Genova (1): prima del vertice degli “otto grandi” VOI NON SIETE I PADRONI DEL MONDO

Oggi chi scrive sul "G 8" di Genova, a quasi
tre mesi da fatti tristemente noti, rischia di incappare nel "senno di poi", di
cui sono piene le fosse.
Tuttavia resta valido il detto "l’esperienza insegna", per non cadere negli
errori di ieri. Come pure: "Chi sbaglia paga". Ma senza capri espiatori.
A noi il "G 8" interessa, soprattutto, per le ripercussioni nei paesi
impoveriti. Oltre ad alcune testimonianze dal Sud del mondo, diamo spazio a due documenti:
quello "propositivo" di numerosi istituti missionari e organizzazioni cattoliche
e quello "risolutivo" degli "otto grandi" (articolo successivo). Il
confronto fra le "attese" dei primi e i "risultati" dei secondi è
eloquente.

 

Genova, sabato 7 luglio, ore 8.30. Usciti dalla stazione
ferroviaria di Brignole, ci incamminiamo verso il teatro "Carlo Felice" in
piazza De Ferrari. Dopo pochi passi, un signore ci accosta: "Scusi, per favore mi sa
dire…".
– Ci sto andando anch’io!
– Per il convegno nazionale "Guardiamo il "G 8" negli occhi"?
– Esattamente.
– Allora la seguo. Buon giorno! Io sono Dino, dell’Azione Cattolica di Rovigo.

Giunti all’ingresso del teatro, Dino si ferma, per attendere
alcuni amici di Napoli. "Napoli?" esclamiamo incuriositi. "L’Italia
forse è divisa, ma gli italiani sono certamente uniti, alla faccia del senatùr…
voltagabbana" è la risposta.
Ci separiamo.

La storia di un crapulone

Il "Carlo Felice" è un teatro da 3 mila posti. Ma, al nostro
ingresso, contiamo solo due missionarie della Consolata davanti ad un cartellone, che
riporta i nomi del comitato promotore del convegno: circa 60 istituti e associazioni; in
ordine alfabetico, prime le Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) e ultimi
i Missionari Verbiti. Mentre carichiamo la macchina fotografica, scorgiamo anche diversi
ragazzi e ragazze scout, in pantaloni corti, camicia blu e fazzoletto verde al collo,
seguiti da un gruppetto della Coldiretti con un vistoso berretto giallo. Scattiamo le
prime foto. Poi puntiamo l’obiettivo su Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea
(sempre presente a "certi" appuntamenti), e don Andrea Gallo, della Comunità di
san Benedetto al porto. Notiamo Pierluigi Castagnetti, segretario del Partito popolare
italiano, e Aldo Bodrato, ex ministro della pubblica istruzione. Ma questi ed altri
personaggi non bastano a riempire il vasto teatro, che rischia un vuoto desolante.

Però alle 10 il "Carlo Felice" è zeppo: giovani e adulti,
mamme con bimbi in braccio, portatori di handicap in carrozzella, volontari,
sindacalisti, docenti, missionari, suore, preti.

Si inizia con lo sguardo rivolto ad un Cristo campesino del
Cile, mentre si legge la storia di un crapulone che banchetta ogni giorno lautamente… in
barba all’affamato e piagato Lazzaro, del quale solo i cani hanno pietà. Al termine
della loro vita, il primo finisce all’inferno e il secondo fra le braccia di Abramo,
il padre dei credenti.

Il crapulone supplica: "Abramo, manda Lazzaro dai miei fratelli:
che mutino subito comportamento, altrimenti finiranno con me nei tormenti!".
"Hanno già avuto la legge di Mosè e gli ammonimenti dei profeti – replica il
patriarca -, e tutto è stato inutile. Non si convertirebbero neppure se uno risuscitasse
dalla tomba" (cfr. Lc 16, 19-31).

"Incalzati da questo monito severo, riproposto anche dal Cristo campesino
– afferma Fabio Protasoni, cornordinatore del convegno – vogliamo riflettere sulle
situazioni di povertà dell’80 per cento dell’umanità, causate da ingiustizie
sociali e politiche, prima che sia troppo tardi, come per il crapulone del vangelo".

La parola al sud del mondo

Seguono tre testimonianze.

La prima è di Monica Espinosa, già impegnata in Ecuador
con "Rete del Giubileo 2000", che si domanda: "Cosa dobbiamo aspettarci
dall’America Latina? Sempre e solo guerriglieri arrabbiati? Assolutamente no. Ma
occorre fare subito giustizia, specialmente per le classi sociali emarginate. Mi auguro
che i "G 8" imbocchino con coraggio questa strada. La globalizzazione è come
una porta, che può essere chiusa o aperta. Finora non è stata una porta aperta ai
poveri".

Anche la giovane Monica ricorre ad un’icona. È quella di Pietro,
che si sente dire da Gesù Cristo: "Abbi cura delle mie pecore" (cfr. Gv 21,
15-19). L’ecuadoriana lancia un messaggio: "Io, voi, noi tutti siamo cristiani
nella misura in cui abbiamo a cuore i problemi della gente, di tutta la gente".

Sale sul palco Filomeno Lopez, della Guinea Bissau, che
rappresenta i problemi dell’Africa. È sorridente e scattante nei movimenti (poi si
scoprirà che è pure un eccellente danzatore). Il suo raffinato italiano gli consente di
maneggiare con arte anche il fioretto dell’ironia. "Amici, come mi devo
presentare? Certamente come un "fuori", un extra, un extracomunitario. Però
ieri qualcuno mi chiamava vu’ cumprà e, prima ancora, vu’ lavà… Amici, non
cadiamo negli stereotipi, frutto di ignoranza. Io credo nella riconciliazione, previo il
rispetto reciproco".

Anche Filomeno riflette sulla globalizzazione. Rigetta quella
"sbarcata sui porti africani con una risposta esclusivamente mercantile: la
globalizzazione intesa come extra mercatum nulla salus, che ha per fondamento
l’arte di vincere senza ragione".

La terza testimonianza è del direttore della rivista Missioni
Consolata
. Egli riporta alcune voci dal Sud del mondo: ad esempio, quella del
cardinale Evaristo As. L’arcivescovo di São Paulo (Brasile), in una intervista del
1988, affermava che il debito estero del suo paese è illegittimo e illegale:
"illegittimo, perché è già stato pagato tre volte con il versamento di 36 miliardi
di dollari di interessi; illegale, perché contratto da generali brasiliani senza
consultare il parlamento. E gli stati creditori sapevano che imprestavano soldi per
finalità militari…".

"Oggi, a 13 anni da quell’intervista, si discute ancora –
commenta il direttore di Missioni Consolata – sulla necessità o meno di cancellare
il debito dei paesi poveri. Non dovrebbe essere una questione scontata, com’è
scontata la caduta di… una mela matura?".

Un accenno anche alla protesta della gente in Congo (ex Zaire) contro
la guerra. "Nella chiesa di Pawa, durante la messa di pasqua dell’anno scorso, i
fedeli hanno gridato: "La guerra è peccato!". Ma la colpa è ancora più grave
se ad imbracciare il mitra sono ragazzi di 12 anni, come ho visto in Congo".

"Mkubwa haombi" (il capo non chiede permessi): è un detto
swahili, che spesso nasconde la strategia dell’intimidazione e, di conseguenza, della
sottomissione. "Ma oggi, grazie anche ai missionari, molti alzano la testa per dire
al presidente prevaricatore: "Signor no!"".

Ai fischi rimedia un po’ il Cardinale

È il clou del convegno: ovvero la presentazione del "Manifesto
delle Associazioni cattoliche ai Leaders del G 8
" (vedere il testo a parte). Fra
i suoi estensori spicca l’economista Riccardo Moro. Il quale, tuttavia, ci dichiara:
"Vedi questi sei ragazzi? Il Manifesto è soprattutto opera loro". E sono gli
stessi ragazzi che, un po’ emozionati, lo leggono in assemblea. L’applauso dei 3
mila vale l’approvazione.

Il Manifesto viene affidato a Umberto Vattani, segretario generale
della Faesina, perché a sua volta lo trasmetta al governo in carica. Invitato (per
deferenza) dal cornordinatore del convegno ad intervenire, Vattani prende la parola.

Non l’avesse mai fatto! O avesse parlato in termini diversi, non
si sarebbe beccato tre bordate di fischi: la prima un po’ leggera, la seconda più
pesante, la terza secca e arrabbiata, anche perché il politico continuava sicuro.

Il diplomaticoVattani esalta l’Italia, sesta potenza economica
mondiale grazie alla globalizzazione… "a differenza dell’Africa, che resterà
sempre povera se non entrerà nel processo". Ma i 3 mila cattolici del "Carlo
Felice" rifiutano questa visione del mondo.

Ad aggiustare (forse) le cose ci pensa Dionigi Tettamanzi, cardinale di
Genova (significativa, tra l’altro, la Lettera dei Vescovi liguri ai fedeli delle
loro Chiese in occasione del G 8
).

I cattolici non devono scordare che, secondo la dottrina della chiesa,
la proprietà dei beni ha una "funzione sociale comunitaria", e non solo
privata: di qui il dovere dell’attenzione all’altro. Questo però esige un
impegno politico professionale, perché il volontariato non basta più.

Infine il cardinale dichiara: "Oggi si parla del "G 8",
cioè del gruppo degli 8 paesi più ricchi; qualcuno sollecita che a parlare siano i
"G 20", ossia i 20 paesi più poveri… Io dico: facciamo un G TUTTI,
dove ognuno possa parlare, ma alla luce della parabola del ricco e del povero con il quale
abbiamo aperto il convegno".

 

Ore 14,35. Entriamo in uno snack bar di Genova, dove Dino e gli
amici di Napoli, Gennaro e Concetta, stanno addentando un panino.

– Volete favorire? – è l’invito dei napoletani.
  – Perché mi date del "voi"?

Risata generale.

Quando siamo tutti al caffè, Dino commenta: "Un bel convegno,
durante il quale ho apprezzato gli interventi dei rappresentanti del terzo mondo.
D’ora in avanti bisognerà sempre fare così. Molto interessante pure il
Manifesto…". "Noi a Napoli – s’intromette Gennaro – abbiamo un detto che,
nel caso presente, potrebbe suonare: passata la festa del "G 8", gabbati ancora
una volta i poveri". "No, guagliò – replica Concetta -. Passata la
festa, i poveri ritornano a lavorare".

 

 Noi, sentinelle del mattino

Manifesto delle associazioni
cattoliche ai leaders del G 8

 

La vita umana è valore universale. Garantirla nel suo esistere e
tutelarla nella sua dignità è responsabilità politica che la comunità internazionale,
insieme a ciascuno di noi, è chiamata ad esercitare per il raggiungimento del bene
comune.

Oggi la dignità della vita umana è violata. Molti sono gli ambiti in
cui questo accade, dalla guerra alla povertà, dal sapere privilegio di alcuni al potere
monopolio di pochi.

Noi sentiamo l’impegno di appartenere ad una famiglia, che va
oltre i confini nazionali e le logiche economiche. Crediamo che tutti siamo veramente di
tutti e non possiamo rimanere indifferenti di fronte a clamorose differenze.

Affermiamo che ogni uomo è una risorsa, un bene prezioso per gli
altri, e a sua volta chiede agli altri di essere aiutato nel suo cammino verso il
compimento definitivo. Nessuno può essere considerato solo un soggetto economico
passivo,
il cui valore è commisurato alla sua capacità di acquisto.

Noi siamo qui per ricordarvi che voi siete noi. Voi,
responsabili delle nostre nazioni, siete i nostri rappresentanti. Voi avete una grande
responsabilità. Voi non siete il governo del mondo, ma quanto decidete ha
inevitabili ripercussioni su molti, anche al di fuori dei confini dei nostri paesi.

Noi siamo qui perché abbiamo un sogno: non vogliamo essere i
ricchi che guardano ai poveri da aiutare. Vogliamo essere cittadini di una comunità
solidale che diano a tutti lo stesso diritto di avere necessità e offrire opportunità.

Per questo facciamo a voi, nostri rappresentanti, le richieste che
riteniamo punto di partenza perché ogni persona di oggi e domani possa vivere in
libertà, solidarietà e dignità.

 

La notte I conflitti / La guerra

La dignità della vita umana è offesa da conflitti che coinvolgono
popolazioni vulnerabili. Donne e uomini, bambini e anziani, in divisa o abiti civili, sono
attori spesso inconsapevoli di copioni scritti, più o meno intenzionalmente, da altre
mani, in altre lingue e in altri luoghi. Noi esigiamo che voi lavoriate con chiarezza e
determinazione per:

– bandire la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e
impegnarsi come Stati a non ricorrere alla forza per dirimere le controversie intee e
inteazionali;

– avviare un processo credibile e autentico di riforma delle Nazioni
Unite che ne rafforzi democrazia, autorevolezza ed efficacia, in particolare nella loro
responsabilità di principale attore in favore della pace nel mondo;

– in questo quadro, privilegiare gli approcci ‘locali’,
valorizzando anche i contributi non governativi, affrontando tutti i conflitti, anche
quelli interni quando violano la libertà delle popolazioni civili;

– combattere autenticamente il mercato delle armi, a partire
dall’informazione su tutte le operazioni di vendita e acquisto. Nessuna copertura
finanziaria pubblica deve essere data a chi le produce e le vende;

– non sprecare il denaro. Vogliamo che le risorse non vengano gettate
in progetti di difesa inutili, come lo scudo spaziale, ma siano utilizzate per eliminare
le cause che originano i conflitti, prima fra tutte la povertà.

 

Debito

Il peso del debito estero dei paesi del Sud compromette la dignità
della vita di milioni di persone. Tuttora risorse finanziarie, preziose e scarse, vengono
usate dai paesi impoveriti per pagare i creditori, cioè i governi del Nord, cioè noi! In
occasione del Giubileo vi abbiamo chiesto azioni coraggiose. Voi ci avete ascoltato solo
in parte. Ci inorridisce sapere che il denaro che ancora incassiamo, per quanto ridotto
rispetto agli anni scorsi, sia sottratto da interventi per dare case, cibo, medicine e
istruzione a persone che sono per noi come altri noi stessi.

Vi chiediamo perciò ancora con forza di:

cancellare tutto il debito accumulato sino al 19 giugno 1999, la data
della grande manifestazione di Colonia. Nel vostro linguaggio si tratta dello spostamento
della data che divide il debito cancellabile da quello non cancellabile;

cambiare i parametri che permettono di partecipare alla iniziativa
internazionale per i paesi gravemente indebitati (iniziativa Hipc). Vogliamo che nei paesi
indebitati siano assicurati beni e servizi fondamentali a tutti i cittadini. Solo il
denaro restante, dopo queste spese, può essere utilizzato per pagare il debito;

concordare con i paesi indebitati e i rappresentanti della società
civile del Sud e del Nord l’istituzione di un "Processo di arbitrato
internazionale equo e trasparente" per valutare in termini di giustizia
l’ammontare effettivo del debito delle nazioni. La remissione del debito è questione
di giustizia prima che di solidarietà.

 

Povertà

La dignità della vita umana è offesa dalla scandalosa differenza tra
la vita dei paesi ricchi e di quelli da questi impoveriti. Un bambino su venti in Africa
muore prima dei cinque anni. Un bambino su due non va a scuola. È una situazione che ci
fa orrore e di cui siamo e siete corresponsabili. Noi ci impegniamo a stili di vita nuovi,
più equi e solidali, ma nello stesso tempo, poiché rappresentate la nostra voce,
vogliamo che voi impegniate le nostre nazioni a:

– onorare da subito l’impegno, assunto e non mantenuto, di
finanziare l’aiuto allo sviluppo con lo 0,7% del PIL dei nostri paesi. Oggi la media
è minore della metà;

– promuovere e rafforzare, nelle sedi inteazionali, l’utilizzo
dei programmi di riduzione della povertà che prevedano un autentico coinvolgimento della
società civile;

– favorire con mezzi finanziari e assistenza tecnica l’azione dei
governi dei paesi impoveriti, perché sia garantito a tutte le popolazioni il diritto alla
salute e istruzione.

 

Una luce che sorge

Costruire il futuro: globalizzare la solidarietà e le responsabilità

La dignità della vita, a Nord come a Sud, può essere tutelata solo
attraverso un forte, condiviso e rispettato sistema di regole, in cui non il più forte
abbia maggiori diritti, ma il più debole. Non è questo ciò che accade oggi nel mondo. A
voi, nostri rappresentanti, chiediamo quindi di non nascondervi dietro facili
giustificazioni, ma di rispondere a queste richieste.

 

Il mercato fra libertà e responsabilità

– Vogliamo che sia creato un sistema di regole nel commercio
internazionale che permetta a tutti i paesi, in particolare ai più impoveriti, di offrire
sul mercato le proprie merci ad un prezzo equo, abolendo le barriere, a cominciare dalle
nazioni del G 8, e, per i prodotti agro-alimentari, prevedendo un meccanismo di
regolamentazione produttiva e distributiva che definisca quote produttive alle nazioni e
garantisca stabilità dei prezzi.

– Vogliamo una vera libertà di mercato, in cui tutti siano liberi di
acquistare conoscendo con precisione che cosa viene loro offerto e a tutti sia data
possibilità di vendere i propri prodotti. Non è quello che accade oggi.

– Vogliamo un impegno immediato e concreto di denuncia dei paradisi
fiscali e finanziari. Impegnatevi nelle diverse sedi inteazionali per la definizione e
pubblicazione delle liste dei paesi che permettono il riciclaggio di denaro sporco e
offrono riparo fiscale per speculazioni selvagge.

– Vogliamo, a cominciare dai nostri paesi, una tassa sulle transazioni
valutarie (del tipo della Tobin Tax) che renda costosi i trasferimenti inteazionali di
denaro a scopo speculativo e offra il ricavato per finanziare lo sviluppo.

 

Il lavoro strumento per la dignità della vita

– Vogliamo che sia migliorata e venga applicata la legislazione
internazionale che impedisce lo sfruttamento lavorativo delle persone. Costo del lavoro
più basso e competitivo non deve significare "umiliante".

 

L’ambiente dovere globale

– Vogliamo che siano riconfermati immediatamente gli accordi di Kyoto
in tema ambientale e che sia indicato in modo trasparente il percorso futuro di
rafforzamento dell’azione di tutela del Creato.

 

Libertà e democrazia economica

– Vogliamo un’economia libera in cui siano impedite posizioni di
monopolio, come quelle delle multinazionali in grado di alterare il mercato e
l’informazione sulla loro azione.

 

Un’informazione libera

– I paesi del G 8 promuovano leggi che garantiscano a livello nazionale
e internazionale la pluralità dei media e degli editori, vietando monopoli, per
permettere una libertà responsabile a tutti i cittadini.

– Vogliamo un’informazione trasparente anche sulle caratteristiche
dei prodotti alimentari in generale e in particolare degli organismi geneticamente
modificati (ogm).

 

La scienza per tutti

– Vogliamo che sia finanziata fortemente la ricerca pubblica in campo
sanitario, per rendere possibile la produzione di farmaci per le malattie diffuse tra le
popolazioni più povere.

In particolare vogliamo siano moltiplicati gli sforzi per rendere i
farmaci per la cura dell’AIDS accessibili a tutti coloro che sono infetti, in Africa
e ovunque, a cominciare dalle donne incinte prima e dopo il parto.

– Vogliamo regole che consentano produzione e distribuzione dei
medicinali a costi sostenibili per le popolazioni più povere. Questo significa affrontare
anche la questione della riforma della proprietà intellettuale.

 

A Tor Vergata abbiamo ascoltato le parole del Papa

Cari amici, vedo in voi le "sentinelle del mattino" in
quest’alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi
venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a
combattere gli uni contro gli altri. Oggi siete qui per affermare che, nel nuovo secolo,
non vi presterete a essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace,
pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri
esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la
vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di
rendere questa terra sempre più abitabile per tutti.

È esattamente quello che vogliamo fare.

Francesco Beardi




Genova (2): cosa ha lasciato l’assise del “G8”. QUEGLI OTTO NANI MIOPI E PREPOTENTI

 

Nonostante la propaganda governativa parli di uno storico successo,
il vertice dei G8 si è concluso con un fallimento. Sui temi caldi del debito,
dell’ambiente e della finanza non si è deciso nulla, mentre l’insistenza
attorno alla bontà della ricetta economica neoliberista appare decisamente stonata. Il
Fondo globale per la salute (l’unica decisione operativa) ha una portata da elemosina
e una struttura molto ambigua. Nel frattempo, questo novembre l’Organizzazione
mondiale del commercio (Omc-Wto) discute un’ulteriore riduzione delle barriere
commerciali. La riunione si tiene a Doha, nell’emirato del Qatar, dove i
"cattivi" contestatori non potranno mai arrivare.

 

IL NULLA, NERO SU BIANCO

Sono passati quasi 3 mesi dal vertice di Genova, che ha
riunito i rappresentanti degli 8 paesi più industrializzati del mondo (i cosiddetti
"G8"). Premesso che sulla legittimità di questo organismo ci sono dubbi forti e
condivisibili, alla fine un dato è certo: il vertice si è concluso con un fallimento
epocale.

Gli 8 (più Prodi, che rappresentava l’Unione europea) signori del
mondo hanno messo nero su bianco il nulla uscito dai loro tre giorni di colloqui. I 36
punti della dichiarazione finale non sono altro che un inno stonato e ripetitivo alla
retorica del mercato che tutto sistema e tutto sana.

 

ELEMOSINA

Era stata annunciata come una grande iniziativa. In realtà, il Fondo
globale (Global Health Found) contro Aids, malaria e tubercolosi è
un’elemosina: si tratta di 1,3 miliardi di dollari, circa 3.000 miliardi di lire.
Questi fondi corrispondono alle risorse che i paesi indebitati spendono in poche settimane
a causa del debito.

Per comprendere il reale significato dei 3.000 miliardi stanziati,
ricordiamo che il deficit della sanità della regione Piemonte (con solo 4,5 milioni di
abitanti) per l’anno 2000 è stato stimato in 1.200 miliardi di lire.

Come ciò non bastasse, al punto 17 si legge: "Esprimiamo
apprezzamento per le misure prese dall’industria farmaceutica al fine di rendere
economicamente più accessibili i farmaci. Nel contesto del nuovo Fondo globale,
lavoreremo d’intesa con l’industria farmaceutica". Insomma, nonostante la
figuraccia mondiale rimediata in Sudafrica (dove hanno dovuto abbandonare la causa
intentata contro il governo nazionale), per gli 8 le multinazionali dei farmaci diventano
associazioni filantropiche.

Prima dell’inizio del vertice, Medici senza frontiere aveva
espresso forte preoccupazione per la tendenza dei governi ad abdicare a favore delle
imprese del business mondiale le responsabilità politiche della salute.

Dopo il vertice, l’organizzazione si è mantenuta coerente,
dichiarando che non parteciperà al consiglio direttivo del Global Health Found, in
quanto questo sarà aperto anche alle multinazionali farmaceutiche. Queste infatti
potranno guadagnarsi il loro posto nel consiglio attraverso una donazione al fondo. Come
non concordare allora con chi parla di "carità pelosa" e di "conflitto di
interessi"?

Inoltre, con un tono che sa molto di monito, gli 8 ribadiscono la
volontà di difendere i "diritti di proprietà intellettuale, come necessario
incentivo per la ricerca e lo sviluppo di farmaci salvavita". Questo significa che la
vicenda sudafricana (cioè la sconfitta delle multinazionali sui medicinali anti-Hiv)
viene considerata soltanto un episodio che non dovrà avere seguito.

 

DEBITO

"L’alleggerimento del debito è un valido contributo alla
lotta contro la povertà" (punto 7). Già il termine utilizzato,
"alleggerimento", fa capire che neppure questa volta sul problema del debito ci
sarà una svolta decisiva.

L’iniziativa a favore dei paesi poveri maggiormente indebitati (Heavily
Indebted Poor Countries
, Hipc), citata nel documento, è stata finora deludente. Non
solo perché soltanto 23 paesi poveri sono stati ammessi al programma di alleggerimento,
ma anche perché la stessa Banca mondiale ha messo in dubbio l’efficacia
dell’iniziativa Hipc nel lungo periodo.

I responsabili di Sdebitarsi e di Drop the Debt (le
organizzazioni italiana e internazionale che si battono per la cancellazione del debito)
non nascondono la loro delusione: i leaders dei G8 hanno perso una grande occasione
per affrontare in modo efficace la crisi del debito.

 

PROBLEMI? PIÙ LIBERISMO!

Tutto il documento finale è una ossessiva esaltazione della crescita,
senza una parola per i concetti di uguaglianza, giustizia, redistribuzione. Punto 10:
"Libero commercio e investimenti alimentano la crescita globale e la riduzione della
povertà". Il punto 11 ribadisce il concetto: "Appoggiamo gli sforzi compiuti
dai paesi meno avanzati per accedere al sistema commerciale globale e per approfittare
delle opportunità offerte da una crescita basata sul commercio".

Dunque, la risposta degli 8 grandi ai problemi del mondo è chiara ed
univoca: essi additano la via del libero scambio e dei commerci. Per abbattere la
miseria strutturale e lo squilibrio della ricchezza serve più liberismo, la nuova
ideologia che – come ci viene continuamente ricordato – non si può mettere in discussione
perché è l’unica possibile.

Questo novembre ci sarà la quarta riunione dell’Organizzazione
mondiale del commercio
(Omc-Wto), la prima dopo il fallimento di Seattle (novembre
1999). Poiché quanti si oppongono e si mobilitano per manifestare il dissenso sono
considerati violenti o criminali, la riunione si terrà nell’emirato arabo del Qatar,
paese praticamente irraggiungibile. Insomma, finalmente il Wto potrà decidere in tutta
tranquillità cosa è bene per gli abitanti della terra. E poco importa se i delegati dei
49 paesi più poveri del pianeta, che si sono riuniti a Zanzibar (24 e 25 luglio), hanno
espresso forti preoccupazioni per le pressioni continue all’apertura dei loro mercati
quando questi sono ancora troppo deboli per competere con quelli dell’Occidente.

Se il Wto riuscisse a realizzare il suo disegno di liberalizzazione
completa dei mercati, sarebbe il primo organismo in grado di imporre le sue decisioni al
mondo intero. L’organizzazione – ha spiegato Susan George – è "un tavolo
permanente i cui membri si impegnano a negoziare per sempre in una sola direzione".
È quella del pensiero unico neoliberista, che elabora le giustificazioni teoriche
per la consegna delle economie nelle mani delle grandi imprese multinazionali.

"Il nostro modo di vivere e di pensare – ha scritto il premio
Nobel Rita Levi Montalcini -, il nostro modo di produrre, di consumare e di sprecare non
sono più compatibili con i diritti dei popoli dell’intero globo. I meccanismi
perversi dell’attuale modello di sviluppo provocano l’impoverimento, il
depredamento degli ecosistemi, la negazione delle soggettività e delle differenze".

