Ogm».
L’etichettatura sarà richiesta anche per i prodotti in cui il Dna degli Ogm non può più essere identificato nel prodotto finale, come oli vegetali, amidi, zuccheri, ecc., finora esclusi dall’obbligo di etichettatura. Anche mangimi e additivi dovranno finalmente essere etichettati; basti pensare che i mangimi per gli allevamenti zootecnici (pollame, suini, bovini, pesci), costituiscono l’80% degli Ogm che entrano in Europa da oltreoceano. Secondo la Fao, nei paesi industrializzati il 70% della produzione dei cereali, ed in particolare della soia, viene infatti dirottato verso l’alimentazione zootecnica.
Anche se ancora lacunosi su alcuni aspetti, i nuovi regolamenti rappresentano attualmente le misure più rigide sull’etichettatura degli Ogm su scala mondiale, e dimostrano una certa attenzione nei confronti dei consumatori. Dati resi noti nel novembre 2003 dal Censis nell’ambito delle indagini condotte dal Monitor Biomedico, svelano infatti che il 57,3% degli italiani si dichiara favorevole agli interventi di ingegneria genetica se finalizzata alla prevenzione delle malattie. Ma la situazione si ribalta quando si parla di alimentazione: il 56,6% del campione è contrario e il 30,6% è favorevole. In seguito alla pressione dei consumatori, dettaglianti e grandi compagnie del settore hanno cominciato a puntare sugli alimenti non Gm. I primi sono stati Nestlè, Unilever e Cadbury nel 1999. Nello stesso anno la Monsanto ha addirittura deciso di eliminare per quanto possibile l’impiego di soia e mais transgenici dalla propria mensa aziendale!

DILEMMI E VINCOLI DEGLI SCIENZIATI

Secondo molti studiosi, non essendo ancora in grado di padroneggiare le nuove biotecnologie, l’unico atteggiamento razionale è quello di adottare il principio di precauzione, e quindi proporre controlli rigorosi alla sperimentazione e una moratoria sulle fasi successive. Il commercio dovrebbe essere guidato dal sapere scientifico, non il contrario.
Tuttavia, mentre da un lato gran parte dei biologi favorevoli agli Ogm lavora grazie a finanziamenti privati, dall’altro le risorse economiche pubbliche sono sempre minori. Il rischio che ne deriva è che sparisca una comunità scientifica indipendente, oltre che interdisciplinare. Dice Vandana Shiva: «I costruttori di refrigeratori non sono esperti dei danni prodotti alla fascia di ozono e i produttori di automobili non sono esperti di cambiamenti climatici, così come i genetisti non sono competenti di bioinquinamento».
La protezione della biodiversità richiede alcune radicali modifiche nel nostro modo di pensare, nei nostri modelli di produzione e consumo e nelle nostre politiche. E l’Occidente industrializzato dovrà attuare dei cambiamenti ancora più radicali. «La lezione da imparare – secondo Vandana Shiva – è la cooperazione, non la concorrenza: il grande dipende dal piccolo e non può sopravvivere se lo stermina».
(Seconda parte – fine)

(1) G. Celli, N. Marmiroli, I. Verga, I semi della discordia. Biotecnologie, agricoltura e ambiente, in bibliografia
(2) Worldwatch Institute, State of the World 2004. Consumi, in bibliografia
(3) Dalton H. et al, Patent threat to research, Nature 1997.

BOX 1

L’APPELLO DI GREENPEACE: «Entra in azione!»

I consumatori hanno un grande potere, quello di fare in modo che i supermercati, i ristoranti, gli alimenti che quotidianamente vengono acquistati, rimangano NON Ogm. Adesso che nuove norme sull’etichettatura, maggiormente restrittive, sono entrate in vigore (a partire dal 18 aprile 2004), con il tuo aiuto possiamo trovare i prodotti contenenti Ogm, identificarli, evitarli e mostrarli a tutti i consumatori. Alcune aziende proveranno ad introdurre prodotti etichettati Ogm nei mercati europei. Più persone rifiuteranno questi prodotti, più facile sarà salvaguardare il nostro diritto di dire NO agli Ogm.

Informa altri consumatori
Stampa il nostro volantino informativo e fallo leggere alla tua famiglia, agli amici, ai vicini di casa. Se è possibile lasciane alcune copie in negozi, ristoranti o dal tuo medico.

