Salvare i brevetti (e i profitti) o salvare vite?

L’«etica» delle multinazionali farmaceutiche

In un mondo sempre più privatizzato anche il «diritto alla salute» sta diventando
un lusso. Lo è già da tempo nei paesi del Sud del mondo, dove si muore di malaria, diarrea, tubercolosi, polmonite. E ora di Aids. Le cure ci sarebbero, ma costano
troppo. Le multinazionali si giustificano con gli elevati costi della ricerca.
Peccato che i dati smentiscano i pianti: i loro profitti sono in crescita e di gran lunga superiori a quelli delle altre aziende. Così qualche paese (Thailandia, India, Brasile, Sudafrica) ha provato a ribellarsi al sistema vigente, sfidando le ire degli Stati Uniti
e dell’«Organizzazione mondiale del commercio».
Vinceranno le ragioni del profitto o quelle del traballante «diritto alla salute»?

UGUALI DAVANTI ALLA MALATTIA?

Qualcuno sostiene che la malattia accomuna tutti, ricchi e poveri. Ritengo che questo possa essere (parzialmente) vero per la morte, ma non lo è per la malattia. Gli esempi si sprecano: il reperimento di organi (dai reni alle coee), le liste di attesa per esami ed operazioni chirurgiche, l’accesso a farmaci e strutture ospedaliere troppo spesso tutto si riduce a una questione di soldi. Nei paesi del Sud in primo luogo, ma anche in molti paesi ricchi.
La sanità statunitense non è quella bella e buona favoleggiata nella popolarissima serie televisiva «E.R., medici in prima linea». Negli Stati Uniti il livello delle cure mediche è eccelso soltanto per chi può permettersi di pagare un’affidabile assicurazione sanitaria. La conferma viene dalle graduatorie inteazionali che mettono ai primi posti della sanità pubblica la Francia e, sorpresa, l’Italia, mentre gli Usa sono molto indietro.
Come si fa a conciliare il diritto universale alla salute con la privatizzazione della sanità? Eppure, sembra proprio questa la strada battuta, soprattutto nei paesi meno sviluppati dove la popolazione spesso non ha neppure il necessario per mangiare.
Il problema si ripete con l’Aids. La malattia, già soprannominata la «peste» del millennio, ha fatto strage nei suoi 20 anni di diffusione. Ebbene, guardando alle statistiche degli organismi inteazionali, si vede che l’80 per cento dei decessi legati alla malattia è stato registrato nell’Africa subsahariana, ovvero nei paesi più poveri del mondo.
Per essi il futuro è nero, se si considera l’enorme diffusione del virus Hiv tra donne e bambini. Ci sono paesi africani (Zimbabwe, Botswana, Zambia) dove più del 35% delle donne registrate nei reparti di mateità urbani (che rappresentano un’esigua minoranza del totale) sono contagiate.
Rispetto al totale mondiale, si calcola che circa 2/3 dei casi di trasmissione dell’Aids dalla madre al bambino (durante la gestazione e, in misura inferiore, durante l’allattamento) avvengono in Africa.
Gli scienziati sono convinti che un vaccino contro l’Aids sarà pronto entro il 2007. Nel frattempo, i malati di Aids hanno possibilità di sopravvivenza molto diverse, a seconda che abitino nel Nord o nel Sud del mondo.

TERAPIE DA 15 MILA DOLLARI

Le multiterapie anti-Aids (un cocktail di medicine come l’AZT e il 3TC) oggi consentono una consistente riduzione della mortalità. Però queste cure costano circa 15.000 dollari all’anno per paziente. Cifre impensabili per i paesi del Sud, dove l’epidemia ha assunto connotati drammatici.
Alcuni di essi (come Brasile, India e Thailandia) hanno trovato un modo per aggirare il problema fabbricando copie a buon mercato dei farmaci brevettati. In questo modo, il costo delle terapie è crollato a circa 350 dollari l’anno per paziente.
Nel 1997 il presidente sudafricano Nelson Mandela promulgò una legge, denominata Medicine Act, che recepiva questa situazione. Con essa venivano presi due provvedimenti per combattere il dilagare dell’Aids: da un lato si decideva di acquistare i farmaci non necessariamente dall’industria nazionale (costituita da filiali delle multinazionali), ma da qualsiasi paese estero dove i prezzi fossero più convenienti. In altre parole, veniva instaurato un mercato parallelo, che importava i farmaci (i cosiddetti «farmaci generici») dai paesi le cui leggi nazionali permettono di ignorare i brevetti sui farmaci in caso di urgente bisogno.
Il secondo aspetto della legge, ancora più radicale, consisteva nell’autorizzare la fabbricazione dei farmaci antiretrovirali da parte delle industrie locali, anche in assenza dell’autorizzazione delle industrie farmaceutiche che detengono i brevetti.
Contro la legge si mobilitò immediatamente la lobby farmaceutica mondiale, con immediate e pesanti pressioni sugli Stati Uniti e, di conseguenza, sull’Omc, Organizzazione mondiale del commercio. Così, lo scorso 5 marzo, a Pretoria, è iniziato il processo intentato da 42 case farmaceutiche contro il governo sudafricano, colpevole di aver emanato una legge che viola gli accordi sul commercio mondiale.
E qui il problema assume connotati interessanti, riassumibili in un semplice quesito. Come è possibile che multinazionali potentissime chiedano «protezione» dalle conseguenze del libero mercato, usualmente icona intangibile del sistema neoliberista?
FARMACI «PROTETTI» DAL «LIBERO» MERCATO
Dal 1994, ai paesi aderenti all’Omc è stato intimato di sottomettersi agli accordi denominati «Trips». Secondo questi, non è più possibile produrre un farmaco o acquistarlo all’estero senza l’autorizzazione (contro versamento di «royalties») del proprietario dell’invenzione, che conserva questa prerogativa per 20 anni.
Tuttavia, sotto la pressione di alcuni paesi, i Trips hanno previsto clausole di eccezione: in caso di emergenza sanitaria o di intralci alla concorrenza (rifiuto di vendita dell’inventore o prezzi troppo alti), ogni governo ha il diritto di ricorrere alle «licenze obbligatorie» (compulsory licences) e alle importazioni parallele. Le prime consentono di fabbricare un prodotto senza l’accordo dell’inventore (come hanno fatto il Brasile, la Thailandia, l’India); le seconde di acquistarlo là dove è venduto a minor prezzo (come vuole fare il Sudafrica).
Di queste scappatornie si lamentano le lobbies farmaceutiche, che vogliono imporre la soppressione di ogni eccezione ai diritti di brevetto. Lo fanno attraverso gli Stati Uniti, che a loro volta sono i veri decisori all’interno dell’Omc.
Poiché in campagna elettorale la nuova amministrazione Bush ha accettato cospicui finanziamenti dall’industria farmaceutica, aspettiamoci pressioni e ritorsioni commerciali (ad esempio: la tassazione dei prodotti d’esportazione) degli Stati Uniti sui paesi «disobbedienti».
È inutile negare l’evidenza: i Trips sono clausole protezionistiche introdotte dall’Organizzazione mondiale del commercio, grande sacerdotessa del libero mercato. Libero finché fa comodo agli interessi privati dei grandi gruppi industriali e finanziari.
Eppure, non occorre essere oppositori del sistema neoliberista per affermare che i pazienti non sono clienti e i farmaci non sono prodotti come gli altri. E che il diritto di brevetto non può essere posto al di sopra dei bisogni elementari dell’umanità. «Che i brevetti – ha scritto Le Monde Diplomatique – assicurino l’avvenire è forse vero per l’avvenire della ricerca privata e senza alcun dubbio per quello degli azionisti delle compagnie farmaceutiche, ma in nessun caso per quello dei malati».

I TAGLI ALLA SANITÀ PUBBLICA

Abbiamo parlato di 350 dollari annuali per pagare le cure a un malato di Aids utilizzando i «farmaci generici». La cifra, pur bassa rispetto ai prezzi ufficiali, rimane elevatissima per le finanze pubbliche dei paesi del Sud.
Negli anni passati, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno imposto ai paesi del Sud l’adozione dei famigerati «aggiustamenti strutturali». I tagli delle spese pubbliche si sono tradotti in tagli ai già esigui budget sanitari. Ha senso ora lamentarsi dell’inadeguatezza dei sistemi sanitari nei paesi in via di sviluppo?
Nella maggioranza dei paesi poveri (in particolare, di quelli africani) la spesa sanitaria globale pro capite non supera i 10 dollari all’anno. Quindi, anche a prezzi ultrascontati, offrire cure pubbliche ai malati di Aids sarebbe impossibile. Soltanto un’esigua percentuale di fortunati vedrà difeso (più o meno efficientemente) il proprio «diritto alla salute». Dunque, si ritorna all’assioma di partenza di quest’articolo. Chi è povero, sia esso lo stato o l’individuo, ha molte meno possibilità di rimanere in salute e, ove malato, di curarsi.

UN VIRUS CHIAMATO «POVERTÀ»

L’anno scorso il presidente sudafricano Thabo Mbeki, successore di Mandela, venne sbeffeggiato e deriso perché aveva dato credito alle teorie dissidenti, secondo le quali il virus dell’immunodeficienza (Hiv) non sarebbe la causa dell’Aids.
Di fronte a questa forte polemica, passarono in secondo piano le altre osservazioni del leader sudafricano. Nella lettera indirizzata al presidente Clinton, Mbeki sottolineava lo stretto rapporto tra la morte massiccia, provocata dalla malattia in alcune regioni del mondo come l’Africa, e la povertà di massa che soffoca quelle stesse regioni. In pratica, il presidente sudafricano sottolineava che il solo approccio biomedico non permette di vincere la sfida dell’Aids. Era questa una constatazione non nuova, ma sempre sottovalutata.
Già nel 1985, l’annuale rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità scriveva: «La povertà esercita un’influenza su tutti gli stadi della vita umana, dal concepimento alla tomba. Cospira con le malattie più mortali e dolorose».
No, non si è tutti eguali davanti alla malattia. E l’Aids è solo l’ultimo degli esempi possibili.

GLI ARGOMENTI DELLE MULTINAZIONALI FARMACEUTICHE

* Ci vogliono almeno 20 anni di protezione brevettuale per recuperare le grandi somme necessarie alla ricerca e allo sviluppo di nuovi farmaci.

GLI ARGOMENTI
DEI PAESI DEL SUD

* Le aziende farmaceutiche (e con loro gli Stati Uniti e il Wto) mettono il profitto davanti agli individui.

* Da anni gli utili delle case farmaceutiche sono sempre superiori agli utili delle altre aziende.

* La spesa in ricerca e sviluppo è un’esigua frazione rispetto ai soldi spesi per il marketing dei farmaci.

* Solo il 10% dei fondi per la ricerca e lo sviluppo è destinato a cure contro il 90% delle malattie a diffusione mondiale, mentre il grosso è speso per malattie tipiche del Primo mondo come l’obesità, la calvizie e l’impotenza.

* Il Sud del mondo viene utilizzato per la sperimentazione di farmaci che poi non vengono resi disponibili per le popolazioni che hanno subito la sperimentazione.

Farmaci antiretrovirali

Primo gruppo:
inibitori nucleosidici della transcriptasi inversa virale

Retrovir (Glaxo-Wellcome) L. 571.200
Videx (Bristol-M. Squibb) L. 406.100
Epivir (Glaxo-Wellcome) L. 532.000 H
Zerit (Bristol-M. Squibb) L. 519.600 H
Hivid (Roche) L. 499.800
Ziagen (Glaxo-Wellcome) L. 685.300 H

Combinazione di 2 inibitori
Combivir (Glaxo-Wellcome) L. 930.600 H

Secondo gruppo:
inibitori delle proteasi

Norvir (Abbott) L. 849.300 H
Invirase (Roche) L. 1.276.000 H
Fortovase (Roche) L. 1.266.000 H
Crixivan (Merck S.D.) L. 1.258.400 H
Viracept (Roche) L. 919.600 H
Agenerase (Glaxo-Wellcome) L. 959.200 H

Terzo gruppo:
inibitori non nucleosidici della transcriptasi inversa virale

Viramune (Boehringer Ing.) L. 375.000 H
Sustiva (Du Pont Ph.) L. 761.400 H

H = solo dispensazione ospedaliera (il prezzo va dimezzato).
Il prezzo equivale al costo di una terapia per un mese.
In Italia le cure sono gratuite. Per ora.

Paolo Moiola




Perché non sono americano

Superiore generale dei missionari della Consolata per 12 anni
e oggi superiore di quelli in Tanzania,
padre Giuseppe Inverardi, bresciano,
ci permette di approfondire la situazione di questo paese,
in relazione anche ad altre nazioni dell’Africa…
Il socialismo di Nyerere: successi e fallimenti.
L’importanza del kiswahili. Il dramma dell’Aids e dei ragazzi di strada.
L’azione della chiesa.

Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di auto nomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito del la rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.

Julius Nierere – Il “Gandhi” dell’Africa nera

IL «GANDHI» DELL’AFRICA NERA

L o chiamavano «mwalimu», maestro. Laureato in pedagogia in Inghilterra, si era dedicato all’insegnamento: maestro nella primaria e maestro di vita poi per tutta l’Africa, che voleva liberata senza spargimento di sangue.
Determinanti sono state le sue mediazioni per portare la pace in Sudafrica, Mozambico… Ha liberato il Tanzania con una precisa tattica: esercitando ogni sorta di pressione non violenta sugli inglesi e alle Nazioni Unite, per ottenere autogoverno e indipendenza. Lui, il «Gandhi» dell’Africa nera.
Ha fondato il partito Tanu (Tanganyika African National Union) con il programma Uhuru na umoja (libertà e unità). Ha creato vincoli di amicizia tra le 120 tribù del paese, facendo appello all’unità nazionale, più forte dei vincoli etnici; ha favorito la lingua kiswahili come fattore di coesione nazionale; ha saputo trarre vantaggio dalle tensioni delle «tribù» europee (inglesi, tedeschi e greci), per farsi ascoltare dagli inglesi che accettarono di ritirarsi dal Tanzania senza rappresaglie né sabotaggi. Diventato presidente, non cambiò stile di vita: viveva i principi che insegnava, basati su una particolare forma di socialismo, mirante a raggruppare la gente in villaggi per vivere una vita sociale in forma di cornoperativa, dove tutti potessero interessarsi e partecipare al bene comune, con l’aiuto dello stato nelle grandi opere: strade, acquedotti, ospedali.
Viveva modestamente. Lo posso testimoniare in seguito ad un significativo incontro avuto con lui. Avevo intervistato padre Walsh, dei Padri Bianchi, cappellano degli universitari e direttore spirituale di Nyerere. Grazie a questo missionario, potei incontrare il presidente nella sua casa, semplice e dignitosamente povera. Finito il colloquio, egli stesso ci accompagnò all’università di Dar es Salaam, guidando la sua modesta automobile. Edificante il colloquio sul rapporto tra fede e politica.
Fede in Gesù Cristo: appena poteva, partecipava all’eucaristia inginocchiato tra i ragazzi. Fu anche visto in fila, davanti al confessionale.
Fede nell’uomo, nella sua sostanziale bontà: da qui la scelta di spingere i tanzaniani a vivere con un ideale fin troppo elevato per le deboli forze di queste popolazioni, da sempre chiuse entro i limitati confini delle necessità quotidiane.
Q ualcuno lo chiamava «il maestro rosso», specie per i suoi precisi interventi contro la corruzione di coloro che il popolo aveva argutamente ascritto alla «tribù» dei «Wabenzi», cioè di quanti potevano permettersi il lusso di girare su costosissime Mercedes Benz! Aveva promulgato «il codice dei dirigenti», per impedire ai ricchi di percepire due stipendi.
La gente aveva un’estrema fiducia in lui; per cui lo seguì sulla strada di una riforma che intendeva dare al paese un indirizzo socialista, tipicamente africano, non marxista, alieno dalla lotta di classe, basato sul tradizionale collettivismo rurale e legato alla cultura del passato. «Giustizia, uguaglianza, dignità»: erano i cardini del socialismo e dell’autogestione, proclamati nella famosa dichiarazione di Arusha (1967).
Il suo socialismo si chiamava «ujamaa», termine kiswahili che significa «stato di famiglia». Nyerere sognava che l’intero Tanzania diventasse una famiglia. Cominciò la campagna di nazionalizzazione. Nello stesso tempo nacquero le cornoperative di produzione e consumo autogestite ed autornamministrate. Bellissimo l’ideale. Deboli gli uomini chiamati a metterlo in pratica.
S i parlò di disastro, di completo fallimento. I forti e contrastanti interessi economici, i boicottaggi, le invidie, l’estrema povertà del paese, la mancanza di preparazione e di incentivi personali; poi anche l’aumento del prezzo del petrolio, la guerra contro l’Uganda di Amin…
I malcontenti portarono ad un tentativo di colpo di stato. Quando Nyerere incontrò colui che progettava di destituirlo, gli mise un fucile in mano e lo invitò a sparargli: era disposto a morire se ciò fosse servito ad evitare un bagno di sangue per la sua gente.
Quando, nel 1984, si accorse che c’erano tensioni e rischi di aggravamento delle proteste separatiste, spontaneamente lasciò la presidenza al musulmano Mwinyi. Egli, convinto cattolico, parlò in favore del suo successore, per cementare tutto il paese e facilitare così la transizione del potere.
Si ritirò nel suo villaggio a coltivare la terra e a fare il catechista, lasciando tali occupazioni solo quando percepiva di poter essere ancora utile come mediatore di pace presso popolazioni travagliate dalla guerra.
Valentino Salvoldi