 

GLI SPECULATORI? LIBERI DI ARRICCHIRSI

Al vertice di Genova si è parlato molto di economia, ma si sono
coscientemente tralasciate le variabili dell’economia finanziaria.

Attualmente sui mercati valutari si scambiano ogni giorno 1.800
miliardi di dollari; il 95% di tale entità riguarda transazioni di breve o brevissimo
periodo, la maggior parte delle quali riveste un carattere meramente speculativo. Se sulle
transazioni valutarie si applicasse la Tobin tax, si limiterebbero le speculazioni
finanziarie (che mettono continuamente in pericolo la stabilità degli stati più deboli e
l’equilibrio dell’intero sistema) e al tempo stesso si raccoglierebbero cospicui
fondi (si parla di 100 – 400 miliardi di dollari) per porre rimedio allo sviluppo
diseguale. Ma di tutto ciò, al summit di Genova, non si è parlato. Per banchieri
e speculatori non è mai difficile convincere i governi!

"Globali – ha scritto recentemente Oskar Lafontaine, ex ministro
delle finanze della Germania – sono solo i mercati finanziari -. La possibilità di
trovare in pochi secondi la migliore collocazione del capitale in tutto il mondo. Le crisi
finanziarie in Messico, Asia, Russia, Brasile e Argentina hanno rivelato
l’instabilità dei mercati finanziari inteazionali. Non ci sono dubbi che le crisi
hanno provocato un aumento considerevole della disoccupazione e dell’impoverimento
sociale".

 

LA TERRA PUÒ ATTENDERE

Non hanno potuto mentire. Al punto 24 i grandi affermano: "Al
momento non siamo d’accordo sul protocollo di Kyoto e sulla sua ratifica".

Su questo tema è stata determinante l’opposizione di George W.
Bush. Il protocollo di Kyoto (che prevede una blanda riduzione dei gas a effetto serra)
era stato firmato (1997), ma mai ratificato dagli Usa.

È qui che diventa palese una delle conseguenze più inquietanti della
globalizzazione: l’americanizzazione del mondo, ovvero la sua subordinazione
agli interessi della superpotenza statunitense. Finché si tratta di favorire il business
delle imprese multinazionali va tutto bene; ma quando si tratta di imporre regole
nell’interesse collettivo dell’umanità gli Usa si tirano indietro.

Vale la pena di ricordare che gli Stati Uniti sono di gran lunga il
paese più inquinante del pianeta (leggere box). Insomma, gli Usa guidano la fila
di coloro che si rifiutano di pagare quell’enorme debito ecologico e sociale
che le loro politiche hanno prodotto nei paesi del Sud, pur guardandosi bene dal
contabilizzarlo. Come ha ricordato l’ecuadoriana Aurora Donoso (di Acciòn
ecologica
), i paesi ricchi hanno operato un sistematico saccheggio delle risorse del
Sud (petrolio, minerali, foreste, biodiversità), lasciando in eredità distruzione
ambientale e sociale, mutamenti climatici e biopirateria di cui ora non vogliono farsi
carico.

"Le catastrofi ecologiche – scrive Lafontaine -, come
l’incidente al reattore di Cheobyl, il buco dell’ozono e le perdite delle
petroliere, hanno ricordato al mondo intero che anche la distruzione della natura fa parte
della globalizzazione. Gli interessi dell’ecologia si scontrano con lo spirito
neoliberale".

Molta più attenzione gli 8 grandi hanno mostrato nei confronti della tecnologia,
vista come panacea di tutti i mali. "Le tecnologie informatiche e delle comunicazioni
– recita il punto 22 della dichiarazione finale – rappresentano un enorme potenziale per
aiutare i paesi in via di sviluppo ad accelerare la crescita, elevare il tenore di vita e
soddisfare altre priorità dello sviluppo". Né è mancata (punto 20) la professione
di fede per le biotecnologie, nonostante il dibattito nella comunità scientifica e
nella società civile consigli molta prudenza.

Verso la fine del documento (punto 33) si parla di criminalità
transnazionale. Ma non si fa alcun cenno né al commercio delle armi né ai paradisi
fiscali e finanziari.
Evidentemente, per gli 8 "grandi" questi non sono
crimini.

 

LA PROMESSA

 

Silvio Berlusconi, non smentendo la sua fama di immodesto, ha
parlato di un vertice di portata storica. Come abbiamo visto, di storico c’è
soltanto il suo fallimento. Senza dire delle incredibili violenze che lo hanno circondato.
I 36 punti della dichiarazione finale di Genova si chiudono con "il nostro lavoro
continuerà". Più che una promessa, sembra una minaccia.

 

 

Il commento di Maurizio Pagliassotti e Silvia
Battaglia

TRA LIMONI DI PLASTICA E COPPE DI CHAMPAGNE

 

Quali commenti si possono fare sui contenuti del vertice genovese tra
gli 8 grandi della terra? Pochi. I risultati sono talmente striminziti che si finisce per
fare una critica al sistema stesso.

Certo, il tutto è stato ricoperto abbondantemente di demagogia,
spalmata da media pronti ad enfatizzare il nulla per nascondere parole che negli anni si
dimostrano sempre uguali, sempre più superficiali e banali.

"Il G8 della speranza", così è stata definita l’ultima
riunione dell’Internazionale del Conservatorismo Compassionevole. Mentre nelle
strade di Genova imperversava la guerra, all’interno di Palazzo Ducale, tra limoni di
plastica e coppe di champagne, i grandi 8 bollavano i manifestanti come "nemici dei
poveri" e, con unanimità di vedute, sproloquiavano le solite frasi, i soliti
ritoelli.

Il G8 svoltosi in Giappone, nel 2000, ebbe almeno un risvolto comico.
Allora la montagna riuscì a partorire lo slogan "Inteet per tutti",
come panacea mondiale della fame e del sottosviluppo. Anche per quei 2 miliardi di persone
che non hanno la più pallida idea di cosa sia il telefono?

D’altronde il grottesco in politica sembra seguire le leggi
dell’entropia nella fisica: tende all’infinito. Il ministro degli Esteri
italiano Renato Ruggiero, nominato direttamente dall’ex segretario di Stato
americano Henry Kissinger, ha detto, durante una trasmissione televisiva la sera
del 20 luglio, sostenendo l’importanza delle nuove tecnologie per il terzo mondo:
"Oggi un telefonino può salvare vite umane" (*).

Non si salverebbero molte più vite umane con una semplice riforma
agraria che favorisca le necessità intee anziché l’esportazione di monocolture?
Oppure evitando la crescente desertificazione di gran parte dei paesi poveri dovuta agli
effetti degli stili di vita consumistici del nord?

Niente di tutto questo. Gli 8 si sono mossi esclusivamente nel
ristretto ambito del progetto neoliberista. E in questo quadro devono essere viste le
piccole decisioni, poi definite "storiche", prese durante le "cene di
lavoro".

Allargamento del G8 – Dal prossimo anno dovrebbe essere presente
stabilmente una rappresentanza dei paesi poveri durante il pre-vertice. Demagogia. Molte
nazioni del terzo e quarto mondo sono "protettorati" degli Stati Uniti. Si
pensi, ad esempio, a molti paesi dell’America Latina.

È una realtà, invece, che i promessi aiuti allo sviluppo da anni non
facciano alcun progresso. I paesi industrializzati si impegnarono a destinare lo 0,7% del
PIL al sud del mondo. Escluse poche eccezioni scandinave, nessuno lo ha fatto. Tale
mancanza non è stata oggetto di discussioni.

Debito – È stata confermata la volontà di
"alleggerire" i debiti delle nazioni più povere. Restano in piedi quelli con il
Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale…

Curiosità: cosa si domanda in cambio
dell’"alleggerimento"? Si chiede un ulteriore taglio della già miserevole
previdenza sociale? Oppure un’ennesima apertura dei mercati, affinché possano
arrivare capitali stranieri ansiosi di trovare paesi finalmente liberi da basilari
normative sindacali ed ambientali?

Aids – È prevista l’istituzione di un fondo di 1,3
miliardi di dollari per combattere l’epidemia in Africa. Una bazzecola. Per lo scudo
spaziale statunitense sono previsti investimenti per 100 miliardi di dollari. Si è
parlato di far cadere il brevetto ventennale che copre i farmaci e li rende
scandalosamente cari?

Clima – Nessun accordo sul protocollo di Kyoto. Gli Stati Uniti,
ostaggi della stagnazione economica, si rifiutano di rinunciare al proprio stile di vita
iperconsumista, facendone anzi una bandiera. Un trattato totalmente insufficiente trova
ostacoli insormontabili.

Scudo spaziale – Preoccupanti le aperture russe verso lo scudo
spaziale voluto dagli Stati Uniti.

Tobin Tax – Tutti sono scoppiati a ridere.

E poi tanti altri bla bla su Medio Oriente, Macedonia, Africa
etc.

 

Nulla di nuovo quindi. Passa il messaggio che la soluzione dei problemi
globali vada ricercata attraverso una politica commerciale neoliberista, la stessa che
quotidianamente crea distruzione e morte. La ricetta proposta dagli 8 fa della
competizione commerciale un dogma. Bisognerebbe anche aggiungere che trattasi di
competizione al ribasso sui costi, intesi come umani ed ambientali, pena appunto
l’esclusione dal mercato. Questo meccanismo diabolico è ben dimostrato da paesi come
Cina e Messico, luoghi in cui le commesse di prodotti volti al consumatore occidentale
hanno prodotto piccole élites ultraricche e masse enormi di disperati, esattamente coloro
sui quali si scarica la "flessibilità competitiva globale". È giusta una
politica che lascia ai paesi poveri, come uniche scelte, la disoccupazione se si rifiutano
le regole di questo mercato oppure lo sfruttamento e la distruzione delle risorse naturali
se invece si accettano? A noi sembra paradossale.

Forse proprio questo messaggio, non più sussurrato subdolamente,
bensì urlato a gran voce, è il risultato più imbarazzante e pericoloso di questo
summit: la pretesa che la globalizzazione, e quindi la scienza ed il pensiero occidentale,
siano gli unici mezzi per diminuire la povertà del sud del mondo. Evidentemente non è a
tutti chiaro che la conoscenza occidentale è semplicemente il risultato
dell’evoluzione storico-culturale del popolo occidentale. Altre conoscenze ed altre
scienze hanno lo stesso diritto di esistere e di dare le proprie interpretazioni di ciò
che noi intendiamo per sviluppo e progresso.

Un carrozzone inutile, quindi, il G8, megafono di decisioni che vengono
prese altrove. Decisioni volte al mantenimento di un capitalismo che oramai è
impazzito, sfuggito di mano e che sembra quasi vivere di vita propria, ingovernabile. Un
macro-organismo che, brandendo la spada della tecnologia, necessita per mantenersi in vita
di sempre nuovi consumi, nuovi uomini da sfruttare per tagliare i costi, nuovi ambienti da
distruggere per trovare materia prima.

Quegli 8 uomini avrebbero dovuto ammettere che la soluzione ai problemi
dell’ambiente e delle popolazioni povere passa attraverso una drastica redistribuzione
della ricchezza.
Traduzione: fine dei patrimoni personali pari al PIL di interi
continenti, delle flotte di aviogetti privati, delle automobili da 1.000.000 di dollari, e
di moltissimi altri scandali. E, molto probabilmente, fine anche di molte altre minori
comodità che oramai noi consideriamo un diritto, ma che tali non sono.

Meglio rimandare fino al momento del collasso totale, meglio correre
spensierati verso una comodissima catastrofe.

(*) Speciale Porta a Porta, venerdì 20 luglio 2001, Rai 1.

 

 

Dopo l’11 settembre

SIAMO TUTTI AMERICANI, MA…

 

… anche serbi, palestinesi, kurdi, rwandesi, iracheni. Il terrorismo
è inciviltà. La guerra lo è ancora di più.

 

Nella peggiore delle ipotesi, quando leggerete queste pagine, George W.
Bush avrà già scatenato la vendetta. E altre persone innocenti, proprio come le migliaia
morte negli attentati di New York e Washington, pagheranno con la vita l’incapacità
umana di risolvere i problemi senza ricorrere alla violenza.

 

Il seme dell’odio

– Chi ha seminato il seme dell’odio? Perché è accaduto quel che
è accaduto? Non basta il fanatismo di Osama Bin Laden e dei talebani afghani per spiegare
la rabbia di una gran parte del mondo verso l’Occidente in generale e gli Stati Uniti
in particolare.

Tutti condanniamo il terrorismo, ma dobbiamo anche porci delle domande,
senza dividere il mondo tra "buoni" e "cattivi", tra
"civiltà" e "inciviltà", come ci suggeriscono molti politici e molti
media. Finché sul nostro pianeta ci saranno moltitudini affette da fame, miseria,
ingiustizia, ci saranno la disperazione e personaggi come Osama Bin Laden (o chi per lui)
pronti ad usarla per i loro fini.

 

Il fondamentalismo – Dei danni prodotti dal sentire
fondamentalista (che non accetta interpretazioni della vita diverse dalla propria) sono
pieni i libri di storia. Al giorno d’oggi, il fondamentalismo islamico è sicuramente
tra i più pericolosi. Innanzitutto, per la forza dei numeri: i musulmani sono oltre un
miliardo, in grande maggioranza nei paesi poveri. Poi perché, attraverso
un’interpretazione distorta dei testi coranici, leaders (chiamiamoli così) islamici
senza scrupoli cercano di alimentare il risentimento di popoli (afghani, iracheni,
yemeniti, pakistani, egiziani, sudanesi ecc.) costretti a vivere in condizioni di grande
privazione.

Ma non possiamo dimenticare tutti gli altri fondamentalismi, quelli che
si sono sviluppati nel Nord del mondo, nei ricchi paesi occidentali. Per esempio,
c’è del fondamentalismo nella dottrina neoliberista che non accetta obiezioni alle
leggi del mercato e del profitto, per le quali non ci sarebbe alternativa nonostante gli
squilibri dell’economia globale siano sotto gli occhi di tutti. "Ciò che è
avvenuto – ha scritto la Rete di Lilliput – è in stretta relazione con la fragilità e
l’intrinseca insicurezza dell’attuale sistema economico e politico dominante che
non riesce a risolvere i problemi che continuano ad affliggere gran parte
dell’umanità. Un mondo che viene rapinato nella ricerca esasperata di profitti a
breve termine e in cui il divario tra i più poveri e i più ricchi aumenta di anno in
anno non può che diventare un invivibile focolaio di tensioni e conflitti".

Ancora: come giudicare l’atteggiamento di George W. Bush e della
sua amministrazione? In pochi mesi di governo, questi signori sono riusciti a rendersi
invisi a una buona parte del mondo per aver stracciato i più importanti trattati
inteazionali: da quello di Kyoto sull’ambiente a quello sulle armi batteriologiche,
da quello sulla regolamentazione delle armi leggere a quello sui missili antibalistici.

Per non dire dell’idea di sviluppare un costosissimo sistema di
"scudo stellare", che rischia di riaprire la corsa agli armamenti. Gli attentati
dell’11 settembre hanno dimostrato la follia e inutilità di quel progetto. I nemici,
invece di utilizzare ordigni lanciati da altri paesi, hanno dirottato quattro voli interni
e li hanno usati come missili. Eppure, ne possiamo essere certi, Bush e altri
riaffermeranno con forza l’indispensabilità dello scudo stellare, che servirà
soltanto a svuotare le casse pubbliche e a riempire quelle delle industrie belliche.

E che pensare dello strano silenzio statunitense circa il conflitto
medio-orientale? Dalla guerra tra Israele e palestinesi nascono tensioni che si riflettono
su tutto il mondo. La soluzione equa di quel problema è un atto che riavvicinerebbe il
mondo islamico all’Occidente. Invece, approfittando della "distrazione
generale", il premier israeliano Ariel Sharon proprio nei giorni degli attentati ha
sferrato sanguinosi attacchi sui territori palestinesi di Gaza e Cisgiordania.

D’altra parte, è evidente che George W. Bush è (almeno fino ad
oggi) un presidente totalmente inadeguato per guidare la superpotenza americana. Tanto che
il grande scrittore messicano Carlos Fuentes non ha esitato a definirlo "un
energumeno ignorante". Prima delle stragi, Bush junior era solito ripetere il motto
"the United States of America first", gli Stati Uniti innanzitutto. Speriamo che
qualcuno lo consigli di anteporre gli interessi dell’umanità, magari facendo
riferimento alle Nazioni Unite, un’istituzione che da anni gli americani tentano
(riuscendovi, purtroppo) di mettere in disparte.

L’eventuale risposta bellica di Bush ed alleati non potrà che
radicalizzare il conflitto tra Occidente e mondo islamico, aumentando l’odio e
accrescendo le fila degli aspiranti kamikaze, pronti a sacrificare la propria vita al
primo cenno del mullah di tuo.

 

Lacrime vere e lacrime false? – In Italia gran parte dei
mass media tenta di far passare la tesi "chi non è con gli Stati Uniti, favorisce i
terroristi e tutti i nemici dell’Occidente". Questa semplificazione è una
vergognosa strumentalizzazione della tragedia e tende ad escludere ogni posizione diversa.
Come avvenne per la guerra del Golfo (1991) e per quella del Kosovo (1999). Che i contrari
alla guerra avessero ragione oggi è sotto gli occhi di tutti: l’Iraq è un paese con
una popolazione alla fame e un Saddam Hussein saldamente al potere, il Kossovo e tutta la
ex Jugoslavia sono una polveriera colma di cadaveri e d’odio.

Da tutte le parti, ci dicono che occorre parteggiare, schierarsi,
scegliere, escludendo ogni posizione diversa. Addirittura, c’è chi parla di morale,
di etica: non essere d’accordo con Bush e la Nato significherebbe mancare di rispetto
alle migliaia di morti sepolti sotto le macerie delle torri del "World Trade
Center" e del Pentagono. Le lacrime di chi vuole applicare la legge del taglione
("occhio per occhio, dente per dente") sarebbero più vere di quelle di coloro
che vogliono ragionare da uomini, declinando parole diverse (dialogo, giustizia, pace,
tolleranza, comprensione) da quelle dei governi e dei potenti (guerra, vendetta, rivalsa,
dominio)?

 

Le due facce della medaglia – Ero a New
York nei giorni attorno a ferragosto. Ovviamente sono andato ad ammirare il panorama dal
110.mo piano delle Torri gemelle. Da quell’altezza, come tutti ho goduto della
splendida vista di Manhattan, uno dei luoghi più fotografati del pianeta. Proprio sotto
c’era il distretto finanziario e la famosa Wall Street. A vedere il mondo di lassù,
tutto sembra (sembrava) all’insegna dell’ottimismo e della ricchezza. Ecco il
punto: in Occidente, in troppi vedono (o vogliono vedere) soltanto una faccia della
medaglia.

Per chiedere un mondo diverso e più giusto, sono stato a protestare
lungo le vie di Genova e, nonostante quanto dicano Silvio Berlusconi, il suo governo e i
suoi giornali, non solo ne sono orgoglioso, ma non avrei dubbi a rifare le stesse scelte.
Per gli stessi motivi, non avrò tentennamenti a scendere in piazza per protestare contro
la follia della guerra, per gridare che un’altra strada esiste.

Pa.Mo.

Paolo Moiola




Dossier: TESTIMONIANZE DI MISSIONARI CON PERMESSO? Su culture, conflitti, scelte, annuncio del vangelo

Articolo 1

SEMPRE
"AL TROTTO"

 

Il beato Giuseppe Allamano affermava che, se vogliamo conoscere la
nostra identità, è sufficiente ricordare il nostro nome: "missionari della
Consolata". Missionari che egli ha sognato come persone che andassero incontro alla
gente, qualificate nel campo spirituale, scientifico, culturale e pastorale. Il fondatore
non voleva gente mediocre. Essendo i suoi missionari destinati ad avere come orizzonte il
mondo, esigeva che avessero un cuore aperto alle sue dimensioni, capace di ampie visioni e
di accoglienza verso tutti. Il missionario è colui che va, che cammina. L’Allamano,
però, diceva (con un tocco originalissimo) che non dobbiamo solo camminare, ma correre,
"trottare". Missionari che camminano sempre, come i "samburu" o come i
magi, che non si sono fermati di fronte alle difficoltà; come ha corso la Consolata, per
andare ad aiutare Elisabetta; come hanno corso i cristiani "atleti" ricordati da
san Paolo.

Persone che trottano, dice l’Allamano, come la Madonna faceva
"trottare Gesù" (non so dove l’abbia letto o saputo, ma lui lo dice!). In ogni
caso questo esprime il suo sentimento e il dinamismo richiesto ai missionari della
Consolata oggi. Allora il sogno è che, a 100 anni dalla fondazione dei missionari della
Consolata, quando si sente il peso del tempo, noi vinciamo la tentazione di adagiarci, di
non sapere più correre. Trottare con entusiasmo. Se non lo facciamo, diventiamo inutili.
L’Allamano, nonostante l’età, non è mai invecchiato, perché ha sempre avuto attenzione
a ciò che avveniva al di fuori della sua stanza, a quello che vedeva; ha sempre
conservato l’attenzione ai tempi, ai cambiamenti; non si è fossilizzato, non si è
accontentato di ripetere, non è stato contento delle mete raggiunte, ma ha cercato di
andare incontro alle situazioni, alle necessità. È anche il nostro compito: non
fossilizzarci, non accontentarci di quello che abbiamo compiuto, ma andare oltre, obbedire
al comando di Gesù, prendere il largo, affrontare le situazioni che sfidano la missione,
il vangelo, il bene dell’umanità. E non solo partire, ma partire in comunione.
"L’unità di intenti" è il principio vincente: o si lavora insieme o si
perde tempo. E questo diventa particolarmente evidente oggi in un mondo globalizzato.
Ricordo le parole che il fondatore scriveva, nel 1909, a fratel Benedetto Falda: "La
nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata.
Passeranno gli uomini, cadranno alcune foglie, cadranno i rami secchi, ma l’albero
prospererà e diventerà gigantesco. Io ne ho le prove in mano". Le prove ci sono
ancora. Ce lo conferma anche l’esperienza di tanti nostri fratelli e sorelle che, nel
silenzio di ogni giorno, continuano a portare la "consolazione di Dio tra i più
poveri del mondo". È con questo spirito che vanno accolte le testimonianze di alcuni
missionari della Consolata, rilasciate in occasione del centenario dell’Istituto e
riproposte dal presente "dossier".

 

p. Gottardo Pasqualetti,

superiore dei missionari della Consolata in Italia

 

Articolo 2

 

 

Mozambico

 

 

Tenacemente presenti

 

"Mi tempestavano di domande:

"Perché rimani? Perché ti preoccupi di noi?".

E poter rispondere nel cuore: "Perché sono cristiano"".

 

 

di Franco Gioda (*)

 

Racconto quello che ho visto in Mozambico, quello che abbiamo vissuto
insieme e si sta vivendo oggi, con il sogno che ci ha guidato in questi anni. Se
togliamo il sogno, non comprendiamo il significato della nostra presenza missionaria nel
paese.
Bisogna ricordare e comprendere la storia: il tempo coloniale portoghese,
l’inizio dell’indipendenza nazionale e la rivoluzione comunista, la guerra, la pace e
oggi l’oblio. Dopo il 1975, con la libertà concessa a malincuore dal Portogallo in
seguito ad una lunga lotta, il Mozambico è caduto in un sistema che ha gravato
pesantemente su tutto: il marxismo-leninismo nel suo modello più radicale. Sono seguite
le nazionalizzazioni affrettate, la paralisi del commercio, la fuga degli imprenditori,
l’indottrinamento socialista, la mancanza di libertà minime, il controllo generale
su tutto. Come se ciò non bastasse, ecco la tragedia della guerra civile tra Frelimo
(Fronte di liberazione del Mozambico) e Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), guerra
aggravata da siccità e fame. Di qui l’insicurezza totale. Nel 1992 la pace, firmata
a Roma, con una grande speranza di rinascita.

Oggi, però, il Mozambico rischia di essere dimenticato
dall’opinione pubblica mondiale. Ultimamente il paese è stato ancora oggetto di
attenzione, ma solo a causa dell’alluvione: un momento drammatico e isolato, nel senso che
ha toccato solo una parte della nazione.

 

 

Calati nelle situazioni

 

I missionari della Consolata, che arrivarono in Mozambico nel 1925,
avevano in cuore la formazione impartita dal beato Giuseppe Allamano: quindi una
spiritualità del concreto, del quotidiano.
I primi pionieri giunsero nel territorio
senza tanti progetti, ma con una fortissima carica umana e spirituale, con l’ideale di
vivere in mezzo alla gente.

Oggi sono ancora presenti nelle zone più sperdute, dove le persone
sono abbandonate da tutti. Direi che hanno quasi timore della città, anche perché si
cercano i più poveri, con l’idea chiara dello sviluppo-consolazione. Quando il
missionario si cala nella realtà, non fa distinzione tra sviluppo e consolazione:
non ci può essere l’uno senza l’altra, e viceversa.

Con queste premesse, è importante sottolineare alcuni aspetti del
nostro lavoro in Mozambico. Abbiamo sempre cercato di immergerci nelle situazioni
concrete, per dare risposte utili.

La prima è stata la formazione attraverso le scuole: scuole di
arti e mestieri per l’avvio professionale al lavoro. In questo i fratelli missionari
sono stati una benedizione enorme. Naturalmente lo stato portoghese ne ha approfittato:
concedendoci la libertà di insegnamento (nel 1942), si è creato un intenso sviluppo con
il moltiplicarsi di scuole, soprattutto in foresta.

Con il tempo si è capito che, dietro il permesso del Portogallo,
c’era una strategia (non troppo velata) di espandere e rafforzare la colonizzazione.
C’è stato, allora, un momento di ripensamento e di ribellione al sistema con la
tentazione, per i missionari, di abbandonare tutto. Ma, guardando all’interesse della
gente, si è deciso di restare, di non abbandonare le comunità, almeno finché si è
potuto, cioè fino alla rivoluzione marxista-leninista, allorché tutto si è bloccato:
scuole, ministero, attività sociali.

L’unico permesso concessoci era di "essere presenti":
condividere le sofferenze e attese del popolo, aiutare a non perdere la speranza. Questo
fino al momento della pace, della ricostruzione, delle nuove scelte: scelte diverse da
quelle precedenti. Anche per noi, missionari, non più proprietari e gestori, ma
"servi" in aiuto e sostegno alle scuole governative; collaboratori senza
potere, onesti e umili.

C’è stata, con la pace, l’intuizione formidabile dell’università
cattolica.
In Mozambico c’era una sola università nel sud. Nel remoto nord del paese,
persino a 3 mila chilometri dalla capitale Maputo, la scuola era solo quella elementare,
con pochissime scuole superiori. L’intuizione di qualche missionario della Consolata è
sfociata nel progetto di una università, che al presente può vantare 1.500 studenti, con
quattro facoltà in tre città del nord. Una carta vincente.

