II pomodorro dei caporali

Leggo con molto interesse la rubrica «Il mondo
in un libro», a cura di Benedetto Bellesi, dedicata
alle pubblicazioni dell’Editrice missionaria italiana
(Emi). I libri sono uno strumento importante
per far compiere un salto di qualità a chi accetta
di impegnarsi per la costruzione di una società più
cristiana e più umana. Apprezzo, in particolare, i
libri che denunciano le ingiustizie e gli abusi nella
produzione e nel commercio di beni, alimentari
e no, provenienti dai paesi del Sud del mondo e
che invitano i consumatori a scelte responsabili
quando fanno la spesa nei supermercati.
Però mi domando: l’Emi ha la stessa attenzione
al Sud d’Italia? Siamo sicuri che ananas, banane,
cacao e caffè delle multinazionali debbano essere
boicottati più dei pomodori e dei loro derivati prodotti
nel nostro meridione?
Non siete convinti anche voi che il latifondismo
e il caporalato (che flagellano Campania, Puglia,
Basilicata) siano da condannarsi almeno quanto i
fazendeiros del Brasile e i loro squadroni della morte?
Non credete che il consumatore coerente con
la sua morale cristiana, prima di acquistare conserve
e passate di pomodoro, debba fare una riflessione
sulle vittime dei caporali nel brindisino
e nel napoletano, così come le fa sui lavoratori,
sulle donne e sui bambini vittime della Nestlé, Chiquita
o Del Monte in Nigeria, Guatemala e Kenya?
Dico la verità: dopo aver letto alcuni articoli e
visto diversi filmati, non sono affatto sicura che
certe pappe al pomodoro, così esaltate da alcuni
vegetariani ed ambientalisti, siano innocue come
una bistecca ricavata con i metodi rispettosi della
tradizione agroalimentare nostrana.
Insomma: dico NO all’hamburger dei fast-food,
condannato nei libri dell’Emi, ma dico NO anche al
pomodoro dei caporali di Oria, Foggia e Sao, che
umiliano (e talvolta uccidono) le donne, avvelenano
i fiumi e sconvolgono l’assetto idrogeologico del
territorio, creando i presupposti per nuove calamità,
nuove stragi, nuove speculazioni da parte delle
organizzazioni di stampo mafioso.

CHIARA BARBADORO




L’ARGENTINA UCCISA DAL «TERRORISMO ECONOMICO»

Porto Alegre (Brasile). «Vorrei ricordare l’insegnamento
di un grande pensatore dell’antichità: se
vuoi la pace nel mondo, devi prima metterla nelle
tue idee; perché la pace sia nelle tue idee, deve esserci
pace nella tua famiglia; perché la pace sia nella tua famiglia,
ci deve essere pace nel tuo cuore».
Adolfo Perez Esquivel, argentino, premio Nobel per la
pace nel 1980, parla in una sala affollatissima al Forum
mondiale di Porto Alegre. Al termine, il professore, nato
a Buenos Aires nel 1931, si intrattiene sul palco sottoponendosi sorridente a flash, taccuini e registratori.
Come descriverebbe la situazione dell’Argentina?
«Siamo un paese potenzialmente ricco che ha dilapidato
un patrimonio. Abbiamo un debito estero enorme, che
non possiamo pagare, e la relazione matematica che ne
viene fuori è: “più paghiamo, più dobbiamo pagare, meno
abbiamo”. Non siamo poveri, ma impoveriti.
Non è possibile che in un paese grande produttore di alimenti ci siano persone che muoiono di fame. Avevamo
raggiunto un alto livello di educazione, invece ora abbiamo
molti analfabeti. Il 25% della popolazione è disoccupata.
È stata distrutta l’industria nazionale, la nostra
capacità produttiva.
Questa è una violazione dei diritti umani, economici, sociali e culturali di tutto un popolo. Ma quello che succede ora in Argentina potrebbe succedere ovunque».
Questa crisi mette a rischio la democrazia?
«Il fatto è che in queste condizioni la democrazia non esiste.
Cosa significa democrazia? Votare? Dovrebbe significare
diritti e uguaglianza per tutti e partecipazione
sociale. Ma cosa può fare la gente quando c’è una fuga
di capitali che io definisco terroristica e un governo che
vuole sequestrare i risparmi del popolo?».
Qual è l’origine della crisi?
«L’origine di tutto è il modello neoliberista imposto dal
Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Banca mondiale
(Bm)».
D’accordo. Ma come si spiega che il nuovo governo
argentino sia subito corso a Washington, per chiedere
aiuti a quegli stessi soggetti?
«È vero. Il governo da una parte ha imposto a noi argentini
il “corralito”, congelando i soldi del popolo, e dall’altra
è corso a chiedere prestiti a Washington.
E non sapete a quali condizioni! La condizione del governo
degli Stati Uniti e del Fmi per consegnare i fondi
(che speriamo non consegni) è che l’Argentina voti contro
Cuba nella Commissione Onu dei diritti umani a Ginevra
(aprile 2002) (1). Questo fatto è di una immoralità
totale, assoluta, inaccettabile. Ma c’è anche un’altra condizione,
perché questi signori non si accontentano: sono
molto esigenti.
La seconda condizione è che l’Argentina entri nell’“Accordo
di libero commercio delle Americhe” (Alca)».
Cosa comporterebbe questo passo?
«Entrare nell’Alca significa che verranno distrutti gli apparati
produttivi (o quello che ne resta) dei nostri paesi;
salteranno tutti gli accordi regionali, come il Mercosur,
il Patto Andino e quello dei Caraibi; e gli Stati Uniti avranno l’egemonia sull’America Latina.
Tutto questo spiega anche l’attuale rimilitarizzazione
del continente. Intanto,
truppe di Washington sono già presenti
in Colombia nel quadro del “Plan Colombia”,
con il concreto rischio di creare
un altro Vietnam».
Lei parla di cause estee al paese; ma
non ci sono anche responsabilità argentine?
«Certamente: nessuno può imporre alcunché
se non glielo si permette. Nel
paese c’è una corruzione assoluta. Per
questo gli argentini non credono più alla
classe politica.
I politici sono le persone che diedero i superpoteri
al ministro dell’economia Cavallo, quelli che
permisero le privatizzazioni, sia con il governo di Menem
sia con il governo di De La Rua. Ci sono lettere che io ho
mandato a De La Rua dove tutto questo è scritto in modo
molto chiaro; in particolare, nell’ultima gli dissi: “Lei
sta cospargendo il pavimento di benzina, alla prima occasione
s’incendia il paese”. Dopo un mese, avvenne proprio
questo».
Lei parla spesso di «terrorismo economico»…
«Quando la Fao segnala che oltre 35.600 persone muoiono
di fame nel mondo ogni giorno, questo è “terrorismo
economico”. L’11 settembre dell’anno scorso eravamo
con il governatore, qui a Porto Alegre, per lanciare il Forum.
Quel giorno si verificò l’attacco terrorista contro
New York e Washington. Quindi, il dato della Fao passò
completamente sotto silenzio sui mezzi di comunicazione
internazionale, perché tutti si concentrarono sugli attentati
negli Stati Uniti.
Io credo che la guerra abbia molti campi di battaglia e uno
di questi sono i popoli: cercano di neutralizzarci. Per
arrivare a questo ci sono molti modi: limitare o togliere
il diritto alla salute e all’educazione; utilizzare il ricatto
della disoccupazione. Questo capitalismo non riesce a
riformarsi per una semplice ragione: è nato senza cuore.
E senza cuore non si ha la capacità di amare».
Ha ancora un senso l’organizzazione delle Nazioni Unite?
«Credo che le Nazioni Unite siano state destituite dal potere
egemonico degli Stati Uniti, che hanno imposto le
loro condizioni. Si pensi che gli Usa non vogliono ratificare
il “Tribunale penale internazionale” (2); in compenso
hanno istituito tribunali militari per quelli che loro considerano
terroristi».
Allora, professore, un mondo in pace è un’utopia o una
possibilità reale?
«Io dico: sì, è possibile, nonostante tutte le difficoltà di
questi anni, nonostante la corsa agli armamenti, nonostante
la povertà. È possibile costruire un mondo in pace
se noi siamo disposti a renderlo possibile… Io cito
spesso gli studenti del ’68 in Francia. Essi dissero una
cosa che dobbiamo tenere presente: “Siamo realisti, vogliamo
l’impossibile”».
Ci dia qualche suggerimento più concreto…