aa.vv




Io sono perchè, noi siamo

L’ Africa non cessa di sorprendere. Nonostante i crescenti problemi, fa di tutto per sopravvivere, anzi per danzare la vita.
Lo scorso anno, in Etiopia, per un corso di aggioamento ai religiosi e al clero, presi lo spunto da un disegno di un artista africano intitolato: «Il Cristo che ride».
Oggi in Tanzania, per sviluppare il tema della salvezza, mi avvalgo come ispirazione del presepio allestito dai missionari della Consolata nella loro casa-procura di Dar es Salaam. Si tratta di una scultura, che si dispiega in uno stupendo groviglio di corpi scolpiti nell’ebano («maconde»), plasticamente culminante in una culla: vi riposa il bambino Gesù, che si massaggia un piede con il particolare atteggiamento che prelude… al sonno. «Dormire è bello – commenta un giovane africano -, dormire e sognare».
Interessante anche l’osservazione di un missionario della Consolata su quel divino infante: «Si sta togliendo una pulce penetrante. Povero Cristo! Ha sperimentato di tutto sulla terra».
I vangeli canonici non ci parlano di pulci penetranti; forse gli apocrifi… San Paolo afferma che, attraverso la sofferenza, il figlio di Dio ha capito che cosa significa essere figlio dell’uomo. E a tutti ha offerto la salvezza.
Anche alla pulce penetrante? Se questa non viene tolta subito, porta a complicanze irreparabili. Presa in tempo, è facilmente eliminabile, come fosse uno scherzo, un gioco da bambini.

«I l sorriso» e «il massaggio del piede»: due immagini che ci parlano dell’arte di ridimensionare ogni cosa, mantenendo un sostanziale ottimismo. Questo atteggiamento, tipico di molti africani, è riscontrabile anche in Tanzania, paese dai mille problemi, sapientemente affrontati con calma uno dopo l’altro, oppure rimandati in attesa di tempi migliori… quando a Dio piacerà.
L’arte di ridimensionare tutto non va confusa con la superficialità né, tanto meno, con il cinismo. Quando il peso della sofferenza è eccessivo e il lavoro per salvare il salvabile cozza contro una serie di fallimenti, è facile scoraggiarsi e sembrare indifferenti al dolore.
Se nell’ospedale di Ikonda, nel sud del Tanzania, durante il fine-settimana muoiono otto pazienti, in prevalenza giovani e tutti a causa dell’Aids, diventa indispensabile radunare gli infermieri e cercare insieme le ragioni per motivare ancora l’impegno al servizio della vita: anziché contare i decessi, si ricordano perciò i successi ottenuti. In ospedale la gente (non abituata agli antibiotici), con poche pastiglie ritrova condizioni di vita accettabili, mentre se fosse rimasta al villaggio, priva di medicinali o con le sole cure del «dottore tradizionale» (stregone), sarebbe morta in tempi brevissimi.
Ridimensionare, in questo caso, significa trasferire tutto in una nuova dimensione: non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e dal senso d’impotenza, ma sentirsi orgogliosi delle vite salvate o che si è tentato di salvare.
L’arte del ridimensionare è teorizzata dall’arcivescovo di Dar es Salaam, Polycarp Pengo, ed è vissuta da lui con la spontaneità di un bambino. Dice: «Bisogna ridimensionare ogni cosa, sforzandosi di vedere prevalentemente le cose belle».
Il bambino attualizza il ridimensionamento e lo mette in pratica attraverso un rito che non ho mai visto in altre parti dell’Africa. Dai tre ai sette anni, i piccoli salutano i grandi ponendo la manina sulla testa degli adulti e ripetendo più volte: «Sono ai tuoi piedi». Per lasciarsi toccare la testa, il grande deve abbassarsi al livello del piccolo e, così facendo, si ridimensiona. Forse chi è coinvolto in questo gesto non ne apprezza a sufficienza la portata. Ma, visto dall’esterno, è molto significativo.
I bambini della scuola matea l’hanno ripetuto più volte anche con me e mia nipote Maria Rosa Lorini, coautrice di questo dossier. C’è da augurarsi che non vada perduto con il passare del tempo e il sovrapporsi delle culture.

C’ è pure da sperare che i tanzaniani mantengano inalterati i valori, ribaditi con forza da Julius Nyerere, il «maestro» per antonomasia del Tanzania.
Visitiamo questo paese ad un anno circa dalla sua morte, anche con l’intento di capire quale ricordo abbia conservato la gente di quest’uomo amante della giustizia, cattolico, convinto del valore della fede, vista pure come mezzo per motivare ulteriormente l’impegno politico.
Anche Nyerere è stato un esperto nel coinvolgere i suoi concittadini nell’arte di ridimensionare tutto: per lui si basava sulla familiarità con il pensiero di Dio, la nascita e la morte. Dava per scontata la vita eterna; considerava quella terrena il bene più grande, affidatoci dal Creatore, e aiutava il suo popolo a vedere ogni realtà nella giusta prospettiva.
E, mentre non usava mezzi termini nel denunziare lo sfruttamento dell’occidente nei confronti dell’Africa, invitava i popoli del continente a convivere in pace, senza sognare l’impossibile, ma vivendo una povertà dignitosa, cercando di essere liberi, autosufficienti e capaci di governarsi gestendo con intelligenza le risorse a loro disposizione.

P iù che riportare le mie impressioni o analisi, nel presente dossier preferisco, con Maria Rosa, cedere la parola ai missionari che stanno spendendo la vita al servizio dello sviluppo integrale del Tanzania.
Abbiamo incontrato parecchi preti e suore anche avanzati in età. Ma nessuno di loro sembra preoccuparsene, e continuano a rimanere sulla breccia: annunciano il vangelo, insegnano, guidano la jeep, fanno operazioni chirurgiche, programmano costruzioni di case e ponti come se non dovessero mai morire.
Vivendo in missione, hanno imparato a ridimensionare anche la morte.
Valentino Salvoldi
Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di autonomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito della rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.
«Batti il tamburo,
non i bambini!»

Q uesto è lo slogan che padre Franco Sordella e i bambini della Faraja House hanno scelto per l’inaugurazione della loro nuova scuola elementare nel settembre scorso. La Faraja House (casa della consolazione) è un centro nella città di Iringa per ragazzi difficili: in maggioranza provenienti dalla strada e parecchi orfani. Ognuno con il suo bagaglio di abbandono, violenza, miseria.
Il progetto (uno dei tanti realizzati dai missionari della Consolata) è iniziato dal nulla tre anni fa. Oggi consta di due settori: il primo, «ragazzi di strada» per la riabilitazione; il secondo, per l’avviamento professionale anche di minori che non vivono nella Faraja House. Il tutto è quasi un villaggio: comprende dormitori, refettori, cucine, laboratori, dispensario e la scuola tecnica, che annovera 60 ragazzi. Con gli altrettanti bambini della Faraja House, si raggiunge un totale di 120.
Ma ci sono anche i frequentatori della domenica: ragazzini che sopravvivono lavorando al mercato e vivendo in «tane» (ad esempio, presso i mucchi di crusca dietro i mulini). Ad essi, «il dì di festa», viene offerto un buon pasto e la possibilità di lavarsi e di non restare analfabeti.
Oggigiorno anche le scuole governative sono a pagamento: perciò pochi sono i bambini che hanno la possibilità di frequentarle. Nel paese scarseggiano strutture e maestri: così non bisogna stupirsi se, entrando in una classe, si trovano anche 100 allievi, che devono solo rimanere seduti e buoni, presente o meno l’insegnante, se non vogliono essere castigati.
Accanto al «problema scolastico», sta aumentando anche il numero di bambini che, come Issa, rimangono orfani a causa dell’Aids. Issa (Gesù) è stato accolto nella Faraja House a natale.
Visto che Gesù bambino fu rifiutato, perché – si sono detti i missionari – non cercare in città il ragazzo più abbandonato e solo? Uno di quelli che dormono nascosti per paura di essere picchiati o abusati dai più grandi… e dargli una famiglia? È saltato fuori Issa, che ha trovato finalmente casa, ma anche chiesa, scuola e lavoro.
Già, lavoro. Non bisogna stupirsi se, nella Faraja House, la prima cosa che si compra all’inizio della scuola non sono i libri, ma la zappa. L’importante è che il lavoro non diventi l’unico riferimento a scapito dell’istruzione e, soprattutto, che gli insegnanti non costringano i ragazzi a lavorare nei loro campi tutto il giorno sotto la minaccia del bastone.

M entre la Faraja House ospita bambini di strada, per i ragazzi che cercano un lavoro (in particolare le ragazze) è stato creato il Centro «Stella del mattino», anch’esso nel territorio di Iringa. Costruito e gestito dai missionari della Consolata, «Stella del mattino» ospita 60 adolescenti provenienti da villaggi dove non esistono le strutture necessarie per l’istruzione.
Il sistema educativo del Centro è «studio e lavoro»: lo stesso che vige nelle scuole statali fin dai tempi dell’ujamaa. La filosofia pedagogica di base enfatizza «l’importanza di trasmettere ai ragazzi le conoscenze che possano situarli in una buona posizione sociale e renderli cittadini capaci di autoguidarsi e portare il loro popolo fuori dalla povertà e dall’ignoranza» (J.T.K. Ulimwengu, capo editore Rai/Mtanzania).
Nel Centro si punta all’autosostentamento: sia per non dover dipendere da aiuti estei, sia per rendere più consapevoli i giovani. Qui essi possono mantenersi allevando animali, coltivando i campi e, nello stesso tempo, formandosi culturalmente per far fiorire domani tutte le potenzialità che la nazione possiede. In Tanzania nel 1996, durante il seminario organizzato dal «Centro per l’energia, lo sviluppo, la sicurezza e la tecnologia», si discusse sul deterioramento del livello qualitativo dell’educazione. Se nelle scuole primarie il problema maggiore è legato al sovrannumero, alle secondarie (dove il numero degli studenti è contenuto a causa della selezione per merito) la violenza sessuale costituisce il principale fattore di ingiustizia e continua ad essere al centro di dibattiti e della cronaca locale.
Il Ministro dell’educazione ha rivelato che, tra il 1995 e il 1998, 12.721 ragazze furono espulse dalla scuola poiché incinte. Anche da parte degli insegnanti.

HO VSTO LA BONTA’ LIBERATRICE

«Abbiamo visto i miracoli dell’amore» potremmo intitolare un libro, se volessimo narrare ciò che uomini e donne di Dio, preti e suore locali, missionari e laici, stanno realizzando a favore dei più poveri nei più remoti angoli della terra, là dove manca tutto: acqua, cibo, strade, ospedali, scuole.
La jeep s’inerpica sui monti a sud della Tanzania, oltre i 2 mila metri: antichi tratturi trasformati in «strade», che si possono affrontare durante la stagione secca, ma che si convertono in rovinosi torrenti durante i sei mesi delle piogge. Nonostante si creda che quattro ruote motrici possano fare miracoli, sovente ci s’impantana al punto da non potersi più muovere.
E quelle zone che sembravano deserte, d’un tratto si animano di persone che sbucano da ogni angolo, si organizzano in breve tempo e rimettono la macchina in condizione di riprendere il viaggio. È uno dei volti della solidarietà africana, una dimostrazione che l’antica massima vale ancora: «Io sono, perché noi siamo». Non si contano i saluti, i complimenti e i ringraziamenti, anche se qualcuno afferma che non è conveniente ringraziare perché, come dicono soprattutto i musulmani, «chi ha una ricompensa in terra non l’avrà in paradiso».
Da Njombe – dove finisce la strada asfaltata – a Ikonda, per percorrere 70 chilometri impieghiamo più di tre ore. Fortunatamente da alcuni giorni non piove. Intoo a noi spazi immensi e verde… verde dappertutto: siamo nella stagione delle piogge. Le poche abitazioni che si scorgono sono in terra rossa e hanno il tetto di paglia, dal quale fuoriesce fumo. Il cibo è cotto in pentole appoggiate su tre pietre, che costituiscono il focolare, per terra, in mezzo all’abitazione «multiuso». E il cibo è tutti i giorni uguale: polenta e fagioli.
Lo stesso cibo ci viene offerto dai parenti degli ammalati nell’ospedale di Ikonda. Quando la struttura venne ultimata, fu chiesto ai capi dei wakinga e wabena (etnie locali) come dovesse essere l’ambiente affinché i degenti si sentissero più a loro agio. Risposta: una grande stanza aerata, dove ognuno posa le sue tre pietre, simbolo dell’unità familiare, sulle quali cuoce la solita farina di mais. È meglio non cambiare troppo le abitudini delle persone. Poi toeranno al loro villaggio…
Ogni tanto suor Magda porta ai bambini un uovo oppure, alle mamme, un po’ d’olio per condire le patate bollite quando ci sono. La malnutrizione non aiuta certamente la guarigione.
L’ospedale è gestito dai missionari della Consolata. Può ospitare 200 ammalati e vi lavorano tre medici africani e tre spagnoli. Attualmente è il governo spagnolo a fornire i fondi per il funzionamento della scuola-infermiere e per la formazione degli assistenti medici; ma il personale competente è insufficiente. L’organizzazione Medicus Mundi cerca costantemente volontari, e si può contare sulla presenza di persone disposte a spendere qualche anno della loro vita per gli altri.