Diventa un Detective di Ogm
Ogni volta che vai a fare la spesa, guarda attentamente la lista degli ingredienti. Se trovi un prodotto etichettato Ogm, prendi nota dei dettagli del prodotto, del produttore, del nome e dell’indirizzo del supermercato, della data in cui hai trovato il prodotto in questione e dell’ingrediente Ogm segnalato sull’etichetta. Informa il Responsabile della Campagna Ogm di Greenpeace e, se possibile, fai una foto del prodotto (in particolare dell’etichetta) e carica la tua foto sul nostro sito. Apprezziamo molto il tuo supporto perché è essenziale per mantenere informati i consumatori in tutta Europa.

Restituzione – sostituzione – rimborso
Se senza saperlo compri un prodotto etichettato Ogm, dovresti riportarlo indietro al supermercato dove lo hai comprato e richiedere la sostituzione di questo con uno NON Ogm. Porta anche i tuoi amici a fare la stessa cosa. Perché non ci andate tutti insieme per dare più forza alle vostre idee? Più siete meglio è!

Protesta contro i cibi Ogm
Manda una lettera di protesta al tuo supermercato o all’azienda produttrice del prodotto Ogm per chiedere cibi NON Ogm. Perché non scrivi una lettera anche ai giornali locali e non incoraggi una discussione a livello locale?

Se vuoi puoi accedere al sito di Greenpeace Inteational dove puoi anche trovare le ultime notizie su come i consumatori stanno lottando a livello europeo per il proprio diritto di dire NO agli alimenti Ogm.

Fonte: www.greenpeace.it

BOX 2

La nuova normativa: i pro e i contro

• Pro. Nuova soglia dello 0,9% per ogni ingrediente.
La soglia massima, definita come «presenza accidentale o tecnicamente inevitabile», sotto la quale non vi è alcun obbligo di etichettatura, ha subito una modifica più di forma che di sostanza: è passata dall’1% allo 0,9%. Tale soglia fa riferimento a ogni singolo ingrediente usato nel prodotto e non alla massa o volume totale; questo significa, per fare un esempio, che se la lecitina di soia contenuta in una tavoletta di cioccolato deriva da materia prima transgenica per più dello 0,9%, dovrà essere etichettata anche se la lecitina è solo l’1% del totale degli ingredienti. È importante notare che questa soglia è applicabile soltanto a quei produttori che possono dimostrare di aver adottato tutte le possibili misure per evitare tale contaminazione.

• Pro. Controllo del processo.
Fino a oggi non dovevano essere etichettati quei prodotti contenenti ingredienti di provenienza transgenica nei quali, a seguito del processo di lavorazione, non erano più rintracciabili Dna o proteine transgeniche (come ad esempio oli, amido o glucosio), anche se provenienti al 100% da materie prime transgeniche. Grazie alle pressioni dei consumatori, volte a una maggiore trasparenza e informazione, con le nuove norme non sarà più così e anche questi prodotti dovranno essere etichettati se derivanti da materie prime transgeniche.

• Pro. Mangimi, transgenici o no?
Si stima che circa il 90% degli Ogm importati in Europa siano utilizzati nella mangimistica animale e nella produzione di oli e amidi. Finalmente, grazie ai nuovi regolamenti, si comincia a porre rimedio all’assoluta mancanza di regole in questo settore per ciò che riguarda l’utilizzo di Ogm: i mangimi dovranno essere etichettati rispettando la stessa soglia degli ingredienti alimentari, 0,9%.

• Contro. Senza etichetta i prodotti derivati da animali nutriti con Ogm.
Purtroppo, vanno segnalate ancora gravi carenze. A cominciare dai prodotti derivati da animali nutriti con Ogm, tuttora non soggetti all’obbligo di etichettatura. Parliamo di uova, carne, latticini, per i quali i produttori non sono obbligati a specificare in etichetta se gli animali dai quali provengono sono stati nutriti o meno con mangimi transgenici. Anche per questo motivo Greenpeace ha scelto di continuare a informare i consumatori attraverso la guida «Come difendersi dagli Ogm», contenente notizie sull’origine dei prodotti in commercio ottenuti o meno da animali nutriti con Ogm. Le liste di prodotti che Greenpeace propone (www.greenpeace.it) sono realizzate in base alle dichiarazioni scritte ricevute dalle aziende alimentari. Queste liste non comprendono tutti i prodotti disponibili sul mercato italiano, e poiché il mercato muta costantemente, le liste sono aggiornate periodicamente.