 

 

Con grande "nostalgia"

 

Un altro aspetto del nostro lavoro missionario attuato in questi anni,
ma soprattutto in quelli della rivoluzione e della guerra, è stato la vicinanza con la
gente.

La prima "strategia" del governo comunista fu di isolarci, di
tagliarci fuori, di fare sì che non avessimo più alcun contatto con la popolazione. Ecco
la concentrazione in determinati posti, con missionari derisi ed espulsi. Per visitare le
comunità dei cristiani (fatica e denaro a parte), erano necessari permessi su permessi,
controlli meticolosi, attese estenuanti, limitazioni. Da qui ancora l’interrogativo:
che facciamo? Abbiamo cercato di resistere e di non mollare, sfruttando ogni occasione che
ci veniva concessa. Le visite alle comunità avvenivano con il rappresentante del partito
comunista alle calcagna, che controllava tutto. Ma (fatto inaspettato) il rapporto con la
gente è diventato più forte, più coinvolgente. In alcune comunità dura tutt’oggi.

I missionari di Cuamba, ad esempio, facevano pervenire (attraverso
persone) delle schede catechetiche da compilare nei villaggi; gli animatori locali
rispondevano alle domande, descrivevano i fatti, segnalavano gli esempi, e inviavano tutto
per iscritto al missionario, che ci rifletteva e programmava il lavoro pastorale.

È nata così una chiesa "ministeriale", dove i catechisti e
gli animatori facevano quasi tutto. Grazie a loro, le comunità resistevano alla
propaganda atea, vivevano nella fede e, addirittura, si moltiplicavano. In luoghi dove le
comunità, prima della rivoluzione e della guerra, erano 10-15… sono diventate 20-25. Ne
è derivata anche una "purificazione" per i missionari troppo legati
ancora alle strutture, ai metodi del passato, forse pure al governo. In quel tempo si è
capito che l’unico "buon pastore" è il Signore: è Lui che pascola il
gregge, al di là del nostro molto o poco lavoro. Un terzo aspetto della nostra presenza,
oltre alla formazione e condivisione di vita, è stata la testimonianza. Il Mozambico, con
la guerra, ha avuto circa 1 milione di morti, 2 milioni di rifugiati all’estero (nei
campi-profughi del Malawi e dello Zimbabwe), 5 milioni di sfollati interni… Tutto il
paese era in gravissime difficoltà. Poi la guerriglia, che sequestrava, rubava e
bruciava, seminando morte e distruzione anche fra i missionari.

Ma siamo rimasti. Abbiamo incoraggiato, testimoniato la speranza,
nonostante continui segni di morte. Forse ho portato anch’io un po’ di
consolazione, e solo con la testimonianza della mia presenza. Quante volte, dopo aver
viaggiato in bicicletta di notte, arrivavo ad un villaggio e mangiavo quello che
c’era. Mi tempestavano di domande: "Padre, perché sei qui? perché rimani?
perché ti preoccupi di noi?". E poter rispondere nel cuore: "Perché sono
cristiano… Per amore e nel nome di Gesù Cristo".

Quello che ho fatto io l’hanno fatto molti altri missionari, ognuno nel
suo stile, ma tutti con la stessa passione, la stessa voglia di essere
"testimoni" di Qualcuno per cui abbiamo dato la vita. Un po’ come Maria, sotto
la croce e accanto al figlio in agonia, ma senza poter fare nulla. Solo esserci!

Oggi, dopo gli accordi di pace dell’ottobre 1992, lo sforzo è di
aiutare il paese a vivere gli ideali stupendi conquistati con sofferenza nel periodo buio
del passato. Ricordare i valori appresi, il volto nuovo delle comunità cristiane, la
voglia di continuare a crescere nella formazione umana e cristiana… Cercare di non
cadere nelle nuove trappole,
come quella degli aiuti facili, della delega in bianco,
dei miraggi del benessere occidentale che generano divisioni, gelosie, discriminazioni,
povertà umana e morale.

Se volessi riassumere tutto, potrei farlo con la parola portoghese "saudade",
che è intraducibile; indica nostalgia e rimpianto di alcune situazioni, anche di
sofferenza. Credo che la chiesa in Mozambico senta "saudade" del tempo di
persecuzione e guerra. Un tempo tragico, certo, ma durante il quale in cui i cristiani
erano aggrappati alla parola di Dio. Non avevano nulla, ma erano luce. Una comunità di
testimoni e martiri (come i 21 catechisti trucidati a Guiúa), presenza viva di Cristo.

 

(*) Padre Franco Gioda, missionario in Mozambico durante il
colonialismo, la rivoluzione comunista, la guerra civile e il raggiungimento della pace.
È stato anche superiore dei missionari della Consolata operanti nel paese.

 

 

Articolo 3

dossier Kenya

 

 

Dal Kenya all’Ecuador

 

 

Dialogo con le culture

 

 

"La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,

ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti".

 

 

di Giuseppe Ramponi (*)

 

Quando operavo in Kenya (nel distretto dei samburu, diocesi di
Marsabit), ho potuto dialogare con vari rappresentanti di etnie vicine, i frequentatori
della missione, maestri e anziani che diventavano amici. Avvertivo il bisogno di capire
"la vita samburu": come era organizzata la tribù negli aspetti sociali,
educativi e religiosi. Il popolo viveva la cultura senza essee protagonisti: la vita di
ogni giorno era guidata dal capo-famiglia, in comunione con gli altri che formavano la
manyatta, il recinto.

Gli sperimentati missionari dicevano che il dialogo era previo e
necessario per l’evangelizzazione. E si doveva cercare una piccola "crepa"
dove mettere il dito e, allargandola, cominciare la predicazione; poi, come fa la sonda,
esplorare e capire se c’era posto per la nostra fede. Se ci lasciavano entrare, era nostro
compito costruire subito la chiesa, con messe, preghiere, canti, sacramenti, catecumeni.
Era il metodo di allora. Oggi, dopo tanta riflessione e polemiche durate anche anni, non
si è d’accordo su tutto. Io sono disposto ad accettare tutti i punti di vista e guardo da
ogni angolo, escluso quello "ottuso".

 

 

La cultura della vita

 

Un cambio radicale nella diocesi di Marsabit avvenne all’inizio
del 1970, quando il vescovo Carlo Cavallera accettò il parere dei missionari, che
suggerivano più impegno per la cultura: ricerca e studio di usi e costumi e conoscenza
della lingua tribale, e non soltanto di quella nazionale (swahili). Io venni scelto per il
distretto dei samburu e, nello stesso tempo, mi nominarono responsabile delle scuole
(Education Secretary). Cominciava un sogno ad occhi aperti.

Nei due settori educativi comuni a tutti i popoli (cultura e
istruzione) c’era finalmente l’opportunità di lavorare ad un progetto che mi stava
molto a cuore: elevare a dignità la cultura e farla entrare nella scuola come
educazione-base (per divenire persone) e completarla con l’istruzione (per
diventare cittadini). La scuola a Maralal era diventata un modello e un centro per
sincerare, identificare e dare dignità alla cultura locale e, allo stesso tempo, dotare
la persona di tutte le qualità garantite dai diritti umani e dal vangelo. Speravo, in
quel contesto, che la persona avrebbe saputo parlare e chiedersi: perché, come, quando,
dove, con chi?… Mi piace inorgoglirmi e affermare che la scuola era un paradigma nel
progetto storico del popolo samburu.

Con la mia partenza, l’impostazione cambiò, perché i successori
erano pratici: non volevano teorie, ma fatti pieni di numeri e guadagni.

Lasciato il Kenya, raggiunsi la Colombia. Nel 1983 ero a Cartagena de
Indias. Pensavo di lavorare con i negri, per cercare i legami con l’antica cultura
africana e dare il brivido della dignità originale a chi era stato spogliato di tutto. La
casa accogliente e comprensiva doveva essere la chiesa.
Doveva essere pure un
laboratorio di ricerca e ricostruzione, partendo da qualsiasi calore ancora vivo,
nonostante l’immensa cenere. Era una sfida. Fallì, perché i responsabili locali si
sforzavano solo di credere nelle verità divine, non nella Verità.

Nel 1987, dopo due anni passati nel Caquetá (importantissimi, perché
mi introdussero nel mondo indigeno, che mi mancava), arrivai in Ecuador, con gli indios in
lotta, portabandiera delle rivendicazioni culturali e organizzative proprie di un popolo
oppresso. In Ecuador sono diventato "pellegrino" con gli indios di lingua
quichua nella loro solitudine, angustia, indignazione ed ira. La gente era ai margini già
al tempo degli incas, diventando solo lavoro bruto e a buon mercato dai conquistatori
spagnoli in poi. Ma quando a Riobamba arrivò il vescovo Leonida Proaño, incominciò il
cammino di riscatto ed emancipazione. Ora l’indio ha un suo progetto di vita e
rivendica la propria storia.

Ho imparato di nuovo tutto e ho abbandonato un po’ la cultura dei
libri per abbracciare quella della vita reale e quotidiana. Oggi mi dedico anima e corpo
alle scuole, dove studiano i bambini indios, e voglio rendere la sede bella, idonea e
qualificata. L’educazione offrirà le "armi" per la "riconquista".

Lavoro anche nella pastorale indigena, con un buon numero di
catechisti: tutti volontari e tutti della base, popolo-popolo. Con essi faccio la lettura
critica della realtà comunitaria in trasformazione, per decifrare gli "enigmi
culturali", proponendo e avviando l’aggancio con l’utopia del Regno di Dio,
l’unica ragione per essere missionari e risposta ancora sempre valida per dipingere di
speranza il progetto storico dei popoli.La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,
ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti. Mi piace ragionare con i
collaboratori, specialmente maestri: il discorso è sempre interessante. La lettura di
segni, immagini, miti, gesti e relazioni non si può fare alle spalle del gruppo
interessato. Però è vero che c’è bisogno dell’"osservatore esterno". E
sono ancora convinto che è indispensabile il cammino indicato da Gesù Cristo e, più che
mai, sono attuali i suoi segni: chiavi per aprire, occhi, orecchie, bocche, mani, cuori
e… sepolcri.

 

 

L’innesto sull’albero buono

 

La scena ecclesiale mondiale ci ha regalato parole "chiavi".
Il Concilio ecumenico Vaticano II ci ha dato la parola "dialogo"; la
Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellín (1968) "liberazione",
quella di Puebla (1979) "stare con i poveri" e, con la Conferenza
ecclesiale di Santo Domingo (1992), entra nella storia l’esigenza dell’"inculturazione".
In America Latina essa diventa un imperativo per seguire Gesù Cristo nella solidarietà
verso i volti umani sfigurati.

In Ecuador non parliamo di dialogo con le culture, ma di grido della
cultura
e clamore persistente che esige spazio e riconoscimento nel palazzo della
politica e nella chiesa. La cultura india vuole entrare nella chiesa in nome del
cristianesimo che, bene o male, è diventato suo e si presenta "inculturato"
nell’arco di 500 anni. E si vuole pensare, parlare e agire nella chiesa con una
lingua propria e categorie di pensiero proprie.

Non si accontenta di riti e segni, ma si chiede il diritto di studiare
la filosofia partendo dalla propria cosmovisione, di costruire una teologia muovendosi dal
proprio progetto storico. È un’inculturazione speciale, che richiede la caduta
della chiesa monoculturale
e reclama il diritto di sedersi accanto alle altre culture,
già canoniche, accedendo con diritto completo alla piena cittadinanza ecclesiale. Ora
sogno e lavoro per un "innesto culturale" nella chiesa, affinché questa capisca
e utilizzi tutte le cose buone che la cultura ha, rivedendo e rettificando la struttura
monoculturale che, finora, ha reso "visibile la grazia" con parole, concetti
espressioni liturgiche e dottrinali tratte da un solo vocabolario.

È l’idea sottile di san Paolo (Rom 11, 11-24). Di solito si innesta il
ramo buono nell’albero selvatico. Il missionario insegna, invece, ad innestare la parte
selvatica nell’albero buono. Quindi diventa logica l’azione di inculturare la chiesa,
ossia innestare la cultura indigena nella chiesa.

Paolo vedeva i "pagani selvatici" innestati nell’"albero
buono" del popolo dell’alleanza, cioè la chiesa. E mi diverte l’idea di innestare
gli indios nella chiesa. Mi fa ricordare i barbari, che sconsacrarono l’impero romano, e
immagino lo stupore nel vedere questi "rambo" entrare nelle basiliche, un
po’ chiassosi, e chiedere ascolto. Che cosa impedisce che nel 2001 gli indios entrino
nella loro chiesa, parlino, cantino, adorino e si salvino? E questo senza chiedere in
prestito simboli, ideogrammi, concetti di vita, definizioni di sapienza e conoscenza, di
intelletto e fortezza, di consiglio, pietà e timor di Dio? Passi più lunghi della gamba?
Non me ne sono mai invaghito. Ho sempre cercato di partire da quello che è possibile.
Prima di arrivare alla teologia, c’è la pastorale, che è un lavoro per costruire la
comunità di fede, speranza e carità. Dopo, basta un niente per dire: è la chiesa. Il
vangelo è spirito, forza, visione, una visione di vita che parte da Gesù. Ma gli hanno
dato corpo, segni, sensi, oratoria, logica, parola, ragionamento, mezzi comunicativi. Se
nel passato talora (per non dire spesso) c’è stato bisogno di discutere e disceere la
vera teologia, per definire che cosa si doveva insegnare e credere, ciò significa che
l’interpretazione non è stata subito unanime. E perché non oggi? Anche i popoli
dialogano, ragionano e cambiano. In Kenya i kikuyu (descritti da padre Costanzo Cagnolo in
una celebre monografia di 68 anni fa) sono cambiati; non operano più nei villaggi, nei
campi e nei mercati come allora. Anche in Ecuador l’impero inca non c’è più. Ma c’è
Pilatuña e ci sono io. Pilatuña vive la cultura e io predico il vangelo. Però con
questa differenza: Pilatuña vive la cultura e non sa predicarla; io so forse annunciare
il vangelo, ma faccio molta fatica a viverlo.

 

(*) Padre Giuseppe Ramponi, missionario in Kenya, Colombia e, oggi,
in Ecuador. Ha scritto: "Preghiere samburu", Consolata Fathers, Nairobi (pro
manuscripto); "Missionari e indios. Sentire la vita", Edizioni Siaca, Cento
(FE), 1999.

 

Articolo 4

dossier Congo

 

 

 

Repubblica democratica del Congo

 

Tra i fuochi della guerra

 

 

Una guerra con 2 milioni di morti dal 1998.

Alta la tensione: "Siamo tutti uguali, però loro…".

Ma, con il missionario, si dice pure: "Se tu resti…".

 

 

di Santino Zanchetta (*)

 

La mia è una piccola testimonianza, con qualche particolare
drammatico, che giustifichi perché siamo rimasti nella Repubblica democratica del Congo,
nonostante la guerra. Lo faccio a nome di tutti i missionari: quelli che sono rimasti per
scelta o perché costretti… e che hanno anche dato la vita. Parlo della guerra vissuta
(dalla gente e dai missionari), per rispondere alla domanda: perché restare in tale
contesto? Recentemente il Congo ha subìto due guerre successive; la seconda è scoppiata
nell’agosto del 1998 ed è tuttora in corso.

Per noi, missionari, guerra sono i bombardamenti con armi
pesanti, quando le bordate non sono mai precise, né indovinate, né tanto meno…
chirurgiche. Le bombe cadono ovunque, perché il nemico da perseguire non ha un campo
preciso e occupa generalmente i quartieri popolari. Noi abbiamo avuto la fortuna di
sopravvivere, mentre 2 milioni di persone sono state uccise.

Guerra sono gli scontri, quartiere per quartiere, con gente che fugge e
cerca disperatamente rifugio; con soldati che, aspettando l’evoluzione degli avvenimenti,
si danno al saccheggio, rubando tutto il possibile, forse per appagare la propria fame o
per rifarsi dei salari mai ricevuti.

Guerra è l’odio verso i nemici e i loro alleati: un odio
alimentato dalla stampa, dai discorsi, dai canti e ritoelli, ma anche dalla sofferenza
di chi ha dovuto patire fame, lutti, atrocità, privazioni di medicine, luce, acqua.
Guerra è pure l’Aids, trasmesso (consciamente e inconsciamente) dai soldati e vissuto con
terrore da parte delle vittime.

Guerra è la rabbia contro la povertà mal sopportata (e ciò
spiega i saccheggi e furti), sfogo del tribalismo in atto.

 

 

Tasselli di un mosaico

 

In questo quadro fosco, noi missionari abbiamo vissuto la guerra
insieme alla gente. Con tensione, per avvenimenti che non hanno mai fine; con terrore, per
ciò che potrà ancora capitare, senza sapere quando e come; con silenzio, ignorando
assolutamente cosa fare per proteggersi o proteggere la popolazione. Con paura incessante:
della morte, della tortura, del sequestro, dell’isolamento, della mancanza di
comunicazione e informazioni.

Guerra è stata anche, per noi, la partecipazione al dolore del popolo,
superando il voltastomaco nel vedere persone bruciate vive con la tecnica del
"pneumatico sui corpi", pestate con il mattarello del mortaio. E poi i
ripetuti saccheggi a missioni, parrocchie, seminari, conventi, sotto la minaccia delle
armi; obbligati a caricare tutto sulle autoblindo dei militari e vederle partire.

In guerra, però, non sono le lacrime che salvano, ma come si affronta
la situazione, soprattutto per noi missionari, divenuti punti di riferimento. Abbiamo
vissuto ogni sorta di sopruso; siamo stati anche feriti nei sentimenti più profondi: come
uomini, come stranieri, come sacerdoti, suore e consacrati. Sorgono tante domande, tutte
cariche di angoscia: perché restare nel paese? Perché amare la gente? Perché, dopo
tutto quello che abbiamo vissuto e visto, dobbiamo credere che la nostra presenza abbia
significato e valore?… Perché, invece, non partire, in attesa di tempi migliori e più
sicuri? La mia risposta (mentre la guerra continua) non è né definitiva né esaustiva:
è un insieme di piccoli tasselli, come in un mosaico.

Il primo motivo che, come missionari, ci fa rimanere è l’affetto,
la parte umana di noi. Siamo vissuti per tanti anni insieme: abbiamo pregato e partecipato
al dolore comune nei funerali, alle difficoltà materiali e spirituali; abbiamo
chiacchierato a lungo visitando le case e prendendo in braccio i bambini; abbiamo sognato
iniziative comuni di sviluppo. La nostra esistenza è intimamente legata a quella della
gente.

Date queste realtà, chi ha il coraggio di spezzare i legami,
abbandonare l’amico nel dolore o nella lotta per la sopravvivenza? La vicinanza fratea
infonde coraggio ad una comunità disorientata, la fa sentire amata e valorizzata.
"Se tu resti – mi sento dire -, significa che noi siamo importanti, ci vuoi
bene e sei uno di noi".

Il secondo tassello del mosaico è più profondo: dipende dalla stessa
missione che ci vincola, senza sconti, alle comunità cristiane. Quali che siano le
circostanze (abbondanza, penuria, gioia, pericolo, gratitudine o indifferenza), il vangelo
della carità (cioè il dono di sé) deve essere proclamato in ogni situazione. Pertanto la
missione non è una passeggiata occasionale,
una manciata di emozioni che passano, ma
condivisione di vita, costantemente e concretamente.

Un terzo motivo: la nostra presenza deve diventare segno di una cultura
di pace contro ogni logica della guerra,
facendo capire che, nonostante la violenza,
è la frateità che deve reggere la vita… Attraverso riflessioni, incontri e gesti di
carità, il missionario approfondisce il vangelo con l’uomo della strada, provocando
(non senza fatica) pensieri di riconciliazione. Un esempio: furono fatti prigionieri dei
rwandesi, ed era "normale" insultarli, denigrarli e considerarli animali per
tutte le sofferenze che avevano provocato… Nella nostra riflessione, in missione,
abbiamo affrontato il tema della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che
supera l’appartenenza ad una tribù o stato. La riflessione ha incontrato molta
resistenza… perché "è vero che siamo tutti uguali, loro però…". Ciò
nonostante, dopo reazioni anche violente, siamo riusciti a raccogliere cibo e soldi per
andare a trovare i prigionieri "nemici", con un atteggiamento di pace e perdono.

 

 

Preparando il futuro

 

È importante rimanere e, soprattutto "come" si rimane. Non
è la presenza fisica che gioca il ruolo determinante, ma il significato che acquista e
l’azione quotidiana: cioè la vicinanza che faccia crescere la comunità cristiana,
che infonda speranza (ma anche soluzione) nei problemi concreti, che educhi alla non
violenza e al perdono.

In frangenti drammatici (come è avvenuto nelle nostre missioni del
Congo settentrionale) a volte è più utile la "partenza momentanea", perché il
missionario, restando, può mettere a repentaglio la vita della sua gente. Spesso,
infatti, "il bianco" è ricercato per quello che possiede o ha nascosto; e, per
sapere e trovare qualcosa (macchine, soldi, viveri), si può anche ricorrere alla tortura
delle persone. In questi casi, forse, la soluzione migliore è l’allontanamento
temporaneo, per permettere alla gente di vivere senza subire ulteriori pressioni e
violenze.

 

I missionari non sono eroi; non sono nati per questo (io, almeno);
però la presenza-missione li interpella e si esprime "con" la gente in tante
piccole cose.

Infine il nostro restare è un investimento per il futuro. La
situazione, anche pastorale, esige nuove visioni e prospettive; suppone che i missionari
lavorino non soltanto cercando di "sopravvivere" oggi, ma guardando alle
generazioni future. La guerra, purtroppo, non finirà domani e la ricostruzione del Congo
non avverrà dopodomani. I giovani, specialmente, devono saper convivere con la violenza,
stimolati però a cercare valori nuovi, umani e cristiani, per costruire un futuro di pace
per il paese. Ecco perché, in barba alla guerra (o, meglio, a motivo di essa), il nostro
gruppo missionario di Kinshasa ha voluto offrire un segno "forte". Prendendo lo
spunto dalla conferenza "Il coraggio dell’annuncio", abbiamo aperto una nuova
parrocchia nella "periferia più periferia" della capitale, dove bisogna
incominciare da zero. È una testimonianza di chiesa, di vicinanza missionaria, che
esprime, a dispetto della scarsità di mezzi e personale, la fiducia di poter dare un
volto nuovo al Congo. Noi siamo sempre "i missionari della Consolata".

 

 

(*) Padre Santino Zanchetta, missionario in Zaire-Congo. Il paese,
spaccato in due, è in guerra dal 1998: le vittime superano i due milioni. La separazione
incide anche sui missionari della Consolata, costituitisi in due gruppi che non possono
incontrarsi.

 

Articolo 5

 

dossier America Latina

 

 

America Latina

 

 

L’indio al centro

 

 

"Per gli indios, noi missionari non siamo importanti:

con la chiesa o senza la chiesa, faranno il loro cammino. Siamo noi che
abbiamo bisogno di loro".

 

di Antonio Bonanomi (*)

 

È importante chiarire subito un "dettaglio": l’indio non
esiste. Esiste come termine, non come realtà; nessuno degli indigeni dell’America si
riconosce come indio, perché è una parola sbagliata; è un "errore" di
Cristoforo Colombo,
che pensava di avere raggiunto le… Indie!

Pertanto meglio sarebbe parlare di popoli indigeni o, come si
dice in Argentina, di popoli aborigeni, che occupano un determinato territorio fin
dall’"inizio": quindi padroni della loro terra e storia. Tuttavia fare la
scelta degli indios non è una moda; significa incominciare a guardare il mondo non
dall’occidente, da noi, ma da loro. Non solo il mondo, ma anche la chiesa sarebbe
più povera senza la loro presenza, perché gli indios apportano una grande ricchezza, con
una saggezza, una storia e un progetto di vita diversi. Siamo noi che abbiamo bisogno di
loro, più che loro di noi. Qual è il panorama degli indigeni nell’America Centrale e
Meridionale? Sono circa 45 milioni coloro che si dichiarano indigeni, anche se credo che
siano il doppio, perché la maggioranza dei popoli che vivono in America hanno una
percentuale di sangue indi al 20-60%; quindi il volto indigeno è molto più comune di
quanto appare nelle nostre mappe. Essere indigeni in America è stato un motivo di
vergogna per tanto tempo e molti si sono mimetizzati per poter sopravvivere! Si passa dal
70-80% della Bolivia e del Guatemala, allo 0,2% del Brasile, all’1% del Venezuela, al 2%
della Colombia. Quindi c’è una diversità di presenza enorme.

C’è pure una diversità di situazioni: popoli che vivono ancora come
cacciatori, raccoglitori, pescatori e popoli che sono alle soglie della modeità con i
vantaggi e gli svantaggi che questo implica. Oggi questi popoli stanno facendo "la
riconquista" della loro storia, cultura, territorio.

Oggi il grande problema in America è il non riconoscimento della
propria identità.
Il futuro dirà chiaramente che, se l’America vorrà diventare un
continente con un volto, una storia e un progetto originali, dovrà necessariamente
riscoprirsi plurietnico e multiculturale: latina, india, nera. Una sfida enorme, ma
anche la ricchezza d’America.

 

 

Il quinto sole

 

Ci sono tre grandi tappe nella storia dei popoli indigeni. La prima è
il tempo che precede la conquista, e non è conosciuta. Tutti pensiamo che la storia
d’America sia incominciata quando è arrivato Colombo, ma quei popoli "scoperti"
avevano già migliaia di anni di civiltà, di cui è rimasto solo qualche rudere, alcune
iscrizioni e pochi reperti nei musei.

La seconda tappa della storia comincia con "la conquista".
Per noi il 1492 è una data gloriosa, perché spalanca all’Europa un mondo
sconosciuto; per gli indios è l’inizio della colonizzazione, del genocidio e della
"scomparsa", non solo fisica, ma soprattutto culturale, di identità.

Verso gli anni ’70 incomincia una terza tappa per i popoli
indigeni: è quella della "riconquista". Vissuti finora ai margini,
vogliono riappropriarsi della loro storia e identità; vogliono essere di nuovo
protagonisti e signori della loro terra espropriata. Per questo il terzo millennio, per
l’America, sarà il millennio degli indigeni e dei neri. Oggi il grande problema
americano è il non riconoscimento della propria identità, bensì l’essere un
continente senza identità.

La storia unisce i popoli indigeni, anche se la cultura a volte li
differenzia; e li unisce il progetto del futuro che sentono come proprio: gli indios
vivono dell’utopia, credono e sono convinti che sorgerà il "quinto sole", il
nuovo impero degli indios in America.

Se la società latinoamericana non accetta la sfida di assumere la
cultura e il progetto indigeno come radici della sua storia, difficilmente il continente
incontrerà la pace, perché non s’incontrerà con se stesso.