Fra le malattie (che richiedono il ricovero in ospedale) nel 1995 al primo posto c’era la malaria, passata poi al secondo. Oggi è l’Aids che detiene il triste primato: lo è anche nella classifica dei decessi. Nell’ospedale abbiamo sfogliato il voluminoso registro dei pazienti che fanno il test dell’Hiv.
Il fatto che tante persone vi si sottopongono significa che hanno comportamenti a rischio, o che vivono in ambienti dove il contagio può essere frequente, oppure che manifestano già alcuni sintomi. Orbene: ogni pagina del registro reca 18 nomi; quelli scritti in rosso sono «sieropositivi»; solo due (a volte tre) i nomi in nero, cioè i «negativi».
Nella regione di Iringa-Njombe la trasmissione dell’Aids è particolarmente accentuata anche a causa del lavoro «offerto» dalla Brooke Bond, multinazionale del tè. Il lavoro si protrae per 11-12 ore al giorno, anche sotto la pioggia, per una paga mensile che varia da 90.000 a 150.000 lire, a seconda della quantità di foglie raccolte.
I lavoratori, immigrati stagionali per la raccolta, vivono nelle casette degli accampamenti costruiti dalla compagnia, isolati. Ovunque ci sono contadini che non lavorano «in proprio», costretti anche a comprare il cibo (per lo più proveniente dal campo del manager). Non essendoci alcun diversivo, sono facile preda dell’alcornol e della promiscuità.
All’ospedale di Kibao (della Brooke Bond) risulta che 9 operai su 10 sono affetti da Hiv positivo. Quando la malattia comincia a manifestarsi, viene loro corrisposta una piccola liquidazione e sono licenziati. Con l’aggravante che, non essendo stati informati della natura e della pericolosità del male, tornando al villaggio, contagiano chi vi è rimasto. La compagnia del tè ha pensato di risolvere il problema così: un’ora settimanale di istruzione sull’uso di profilattici e sull’importanza di anticoncezionali e abortivi. Nessun accenno viene fatto agli effetti collaterali che, usando i farmaci Depoprovera e Norplan, comportano rischi elevati. Non a caso, nel Nord del mondo, tali farmaci sono stati banditi. E non solo perché, con il passare del tempo, causano sterilità nelle donne.
Se nei centri sanitari governativi non fossero praticate regolarmente «certe» iniezioni, il paese non riceverebbe più gli aiuti dall’estero. E questo sistema sta distruggendo l’«orgoglio delle tanzaniane». Una donna, infatti, diventa tale solo dopo aver partorito il primo figlio: da quel momento sarà «la mamma di…». Col tempo, il ricorso sommario a contraccettivi distruggerà la fertilità di un’intera popolazione.
Inoltre negli ospedali governativi, al momento del parto, soprattutto se c’è stato un cesareo o in seguito a complicazioni, spesso sono i medici a decidere indiscriminatamente, senza chiedere il consenso di alcuno, di chiudere le tube delle giovani madri. Queste vengono a scoprirlo soltanto in seguito quando, vedendo che non arrivano altri figli, effettuano visite di controllo, magari negli ospedali dei missionari.
Una tanzaniana, confidandosi con una missionaria della Consolata, ha commentato: «Noi abbiamo molta più fiducia nei vostri ospedali, perché qui c’è il timore di Dio, mentre in quelli del governo c’è solo il timore della nazione».
Maria Rosa Lorini

Maria Rosa Lorini




Quando non si scherza

Amnesty inteational un rapporto-denuncia su 144 paesi

Non si scherza con i diritti umani, non solo nelle aree di conflitto, ma anche nelle operazioni di «peace keeping» e «peace building».
Secondo le Nazioni Unite, circa 200 milioni di persone nel mondo sono ridotte
in schiavitù, sfruttate in lavori infimi, abietti e pesanti;
e la tratta di esseri umani aumenta ad un tasso del 40-50% l’anno.
Se i governi credono nella giustizia, specialmente per le popolazioni povere,
non devono permettere che i soprusi abbiano il sopravvento.

PULIZIA ETNICA
O BOMBARDAMENTI?

Molte le popolazioni che nel 2000 hanno subìto repressioni. E non sono poche le nazioni in cui carcerazioni, torture e omicidi (soprattutto per motivi politici) sono stati commessi dai governi, per mantenere il loro potere. Si è così accentuato il divario tra «ricchi» e «poveri», innescando proteste sfociate in violenza.
È questa, in sintesi, l’introduzione al Rapporto annuale (2000) di Amnesty Inteational (A.I.). Si tratta del consueto appuntamento con 144 paesi e le preoccupazioni di milioni di persone che, ogni giorno, subiscono umiliazioni e abusi. Ecco invasioni e bombardamenti, che tentano una giustificazione proprio in nome dei diritti umani: giustificazione che è al centro di dibattiti sia tra i movimenti umanitari inteazionali sia tra gli esponenti delle Nazioni Unite.
Nel 1999 il dibattito si è concentrato soprattutto sugli interventi militari in Kosovo e Timor Est, giustificati per proteggere i civili dalle brutalità delle autorità politiche locali, e sul «silenzio» della comunità mondiale circa i bombardamenti russi in Cecenia.
«Noi riteniamo opportuno il dibattito – spiega Pierre Sané, segretario generale di Amnesty Inteational -, perché sono in gioco le vite e il futuro di milioni di persone. Ma, anche se siamo lieti per il dibattito, non accettiamo i termini in cui viene generalmente posto: invasione o non-azione non dovrebbero essere le uniche due opzioni possibili. La pulizia etnica o i bombardamenti: questa è una scelta che un attivista per i diritti umani non dovrebbe mai fare. Noi sosteniamo che le crisi dei diritti umani possono e debbono essere prevenute, poiché non sono assolutamente inevitabili».
Pur non respingendo l’uso della forza e affermando che la legge deve essere applicata, A.I. chiede ai governi di proteggere le persone dalle violazioni dei diritti umani e di consegnare i colpevoli alla giustizia.
Dalla Cina alla Russia
I governi che approvano l’intervento armato straniero in un paese lo fanno per motivi morali.
Pierre Sané ricorda che il presidente degli USA, Bill Clinton, ha giustificato i bombardamenti della Nato su Belgrado, perché il voltare le spalle alla pulizia etnica sarebbe stato «un disastro morale e strategico». Altri fautori degli interventi estei ricordano gli sviluppi della legislazione internazionale: per esempio, la Carta delle Nazioni Unite permette al Consiglio di Sicurezza di prendere misure coercitive, anche militari.
I governi contrari a questa tesi si basano sui principi di «sovranità nazionale» e di «non interferenza» negli affari interni di un paese. La Cina, ad esempio, si batte perché i diritti umani non siano sottoposti al controllo internazionale. «Noi – ha detto un portavoce del governo di Pechino in risposta alle critiche sullo scarso rispetto dei diritti umani – ci opponiamo a un tale atto di interferenza negli affari interni di un altro paese».
La Russia sostiene che i suoi bombardamenti sui civili in Cecenia sono un affare interno.
Sulla medesima posizione è Abdelaziz Bouteflika, presidente dell’Algeria e dell’Organizzazione dell’unità africana. Questi compara l’intervento internazionale all’irruzione nella casa del vicino, perché (si dice) che un bambino sia stato picchiato dai genitori. «Questa – ha affermato – sarebbe una grave violazione della libertà. Nuove teorie vengono tirate in ballo soltanto per privare i popoli e gli stati della loro sovranità internazionale».
Il dibattito è costante con l’obiettivo comune di reagire alle tragedie umane, quali gli omicidi di massa e le amputazioni in Sierra Leone, le uccisioni etniche in Afghanistan, le deportazioni nell’ex Jugoslavia o a Timor Est. «Per gli attivisti di Amnesty Inteational – sottolinea il segretario Sané – il dibattito è acceso dall’angoscia per le sofferenze dei paesi divisi da conflitti armati o dal collasso delle strutture di governo; ma soprattutto dalla frustrazione, perché le tecniche tradizionali di A. I. (che riguardano singole vittime) non sembrano essere efficaci in situazioni caotiche e di fronte ad abusi commessi su larga scala».
La guerra in Kosovo
Nel marzo 1999 nell’ex Jugoslavia la situazione dei diritti umani è degenerata in una crisi internazionale. La Nato ha condotto attacchi aerei contro obiettivi della Serbia, dopo il fallimento degli sforzi politici per porre fine al conflitto tra le forze governative e l’Esercito di liberazione del Kosovo. I bombardamenti della Nato hanno causato notevoli violazioni dei diritti umani: sono state allontanate circa 750 mila persone, con una marea di rifugiati a livello regionale, cui sono seguite uccisioni, sparizioni, torture e stupri verso donne albanesi.
I membri di A.I. si sono mobilitati in tutto il mondo: hanno reso pubblici i fatti; hanno chiesto ai governi di intervenire per porvi fine, di assicurare alla giustizia i colpevoli e di garantire protezione ai rifugiati; ma hanno anche espresso preoccupazione per la mancanza di misure, da parte della Nato, per ridurre le uccisioni di civili e la possibile violazione delle regole di guerra, nonostante che siano emerse numerose prove di abusi dei diritti umani in terra kosovara.
Timor est e indonesia
Alla fine di agosto 1999 il 98% dei timoresi orientali, aventi diritto di voto, l’ha esercitato nella consultazione promossa dalle Nazioni Unite per definire il futuro del territorio. Dal 1975, allorché l’Indonesia occupò illegalmente Timor Est, la popolazione ha dovuto affrontare una repressione brutale: almeno un terzo degli abitanti è stato eliminato.
In seguito all’aumento della violenza, A.I. ha mobilitato il suo milione di membri per esercitare pressioni sulle autorità indonesiane. I governi hanno bloccato il commercio di armi, l’addestramento militare e, nel settembre 1999, le Nazioni Unite hanno dispiegato una forza multinazionale guidata dall’Australia. Allorché le truppe sono arrivate – si legge nel Rapporto di A.I. -, la maggior parte dei timoresi era già fuggita o era stata espulsa con la forza; al loro ritorno i rifugiati hanno dovuto affrontare la distruzione del tessuto sociale e delle infrastrutture essenziali.
A.I. si è prodigata per combattere l’impunità, sostenendo i difensori dei diritti umani di Timor Est e foendo protezione ai rifugiati, criticando pubblicamente il ritardo nello spiegamento di truppe da parte della Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite.

IL CASO PINOCHET
In Cile i parenti dei desaparecidos per via extragiudiziaria, durante il governo militare del generale Augusto Pinochet, attendono ancora di sapere cosa è successo ai loro cari. Anche migliaia di individui, vittime di arresti arbitrari, torture ed esilio, aspettano di ottenere giustizia, mentre resta impunita la maggior parte di coloro che, approfittando del ruolo rivestito nell’apparato statale cileno, hanno ordinato e compiuto violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990.
È ancora nella memoria di molti quell’11 settembre del 1973, quando il generale Pinochet guidò un sanguinoso colpo di stato e la sua giunta militare si distinse nella repressione: le garanzie costituzionali vennero sospese, il parlamento fu sciolto e in tutto il paese fu dichiarato lo stato d’assedio. La tortura fu sistematica e le «sparizioni» una pratica ufficiale.
Nel novembre 1974 A.I. pubblicò il primo rapporto sulle gravi violazioni dei diritti umani in Cile e, in seguito, produsse altre centinaia di documenti e appelli in favore delle vittime, appoggiando la battaglia delle famiglie dei desaparecidos nella ricerca della verità e giustizia. Il destino della maggior parte di essi resta sconosciuto; però esistono prove secondo le quali gli «scomparsi» sono stati vittime di un programma governativo, teso ad eliminare tutti i potenziali oppositori.
La lotta all’impunità di Pinochet è iniziata nel luglio 1996, con la presentazione al tribunale spagnolo delle prime denunce, sino ad arrivare al dicembre 1999, quando due giudici dell’Alta Corte hanno fissato al marzo 2000 l’udienza per l’appello del militare cileno contro la sentenza del giudice Bartle. Oggi il generale è in Cile in attesa di giudizio.
bambini-soldato
Quasi tutti i governi non hanno mantenuto le promesse di protezione speciale per i bambini. In tutto il mondo i minori non solo continuano a subire molti degli stessi abusi patiti dagli adulti, ma sono anche vittime di particolari infamie, perché più vulnerabili e dipendenti da altri.
Esistono oltre 300 mila ragazzi, sotto i 18 anni, che fanno la guerra: di questi oltre 120 mila sono coinvolti nei numerosi conflitti in Africa.
Inoltre, secondo stime dell’Onu, superano i due milioni i bambini oggetto di abusi sessuali, per un giro d’affari di oltre 5 miliardi di dollari: il solo mercato delle cassette poografiche frutta oltre 280 milioni di dollari. A.I. ha partecipato a iniziative nazionali e inteazionali, come la Conferenza panafricana sull’impiego dei bambini-soldato, nel corso della quale è stato previsto un Protocollo opzionale che elevi l’età minima per un soldato a 18 anni. La campagna di A.I. sui diritti dei bambini si è attivata con lo slogan «Diritti dei bambini: il futuro inizia qui», dando risalto al concetto che i diritti dei bambini sono una pietra miliare per costruire una solida cultura di pace per le generazioni future.
donne: «delitti di onore»
I diritti delle donne sono centrali nell’azione di A.I., che ha lanciato campagne contro le violazioni dei diritti femminili in Stati Uniti, Pakistan e Brasile.
Milioni di donne in Pakistan, ad esempio, sono limitate dalla tradizione, che le confina nella segregazione e sottomissione al maschio. Gli uomini «possiedono» le parenti femmine e puniscono le loro trasgressioni con la violenza. Quando le donne rivendicano i propri diritti, per quanto minimi, la reazione è dura e immediata. Così i «delitti d’onore» sono aumentati, ma anche la crescente consapevolezza delle donne. Tuttavia sono molti i casi che restano sconosciuti e quasi tutti impuniti.
Non meno drammatico è il problema delle donne in carcere. Il relativamente contenuto numero di detenute rivela che i penitenziari femminili sono talvolta improvvisati e inadeguati. In Brasile le celle presso le stazioni di polizia sono affollate all’inverosimile: e, sebbene sia la legge carceraria sia la costituzione stabiliscano che alle detenute siano garantite agevolazioni, per prendersi cura dei figli piccoli e per mantenere contatti regolari con quelli più grandi, tali diritti sono spesso negati con disprezzo. Per non parlare dei servizi sanitari: per le detenute in carcere sono inadeguati, mentre non esistono affatto per le donne trattenute in stazioni di polizia.
La campagna di A.I. contro i «delitti d’onore» in Pakistan evidenzia, soprattutto, la responsabilità dello stato nella mancata tutela delle donne; nello stesso tempo A.I. auspica nuove leggi inteazionali che obblighino gli stati a prevenire, indagare e punire gli atti di violenza contro le donne. Circa il Brasile, A.I. condanna la situazione delle prigioni, ma fornisce anche raccomandazioni costruttive alle iniziative di riforma carceraria nel paese.

Questi sono alcuni casi di violazioni dei diritti umani nel mondo. Ma il Rapporto di Amnesty Inteational 2000 (un volume di 648 pagine) esamina 144 nazioni, documentando la situazione di ognuna: geografia, capo di stato e governo, popolazione, lingua ufficiale, esistenza o meno della pena di morte o altre pene restrittive… E c’è da riflettere.