• Contro. Ogm non autorizzati.
Altro punto dolente delle nuove regole riguarda la tolleranza, fino a un massimo dello 0,5%, concessa per quegli Ogm non ancora autorizzati che arrivano comunque sul mercato europeo. Tale soglia scadrà automaticamente dopo 3 anni; a partire dalla scadenza, è tolleranza zero per gli Ogm non autorizzati.

Fonte: www.greenpeace.it

Silvia Battaglia




ANNIVERSARI”E adesso, su ancora le maniche!”

20 GIUGNO: LA CONSOLATA
due centenari significativi nel santuario di Torino

Narra la tradizione: nell’anno 1104 un cieco parte da Briançon,
raggiunge la chiesa di S. Andrea di Torino, trova sotto le macerie di una cappella
l’immagine della Madonna Consolata e riacquista la vista…
Oggi il santuario della Consolata di Torino celebra il 9° centenario di quell’evento.
Il santuario celebra pure un altro centenario: quello del 1904,
allorché Giuseppe Allamano gli diede spazio, aria, vita. Anche in Africa.

Il centenario 1904 – 2004
Durante il Congresso mariano, svoltosi a Torino nel 1898, maturò in Giuseppe Allamano, già rettore del santuario della Consolata, l’idea di fondare una rivista per aggioare i fedeli su quanto si svolgeva al santuario (ndr: la rivista iniziò nel 1899 e si chiamò La Consolata, per divenire nel 1928 Missioni Consolata).
Un altro motivo suggeriva la nascita della rivista. Si era prossimi alle celebrazioni dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (1104-1904). L’Allamano e il suo collaboratore, Giacomo Camisassa, intendevano giungervi con un santuario completamente rinnovato, ma soprattutto ampliato. La popolazione doveva essere coinvolta in questa grandiosa impresa, anche molto dispendiosa.
I lavori, iniziati nel 1889 e terminati nel 1904, erano necessari: non solo perché l’interno del santuario era in uno stato pietoso (pavimento dissestato, pareti affumicate e sgretolate), ma soprattutto perché risultava troppo piccolo. L’antifona che l’Allamano si sentiva continuamente ripetere era: «Occorre maggior spazio. La gente si pigia all’inverosimile…».
Il rettore fece scrivere che il santuario, così com’era, poteva andare bene nel 600, quando Torino contava una popolazione inferiore di un sesto dell’attuale. Diceva: «Bisogna trovarsi al santuario nei giorni di festa, o anche solo un sabato qualsiasi, per avvertire tutti gli inconvenienti di questa deficienza di spazio e la mancanza d’aria, insufficiente non solo nelle grandi circostanze, ma anche nelle funzioni ordinarie».
A dare prestigio ed interesse alla nuova rivista contribuì non poco la fondazione, nel 1901, dei missionari della Consolata per l’Africa. La gente avvertì subito che, in tal modo, il santuario apriva porte e finestre. In breve tempo gli abbonati a La Consolata raggiunsero il numero di 19 mila.
Anche gli aderenti alla Compagnia della Consolata (nata nel 1522), riformata in senso popolare dall’Allamano, raggiunse in poco tempo centinaia di migliaia di iscritti. Così le comunioni eucaristiche nel santuario: 97.820 nel 1881, salirono nel 1890 a 127.980.
Con queste iniziative avvenne che, attorno al santuario, ancora prima della fondazione dell’Istituto missionario, gravitasse già un «mare di gente», come scrisse nel 1990 don Dario Berruto, rettore del santuario. Anzi, è per l’esistenza di questo «mare di gente» che, accanto al santuario, poté nascere l’Istituto missionario.
Il tutto con calma, senza strafare, senza esorbitare nella richiesta di denaro. Però l’impronta era quella descritta in modo suggestivo da un cugino francescano dell’Allamano, il quale, in una visita al santuario, si sentì dire in piemontese dallo stesso rettore: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti».
Così dicendo, l’Allamano aveva alzato le mani, agitandole, assumendo l’atteggiamento di chi si dà da fare e vuole lavorare. In tale modo il santuario da devoto o contemplativo divenne anche apostolico.
DUE AUREOLE DI DIAMANTI
Il santuario della Consolata, come è noto, è composto da due chiese: quella di S. Andrea, in forma ovale, e il santuario vero e proprio, in forma esagonale e con cupola, che si apre sul fianco interno della prima chiesa e contiene l’altare maggiore con l’icona della Consolata.
Le due chiese, prima dei restauri, comunicavano tra loro solo per una apertura di pochi metri, cosicché la maggioranza dei fedeli si ammassava nella navata di S. Andrea e nulla poteva scorgere. Di più: tra l’una e l’altra chiesa vi era un notevole dislivello, superato da una gradinata, che rendeva poco agevole la circolazione. I lavori d’ingrandimento, iniziati nel 1899, consistettero nel costruire ai due fianchi del santuario quattro nuove cappelle (due per lato e con cupola), capaci ciascuna di 500 persone, così da costituire quasi due nuove navate che, partendo dalla chiesa di S. Andrea, introducevano all’altare maggiore. Il santuario fu così ingrandito di 400 metri quadri, con la capacità di 2.000 persone in più. I finanziamenti giunsero sempre puntuali e sufficienti.
Se avesse potuto, l’Allamano avrebbe voluto incoronare la Vergine e il Bambino del quadro. Ma ciò era impossibile, perché l’immagine era già stata incoronata il 20 giugno 1829. Lanciò, allora, la proposta di porre attorno al capo della Madre e del Figlio due aureole con 12 stelle di brillanti.
Naturalmente i diamanti (in tale quantità!) non si potevano trovare tra i ciottoli del Po. L’invito ad offrire i giornielli fu rivolto a chi poteva. Aderirono le dame di Casa Reale, ma anche persone comuni. Le due aureole raccoglievano 759 brillanti, mentre ne erano stati preventivati solo 384…