«Dobbiamo sviluppare la creatività, il senso della vita, la
solidarietà e per questo dobbiamo unire le volontà: i popoli
vogliono la pace non la guerra, non vogliono le armi
ma costruire una vita più giusta per tutti.
Perché crediamo che non sia possibile? Siamo paralizzati
dalla paura e se abbiamo paura non possiamo conquistare
la pace. Perché crediamo che non sia possibile
affrontare la dittatura economica e finanziaria del Fondo
monetario e della Banca mondiale? Perché siamo paralizzati?
Voglio fare un esempio concreto: nella seduta del Tribunale
dei popoli abbiamo parlato del debito estero (un problema
che sembra destinato a perpetuarsi per l’eternità),
per cercare di comprendere il meccanismo di dominio internazionale.
Ebbene, sarebbe possibile superare il problema del debito
estero-eterno, ma noi ci sentiamo prigionieri, senza
volontà: ci hanno fatto credere che sia impossibile venie
fuori.
Invece, sarebbe possibile se i popoli di America Latina,
Africa e Asia avessero il coraggio di unirsi e di dire basta.
Se diciamo basta, non ci dobbiamo preoccupare noi;
si deve preoccupare la Banca mondiale e tutti i centri della
finanza internazionale».
Quella stessa finanza internazionale che in questo
momento sembra voglia lasciare l’Argentina al proprio
destino. Lei non teme un intervento militare, un
colpo di stato?

«No, non credo accadrà. Ma certamente noi dobbiamo
vigilare e lavorare per favorire una soluzione democratica
».

NOTE:
(1) Il riferimento è alla sessione annuale della Commissione Onu
per i diritti umani, riunita a Ginevra dal 18 marzo al 16 aprile.
(2) Il «Tribunale penale internazionale» delle Nazioni Unite è nato
a Roma il 17 luglio 1998. A 4 anni di distanza dall’approvazione
dello statuto, il trattato istitutivo è stato ratificato da 66
paesi. Sono assenti paesi importanti, tra cui Cina, Russia, Israele
e, appunto, gli Stati Uniti.

Paolo Moiola




COMMOZIONE DI POPOLO

A Brasilia, la capitale del futuro,
la gente semplice vive la sua fede
con profondo sentimento
e partecipazione.
Come in occasione della festa
della Consolata
e la processione in suo onore.
A Brasilia, la capitale del futuro,
la gente semplice vive la sua fede
con profondo sentimento
e partecipazione.
Come in occasione della festa
della Consolata
e la processione in suo onore.

Brasilia è una delle poche città al
mondo (insieme con Washington)
ad essere stata totalmente
decisa e pianificata da un gruppo di
architetti e urbanisti. In effetti, a metà
degli anni Cinquanta, essendo diventata
insufficiente Rio de Janeiro, il governo
brasiliano decretava che una
nuovissima capitale doveva essere costruita
al centro del paese; una città,
simbolo del futuro del Brasile e dell’umanità.
La sua costruzione diventò
una sfida, dal momento che la più vicina
strada asfaltata si trovava a 600
chilometri e la più vicina ferrovia a
125 chilometri.
Dopo una serie di lavori titanici,
Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960
alla presenza di 150 mila invitati.
Fin dal 1964 i missionari della
Consolata avevano voluto partecipare
all’avventura di Brasilia con la
costruzione della parrocchia «Nostra
Signora della Consolata», una
delle prime aperte nella nuova città.
Attualmente vi lavorano tre missionari:
Giuseppe Galantino, Oreste
Ghibaudo e Serafino Marques; gli
ultimi, due sono «giovanotti» di 84
e 77 anni. Con loro vi è un diacono
permanente, José Luiz de Oliveira
Jesus, uno dei pilastri della pastorale,
che interessa ben 20 mila fedeli.
Ed è proprio nella modeissima
e avveniristica Brasilia che, il 20 giugno
scorso, ho celebrato la festa della
Consolata. Ma ero ben lontano dall’immaginare
ciò che avrei vissuto.