Eesto Bodini




Sì, no… tra verità e preconcetti

QUASI UN TORRENTE

I l numero sul Brasile è documentato, arricchente, completo. Ma su alcuni punti non mi trovo d’accordo.
n Sètte. Si diffondono in maniera impressionante per il bisogno di soprannaturale, unito all’ignoranza religiosa. Ma il criterio per valutare la loro ortodossia sta solo nel mancato impegno sociale o nell’allontanarsi dalla verità integrale? Non mi piace la frase di padre Fidéle: «Una religione non deve essere alienante. (Bisogna) liberare la gente dalla povertà e miseria». No! La religione deve rivelare Cristo morto e risorto, figlio del Padre, colui che per mezzo dello Spirito ci rivela la verità, il senso del nostro vivere e morire. La liberazione materiale, giusta e necessaria, è una conseguenza dell’annuncio. Attenti a non trasformare la chiesa in una organizzazione socio-umanitaria-rivoluzionaria!
n Cattolicesimo romano. Non mi piace quando se ne parla come di una realtà da cui liberarsi per vivere la vera, genuina e unica spiritualità. Le manifestazioni di religiosità (diverse quante le culture in cui Cristo si manifesta) hanno tutte pari dignità, se restano circoscritte dagli argini dell’ortodossia. È fuorviante contrapporre le une alle altre. Ognuna è valida ed insostituibile nel suo contesto.
n Belle le comunità di base, che rompono schemi, si cimentano con la Bibbia, si alimentano della Parola che giudica la vita. Attenti, però! Se non rettamente guidate da chi ne ha autorità e preparazione, rischiano di cadere in interpretazioni contrarie all’insegnamento ufficiale della chiesa, di finire tra le sètte nate da una interpretazione troppo libera della bibbia.
n Religiosità popolare. Non mi è piaciuto il presentarla come creativa e libera, a cui i retrogradi del Vaticano hanno affiancato i missionari che enfatizzano i sacramenti, «perché sono loro a distribuirli». Scherziamo? Che religione cattolica è mai quella senza sacerdoti e sacramenti? È protestantesimo. I sacramenti sono «canali di grazia» e sono stati istituiti da Gesù Cristo per la nostra salvezza. Solo restando uniti alla chiesa e al papa si evita di cadere in eresie. Quanto sia importante l’unione al pontefice l’hanno capito gli uniati dell’Ucraina e i martiri cinesi.
n Il trafiletto sulla teologia della liberazione è mistificante. Perché non avete pubblicato le pagine di quel signore che insegna teologia a Città del Messico e parla di religione come immaginario collettivo, di Gesù Cristo rivoluzionario liberatore dei poveri? Di fronte a tali deviazioni, la chiesa giustamente ha preso posizione.
n La lunga inchiesta sui riti afrobrasiliani è utile per capire una larga fascia di popolazioni. Ciò che non accetto è il presentare i riti come una religione altrettanto vera come il cattolicesimo ufficiale, anzi migliore. Certo, dovremmo imparare la cordialità, l’accoglienza e l’attenzione alla psicologia. Ma che religione è mai quella, ripiegata sui recessi dell’animo umano, aperta alle influenze di «divinità» che vengono presentate come veramente esistenti? Quale tipo di consolazione possono offrire, svincolate da una speranza ultraterrena? Per sopportare la sofferenza, la gente ha bisogno di un senso che trova solo in Cristo. La dichiarazione Dominus Iesus puntualizza, nel rispetto delle altre forme di religiosità, che Cristo è e resta la verità e la salvezza. Anche questa è una prevaricazione del «cattolicesimo romano»?
Queste pagine mi hanno causato sconcerto e sofferenza. Quanti errori possono causare!
Giulia Guerci – Castellazzo (AL)

P. S. Mi associo a Giulia. Particolarmente sollecito un pensare ed agire in armonia con l’insegnamento della chiesa e del papa. In lui sono evidenti la santità e l’azione dello Spirito Santo, che sostiene vigorosamente la sua fragilità fisica.
Francesco Zucca

Di fronte a questi interventi, il lettore (che non conosce le 132 pagine dello «speciale» sul Brasile) può chiedersi stupito: «Ma che cosa ha pubblicato Missioni Consolata da suscitare reazioni così forti?». Ebbene la nostra rivista:
– non mette in discussione Gesù Cristo morto e risorto, né si oppone al magistero della chiesa;
– non contiene le espressioni «retrogradi del Vaticano» e «prevaricazione del cattolicesimo romano»;
– non presenta i riti afrobrasiliani «come una religione altrettanto vera come il cattolicesimo ufficiale, anzi migliore».
La verità evangelica non è un dato astratto da imparare e salvaguardare. È una Persona da amare. E, con Gesù Cristo, vivere tutte le beatitudini.

RESISTERE

L o «speciale Brasile» è una miniera di informazioni. Complimenti e grazie per l’impegnativo lavoro che portate avanti. Con Missione Oggi, Mani Tese, Nigrizia e Adista, ci offrite informazioni di qualità. Basta leggere! Tempo e stanchezze permettendo.
Aiutiamoci a resistere…
Anna Xausa – Zugliano (VI)

«Non adattatevi alla mentalità di questo mondo, ma lasciatevi trasformare da Dio con un completo mutamento della mente» (Rom 12, 2).

IL PRECONCETTO

S iamo stupiti ogni volta che il preconcetto parte da affermazioni contraddette dalla realtà.
Poiché nostro Signore ci ha dato, oltre al cuore, soprattutto la ragione, applichiamola al problema demografico. È evidente che nel terzo mondo c’è un intreccio perverso tra sottosviluppo e numero di figli: è molto semplicistico affermare che è solo colpa del mondo civile la triste condizione degli abitanti poveri del Brasile. Le centinaia di migliaia di bambini abbandonati, lo sono perché adulti irresponsabili mettono al mondo 8, 10, 12 figli, senza preoccuparsi di come vivranno, se avranno la possibilità non dico di educarli, ma di nutrirli!
Saremmo d’altronde anche noi, ricchi abitanti d’Europa, in grave difficoltà se avessimo tutti quei figli! Affermare che la campagna contraccettiva è sbagliata significa non avere minimamente il senso della realtà.
Susanna Mondino – Torino

La contraccezione è la soluzione del problema dei ragazzi di strada in Brasile? Nel 1991, come riconobbe l’Istituto brasiliano di statistica, almeno il 45% delle brasiliane tra i 14 e 45 anni era già stato sottoposto a sterilizzazione. In tale caso, chi si oppone alla campagna contraccettiva non ha… «minimamente il senso della realtà»?

UNA PENSIONATA

H o in mente l’esperienza di suor Elena, alla periferia di Manaus, descritta da padre Paulo Gomes su Missioni Consolata di ottobre-novembre 2000, interamente dedicato al Brasile. Si parla anche di due genitori in cerca di cibo, mentre la loro figlia di sette anni cura i quattro fratellini più piccoli.
Sono una pensionata con 700 mila lire mensili. Vorrei devolvere ogni mese 50 mila lire a questi piccoli. Potrebbe essere loro di aiuto? È poca cosa. Ma è meglio di niente.
E poi, chissà, che qualche altro pensionato non sia invogliato a seguire il mio povero esempio e, insieme ad altri, adottare una famiglia bisognosa per aiutarla a crescere i propri figli in condizioni più umane.
Paola Mari – Firenze

Una lettera che ci ha mandati in crisi. Grazie, signora Paola. Grazie ai pensionati che seguono già il suo esempio.

aa.vv.




Dal 1901 al…

All’alba del terzo millennio alcuni missionari della Consolata hanno scritto a Gesù bambino: «Signore, quando toerai sulla terra,
non andare in Brasile, perché dovresti raccogliere canna da zucchero ed avresti le mani sanguinanti per i fusti spigolosi.
Evita il Bangladesh: finiresti nelle fabbriche di mattoni e le tue piccole spalle sarebbero ferite, prima ancora di portare la croce. Sta’ alla larga dai negrieri schiavisti del Sudan, perché ti venderebbero subito per 30 denari. Non varcare nemmeno le frontiere del Pakistan: ti metterebbero a cucire palloni da football, senza mai farti vedere una partita. E il Congo? Non andarci, Gesù, perché dovresti fare la guerra non con soldatini di cartapesta, ma con pallottole ad uranio, le stesse usate dalla Nato in Kosovo…».

E cco alcuni drammi che i coetanei del piccolo Gesù hanno vissuto da protagonisti negli ultimi anni. Per non parlare degli abusi sessuali, delle mine che hanno interrotto per sempre i loro giochi sui prati, dei foi crematori che li hanno ridotti in fumo nauseante.
È successo molto altro ancora nel secolo passato. Secondo il politologo Eric Hobsbawm, è stato «il secolo breve», iniziato nel 1914 (con «la grande guerra») e terminato nel 1991 (con il disfacimento dell’Unione Sovietica). Un secolo breve, e però è stata «l’epoca più violenta della storia dell’umanità».
È saggio, allora, augurarsi
«cento di questi anni»?
N ati nel 1901, i missionari della Consolata compiono 100 anni. Questo numero «straordinario» della rivista verte su di loro. Ma non è tutta la loro storia: perché, se alcuni sono stati «pionieri», «generosi», «illustrissimi», «infaticabili» e «martiri», altri invece…
E poi, se di storia si trattasse, troppo vistose (e ingiuste) sarebbero le lacune.
«Cento di questi anni»
è un sentito grazie al Signore e alla Consolata per il bene che hanno fatto nell’arco di un secolo. Si possono contare le magnalia Dei, cioè le meraviglie di Dio; però, quando ci si vanta dei «successi dell’uomo», si cade in meschinità, ossia nel peccato. In tale senso, «cento di questi anni» non sono certo da augurare.

L a lettera dei missionari a Gesù bambino termina: «Signore, è giusto che andiamo noi nel sud del mondo. Tu, intanto, resta a casa nostra. Qui starai al sicuro, vedrai!…».
E avete «visto» anche voi, cari amici e benefattori dei missionari della Consolata. Avete visto e valutato. Grazie della vostra comprensione, del vostro perdono. Grazie della generosità, che dura da un secolo. È anche contando su di voi che ci auguriamo «cento di questi anni».
Per una maggiore consolazione in un mondo inquinato, violento ed ingiusto, a scapito specialmente dei «piccoli». Eppure il beato Giuseppe Allamano ama la gente di questo pianeta.
p. Gottardo Pasqualetti,
Superiore dei missionari della Consolata in Italia

Gottardo Pasqualetti




SOECIALE 100 ANNI – Arrivano nuove caravelle

Terra di contrasti stridenti: «favelas»
e grattacieli, dittature e democrazie, denunce
e omertà, guerra e pace, bianchi e neri,
indios e… Però l’America Latina
è anche un laboratorio missionario straordinario: alimenta grandi speranze,
specie dopo il Concilio ecumenico Vaticano II.
Accoglie i missionari della Consolata
e… ricambia il favore donando i propri figli
ai continenti più bisognosi.

I missionari della Consolata annunciano il vangelo anche in America Latina. Al loro arrivo, dopo la seconda guerra mondiale, il continente non presenta i tratti tipici della missione ad gentes: infatti, sino dalle caravelle della colonizzazione spagnola e portoghese, i paesi latinoamericani hanno raggiunto lo status di «chiesa autonoma» con vescovi, sacerdoti e istituzioni religiose locali.
I missionari delle «nuove caravelle» non trovano situazioni simili a quelle incontrate, per esempio, fra gli oromo dell’Etiopia o i wahehe del Tanzania. Pertanto lo scopo principale nel Nuovo Mondo non è la prima evangelizzazione, bensì di inserirsi nelle strutture ecclesiali esistenti; intanto formano missionari locali ad gentes e acquisiscono aiuti per le regioni più bisognose.
Tuttavia la «Consolata» in America Latina raggiunge anche territori eminentemente missionari: in Brasile gli indios macuxí e yanomami, in Argentina gli aborigeni tobas, in Colombia quelli nasa, in Ecuador i quichua, in Venezuela i guajiros e yequana. È la scelta dei più poveri tra i poveri, mentre soffia il vento di rinnovamento del Concilio ecumenico Vaticano II.
Inoltre la «Consolata» entra nelle baraccopoli delle metropoli o nelle regioni degli afroamericani, discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. I problemi sono drammatici.
L’articolo si sofferma su alcune situazioni missionarie in Brasile, Argentina e Colombia.

Brasile:
La scelta degli indios
È la prima nazione dell’America Latina a ricevere i missionari della Consolata nel 1937. Il paese appare loro (e ai successori) una soluzione transitoria, in attesa di trovare qualche altra missione sullo stile africano. L’Istituto è qui perché ha bisogno di vocazioni e mezzi per sostenere altrove la sua vasta e complessa attività. Nessuno crede che l’ultima sponda della missione sia l’abbastanza prospero sud del Brasile, fra le piantagioni di caffè. Tuttavia dagli stati di Paraná, Santa Catarina, Rio Grande do Sul, grazie all’animazione missionaria, sono sorti annunciatori del vangelo brasiliani, oggi in azione in diversi continenti…
L’interrogativo è: esiste nel paese maior do mundo un territorio che richiami le missioni d’Africa? Ed ecco la regione di Roraima, altamente di missione. I padri della Consolata vi mettono piede nel 1948.
Il territorio, da tempi immemorabili patria degli indios, agli inizi degli anni ’50 si presenta quasi come esclusiva proprietà dei bianchi: questi occupano vaste fattorie, dove gli indigeni sono costretti a vivere come residenti abusivi e in stato di servitù. È una situazione di ingiustizia insostenibile, specialmente alla luce del Concilio Vaticano II.
I missionari, sorretti dalla scelta evangelica dei poveri, fanno causa comune con gli indios macuxí, wapichana, ingarikó e taurepang. E, per la prima volta dalla conquista portoghese del 1500, l’indio al cospetto del bianco incomincia a non chinare più la testa sottomessa, ma a fronte alta risponde «nossignore!».
Inizia una grande battaglia per la salvaguardia dell’identità culturale indigena e la riappropriazione delle terre contro il potere anche politico locale. È in tale contesto che viene lanciata la Campagna mondiale «Una mucca per l’indio», sottoscritta pure da tanti lettori di Missioni Consolata.
L’11 dicembre 1998 il Ministero della giustizia del Brasile decreta la demarcazione dell’area indigena Raposa-Serra do Sol, ma non arresta i latifondisti bianchi: costoro, forti dell’appoggio di alcuni politici di Roraima, sono disposti a difendere le loro pretese sul territorio anche con la violenza.
I missionari «scelgono» poi i yanomami, che vivono allo stato tradizionale (fermi a circa 12 mila anni fa) e rischiano il genocidio-etnocidio. Figli della foresta amazzonica, «il polmone del mondo», gli indios sono esposti alle malattie dei bianchi che ne invadono il territorio per cercare oro e legname prezioso. Tra lotte incessanti nasce il «parco dei yanomami». Il governo brasiliano riconosce agli indios il diritto alla proprietà e a vivere sulla propria terra. Ma la vittoria è tutt’altro che certa.
Non c’è promozione umana senza scuola. Ma l’alfabetizzazione dei yanomami è problematica. Una missionaria laica e tre padri, nel 1990, iniziano nel Catrimani una educazione scolastica speciale. Cosciente che la scuola nelle aree indigene è stata uno strumento di dominazione e distruzione culturale, l’équipe opta per un insegnamento slegato dal sistema statale e incarnato nella cultura locale. È un’alfabetizzazione etnologica, bilingue (yanomami e portoghese), biculturale, globale.
E l’evangelizzazione? «I yanomami – scrivono Guglielmo Damioli e Giovanni Saffirio – sono ancora un popolo neolitico (in gran parte illetterato) di cacciatori, raccoglitori e orticoltori, la cui storia evolve verso “la pienezza dei tempi” (plenitudo temporum): condizione necessaria per la scoperta e comprensione del messaggio cristiano».
Il missionario «sia coerente con le proprie convinzioni religiose – afferma l’enciclica Redemptoris missio, 56 – e aperto a comprendere quelle dell’altro, senza chiusure e dissimulazioni, ma con verità, umiltà, lealtà, sapendo che il dialogo può arricchire ognuno».
Ebbene i missionari della Consolata evitano ogni manipolazione della vita yanomami. Fin dal loro primo contatto, adottano semplici regole di convivenza, ma suggeriscono mutamenti culturali con la pratica palese e specifica di valori cristiani: il perdono, la valorizzazione di tutte le forme di vita, la generosità con tutti, le cure mediche tradizionali e allopatiche, l’istruzione, senza chiedere compensi o adesione alla fede cristiana (1).