Le celebrazioni centenarie dovevano aprirsi l’11 giugno 1904. Molti si attendevano che l’Allamano costituisse una commissione organizzativa. Ma così non fu: l’Allamano e il Camisassa assunsero su di loro tutto il peso del lavoro… Il 18 giugno il rappresentante del Papa, cardinale Vincenzo Vannutelli, procedette all’imposizione delle due aureole.
Le feste si conclusero con la solenne processione del giorno 19 (durata cinque ore), che terminò alle 21. Vi parteciparono 6 cardinali, 23 vescovi, 104 parroci… e una folla immensa. Fu una manifestazione religiosa imponente che non aveva precedenti «nella memoria dei torinesi di mezza età» (La Stampa, 20 giugno 1904).
In appendice, si può aggiungere che, nella notte tra il 7 e l’8 febbraio 1979, le due preziose aureole vennero rubate. Però l’Allamano, già al suo tempo, aveva provveduto a sostituire le due aureole, tanto appetibili ai ladri, con due finte. Quelle vere erano in cassaforte. Pertanto i ladri asportarono pietre false.
Ma che fine fecero i diamanti veri? Con l’autorizzazione della Santa Sede vennero alienati e venduti, dopo la seconda guerra mondiale, per ricostruire il santuario e il convitto ecclesiastico danneggiati dai bombardamenti del 13 agosto del 1943.
ATTIVI, LABORIOSI, INTRAPRENDENTI
Alle celebrazioni del 1904 parteciparono anche i missionari della Consolata, presenti a Torino: un piccolo gruppo, perché la maggior parte era in Kenya. La Consolata, giugno 1904, accenna al nuovo Istituto missionario e riporta una frase del cardinale Richelmy, che lo presenta come un’istituzione indipendente dal santuario, ma nello stesso tempo come un ingrandimento importantissimo del medesimo, nella lettera e nello spirito.
Nella lettera circolare del 6 gennaio 1905 ai suoi missionari in Africa l’Allamano, nell’apertura, accenna alle solenni celebrazioni: «Un sacrificio ben doloroso fu certo per voi l’essere così lontani… e non poter rimirare la santa Effige adoa delle nuove corone… Se i chierici, vostri confratelli, furono giustamente orgogliosi di assumersi in quei giorni la rappresentanza di voi ai piedi della Consolata, io me ne feci un dovere specialissimo. Lasciai in certo modo da parte le altre attribuzioni per non dimenticare la mia qualità di padre di questa nuova famiglia…».
Dopo le celebrazioni così ben riuscite, l’Allamano, che si era preso cura del programma da realizzare, «venne interpellato se non avrebbe accettato qualche distinzione onorifica. A questa proposta… rispose che egli personalmente nulla desiderava, ma che avrebbe volentieri accettato qualcosa che tornasse d’onore per il santuario. Chiese a Pio x che il santuario venisse eretto a basilica pontificia». Fu esaudito il 7 aprile 1906.
Ritorna alla mente la figura del rettore di fronte al cugino francescano, al quale dice: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti». L’Allamano invita anche i suoi missionari a tirarsi su le maniche.
la Consolata e la «Consolatina»
Nel gennaio 1902 l’Istituto missionario aveva un anno di vita. Il mensile La Consolata ricorda anche il nuovo Istituto, del quale nel giugno 1901 era stata benedetta la cappella della prima Casa Madre in corso Duca di Genova (oggi corso Stati Uniti), denominata in modo allusivo «La Consolatina», con questo commento: «L’importanza di tale funzione sta a dimostrare come il culto della Consolata non sia solo contemplativo, ma attivo, né si restringa solo a Torino o all’Italia».
Il santuario era stato retto per secoli da monaci (Benedettini, Cistercensi, Minori osservanti) o da religiosi (Oblati di Maria, che contavano pure delle missioni). Certamente l’atmosfera che vi si respirava era monastica: una devozione alquanto centripeta, quasi fine a se stessa, come un focolare in pieno inverno… con la gestione di un pensionato per preti anziani. Dopo secoli, il santuario era invecchiato, senza che qualcuno pensasse a restauri.
Nel 1871 il santuario, per ragioni politiche, divenne diocesano, alle dipendenze del vescovo locale, gestito da sacerdoti. Il passaggio da un regime monastico ad uno diocesano si consolida, nel 1880, con l’Allamano. Questi nel 1883 inizia i restauri estei del santuario, per ricordare nel 1885 il 50° della cessazione del colera. Libera la cupola da un ballatornio esterno, che la cinge con poca eleganza; elimina gli speroni che sporgono dai tetti più bassi; riveste la cupola di piombo; rinforza con uno zoccolo in pietra il perimetro esterno del santuario… Poi, in occasione dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (che cadeva nel 1904), iniziò nel 1889 i grandi restauri interni.
Intanto – come si è detto – intorno al santuario gravitava un mare di gente. Ed è per questo «mare» che poté sorgere l’Istituto missionario, immettendo aria nuova, aprendo porte e finestre, dando la certezza a tutti che il santuario, anche da un punto di vista finanziario, si era trasformato da «conca» a «canale». I fedeli compresero molto bene.
Oggi questa apertura deve, forse, essere in qualche misura ricuperata… sull’esempio di un prete diocesano, quale fu l’Allamano: senza strafare, seppe tirarsi su le maniche, insieme ai sacerdoti del santuario del suo tempo e, soprattutto, dei missionari (che restano pur sempre «i missionari della Consolata»), memori del detto profetico: «Guardate la roccia da cui siete stati tagliati» (Is 51, 1).