LA «VISITA» DI MARIA
La festa della Consolata, a Brasilia,
si comincia a preparare un mese prima,
grazie a un centinaio di volontari
che lavorano insieme agli agenti pastorali.
Catechesi speciali vengono
proposte soprattutto ai ragazzi, perché
possano meglio comprendere il
ruolo di Maria nella storia della salvezza.
Durante la novena, poi, ai parrocchiani
è data la possibilità di approfondire
la loro vita cristiana.
La chiesa (ma anche i quartieri della
parrocchia) viene addobbata con
bandierine, fiori e nastri. Io stesso ho
visto sul muro di un palazzo di 12 piani
un’immensa corona del rosario,
fatta di palloncini bianchi e blu. La vigilia
della festa, i catechisti vanno in
ogni quartiere a incontrare i giovani
e parlare loro della Madonna.
Ma la cosa più straordinaria (o più
curiosa) deve ancora arrivare: è «la visita
» che la Consolata compie in tutti
i quartieri della parrocchia.
Sono le ore 15, e padre Galantino
incomincia ad inquietarsi: «Dov’è il
diacono?». È lui, infatti, che ha organizzato
l’insieme delle celebrazioni
con altri volontari. Mi confida il parroco:
«Non ho mai visto una parrocchia
simile; qui davvero non sono i
preti a tirare la carretta, ma i laici! Ve
ne sono centinaia che portano avanti
la maggior parte del lavoro pastorale.
E che organizzazione!».
La polizia (due vetture e otto moto)
arriva alle 15,20. La radio è pronta,
dal momento che tutte le celebrazioni
saranno trasmesse in diretta dall’emittente
Nova Aliança de Brasilia.
Puntualmente, alle 15,25, le tre macchine
della scorta sono nel cortile.
Arriva anche mons. Geraldo de Espirito
Santo Avila, vescovo dell’esercito
brasiliano. A questo punto il carro
della Madonna «esce» solennemente
dal cortile delle missionarie
della Consolata, dove è stato preparato
e ornato: su una vettura, coperta
di paramenti bianchi e blu e di fiori,
troneggia la statua della patrona.
Oggi Maria va a visitare i suoi fedeli!
Mi avevano detto che i brasiliani
non brillano per la puntualità. Ebbene:
o gli abitanti di Brasilia non sono
brasiliani o io devo rivedere i miei
pregiudizi… La visita doveva cominciare
alle 15,45; dopo essere passati
negli otto quartieri della parrocchia,
si ritornava nella chiesa centrale per
la messa solenne delle 19. «Ma questo
– mi dicevo – non succederà prima
delle 20. Invece alle 19,05 la messa iniziava!
La processione si mette in marcia
e ci fermiamo nel primo quartiere.
Vedendo arrivare la statua, la gente
canta e grida: «Viva la Madonna! Viva
la Consolata!». In ogni quartiere
c’è un’orchestra, formata da giovani,
che suona e intona il primo canto alla
Vergine. La gente risponde in coro.
Il vescovo, assistito dal parroco,
scende dalla vettura, mentre fuochi
artificiali e petardi scoppiano nel parco
vicino. Si avvicina al carro della
Madonna ed inizia una preghiera:
con lui la gente pregherà per i bambini
e genitori, per gli ammalati e sofferenti
e sempre chiederanno a colei
che è «la stella dell’evangelizzazione»
di inviare ancora missionari per annunciare
la Buona Novella ai quattro
angoli del mondo.
Dopo le invocazioni, il vescovo benedice
gli oggetti religiosi e chiede a
Maria di proteggere le persone e i loro
beni, coloro che sono in viaggio…
Si sa che violenza, criminalità e incidenti
stradali sono frequenti in Brasile!
Poi termina con una benedizione,
aspergendo tutti con acqua santa.
Uno degli animatori, allora, prende
il microfono e la celebrazione viene
nuovamente «riscaldata» da preghiere,
cori e canti. Scoppiano ancora
petardi e fuochi d’artificio, mentre
tutti seguono il carro della Madonna.
E così verso il prossimo quartiere.
Anche qui centinaia di persone aspettano
la loro madre e patrona; anche
qui canti e applausi, petardi e benedizioni…
Poi, sempre in marcia, si
raggiunge un altro quartiere.
Maria li ha visitati tutti, in questa
grande parrocchia di Brasilia, la città
costruita come un’«anticipazione»
del futuro. Maria, salita al cielo, gloriosa
presso Dio, non è forse il simbolo
più vero di ciò che Egli desidera
per l’umanità tutta?…
Non siamo lontani dall’Equatore.
Pertanto, verso le 18, la notte scende
quasi di colpo. È all’imbrunire che si
visitano gli ultimi due quartieri. Ma
c’è ancora più confusione: la statua
della Madonna è illuminata e, mentre
arriva nella semioscurità del quartiere,
sembra proprio un’apparizione…
Tutto ad un tratto si accendono
centinaia di candele. Anche per l’arrivo
nell’ultimo quartiere decine di
giovani agitano stelline luminose, come
fosse una grande festa di compleanno.

LACRIME DI COMMOZIONE
Quando la processione arriva nella
chiesa parrocchiale centrale, questa
è già stracolma. Sotto la direzione
animata ed entusiasta di padre Oreste,
la gente canta e accoglie la statua
con un bornato di applausi. Non ho mai
visto niente di simile nella mia vita
missionaria! L’esaltazione è al culmine.
Il parroco fatica a calmare l’assemblea
ed iniziare la messa.
Dopo la comunione, entrano in
processione un centinaio di bambini
e bambine, rivestiti di bianco e con alucce
che li trasformano quasi in angeli
del cielo: circondano la statua,
posta su di un piedistallo, alla sinistra
del presbiterio. Mentre si canta un inno
mariano, decine di lampade illuminano
il viso della Madonna; poi un
ragazzo depone sulle sue spalle un
manto blu e una ragazza una bianca
corona sulla sua testa. Scoppia un applauso
fragoroso, e non si sa bene se
gli adulti applaudono i loro figli o la
Vergine. Molti hanno le lacrime agli
occhi e anch’io…
Tutto questo mi rimanda alle processioni
del Corpus Domini della mia
infanzia, nel Québec (Canada), quando
la fede era ancora forte… In Brasile
la gioia, l’esaltazione e l’entusiasmo
mi ricordano numerose celebrazioni
vissute in Africa. Ma, a Brasilia, ho avvertito
una qualità di fede tutta speciale.
Non so perché: ma gli occhi che
fissavano la statua della Madonna,
trasportata da un quartiere all’altro
della capitale brasiliana, i corpi che
danzavano e agitavano ogni sorta di
bandiere e drappi, mentre la Consolata
attraversava le strade della città
del futuro… tutto questo mi ha dato
un’impressione di freschezza e verità,
che non riuscirò a dimenticare.
Al momento del mio arrivo nella
capitale non sapevo cosa mi aspettava.
Però, nel giorno della Consolata,
credo proprio che il cielo si sia aperto
su Brasilia… Ora sono un po’ invidioso
di padre Galantino, parroco di
una porzione davvero eccezionale del
popolo di Dio. Non so se quello che
ho visto sia un raggio di cristianesimo
futuro; però so che quella sera, stanco,
non riuscivo a prendere sonno, a
causa delle immagini di fede che facevano
ressa nel mio cuore.
L’indomani ho chiesto al diacono
se tale festa della Consolata
facesse parte del cristianesimo
passato o futuro. Mi ha risposto che
era quello del passato. Lasciamo,
dunque, a Maria il compito
di preparare il futuro
del Brasile!