(1) L’attenzione agli indios dei missionari si esprime anche attraverso importanti pubblicazioni:
– Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apiaù, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1967; Massacre, Cimi, São Paulo 1998;
– Guglielmo Damioli – Giovanni Saffirio, Yanomami, Il Capitello, Torino 1996;
– John Saffirio, Ideal and kinship terminology among the Yanomama Indians of the Catrimani river (Brazil), University of Pittsburg, 1985 (tesi di laurea).

Argentina:
«descamisados»
e «desaparecidos»

Il generale Juan Perón è progressista, radicale, anticlericale. Grazie al favore dei descamisados (scamiciati), nel 1946 vince le elezioni in Argentina. È una vittoria contro la borghesia e inaugura una dittatura a larga base popolare, che governa il paese secondo la dottrina del justicialismo. Ma Perón, a modo suo, protegge i lavoratori attraverso il populismo e il dirigismo economico. Quanto basta per attirargli le simpatie delle masse, alienandole dalla chiesa.
Non è facile per i missionari della Consolata operare in Argentina dal 1947 (anno del loro arrivo) durante il peronismo. Un cattolicesimo nazionalista contende il potere a stato e chiesa, mentre i capi politici e religiosi si fronteggiano, con pari acredine, per accaparrarsi il favore del popolo e trascinarlo dalla loro parte.
Però è lo stesso Perón che sollecita i missionari a recarsi nella disagiata regione del Chaco… per risolvere il problema degli indios tobas. L’iniziativa è meritevole. D’altra parte che cosa aspettarsi da un presidente, se non di riparare le ingiustizie accumulate in secoli di colonialismo spagnolo? Ma si rivela propaganda politica.
Infatti, dalla seconda metà del XIX secolo, con la colonizzazione intea e l’impulso all’immigrazione, migliaia e migliaia di aborigeni sono ridotti a poche centinaia, intruppati in riserve (colonias) per coltivare cotone, allevare bestiame o disboscare la foresta. Inoltre, a causa dei loro continui spostamenti, è impossibile per i missionari instaurare un dialogo e sviluppare progetti di promozione umana.
Passato il fugace e illusorio idillio tra peronismo e chiesa argentina, le due società si fronteggiano in campo aperto mettendo in atto le rispettive forze: Peròn i suoi giovani, la sua milizia, le manifestazioni di piazza, le leggi contro la libertà religiosa nelle scuole… la chiesa incoraggiando l’Azione Cattolica, il clero e i fedeli a resistere con coraggio a violenze, arresti e soprusi.
È un braccio di ferro tra due diverse visioni del mondo, destinato a risolversi nel 1955 in un golpe militare, appoggiato da larghi settori del clero e dell’episcopato, da notabili e militanti cattolici.
I missionari della Consolata vivono quei giorni di tensione accanto alle loro comunità parrocchiali. C’è anche chi paga di persona: padre Carlo Motta, nel natale 1955, viene malmenato da un gruppo di scalmanati; padre Ruggero Angheben finisce momentaneamente in carcere; i padri Guido Guerra e Armando Cecconi sono tenuti sotto sorveglianza. Tutti devono ricordare di essere stranieri in terra straniera.
La dottrina sociale della chiesa universale a favore dei diritti umani, scaturita dal Concilio Vaticano II e dalle Conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam), per ovvie ragioni non ha ripercussioni immediate nell’ambiente ecclesiale locale. Tuttavia, al tramonto delle dittature, trova terreno fertile nei Sacerdotes del Tercer Mundo, nella nuova Riflessione teologica sullo sviluppo e nelle Madri di Plaza de Mayo, che recriminano per i «soppressi» dalla dittatura (desaparecidos).
Sul versante politico, la fine della demagogia inaugura un corso che si dibatte tra giunte (risolute a frenare ogni infiltrazione comunista) e governi che tentano di instaurare la democrazia. Il paese è irrequieto, e anche la chiesa lo è, specialmente in alcune sue frange peroniste e di sinistra.
Morto Perón nel 1974, gli succede la moglie Isabelita, travolta nel marzo 1976 dal golpe militare di Jorge Rafael Videla, che ripristina la pena di morte contro i terroristi.
In tale contesto si inserisce l’arresto di padre Gianfranco Testa e la sua drammatica detenzione nei penitenziari del regime (vedi l’inserto «56 mesi nelle galere…»).
Però la missione in Argentina resiste, nella fedeltà alla chiesa locale e all’Istituto, anche se in condizioni sfavorevoli:
1/ un elemento perverso frena la popolazione e, di conseguenza, anche i missionari: è il sistema poliziesco che governa per lunghi anni con la paura, la censura, i desaparecidos, le esecuzioni sommarie, il carcere duro, i controlli capillari, la guerra per le isole Malvinas;
2/ la mancanza di informazione fa erroneamente credere che il paese, già meta di numerosi emigrati italiani in cerca di benessere, sia prospero; ne fanno le spese anche i missionari.
A partire dal 1984, con il faticoso ritorno alla democrazia, i missionari operano in condizioni sociali più favorevoli. Uno dei loro fiori all’occhiello è l’azione fra gli indios tobas.

Colombia: nel vortice
della violenza
«Violencia». È, purtroppo, una delle prime realtà che i missionari della Consolata scoprono giungendo in Colombia nel 1947.
Nelle elezioni presidenziali dell’anno precedente, il leader demagogo Jorge Gaitán viene sconfitto e, nel 1948, addirittura ucciso. Esplode la guerra civile tra liberali e conservatori, passata alla storia appunto come «la violencia».
Il fenomeno divampa per un decennio (1948-57): causa 300 mila morti, l’esodo di 2 milioni di contadini disperati verso le città, con il conseguente sovraffollamento e povertà di periferie (serbatorni dell’attuale criminalità); scatena guerriglie; traumatizza la coscienza del popolo; consolida la mentalità del conflitto come meccanismo di funzionamento della società.
Siamo negli anni ’50. Ma sembra la fotocopia della Colombia odiea, il paese più violento del mondo, che conta 25-30 mila morti ammazzati all’anno…
Però la Colombia vanta pure una lunga tradizione cristiana, dai connotati spagnoleschi, dal culto popolare e dall’arte ridondante. I missionari sono qui «per dare una mano», perché la comunità ecclesiale si sta espandendo senza un numero sufficiente di sacerdoti.
Che la chiesa abbia bisogno di aiuto è lampante. Secondo José Luis Sea, missionario della Consolata colombiano, nel 1964 sulle spalle di ogni sacerdote di campagna grava la responsabilità di circa 8 mila persone: e, fatto ancora più sintomatico, il 51 per cento dei preti che lavorano in missione sono stranieri. Grave è pure la situazione nelle aree urbane.
L’incontro tra i missionari e le parrocchie urbane e rurali comporta un reciproco vantaggio: l’Istituto attinge alle fonti di una pastorale creativa e popolare; la chiesa locale si avvantaggia di una mens missionaria aperta a tutte le culture.
Negli anni ’80 alcuni missionari si avventurano verso regioni più complesse, di «frontiera». Spiccano alcuni padri che piantano le tende tra i campesinos della Cundinamarca, a 40 chilometri da Bogotà, facendo di Tocaima il centro d’interesse: si dedicano ad un progetto basato sull’insegnamento sociale della chiesa: è la Promociòn integral de comunidades rurales. L’obiettivo è di creare in ogni centro rurale le condizioni per una promozione integrale dei contadini, diventati vittime del latifondo e delle monocolture per l’esportazione…
Dopo 15 anni di lavoro nel popoloso quartiere di Blaz de Lezo, nella diocesi di Cartagena de las Indias, i missionari si concentrano sul mondo indigeno e afro della Bahia, lungo la costa atlantica, ricettacolo di popolazioni meticce, forgiate nell’altofoo della schiavitù e messe alla prova da una povertà endemica. Così, dal piccolo centro di Pasacaballos, nel 1983 parte la missione tra i morenos: una missione da inventare e un popolo da scoprire. Nel 1988 sorgono altre due missioni: El Cabrero e Marialabaja (1)…
Quando lo stato non crea posti di lavoro, la popolazione è costretta ad arrangiarsi, spesso emigrando. Allora in Colombia si assiste ad una emigrazione intea che vede migliaia di persone riversarsi verso il Caquetà, nell’Amazzonia. Oltre che dalla mancanza di lavoro, il fenomeno è originato dal bisogno di fuggire dalla guerriglia e dai paramilitari. Dalla violencia, insomma.
Un milione e mezzo di ettari di alberi sono presto abbattuti (siamo in Amazzonia!) per coltivare coca, che nell’arco di 24 ore diventa cocaina: e alimenta il narcotraffico mondiale, procura facile ricchezza ai campesinos, ma li espone alle frequenti incursioni della guerriglia e alle spietate repressioni delle forze governative. Il numero delle vittime non si conta. Però nessuna proposta sociale, capace di dare alla gente una nuova prospettiva di sopravvivenza – denuncia padre Giacinto Franzoi – accompagna l’intervento militare.
La convinzione che, con i dispositivi militari di grandi proporzioni, si possa superare il problema «coca» una volta per sempre è illusoria. A questo quadro, già sconfortante, padre Giuseppe Svanera aggiunge gli effetti degradanti che il commercio della «polvere bianca» produce nelle popolazioni: perdita dei valori umani, caduta del senso religioso, sfiducia, malasanità, corruzione, prostituzione, analfabetismo. Solo l’8% dei ragazzi termina il ciclo delle elementari, e il 60% della popolazione in età scolare non varcherà mai la porta di una scuola.
Dopo aver toccato il fondo, ci si accorge che ogni illusione è crollata e che è urgente trovare una via di uscita: dai gruppi pastorali allargati delle missioni di Solano e Remolino, nel vicariato di san Vicente-Puerto Leguízamo, affiora la volontà di sostituire la coltivazione della coca con altre colture, meno vantaggiose economicamente, ma più sicure socialmente: caucciù, cacao. Il progetto è affascinante, ma non facile.
Nel 1995 il vicariato lancia pure una «pastorale sociale». Il problema di fondo è quello di battere la «narcoscienza», cioè non cadere nella trappola del soldo facile e immediato che la coca assicura. Ai cocaleros (che sono tali perché senza alternative di lavoro), la chiesa propone di convivere con la «loro» Amazzonia, valorizzandola: utilizzare la fauna terrestre e acquatica, la flora fruttifera e medicinale. E commercializzare il tutto. Un’impresa da giganti.
Afferma il cardinale Ersilio Tonini: «La Campagna “Non di sola coca” dei missionari della Consolata e i progetti che essa presenta sembrano piccola cosa di fronte all’immensità del problema; ma il loro significato è molto vasto, più vasto della Colombia e dell’America Latina».

N on si può concludere questo rapido (ed incompleto) excursus sulla presenza della «Consolata» in America Latina senza, almeno, ricordare i suoi missionari locali. Sono 151, fra cui quattro vescovi: José L. Sea, Luis A. Castro e Francisco J. Munera, della Colombia, nonché Walmir A. Valle, del Brasile.
Alcuni padri, fratelli e suore della Consolata, divenendo missionari al di là delle loro frontiere nazionali, hanno saputo «dare dalla loro povertà», ricambiando così il «favore» ricevuto dai missionari europei delle prime caravelle.
Ad esempio: i brasiliani Elio Rama e Luiz Emer, rispettivamente in Mozambico e Corea del Sud; Alonso Alvares nella repubblica democratica del Congo e Armando Olaya in Costa d’Avorio, entrambi colombiani. Senza scordare padre Oscar Goapper, argentino, schiantato dalla fatica nel suo ospedale di Neisu nel Congo in guerra.

(1) Padre Vincenzo Pellegrino ha approfondito i problemi degli afro-colombiani della costa atlantica nel volume La campana di Balbino, Emi, Bologna 1999.

Francesco Beardi




SPECIALE 100 ANNI – Ieri e sempre…

PIONIERI

INOSSIDABILE
mons. Filippo Perlo (1873-1948)

Partito col primo drappello di quattro missionari destinati al Kenya, alle dipendenze dei padri dello Spirito Santo, padre Filippo Perlo raggiunse Tuthu, villaggio del capo kikuyu Karuri, la sera del 28 giugno 1902.
Superiore del gruppo l’Allamano aveva scelto padre Tommaso Gays; ma il capo naturale e motore trainante risultava a tutti Filippo Perlo: l’anno seguente fu nominato superiore.
Intelligente e pratico, lavoratore instancabile, salute di ferro, era nato per comandare. L’esperienza militare l’aveva formato a quel tipo di autorità che dà ordini senza troppe spiegazioni ed esige obbedienza assoluta. Per la profonda conoscenza del territorio, acquisita con numerosi e difficili viaggi, i suoi giudizi sul lavoro e scelte da fare erano spesso insindacabili; nel suo frenetico dinamismo indicava la strada e la percorreva per primo. Tutte le incipienti missioni del territorio affidato all’Istituto portano l’impronta della sua fatica, ispirazione e propulsione.
Sapeva servirsi delle autorità locali e coloniali senza lasciarsi condizionare; con intelligenza, diplomazia e qualche sotterfugio, riusciva a ottenere il massimo e concedere l’indispensabile.

Sognava una rete di missioni, distanti una giornata di cammino una dall’altra, entro cui abbracciare tutta la regione dei kikuyu per evangelizzarla e impedie l’accesso ai protestanti. Da qui la sua strategia: «occupare» i punti nevralgici, con strutture ridotte all’osso, da cui partire per la penetrazione capillare nel territorio. A un anno e mezzo dall’arrivo in Kenya erano nate sette missioni, un collegio per catechisti, una segheria e una fattoria agricolo-pastorizia in embrione.
All’inizio del 1904 i missionari si radunarono a Fort Hall (oggi Murang’a) e gettarono le basi del loro metodo di apostolato: formazione d’ambiente, cura dei malati, visite giornaliere ai villaggi, scuole, soprattutto di arti e mestieri, formazione di catechisti. Principi e regole diventate punto di riferimento fino ai nostri giorni.
Nel progetto iniziale dell’Allamano, l’impresa missionaria in Kenya doveva servire come prova temporanea, in attesa di spostarsi tra gli oromo (galla) dell’Etiopia. Ma padre Perlo convinse l’Allamano a chiedere a Propaganda fide di separare il territorio kenyano dal vicariato apostolico di Zanzibar e affidarlo ai missionari della Consolata. Il 14 settembre 1905, con grande disappunto dei padri dello Spirito Santo, fu creata la missione indipendente del Kenya e quattro anni dopo fu eretta a vicariato: padre Perlo fu nominato vicario e consacrato vescovo.

Il consolidamento del lavoro tra i kikuyu mise le ali a mons. Perlo, deciso a estendere l’attività missionaria ad altre etnie. Nel 1911 visitò la regione del Meru, ancora sconosciuta; individuò varie località adatte in cui fondare nuove missioni e, superati ostacoli e reticenze da parte delle autorità governative, vi inviò i primi quattro missionari per iniziare l’evangelizzazione dei meru.
Nella sua inesauribile strategia, il vescovo sarebbe voluto andare dappertutto; talvolta senza misurare le forze dei missionari. Già nel 1902 scriveva nel diario un piano di evangelizzazione per i nomadi masai: «Ancora da nessuno tentata, si presenta a noi in condizioni certamente favorevoli. Però il sistema di evangelizzazione sarà alquanto differente da quello dei kikuyu, popolo agricoltore e stabile. Come i missionari che evangelizzano i beduini, bisognerà seguirli nelle loro peregrinazioni, abitando nei loro kraals, in tende o casette mobili con ruote!». Il piano cominciò a realizzarsi solo nel 1963, quando a mons. Cavallera fu affidata la regione di Marsabit.