NON DI SOLO PANE

«La messa è finita: andate in pace!». Il coro esplode in un canto giornioso, ritmato dal rullio dei tamburi. I bambini guardano estasiati. Le donne conversano. Gli uomini sono già sul sagrato della piccola e pericolante chiesa di paglia e fango. Qualcuno discute animatamente con il missionario.
Io osservo tutto, distaccata. Nel mio pensiero non vedo le donne, né gli uomini, non risento i canti né il rullio del tamburo. Non vedo gli occhioni spalancati dei bambini. Non vedo nemmeno la loro povertà disegnata su abiti scoloriti, su piedi scalzi, su ventri gonfi. Sono assente.
Sono stupita di me stessa, oltre che dell’Africa e dei suoi cristiani.
Mi aspettavo richieste di aiuto: per la scuola senza banchi, per il dispensario senza siringhe, per la strada che non è una strada…
E invece no! Mi hanno chiesto di aiutarli a pregare. A pregare come si deve, in una chiesa decorosa, con finestre dalle quali entri la luce del sole, un pavimento sul quale possano sedersi i bambini accanto alle mamme, un tetto che non rischi di cadere loro in testa, un inginocchiatornio… mi hanno chiesto queste cose per pregare meglio. Perché «non di solo pane vive l’uomo…» (Mt 4,4).