RIMANETE CON NOI!!
Maria merita il nome di Consolata con due significati: infatti
fu dapprima consolata per diventare la consolatrice
di tutto il genere umano.
Ragazza di 14-15 anni, Maria riceve un annuncio che la
riempie di spavento. Ma non deve temere perché, secondo
le parole dell’angelo, «il Signore è con lei». E per la «consolazione
» che riceve, potrà pronunciare una parola che
sarà principio di salvezza per noi tutti. Se non comprendiamo
il motivo di quel suo sgomento, non capiamo neppure
l’importanza della sua risposta: «Io sono la serva del
Signore».
Maria era figlia di ebrei, e una ragazza che rimaneva incinta
fuori del matrimonio metteva a repentaglio la propria vita.
Ai giorni nostri sentiamo dire che nei paesi musulmani
c’è gente, scoperta in adulterio, che viene lapidata: una prassi
normale, in passato, nel Medio Oriente e in Israele. Ma
poiché la Madonna era di grande fede, le bastarono poche
parole per ricevere consolazione, tanto da dare principio a
una nuova era nella storia dell’umanità; poiché questa è l’era
della grande «consolazione», il tempo di Gesù, salvatore
di tutti.
Carissimi missionari della Consolata, è per noi una grande
gioia avervi qui. Leggevo tempo fa un libro, scritto
da un vostro confratello, uno dei pionieri che raggiunsero il
Kenya. Raccontava della vita dura, specialmente nei primissimi
tempi, sperimentata dai missionari: stanchi, anneriti
dal fumo del treno, ma sempre avanti, fino alla meta. Erano
scesi in un posto sconosciuto e da lì avevano ripreso,
a piedi, il viaggio verso la meta; salirono montagne, ebbero
tanti malanni; qualcuno tra i portatori, durante la carovana,
morì anche per strada. Fino
a quando arrivarono…
Quello che vorrei dirvi è questo:
l’audacia di quei pionieri nasceva
da una fede enorme! E mi
vengono in mente quei benedettini
che furono i primi a venire
dalle nostre parti, in Tanzania;
non avevano neppure emessa la
prima professione religiosa e ricevettero
l’ordine di andare in
missione. Lasciarono il loro paese,
senza più tornare (non conobbero
neppure la loro casa
madre). Anche i missionari della
Consolata seguirono lo stesso
modo di evangelizzare: partirono
senza sapere dove andavano,
in paesi stranieri, poveri,
diversissimi dall’Italia; sapevano
della malaria, dei serpenti,
dei leoni… ma andarono.
E dove hanno trovato il tempo
per costruire dentro di sé la fede,
per essere missionari? Il motivo
è che avevano già la fede «succhiata
» dalla Consolata, la quale
ebbe il dono di trovare la consolazione
di Dio.
Tra i primi missionari, alcuni lasciarono poi il Kenya per venire
qui in Tanzania. Vennero per «kuziba pengo» («riempire
un vuoto lasciato da un dente estratto»; ma Pengo è
pure il cognome del cardinale che sta parlando; ndr): a
riempire il vuoto lasciato dai benedettini. Ereditarono parrocchie
non in una situazione normale, ma post-bellica, in
una ex colonia tedesca. «Io sono la serva del Signore, sia
fatto a me come l’Onnipotente vuole». Vennero qui da noi.
La loro opera la conosciamo e apprezziamo: un lavoro
grandioso e che ci riempie di meraviglia. Come hanno fatto
tutto questo, superando difficoltà e ristrettezze?
I nostri missionari, all’inizio del secolo scorso, erano pronti
a mettere la vita nelle mani dell’Onnipotente per eseguire
il mandato: far sì che anche per i tanzaniani (come prima
per i kenyani) sorgesse «l’ora di Dio», avessero la consolazione
di conoscere il Signore Gesù… Ma anche il nostro
mandato non è diverso dal loro. Poiché la presenza di Dio
tra gli uomini è necessaria, questo è il lavoro che riceviamo
da Maria Consolata, tramite i suoi missionari.
Figli della Consolata, vi faccio le mie felicitazioni: per la
festa di oggi e per il vostro grande lavoro fatto qui, nella
nostra chiesa. Vi siete dati senza risparmiarvi, come la
Madonna Consolata che disse: «Se c’è da rischiare la vita
non importa; se Dio vuole invece che viva, così sia, come
vuole l’Onnipotente!».
Grazie di cuore per averci dato la possibilità di avere Dio
con noi! Anche noi ora possiamo dire: «Emanuele! Dio è
con la sua gente!».
Dopo avervi ringraziati, vi preghiamo di continuare a inco-
raggiare noi, che siamo i vostri figlioli
e nipoti, perché lo spirito che ci avete
portato non venga mai meno. Siate con
noi, state con noi! Io penso che, umanamente
parlando, il periodo più duro
della missione sia passato, poiché se
qualcuno oggi desidera i maccheroni,
anche qui a Dar es Salaam li può trovare…
e anche le medicine!
Rimanete qui, restate qui! E, se qualcuno
è sfinito e non riesce più a lavorare,
non abbia paura, non pensi di essere
inutile e di tornare in Italia; ma vada
davanti all’eucaristia a pregare per
noi l’Onnipotente. Stia qui e preghi; preghi
insieme a noi, perché possiamo vedervi
e imparare. Vi promettiamo che
faremo tutto il possibile per portare avanti
lo spirito messo in noi, affinché il
nostro popolo possa sempre dire: «Emanuele!
Dio è con il suo popolo!».
Polikarp Pengo
(traduzione dallo swahili
di padre Giovanni Medri)

LA LUCE È RIMASTA NEI MIEI OCCHI
Caro direttore, le presento una testimonianza
sulla Madonna Consolata
di Agnese Capello, mia cugina.
Essa gradirebbe che fosse pubblicata
su una rivista con il nome
«Consolata». Agnese mi ha chiesto
di ritoccare lo scritto. Ma ho pensato
che non sarà, certo, la forma a togliere
interesse ad un testo già bello,
così come è nato da chi ha vissuto
la vicenda che racconta.
M.P. QUIRICO – TORINO

È con gioia che pubblichiamo la seguente
testimonianza proprio nel mese
della Consolata.

Quando una persona si ferma un
tantino a meditare sul senso della
vita, è facile che le vengano in
mente alcuni particolari molto significativi.
Un episodio che, iniziando dai nostri
vecchi, si è tramandato di padre
in figlio riguarda un affresco, che si
trova sulla facciata della nostra casa
in un paese della collina torinese.
L’affresco rappresenta la Consolata
e risale al 1856.
Venne eseguito per un «voto»,
fatto alla Consolata in un momento
penoso per la gente, quando serpeggiava un’epidemia che colpiva i
bambini dai 13 anni in giù. Ne erano
già morti parecchi, e i genitori
che vivevano nella casa avevano promesso
alla Consolata che, se salvava
i loro numerosi bambini, s’impegnavano
a far dipingere la sua effigie
sul fronte della loro abitazione.
Bisogna pure ricordare che, in tante
case, la fede consisteva anche nel recitare
ogni sera il santo rosario.
I genitori intensificarono le preghiere
finché, cessato il pericolo che
durò parecchi mesi, esaudirono il loro
voto, perché tutti i bambini erano
salvi. Fecero eseguire l’affresco, e
continuarono a pregare e ringraziare
la Madre Consolata mettendosi
sotto la sua protezione, poiché quell’avvenimento
fu considerato un miracolo.
Il pittore che eseguì l’affresco
fu un certo Nicolao Doria. Si presume
che fosse un ligure. In quella casa
nacque pure Demetrio Casola
(1851-1895), ricordato nelle enciclopedie
come pittore.
Tutti i genitori, che si sono succeduti
nella casa nel corso degli anni,
hanno sempre avuto una particolare
attenzione e il massimo riguardo
verso la Madre di Dio, che era considerata
una componente della famiglia.
La pittura è rimasta inalterata
nei colori, pur essendo esposta alle
intemperie.
Anche i miei genitori abitarono
nella casa. Nel 1956 (anno del centenario
dell’affresco) si prodigarono
per festeggiare l’anniversario. Era
prima del Concilio ecumenico Vaticano
II, e non si poteva celebrare la
santa messa. Però ci fu una grande
partecipazione di parenti e alcuni
sacerdoti, con preghiere, canti mariani
e il santo rosario.
Terminate le funzioni, ci fu un bel
rinfresco per tutti.
Nel 2006 saranno 150 anni di
«presenza matea» nella nostra
casa. Per l’occasione, se Dio vorrà, ci
sarà ancora un ricordo, perché è
sempre bene lodare la nostra Madre
Santissima Consolata.
AGNESE CAPELLO – TORINO

Alla Consolata sono riconoscente
fino dall’infanzia. Nel maggio
1945 (era da poco finita la guerra)
i miei genitori mi accompagnarono
in treno da Bra (CN) a Torino al santuario
della Consolata, per ringraziare
la Madonna. Il viaggio fu avventuroso,
perché eravamo in un carro-
bestiame, alla mercé del vento.
Ricordo Torino con tanti cumuli di
macerie, a causa dei bombardamenti
subiti.
Dunque la guerra era finita, ed io
ne ero uscita miracolata. Lo scoppio
di una granata mi aveva ferito il naso,
un orecchio e una gamba. Ma la
pioggia di schegge non mi colpì gli
occhi. Subito i miei genitori esclamarono:
«Questo è un miracolo della
Consolata!».
Fede semplice e viva quella dei
miei genitori, fede dettata da sofferenza,
senza perdere mai la fiducia
in Maria, Madre nostra in tutte le ore
della vita.
Così la luce è rimasta nei miei occhi.
CATERINA VIRANO – BRA (CN)

È un’altra testimonianza che calza
a pennello con il mese di giugno. Anche
la signora Giovanna Castellano
(di Torino) ringrazia pubblicamente la
Consolata «per grazia ricevuta in favore
del figlio».