Intanto l’attività dell’Istituto si estendeva all’Etiopia (1916) e Tanzania (1919). Mons. Perlo metteva a disposizione i suoi migliori missionari; da Torino veniva consultato o suggeriva nuovi progetti e mezzi per attuarli. Al tempo stesso il vescovo escogitava per il vicariato una miriade di iniziative e ne controllava strettamente l’esecuzione. Tre di esse costituirono il fiore all’occhiello della sua geniale attività: tipografia (1916) e pubblicazione del mensile Wathiomo mukinyu, diventato strumento indispensabile per lo sviluppo delle scuole e consolidamento dell’attività catechetica; seminario di Nyeri per il clero locale (1919); congregazione delle suore indigene della Immacolata Concezione (1920).
Ritenendo la donna indispensabile nella evangelizzazione, il Perlo aveva voluto le suore fin dall’arrivo in Kenya, «prestate» dal Cottolengo; poi insistette perché l’Allamano estendesse la sua pateità anche al ramo femminile: nel 1910 nacque l’Istituto delle missionarie della Consolata. Egli sapeva quanto una missione dipendesse dalle suore. Non fu sempre tenero con loro, ma per lui contavano quanto i missionari, a volte anche di più.
Nel 1924 il vescovo dovette tornare in patria per seguire da vicino e a tempo pieno la vita dell’Istituto. Alla morte dell’Allamano divenne superiore generale. Durante la visita apostolica si ritirò dalla carica (1930). Avrebbe voluto tornare nel suo vicariato. Ormai con la nomina del nuovo vicario, mons. Giuseppe Perrachon, i ponti erano tagliati. Si ritirò a Roma, dove morì nel 1948.

Dall’antico vicariato apostolico del Kenya, sono nate l’arcidiocesi di Nyeri, con le suffraganee di Meru, Murang’a, Embu, Marsabit, Garissa e vicariato di Isiolo. Tali chiese locali restano la migliore testimonianza che l’opera, avviata e guidata per 22 anni da mons. Perlo, aveva radici profonde, capaci di portare frutti abbondanti.

INAFFERRABILE
mons. Gaudenzio Barlassina (1880-1966)

Era il sogno dell’Allamano: continuare il lavoro del Massaia in Etiopia. Turbolenze per la successione al trono, opposizione del clero copto, intrighi inteazionali rendevano impossibile l’entrata ai missionari.
Dal vicariato dei galla, affidato ai cappuccini francesi, nel 1913 Propaganda fide staccò la prefettura del Kaffa e nominò prefetto padre Gaudenzio Barlassina. «Trovata chiusa la porta, non mi resta che la finestra» decise il missionario: travestito da mercante, cavalcando un mulo, la sera di natale del 1916 entrò in Addis Abeba; affittò una casetta annessa all’Hotel Bollolakos e cominciò a studiare la situazione, oltre alla lingua e costumi del paese.
«Guardare senza copiare; sentire senza parlare; fare senza dire; procedere senza curarsi degli apprezzamenti umani…» era la strategia adottata per riuscire nella sua complicatissima missione. Per non dare nell’occhio, si dedicò a minuscoli commerci; lavorò come traduttore nella Banca Abissina; diventò socio della falegnameria dell’italiano Felice Gullino, col quale cercò i contatti giusti per raggiungere i suoi scopi.
Riuscì a farsi ricevere da ras Tafari, reggente al trono dell’impero etiopico. Questi apprezzò il progetto sociale e umanitario proposto da Barlassina; ma non concesse alcun permesso esplicito, per non provocare la suscettibilità del clero copto, sostenuto dalla regina Zauditù.
Gli andò meglio con alcuni ministri imperiali e capi locali, dai quali ottenne un lasciapassare per entrare nella regione del Kaffa per svolgere attività commerciali.

Alla fine del 1917 arrivarono i primi rinforzi, anch’essi camuffati da mercanti. Non potendo agire allo scoperto, Barlassina progettò scuole agricole e laboratori industriali, con cui entrare in contatto con la gente, soprattutto con i giovani: nasceva la stazione missionaria di Ghimbi, 500 km a ovest di Addis Abeba.
L’anno seguente, scoppiata un’epidemia di spagnola, i missionari si mobilitarono per soccorrere i malati: allacciarono relazioni con «molti cattolici abissini», residui delle cristianità del Massaia, cacciati dai paesi d’origine dalla persecuzione.
Con una fitta serie di leggendarie carovane mons. Barlassina perlustrò il territorio a lui affidato, strinse amicizie con i capi locali, studiò posizioni strategiche dove aprire nuovi centri commerciali-missionari. Nella prima carovana (1919) ebbe una stupenda sorpresa: a Giren incontrò abba Mattheos, ultimo superstite dei sacerdoti ordinati dal Massaia, costretto a domicilio coatto in mezzo ai musulmani. Si riannodava così l’ultimo filo che legava le gesta del grande cappuccino alle avventurose iniziative dei missionari della Consolata.

Era il tempo delle «catacombe». I missionari circolavano in incognito, chi con una vecchia Singer, cucendo tuniche e braghe per la gente dei villaggi; chi con pentole per raccogliere cera da fondere; chi fabbricando per capi, capetti e benestanti porte, finestre, divani, tavolini, casse per i vivi e per i morti. Intanto incontravano vecchi cristiani del Massaia e li accoglievano in segreto nelle loro capanne.
In due anni sorsero cinque stazioni missionarie. «Niente visibili monumenti di religione – scriveva monsignore -. Tutto è ancora piccolo: piccole cappelle, piccole scuole, piccoli ambulatori, piccoli catecumenati e piccole cristianità. I sacramenti sono amministrati all’ombra delle aziende e laboratori. Viaggiamo da poveri; ci stabiliamo come onesti lavoratori. Tra un lavoro e l’altro puramente materiale, trova comodo passaggio l’annuncio nascosto del vangelo».
Nel 1921 mons. Barlassina ottenne da ras Tafari la concessione di sfruttare la foresta di Sayo, ai confini col Sudan; fu allestita una falegnameria dove si costruiva di tutto, fino a case smontabili e trasportabili a distanza. La regina Zauditù e ras Tafari ordinarono due palazzine, completamente arredate. Il trasporto del materiale fino alla capitale, oltre 700 km, richiese 80 giorni di viaggio, due carovane di 3.600 portatori ciascuna e la collaborazione di 22 governatori, obbligati dall’autorità imperiale a procurare il ricambio del personale. L’impresa leggendaria aprì definitivamente i cuori dei sovrani nei riguardi di Barlassina: nel 1924 ottennero il permesso di fare entrare in Etiopia le prime suore della Consolata.
Era un tacito riconoscimento dell’attività religiosa dei missionari. Accanto ai laboratori, dispensari e bazar sorsero opere di autentica missione. Nel 1927 il Kaffa contava 11 stazioni missionarie, disseminate in un territorio esteso come l’Italia continentale, un seminario e un convento di suore indigene: le Ancelle della Consolata.

Negli anni di presenza in Etiopia Barlassina si era fatto etiope con gli etiopi, tanto che grandi studiosi di cose abissine si rivolgevano a lui come fonte esperta in materia. Non meno benemerita fu l’attività di mons. Barlassina per combattere la piaga della schiavitù. Oltre a raccogliere fondi per affrancare gli schiavi, studiò un progetto per restituire loro dignità, organizzando i «villaggi della libertà». Per liberare la gente da epidemie e malattie, fondò ospedali nella capitale e nell’interno del paese, chiamando a dirigerli medici italiani.
Nel 1932, alla posa della prima pietra dell’ospedale italiano di Addis Abeba, mons. Barlassina aveva accanto a sé l’amico ras Tafari, diventato imperatore col nome di Hailé Selassié. Era un riconoscimento esplicito di 16 anni di instancabile attività, condotta con eroica abnegazione e mirabile prudenza.
Quando la prefettura del Kaffa era ormai consolidata, nel 1933 mons. Barlassina fu eletto superiore generale, carica riconfermata nel capitolo del 1939. Per 17 anni guidò l’espansione dell’Istituto in Europa e America Latina. Nel 1949 fu nominato procuratore generale presso la Santa Sede, ufficio che rivestì fino alla morte (1966).

INARRESTABILE
padre Pietro Calandri (1893-1967)

Da piccolo sognava di fare il «bandito». Entrato nel seminario diocesano, non sapeva come conciliare sogni di avventura e vocazione; «ed eccoti saltar fuori la chiamata alla missione» racconterà lui stesso. E fu una vita al cardiopalmo.
Dopo cinque anni di esperienza in Kenya, nel 1925 padre Pietro Calandri fu inviato in Mozambico, con i primi missionari della Consolata destinati alla missione di Miruru. In tasca, però, aveva l’ordine di recarsi nella regione del Niassa insieme a padre Amiotti. Si stabilì a Mandimba, ai confini con il Malawi. Nel frattempo i superiori avrebbero richiesto i dovuti permessi.
Invece dell’autorizzazione, il prelato del Mozambico, dom Rafael Assunção, intimò di uscire immediatamente dal paese, sotto pena di sospensione da ogni attività religiosa. Da Torino arrivò l’ordine di restare. Per padre Calandri seguirono due anni di «purgatorio»; «una situazione così terribile» da farlo piangere giorno e notte.
Nel 1928 la proibizione del prelato fu revocata e padre Calandri cominciò immediatamente la costruzione della missione di Massangulo. Ma non ebbe vita facile: appena iniziati i lavori, il governatore del Niassa gli ritirò il permesso di residenza. Due anni dopo, il delegato apostolico gli ordinò di chiudere la missione. Per chiarire la faccenda, il padre dovette correre prima a Porto Amelia, poi a Beira, migliaia di chilometri con mezzi sgangherati e sentirneri da capre.
Altre minacce venivano da ladri, leoni e capi musulmani. «La lotta è il mio pane quotidiano» diceva spesso e i lavori continuarono frenetici. Con l’arrivo delle suore furono avviate le scuole elementari, la visita sistematica ai villaggi, la cura dei malati in missione e a domicilio.
Progettava altre missioni, ma dom Rafael negava ogni permesso di espansione. Padre Calandri concentrò i suoi sforzi per ingrandire Massangulo: collegi e scuole per oltre 200 alunni; laboratori di arti e mestieri; elettricità in tutta la missione; trapianto di migliaia di piante coltivate nei vivai; frutteto e orto, campi di caffè e grano; scuole-cappelle nei villaggi, affidate a maestri formati alla missione; formazione dei primi nuclei di famiglie cristiane.

Tensioni e scontri tra il missionario e il vescovo durarono fino al 1936. Da Roma dom Rafael si sentiva dire che l’evangelizzazione del Mozambico «era indietro di 300 anni», per cui egli aveva bisogno di personale. A Lisbona si vedevano con sospetto i missionari stranieri, specie italiani, visti come la lunga mano di Mussolini. Torino inviava missionari più del richiesto. E il vescovo scaricava il suo imbarazzo su Calandri.
Per eliminare l’equivoco, Roma sostituì dom Rafael con dom Teodosio de Gouveia; il superiore generale, mons. Gaudenzio Barlassina, spedì Calandri a São Manuel (Brasile), per dipingere la chiesa di Santa Teresina.
Oltre alla pittura, Calandri si dedicò anima e corpo al lavoro missionario. La gente lo adorava. Esteamente era entusiasta e ottimista, ma nel cuore sentiva quella destinazione come un castigo immeritato. Una ferita che lo fiaccò fisicamente, fino ad ammalarsi. A liberarlo dalla «terribile oppressione e agonia», che da quattro anni lo stavano consumando, arrivò il permesso di ritornare nella sua missione.
A Massangulo trovò come superiore provinciale un missionario della sua statura, ma di mentalità totalmente differente: interveniva in ogni decisione presa da Calandri. Dopo una serie di scontri e arrabbiature indescrivibili, il provinciale ebbe la bella idea di stabilirsi a Mitucué. Padre Calandri rimase a Massangulo con i suoi collaboratori, lavorando in armonia e frateità: la missione cresceva, fino ad accogliere oltre 500 alunni.

Nel 1948 padre Calandri fu richiamato in Italia; ma il vescovo di Nampula gli ordinò di restare al suo posto fino alla visita canonica del superiore generale. «Che cosa ho fatto di male?» si domandava il padre.
Da tempo lo si criticava per aver fondato la missione in una zona totalmente musulmana; perché perdeva tempo con gli orfani meticci, da qualche testa fasciata definiti «figli del peccato»; per la sua ospitalità, che avrebbe trasformato la missione in un albergo… A distanza e senza vedere la realtà, le critiche diventavano macigni.
Arrivato il superiore generale per la visita canonica padre Calandri fu chiamato a Mitucué: l’incontro si trasformò in «una bufera con tuoni e lampi». Ma quando mons. Barlassina arrivò a Massangulo, cambiò totalmente atteggiamento: non finiva di meravigliarsi per lo splendore e numero delle opere e attività della missione. Per il resto della vita monsignore continuò a definire Massangulo «una meraviglia».

Toata la bonaccia, padre Calandri continuò a lavorare col solito entusiasmo e determinazione, realizzando i sogni coltivati da tanti anni: la missione sul lago Niassa, a Cobué, e la costruzione della chiesa dedicata alla Consolata, subito definita «cattedrale del Niassa».
E continuava a battagliare contro le ingiustizie: prima con i produttori di cotone, che sfruttavano la gente in modo vergognoso; poi con le autorità coloniali che, scoppiata la guerriglia indipendentista, vedevano terroristi dappertutto e molti innocenti venivano uccisi o torturati.
Ma gli acciacchi dell’età si facevano sentire. Nel 1962 chiese e ottenne di essere sostituito dalla responsabilità di superiore. Seguirono gli anni della gloria: il presidente del Portogallo in persona gli appuntò sul petto la medaglia dell’Ordine di Cristo; il governo italiano lo nominò Cavaliere della Repubblica; il Vaticano gli conferì la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice.
Nel 1967, tre mesi dopo aver celebrato il 50° anniversario di sacerdozio, morì nell’ospedale di Nampula. Fu sepolto nella sua «cattedrale», secondo il suo ultimo desiderio: «Voglio che la mia anima scenda dal cielo a prendere il mio corpo a Massangulo».

U na vita tutta in salita; ma non si arrese mai. Padre Calandri fu pioniere, eroe, gigante, artista, antropologo… ma soprattutto educatore, difensore e padre degli africani, specie degli ultimi. Cuore sincero e sensibile, li amò tutti, senza distinzione, cristiani e musulmani. E fu riamato.

TRAVOLGENTE
padre Giovanni Battista Bisio (1903-1947)

A 21 anni (era nato a Garessio, Cuneo, nel 1903), ancora studente, Giovanni Battista Bisio dirigeva i lavori per la costruzione della cattedrale di Mogadiscio, dove fu ordinato sacerdote nel 1926. Amministratore della scuola di arti e mestieri e delle attività agricole, fece appena in tempo a farsi le ossa: nel 1930 il vicariato della Somalia fu consegnato ai cappuccini. Il padre toò in Italia e passò alla formazione dei fratelli coadiutori.

N el 1937 padre Bisio fu inviato in Brasile per studiare la possibilità di raccogliere mezzi e vocazioni. A offrire un piede a terra era il vescovo di Botucatú, chiedendo in cambio di assumere la responsabilità della parrocchia di São Manuel e portare a termine la costruzione del santuario di s. Teresa di Lisieaux.
A poche settimane dall’arrivo, padre Bisio era già sui ponteggi per dirigere i lavori, tra la meraviglia dei muratori: l’anno seguente il santuario fu inaugurato. Con l’arrivo di due confratelli iniziò a rinnovare la vita della parrocchia, guadagnandosi stima e amore della gente.
Entusiasta e intuitivo, vide nel Brasile enormi potenzialità vocazionali e cominciò a sognare qualcosa di impensabile in quei tempi: l’inteazionalità dell’Istituto. Tenace e pratico, faceva progetti dettagliati e chiedeva l’approvazione dei superiori, insieme all’invio di personale per la formazione degli aspiranti. Suggeriva di cercare un campo di prima evangelizzazione, di cui il paese era ricco, per mandarvi i futuri missionari brasiliani.
A sostenere il suo entusiasmo arrivò padre Domenico Fiorina, con visioni più avanzate: missionari della Consolata brasiliani inviati ad altri popoli e continenti.
A Torino, però, si consigliava di procedere con i piedi di piombo, finché l’avventura brasiliana non fosse passata al vaglio del capitolo straordinario del 1939. All’assemblea capitolare partecipò anche padre Bisio. La sua relazione fu accolta con favore, anche se furono poste restrizioni più di forma che di sostanza.