Era l’agosto del 2003. Accompagnavo sette giovani di Torino per un campo di lavoro e conoscenza nella missione di Cuamba nella regione del Niassa, nel nord del Mozambico.
Qui opera e lavora con grande efficienza, ma soprattutto efficacia, padre Carlo Biella, missionario della Consolata, affiancato da padre Alberto De Jesus, diocesano aggregato, venezuelano.
Perché la nostra conoscenza fosse più ampia possibile, padre Alberto aveva organizzato, per le tre settimane del nostro soggiorno, incontri con la gente, che accorreva incuriosita per vedere i mucunha (i bianchi), dei quali però hanno paura. Sovente scappavano e i bambini si mettevano a piangere a pieni polmoni, quando uno di noi si avvicinava. Purtroppo gli sporadici contatti con l’uomo bianco, unica eccezione i missionari, si sono sempre rivelati «trappole»; hanno dovuto imparare a diffidae.
Gli ammalati, fiduciosi, attendevano la nostra visita, come se la nostra presenza potesse allontanare il male e insieme a loro pregavamo, per tutti.
Visitavamo le comunità con capanne sparse, anch’esse rigorosamente di fango e paglia, accompagnati dagli animatori che, durante il cammino, ci parlavano della guerra, ormai, fortunatamente, un lontano ricordo, dell’«esodo» di tanta gente che cercava rifugio altrove per sfuggire alla morte, di «un popolo in cammino». Nei loro racconti e nella semplice conversazione si ispiravano alla parola di Dio.
Rimanevo affascinata e meravigliata per la loro profonda conoscenza delle sacre scritture. Ho visto la loro fede!

L a cappella della comunità di Nakhapa, una delle circa 50 che fanno parte della missione di Cuamba, intitolata alla beata Vergine Consolata, era veramente messa male. I continui visibili rabberci erano ormai del tutto inutili; pezzi di fango si staccavano dalle pareti e il tetto sembrava che volesse crollare da un momento all’altro. La gente se ne vergognava; soprattutto temeva di dover rinunciare a incontrarsi nel giorno di festa, la festa vera, per pregare, vista la propria impossibilità di costruire una chiesa nuova perché troppo poveri.
Fu al termine della celebrazione che un animatore, alzatosi, disse qualcosa in macua, che il padre mi tradusse in portoghese: ora avrebbe avuto luogo l’offertorio ed era per noi.
Iniziò a sfilare una lunga processione di persone e ognuna portava il suo povero dono: un piatto di fagioli, una papaia, due patate di manioca, un po’ di riso, una manciata di fagioli. Probabilmente era il «pane quotidiano» dell’intera famiglia («l’obolo della vedova»).
In cambio mi chiedevano che, tornando in Italia, sensibilizzassimo la gente su questo problema al quale nessuno di noi dà più importanza. I fedeli africani ci chiedono di poter pregare in un ambiente dignitoso. Ci chiedono di aiutarli a ricostruire il loro «tempio», che considerano vitale quanto una casa, un dispensario, una scuola, una strada.

Non sono ancora riuscita a trovare il denaro necessario, sebbene la cifra non sia elevata. Questo mi fa vivere in sospeso, in una costante sensazione di incompiutezza. Ma quello che più mi rattrista è constatare che la generosità che distingue gli italiani si esaurisce… quando si chiede loro di costruire una chiesetta!