Cari missionari, ho 17 anni e fin
da bambina conosco la Vergine
Consolata. Nella contrada in cui mia
madre è nata e cresciuta si venera la
Consolata da molto tempo. La sua figura
mi è rimasta impressa per il
racconto di un «miracolo».
Mia madre era una bambina di
quarta elementare e in quell’anno
si abbatté un terribile nubifragio
con una violenta tromba d’aria. Allora
a scuola si andava a piedi, e il
mattino seguente la tempesta ella,
in mano del nonno, si avviò tra
massi scivolosi, ciottoli fangosi e
grandi pozzanghere.
All’approssimarsi della scuola, vicino
alla chiesetta della Consolata,
mia madre non vide più l’edificio
sacro, ma un cumulo di macerie.
Un’ombra scese sul suo cuore e su
quello del nonno.
Erano ormai giunti e… sul mucchio
di rovine essi videro la statua
della Madonna, di fragile gesso,
dolcemente adagiata, illesa, eccetto
che in una mano. E illesi erano
tutti gli abitanti della contrada,
nonché le case, le stalle, gli animali.
In quella chiesa, ricostruita più
grande, ho frequentato il catechismo
e ho coltivato il mio spirito alla
luce del vangelo e nell’ascolto di
esperienze missionarie. Crescendo,
la scuola (frequento il liceo classico)
e gli amici mi hanno forse impoverito
il bagaglio religioso; ma
mi sono ripresa, per un incastro di
cose difficili da capire o spiegare.
Da tre anni, cioè da quando è
morto il nonno Nicola Gironimo, vostro
abbonato e devoto della Consolata,
seguo con particolare interesse
la vostra rivista, che vorrei
continuasse ad essere recapitata a
nome del nonno. Apprezzo il modo
limpido con cui voi, missionari, raccontate
la vita e, soprattutto, il vostro
impegno nell’alleviare la sofferenza
dei fratelli. L’offerta inviata
è a favore dell’ospedale di Neisu
(Congo), affinché l’opera di padre
Oscar Goapper non si arresti.
Infine questa lettera vuole essere
un grazie alla Vergine, madre di
ogni consolazione. Maria sostenga
tutti e mantenga viva nella mia e
in tutte le famiglie la luce della verità
fatta carne.
MARA CERVELLERA
MARTINA FRANCA (TA)

Carissima Mara, anche la tua testimonianza
è splendida, come lo sono
i tuoi 17 anni…
A tutti gli amici e sostenitori delle
missioni assicuriamo la preghiera
alla Vergine Consolata dei suoi missionari
sparsi nel mondo.

Jean Paré




NEISU (R.D. Congo): emozioni di un viaggio atteso

UN’OASI DI PACE


Finalmente, dopo tanti inviti, la possibilità di vedere (e
gustare) l’opera di padre Oscar, medico-missionario prematuramente
scomparso, nel piccolo villaggio della foresta e nel suo ospedale, dove
ancora tutto parla di lui.Una visita, anche, per dirgli grazie.

Kampala
(Uganda): dopo cinque lunghi giorni di attesa, c’è la possibilità di
partire con un piccolo aereo. Meta, missione di Isiro (Congo, repubblica
democratica).

Sono con
mio marito Piero, padre Rinaldo Do, superiore regionale dei missionari
della Consolata, una suora comboniana e David, seminarista congolese di
ritorno dal Brasile per le vacanze natalizie. Finalmente sto per
realizzare un mio sogno, dopo un’attesa che dura da otto anni, cioè da
quando io e l’associazione S.O.S. di Padova abbiamo iniziato ad aiutare
padre Oscar Goapper e il suo ospedale di Neisu.

Con
l’aereo a 10 posti, cinque dei quali lasciati alle merci, volo sopra
enormi estensioni di foresta e percepisco chiaramente che quelle forme di
vita vegetale sono conservate come in uno scrigno da una natura
incontaminata. I miei occhi «bevono» i colori chiaro-scuri dei verdi
equatoriali. Il paesaggio mi affascina, ma attendo con ansia l’arrivo a
Isiro.


«Respirando»
ingiustizia e abbandono


 All’aeroporto (ma di questo ha solo il nome), ci sono padri Antonello e
Giuseppe che ci attendono. La gioia di trovarci lì è tanta e, dopo una
breve sosta nella casa regionale, proseguiamo il viaggio verso il
villaggio di Neisu, a 30 chilometri da Isiro. Per percorrerli ci vogliono
quasi due ore; la strada, infatti, è simile a un sentirnero, circondato da
un’intricata vegetazione che si protende verso di noi, quasi in un
abbraccio.

Di tanto
in tanto incontriamo «i ragazzi delle biciclette», che rappresentano
l’unica possibilità di comunicazione tra le varie zone del paese in
guerra: percorrono anche 800 chilometri per rifornire i propri villaggi
del necessario (olio, zucchero, sale, indumenti, ecc.), trasportando
150-200 chili per volta; costretti perciò, al ritorno, a spingere il loro
mezzo a piedi. È una fatica immane (che può causare anche la morte), a cui
si aggiunge  il pericolo costante delle imboscate da parte dei ribelli,
che li assalgono per derubarli. Nel vederli così stremati, costretti a
svolgere tale lavoro (unico mezzo di sostentamento per loro e la loro
gente), quanta pena! Una profonda commozione mi assale e non riesco a
trattenere le lacrime. Eppure, provo compassione anche per i ribelli,
spesso bambini-soldato che, armati di fucili a volte più grandi di loro,
ricorrono alla violenza per sopravvivere in mezzo ad una situazione di
caos e disperazione.

Quante
volte padre Oscar ci aveva descritto questa realtà; quante volte ci aveva
invitato alla solidarietà! Ora che non c’è più, mi chiedo con quale stato
d’animo entrerò nella sua casa, nel «suo» ospedale, nel villaggio dei suoi
mangbetu. Nella mente scorrono ricordi di descrizioni, episodi,
personaggi, progetti rimasti in sospeso; percepisco anche il timore di non
riuscire a vivere pienamente un’esperienza che da molto tempo desideravo
fare.

Cerco di
non pensare e tento di lasciarmi trasportare, libera, in mezzo a quella
strada di terra rossa, che taglia la foresta, attraverso piantagioni di
caffè, cotone, riso… abbandonate per sempre: segni tangibili di un
passato fiorente e ora scomparso a causa della guerra, l’instabilità
politica e gli interessi economici inteazionali. Le guerre provocano
vittime (soprattutto donne e bambini) e sofferenze di ogni tipo, purtroppo
destinate a prolungarsi nel tempo.