A capo di sei missionari, padre Bisio martellava i superiori per avere altro personale. La guerra in corso ne aveva assottigliato la disponibilità. Gli fu risposto: «Arrangiatevi come potete». «Fecero miracoli di abnegazione e buona volontà» come testimoniava il superiore del gruppo. Il 16 febbraio 1940, adattando ambienti già esistenti, venivano inaugurati due seminari «embrionali», l’uno ad Aparecida, nei pressi di São Manuel, l’altro mille chilometri lontano, a Rio do Oeste, stato di Santa Catarina, affidato a padre Domenico Fiorina.
Nel 1942, quando il Brasile entrò in guerra al fianco degli alleati, i missionari si trovarono dalla parte sbagliata e furono annoverati tra i nemici. I massoni di São Manuel cercarono di tirare padre Bisio per la giacca; il suo nome comparve in una lista di spie. Ma riuscì a difendersi e scagionarsi totalmente. Ma più logoranti furono l’isolamento in cui erano costretti i missionari in Brasile e le difficoltà di comunicare con i superiori in Italia, per ricevere chiare direttive ed evitare incomprensioni.

Finita la guerra, padre Bisio riprese a stendere progetti sorprendenti per l’espansione dell’Istituto in Cile, Argentina e altri paesi sudamericani. Ne illustrava i vantaggi con dovizie di particolari. Ma Torino frenava i suoi bollori e centellinava il personale.
Nel 1946 il padre rientrò in Italia per un periodo di riposo e per riaffermare l’attaccamento all’Istituto: lo sforzo di autosostenersi economicamente aveva destato in qualcuno il sospetto che il gruppo del Brasile fosse diventato troppo autonomo. Padre Bisio non ebbe difficoltà a dimostrare la lealtà all’Istituto e ai superiori. Continuò a battere il chiodo del personale e toò in Brasile con la nomina di superiore provinciale e una decina di missionari e altrettante suore.
Con i nuovi arrivati si poteva consolidare la formazione di oltre 100 aspiranti missionari, aprendo noviziato e seminario filosofico, e assumere la responsabilità di nuove parrocchie. Mentre le suore, oltre a collaborare con i lavori in corso, accoglievano nel noviziato una ventina di aspiranti, già preparate spiritualmente da padre Fiorina.
Nel 1947 i missionari espulsi dall’Etiopia e quelli che non poterono tornare nelle colonie inglesi, furono dirottati in Brasile. «Troppa grazia, sant’Antonio!», pensò padre Bisio, che dovette sobbarcarsi a interminabili trasferte per cercare nuovi campi di lavoro.
Dopo 10 anni di attività intensa, viaggi spossanti, responsabilità sempre crescenti, il padre si sentiva stanco e chiese ai superiori di passare la responsabilità di guida a padre Fiorina. Da Torino lo si riteneva ancora necessario: era l’uomo giusto al posto giusto.
Ma il 17 maggio 1947, ricoverato all’ospedale di Jahù per una banale appendicite, padre Bisio morì a causa di una misteriosa complicazione.

«Muoio giovane, a 44 anni, per andare a vivere la vita vera. Muoio contento: mi è forza e gioia il pensiero di aver compiuto il mio dovere di sacerdote, religioso e cristiano. Per primo venni in Brasile, per primo devo morire» furono le ultime parole.
Una vita breve, ma vissuta intensamente. Il seme da lui piantato e coltivato ha maturato decine e decine di missionari della Consolata brasiliani, inviati in tutti i continenti. I suoi sogni sono stati superati dalla realtà: oltre ai vari stati brasiliani, l’Istituto si è esteso ad altri quattro paesi dell’America Latina.

benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – I martiri

PER LA PACE
padre Quinto Gardetto (1911-1941)

Ne avrebbe fatto volentieri a meno; ma, educato all’obbedienza senza discutere, fu tra i primi missionari della Consolata a vestire la divisa coloniale. A 24 anni (era nato nel 1911 a Bosconero, Torino) padre Quinto Gardetto raggiunse Mogadiscio (Somalia), cappellano della sezione di sanità nelle truppe che si preparavano a invadere l’Etiopia. Insieme ai soldati, nel 1936, entrò in Harrar, dove fu incaricato di dirigere la scuola della cittadina etiopica, che contava 235 allievi. L’anno seguente era a Lekemti, nel vicariato apostolico di Gimma. Così scriveva ai superiori: «Sono contento di essere giunto finalmente in terra della nostra missione».

Capitale della regione del Wollega, centro carovaniero a 330 km da Addis Abeba, Lekemti era stata adocchiata fin dai «tempi di camuffaggio missionario» come centro ideale di evangelizzazione; ma per non dare nell’occhio, i missionari si erano stabiliti a Comto, 5 km dalla cittadina. Dopo la conquista italiana (1936) si poté iniziare a costruire la stazione missionaria.
Padre Gardetto, prima viceparroco e poi superiore, diede grande impulso allo sviluppo della missione: in pochi anni furono costruite le case per i padri e per le suore, scuole governative per 230 alunni, collegio maschile, asilo per 70 bambini, ambulatorio e «scuola clandestina di amarico», senza trascurare la catechesi, visite ai villaggi, cura degli ammalati.
Sopraggiunta la seconda guerra mondiale, le truppe italiane furono impegnate a combattere gli inglesi: i ribelli abissini ne approfittarono per rialzare la testa. Capi e sottocapi della zona di Lekemti, che si erano impegnati a garantire l’incolumità dei missionari, cominciarono a manifestare risentimenti contro l’occupazione coloniale. Il malcontento si trasformò in ribellione.
Il capo Maconnen, fino al 1941 impiegato dal governo per domare i ribelli di altre regioni, si mise alla testa degli insorti. Ai loro massacri e devastazioni, gli ascari assoldati dal governo coloniale rispondevano con rappresaglie indiscriminate, bruciando capanne e raccolti.
Benvisto da tutta la popolazione e dallo stesso Maconnen, padre Gardetto cercò di fare opera di pacificazione tra i ribelli e il presidio di Lekemti, fino a sottoporre ai più alti livelli un disegno di pacificazione, concordato col presidio e il capo degli insorti.

Il 1° aprile 1941, insieme a due autisti italiani e a suor Teodora, il padre partì in auto alla volta di Addis Abeba, per sottoporre l’accordo di pace al governo coloniale. Il rischio era grande: il giorno precedente, a Sirè, c’era stata una feroce repressione e il capo locale aspettava l’occasione per vendicarsi. Infatti, giunta in quella località, a 30 km da Lekemti, l’auto fu bersagliata da una banda di rivoltosi che, ignari della missione che il padre stava compiendo, spararono a vista e uccisero tutti e quattro gli occupanti. Padre Gardetto morì sul colpo, con una pallottola in fronte. Aveva 30 anni. Martire per un atto di alta carità: promuovere la pace e riconciliazione.

DESERTO
INSANGUINATO
padre Michele Stallone (1921-1965)

Anche quel mattino, il 19 novembre 1965, approfittando del passaggio del camion diretto a un club turistico costruito sulla sponda meridionale del lago Turkana, padre Michele Stallone lasciò Baragoi per raggiungere la stessa località. Seduto accanto all’autista, l’italiano De Luca, arrivò a destinazione sull’imbrunire. Il giorno dopo avrebbe dovuto prendere le ultime misure per costruire, secondo le direttive del vescovo di Marsabit, mons. Carlo Cavallera, una scuola e un dispensario a favore della popolazione ol molo, minacciata di estinzione.
Alle nove di sera, terminata la recita del breviario, padre Stallone era seduto a tavola con mister Poole, direttore del club, quando una banda di una trentina di predoni (shifta), armati di fucili, assaltarono il campo, chiusero i due in bungalow e fecero man bassa di tutto ciò che trovarono. Finita la razzia, tornarono dai due prigionieri: li freddarono a colpi di fucile. Risparmiarono De Luca, costringendolo a trasportarli con una Land Rover insieme al bottino. Di lui non si seppe più nulla.
Il pomeriggio del giorno dopo, la notizia dell’assassinio arrivò a Baragoi. Alle 3,30 del mattino seguente, padri e polizia raggiunsero il luogo dell’eccidio: padre Stallone giaceva a terra in una pozza di sangue, le mani ancora legate e due colpi di fucile nella schiena; aveva accanto il breviario; ogni altro oggetto era scomparso.

Aveva 44 anni. Era nato il 13 settembre 1921 a Giovinazzo (Bari). A 13 anni Michele entrò nella casa dei missionari della Consolata di Parabita (Lecce); compì gli studi in varie case dell’Istituto e fu ordinato sacerdote a Casale Monferrato (AL) nel 1947. L’anno seguente raggiunse la diocesi di Nyeri (Kenya) e cominciò il tirocinio missionario a Gatanga.
Di piacevole compagnia, volontà energica e spiccata attività, nel 1953 fu destinato da mons. Cavallera, in quegli anni vescovo di Nyeri, in aiuto ai confratelli che avevano da poco aperto la missione di Baragoi, avamposto nell’immensa e arida «frontiera» a nord del Kenya.
«Dall’infuocata sabbia – scriveva nel 1954 -, come per incanto, uno dopo l’altro si sono innalzati i fabbricati: tre aule scolastiche, case dei padri e delle suore, collegi per ragazzi e per ragazze, magazzino, tre cistee per l’acqua piovana, un ospedale con 30 letti. I lavori non sono ancora ultimati, ma possiamo già dedicarci all’apostolato diretto. Mi è stata affidata l’educazione di 38 piccoli samburu e turkana: due etnie con lingue del tutto differenti. Unico sussidio, finora, è un abbozzo di dizionarietto samburu di circa 1.500 vocaboli da me compilato».
«La chiave per penetrare nell’animo di queste popolazioni è la scuola – scriveva l’anno seguente -. Sebbene ancora indolenti nel lavoro, queste etnie ci danno molte consolazioni. In pochi mesi i miei scolaretti hanno imparato a cantare, a perfezione, la Missa de angelis e altri inni latini e swahili. A sentirli pregare e cantare si crederebbero altrettanti seminaristi, anziché selvaggetti strappati alla brughiera solo ieri».
Diventato superiore (1957), padre Stallone continuò a sviluppare la parrocchia, organizzando la scuola secondaria e disseminando di scuole-cappelle i punti strategici del vasto territorio.

«Il deserto fiorisce» era intitolato un articolo che padre Stallone aveva scritto per Missioni Consolata un anno prima di morire. Quando, infatti, venne costituita la diocesi di Marsabit (1964), Baragoi era ormai la missione più adulta e sviluppata del territorio, centro propulsore di nuove fondazioni, come la missione di South Horr, al cui sviluppo padre Stallone lavorò per vari anni.
Il suo sacrificio ha ritardato di alcuni mesi la fioritura della missione a Loyangalani, ma ne ha fecondato il terreno. Il suo sangue ha irrorato le speranze in cui, lui per primo, aveva fermamente creduto e per le quali aveva dato con entusiasmo tutto se stesso.

TUTTO PER GLI INDIOS
padre Giovanni Calleri (1934-1968)

Bello, alto, forte, spiritoso, estroverso, con una carica che ispirava fiducia a prima vista. Chi lo incontrava per strada o in una riunione lo definiva uno sportivo o un artista. E vedevano giusto.
Nato a Carrù (Cuneo) nel 1934, prete per cinque anni nella diocesi di Mondovì, Giovanni Calleri entrò tra i missionari della Consolata nel 1962. Tre anni dopo partì per il Brasile e raggiunse il territorio di Roraima. E cominciò a organizzare la missione del Catrimani, tra gli indios yanomami.
«Quando giunsi in Brasile non mi importava di morire – scriveva nel 1966 -. Ora no, voglio vivere per amore degli indios. Mie compagne sono a volte la fame e sempre tanta solitudine». Invece morì a 34 anni, per amore degli indios.

Per l’esperienza tra gli yanomami e la ricca personalità, nel 1968 padre Calleri fu scelto dal governo brasiliano per dirigere una spedizione per pacificare gli indios waimirí-atroarí. Dal 1961 era in costruzione la strada BR-174 che, attraverso la foresta dell’Amazzonia, doveva collegare Manaus e Boa Vista a Caracas (Venezuela). Ma per attuare il progetto bisognava fare i conti con gli indigeni che si ritenevano, a diritto, padroni della regione e non intendevano rinunciare al loro sistema di vita.
La spedizione fu preparata seriamente e il piano approvato dal governo. Si doveva adottare la tattica di «avvicinamento indiretto»: cioè accostare prima gli indios non irritati con i bianchi, per farli mediatori presso quelli sul piede di guerra, vicini allo sconquasso prodotto dai lavori della strada. Il piano fu ritenuto da qualcuno troppo lento. Per non fermare i lavori, poteri militari e minerari, nazionali e stranieri, premevano per il confronto diretto con i ribelli waimirí-atroarí, che in fatto d’imboscate sapevano il fatto loro.
All’ultimo momento il piano fu accantonato e padre Calleri dovette accettare, anche sotto minacce, di portare la spedizione su un altro luogo. È l’aspetto più misterioso della faccenda, perché con il cambiamento i rischi di fallimento e morte risultavano enormemente aumentati. Nella spedizione, poi, fu inserito Alvaro da Silva, esperto della foresta, ma ambiguo e senza scrupoli, legato alla Missione evangelica dell’Amazzonia (Meva).
I dipendenti di questa missione protestante, con residenza in Guyana, svolgevano una doppia attività: evangelizzazione e ricerca di miniere per conto degli Stati Uniti. Per cui essi erano troppo interessati che la spedizione diretta da un prete cattolico fallisse.
E così avvenne: il 1° novembre 1968 la spedizione fu massacrata nel cuore della foresta. Delle 10 persone, comprese due donne, si salvò solo Alvaro da Silva. La colpa fu sempre attribuita alla ferocia degli indios.
A 30 anni di distanza, dopo faticose ricerche, padre Silvano Sabatini, che ebbe un ruolo importante nel preparare la spedizione, ha fatto luce sul mistero. Dalle innumerevoli testimonianze da lui raccolte e pubblicate nel libro Massacre, risulta che la spedizione-Calleri fu massacrata da alcuni indios waimirí-atroarí e wai wai, istigati da un manipolo di bianchi, in particolare Alvaro da Silva e lo statunitense Claude Leawitt, funzionario della Meva. I due imposero agli indios, sotto terribili minacce, un assoluto silenzio.
Padre Sabatini denuncia che la BR-174 fu condotta a termine, dopo il massacro della spedizione, con la decimazione degli indios: i waimirí-atroarí, circa 3 mila nel 1968, nel 1982 erano ridotti a qualche centinaio.