 

 

Alle radici

 

Noi missionari della Consolata in America Latina abbiamo compiuto un
lungo cammino per giungere alle… radici. Quando siamo partiti per il continente,
l’abbiamo fatto con un progetto particolare: incontrare l’America degli
emigranti e, quindi, la ricerca-scoperta di paesi o quartieri totalmente veneti, trentini,
siciliani, calabresi… tutta gente che era partita dall’Italia per cercare da
mangiare e sfuggire alla miseria.

La prima tappa dei nostri missionari è stata quella di stabilirsi dove
c’erano gli europei; arrivando, si sono sentiti più o meno a casa loro; non hanno
avvertito il cambiamento provato dai missionari in Africa, dove il "salto" era
più evidente.

Poi c’è stata la seconda tappa, a volte più lunga e a volte più
breve. Il fatto di essere missionari li ha resi inquieti e si sono, allora,
aperti alle zone più povere e abbandonate: il Chaco in Argentina, Roraima in Brasile, il
Caquetá in Colombia… Ma l’indio era sempre invisibile. Se si prendono in mano i
documenti ufficiali (come le Conferenze regionali) fino agli anni ’70, non si parla
mai di indios. È come se uno prima vede i rami, poi il tronco e, solo alla
fine, le radici.

Soltanto in una terza tappa i missionari e le missionarie della
Consolata sono arrivati agli indios. All’inizio è stato come giungere dal centro alla
periferia; poi si sono resi conto che giungere all’indio non è arrivare alla periferia
d’America, ma alle sue radici. A São Paulo, in Brasile, si contano 600-700 mila
giapponesi, una delle culture asiatiche più ricche; si trovano più cattolici giapponesi
in Brasile che nello stesso Giappone… In Colombia si incontrano pure turchi o colonie
libanesi. Le colonie sono come rami, che non hanno in sé la vita; questa viene dalle
radici. C’è anche il tronco, che è il mondo dei meticci, della colonizzazione: un
mondo inquieto, incerto, disposto a tutte le avventure. E, infine, le radici, che sono i
popoli indigeni.

Per gli indios, noi missionari non siamo importanti, né necessari: con
o senza la chiesa, essi faranno il loro cammino. Siamo noi che abbiamo bisogno di loro.
Non incontreremo mai le radici, né costruiremo una chiesa che sia davvero cattolica,
cioè con una pluralità di valori, senza gli aborigeni. Dobbiamo andare incontro agli
indios, perché sono "diversi"… La loro è una cultura che privilegia lo
spirito sulla materia. Per l’indio tutto è vita.

L’uomo può diventare animale o pietra… Noi occidentali non siamo il
centro di tutto, perché, avendolo fatto per ragioni di profitto, stiamo rovinando tutto.
È la tragedia dell’homo homini lupus, che si ripete.

 

Poi c’è la comunità. L’indio non esiste come
"individuo"; non dice "io", ma "noi"; si sente parte di un
corpo. Se volete annullare un indio, portatelo fuori dalla comunità: non esiste più, è
un uomo morto…

Come missionari, la nostra funzione è: stare con gli indios, sorretti
dal vangelo, per rafforzae l’identità. Nel momento presente essi devono
fronteggiare ad una sfida grande: unire, in una sintesi nuova, la loro storia e tradizione
con… altre realtà, in un processo di interculturalità. È questo il nostro compito di
missionari, membri di una famiglia ormai intercontinentale: non richiudere gli indios come
oggetti da museo, ma rafforzarli, aprendoli al dialogo interculturale; perché la loro
ricchezza non solo sia conosciuta, ma diventi valore per altri. Ricordo due figure
significative: la prima è quella di padre Giovanni Calleri, il primo missionario della
Consolata ucciso (nel 1968), per avere amato gli indios del Brasile; la seconda riguarda
un altro sacerdote, padre Alvaro Ulcué, colombiano, anch’egli ucciso (nel 1984),
perché si era schierato dalla parte degli indios. Questo dice qualcosa: che la scelta
degli indios in America Latina è anche scelta di martirio. Ciò vale pure per il nostro
istituto. È bello sapere che un missionario della Consolata colombiano, padre Ariel
Granada, sia morto martire in Mozambico e un italiano abbia avuto la stessa sorte in
Brasile… Questo "filo rosso", che caratterizza la storia delle missioni, lega
anche la storia dei popoli indigeni.

 

 

(*) Padre Antonio Bonanomi, missionario fra gli indios "nasa"
della Colombia. Dopo una significativa presenza in Italia come professore e formatore, ha
raggiunto l’America Latina.

 

Articolo 6

 

dossier Kenya nord

 

 

Kenya del Nord

 

 

Samburu a rischio

 

 

"Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca

di realizzarsi fuori della comunità… La popolazione

è "in guerra" per divenire più potente e ricca".

 

 

di James Lengarin (*)

 

Io sono un samburu. Appartengo ad un popolo nomade di pastori nel Kenya
del nord. I samburu sono un ramo dei masai (eravamo "cugini"): il 95% della
lingua, degli usi e costumi sono uguali, anche se non mancano le diversità. I samburu
sono circa 150 mila e vivono su una superficie di 20 mila chilometri quadrati. Un
territorio vasto, ma povero, perché senz’acqua. Quando ritorno a casa per trovare i
parenti, non li trovo mai sullo stesso luogo, perché, essendo pastori nomadi, devono
spostarsi alla ricerca di acqua e pascoli erbosi.

 

 

Mucche al centro

 

La società samburu è formata da otto clan (o insieme di famiglie), a
loro volta divisi in due: "vacche nere" e "vacche bianche". Il nome
non deve stupire, perché la nostra vita ruota attorno alle mucche. Con la loro pelle, ad
esempio, si confezionano vestiti, stuoie, tabacchiere, sandali: tutto proviene dalla
mucca. Essa è il centro di tutto, non la… new economy!

La nostra è anche una società gerontocratica, perché tutte le
decisioni vengono prese dal "Consiglio degli anziani": solo gli anziani, non
altre persone; nonne e mamme possono dire la loro, dare un parere, ma la decisione finale
spetta al Consiglio! È composto da tutti i capifamiglia, che devono dialogare e restare
uniti per il bene del popolo. La vita dell’individuo passa attraverso vari momenti di
crescita (classi di età) e diversa è la responsabilità sociale: il bambino deve restare
bambino e il guerriero… guerriero. I lavori sono organizzati secondo i ruoli: i ragazzi
pascolano i vitellini o le caprette; i guerrieri il bestiame più grosso e difendono la
società dai nemici; gli anziani guidano la vita attraverso il Consiglio, decidono su riti
ed iniziazione, controllano i matrimoni; le donne costruiscono le dimore, mungono il
bestiame, procurano acqua, legna e cibo per tutti; esse sono al centro della famiglia e
rispettate nel loro ruolo.

In ciò concee la vita religiosa tradizionale, i samburu credono in
un unico Dio, Ngai, che rimanda non solo ad un essere supremo, ma significa pure
"pioggia" e "cielo".
Nell’acqua c’è la vita. Il nostro
è un Signore che dona la vita attraverso la pioggia. E può manifestarsi in vari luoghi:
in una casa, sotto la pianta, sulla montagna, dove si prega, si offrono sacrifici, si
invocano le benedizioni (che sono quasi infinite). Si prega mattino e sera.

I samburu tradizionali sono molto lontani dalla fede in Gesù Cristo.
Il messaggio cristiano è di difficile accettazione. Un uomo-Dio: come è
possibile? I missionari devono faticare non poco per comunicare questa "buona
notizia", sconvolgente per i samburu.

La vita sociale è legata ai periodi di siccità e pioggia; quando
questa manca, la gente sta male, gli animali muoiono e la vita si ferma. Per questo Dio è
pioggia, cioè cibo, carne, sangue, latte: ciò che garantiscono gli animali.

Negli ultimi tempi i samburu sono cresciuti di numero, ma la qualità
dei pascoli è scaduta. Le frequenti siccità e carestie hanno costretto la gente ad una
maggiore dipendenza da cibi estei, come riso, polenta… Tutte cose che prima non
mangiavano; ora, invece, ne fanno uso per sopravvivere. Al presente dipendono anche dal
governo nazionale e dagli aiuti stranieri.

I samburu sono stati a lungo "fuori dal mondo". Quando in
Kenya c’erano i coloni inglesi, alla gente non era permesso di lasciare il territorio. È
rimasta, dunque, isolata per parecchio tempo, divenendo un problema per i colonizzatori,
che faticavano a concepire e dominare una società… senza capo, in quanto tutto è
determinato dal Consiglio degli anziani.

I missionari della Consolata ebbero i primi contatti con i samburu nel
1946, allorché padre Carlo Andrione giunse a Maralal per visitare alcuni amici kikuyu.
Così è iniziato l’avvicinamento, con qualche scuola.

La prima missione sorse a Baragoi nel 1951; vi era anche un centro per
ragazzi, una scuola, un dispensario; il tutto con la presenza delle suore. Fu un passo
molto importante per la nostra storia. I missionari osservavano, imparavano dalla gente,
dialogavano con gli anziani. La scuola è stata l’iniziativa più "utile",
come quella di Wamba e l’omonimo ospedale: un’oasi nel deserto, con medici che
arrivano dall’Italia.

Accennando ai missionari, è doveroso ricordare i confratelli martiri:
padre Michele Stallone ucciso nel 1965 e padre Luigi Graiff nel 1981. Nel 1998 cadde anche
padre Luigi Andeni. Missionari uccisi in un clima di "guerra", mentre essi
aiutavano in "pace" la gente e portavano cibo ai bisognosi.

 

 

L’antenna sulle capanne

 

Contese ce ne sono sempre state nel nord del Kenya, soprattutto fra le
tribù. Noi samburu, ad esempio, non mangiamo con i turkana, perché ce lo vieta la
tradizione che abbiamo ereditato dai nostri padri. Ricordo anche i bellicosi ngorokos e le
azioni di banditismo dei somali.

Ma ben altri sono gli scontri con operazioni tipicamente militari; sono
soldati che combattono altri soldati. E lo stato centrale ha le sue responsabilità.

Un proverbio recita: "Se chiudete la bocca al popolo, ne armate la
mano". Ecco allora che la lotta nel nord del Kenya è diventata una "guerra
civile". Lo stato, invece di garantire alla gente sicurezza e speranza di
vita, mette a disposizione fucili. Una nota preoccupante nei conflitti samburu è
la "giovinezza": la violenza è diventata un modo di vivere per i giovani; sono
ragazzi disoccupati che non hanno nulla da perdere e, di conseguenza, non posseggono né
etica né disciplina. Ma non si tratta di lotte tribali per impossessarsi di mucche o di
sorgenti d’acqua, bensì di banditi organizzati per un fine politico. Tra i rovi del
deserto si aggirano uomini con fucili a tracolla. In tale situazione la cultura samburu è
davvero a rischio. Finora i samburu, pur cambiando, hanno sostanzialmente conservato
l’identità culturale (tanto da essere subito riconosciuti) e il senso di libertà.
Invece altri gruppi hanno subìto in modo violento le spinte del cambiamento: coinvolti
nel processo di urbanizzazione, hanno perso le loro radici.

Quindi i samburu potrebbero rappresentare un esempio di mutamento
positivo (persino nella religione), conservando tuttavia i tratti culturali fondamentali.
Alcuni sono diventati cristiani, lavorano in città, dirigono piccole aziende, ma restano
samburu. Inoltre si sostengono a vicenda. Ognuno ha diritto alla propria libertà di
pensiero, purché non vada contro il bene comune. Al centro c’è la persona: tutto ruota
attorno ad essa e alla vita. Questo almeno fino a ieri.

Oggi però anche i samburu sono a rischio, perché c’è il miraggio
del benessere.
Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca di realizzarsi
fuori della comunità. Il problema grave è che, al presente, la popolazione è "in
guerra" per divenire più potente e ricca. Quando un giovane samburu lascia il
villaggio per motivi di studio o lavoro, al ritorno a casa non si trova più a suo agio,
non è più uno di "loro": non va ad attingere acqua con i compagni, non segue
il gregge al pascolo. Forse il nuovo comportamento è determinato dal fatto che il ragazzo
non ha ricevuto l’educazione tradizionale. Infatti alcuni giovani non ascoltano più gli
anziani (che sono emarginati); invece sono impegnati nell’ascolto della radio e,
possibilmente, della televisione.

Su alcune capanne svetta persino l’antenna parabolica. Solo
musica. La cultura tradizionale tace. Ha voce solo l’immediato, l’economico.

Questo è il rischio che stiamo vivendo: essere individui che cercano
solo di avere di più e a prezzi facili. E dove finiremo con i nostri traumi?

 

 

(*) Padre James Lengarin, primo missionario della Consolata
"samburu" (Kenya). Ha studiato a Londra e Roma. Oggi svolge animazione
missionaria a Galatina (LE).

 

Articolo 7

 

San Vicente/Puerto Leguízamo (Colombia)

 

Nell’inferno della coca

 

 

"Io vorrei maledire la coca. Invece i veri maledetti

siamo noi. Ci siamo lasciati ingannare

dal miraggio di quelle foglie…".

 

 

di Javier Francisco Múnera (*)

 

Mi sento sinceramente un po’ a disagio con il titolo
"nell’inferno della coca", perché io ci vivo. Ma per me non è un inferno,
anche se potrebbe apparire tale. Quindi mi permetto di cambiare il titolo con
"Colombia: tensione armata e coca; la sfida della pace e dell’armonia con il
creato".

In Colombia, in un conflitto sociale che dura da oltre 50 anni e che
non si riesce ancora a risolvere, la pace è la nostra sfida più grossa. Impegna le
migliori risorse anche nel vicariato apostolico di San Vicente/Puerto Leguízamo.

 

 

Intreccio di armi e droga

 

Il vicariato ricopre un’area di circa 100 mila chilometri quadrati, con
quattro comuni principali: Cartagena del Chairá, Solano, San Vicente e Puerto Leguízamo.
Un territorio che rivela l’assenza dello stato per tutto ciò che riguarda i servizi
e le infrastrutture, nonché per i costanti scontri. L’attuale popolazione proviene
da altre regioni della Colombia, colpite dalla violenza politica degli anni ’50-60:
ha cercato qui lavoro e rifugio. La nostra regione si caratterizza per la coltivazione
della coca, oltre che per la presenza della guerriglia. I contadini hanno incominciato
lentamente a piantare coca e a vendee le foglie raccolte; hanno imparato a trattarle,
per ricavare la "pasta basica"; questa viene poi raffinata in polvere bianca e
venduta ai commercianti che alimentano i mercati di cocaina in Europa e America del Nord.

Oggi in Colombia (nella nostra zona in particolare) il conflitto
armato e il traffico di stupefacenti si intrecciano,
condizionando la vita della
popolazione e, quindi, anche la nostra presenza pastorale. È un’incredibile sfida
missionaria. Siamo convinti che solo la via del negoziato può aiutarci ad uscire dal caos
in cui annaspa la nazione; non possiamo accettare alcuna soluzione militare, che rechi
altro sangue e sacrifichi nuove vite umane. Riteniamo utile, come male minore, una
"zona di distensione", per realizzare una intesa con i guerriglieri delle Forze
armate rivoluzionarie colombiane (Farc).

Tuttavia la guerriglia è divenuta ormai un "quasi stato",
che domina e controlla il territorio e le persone, non solo nella nostra zona, ma anche
altrove: vi sono tasse, leggi, punizioni, reclutamento di ragazzi e ragazze, lavori
forzati, abusi contro i diritti umani. La gente lo sa: o resta a tali condizioni o se ne
va; non c’è via di mezzo, anche perché il controllo è forte e si esercita maggiormente
nelle aree rurali.

Un esempio: quest’anno a Remolino non si è celebrato il natale,
nonostante che i padri Giacinto Franzoi e Beppe Cravero avessero preparato la comunità.
La comandante guerrigliera Jessica, infatti, aveva ordinato alla gente di rimanere in
piazza per il "carnevale", durato tre giorni. I missionari avevano chiesto due
ore per poter almeno celebrare la messa di natale; ma la richiesta non fu accolta…
L’aspetto peggiore dell’episodio è che la gente non ha avuto la capacità di
reagire,
di resistere al sopruso della guerriglia.

Come missionari, dobbiamo educare tutti alla pace e alla
riconciliazione. La popolazione ha fiducia nella chiesa, anche se conflitti armati e
traffici di coca hanno soffocato i valori di convivenza sociale tipici di un tempo. Si
vive in una situazione assai confusa di "legalità illegittima", e i riferimenti
ai valori umani e cristiani non sono all’ordine del giorno. Però io credo che ci sia
ancora spazio per continuare a seminare, con più capacità "profetica", tutti
insieme e come équipes ecclesiali.

Il problema rende necessaria la formazione per il coinvolgimento
sia nel processo di pace sia nella costruzione di nuove forme di convivenza sociale, per
divenire più responsabili. Pertanto abbiamo iniziato, con altre diocesi, le "scuole
di pace",
affrontando temi importanti e fondamentali: identità e appartenenza
(necessarie dove il tessuto sociale è molto fragile); conflitti sociali e il loro
ragionevole superamento; partecipazione politica. Il tutto illuminato dalla bibbia e dal
magistero sociale della chiesa.

 

 

A mani vuote

 

L’altro grande conflitto che colpisce la nostra regione è quello della
coca. È un fatto grave, che si inserisce nella storia e nell’economia di uno sfruttamento
selvaggio che ha ferito e ferisce l’Amazzonia, creando un profondo squilibrio tra
persone e "habitat".

Dalla coltivazione della coca, dal suo mercato e traffico
internazionale traggono grandi guadagni anche diversi gruppi armati. In particolare, nella
nostra regione, sono le Farc che controllano il commercio della polvere di coca; e non si
può negare che, nelle aree di loro dominio, è aumentato il numero degli ettari
coltivati. Sono loro che decidono i prezzi e a chi vendere la "neve bianca". Ma
c’è anche un versante positivo: le Farc hanno obbligato a seminare mais, riso,
platano, iucca, perché la gente pensava solo alla coca.

Tuttavia resta l’"economia illecita" della coca. Su di
essa si sono scaricate le politiche errate dello stato centrale, ricattato dagli Stati
Uniti, con metodi repressivi. Ma le fumigazioni dei campi di coca e i prodotti chimici non
sono serviti a nulla; anzi, hanno compromesso l’ambiente, favorendo la deforestazione
dell’Amazzonia. Da registrare anche danni irrimediabili alle acque.

C’è il probema della cocasa: pare che questo sottoprodotto
(un residuo della lavorazione delle foglie di coca) contenga un elevato tasso di piombo,
con il rischio che sia assimilato da altre colture, i cui frutti sono di largo consumo
(pomodori e verdure varie). L’impatto su donne e bambini, destinati alla raccolta e
soprattutto alla lavorazione degli avanzi di coca, è nefasto, perché sono a contatto
(senza alcuna protezione) con prodotti chimici nocivi alla salute.

Spesso la popolazione è coinvolta in tale lavoro più per necessità
che per volontà: praticamente viene costretta, altrimenti non potrebbe sopravvivere. Mancano
le condizioni per una economia sostenibile con altri prodotti:
la scarsità di vie di
comunicazioni e di centri di raccolta fanno sì che si perdano tanti prodotti, mentre i
contadini non trovano un appoggio statale valido per rendersi autonomi con altre risorse.
E i soldi che entrano nelle tasche dei coltivatori di coca non giovano a nulla, perché
non recano né benessere né sviluppo; invece aumentano gli alcornolizzati e i prodotti di
lusso, totalmente non necessari. La qualità di vita non è migliorata; al contrario,
tutti gli articoli di prima necessità costano cari. L’economia della coca si è riversata
come una maledizione sui nostri contadini.

Ecco la testimonianza di un’anziana: "Di fronte al dolor

Giacomo Mazzotti




GLOBALIZZAZIONE / Un altro mondo non è possibile?

Egregio professor Panebianco

Vogliamo accettare un mondo dove 4 miliardi di persone sopravvivono con 2 dollari al
giorno? Un mondo dove alcune persone possono avere "stipendi" maggiori del
Prodotto interno lordo di interi paesi? Eppure in molti cercano di legittimarlo asserendo
che questo è l’unico mondo possibile. No, forse non è proprio così…

Egregio professor Panebianco, non sono mai stato un suo estimatore. Tuttavia, per avere
un’informazione il più possibile completa, anch’io leggo i suoi editoriali sul
"Corriere della sera".

"Un’idea pericolosa – lei scrive (Angelo Panebianco, Vanataggi globali e la
società chiusa, Corriere della Sera del 23 giugno 2001) – si va diffondendo. È
l’idea che i contestatori della cosiddetta "globalizzazione" abbiano più
ragioni che torti".

Il pericolo non sono i danni evidenti ed esplosivi prodotti dalla globalizzazione, ma
sono i contestatori della stessa. Questa sua affermazione ha dell’incredibile,
professore!

"Tutti costoro accettano troppo facilmente gli slogan degli antiglobalizzatori:
credono davvero che il potere di vita e di morte sui destini del mondo sia nelle mani di
un pugno di multinazionali".

Le multinazionali non sono un pugno, ma qualcuna di più: 63.459 secondo le statistiche
dell’Unctad, l’agenzia delle Nazioni Unite.

Le 200 multinazionali più grandi rappresentano oltre il 30% dell’attività
economica mondiale. Il fatturato della General Motors è più elevato del prodotto interno
lordo della Danimarca; quello della Ford è maggiore del Pil del Sudafrica. Le entrate
dell’Ibm superano ampiamente il prodotto interno lordo dell’Argentina. E così
via. Davanti a numeri simili, chi può dubitare del potere di vita e morte delle
multinazionali? Però, proviamo ad immaginare che queste compagnie siano
"etiche" e, dunque, non abusino del loro potere. Andiamo a vedere, come direbbe
la Confindustria, quello che effettivamente fanno. Ebbene, l’elenco dei misfatti di
cui esse sono imputabili è lunghissimo. Ma facciamo pure qualche nome.

Le multinazionali statunitensi Chiquita, Dole e Del Monte posseggono i 2/3 del mercato
mondiale delle banane. Nel loro curriculum sta scritta una lunga lista di crimini
(sociali, ambientali e sindacali). Interi paesi latinoamericani (Honduras, Guatemala,
Costa Rica, Panama, Ecuador) sono stati segnati dalla loro nefasta presenza.

La Monsanto (Usa) e la Novartis (Svizzera), dopo aver inquinato mezzo pianeta con
pesticidi ed erbicidi, ora si sono buttate sulla manipolazione genetica, non per sfamare
il mondo, ma per instaurare un regime di monopolio sulle sementi.

La multinazionale alimentare Nestlè (Svizzera) è accusata di aver spinto per
l’utilizzo del suo latte in polvere a scapito di quello materno. Secondo
l’Unicef, un milione e mezzo di bambini muoiono ogni anno nei paesi poveri perché
non vengono nutriti con il latte materno, e altri milioni si ammalano.

Le multinazionali petrolifere sono tra i maggiori responsabili dei disastri ambientali
del pianeta. La Royal Dutch-Shell, per esempio, è famosa soprattutto per le sue
operazioni in Nigeria: contro l’ambiente (il fiume Niger) e il popolo degli ogoni.

E che dire del presidente George W. Bush? Tutti sanno che l’ex petroliere texano
ha trovato generosi sponsor nelle compagnie petrolifere statunitensi: Exxon-Mobil, Texaco,
Chevron, sopra tutti. Sarà un caso che, appena entrato alla Casa Bianca, il presidente
abbia dichiarato morto il protocollo di Kyoto sulla riduzione dei gas a effetto serra?

Caro professore, non c’è dubbio che le multinazionali costituiscano un enorme
pericolo per il mondo, soprattutto da quando, in nome del neoliberismo e della
globalizzazione, è passata l’idea di "stati leggeri", privi di un
effettivo potere di regolamentazione e controllo. Quello della perdita di potere degli
stati nazionali è uno degli effetti più subdoli della globalizzazione.

"Credono davvero che la globalizzazione accresca la povertà al di fuori del mondo
occidentale. Nessuno di loro è sfiorato dal dubbio che queste siano falsità. Nessuno di
loro è disposto, ad esempio, a prendere in considerazione il fatto, ampiamente
documentato, che, lungi dall’accrescere la povertà, l’apertura dei mercati
abbia, nell’ultimo decennio, contribuito potentemente a ridurla".

È proprio vero che in questo mondo tutto è relativo. Io non so quale documentazione
abbia in mano, professor Panebianco. Ma forse basterebbe che lei facesse un viaggio nelle
periferie di Lagos, San Paolo, Manila, Lima o di altre megalopoli del Sud del mondo. Le
statistiche più recenti parlano di un miliardo e 175 milioni di persone che sopravvivono
con un dollaro al giorno, mentre altri 3 miliardi ogni giorno portano a casa un po’
di più: 2 dollari (4.500 lire).

D’altra parte, la globalizzazione fa molto bene ai ricchi (chiamiamoli così): ci
sono stipendi annuali che superano il prodotto interno lordo di interi paesi (Charles Wang
della Computer Associated nel 1999 ha guadagnato 507 milioni di dollari) o patrimoni
personali che un paese potrebbero acquistarlo (Bill Gates con 58,7 miliardi di dollari è
il primo, ma anche Silvio Berlusconi con 10,3 non può lamentarsi).

Ghandi diceva: "Il mondo è abbastanza ricco per soddisfare i bisogni di tutti, ma
non lo è per soddisfare l’avidità di ciascuno".

"Il problema è sempre uno, da quando è nato il capitalismo: il conflitto fra i
fautori della società chiusa, tra quelli che pensano che il commercio senza barriere e
restrizioni porti, col tempo, benessere e libertà a tutti coloro che vi vengono
coinvolti, e quelli che lo intendono solo come una forma di sfruttamento e di oppressione
(oltre che, va da sé, di "mercificazione" dell’esistenza)".

Benessere per chi? Libertà di che? Nel mondo globalizzato la sola certezza è la
"libertà di profitto", indipendentemente dai costi sociali che questa produce.
Professore, si ricorda ancora di quella che si chiama "libertà dal bisogno"?
L’evidenza quotidiana dimostra che essa non sussiste per la maggioranza
dell’umanità. E poi, mi scusi, lei contrappone società aperte e società chiuse.
Allora perché paesi ultraliberisti come Argentina, Brasile e Messico sono periodicamente
sull’orlo della bancarotta?

Ma dove il suo ragionamento cade miseramente è davanti al fenomeno delle migrazioni. I
paesi dell’Occidente sono aperti? Lo sono per ricevere i capitali delle speculazioni
finanziarie, ma non per accogliere tutte le persone (donne e bambini compresi) che
scappano alla ricerca di un’esistenza dignitosa.