Questo
l’abbiamo potuto constatare soprattutto a Wamba, a 130 chilometri da Neisu
(otto ore di viaggio), centro un tempo ricco e lussureggiante. Questa
città costituisce il simbolo della decadenza dell’intero paese: non vi è
più la linea elettrica, le pompe di benzina sono state asportate, niente
banche, il treno non passa più, l’ospedale è fatiscente e di molte case
coloniali non restano che gli scheletri, perché poche sono sopravvissute
ai saccheggi e all’abbandono. Unico forte punto di riferimento sono le
strutture della chiesa locale e di quella missionaria, a cui la gente,
cristiana o no, può rivolgersi per ogni bisogno, sapendo di non essere
abbandonata.

Sono gli
«agenti pastorali» (vescovo, preti, suore, missionari, catechisti) che
stanno cercando di ripristinare le vecchie costruzioni e propoe di
nuove. Con una fede che mi commuove, persistono nella loro opera, anche
senza la certezza che domani ci saranno abbastanza denaro e tranquillità
per continuare.

Con
lucidità respiro le ingiustizie e provo tanta tristezza. Il Congo, che nel
sottosuolo custodisce preziose pietre (oro, uranio, cobalto, diamanti e
ogni altro ben di Dio) è caduto in una povertà indescrivibile. Neppure i
più elementari servizi qui vengono assicurati.

Dopo 17
anni di viaggi in Tanzania, pensavo di essere collaudata a tutto; mi
accorgo, invece, che qualcosa di nuovo nasce dentro di me, sento crescere
inquietudine, rabbia e, contemporaneamente, desiderio di fare di più per
questa popolazione: cordiale, gentile, ricca di dignità e ancora capace di
lottare.


Già dipinto
tra i santi

Ecco Neisu.
L’atmosfera che trovo all’arrivo stabilisce istintivamente un rapporto di
calda simpatia; mi colpisce il sorriso dei mille bambini che ci stringono
le mani sussurrando: «Mbote!» (saluto in lingua lingala). I loro volti
sono entrati per sempre nel mio cuore.

È quasi
una visione: come in un «paradiso terrestre», le abitazioni ordinate tra
le piante gigantesche di ogni genere, che farebbero invidia ai più grandi
vivaisti del nostro mondo occidentale. Tutto è equilibrato, pulito,
tranquillo. Al centro, sorge l’elegante ospedale con 120 posti letto,
costruito in piena foresta per i mangbetu, popolazione del nord-est di
questo enorme paese, che vive ancora in capanne di legno, paglia e fango.
Il loro modo di aggregazione è semplice, ma ben organizzato.

Piero, mio
marito architetto, nota ammirato: «Questo ospedale si struttura in forme
organizzative semplici, ma adeguate alla gente che serve, pensato e
costruito come elemento stabile e duraturo. Il sistema costruttivo è
quello dell’edilizia attuale dei paesi sviluppati, però calato nella
realtà climatica del paese e adeguato al sistema di vita della
popolazione, abituata a vivere in orizzontale, su un solo piano. Non
strutture grosse e pesanti (come quelle della colonizzazione belga), ma
agili, leggere e più facilmente adattabili alle esigenze delle
trasformazioni che via via si possono rendere necessarie».

Infatti,
non appena la ragione ricorda che sei in mezzo alla foresta, ti accorgi
che si tratta di un piccolo giorniello di cui tutto il personale (medico e
paramedico) è giustamente fiero. In testa a tutti suor  Luisa che, con
padre Oscar, ha condiviso giornie, difficoltà e non poche… soddisfazioni!

La chiesa,
semplice anch’essa nell’impianto di base, non è uno spazio banale o
inutile; non lo è soprattutto per le espressività della popolazione, che
manifesta i propri sentimenti e la propria fede durante le celebrazioni
liturgiche. La notte di natale la chiesa è stracolma, la folla assiepata
anche all’esterno, un’illuminazione flebile (alimentata dal generatore)
mette in risalto il piccolo presepe posto davanti all’altare adornato con
una stella cometa e ghirlande di meravigliosi fiori rosa.

È, per me,
un momento emozionante: i padri Victor e Antonello, accompagnati da uno
stuolo di chierichetti (bimbi e giovani), entrano a passo di danza,
proprio come vuole il rito «zairese». In quel frastuono di canti e grida,
assaporo un fenomeno straordinario: un’incredibile felicità permette a Dio
di esprimere, attraverso quella messa, l’infinità del suo amore. E in quel
raccoglimento, così particolare e insolito, sento quanto sia straordinaria
la condivisione. La chiesa è  ricca di raffigurazioni assai significative
per i mangbetu, per la storia della chiesa d’Africa, per la vita di
Cristo.

E tutto
quanto esposto è frutto di un’unica mente, quella di un personaggio
«geniale», padre Oscar, l’uomo dalle molte doti: missionario, medico,
architetto, pittore… e puoi aggiungere amico, fratello, compagno di
strada, uomo della misericordia, ecc. A ragione è stato inserito, dopo la
sua morte, negli affreschi della chiesa tra le schiere dei santi e beati! 


Ritoo alla
realtà

Neisu è un
cuore (questo significa in lingua kimgbetu) che batte nella foresta
equatoriale del Congo, oasi di pace dentro la guerra, speranza per molta
gente.

Ed è qui,
nel giardino dell’ospedale, che riposa e vive ancora padre Oscar. Ogni
cosa parla di lui e a lui; anche gli alberi che vibrano, le foglie che
ondeggiano con il soffio del vento e il canto degli innumerevoli uccelli
tessitori. Una cappellina di paglia davanti alla sua tomba accoglie ogni
mattina i credenti, che elevano i loro canti in un’interminabile lode a
Dio. Ogni sabato, poi, il personale dell’ospedale partecipa alla liturgia
eucaristica, voluta proprio dal loro maestro; tutto è come prima, con la
stessa forza, la stessa fede. I padri Antonello, Richard, Bruno e Feando
continuano con entusiasmo a trasmettere alla popolazione il messaggio di
Cristo.

Ma, anche
in quell’angolo di pace si insinuano allarmanti presenze di ribelli,
mentre la situazione nazionale, determinata dall’instabilità politica, si
fa sempre più preoccupante.

Temo di
essere alla fine del mio soggiorno in Congo… finché una fortuita
combinazione ci spinge a prendere l’ultimo aereo disponibile per un
possibile rientro in Italia. 

Arriviamo
a Bunia che, purtroppo, non è molto dissimile da Wamba e Isiro, in quanto
nelle cittadine sono più evidenti i segni della guerra e della crisi di
cui soffre il paese. Qui il paesaggio è diverso: la fitta foresta
scompare, ma il verde non svanisce  e all’orizzonte svettano dolci
montagne, non troppo alte, dalle cime lisce e morbide. Godiamo di panorami
eccezionali, ombreggiati da nuvole bianche, spostate dal vento.

Il nostro
amico André (prete diocesano di Wamba) ci offre l’occasione di vivere, per
la prima volta, la speciale atmosfera della vita di un seminario africano.

Seguendo
il ritmo del sole, lodi all’aurora e vespri al tramonto: cori di voci,
preghiere e musiche accendono nell’animo qualcosa di straordinario e
delicato. Dimentico tutto ciò che fa rumore intorno; nelle notti di
silenzio, ascolto il mistero che mi avvolge e, ancora una volta, sento di
amare questo paese, tanto da sentirmi persino felice…

Grazie,
Oscar!