CONTESTATORE GLOBALE
padre Guerrino Prandelli (1943-1972)

«Sono molto felice di essere prete – aveva scritto poco tempo dopo l’ordinazione -. Mi piacciono lavoro duro e tempi difficili. In un’epoca in cui il sacerdote è fuori moda, per un giovane come me diventare “servo” fa parte di una “contestazione globale”, la più profonda: quella dell’amore».
Era nato a Brescia nel 1943. Temperamento vivo e quasi scatenato, forte e a volte rude, Guerrino Prandelli lottò contro tutto e tutti per restare fedele alla chiamata della missione. Ordinato sacerdote (1969), gli fu proposto di lavorare un po’ in Italia. La controproposta non lasciava scampo: «O mi mandate in missione, o mi sposo». Fu spedito in Mozambico.
N el 1970 padre Guerrino era nel Niassa. Da Unango passò come vice parroco a Nova Esperança. Lavorava come un forsennato, quasi presago del pochissimo tempo a disposizione. Coglieva al volo esigenze e bisogni della gente, dei più poveri soprattutto, come i lebbrosi. Per questi costruì varie casette, perché avessero un’abitazione più igienica e vita più dignitosa.
Aveva il dono delle lingue: dopo solo due anni di permanenza nel Niassa, padre Guerrino si mise a tradurre in lingua ciyao alcuni testi della messa, per facilitae la partecipazione della gente.
Era felicissimo, nonostante le difficoltà provocate dalla guerriglia anticoloniale. «Nova Esperança è la missione più isolata del Niassa – scriveva -. Ciò è dovuto alla guerriglia. Ultimamente sulle nostre strade hanno messo molte mine. Viaggiare è diventato estremamente pericoloso. Nei villaggi o nella missione non c’è pericolo; ma non possiamo stare sempre fermi; nessuno viene a portarci niente. Abbiamo bisogno di viveri e medicinali; la gente non ha sale, zucchero, olio, sapone, petrolio. Il pericolo di imbattersi in una mina sussiste; chi vi incappa finisce sbriciolato».

A metà ottobre del 1973, i confratelli lo chiamarono a Nova Freixo (oggi Cuamba), per aiutarli in alcuni lavori di traduzione. Terminato il lavoro, padre Guerrino volle tornare subito alla sua missione. Gli fu consigliato di attendere un momento più sicuro. Rispose che non poteva lasciare i suoi lebbrosi senza cibo: i poveri non possono aspettare tempi sicuri. E partì da solo.
Ma a 20 chilometri da Belém, una ruota dell’automezzo urtò una mina anticarro, nascosta nella carreggiata. Lo scoppio violento distrusse l’auto e causò la morte fulminea del missionario.
Un mese prima aveva scritto a un compagno di studi: «Vale più un anno di missione, che cinquant’anni trascorsi nella mediocrità in Italia». Padre Guerrino è morto a 29 anni; in missione ne ha spesi appena tre: una «contestazione globale» a tanta mediocrità.

UNA VITA
PER L’AFRICA
padre Luigi Graiff (1921-1981)

«Un giorno o l’altro mi accopperanno» ripeteva da un anno come un ritornello. Anche quel venerdì padre Luigi Graiff si recò a Parkati con cibo e medicinali: sentiva il fiato della morte ormai sul collo. Lasciando 40 metri di cotonata blu a una famiglia turkana, disse alla signora Veronica: «Taglia dieci pezze per adulti e bambini, ma tieni da parte una misura grande per avvolgere il mio cadavere».
Due giorni dopo, domenica 11 gennaio 1981, finita la messa a Parkati, padre Luigi caricò sulla Land Rover il catechista anziano, cinque ragazzi e un diciottenne aspirante catechista, per celebrare l’eucaristia a Tum, a una ventina di chilometri. A metà strada vide all’orizzonte una ciurma di uomini, oltre duecento, armati di panghe (coltellacci), lance e fucili automatici. Intuì subito il pericolo: erano gli ngorokos, bande di razziatori, che da tempo infestavano la zona, rubando bestiame, distruggendo villaggi e uccidendo centinaia di persone.
Tentò di invertire la marcia, ma alcuni spari bloccarono la Land Rover. Il padre e il catechista corsero ad aprire lo sportello posteriore dell’auto, perché i ragazzi si mettessero in salvo. Furono subito accerchiati. «Non ci resta che pregare» disse il missionario. S’inginocchiarono. Il tempo di iniziare il Padre nostro e il padre stramazzò a terra in una pozza di sangue, insieme al giovane e un ragazzo; gli altri quattro, approfittando del trambusto, riuscirono a fuggire, inseguiti dalle fucilate.
Il catechista riconobbe alcuni degli assalitori e implorò pietà. Percosso e spogliato di tutto, fu mandato ad avvertire la missione. La notizia del massacro arrivò a South Horr alle cinque della sera. I confratelli partirono immediatamente; arrivarono sul luogo dell’eccidio a notte fonda e trovarono una scena raccapricciante: tre corpi ignudi, orrendamente crivellati di proiettili e sfigurati dai colpi di panga, cotti e tumefatti, giacevano accanto alla carcassa dell’auto ancora fumante.

A veva 60 anni, metà dei quali spesi in Africa: era nato a Romeno (Trento) nel 1921; in Kenya dal 1951. Destinato alla diocesi di Nyeri, padre Graiff lavorò a Gatanga, poi a Mugoiri, durante gli anni difficili della rivolta mau mau.
Nel 1964 chiese di passare alla nuova diocesi di Marsabit. Mons. Carlo Cavallera lo accolse volentieri e lo nominò parroco di Laisamis: una savana desolata, tutta pietre, sabbia e cespugli spinosi. Per 10 anni padre Luigi lavorò come un forsennato, costruendo uno dei più bei complessi della diocesi: chiesa, case per padri e suore, ospedale, scuole e… cristiani.
Gli anni 1965-70 furono particolarmente duri e pieni di tensione: gli shifta imperversavano; una notte assaltarono la missione; il padre scampò dalla morte per miracolo. Ma continuò a lavorare, nonostante la paura.
Coraggioso e spavaldo solo in apparenza, padre Graiff aveva paura della morte: la notte si svegliava di soprassalto al minimo rumore; imbracciava il fucile e correva da una finestra all’altra, pronto a respingere gli intrusi.
Dietro una scorza ruvida e autoritaria si nascondeva un cuore di bambino. Lo avevano capito subito gli africani: venivano a chiedere aiuto nei momenti più importuni. Egli si arrabbiava, ma poi cedeva, soprattutto se dicevano di avere fame. Ottenuto un po’ di cibo, i questuanti si nascondevano dietro un cespuglio, mangiavano felici e ridevano a crepapelle, imitando gesti e boccacce del burbero benefico.
Come un bambino odiava stare solo. Eppure la solitudine fu il suo pane quotidiano: prima a Laisamis, poi a Loyangalani (1973-78); gli ultimi due anni a Parkati, avamposto della missione di South Horr. In quella squallida regione abitavano i nomadi turkana, minacciati periodicamente da fame, malattie e, ultimamente, dalle razzie dei banditi. Nonostante il pericolo, padre Graiff vi si recava tutte le settimane, portando viveri, medicinali, vestiario, materiale da costruzione e tutto ciò che poteva servire alla sopravvivenza della gente. Era riuscito ad aprire la scuola e avviare piccole comunità cristiane.
Per gli ngorokos quella di padre Graiff era una presenza scomoda, quasi una sfida. Il loro banditismo era fomentato da rivalità etniche e politiche, con misteriose ingerenze straniere: lo dimostravano le armi sofisticate in dotazione. Il governo non interveniva; le forze di polizia stavano alla larga per paura. Solo i missionari avevano il coraggio di stare accanto a quelle popolazioni martoriate e prendee le difese. Per questo padre Graiff fu messo a tacere barbaramente.

CON LA GENTE
PER SEMPRE
padre Ariel Granada Sea (1941-1991)

Non aveva compiuto 50 anni. Era nato a Marulanda (Colombia) nel 1941. Dopo l’ordinazione (1968), padre Ariel Granada lavorò per alcuni anni nel vicariato di Florencia; poi svolse vari incarichi nelle case di formazione. Nel 1988 fu destinato al Mozambico. Partì sereno, contento di cominciare, a 47 anni, una nuova avventura missionaria.
Si trovò catapultato a Mecanhelas, una sperduta missione nel sud del Niassa. «Mancano luce elettrica, posta, telefono, acqua – scriveva a un amico -. Stiamo scavando un pozzo con la speranza di trovae un poco. Sono contento e sto facendo programmi per aiutare questa povera gente. Ma la guerra non vuole cessare. Sembra che ai guerriglieri arrivino armi sufficienti per uccidere tutti se volessero».
Imperversava la guerra civile tra l’esercito regolare del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e i ribelli della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana). Attoo alla missione si erano ammassati migliaia di sfollati. Costante e metodico, padre Ariel stava loro vicino, con iniziative materiali e spirituali, per riaprire un futuro di speranza. Altrettanto faceva con le comunità che poteva visitare. Intanto continuava a ritmo serrato la formazione di animatori e catechisti. Aveva iniziato la costruzione di una decina di belle capanne per i lebbrosi.

Tanti segni di consolazione furono troncati il 15 febbraio 1991. Padre Ariel stava per tornare in Colombia, per le vacanze e per la morte della mamma. Era in viaggio verso Lichinga, con padre José Rocha Martins, una suora indigena, una ragazza e una donna con tre bambini, quando la vettura fu bersagliata da una furia di proiettili.
«Non sparate! Siamo missionari!» gridarono i padri. Troppo tardi! Ariel fu colpito in fronte e morì all’istante. José fu ferito a una gamba. Pur riconoscendo i missionari, gli assalitori cominciarono a rubare quanto trovarono nella vettura; cavarono perfino le scarpe ai padri e un maglione alla suora. Quando videro il sacco di pane, cominciarono a divorarlo avidamente. Alle proteste di padre José e della suora, restituirono qualche oggetto e liberarono la ragazza, che volevano portare nella foresta.

Padre Ariel è morto sulla strada, accanto a un confratello ferito e alcune delle tante persone fatte oggetto di violenza indiscriminata. Egli sapeva che, per camminare insieme alla sua gente, doveva mettere in conto la condivisione degli stessi rischi, compreso quello della morte senza un apparente perché. Il suo sacrificio è solo l’ultimo atto di una presenza di speranza e solidarietà, con la conseguenza drammatica ma logica che tale scelta evangelica comporta.

UNA MARCIA IN PIÙ
padre Luigi Andeni (1935-1998)

Sono le 22.30 del 14 settembre 1998, festa dell’«Esaltazione della croce». Terminato l’incontro di programmazione pastorale, le suore tornano a casa, 200 metri distante, e spengono il generatore di elettricità. Padre Luigi Andeni e il diacono africano Williams Othieno si fermano sotto la veranda per una boccata d’aria fresca.
Cinque minuti dopo, tre loschi figuri sbucano dalle tenebre, travestiti da militari. «A terra!» ordinano imperiosi, puntando i fucili e facendo cigolare i caricatori. Padre Andeni si alza e domanda: «Chi siete? Cosa volete?». I malviventi indietreggiano. Inizia una colluttazione. Uno sparo lo ferisce di striscio al braccio destro; il polso sinistro è colpito ripetutamente con la panga; un’altra pallottola dirompente lo colpisce alla schiena ed esplode sul davanti. Gli assassini fuggono.
Stringendosi il ventre con le mani e aiutato dal diacono, padre Luigi riesce a rialzarsi e raggiungere la casa delle suore. Gli aprono la porta; cade a terra in una pozza di sangue. Alla luce di una torcia, suor Matilde cerca di tamponare la ferita, mentre il padre recita l’Atto di dolore; la voce si indebolisce, fino a diventare un impercettibile bisbiglio.
Vista la gravità delle ferite, le suore caricano il ferito sulla loro auto e lo portano all’ospedale di Wamba. I 70 km di strada ghiaiosa e sconnessa diventano un autentico calvario. «Pole!» (adagio) invoca il padre a ogni sobbalzo, mentre non cessa di pregare. Dopo tre ore di via crucis, a 5 km da Wamba, padre Andeni affida la sua vita nelle mani di Dio e della Madonna: sono le prime ore della festa dell’Addolorata.

N ato nel 1935 a Barbariga (Brescia), è in Kenya dal 1970. Gioviale ed entusiasta, semplice e tenace, pieno d’iniziative e generoso, padre Andeni sembra avere una marcia in più. Dovunque passa (Moyale, Sololo, Archer’s Post, Sukuta Marmar, di nuovo Archer’s Post), lascia la sua impronta: forma catechisti responsabili; costruisce chiese e cappelle con fiorenti comunità cristiane e folti catecumenati; stimola la gente a contare sulle proprie forze, aiutandola a costruire asili, scuole elementari e secondarie, laboratori di arti e mestieri, dispensari medici, pozzi e un’infinità di altri progetti di sviluppo economico e sociale. Dappertutto si fa apprezzare per il cuore aperto a tutti: aiuta centinaia di studenti poveri a pagare le tasse scolastiche; procura cibo a migliaia di affamati, senza distinzione di etnia o religione; semina la pace nei momenti di tensione e lotte tribali.
Perché lo hanno ucciso? Le autorità civili cercano di ridurre la sua morte a una rapina finita male, anche se non gli è stato rubato neppure l’orologio. Ma la gente è convinta che si tratti di un delitto su commissione. Il mandante sarebbe un pezzo grosso del villaggio, politicamente molto influente: uno che, pochi giorni prima del crimine, aveva avuto un’accesa discussione col padre, che accusava il capoccione di aver intascato i milioni raccolti dalla gente per lo sviluppo della scuola locale.
Dietro il sorriso cameratesco, padre Andeni nasconde un carattere forte, trasparente, senza compromessi. Ama e aiuta tutti, senza distinzione; ma non sopporta pigri, lazzaroni e imbroglioni. Rispettoso e cornoperativo con l’autorità, non ha peli sulla lingua di fronte a ingiustizie e corruzione. I cristiani lo conoscono e lo capiscono; i leaders politici, suscettibili e gelosi, sentono i suoi rimproveri come una minaccia alla loro autorità. Da qui la decisione di cucirgli la bocca.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




Il vero significato del vangelo

Caro direttore,
da molti anni leggo Missioni Consolata e ho sempre stimato la rivista per la capacità di illustrare l’opera dei missionari attraverso cronache, esperienze, personaggi.
Negli anni più recenti ho potuto apprezzare anche qualcosa di nuovo. In alcuni articoli (direttamente) e in altri (in modo più sfumato) è manifesto quale sia oggi lo spirito di missione. Il lettore comprende che annunciare il vangelo è un’azione davvero complessa. Anche se di enorme importanza, la catechesi e la promozione umana non possono essere considerate sufficienti; devono essere completate da un’azione che faccia comprendere a tutti, in particolare a noi che viviamo nel nord del mondo, il vero significato del vangelo.
Così non ci sentiremo nel giusto solo perché contribuiamo ad alleviare (di quanto?) le sofferenze di un bambino africano, ma cominceremo a riflettere sulle cause e concause dei molti mali nel mondo.
Ci interrogheremo per valutare se il progresso economico nel nord ricco, oltre che alle conquiste economico-scientifiche, non sia in qualche caso connesso al mancato progresso (o addirittura regresso) non solo economico di molte comunità nel resto del mondo.
Ci chiederemo se talora le variazioni positive di certi titoli di Borsa non siano in qualche modo connesse allo sfruttamento più efficiente di altri uomini (talora di bambini), come recenti cronache hanno mostrato.
L’indirizzo di Missioni Consolata ha fatto sì che essa sia, ad un tempo, oggetto di piacevole lettura, corretta informazione e soprattutto un invito a riflessioni profonde, che possono influenzare l’intera impostazione di vita del lettore. L’ho riscontrato anche nell’eccellente numero speciale riguardante il Brasile.
Feando Andolfi
Rivalta (TO)

Certamente il vangelo può «influenzare l’intera impostazione di vita del lettore». Missioni Consolata non presume tanto. Però, se «la goccia scava la roccia»…

Feando Andolfi