Lei sceglie il sarcasmo per liquidare coloro che parlano di sfruttamento, oppressione e
mercificazione dell’esistenza. Non è forse sfruttamento quanto avviene in moltissime
unità produttive del Sud del mondo, dove la gente (bambine e bambini compresi) è
costretta ad accettare condizioni di lavoro disumane? Non è forse oppressione non essere
liberi di vivere nelle proprie terre perché concupite da qualche multinazionale? Non è
forse mercificazione dover pagare per curarsi o rimanere in salute?

"Non colpisce il semplicismo del pensiero di certi portavoce del movimento
antiglobalizzazione (che immaginano il mondo retto da un governo occulto delle
multinazionali). (…) Poi ci sono le cose serie (…). Che poco sembrano interessare al
"popolo di Seattle" e ai suoi rispettabili simpatizzanti".

Normalmente, quando si accusa qualcuno di semplicismo, vuol dire che quel qualcuno sta
colpendo nel segno. Caro professore, al contrario di quanto lei asserisce, le cose serie
sono proprio quelle che il "popolo di Seattle" cerca di portare
all’attenzione dei cittadini del mondo: una democratizzazione delle istituzioni
economiche che dettano legge a stati e popoli (Organizzazione mondiale del commercio,
Banca mondiale e Fondo monetario internazionale); uno sviluppo sostenibile che non
distrugga foreste, mari, aria, acqua e non dia l’80% delle risorse al 20% della
popolazione mondiale; la tassazione delle operazioni finanziarie speculative (Tobin Tax),
per colpire quel mondo degli affari dove – come ha scritto John K. Galbraith – il senso di
responsabilità per gli interessi collettivi è nullo; la remissione del debito dei paesi
poveri; una ridefinizione del ruolo del mercato, che non è – come i sostenitori del
"pensiero unico" vorrebbero far credere – una legge di natura, ma una mera
invenzione umana.

 

Egregio professore, spero che il mondo che lei difende un giorno o l’altro si
frantumi sotto il peso delle proprie contraddizioni. Con l’aiuto di quel "popolo
di Seattle" (e di Porto Alegre) che lei liquida con accademica sicumera.

Paolo Moiola




Lettere: cari missionari

Era…

extra-comunitario!

Cari missionari,

ho 16 anni. Scrivo a voi perché non so a chi altro manifestare il mio sconforto e la
mia rabbia. Missioni Consolata è un mensile che si occupa di popoli stranieri, delle loro
situazioni complicate e spesso drammatiche.

Vi parlo del mio disagio nei confronti degli extra-comunitari in Italia, sperando che
pubblichiate il mio e-mail.

Stasera mi è capitata una vicenda, forse banale, ma che mi ha veramente sconvolta. Ero
uscita con gli amici e, al ritorno, i genitori sono venuti a prendermi. Camminavamo per
raggiungere la macchina: dovevamo attraversare una strada abbastanza trafficata e nessuno
ci lasciava passare. Mio padre ha fatto cenno a un’auto di fermarsi, ma questa ha
tirato dritto; allora si è "buttato" in strada. La macchina ha frenato
bruscamente: l’autista (un extra-comunitario) è sceso, ha cominciato ad insultarci e
stava per fare a botte. Io tremavo di paura. Ma avrei voluto dire: "Lo sa anche la
mia sorellina che ci si deve fermare e lasciar passare i pedoni!".

Come possiamo fidarci degli extra-comunitari? La scena ricordata è solo una delle
tante dimostrazioni della loro stupidità. Con ciò non voglio dire che noi italiani siamo
perfetti, anzi! Ma loro sono un pericolo in più.

Anna Turatello

Selvazzano (PD)

Tutti possiamo essere un pericolo in più, ma anche una ricchezza! Intanto non
lasciamoci plagiare da "luoghi comuni discriminatori"… Anna, data la tua
giovane età, forse ti può aiutare la seguente riflessione di Adriana, che titoliamo…

 

Ritrovare

i sentimenti

Quando ci viene chiesto di raccontare un’esperienza, ci si limita spesso a fatti
di cronaca. Per me "esperienza" è ciò che rimane come patrimonio nel cuore,
ciò che modifica il mio modo di pensare e vivere.

L’"esperienza-risurrezione" ha cambiato la vita degli apostoli. Come
loro, sulle vie del mondo, operano i "missionari": persone che devono essere
povere e libere per stare con la gente e condividee il cammino.

"Fuori sulla strada Gesù è esposto, malconcio, malato…", ed è
l’amore che risolverà ogni dubbio: il dubbio soprattutto che "tutto è
inutile". Proprio perché mi manca l’esperienza del Risorto, "tutto è
inutile". Ma con Lui, la mia vita cambia, come quella dei fratelli poveri,
emarginati, sfortunati.

Devo dare quel poco che ho a chi ha meno di me. Il non avere ciò che è essenziale per
la vita è una sofferenza non per chi lo possiede, quanto invece per chi vuole amare… e
nulla può donare!

Quando penso che ho l’indispensabile, non posso nascondere il mio disagio; esso
diventa più grande allorché mi rendo conto che, purtroppo, poche volte ci penso a
questo. Ma il povero, l’umile, il semplice lo si trova sempre… ed è lui a far
rifiorire in me sentimenti annebbiati: accettazione, rispetto, condivisione, tenerezza.
Quando sento di possederli, ringrazio il Padre Nostro… E lo può chiamare così chi non
mi fa odiare i nemici, ma mi sprona ad amare tutti gli esseri creati e mi fa desiderare la
giustizia e carità.

Vorrei che fossero sempre questi i sentimenti a determinare le mie azioni.

sr. Adriana Prevedello

Mazara del Vallo (TP)

Adriana, missionaria francescana di santa Elisabetta in Kenya e poi in Sicilia tra
mafia, prostituzione e immigrati clandestini, è ripartita per il paese africano.

 

Lacrime

e quisquiglie

Spettabile redazione,

avevo visto a suo tempo la foto della donna sulla copertina di Missioni Consolata,
gennaio 2001, e già allora volevo scrivervi che la didascalia non era giusta.
Naturalmente avevo indovinato che la foto era stata fatta al funerale di padre Andeni.

Non conosco personalmente la donna della foto, ma penso che sia farle torto definirla
"musulmana", semplicemente perché ha il velo in testa. Ritengo che sia una
delle nostre cristiane, con molta probabilità una kikuyu, non una samburu o una turkana.
In Kenya la maggioranza delle donne nelle nostre missioni usa il velo e, a Maralal, i veli
più belli nei negozi sono di foggia musulmana, anche perché diversi negozianti sono
musulmani.

Tenendo conto che la donna sta piangendo, è naturale che cerchi di nascondere la
faccia. Però non facciamo dire alla foto quello che non dice, cioè partecipazione
musulmana al dolore cattolico…

Non sono d’accordo con la lettera che vi hanno scritto, specie con
l’offensiva parte finale.

p. Gigi Anataloni

Nairobi (Kenya)

Caro direttore,

ha suscitato in me molta indignazione la lettera "Lacrime di una musulmana",
apparsa su Missioni Consolata di maggio, non per il titolo, ma per il contenuto. Da quanto
ho potuto leggere, trovo la lettera grossolana e poco rispettosa sia del vostro lavoro sia
del personale che opera in redazione.

Il discordare da un articolo o una foto è legittimo, ma non dà diritto ad illazioni o
supposizioni sul direttore della rivista, anche perché le sue scelte sono dettate da
sensibilità professionale… che non tutti i lettori posseggono.

Gli autori della lettera hanno tentato di "classificare e bocciare" una
persona solo perché è "musulmana". Questo è razzismo o, meglio,
fondamentalismo religioso, che pian piano sta penetrando anche nei nostri ambienti
cattolici.

Invito gli autori della lettera a rispettare le persone, anche se non sono
d’accordo con il loro pensiero, perché, solo rispettando l’altro, si è degni
di rispetto.

p. Gianfranco Graziola

Roraima (Brasile)

Ecco i precedenti della piccola polemica.

In Missioni Consolata di gennaio 2001 pubblica in copertina una donna che piange, con
la didascalia "lacrime samburu (Kenya)". Nient’altro.

n La rivista di maggio ospita una lettera dal Kenya, secondo la quale la donna in
questione non è samburu, ma musulmana. Sorge spontanea la domanda: i samburu non possono
essere musulmani?

n Oggi, ancora dal Kenya, si replica: la donna non è musulmana, ma probabilmente
kikuyu.

E i kikuyu non possono essere musulmani?

Chiudiamo la querelle con dati certi: la foto fu scattata il 18 settembre 1998 a
Maralal (Kenya) durante i funerali di padre Luigi Andeni, quattro giorni dopo la sua
uccisione; l’immagine mostra una donna con il velo che piange, senza nascondersi.

Quelle lacrime ci hanno impressionato. Non il resto.

 

La forza del perdono

Cari missionari,

ho 17 anni. Sentendo il telegiornale o ascoltando le notizie di cronaca, vengo a
conoscenza di eventi che sconvolgono il mio mondo ristretto. L’interrogativo più
frequente che mi pongo è se le azioni-reazioni dell’uomo siano serene o furiose, non
pensate o dettate dalla ragione…

Si potrebbe tracciare un percorso storico circa fatti ed eventi, generati da quel senso
di vendetta che acceca, senza lasciare uno spiraglio di luce e razionalità. È il buio
dovuto alla mancanza di raziocinio a renderci simili agli animali.

A partire da Abele e Caino fino ai nostri giorni, passando attraverso gli scontri di
religione, le guerre mondiali e locali, la pace è sempre stata un tormento. A livello
personale, i casi peggiori sono quelli in cui il sopruso diventa stile di vita, il modo di
prevaricare la giustizia per difendersi dal mondo esterno e celare le proprie debolezze. E
si diventa vendicativi.

A volte, quando la parola "punizione" diviene sinonimo di istituzione
pubblica e politica, neanche le maggiori organizzazioni umanitarie sono in grado di
fermare lo scempio. L’esempio più lampante è, oggi, rappresentato dalla pena di
morte. Questa sanzione, così primitiva, è praticata in molti stati, e non solo dai più
sottosviluppati. Non esiste ragione, difesa, possibilità di riscatto per un errore
compiuto, ma solo la vendetta.

Faccio un ragionamento: se lo stato stesso pratica la pena di morte, pratica pure la
vendetta; perché che cos’è la pena di morte se non una vendetta? In tal caso, molti
omicidi sarebbero giustificabili.

Nel corso dei secoli anche la religione è divenuta causa di conflitti scoppiati tra
fazioni opposte, che, gridando il nome del proprio Dio, si uccidevano a vicenda. Ma,
certo, nessun Dio ha mai voluto né vorrà che i suoi fedeli ne uccidano altri per
dimostrare la superiorità di un credo.

I kamikaze che si fanno esplodere con carichi di tritolo, dopo aver indossato il
sudario bianco, dovrebbero farci riflettere sulle parole che un profeta ha lasciato in
eredità… ma anche non bombardare la nazione di coloro che credono di meritare il
paradiso, morendo per la propria fede.

Potrebbe rivelarsi un ottimo spunto di riflessione l’"essere o non
essere" di Amleto. Con altre parole: ha più valore una vita in cui non mi lascio
prevaricare dai soprusi altrui, o sono più forte nel momento in cui riesco a reprimere le
passioni i sentimenti violenti che mi turbano l’animo?

Federica Medda

Roma

Cara Federica, le tue considerazioni ci fanno venire in mente le parole di Giovanni, il
battezzatore e precursore della Salvezza: "Dopo di me verrà uno più grande, al
quale io non sono degno neppure di portargli i sandali (cfr. Mt 3, 11). È essenziale
credere in un "dopo" diverso dal presente, che però incomincia ora.

Inoltre, Federica, ti auguriamo di non scordare queste tue parole: "Il perdono non
è una debolezza di molti, ma una forza di pochi". Specialmente quando non avrai più
17 anni.

 

"Noi"

e le altre religioni

Egregio direttore,

sono un cristiano-cattolico e seguo fin dalla nascita la religione che nostro Signore
Gesù Cristo ha rivelato a tutto il mondo.

Ci sono però altre religioni, quali l’islam, l’induismo, lo scintornismo…
con il loro Dio e un programma di vita etico-religioso. Chiedo: quale religione vera ed
autentica dobbiamo seguire per ottenere la vita eterna? Dobbiamo accettare solo la
religione cristiano-cattolica, la legge di Mosè, la fede di Abramo, Isacco e Giacobbe che
credono in un solo Dio?

Giuseppe Monno

Bari

Anche a Gesù fu chiesto: "Che devo fare per avere la vita eterna?". E il
Maestro rispose confermando la legge di Mosè e attualizzandola con la parabola del
"buon samaritano" (cfr. Lc 10, 25-37).

Circa la salvezza nelle religioni non cristiane, il Concilio ecumenico Vaticano II è
esplicito: "Quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa e,
tuttavia, cercano sinceramente Dio e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere
le opere e la volontà di Lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono
conseguire la salvezza eterna" (Lumen gentium, 16).

Su tale argomento si rilegga il dossier "L’alta teologia e il buon
senso" (Missioni Consolata, gennaio 2001).

 

Super-impegnati, ma…

Cari missionari,

da anni riceviamo Missioni Consolata, indirizzata ai figli Giorgio ed Elena: erano
ragazzini quando l’abbiamo ricevuta per la prima volta. Ora sono adulti e
super-impegnati. Io, che ho sempre letto la rivista con grande interesse, oggi per
problemi agli occhi mi devo limitare solo ai titoli. Ne sono dispiaciuta. Oltretutto, non
sono riuscita a trovare qualcuno che voglia leggerla.

Pertanto vi chiedo di sospendere l’invio del giornale. Ma non dimenticheremo i
missionari della Consolata, anche perché abbiamo un ricordo vivissimo di padre Domenico
Zordan.

Vi ringrazio perché, leggendo la vostra rivista, in questi anni mi sono
"arricchita" molto.

Giuseppina Kral

Zugliano (VI)

Carissima signora Giuseppina, faccia ancora un tentativo! Se i figli Giorgio ed Elena
sono veramente impegnati, non possono non seguire l’esempio della mamma e… leggere
anche Missioni Consolata.

 

"Yanomami"

e "macuxí"

Carissimi padres italianos Giorgio Dal Ben, Giacomo Mena e amigos indios yanomami e
macuxí, dalle rive del Sinni di Potenza a quelle del Rio Blanco di Boa Vista (Brasile) si
ode un solo grido: "Tenete duro!".

Franco Mele

Francavilla (PZ)

In altri termini: a luta continúa. Con speranza. Ne abbiamo parlato pure nel dossier
di luglio "Anche gli angeli perdono le ali".

 

I figli missionari?

Che gioia sarebbe!

Carissimi missionari,

siamo una famiglia con due bambini di nove e due anni e uno di quattro mesi. Il Signore
ci ha donato queste creature che, pur nella fatica del quotidiano, rappresentano la nostra
gioia.

Da tempo condividiamo le nostre povere cose con chi è più sfortunato di noi, con
coloro che hanno avuto solo la "colpa" di nascere con un colore diverso dal
nostro o in paesi piagati da guerre, fame e miseria.

Abbiamo anche sostenuto un’iniziativa di "adozione a distanza" con
un’organizzazione umanitaria, portata avanti fino a quando le nostre condizioni
economiche ce l’hanno consentito. L’interruzione, necessaria quanto dolorosa, di
questo tipo di aiuto non ha però spento in noi il desiderio di riprendere al più presto
il sostegno nei confronti di bambini in difficoltà.

Ed ecco il motivo della nostra lettera: ci rivolgiamo a voi, missionari, per avere
indicazioni e ragguagli al fine di iniziare nuovamente un sostegno a distanza,
possibilmente in un paese dell’Africa. Riteniamo che non esista modo migliore di
impiegare le proprie risorse economiche, in tempi in cui molti (troppi) ricercano sistemi
più o meno leciti per arricchirsi in una forma sempre maggiore.

A costoro vorrei umilmente ricordare che solo Gesù Cristo ha promesso interessi
esorbitanti: addirittura il centuplo! Sfido qualunque banca a promettere di più.

Una cosa ci farebbe particolarmente piacere, se rientra nelle normative che regolano le
adozioni a distanza: intrattenere con il bambino o la bambina adottati un rapporto
epistolare. Tale rapporto con i bimbi di un altro paese contribuirà a creare in famiglia,
soprattutto nei nostri figli, un’atmosfera di aspettazione e gioia, nonché la
consapevolezza che in un posto lontano c’è "un altro fratellino", che ha
bisogno delle medesime cose di cui hanno bisogno loro, con le loro stesse aspirazioni e
desideri.

E chissà! Forse un giorno i nostri figli potrebbero "farsi prossimo" in modo
ancora più concreto, non solo con aiuti economici, ma donando interamente se stessi ai
poveri e agli afflitti partendo come missionari.

Che gioia sarebbe!

Ultima richiesta: visto che non siamo ancora abbonati a Missioni Consolata
(l’abbiamo conosciuta in parrocchia), vi preghiamo di inviarci tutto il materiale per
riceverla regolarmente.

Mario Manescotto

Revello (CN)

Di tanto in tanto, attraverso la rubrica "provocazioni missionarie" della
rivista, lanciamo qualche invito esplicito alla missione. Ma il signor Mario ci ha
nettamente superati.

AAVV




BAMBINI SCHIAVI: infanzia negata e segni di cambiamento. L’ARCOBALENO SPEZZATO

La nave
africana, carica di piccoli destinati alle piantagioni spinge ad alcune
riflessioni: non solo sul lavoro minorile, ma anche su cammini
possibili,per opporsi a questa situazione. Insieme a Claudia, Daniela,
Arturo, Feliciano… per gridare insieme: «Un altro mondo è possibile!».

La vicenda
dell’«Etireno» (la nave carica di piccoli schiavi apparsa e scomparsa
tempo fa sulle coste africane) ha riportato alla ribalta della cronaca la
drammatica situazione dell’infanzia «negata» nel mondo.

I mass
media – è vero – ci bombardano di statistiche, dati e analisi, ma non si
sente la voce dei protagonisti, dei 250 milioni di baby lavoratori.

Si pensa
ad una merce «particolare»: ragazzini imbarcati per essere venduti come
manodopera. Chi conosce il Sud del mondo sa che è cosa normale per ragazzi
e ragazze dai 12-13 anni lavorare: impiegati nella cosiddetta «economia
informale». Per le ragazze, questo significa di solito fare le domestiche
o le venditrici; per i ragazzi finire a lavorare nelle piantagioni di
cacao, caffè o altre produzioni da export dell’Africa occidentale, non
certo a paga sindacale.

I
rappresentanti dei ragazzi lavoratori africani provenienti da Benin, Costa
d’Avorio, Mali, Senegal e Togo si sono incontrati a Bamako (Mali) nel
novembre 2000, con il sostegno di Enda (la maggiore organizzazione non
governativa dell’Africa francofona) e hanno sottolineato il contesto in
cui può avvenire il traffico di giovanissimi, fuori dalle mitologie sui
«bambini schiavi»: un contesto regionale di migrazioni transfrontaliere di
ogni tipo, in particolare per attività di commercio, spesso assimilabili
alla frode, al contrabbando e altri traffici.

La
povertà, l’insufficienza alimentare, la mancanza di soldi o il costo
troppo elevato per mettere a scuola un bambino (quando la scuola esiste),
un certo sentimento di miseria e abbandono… spingono alla fuga in città.

Compagni
di questi ragazzi lavoratori africani sono i movimenti Nats («Niños
adolescentes trabajadores»), organizzazioni interamente autogestite da
bambini e adolescenti lavoratori, nate nel Perù degli anni ’70 e diffuse,
poi, a tutta l’America Latina ispanofona (ultimamente anche all’India).

Proprio
rivolgendosi ad Alejandro Toledo (dallo scorso 3 giugno presidente del
Perú, figlio di una povera famiglia e per questo a 10 anni già lavorava
come lustrascarpe), i rappresentanti del «Movimento nazionale dei bambini
e ragazzi lavoratori» organizzati del Perù (rappresentanti di ben 12 mila
ragazzi/e), gli hanno rivolto una «lettera aperta»: in essa difendono il
proprio diritto a lavorare in condizioni degne, a poter usufruire di
un’adeguata istruzione ed assistenza sanitaria.

Sul tema
della povertà, i ragazzi chiedono un nuovo piano di azione a livello
nazionale che tuteli gli interessi dell’infanzia e unisca alla lotta
contro la miseria quella per l’eliminazione di ogni forma di sfruttamento
del lavoro minorile. Particolare attenzione viene, inoltre, richiesta alle
esigenze dei bambini delle aree rurali e comunità indigene.

La
«lettera aperta» è stata diffusa da Fabio Cattaneo, presidente
dell’Associazione Italia-Nats (che raccoglie 14 associazioni,
Organizzazioni non governative e Botteghe del commercio equo italiane,
collegate in rete per far sentire la  voce dei bambini di tutto il mondo)
ad un convegno dal titolo: «L’arcobaleno spezzato: dall’infanzia negata
nasce il cambiamento».

In quell’occasione
Maria Teresa Tagliaventi (esperta di lavoro minorile e componente
dell’Associazione Nats) ha sottolineato che «i movimenti Nats hanno la
peculiarità di lottare contro ogni forma di sfruttamento economico dei
minori, pur essendo contrari ad una abolizione del lavoro infantile che
sia globale e aprioristica. I Nats adottano, infatti, l’approccio della
cosiddetta valorizzazione critica, secondo cui il lavoro, quando è svolto
mediante opportune modalità, può essere un mezzo di sviluppo e crescita
del soggetto, anche se si tratta di un bambino.

L’azione
di questi movimenti è incentrata sul miglioramento delle condizioni di
lavoro e l’eliminazione di tutte le  altre forme di sfruttamento economico
del bambino.

È questo
un approccio non convenzionale, che purtroppo, deve fare i conti con
l’ostracismo l’avversione di tutte le principali istituzioni
transnazionali, ministeriali e sindacali.

I Nats
dimostrano con la loro esperienza che il lavoro non serve solo per
sopravvivere materialmente, ma ha anche una valenza sociale nel favorire
lo sviluppo integrale della persona, nello stimolare i rapporti
interpersonali e nel creare identità, cittadinanza e protagonismo; può
quindi diventare strumento di cambiamento delle stesse realtà di
ingiustizia sociale che lo generano.

 

In qualità
di educatore e cittadino solidale, che ha condiviso il cammino con
ragazzi/e a «rischio d’esclusione» a Palermo (i picciriddi scannazzati),
con meninos de rua in Brasile, con ragazzi/e lustrascarpe in Ecuador,
testimonio l’importanza di riconoscere e valorizzare il loro protagonismo
di autogestione, cittadinanza attiva e mutamento dal basso.

Sono
piccoli costruttori di speranza in un mondo impoverito da un’economia, che
accentra nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone la
ricchezza e che esclude masse sempre più grandi dalla possibilità di una
vita umana e dignitosa.

«In una
società che mette al centro il profitto e l’avere, anche noi bambine/i e
ragazze/i diventiamo oggetti e cose sacrificate all’efficienza e alla
competitività del sistema e soffriamo per la fame; siamo sfruttati nel
lavoro precoce. I nostri corpi sono usati e consumati nella prostituzione,
per soddisfare gli adulti. Siamo coinvolti nel traffico e nel consumo di
droga e nelle guerre degli adulti; reclutati come bambini soldato per far
esplodere campi minati; decimati dagli squadroni della morte, siamo
vittime di violenze  persino nel seno delle nostre famiglie» (tratto dalla
«Lettera dei ragazzi/e del mondo», provenienti da Brasile, Ecuador,
Guatemala, Perú, Cameroun, rivolta all’Onu dei popoli radunati ad Assisi
nell’ottobre 1997).

Questo
grido di denuncia è stato lanciato anche durante la carovana «Grido della
speranza» di un anno fa, dove per un mese ho accompagnato 30 ex meninos de
rua che hanno percorso le strade d’Italia per offrire uno spettacolo di
arte e cultura brasiliana, capace di esprimere la forza della frateità:
un’alternativa di cambiamento, che nasce dall’universo dell’infanzia
negata.

Dopo 500
anni, le caravelle approdate in America Latina sono ritornate indietro con
un messaggio di pace e giustizia per risvegliare la vecchia Europa. I
ragazzi invitano i coetanei italiani a partecipare al Giubileo al rovescio
«Pachacutik» (in lingua quechua, «inversione di rotta»), svoltosi nel
gennaio scorso a Rio de Janeiro (nella frontiera della Baixada Fluminense,
dove padre Renato Chiera lotta contro gli squadroni della morte per
difendere i meninos de rua).


Organizzato dall’Associazione internazionale «Noi Ragazzi del mondo», vi
hanno preso parte 134 ragazzi/e, lavoratori nel microcosmo della strada,
provenienti da Ecuador, Perù, Brasile, Guatemala e Italia.

Ricordo
l’ultimo giorno dell’anno a Rio de Janeiro. Ci immergiamo in una folla di
2 milioni di brasiliani, che stanno aspettando il 2001 lungo le spiagge
di  Copacabana. Questo formicaio umano sembra resistere alla furia di un
uragano di pioggia e freddo, davvero anomalo a queste latitudini.

Mi
avventuro tra questi «gironi danteschi», protetti da grattacieli: con la
loro maestosità e ricchezza, vorrebbero costruire un altro muro di Berlino
per difendersi dalla miseria e dalla violenza delle favelas.

Sono in
compagnia di Claudia, «passionaria» ecuadoriana di 28 anni (la mia età),
che accoglie 40 bambini di strada nella Sierra andina; Daniela, un’ex baby
prostituta carioca di 16 anni, «affamata» di carezze; Arturo, intelligente
piccolo lavoratore quattordicenne di Lima e militante nei Nats, che ci ha
raccontato come stanno lottando in Perù contro il debito estero; Marcelino,
un ex ragazzo di strada, sopravvissuto agli squadroni della morte e ora
ottimo animatore di «minori a rischio d’esclusione», che imparano a
gestire i conflitti, scoprire la pace in un Guatemala segnato da oltre 30
anni di guerra civile; Anita, adolescente india dell’etnia quechua che, 5
anni fa, spacciava droga e ora, a 16 anni, fa da mamma ai bambini
abbandonati accolti nella casa famiglia «Cristo de la calle»; Jussara,
«pantera nera» di 29 anni e fiera di essere afrodiscendente, che, pur
provenendo da un quartiere povero, si è laureata e sta aiutando la sua
comunità nell’educazione popolare.

Con
Claudia, Daniela, Arturo, Feliciano, Anita e Jussara formiamo una banda di
pazzi, innamorati della vita, malgrado tutto. Ci stringiamo forte le mani,
ci abbracciamo stretti per riscaldarci col calore dei corpi, con l’energia
della nostra anima. Con la forza della nostra nudità di «piccoli della
terra», ci opponiamo ad un uragano ben più violento e oppressore: il
neoliberismo.

Non
brindiamo con champagne, ma condividiamo i sogni che abbiamo espresso a
madre natura, al Signore della vita.