SOS


                Sos  è un organismo di volontariato, la cui sigla
significa: So- lidarietà – Organizzazione – Sviluppo. Nasce a Padova nel
1989, grazie all’entusiasmo di Sonia Bonin e di un gruppo di amici, con lo
scopo di creare ponti di solidarietà con i paesi meno fortunati
dell’Africa, in particolare il Tanzania. Contatti e progetti si
intensificano sempre più, sostenuti da un’intensa opera di
sensibilizzazione a Padova e… dintorni.

Dopo aver
conosciuto padre Oscar, l’Associazione si è impegnata ad aiutare
l’ospedale di Neisu, donandogli anche, poco prima della sua morte, un
prezioso (e costoso) microscopio. Il viaggio di Sonia, raccontato
nell’articolo, avrebbe dovuto realizzarsi prima della scomparsa del
missionario…

Sonia Bonin




SOMALILAND/ viaggio in un paese pacificato, ma non riconosciuto

UN POSTO SUL MAPPAMONDO

È uno dei
paesi che Bush definisce «stati canaglia», perché sospettato di proteggere
terroristi. In realtà, la Somalia è un paese in completa anarchia, in
balia dei «signori della guerra». Dal 1992, la parte nord si è separata
costituendo uno stato autonomo di nome «Somaliland», che ha deposto le
armi, ma che il mondo non riconosce. Questi sono gli appunti di viaggio di
un regista televisivo torinese, che su Somalia e Somaliland ha girato un
documentario.

Sono in
compagnia dei tecnici Liborio L’abbate operatore e Antonio Venere fonico.
Ad accoglierci c’è Stefano Errico, cornoperante italiano in servizio
permanente effettivo. Quando si atterra su una striscia di asfalto
bollente in mezzo al deserto, carichi di bagagli, con la prospettiva di un
controllo doganale africano, sporchi, sudati e stanchi, ci si affida alla
«voce amica» come un neonato alla mamma.

Riesco a
guardarmi attorno, a rendermi conto che cavalletto, telecamera, cassa luci
e affini rispondono tutti all’appello. Davanti al Tupolev noto due
signori: bianchi, piuttosto in carne, biondi, con la pelle color aragosta,
pantaloni corti, ciabatte infradito e maglietta bianca sdrucita della
Dallo Airlines.

Stefano
incrocia il mio sguardo. «Chi sono?» chiedo. «I piloti» risponde. Poi
aggiunge: «Avete fatto bene a viaggiare di mattina. Il pomeriggio, in
genere, sono ubriachi». Ho voglia di andare a dormire.

Ci
troviamo in Somalia per girare un documentario sulla guerra in corso.
Raffaele Masto, giornalista di Radio Popolare, e Davide Demichelis,
regista freelance, sono già stati un paio di volte a Mogadiscio. A me
tocca raccogliere materiali di contorno, un compito certamente più
agevole: la guerra è lontana da Berbera.

Abbiamo
preso alloggio in questa città, nel compound di Coopi (**), l’Ong italiana
che ci aiuterà nella nostra impresa. Esausto sul letto, condizionatore a
manetta, sfoglio il mio passaporto. L’ultimo timbro è ancora fresco e
recita: «Republic of Somaliland Visa Entry».

E qui vale
la pena spendere qualche parola di spiegazione. La Somalia è un paese che
da alcuni anni vive in una condizione di anarchia totale. Senza governo e
senza pace. Il nord del paese, già colonia britannica, nel maggio 1992 ha
unilateralmente dichiarato la propria indipendenza. Ed è nato il
Somaliland. Con tanto di capitale (Hargheisa), un presidente (Egal), un
parlamento, un esercito, una motorizzazione civile, una bandiera (rossa,
bianca e nera), una moneta (lo scellino).

Insomma,
ci troviamo nell’isola che non c’è; in una nazione che l’Onu non riconosce
e che sull’atlante non esiste. Il Somaliland, però, a differenza del resto
del paese è pacificato. Qui la guerra è un ricordo.

Anche
questa «stranezza africana» è da documentare. Insieme ai cooperanti
costruiamo un piano di lavorazione. Rimarremo in Somaliland due settimane
e ci muoveremo  tra Berbera, Hargheisa e Boroma, la terza città del paese.
Sempre scortati da Coopi. Quanto basta per portare a casa materiale
sufficiente a completare il nostro documentario.

Tutti sono
disponibili. Avremmo così visitato i progetti di Coopi. Giriamo in lungo e
in largo per il Somaliland, raccogliendo materiale sulla guerra ormai
conclusa.

A Berbera
la guerra ha lasciato segni profondi, soprattutto sulle persone. Anche
perché Berbera è il porto più importante del Somaliland, uno dei più
trafficati del Golfo di Aden. E la rivolta contro Siad Barre, all’inizio
degli anni novanta, è cominciata proprio nell’ «isola che non c’è». Il
generale Hersi Morgan ha messo a ferro e fuoco le città principali del
nord, nel tentativo di reprimere la rivolta. Oggi Morgan è un potente
signore della guerra. Vive nel sud. Qui lo ricordano come «il macellaio di
Hargheisa».


CORANO…
TERAPIA

A Berbera
c’è un manicomio. In inglese suona meglio: Mental Hospital. Lo gestisce la
cooperazione italiana, in collaborazione con una piccola, ma
efficientissima Ong locale.

Ma il
Mental Hospital non è solo un manicomio. Rappresenta la parabola di un
paese, racconta la storia di una guerra che ha sconvolto gli equilibri,
anche mentali, di una nazione.

«La
guerra, in fondo, è una follia. E quando la guerra finisce, spesso, rimane
solo la follia», ci spiega uno dei responsabili dell’Ong. I manuali di
psichiatria li definiscono «traumi da guerra». È la paura che cresce ogni
giorno di più. Che prima ti fa nascondere, poi scappare, poi ti gela e ti
rende incapace di reagire. Ti annienta il cervello. Colpa dei kalasnikov,
dei caccia che sfrecciavano sulla testa, delle razzie dei vincitori di
giornata e delle vendette degli sconfitti del giorno prima.

Il Mental
Hospital non è né bello, né accogliente, né adatto ad assolvere il suo
compito. È un luogo fetido, chiuso al mondo. Eppure ai nostri occhi sembra
un posto umano. «Facciamo quello che possiamo – raccontano -; l’emergenza
non è finita. Le priorità del paese sono altre. Noi cerchiamo di garantire
un minimo di assistenza e di pulizia».

Gli
inglesi nel 1944 trasformarono questa, che già era una prigione, in un
campo di concentramento per i soldati italiani.

«Per gli
standard occidentali questo posto può solo essere definito
“inconcepibile”- ci dicono i cooperanti di Coopi -. Invece questo è un
esempio, unico in Africa, di ospedale psichiatrico che si è aperto alla
comunità estea. I problemi sono enormi, ma la gente di Berbera si è
fatta carico, per come può e sa, di questi pazienti. Per quanto possa
sembrare assurdo, questo è un ospedale moderno».

Mentre
Liborio riprende questo carcere trasformato in manicomio, dietro di noi il
medico procede con le visite. Una visita assolutamente fuori del comune,
in perfetta sintonia con il luogo.