Gloriana Babbini

Igino Tubaldo




110 anni di missione, fedeli cambiando / Asia

Asia

Fino agli estremi confini (orientali) del mondo

Profetizzata dal beato Allamano: «Io non lo vedrò, ma forse andrete nel Giappone, nella Cina, nel Tibet», l’apertura ufficiale di una missione della Consolata in Asia dovette essere attesa per qualche decennio. Fu il VII Capitolo Generale (1981) ad iniziare a coltivare il sogno asiatico dell’Istituto che vide l’approvazione definitiva sei anni più tardi, nel Capitolo del 1987. La destinazione non fu il Giappone, né tanto meno la Cina o il Tibet, ma la Corea del Sud, alla volta della quale i primi quattro missionari, tutti giovanissimi (il più “anziano” aveva solo 35 anni) e provenienti da aree culturali diverse, partirono il 18 gennaio 1988. Inutile dire che dietro l’apertura in Corea aleggiava il sogno missionario della Cina, un desiderio destinato a rimanere tale fino ad oggi a causa degli insormontabili problemi di ordine politico e burocratico.
L’avventura asiatica rappresentava per l’Istituto una nuova frontiera missionaria dopo quella africana (a partire dal 1902, in Kenya) e, dal dopoguerra, latinoamericana. Come le due precedenti esperienze anche questa in Estremo Oriente era caratterizzata da alcuni tratti distintivi che individuavano l’originalità della nuova missione. Innanzitutto la dimensione di dialogo e di incontro. Avvicinarsi al mondo culturale asiatico significava farsi prossimi di tradizioni religiose molto più antiche della nostra e, quindi, da trattare con assoluto rispetto e con profondo atteggiamento di ascolto. In Corea si è voluto seguire questo stile di missione, dedicando anni di studio alla difficile (per noi) lingua e alla cultura del posto, un periodo di ambientamento che ha messo a dura prova la pazienza e la resistenza di molti missionari che hanno seguito negli anni le orme dei primi quattro pionieri.
A partire dal 2003, la nostra presenza in Asia si è impreziosita e completata con l’apertura della missione in Mongolia, pensata e concretizzata in collaborazione con le missionarie della Consolata. L’opzione di andare in un paese grande cinque volte l’Italia e con una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti (di cui poco meno di un terzo vivono nella capitale Ulaan Baatar), a grande maggioranza buddista, va esattamente nella stessa direzione della precedente esperienza coreana.
Ciò che l’Asia grida a gran voce oggi all’Istituto è un qualcosa che appartiene al nostro Dna, ma che sovente tendiamo a dimenticare: noi siamo per i non cristiani. Così ci ha voluti il fondatore, ma così deve essere in ogni caso chiunque si professa missionario ad gentes. Attraverso la loro esperienza quotidiana, fatta spesso di testimonianza isolata e silenziosa, i nostri missionari ci richiamano all’essenza della nostra vocazione.
Vivere la novità
Ciò ha fatto sì che oggi in Asia si punti a proporre uno stile differente di missione, che non sia centrata soprattutto sulle opere, quanto sull’incontro con le persone. È la gente, soprattutto i poveri, con la sua quotidianità e le sue esigenze, a dare il passo e il tempo della nostra presenza là. Più che le strutture vengono favoriti i momenti di incontro, accoglienza e scambio vicendevole di doni culturali. L’ospitalità e l’ascolto diventano allora le parole chiave di una missione che vuole essere nuova.
Inutile dire che questo stile di evangelizzazione fondato su ciò che è piccolo e fragile, come può esserlo il nostro esporci al dialogo con l’altro, richiama anche un altro punto fondante del nostro carisma: la santità di vita. La missione in Asia passa oggi attraverso la scelta di una spiritualità forte come via preferenziale della missione, nell’essere, in altri termini, dei veri contemplativi in azione.
Dietro l’angolo il sogno cinese continua a fare capolino. Sono i nostri stessi confratelli impegnati in Asia a invitare con fermezza l’Istituto a fare una scelta radicale per il continente dove più numerosi sono i non-cristiani. La Cina, col suo miliardo e mezzo di abitanti rappresenta una frontiera che non può non essere presa in considerazione. Il Capitolo dovrà quindi avere tanto coraggio e anche molto equilibrio nel valutare le possibilità che il nostro Istituto ha di lanciarsi in una nuova missione di questo calibro. A prima vista, in un’analisi della realtà basata rigidamente su calcoli di natura umana, molto consiglierebbe di lasciare perdere. Bisogna però lasciare che lo Spirito soffi, è lui che da sempre spinge i missionari ad andare a dissotterrare tesori che lui stesso ha precedentemente seminato nel cuore delle culture. E allora, con la preghiera si vedrà!

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Annalena Tonelli martire

Caro direttore,
grazie per lo stupendo articolo-testimonianza su Annalena Tonelli (Missioni Consolata, marzo 2004). Da ottobre dello scorso anno, la sua figura (che avevo conosciuto nel febbraio 1984 a causa del massacro di Wajir, in Kenya), mi «perseguita».
A seguito di quel racconto, con alcuni missionari Fidei donum avevo scritto una lettera di protesta a mons. Ndingi, allora presidente della Conferenza episcopale kenyana per il silenzio dei vescovi.
Annalena, che incontravo talvolta a Nairobi, mi dava la carica. Ringrazio Dio di averla conosciuta.
don Piero Gallo
Torino

Missionaria laica in Kenya e Somalia per 33 anni, Annalena Tonelli fu assassinata a Borama (Somaliland) il 5 ottobre 2003. Una martire vera.

don Piero Gallo