È una
passione che continua ad accendermi come un fuoco d’utopie inarrestabili:
il piccolo Davide continua a lanciare pietruzze contro il gigante Golia; è
la strategia lillipuziana dei piccoli passi, per indignarci di fronte alle
ingiustizie e costruire un’alternativa all’economia che idolatra il
profitto e mercifica perfino i sentimenti e le relazioni umane.

Anche noi
gridiamo: «Un altro mondo è possibile!». L’abbiamo fatto insieme ai 10
mila partecipanti al Forum sociale mondiale di Porto Alegre e lo faremo in
luglio al G8 di Genova. È la speranza del cammino di coscientizzazione,
liberazione e protagonismo dei ragazzi/e lavoratori nel microcosmo della
strada. Una speranza che non muore.

(*)
Cristiano Morsolin è un educatore che ha lavorato con i ragazzi di strada
di Palermo, del Brasile e dell’Ecuador. Fa parte della Comunità
internazionale di Capodarco (AP).

Cristiano Morsolin




Viaggio nella società dell’AIDS. LA NUOVA PESTE (e la vecchia fame)


«Vediamo arrivare nei nostri reparti pazienti africani che
hanno risparmiato soldo su soldo per venire qui a farsi curare. Li
rimettiamo in piedi, pur sapendo che la maggior parte di loro non avrà i
mezzi per continuare la cura, quando toerà a casa»


(Martine Bulard,

“Le Monde
Diplomatique“)


Il
punto della situazione


Correva l’anno 1981

Conosciuta
soltanto dal 1981, la sindrome da immunodeficienza acquisita nota con
l’acronimo inglese «Aids» ha già fatto 22 milioni di morti, per tre quarti
africani. Nei paesi del Sud del mondo l’epidemia si espande senza
controllo. Le azioni di educazione e informazione producono risultati
deludenti. Nel frattempo, i paesi più poveri hanno intrapreso una dura
lotta contro le multinazionali farmaceutiche. Perché oggi i medicinali
contro l’Aids sono acquistabili da un’esigua minoranza.

di Guido Sattin (*)

IL
PEGGIORE DISASTRO
DELL’ERA MODERNA

«Il peggiore
disastro dell’era modea, che Stati Uniti, Europa e Giappone avrebbero
potuto evitare con relativamente poco sforzo, ma che finora hanno
totalmente ignorato. Non abbiamo fatto niente per evitare i 17 milioni di
morti di AIDS in Africa, per impedire che quest’anno ne muoiano altri 3
milioni. In tutto, dal 1996 al ’98, abbiamo dato all’Africa solo 75
milioni di dollari. Niente, appunto».

A fare questa
dichiarazione non è stato un qualche esperto dell’Organizzazione mondiale
della sanità (Oms) o un esponente terzomondista di qualche Organizzazione
non governativa. Il giudizio e l’accusa pesantissimi sono di Jeffrey D.
Sachs, direttore del Center for Inteational Development di Harvard,
consulente di governi ed organismi multinazionali, uno dei più noti
economisti a livello mondiale.

Pochi mesi fa, la
dottoressa peruviana Elisabeth Sanchez, professore dell’Università
Cayetano Heredia di Lima, esperta in malattie infettive, in una lunga
conversazione mi diceva con estrema crudezza: «È chiaro che l’AIDS sta
aumentando in Perù. Cinque anni fa erano 2.000 i pazienti con AIDS
conclamato e ora sono circa 20 mila. Direte che non sono poi tanti, ma
questo numero va moltiplicato per il dato probabilistico di 100 infettati
per ogni malato. Questa è una proporzione che è accettata in molti paesi
come il nostro. In Perù con l’AIDS succederà quello che sta succedendo in
Africa; se in questo momento in certe zone dell’Africa si arriva al 40% di
sieropositivi nella popolazione, gran parte di questi nel giro di 5/10
anni saranno morti ed il continente si spopolerà. Nel Perù sarà uguale».

E l’economista Sachs,
con altrettanta crudezza, continua: «Eppure, al di là degli effetti
devastanti che l’epidemia di AIDS e le altre malattie stanno avendo
sull’Africa, anche nel mondo occidentale vi saranno contraccolpi molto
negativi che in parte già si avvertono. La malattia non conosce confini ed
infatti nuovi ceppi dell’AIDS, che erano esclusivi dell’Africa, si stanno
già diffondendo in Occidente. Il peggiorare della situazione nel
continente nero porterà a maggiore instabilità politica, governi ancor
meno capaci di controllare le situazioni locali, guerre, migrazioni di
massa, crescita della povertà ovunque. Più aspettiamo a intervenire e più,
quando saremo costretti a farlo, sarà costoso e complicato rimediare ai
danni».

È interessante e,
allo stesso tempo, preoccupante che un professore di economia affronti
queste tematiche. Probabilmente l’AIDS ha già smesso di essere solo un
problema sanitario per trasformarsi in un problema economico e politico.

UN
PROBLEMA SANITARIO

L’AIDS (Acquired
Immuno-Deficiency Syndrome = sindrome da immunodeficienza acquisita) è una
malattia abbastanza recente e, tuttavia, essa si è diffusa rapidamente in
pressoché tutte le nazioni, assumendo le caratteristiche di una vera e
propria pandemia.

I primi casi sono
stati descritti negli USA, alla fine del 1981, tra omosessuali maschi,
colpiti da infezioni opportuniste o da tumori particolari quali, ad
esempio, il sarcoma di Kaposi, e affetti da una forma di immunodeficienza
da causa allora non conosciuta. Studi retrospettivi su sieri congelati
hanno mostrato la presenza di anticorpi contro il virus HIV (Human
Immunodeficiency Virus = virus dell’immunodeficienza umana),
successivamente riconosciuto responsabile della malattia, in un soggetto
morto in Africa nel 1959.

Da dove è venuta
questa malattia? Sono state formulate numerose ipotesi; la più accreditata
indicherebbe come progenitore dell’HIV un virus, l’STLVIII (Simian T Cell
Leukemia Virus III), che nella scimmia provoca una sindrome riconducibile
all’AIDS dell’uomo. L’infezione, dunque, avrebbe colpito le zone rurali
dell’Africa dove sarebbe rimasta confinata per lunghi anni e,
successivamente, si sarebbe diffusa alle aree urbane del Centro Africa. Di
là, attraverso i rapporti commerciali con altri stati, l’infezione avrebbe
raggiunto Haiti e l’America Centrale, si sarebbe diffusa negli USA, in
Europa e in tutto il mondo.

Per ciò che concee
le modalità di diffusione e presentazione dell’epidemia da HIV, sono
descritti tre differenti quadri (pattes) epidemiologici.

Il I patte
comprende gli USA, il Canada, l’Europa dell’Ovest, l’Australasia, il Nord
Africa e parti del Sud America; qui l’epidemia si è diffusa soprattutto
tra omosessuali, bisessuali e tossicodipendenti. Coloro che hanno
contratto l’infezione per via eterosessuale, costituiscono una piccola
percentuale.

Nel II patte,
comprendente il resto dell’Africa e del Sud America, la maggioranza dei
soggetti ha acquisito l’infezione per via eterosessuale, con un rapporto
uomo-donna di circa uno ad uno.

Il III patte (Asia-Pacifico,
Europa dell’Est e Medio Oriente), dove il virus HIV è stato introdotto
probabilmente più tardi rispetto ai paesi appartenenti agli altri pattes,
si caratterizza per un numero modesto di casi notificati di AIDS. In
questi ultimi anni, tuttavia, si è riscontrato un forte incremento dei
casi di infezione da HIV, al punto che l’epidemia dell’Asia può far
scomparire tutte le altre sia come impatto che come portata.


UN PROBLEMA POLITICO
ED ECONOMICO

La pandemia sta
distruggendo intere popolazioni del Sud del mondo. Il perché lo capiamo
dalle parole della dott.ssa Sanchez.

«In Perù, se vuoi
entrare nel programma statale di lotta all’AIDS, devi prima dimostrare di
essere sieropositivo e per questo devi fare la prova sierologica Elisa. A
pagamento: ti costerà circa 20 soles (12 mila lire, ndr). Una volta
dimostrata la sieropositività, entri nel programma. E cosa ti offre il
programma? Ti dà consigli, ti obbliga ad eseguire la prova (sempre a
pagamento) per tua moglie, per le persone con le quali hai avuto rapporti
sessuali. Solo consigli e niente farmaci. I farmaci il sieropositivo o
l’ammalato deve comprarli. Quanti sono gli infettati che potranno curarsi?
Immàginati che devi investire in farmaci circa 500 dollari al mese (più di
quello che guadagna un medico statale in Perù). Onestamente non credo che
qualcuno possa farlo, se non fa parte della ristretta, minoritaria e
potente borghesia. Il governo non può farsi carico di tale spesa, le
Organizzazioni inteazionali di aiuto neanche e i pazienti… stanno
morendo».

Semplicemente e con
poche parole, la dott.ssa Sanchez ci ha spiegato il perché in Africa,
Asia, America Latina l’AIDS è simile e forse peggiore all’epidemia di
peste vissuta in Europa nel corso del 1300.

L’impossibilità di
curare i pazienti e di trattare gli infettati fa sì che l’epidemia si
diffonda senza nemmeno conoscee le reali dimensioni, se non nel momento
in cui il paziente muore o si ammala (ad esempio di tubercolosi). Quindi
l’epidemia si estende senza controllo e i programmi di educazione e
prevenzione hanno scarso impatto su una popolazione molto giovane per
l’alto indice di natalità.

Quanto detto sopra è
chiarito dai dati della pandemia che, nei paesi ricchi, ha coinvolto
fondamentalmente persone con «comportamenti a rischio», sui quali però con
un’importante azione di educazione/informazione oggi si riesce ad
influire. Nei paesi poveri la percentuale di donne infettate (che
raggiunge il 55% di tutti i casi nell’Africa Sub-sahariana) e i quasi
1.500.000 bambini infettati dimostrano che la malattia interessa la vita
quotidiana della gente, e non più i comportamenti a rischio.

Anche il semplice
preservativo, unica ed efficace barriera all’infezione, può essere un
lusso, senza parlare degli alti livelli di prostituzione, fenomeno
tristemente «normale» in una popolazione povera e con indici di
disoccupazione inimmaginabili da noi.

CHE
FARE DAVANTI A
UN’EMERGENZA MONDIALE?

Cosa ha detto il
segretario generale delle Nazioni Unite a New York il 20 febbraio del
2001?

«Nei suoi due
decenni di esistenza – spiega il documento firmato da Kofi Annan -,
l’epidemia dell’AIDS ha continuato a propagarsi senza fine in tutti i
continenti e, anche se è più grave in alcuni paesi piuttosto che in altri,
nessun paese è fuori rischio. In questi due decenni essa si è convertita
in una vera emergenza mondiale».

«Nella dichiarazione
del Millennio, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite
(settembre 2000), si afferma chiaramente che il mondo ha finalmente
riconosciuto la reale grandezza della crisi. Nel documento i leaders si
impegnano a invertire la tendenza della propagazione del virus
dell’immunodeficienza umana per l’anno 2015; a dare aiuti speciali ai
bambini rimasti orfani a causa della malattia; ad aiutare l’Africa ad
acquisire la capacità per affrontare il problema della propagazione della
pandemia e di altre malattie infettive».

Più avanti Kofi
Annan afferma: «Si sono ottenuti buoni risultati nel tentativo di far
fronte all’epidemia in molte parti del mondo. La discesa dei tassi di
infezione con HIV in molte comunità e, in alcuni casi, in molti paesi,
specialmente fra i giovani, ha dimostrato che le strategie di prevenzione
servono. La discesa dei tassi di mortalità per AIDS nei paesi
industrializzati e in alcuni paesi in via di sviluppo ha dimostrato anche
che la prevenzione e il trattamento dell’AIDS sono efficaci».

Quindi il segretario
generale delle Nazione Unite può concludere: «L’HIV/AIDS costituisce
l’ostacolo più formidabile per lo sviluppo nei nostri tempi».

Il lungo documento,
dopo l’introduzione, inizia con un’analisi simile a quella dell’economista
Sachs: «L’AIDS si è convertito in una grave crisi di sviluppo. Uccide
milioni di adulti nel fiore della loro vita, distrugge ed impoverisce
famiglie, debilita la forza lavoro, lascia orfani milioni di bambini e
minaccia il tessuto economico e sociale delle comunità e la stabilità
politica delle nazioni».

«Gli effetti
negativi del virus dell’immunodeficienza e l’AIDS si fanno sentire in
tutto il mondo, ma soprattutto in Africa, Caraibi, Asia meridionale e
sudorientale. Il morbo si propaga con rapidità e si ripercuote sulla forza
lavoro, la produttività, le esportazioni, gli investimenti; in una parola,
su tutta l’economia nazionale. Se l’epidemia continuasse al ritmo attuale,
le nazioni più colpite perderanno nei prossimi 20 anni fino il 25% della
crescita economica prevista».

SFIDA
ALLA SICUREZZA

La mia vicina di
casa, a Villa el Salvador (Perù), mi raccontava di una ragazza del
quartiere morta per AIDS e dei suoi figli orfani.

La dott.ssa Sanchez
ribadiva che non voleva aiuti per fare le prove sierologiche in assenza
dei farmaci e che in queste condizioni l’unico aiuto possibile doveva
essere concentrato sull’informazione/educazione.

Nella mia città,
Venezia, le vestigia storiche della peste sono innumerevoli, come pure le
testimonianze dell’impari lotta per bloccarla. La società di allora si era
munita di una legislazione, di strumenti e metodi per lottare e vincere la
peste, e anche grazie a questa lungimiranza fu una società opulenta.

La nostra società
invece, nonostante la mole di dati disponibile, non riesce a comprendere
che i problemi dell’Africa Sub-sahariana o del Perù sono problemi pure
nostri, e questo indipendentemente dal fenomeno migratorio.

In un passo del suo
discorso, il segretario generale delle Nazioni Unite ha affermato: «Nelle
regioni più colpite, l’AIDS sta invertendo la tendenza di decenni di
sviluppo. Cambia la composizione delle famiglie e la forma di
funzionamento delle comunità, colpisce la sicurezza alimentare e
destabilizza i tradizionali sistemi di appoggio. Distrugge il capitale
sociale, al punto da far sparire la base delle conoscenze della società e
debilitare i settori di produzione. Inibendo lo sviluppo dei settori
pubblici e privati e grazie alle ripercussioni sull’intera società,
debilita le istituzioni nazionali. Ostacolando nel tempo la crescita
dell’economia, colpisce gli investimenti, il commercio e la sicurezza
nazionale, facendo sì che la povertà sia ancora più generalizzata ed
estrema. In poche parole, l’AIDS si è convertito in una sfida alla
sicurezza dell’umanità».

La sfida all’AIDS
deve essere una lotta alla povertà, vera peste del secolo che si è appena
aperto.


DISEGUAGLIANZA
SOCIALE

Oggi è l’AIDS,
domani sarà Ebola, dopo domani la «mucca pazza» e così via. Allora anch’io
sono d’accordo con Kofi Annan, Sachs e la dott.ssa Sanchez: il problema
non è solo sanitario, ma anche economico e politico.

Dobbiamo impegnarci
a eliminare le fondamenta sulle quali le malattie si sviluppano: la
diseguaglianza sociale.

(*) Guido Sattin,
medico-igienista di Venezia, cura per la nostra rivista la rubrica medica
«Come sta Fatou?».

Le
parole dell’Aids


GLOSSARIO ESSENZIALE


Aids
:
«Sindrome da immunodeficienza acquisita» (Acquired immunodeficiency
syndrome), una grave malattia causata dal virus HIV, che distrugge le
difese immunitarie dell’organismo, soggetto di conseguenza a gravi
infezioni «opportunistiche» e a talune forme di cancro.

Anticorpi:
sostanze secrete dai linfociti B in risposta all’aggressione
sull’organismo di sostanze conosciute come antigeni. Ogni anticorpo è
specifico per un particolare antigene. Nel caso del virus HIV, non tutti
gli anticorpi prodotti sono neutralizzanti. Nonostante la loro presenza,
il virus conserva la sua potenza distruttiva.

DNA:
acido desossiribonucleico, una molecola di grandi dimensioni che conserva
le informazioni genetiche e costituisce il fondamento dell’ereditarietà.

Elisa:
abbreviazione di «Enzyme Linked Immuno-Sorbent Assay» (saggio di
assorbimento legato a enzima o metodo immuno-enzimatico). Si tratta
dell’esame sierologico (del sangue) più usato per stabilire se il corpo
abbia reagito alla presenza del virus HIV.

Epidemia:
l’insorgere di una malattia, temporaneamente ad elevato rischio di
diffusione. L’insorgenza e l’estinzione di un’epidemia dipendono da
fattori quali la gravità della malattia, le modalità di trasmissione
dell’agente infettivo, le condizioni ambientali, la durata
dell’incubazione e l’esistenza di portatori sani (asintomatici). È
indispensabile elaborare le strategie per combattere un’epidemia sulla
base di questi fattori. L’infezione da HIV può essere trasmessa, ma non è
a elevato rischio di contagio. Il periodo di incubazione è lungo.

Epidemiologia:
studio delle cause di insorgenza, scomparsa o diffusione delle malattie.

Eziologia:
studio delle cause delle malattie.

HIV:
il virus dell’immunodeficienza umana, che causa l’Aids. Di questo virus
esistono due tipi principali: HIV-1, responsabile della pandemia mondiale
dell’Aids, e HIV-2, anch’esso causa dell’Aids e diffuso principalmente in
Africa occidentale.

Immunosoppressione:
riduzione dei meccanismi di difesa immunitaria dell’organismo.

Incubazione:
intervallo tra il momento in cui il corpo viene in contatto con il
microrganismo e il momento della comparsa dei primi sintomi della
malattia. Nel caso dell’Aids, il periodo di incubazione è molto variabile;
può durare da alcune settimane a mesi o persino ad alcuni anni.


Infezione opportunistica: infezione
indotta da un microrganismo di solito ben tollerato dall’organismo, che
può diventare patogeno quando le difese del corpo son depresse. Le
manifestazioni più gravi di Aids sono causate da infezioni
opportunistiche.

Leucociti:
cellule del sangue responsabili della difesa dell’organismo da agenti
estei.

Preservativo:
protezione in lattice da applicare sul pene in erezione, quando l’uomo è
sessualmente eccitato. Può essere usato come metodo di contraccezione e di
prevenzione di malattie veneree.

Prevenzione:
misure individuali o collettive finalizzate a limitare o a evitare il
rischio di un incidente o malattia, riducendone le conseguenze e curandone
gli effetti. Nell’ambito sanitario, la prevenzione comprende provvedimenti
sociali nonché strettamente medici.

Retrovirus:
virus il cui materiale genetico è composto da RNA, ma che è trasformato
nella cellula in DNA da uno speciale enzima, la transcriptasi inversa. Il
virus HIV è un retrovirus.

RNA:
acido ribonucleico. Trasmette le informazioni genetiche conservate dal DNA
nella cellula. Tutto il materiale genetico del virus dell’immunodeficienza
umana è costituito da molecole di RNA.

Sieropositivo
o HIV-positivo
: soggetto che risulta positivo al test per la
ricerca di anticorpi anti-HIV. Egli è venuto in contatto con il virus HIV
e dovrebbe essere considerato potenzialmente contagioso tramite il suo
sangue e i rapporti sessuali. Quando il test non individua anticorpi, il
soggetto è detto «sieronegativo» o «HIV-negativo».

Sindrome:
un insieme di sintomi e segni che possono costituire il comune
denominatore di certe malattie. La sindrome da immunodeficienza
costituisce la caratteristica essenziale dell’Aids, ma può verificarsi
anche in altre patologie, come nelle malattie congenite o tumorali
(leucemia), o può essere indotta da farmaci (terapia immunosoppressiva nei
pazienti sottoposti a trapianto).

Sistema
immunitario:
tutti i meccanismi che intervengono a difendere
l’organismo contro i cosiddetti antigeni, cioè agenti estei (batteri,
virus, parassiti) o sostanze tossiche. Il sistema immunitario riesce a
distinguere gli aggressori presenti nell’organismo stesso da quelli
estei. Può riconoscere i nemici aggressivi, quelli contro i quali è già
in possesso di difese (naturali o acquisite). Sa organizzare il giusto
attacco agli antigeni. A questo scopo usa: gli anticorpi (o
immunoglobuline) presenti nel flusso circolatorio (risposta «umorale»);
cellule specifiche chiamate linfociti B e T, capaci di riconoscere gli
antigeni, organizzare la risposta e produrre nuovi anticorpi (risposta
cellulare); i macrofagi che intervengono dopo i linfociti e gli anticorpi.
I linfociti T4, che cornordinano le difese immunitarie, sono cellule
strategiche che costituiscono il bersaglio del virus HIV, che le paralizza
e le distrugge.

STD:
sexually transmitted disease (malattia venerea trasmessa), cioè qualsiasi
malattia che può essere contratta attraverso i rapporti sessuali. L’Aids è
essenzialmente una malattia venerea trasmessa.

Virus:
agenti infettivi responsabili di numerose patologie in tutti gli esseri
viventi. Si tratta di particelle piccolissime (visibili soltanto al
microscopio elettronico) che, diversamente dai batteri, possono
sopravvivere e moltiplicarsi solamente all’interno di una cellula vivente
a spese della cellula stessa.

In
sintesi


22 MILIONI DI MORTI

Il 70% degli adulti
e l’80% dei bambini sieropositivi vivono in Africa, così come sono
africani i 3/4 dei quasi 22 milioni di morti dall’inizio della pandemia.

Si stima che
nell’anno 2000, 3,8 milioni di persone si siano infettate nell’Africa a
sud del Sahara e che 2,4 milioni di persone siano morte per AIDS.

Si stima che circa
25,3 milioni di africani siano sieropositivi o ammalati di AIDS conclamato
ed in 16 paesi più di un adulto su dieci (dai 15 ai 49 anni d’età) sia
infettato.

Attualmente l’AIDS
è la principale causa di morte in Africa. Nel mondo ci sono 13,2 milioni
di bambini orfani per AIDS e fra questi 12,1 milioni vivono in Africa.

In alcune zone
dell’Africa Sub-sahariana nel 2000 il numero di nuovi infettati, per la
prima volta, non è stato maggiore dell’anno anteriore; ma si pensa che ciò
sia dovuto al fatto che la lunghezza dell’epidemia ha già coinvolto un
numero tale di adulti sessualmente attivi, che sono sempre meno quelli
ancora non infetti e quindi suscettibili di nuova infezione.

Nei paesi dell’ex
Unione Sovietica si registrano alcune delle tendenze più drammatiche
dell’epidemia. Solo nel 2000 ci sono state nella Federazione Russa più
nuove infezioni che la somma di tutti gli anni anteriori; ciò sarebbe
dovuto ad una complessa combinazione di crisi economica, rapidi
cambiamenti sociali, aumento della povertà e della disoccupazione, aumento
della prostituzione e a cambiamenti nelle abitudini sessuali della
popolazione.

La mortalità a
conseguenza dell’AIDS è discesa considerevolmente nei paesi ricchi nel
decennio del 1990 grazie fondamentalmente all’efficace terapia retrovirale
nei sieropositivi, che allunga la vita degli stessi. È però calato il
lavoro di prevenzione: 30.000 persone si sono infettate in Europa
occidentale e 45.000 nell’America del Nord nell’anno 2000.

Con una prevalenza
del 15% che duri nel corso della vita, moriranno più della metà di coloro
che oggi hanno 15 anni di età. In Botswana, dove c’è una prevalenza del
36%, più del 75% morirà di AIDS. In alcuni paesi questa tendenza sta
cambiando la piramide tradizionale della popolazione, e la nuova avrà la
forma di un camino con una base più stretta di giovani e bambini. Il
cambiamento più drammatico della piramide avrà luogo quando i giovani
adulti, infettati in età precoce, inizieranno a morire di AIDS.


Aids tra scienza e coscienza

Ma
se l’è proprio cercata?

Nel tunnel
chiamato hiv-aids si intravvedono confortanti spiragli di luce, dopo il
buio assoluto. Ma non per le popolazioni del Sud del mondo, anche se dal
Sudafrica giungono buone notizie circa il prezzo (finora proibitivo) dei
farmaci. In ogni caso la battaglia è durissima per tutti. Specie quando si
deve combattere contro ignoranze, pregiudizi, moralismi, cattiverie.

di Giancarlo
Orofino (*)


Alcuni anni fa, durante una festa per scambiarci gli auguri di
natale tra amici, simpatizzanti e volontari dell’associazione Arcobaleno
Aids (finalizzata al supporto psicosociale di sieropositivi), mentre si
brindava, ballava e scherzava, fui assalito da uno sconforto tremendo. Una
nube nera mi offuscò l’anima e quasi la vista. «È mai possibile – mi
dicevo – che, tra un anno o due, molte di queste persone (tutte giovani)
non ci saranno più?».

Quelli erano gli
anni davvero duri dell’Aids, quando le speranze dei nuovi farmaci venivano
quotidianamente infrante dalla scomparsa di coloro che non ce l’avevano
fatta ad arrivare in tempo. Non parlo di secoli fa. Parlo di anni, di
pochi anni.

Oggi quasi tutti i
sieropositivi di allora stanno bene: molti vengono in ambulatorio e
prendono i farmaci; mi parlano dei loro malesseri ma anche dei loro
progetti; mi mostrano le foto dei loro bambini.

Ecco cosa può fare
la medicina, la ricerca, in particolare nel campo delle malattie
infettive. Il «nemico» è noto, è conosciuto nei minimi particolari, è
attaccabile in maniera molto selettiva.

La
svolta di Vancouver

Yokoama, agosto
1994. Sono in Giappone (a mie spese) per sapere, dalla viva voce dei più
importanti scienziati del mondo, se vi sia qualche notizia importante per
la cura dei miei pazienti sieropositivi. Però too con le ossa rotte:
tante cose bollono in pentola, ma per ora non c’è niente e bisogna
aspettare. Il vaccino, poi, è un’utopia. Tante persone non ce la faranno…

Vancouver (Canada),
luglio 1996, prime ore del pomeriggio. L’aula è gremita all’inverosimile.
Non è la sede delle sessioni plenarie (cioè il Palazzo dello sport, da 15
mila posti), ma una sala comunque grande, non però così ampia da contenere
tutti i partecipanti a quel Congresso mondiale. Poiché la notizia si è
diffusa, sono tutti lì.

David Ho parla dei
nuovi potenti farmaci che, in due anni, con procedure assolutamente
rapide, sono già in commercio. L’oratore spiega come si può finalmente
curare e forse guarire l’Aids. Un fremito percorre l’uditorio: medici,
pazienti, giornalisti e operatori vari sono tutti coinvolti. È la svolta.

Dal 1996 poco tempo
è passato. E tutto è cambiato in meglio, anche se la parola «guarigione» è
rientrata nel cassetto. Purtroppo, però, il Sud del mondo si è
progressivamente staccato: qui i farmaci sono mai arrivati. Questo,
attualmente, è il cruccio più grosso che accompagna (dovrebbe
accompagnare) l’operato di chi si occupa di infezione da Hiv-Aids; questa
è la grande sfida da vincere al più presto, con l’impegno di tutti, ad
ogni livello.

Molte cose sono
cambiate vertiginosamente nel giro di pochi anni e molte sono quelle
ancora da fare: sul piano della prevenzione, della discriminazione, del
supporto psicologico e delle cure. Il ritmo accelerato delle scoperte
scientifiche obbliga al continuo aggioamento, alla verifica costante.


Il medico «sa»

Oggi si ammalano di
Aids solo coloro che pervengono alla fase finale della malattia, ignari di
essee portatori, o coloro che non assumono (o non possono assumere) le
terapie.

Però i sieropositivi
continuano lentamente ad aumentare e appaiono anche persone non più
giovani. Occuparsi dei pazienti implica sforzo e dedizione, sia perché
frequentemente alle spalle vi sono situazioni psicosociali pesanti, sia
perché, in assenza di figure istituzionali-psicologiche cui riferirsi, sul
medico vengono «scaricate» angosce e timori.

Il medico è uno dei
pochi che «sa» e pertanto con lui ci si deve sfogare. Per questo, a volte,
si termina l’ambulatorio sfiniti e appesantiti da tanti problemi. La
risposta del medico può essere o di coinvolgimento o di rigida osservanza
tecnico-scientifica o di fuga.

Personalmente mi
sono fatto molto prendere dalla malattia Aids sul piano del volontariato e
dell’impegno sociale; ma cerco anche, ogni giorno, di non farmi assorbire
troppo dai pazienti, per non finire «cotto» prima del tempo. Devo
assolutamente conservare un minimo di distacco che mi permetta di non
«identificarmi troppo», di non ammalarmi con essi.

D’altro canto l’Aids
ha completamente stravolto, in Italia e nel mondo, il classico rapporto
medico-paziente: un po’ per i motivi accennati e un po’ perché i malati
stessi sono stati lo stimolo per la ricerca e l’assistenza. Di più, oggi,
nella transizione da una malattia «a prognosi infausta» (diciamo noi
medici, ossia mortale) ad una malattia cronica, il coinvolgimento del
paziente è fondamentale: in primo luogo per le problematiche legate alle
terapie.

In questi anni
alcuni pazienti hanno compiuto molti passi in avanti
nell’autodeterminazione e consapevolezza; ma altri devono fare ancora
tanta strada. Quante meschinità e bassezze ancora si perpetuano con la
scusa del virus! Invece proprio il virus dovrebbe essere la molla che
spinge a cambiare alcuni aspetti della propria esistenza.

Ho visto cambiare
tante persone rompere il proprio guscio di egoismo, aprirsi agli altri.
Come sempre, «questo incredibile uomo» sa tirare fuori nei momenti
drammatici risorse sepolte ma vive. In Sudafrica, addirittura, alcuni
attivisti hanno intrapreso lo sciopero dei farmaci, in segno di
solidarietà verso i loro concittadini che non hanno i soldi per pagarsi le
cure (cfr. box, pagina 40).

Mentre sto scrivendo
questo articolo, è giunta la notizia che proprio in Sudafrica una grande
battaglia per la vita di tante persone sieropositive è stata vinta: le 39
case farmaceutiche hanno ritirato la causa contro la produzione locale dei
farmaci anti-Aids (con prezzi inferiori), grazie anche all’impegno e alla
forza di piccoli-grandi eroi.

Già, quanti «eroi»
ho conosciuto! Giovani che hanno saputo affrontare con dignità
straordinaria il dolore e la morte, arricchendo in qualche modo il mondo.

Nella introduzione
agli Atti del Convegno Outadali (Venezia, 16-19 ottobre 1997) si legge:
«Per la maggior parte degli altri noi siamo coloro che moriranno; ma
intanto siamo coloro che rivelano e testimoniano la necessità di un
cambiamento; siamo una parte dell’umanità che offre a tutti l’opportunità
di un modo nuovo di vivere, di amare e di morire».

Spesso penso ai
tanti pazienti perduti in questi anni e mi sento come un tenente che,
durante la battaglia, ha perso i suoi uomini di compagnia: Francesca,
Roberto, Gaetano, Filomena, Maria…

Giustamente si
paragona l’Aids ad una guerra, che miete milioni di vittime lontano da
noi. Prima eravamo tutti sulla «stessa barca»: questo secondo «Titanic»
incappato nell’iceberg dell’Aids. Per un momento tutti uguali; poi sono
arrivati i farmaci, le «scialuppe». Ma solo i più fortunati (i più ricchi)
vi hanno trovato posto.


«Ipersesso»
e stranieri

Accennavo alla
prevenzione. Al riguardo gli sforzi ed investimenti sono risultati
efficaci tra i tossicodipendenti e in una certa parte della popolazione.

Ma oggi sarebbe
necessario andare più in profondità: nei luoghi del rischio, nelle strade,
nei quartieri, e non basta. La società deve risolvere una situazione
schizofrenica che è anche frutto di uno sfrenato consumismo: da una parte
la «ipersessualizzazione» (ossia mettere il richiamo sessuale, ovunque e
comunque, per vendere o attirare di più) e, dall’altra, la paura
dell’Aids.

Ma a che gioco
giochiamo?

Luc Montagnier,
grande scienziato, nonché uno degli scopritori del virus dell’Aids, ha
affermato: «La decadenza dei costumi e delle abitudini sessuali è
certamente alla base della diffusione della malattia». Nei colloqui con i
pazienti o con coloro che vengono a fare il test, io cerco sempre di
insistere non solo sulla «protezione», ma anche sulla responsabilità e
maturità dei propri comportamenti. Penso, spero di non essere l’unico.

Esiste poi il grande
problema degli stranieri. Molti hanno paura del test: temono di essere
individuati, schedati, espulsi.

Non hanno ancora
capito che il medico gode (è uno dei veri e pochi privilegi che dobbiamo
tenerci ben stretti!) di piena autonomia ed è legato al segreto
professionale. Alcuni probabilmente hanno retaggi, che si trascinano dai
loro paesi d’origine, dove il sieropositivo è un reietto; altri non si
fidano; forse credono che non esista neanche l’Hiv.

La prevenzione con
gli stranieri e per gli stranieri è un capitolo in larga parte ancora
tutto da scrivere, ma bisogna fare presto. La malattia è curabile, sì, ma
se colta in tempo.

Vi sono poi alcune
situazioni particolari, come la gravidanza, in cui la diagnosi precoce è
ancora più fondamentale. Infatti se la donna sieropositiva viene seguita
dall’inizio della gravidanza, con la possibilità di prendere tutte le
misure medico-sanitarie del caso (terapia della donna, taglio cesareo,
cura del bambino nelle prime quattro settimane di vita), il rischio per il
figlio diventa bassissimo.

Prudenza,
non moralismo

«Dottore, che mi
consiglia? Sul posto di lavoro devo dire che sono sieropositivo?». La
domanda è frequente e la risposta è quasi sempre la stessa: grande
prudenza.

Purtroppo la gente
non è ancora matura per accettare la sieropositività; e pensare che spesso
tra un datore di lavoro o un collega sieronegativi e il dipendente o
compagno, anch’essi sieropositivi, l’unica differenza è stata solo un po’
più di fortuna o prudenza in qualche occasione…

L’ignoranza è ancora
dilagante. Si pensa che sieropositività significhi tossicodipendenza o
contagio anche solo parlando. Il popolino è assetato di notizie-bomba che
diano senso a giornate «vuote» di lavoro. E allora si lancia la sassata:
«Lo sai che Tizio ha l’Aids?».

Pure il moralismo da
quattro soldi è sempre di moda. «Se l’è cercata!» si dice. A parte il
fatto che nessuno cerca il proprio male, che ci conferisce il diritto o
l’autorità di giudicare? Il giudizio può essere o su un piano
legale-giuridico (e in tale caso bisogna avere le competenze specifiche e
studiare ogni singolo caso) o su un piano morale (ipotesi questa che
richiede una correttezza interiore che appartiene solo a Dio o ai suoi
legittimi rappresentanti). Quanti giudizi sono proferiti da persone
moralmente molto più a terra dei giudicati!

E poi, applicando
questo criterio, che dovremmo dire di coloro che hanno un tumore al
polmone avendo fumato per anni 40 sigarette al giorno? Che dire degli
infartati, che non hanno voluto dimagrire né prendere la pillola per la
pressione alta, o di coloro con la cirrosi frutto di anni e anni di abusi
alcolici? Tutti colpevoli e da condannare?…

Un giorno entra in
ambulatorio una signora: viene a ritirare i farmaci anti-Hiv per il
genero, che ha telefonato preannunciando la visita. Poche battute, un po’
di imbarazzo e poi la donna prende coraggio:

– Ma a questo qui,
quanto gli resta da vivere?

– Come ha detto?
Guardi che «questo qui» è un essere umano, ha sposato sua figlia; ed è un
mio paziente. Non si permetta di parlare così!

La signora abbozza
una scusa e se ne va. Pensava di trovare un alleato alla sua cattiveria.
Avrà capito?

In ogni caso ci
vuole prudenza e grande sensibilità da parte di tutti gli operatori
sanitari nella tutela della privacy. L’Hiv continua a non essere una
malattia come le altre. Forse non lo sarà mai.

Insieme ai farmaci,
l’altra grande medicina, che in questi anni ha curato e cura i malati, è
l’amore: ha coinvolto di volta in volta infermieri, medici, psicologi,
operatori a vario titolo, così come partner, familiari, amici, volontari.
Tante donne, in particolare, hanno saputo e sanno stare accanto ai propri
mariti e compagni superando i pregiudizi, le passioni, oltre che i propri
limiti.

Come ha ragione
quella paziente e amica che scrive: «Il cuore è una ricchezza inesauribile
ed è ben più contagiosa dell’Hiv!».

Tra 100 anni l’Aids
non ci sarà più. Di esso si parlerà come di una grande epidemia della
storia, che rischiava di cancellare continenti e intere generazioni.

Esiste un gruppo di
persone (tra le quali il sottoscritto), che lottano per ridurre quel tempo
maledettamente lungo, perché ogni secondo è una vita. La lista per
iscriversi è sempre aperta.

(*) Giancarlo
Orofino è dal 1993 specialista in malattie infettive all’ospedale «Amedeo
di Savoia» di Torino. È socio-fondatore dell’associazione
«Arcobaleno-Aids» a Torino. Nel campo dell’Aids ha partecipato a studi
clinici per la sperimentazione di nuovi farmaci e a progetti di assistenza
psicosociale. È membro dell’Inteational Aids Society.

L’«etica»
delle multinazionali farmaceutiche

Salvare
i brevetti (e i profitti)
o salvare le vite?


In un mondo sempre più privatizzato anche il «diritto alla
salute» sta diventando un lusso. Lo è già da tempo nei paesi del Sud del
mondo, dove si muore di malaria, diarrea, tubercolosi, polmonite. E ora di
Aids. Le cure ci sarebbero, ma costano troppo. Le multinazionali si
giustificano con gli elevati costi della ricerca. Peccato che i dati
smentiscano i pianti: i loro profitti sono in crescita e di gran lunga
superiori a quelli delle altre aziende. Così qualche paese (Thailandia,
India, Brasile, Sudafrica) ha provato a ribellarsi al sistema vigente,
sfidando le ire degli Stati Uniti e dell’«Organizzazione mondiale del
commercio». Vinceranno le ragioni del profitto o quelle del traballante
«diritto alla salute»?

di Paolo Moiola


UGUALI DAVANTI ALLA MALATTIA?

Qualcuno sostiene
che la malattia accomuna tutti, ricchi e poveri. Ritengo che questo possa
essere (parzialmente) vero per la morte, ma non lo è per la malattia. Gli
esempi si sprecano: il reperimento di organi (dai reni alle coee), le
liste di attesa per esami ed operazioni chirurgiche, l’accesso a farmaci e
strutture ospedaliere troppo spesso tutto si riduce a una questione di
soldi. Nei paesi del Sud in primo luogo, ma anche in molti paesi ricchi.

La sanità
statunitense non è quella bella e buona favoleggiata nella popolarissima
serie televisiva «E.R., medici in prima linea». Negli Stati Uniti il
livello delle cure mediche è eccelso soltanto per chi può permettersi di
pagare un’affidabile assicurazione sanitaria. La conferma viene dalle
graduatorie inteazionali che mettono ai primi posti della sanità
pubblica la Francia e, sorpresa, l’Italia, mentre gli Usa sono molto
indietro.

Come si fa a
conciliare il diritto universale alla salute con la privatizzazione della
sanità? Eppure, sembra proprio questa la strada battuta, soprattutto nei
paesi meno sviluppati dove la popolazione spesso non ha neppure il
necessario per mangiare.

Il problema si
ripete con l’Aids. La malattia, già soprannominata la «peste» del
millennio, ha fatto strage nei suoi 20 anni di diffusione. Ebbene,
guardando alle statistiche degli organismi inteazionali, si vede che
l’80 per cento dei decessi legati alla malattia è stato registrato
nell’Africa subsahariana, ovvero nei paesi più poveri del mondo.

Per essi il futuro è
nero, se si considera l’enorme diffusione del virus Hiv tra donne e
bambini. Ci sono paesi africani (Zimbabwe, Botswana, Zambia) dove più del
35% delle donne registrate nei reparti di mateità urbani (che
rappresentano un’esigua minoranza del totale) sono contagiate.

Rispetto al totale
mondiale, si calcola che circa 2/3 dei casi di trasmissione dell’Aids
dalla madre al bambino (durante la gestazione e, in misura inferiore,
durante l’allattamento) avvengono in Africa.

Gli scienziati sono
convinti che un vaccino contro l’Aids sarà pronto entro il 2007. Nel
frattempo, i malati di Aids hanno possibilità di sopravvivenza molto
diverse, a seconda che abitino nel Nord o nel Sud del mondo.

TERAPIE
DA 15 MILA DOLLARI

Le multiterapie
anti-Aids (un cocktail di medicine come l’AZT e il 3TC) oggi consentono
una consistente riduzione della mortalità. Però queste cure costano circa
15.000 dollari all’anno per paziente. Cifre impensabili per i paesi del
Sud, dove l’epidemia ha assunto connotati drammatici.

Alcuni di essi (come
Brasile, India e Thailandia) hanno trovato un modo per aggirare il
problema fabbricando copie a buon mercato dei farmaci brevettati. In
questo modo, il costo delle terapie è crollato a circa 350 dollari l’anno
per paziente.

Nel 1997 il
presidente sudafricano Nelson Mandela promulgò una legge, denominata
Medicine Act, che recepiva questa situazione. Con essa venivano presi due
provvedimenti per combattere il dilagare dell’Aids: da un lato si decideva
di acquistare i farmaci non necessariamente dall’industria nazionale
(costituita da filiali delle multinazionali), ma da qualsiasi paese estero
dove i prezzi fossero più convenienti. In altre parole, veniva instaurato
un mercato parallelo, che importava i farmaci (i cosiddetti «farmaci
generici») dai paesi le cui leggi nazionali permettono di ignorare i
brevetti sui farmaci in caso di urgente bisogno.

Il secondo aspetto
della legge, ancora più radicale, consisteva nell’autorizzare la
fabbricazione dei farmaci antiretrovirali da parte delle industrie locali,
anche in assenza dell’autorizzazione delle industrie farmaceutiche che
detengono i brevetti.

Contro la legge si
mobilitò immediatamente la lobby farmaceutica mondiale, con immediate e
pesanti pressioni sugli Stati Uniti e, di conseguenza, sull’Omc,
Organizzazione mondiale del commercio. Così, lo scorso 5 marzo, a
Pretoria, è iniziato il processo intentato da 39 case farmaceutiche contro
il governo sudafricano, colpevole di aver emanato una legge che viola gli
accordi sul commercio mondiale.

E qui il problema
assume connotati interessanti, riassumibili in un semplice quesito. Come è
possibile che multinazionali potentissime chiedano «protezione» dalle
conseguenze del libero mercato, usualmente icona intangibile del sistema
neoliberista?

FARMACI
«PROTETTI»
DAL «LIBERO» MERCATO

Dal 1994, ai paesi
aderenti all’Omc è stato intimato di sottomettersi agli accordi denominati
«Trips». Secondo questi, non è più possibile produrre un farmaco o
acquistarlo all’estero senza l’autorizzazione (contro versamento di «royalties»)
del proprietario dell’invenzione, che conserva questa prerogativa per 20
anni.

Tuttavia, sotto la
pressione di alcuni paesi, i Trips hanno previsto clausole di eccezione:
in caso di emergenza sanitaria o di intralci alla concorrenza (rifiuto di
vendita dell’inventore o prezzi troppo alti), ogni governo ha il diritto
di ricorrere alle «licenze obbligatorie» (compulsory licences) e alle
importazioni parallele. Le prime consentono di fabbricare un prodotto
senza l’accordo dell’inventore (come hanno fatto il Brasile, la Thailandia,
l’India); le seconde di acquistarlo là dove è venduto a minor prezzo (come
vuole fare il Sudafrica).

Di queste scappatornie
si lamentano le lobbies farmaceutiche, che vogliono imporre la
soppressione di ogni eccezione ai diritti di brevetto. Lo fanno attraverso
gli Stati Uniti, che a loro volta sono i veri decisori all’interno dell’Omc.

Poiché in campagna
elettorale la nuova amministrazione Bush ha accettato cospicui
finanziamenti dall’industria farmaceutica, aspettiamoci pressioni e
ritorsioni commerciali (ad esempio: la tassazione dei prodotti
d’esportazione) degli Stati Uniti sui paesi «disobbedienti».

È inutile negare
l’evidenza: i Trips sono clausole protezionistiche introdotte
dall’Organizzazione mondiale del commercio, grande sacerdotessa del libero
mercato. Libero finché fa comodo agli interessi privati dei grandi gruppi
industriali e finanziari.

Eppure, non occorre
essere oppositori del sistema neoliberista per affermare che i pazienti
non sono clienti e i farmaci non sono prodotti come gli altri. E che il
diritto di brevetto non può essere posto al di sopra dei bisogni
elementari dell’umanità. «Che i brevetti – ha scritto Le Monde
Diplomatique – assicurino l’avvenire è forse vero per l’avvenire della
ricerca privata e senza alcun dubbio per quello degli azionisti delle
compagnie farmaceutiche, ma in nessun caso per quello dei malati».

I
TAGLI ALLA SANITÀ PUBBLICA

Abbiamo parlato di
350 dollari annuali per pagare le cure a un malato di Aids utilizzando i
«farmaci generici». La cifra, pur bassa rispetto ai prezzi ufficiali,
rimane elevatissima per le finanze pubbliche dei paesi del Sud.

Negli anni passati,
la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno imposto ai
paesi del Sud l’adozione dei famigerati «aggiustamenti strutturali». I
tagli delle spese pubbliche si sono tradotti in tagli ai già esigui budget
sanitari. Ha senso ora lamentarsi dell’inadeguatezza dei sistemi sanitari
nei paesi in via di sviluppo?

Nella maggioranza
dei paesi poveri (in particolare, di quelli africani) la spesa sanitaria
globale pro capite non supera i 10 dollari all’anno. Quindi, anche a
prezzi ultrascontati, offrire cure pubbliche ai malati di Aids sarebbe
impossibile. Soltanto un’esigua percentuale di fortunati vedrà difeso (più
o meno efficientemente) il proprio «diritto alla salute». Dunque, si
ritorna all’assioma di partenza di quest’articolo. Chi è povero, sia esso
lo stato o l’individuo, ha molte meno possibilità di rimanere in salute e,
ove malato, di curarsi.


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Guido Sattin Giancarlo Orofino Paolo Moiola




Salvare i brevetti (e i profitti) o salvare vite?

L’«etica» delle multinazionali farmaceutiche

In un mondo sempre più privatizzato anche il «diritto alla salute» sta diventando
un lusso. Lo è già da tempo nei paesi del Sud del mondo, dove si muore di malaria, diarrea, tubercolosi, polmonite. E ora di Aids. Le cure ci sarebbero, ma costano
troppo. Le multinazionali si giustificano con gli elevati costi della ricerca.
Peccato che i dati smentiscano i pianti: i loro profitti sono in crescita e di gran lunga superiori a quelli delle altre aziende. Così qualche paese (Thailandia, India, Brasile, Sudafrica) ha provato a ribellarsi al sistema vigente, sfidando le ire degli Stati Uniti
e dell’«Organizzazione mondiale del commercio».
Vinceranno le ragioni del profitto o quelle del traballante «diritto alla salute»?

UGUALI DAVANTI ALLA MALATTIA?

Qualcuno sostiene che la malattia accomuna tutti, ricchi e poveri. Ritengo che questo possa essere (parzialmente) vero per la morte, ma non lo è per la malattia. Gli esempi si sprecano: il reperimento di organi (dai reni alle coee), le liste di attesa per esami ed operazioni chirurgiche, l’accesso a farmaci e strutture ospedaliere troppo spesso tutto si riduce a una questione di soldi. Nei paesi del Sud in primo luogo, ma anche in molti paesi ricchi.
La sanità statunitense non è quella bella e buona favoleggiata nella popolarissima serie televisiva «E.R., medici in prima linea». Negli Stati Uniti il livello delle cure mediche è eccelso soltanto per chi può permettersi di pagare un’affidabile assicurazione sanitaria. La conferma viene dalle graduatorie inteazionali che mettono ai primi posti della sanità pubblica la Francia e, sorpresa, l’Italia, mentre gli Usa sono molto indietro.
Come si fa a conciliare il diritto universale alla salute con la privatizzazione della sanità? Eppure, sembra proprio questa la strada battuta, soprattutto nei paesi meno sviluppati dove la popolazione spesso non ha neppure il necessario per mangiare.
Il problema si ripete con l’Aids. La malattia, già soprannominata la «peste» del millennio, ha fatto strage nei suoi 20 anni di diffusione. Ebbene, guardando alle statistiche degli organismi inteazionali, si vede che l’80 per cento dei decessi legati alla malattia è stato registrato nell’Africa subsahariana, ovvero nei paesi più poveri del mondo.
Per essi il futuro è nero, se si considera l’enorme diffusione del virus Hiv tra donne e bambini. Ci sono paesi africani (Zimbabwe, Botswana, Zambia) dove più del 35% delle donne registrate nei reparti di mateità urbani (che rappresentano un’esigua minoranza del totale) sono contagiate.
Rispetto al totale mondiale, si calcola che circa 2/3 dei casi di trasmissione dell’Aids dalla madre al bambino (durante la gestazione e, in misura inferiore, durante l’allattamento) avvengono in Africa.
Gli scienziati sono convinti che un vaccino contro l’Aids sarà pronto entro il 2007. Nel frattempo, i malati di Aids hanno possibilità di sopravvivenza molto diverse, a seconda che abitino nel Nord o nel Sud del mondo.

TERAPIE DA 15 MILA DOLLARI

Le multiterapie anti-Aids (un cocktail di medicine come l’AZT e il 3TC) oggi consentono una consistente riduzione della mortalità. Però queste cure costano circa 15.000 dollari all’anno per paziente. Cifre impensabili per i paesi del Sud, dove l’epidemia ha assunto connotati drammatici.
Alcuni di essi (come Brasile, India e Thailandia) hanno trovato un modo per aggirare il problema fabbricando copie a buon mercato dei farmaci brevettati. In questo modo, il costo delle terapie è crollato a circa 350 dollari l’anno per paziente.
Nel 1997 il presidente sudafricano Nelson Mandela promulgò una legge, denominata Medicine Act, che recepiva questa situazione. Con essa venivano presi due provvedimenti per combattere il dilagare dell’Aids: da un lato si decideva di acquistare i farmaci non necessariamente dall’industria nazionale (costituita da filiali delle multinazionali), ma da qualsiasi paese estero dove i prezzi fossero più convenienti. In altre parole, veniva instaurato un mercato parallelo, che importava i farmaci (i cosiddetti «farmaci generici») dai paesi le cui leggi nazionali permettono di ignorare i brevetti sui farmaci in caso di urgente bisogno.
Il secondo aspetto della legge, ancora più radicale, consisteva nell’autorizzare la fabbricazione dei farmaci antiretrovirali da parte delle industrie locali, anche in assenza dell’autorizzazione delle industrie farmaceutiche che detengono i brevetti.
Contro la legge si mobilitò immediatamente la lobby farmaceutica mondiale, con immediate e pesanti pressioni sugli Stati Uniti e, di conseguenza, sull’Omc, Organizzazione mondiale del commercio. Così, lo scorso 5 marzo, a Pretoria, è iniziato il processo intentato da 42 case farmaceutiche contro il governo sudafricano, colpevole di aver emanato una legge che viola gli accordi sul commercio mondiale.
E qui il problema assume connotati interessanti, riassumibili in un semplice quesito. Come è possibile che multinazionali potentissime chiedano «protezione» dalle conseguenze del libero mercato, usualmente icona intangibile del sistema neoliberista?
FARMACI «PROTETTI» DAL «LIBERO» MERCATO
Dal 1994, ai paesi aderenti all’Omc è stato intimato di sottomettersi agli accordi denominati «Trips». Secondo questi, non è più possibile produrre un farmaco o acquistarlo all’estero senza l’autorizzazione (contro versamento di «royalties») del proprietario dell’invenzione, che conserva questa prerogativa per 20 anni.
Tuttavia, sotto la pressione di alcuni paesi, i Trips hanno previsto clausole di eccezione: in caso di emergenza sanitaria o di intralci alla concorrenza (rifiuto di vendita dell’inventore o prezzi troppo alti), ogni governo ha il diritto di ricorrere alle «licenze obbligatorie» (compulsory licences) e alle importazioni parallele. Le prime consentono di fabbricare un prodotto senza l’accordo dell’inventore (come hanno fatto il Brasile, la Thailandia, l’India); le seconde di acquistarlo là dove è venduto a minor prezzo (come vuole fare il Sudafrica).
Di queste scappatornie si lamentano le lobbies farmaceutiche, che vogliono imporre la soppressione di ogni eccezione ai diritti di brevetto. Lo fanno attraverso gli Stati Uniti, che a loro volta sono i veri decisori all’interno dell’Omc.
Poiché in campagna elettorale la nuova amministrazione Bush ha accettato cospicui finanziamenti dall’industria farmaceutica, aspettiamoci pressioni e ritorsioni commerciali (ad esempio: la tassazione dei prodotti d’esportazione) degli Stati Uniti sui paesi «disobbedienti».
È inutile negare l’evidenza: i Trips sono clausole protezionistiche introdotte dall’Organizzazione mondiale del commercio, grande sacerdotessa del libero mercato. Libero finché fa comodo agli interessi privati dei grandi gruppi industriali e finanziari.
Eppure, non occorre essere oppositori del sistema neoliberista per affermare che i pazienti non sono clienti e i farmaci non sono prodotti come gli altri. E che il diritto di brevetto non può essere posto al di sopra dei bisogni elementari dell’umanità. «Che i brevetti – ha scritto Le Monde Diplomatique – assicurino l’avvenire è forse vero per l’avvenire della ricerca privata e senza alcun dubbio per quello degli azionisti delle compagnie farmaceutiche, ma in nessun caso per quello dei malati».

I TAGLI ALLA SANITÀ PUBBLICA

Abbiamo parlato di 350 dollari annuali per pagare le cure a un malato di Aids utilizzando i «farmaci generici». La cifra, pur bassa rispetto ai prezzi ufficiali, rimane elevatissima per le finanze pubbliche dei paesi del Sud.
Negli anni passati, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno imposto ai paesi del Sud l’adozione dei famigerati «aggiustamenti strutturali». I tagli delle spese pubbliche si sono tradotti in tagli ai già esigui budget sanitari. Ha senso ora lamentarsi dell’inadeguatezza dei sistemi sanitari nei paesi in via di sviluppo?
Nella maggioranza dei paesi poveri (in particolare, di quelli africani) la spesa sanitaria globale pro capite non supera i 10 dollari all’anno. Quindi, anche a prezzi ultrascontati, offrire cure pubbliche ai malati di Aids sarebbe impossibile. Soltanto un’esigua percentuale di fortunati vedrà difeso (più o meno efficientemente) il proprio «diritto alla salute». Dunque, si ritorna all’assioma di partenza di quest’articolo. Chi è povero, sia esso lo stato o l’individuo, ha molte meno possibilità di rimanere in salute e, ove malato, di curarsi.

UN VIRUS CHIAMATO «POVERTÀ»

L’anno scorso il presidente sudafricano Thabo Mbeki, successore di Mandela, venne sbeffeggiato e deriso perché aveva dato credito alle teorie dissidenti, secondo le quali il virus dell’immunodeficienza (Hiv) non sarebbe la causa dell’Aids.
Di fronte a questa forte polemica, passarono in secondo piano le altre osservazioni del leader sudafricano. Nella lettera indirizzata al presidente Clinton, Mbeki sottolineava lo stretto rapporto tra la morte massiccia, provocata dalla malattia in alcune regioni del mondo come l’Africa, e la povertà di massa che soffoca quelle stesse regioni. In pratica, il presidente sudafricano sottolineava che il solo approccio biomedico non permette di vincere la sfida dell’Aids. Era questa una constatazione non nuova, ma sempre sottovalutata.
Già nel 1985, l’annuale rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità scriveva: «La povertà esercita un’influenza su tutti gli stadi della vita umana, dal concepimento alla tomba. Cospira con le malattie più mortali e dolorose».
No, non si è tutti eguali davanti alla malattia. E l’Aids è solo l’ultimo degli esempi possibili.

GLI ARGOMENTI DELLE MULTINAZIONALI FARMACEUTICHE

* Ci vogliono almeno 20 anni di protezione brevettuale per recuperare le grandi somme necessarie alla ricerca e allo sviluppo di nuovi farmaci.

GLI ARGOMENTI
DEI PAESI DEL SUD

* Le aziende farmaceutiche (e con loro gli Stati Uniti e il Wto) mettono il profitto davanti agli individui.

* Da anni gli utili delle case farmaceutiche sono sempre superiori agli utili delle altre aziende.

* La spesa in ricerca e sviluppo è un’esigua frazione rispetto ai soldi spesi per il marketing dei farmaci.

* Solo il 10% dei fondi per la ricerca e lo sviluppo è destinato a cure contro il 90% delle malattie a diffusione mondiale, mentre il grosso è speso per malattie tipiche del Primo mondo come l’obesità, la calvizie e l’impotenza.

* Il Sud del mondo viene utilizzato per la sperimentazione di farmaci che poi non vengono resi disponibili per le popolazioni che hanno subito la sperimentazione.

Farmaci antiretrovirali

Primo gruppo:
inibitori nucleosidici della transcriptasi inversa virale

Retrovir (Glaxo-Wellcome) L. 571.200
Videx (Bristol-M. Squibb) L. 406.100
Epivir (Glaxo-Wellcome) L. 532.000 H
Zerit (Bristol-M. Squibb) L. 519.600 H
Hivid (Roche) L. 499.800
Ziagen (Glaxo-Wellcome) L. 685.300 H

Combinazione di 2 inibitori
Combivir (Glaxo-Wellcome) L. 930.600 H

Secondo gruppo:
inibitori delle proteasi

Norvir (Abbott) L. 849.300 H
Invirase (Roche) L. 1.276.000 H
Fortovase (Roche) L. 1.266.000 H
Crixivan (Merck S.D.) L. 1.258.400 H
Viracept (Roche) L. 919.600 H
Agenerase (Glaxo-Wellcome) L. 959.200 H

Terzo gruppo:
inibitori non nucleosidici della transcriptasi inversa virale

Viramune (Boehringer Ing.) L. 375.000 H
Sustiva (Du Pont Ph.) L. 761.400 H

H = solo dispensazione ospedaliera (il prezzo va dimezzato).
Il prezzo equivale al costo di una terapia per un mese.
In Italia le cure sono gratuite. Per ora.

Paolo Moiola




Perché non sono americano

Superiore generale dei missionari della Consolata per 12 anni
e oggi superiore di quelli in Tanzania,
padre Giuseppe Inverardi, bresciano,
ci permette di approfondire la situazione di questo paese,
in relazione anche ad altre nazioni dell’Africa…
Il socialismo di Nyerere: successi e fallimenti.
L’importanza del kiswahili. Il dramma dell’Aids e dei ragazzi di strada.
L’azione della chiesa.

Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di auto nomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito del la rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.

Julius Nierere – Il “Gandhi” dell’Africa nera

IL «GANDHI» DELL’AFRICA NERA

L o chiamavano «mwalimu», maestro. Laureato in pedagogia in Inghilterra, si era dedicato all’insegnamento: maestro nella primaria e maestro di vita poi per tutta l’Africa, che voleva liberata senza spargimento di sangue.
Determinanti sono state le sue mediazioni per portare la pace in Sudafrica, Mozambico… Ha liberato il Tanzania con una precisa tattica: esercitando ogni sorta di pressione non violenta sugli inglesi e alle Nazioni Unite, per ottenere autogoverno e indipendenza. Lui, il «Gandhi» dell’Africa nera.
Ha fondato il partito Tanu (Tanganyika African National Union) con il programma Uhuru na umoja (libertà e unità). Ha creato vincoli di amicizia tra le 120 tribù del paese, facendo appello all’unità nazionale, più forte dei vincoli etnici; ha favorito la lingua kiswahili come fattore di coesione nazionale; ha saputo trarre vantaggio dalle tensioni delle «tribù» europee (inglesi, tedeschi e greci), per farsi ascoltare dagli inglesi che accettarono di ritirarsi dal Tanzania senza rappresaglie né sabotaggi. Diventato presidente, non cambiò stile di vita: viveva i principi che insegnava, basati su una particolare forma di socialismo, mirante a raggruppare la gente in villaggi per vivere una vita sociale in forma di cornoperativa, dove tutti potessero interessarsi e partecipare al bene comune, con l’aiuto dello stato nelle grandi opere: strade, acquedotti, ospedali.
Viveva modestamente. Lo posso testimoniare in seguito ad un significativo incontro avuto con lui. Avevo intervistato padre Walsh, dei Padri Bianchi, cappellano degli universitari e direttore spirituale di Nyerere. Grazie a questo missionario, potei incontrare il presidente nella sua casa, semplice e dignitosamente povera. Finito il colloquio, egli stesso ci accompagnò all’università di Dar es Salaam, guidando la sua modesta automobile. Edificante il colloquio sul rapporto tra fede e politica.
Fede in Gesù Cristo: appena poteva, partecipava all’eucaristia inginocchiato tra i ragazzi. Fu anche visto in fila, davanti al confessionale.
Fede nell’uomo, nella sua sostanziale bontà: da qui la scelta di spingere i tanzaniani a vivere con un ideale fin troppo elevato per le deboli forze di queste popolazioni, da sempre chiuse entro i limitati confini delle necessità quotidiane.
Q ualcuno lo chiamava «il maestro rosso», specie per i suoi precisi interventi contro la corruzione di coloro che il popolo aveva argutamente ascritto alla «tribù» dei «Wabenzi», cioè di quanti potevano permettersi il lusso di girare su costosissime Mercedes Benz! Aveva promulgato «il codice dei dirigenti», per impedire ai ricchi di percepire due stipendi.
La gente aveva un’estrema fiducia in lui; per cui lo seguì sulla strada di una riforma che intendeva dare al paese un indirizzo socialista, tipicamente africano, non marxista, alieno dalla lotta di classe, basato sul tradizionale collettivismo rurale e legato alla cultura del passato. «Giustizia, uguaglianza, dignità»: erano i cardini del socialismo e dell’autogestione, proclamati nella famosa dichiarazione di Arusha (1967).
Il suo socialismo si chiamava «ujamaa», termine kiswahili che significa «stato di famiglia». Nyerere sognava che l’intero Tanzania diventasse una famiglia. Cominciò la campagna di nazionalizzazione. Nello stesso tempo nacquero le cornoperative di produzione e consumo autogestite ed autornamministrate. Bellissimo l’ideale. Deboli gli uomini chiamati a metterlo in pratica.
S i parlò di disastro, di completo fallimento. I forti e contrastanti interessi economici, i boicottaggi, le invidie, l’estrema povertà del paese, la mancanza di preparazione e di incentivi personali; poi anche l’aumento del prezzo del petrolio, la guerra contro l’Uganda di Amin…
I malcontenti portarono ad un tentativo di colpo di stato. Quando Nyerere incontrò colui che progettava di destituirlo, gli mise un fucile in mano e lo invitò a sparargli: era disposto a morire se ciò fosse servito ad evitare un bagno di sangue per la sua gente.
Quando, nel 1984, si accorse che c’erano tensioni e rischi di aggravamento delle proteste separatiste, spontaneamente lasciò la presidenza al musulmano Mwinyi. Egli, convinto cattolico, parlò in favore del suo successore, per cementare tutto il paese e facilitare così la transizione del potere.
Si ritirò nel suo villaggio a coltivare la terra e a fare il catechista, lasciando tali occupazioni solo quando percepiva di poter essere ancora utile come mediatore di pace presso popolazioni travagliate dalla guerra.
Valentino Salvoldi

aa.vv




Io sono perchè, noi siamo

L’ Africa non cessa di sorprendere. Nonostante i crescenti problemi, fa di tutto per sopravvivere, anzi per danzare la vita.
Lo scorso anno, in Etiopia, per un corso di aggioamento ai religiosi e al clero, presi lo spunto da un disegno di un artista africano intitolato: «Il Cristo che ride».
Oggi in Tanzania, per sviluppare il tema della salvezza, mi avvalgo come ispirazione del presepio allestito dai missionari della Consolata nella loro casa-procura di Dar es Salaam. Si tratta di una scultura, che si dispiega in uno stupendo groviglio di corpi scolpiti nell’ebano («maconde»), plasticamente culminante in una culla: vi riposa il bambino Gesù, che si massaggia un piede con il particolare atteggiamento che prelude… al sonno. «Dormire è bello – commenta un giovane africano -, dormire e sognare».
Interessante anche l’osservazione di un missionario della Consolata su quel divino infante: «Si sta togliendo una pulce penetrante. Povero Cristo! Ha sperimentato di tutto sulla terra».
I vangeli canonici non ci parlano di pulci penetranti; forse gli apocrifi… San Paolo afferma che, attraverso la sofferenza, il figlio di Dio ha capito che cosa significa essere figlio dell’uomo. E a tutti ha offerto la salvezza.
Anche alla pulce penetrante? Se questa non viene tolta subito, porta a complicanze irreparabili. Presa in tempo, è facilmente eliminabile, come fosse uno scherzo, un gioco da bambini.

«I l sorriso» e «il massaggio del piede»: due immagini che ci parlano dell’arte di ridimensionare ogni cosa, mantenendo un sostanziale ottimismo. Questo atteggiamento, tipico di molti africani, è riscontrabile anche in Tanzania, paese dai mille problemi, sapientemente affrontati con calma uno dopo l’altro, oppure rimandati in attesa di tempi migliori… quando a Dio piacerà.
L’arte di ridimensionare tutto non va confusa con la superficialità né, tanto meno, con il cinismo. Quando il peso della sofferenza è eccessivo e il lavoro per salvare il salvabile cozza contro una serie di fallimenti, è facile scoraggiarsi e sembrare indifferenti al dolore.
Se nell’ospedale di Ikonda, nel sud del Tanzania, durante il fine-settimana muoiono otto pazienti, in prevalenza giovani e tutti a causa dell’Aids, diventa indispensabile radunare gli infermieri e cercare insieme le ragioni per motivare ancora l’impegno al servizio della vita: anziché contare i decessi, si ricordano perciò i successi ottenuti. In ospedale la gente (non abituata agli antibiotici), con poche pastiglie ritrova condizioni di vita accettabili, mentre se fosse rimasta al villaggio, priva di medicinali o con le sole cure del «dottore tradizionale» (stregone), sarebbe morta in tempi brevissimi.
Ridimensionare, in questo caso, significa trasferire tutto in una nuova dimensione: non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e dal senso d’impotenza, ma sentirsi orgogliosi delle vite salvate o che si è tentato di salvare.
L’arte del ridimensionare è teorizzata dall’arcivescovo di Dar es Salaam, Polycarp Pengo, ed è vissuta da lui con la spontaneità di un bambino. Dice: «Bisogna ridimensionare ogni cosa, sforzandosi di vedere prevalentemente le cose belle».
Il bambino attualizza il ridimensionamento e lo mette in pratica attraverso un rito che non ho mai visto in altre parti dell’Africa. Dai tre ai sette anni, i piccoli salutano i grandi ponendo la manina sulla testa degli adulti e ripetendo più volte: «Sono ai tuoi piedi». Per lasciarsi toccare la testa, il grande deve abbassarsi al livello del piccolo e, così facendo, si ridimensiona. Forse chi è coinvolto in questo gesto non ne apprezza a sufficienza la portata. Ma, visto dall’esterno, è molto significativo.
I bambini della scuola matea l’hanno ripetuto più volte anche con me e mia nipote Maria Rosa Lorini, coautrice di questo dossier. C’è da augurarsi che non vada perduto con il passare del tempo e il sovrapporsi delle culture.

C’ è pure da sperare che i tanzaniani mantengano inalterati i valori, ribaditi con forza da Julius Nyerere, il «maestro» per antonomasia del Tanzania.
Visitiamo questo paese ad un anno circa dalla sua morte, anche con l’intento di capire quale ricordo abbia conservato la gente di quest’uomo amante della giustizia, cattolico, convinto del valore della fede, vista pure come mezzo per motivare ulteriormente l’impegno politico.
Anche Nyerere è stato un esperto nel coinvolgere i suoi concittadini nell’arte di ridimensionare tutto: per lui si basava sulla familiarità con il pensiero di Dio, la nascita e la morte. Dava per scontata la vita eterna; considerava quella terrena il bene più grande, affidatoci dal Creatore, e aiutava il suo popolo a vedere ogni realtà nella giusta prospettiva.
E, mentre non usava mezzi termini nel denunziare lo sfruttamento dell’occidente nei confronti dell’Africa, invitava i popoli del continente a convivere in pace, senza sognare l’impossibile, ma vivendo una povertà dignitosa, cercando di essere liberi, autosufficienti e capaci di governarsi gestendo con intelligenza le risorse a loro disposizione.

P iù che riportare le mie impressioni o analisi, nel presente dossier preferisco, con Maria Rosa, cedere la parola ai missionari che stanno spendendo la vita al servizio dello sviluppo integrale del Tanzania.
Abbiamo incontrato parecchi preti e suore anche avanzati in età. Ma nessuno di loro sembra preoccuparsene, e continuano a rimanere sulla breccia: annunciano il vangelo, insegnano, guidano la jeep, fanno operazioni chirurgiche, programmano costruzioni di case e ponti come se non dovessero mai morire.
Vivendo in missione, hanno imparato a ridimensionare anche la morte.
Valentino Salvoldi
Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di autonomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito della rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.
«Batti il tamburo,
non i bambini!»

Q uesto è lo slogan che padre Franco Sordella e i bambini della Faraja House hanno scelto per l’inaugurazione della loro nuova scuola elementare nel settembre scorso. La Faraja House (casa della consolazione) è un centro nella città di Iringa per ragazzi difficili: in maggioranza provenienti dalla strada e parecchi orfani. Ognuno con il suo bagaglio di abbandono, violenza, miseria.
Il progetto (uno dei tanti realizzati dai missionari della Consolata) è iniziato dal nulla tre anni fa. Oggi consta di due settori: il primo, «ragazzi di strada» per la riabilitazione; il secondo, per l’avviamento professionale anche di minori che non vivono nella Faraja House. Il tutto è quasi un villaggio: comprende dormitori, refettori, cucine, laboratori, dispensario e la scuola tecnica, che annovera 60 ragazzi. Con gli altrettanti bambini della Faraja House, si raggiunge un totale di 120.
Ma ci sono anche i frequentatori della domenica: ragazzini che sopravvivono lavorando al mercato e vivendo in «tane» (ad esempio, presso i mucchi di crusca dietro i mulini). Ad essi, «il dì di festa», viene offerto un buon pasto e la possibilità di lavarsi e di non restare analfabeti.
Oggigiorno anche le scuole governative sono a pagamento: perciò pochi sono i bambini che hanno la possibilità di frequentarle. Nel paese scarseggiano strutture e maestri: così non bisogna stupirsi se, entrando in una classe, si trovano anche 100 allievi, che devono solo rimanere seduti e buoni, presente o meno l’insegnante, se non vogliono essere castigati.
Accanto al «problema scolastico», sta aumentando anche il numero di bambini che, come Issa, rimangono orfani a causa dell’Aids. Issa (Gesù) è stato accolto nella Faraja House a natale.
Visto che Gesù bambino fu rifiutato, perché – si sono detti i missionari – non cercare in città il ragazzo più abbandonato e solo? Uno di quelli che dormono nascosti per paura di essere picchiati o abusati dai più grandi… e dargli una famiglia? È saltato fuori Issa, che ha trovato finalmente casa, ma anche chiesa, scuola e lavoro.
Già, lavoro. Non bisogna stupirsi se, nella Faraja House, la prima cosa che si compra all’inizio della scuola non sono i libri, ma la zappa. L’importante è che il lavoro non diventi l’unico riferimento a scapito dell’istruzione e, soprattutto, che gli insegnanti non costringano i ragazzi a lavorare nei loro campi tutto il giorno sotto la minaccia del bastone.

M entre la Faraja House ospita bambini di strada, per i ragazzi che cercano un lavoro (in particolare le ragazze) è stato creato il Centro «Stella del mattino», anch’esso nel territorio di Iringa. Costruito e gestito dai missionari della Consolata, «Stella del mattino» ospita 60 adolescenti provenienti da villaggi dove non esistono le strutture necessarie per l’istruzione.
Il sistema educativo del Centro è «studio e lavoro»: lo stesso che vige nelle scuole statali fin dai tempi dell’ujamaa. La filosofia pedagogica di base enfatizza «l’importanza di trasmettere ai ragazzi le conoscenze che possano situarli in una buona posizione sociale e renderli cittadini capaci di autoguidarsi e portare il loro popolo fuori dalla povertà e dall’ignoranza» (J.T.K. Ulimwengu, capo editore Rai/Mtanzania).
Nel Centro si punta all’autosostentamento: sia per non dover dipendere da aiuti estei, sia per rendere più consapevoli i giovani. Qui essi possono mantenersi allevando animali, coltivando i campi e, nello stesso tempo, formandosi culturalmente per far fiorire domani tutte le potenzialità che la nazione possiede. In Tanzania nel 1996, durante il seminario organizzato dal «Centro per l’energia, lo sviluppo, la sicurezza e la tecnologia», si discusse sul deterioramento del livello qualitativo dell’educazione. Se nelle scuole primarie il problema maggiore è legato al sovrannumero, alle secondarie (dove il numero degli studenti è contenuto a causa della selezione per merito) la violenza sessuale costituisce il principale fattore di ingiustizia e continua ad essere al centro di dibattiti e della cronaca locale.
Il Ministro dell’educazione ha rivelato che, tra il 1995 e il 1998, 12.721 ragazze furono espulse dalla scuola poiché incinte. Anche da parte degli insegnanti.

HO VSTO LA BONTA’ LIBERATRICE

«Abbiamo visto i miracoli dell’amore» potremmo intitolare un libro, se volessimo narrare ciò che uomini e donne di Dio, preti e suore locali, missionari e laici, stanno realizzando a favore dei più poveri nei più remoti angoli della terra, là dove manca tutto: acqua, cibo, strade, ospedali, scuole.
La jeep s’inerpica sui monti a sud della Tanzania, oltre i 2 mila metri: antichi tratturi trasformati in «strade», che si possono affrontare durante la stagione secca, ma che si convertono in rovinosi torrenti durante i sei mesi delle piogge. Nonostante si creda che quattro ruote motrici possano fare miracoli, sovente ci s’impantana al punto da non potersi più muovere.
E quelle zone che sembravano deserte, d’un tratto si animano di persone che sbucano da ogni angolo, si organizzano in breve tempo e rimettono la macchina in condizione di riprendere il viaggio. È uno dei volti della solidarietà africana, una dimostrazione che l’antica massima vale ancora: «Io sono, perché noi siamo». Non si contano i saluti, i complimenti e i ringraziamenti, anche se qualcuno afferma che non è conveniente ringraziare perché, come dicono soprattutto i musulmani, «chi ha una ricompensa in terra non l’avrà in paradiso».
Da Njombe – dove finisce la strada asfaltata – a Ikonda, per percorrere 70 chilometri impieghiamo più di tre ore. Fortunatamente da alcuni giorni non piove. Intoo a noi spazi immensi e verde… verde dappertutto: siamo nella stagione delle piogge. Le poche abitazioni che si scorgono sono in terra rossa e hanno il tetto di paglia, dal quale fuoriesce fumo. Il cibo è cotto in pentole appoggiate su tre pietre, che costituiscono il focolare, per terra, in mezzo all’abitazione «multiuso». E il cibo è tutti i giorni uguale: polenta e fagioli.
Lo stesso cibo ci viene offerto dai parenti degli ammalati nell’ospedale di Ikonda. Quando la struttura venne ultimata, fu chiesto ai capi dei wakinga e wabena (etnie locali) come dovesse essere l’ambiente affinché i degenti si sentissero più a loro agio. Risposta: una grande stanza aerata, dove ognuno posa le sue tre pietre, simbolo dell’unità familiare, sulle quali cuoce la solita farina di mais. È meglio non cambiare troppo le abitudini delle persone. Poi toeranno al loro villaggio…
Ogni tanto suor Magda porta ai bambini un uovo oppure, alle mamme, un po’ d’olio per condire le patate bollite quando ci sono. La malnutrizione non aiuta certamente la guarigione.
L’ospedale è gestito dai missionari della Consolata. Può ospitare 200 ammalati e vi lavorano tre medici africani e tre spagnoli. Attualmente è il governo spagnolo a fornire i fondi per il funzionamento della scuola-infermiere e per la formazione degli assistenti medici; ma il personale competente è insufficiente. L’organizzazione Medicus Mundi cerca costantemente volontari, e si può contare sulla presenza di persone disposte a spendere qualche anno della loro vita per gli altri.

Fra le malattie (che richiedono il ricovero in ospedale) nel 1995 al primo posto c’era la malaria, passata poi al secondo. Oggi è l’Aids che detiene il triste primato: lo è anche nella classifica dei decessi. Nell’ospedale abbiamo sfogliato il voluminoso registro dei pazienti che fanno il test dell’Hiv.
Il fatto che tante persone vi si sottopongono significa che hanno comportamenti a rischio, o che vivono in ambienti dove il contagio può essere frequente, oppure che manifestano già alcuni sintomi. Orbene: ogni pagina del registro reca 18 nomi; quelli scritti in rosso sono «sieropositivi»; solo due (a volte tre) i nomi in nero, cioè i «negativi».
Nella regione di Iringa-Njombe la trasmissione dell’Aids è particolarmente accentuata anche a causa del lavoro «offerto» dalla Brooke Bond, multinazionale del tè. Il lavoro si protrae per 11-12 ore al giorno, anche sotto la pioggia, per una paga mensile che varia da 90.000 a 150.000 lire, a seconda della quantità di foglie raccolte.
I lavoratori, immigrati stagionali per la raccolta, vivono nelle casette degli accampamenti costruiti dalla compagnia, isolati. Ovunque ci sono contadini che non lavorano «in proprio», costretti anche a comprare il cibo (per lo più proveniente dal campo del manager). Non essendoci alcun diversivo, sono facile preda dell’alcornol e della promiscuità.
All’ospedale di Kibao (della Brooke Bond) risulta che 9 operai su 10 sono affetti da Hiv positivo. Quando la malattia comincia a manifestarsi, viene loro corrisposta una piccola liquidazione e sono licenziati. Con l’aggravante che, non essendo stati informati della natura e della pericolosità del male, tornando al villaggio, contagiano chi vi è rimasto. La compagnia del tè ha pensato di risolvere il problema così: un’ora settimanale di istruzione sull’uso di profilattici e sull’importanza di anticoncezionali e abortivi. Nessun accenno viene fatto agli effetti collaterali che, usando i farmaci Depoprovera e Norplan, comportano rischi elevati. Non a caso, nel Nord del mondo, tali farmaci sono stati banditi. E non solo perché, con il passare del tempo, causano sterilità nelle donne.
Se nei centri sanitari governativi non fossero praticate regolarmente «certe» iniezioni, il paese non riceverebbe più gli aiuti dall’estero. E questo sistema sta distruggendo l’«orgoglio delle tanzaniane». Una donna, infatti, diventa tale solo dopo aver partorito il primo figlio: da quel momento sarà «la mamma di…». Col tempo, il ricorso sommario a contraccettivi distruggerà la fertilità di un’intera popolazione.
Inoltre negli ospedali governativi, al momento del parto, soprattutto se c’è stato un cesareo o in seguito a complicazioni, spesso sono i medici a decidere indiscriminatamente, senza chiedere il consenso di alcuno, di chiudere le tube delle giovani madri. Queste vengono a scoprirlo soltanto in seguito quando, vedendo che non arrivano altri figli, effettuano visite di controllo, magari negli ospedali dei missionari.
Una tanzaniana, confidandosi con una missionaria della Consolata, ha commentato: «Noi abbiamo molta più fiducia nei vostri ospedali, perché qui c’è il timore di Dio, mentre in quelli del governo c’è solo il timore della nazione».
Maria Rosa Lorini

Maria Rosa Lorini