Avete mai
assistito ad una seduta di «coranoterapia»? Servono un imam (nella parte
del medico), un megafono (nella parte della siringa), un corano (nella
parte del medicinale) e un paziente (nella parte di sé stesso). La terapia
è semplicissima: trattasi della lettura di versetti del corano, sparati a
tutto volume nelle orecchie del paziente.

«Allah ha
il potere di liberare la mente, di scacciare il “gin”, lo spirito maligno
che, a volte, si impossessa degli uomini», ci spiega il «medico».

Antonio è
il più perplesso della troupe. Tutti e tre rivolgiamo all’unisono la
stessa domanda ai cooperanti: «Funziona?». «Non sarà ortodosso, ma i
risultati sono apprezzabili», è la risposta. L’Africa è, letteralmente,
incredibile.


L’EREDITÀ
DELLE MINE

I dintorni
di Berbera sono cosparsi da vecchie caserme e strutture militari
distrutte. Immagini preziose per il nostro documentario. Un pomeriggio
raggiungiamo una zona collinare, piuttosto distante dalla città. La
temperatura, come sempre, è soffocante. Ad accompagnarci, questa volta,
c’è solo l’autista, che non è per nulla entusiasta della «gita fuori
porta».

Il
pomeriggio somalo (a nord, a sud, a Mogadiscio o a Berbera) è dedicato
alla masticazione del chat, erba dagli effetti dopanti se ingurgitata in
dosi massicce. Al nostro autista tocca masticare chat non all’ombra di un
alberello, ma sul sedile della jeep.

Più
sconsolato che seccato (gli leggi in fronte «Ma perché i bianchi non
imparano una volta per tutte a godersi la vita?»), ci porta davanti a un
gruppo di caserme distrutte.

Con
Liborio e Antonio ci inoltriamo tra camerate scoperchiate, autoblindo
carbonizzate, elmetti forati da proiettili, ecc. Lavoriamo un’oretta sotto
il sole bollente. Esausto, chiamo l’autista. Un cenno con la mano, poi un
urlo, poi un altro urlo. Infine un cenno di risposta: «Non posso venire».
«Perché?» chiedo con un tono un po’ deciso. «Perché siete su un campo
minato». Anche se lontano, credo abbia notato il nostro repentino pallore.

«Non vi
preoccupate, credo ci siano solo mine anticarro». Non vi preoccupate?
Bombe anticarro? E se avessero, per errore, seminato anche qualche bella
italica mina antiuomo? In punta di piedi, tipo gatto Silvestro mentre si
avvicina furtivo a Titti, torniamo sui nostri passi fino alla jeep.

Rivolgendo
poi un sentito pensiero di ringraziamento all’Altissimo, sentenziamo:
«Domani pomeriggio si esce solo dopo che l’autista avrà serenamente finito
di masticare il suo cespuglio di chat. Ne avrà ben diritto no?». E
soprattutto impariamo anche noi bianchi a goderci un po’ la vita! L’Africa
è terra di uomini saggi.


SENZA GUERRA
C’È UN FUTURO

Durante
gli spostamenti (da Berbera ad Hargheisa e da Berbera a Boroma)
incontriamo paesaggi dall’asprezza incantevole. Cammelli, rovi, sabbia,
roccia, facoceri, capre, arbusti rattrappiti dal vento e dalla siccità. Un
habitat da brivido, all’apparenza ostile. Fermiamo la macchina, piazziamo
il cavalletto e iniziamo a girare. Tutto sembra immobile. Poi, una volta
che l’occhio si abitua alla luce quasi bianca e ai riflessi del calore,
scopri che quel deserto ostile brulica di vita: capanne, pastori, piccoli
villaggi. Scesi dalla macchina ci sentiamo soli, ma non lo siamo. Però il
silenzio è assoluto. Interrotto solo dalle folate di vento caldo.

Ad
Hargheisa cerchiamo di intervistare il presidente Egal o, in sub- ordine,
qualche suo ministro.

Tutto
inutile. Dopo varie telefonate, lettere e messaggi, ci dirottano su un
sottosegretario ai progetti di sviluppo. 

È un
incontro cordiale, breve, tra un regista curioso e un funzionario di
governo orgoglioso del suo paese. Un ufficio piccolo e disadorno. Un
computer impolverato e spento. Una scrivania di fòrmica trovata in chissà
quale cantina. Tende gialle bisognose di una rinfrescata. Il solito caldo
insopportabile. Il funzionario, alto e magro, vestito in completo cachi.
Si tratta di un cinquantenne con un sorriso cordiale e sdentato.

Sembra
stupito del mio stupore. «Il Somaliland non esiste» è la mia obiezione.
«Io, invece, mi aspetto che i fratelli somali seguano il nostro esempio» è
la sua risposta. «Ma l’Onu non vi riconosce», incalzo. «Ma Coopi sì:
questo è ciò che conta». Come dargli torto?


Ricapitoliamo. La Somalia occupa buona parte del Coo d’Africa, una delle
«pentole a pressione» del pianeta. La Somalia non ha un governo
riconosciuto da tutte le fazioni in lotta dalla fine di Restore Hope. La
Somalia ha un seggio all’Onu. Il Somaliland ha dichiarato la propria
indipendenza. Lo ha fatto anche il Puntland. Lo faranno anche altri. C’è
da scommetterci.

Il
Somaliland, che non esiste «de jure», ha i suoi porti pieni di navi
container che arrivano dal Golfo, ma anche dall’Europa. Le Ong occidentali
riescono a promuovere progetti di cooperazione solo in questa fetta di
Somalia. Che, vale la pena di ricordarlo, è l’unica davvero pacificata.
Voci sempre più insistenti dicono che la British Airways, la compagnia di
bandiera inglese, presto inaugurerà un volo Londra-Hargheisa. A Mogadiscio
non volano nemmeno i colombi.


Annusando l’aria, i nostri commenti sono due: o siamo finiti in un covo di
pazzi, che prima o poi qualcuno da Mogadiscio spazzerà via, oppure qui
hanno scoperto la «via africana alla pacificazione». Certo è che il
Somaliland, giorno dopo giorno, ci appare da un lato più strano e
dall’altro più credibile.

A
Boroma, che rispetto a Berbera è a sud e beneficia di un clima
godibilissimo, incrociamo un ingegnere italiano, con un curriculum vitae
invidiabile. Ama il suo lavoro e l’Africa. Quindi ha deciso di fare per
qualche tempo il cornoperante.

«Sono
qui da qualche anno – dice -. Ogni giorno vedo aprire nuovi piccoli negozi
e ogni giorno aumentano i prodotti che in quei negozi vengono venduti. Ci
sono sempre più auto in circolazione. La gente si veste meglio, mangia
meglio. Sanno approfittare delle opportunità che arrivano dalla
cooperazione internazionale. E sai cosa significa tutto ciò?».

«No»,
rispondo. «Che il Somaliland è un paese che cresce rapidamente, che
migliora il livello di vita e di istruzione e che, un domani, se la
Somalia dovesse diventare una repubblica federale la classe dirigente
arriverà da qui, dal Somaliland».

In
effetti, mentre a Hargheisa i giovani studiano, a  Mogadiscio si arruolano
nelle milizie armate. E mentre gli ex miliziani del nord sono tornati a
lavorare la terra, quelli del sud non sanno nemmeno più come si tiene una
zappa.



TRA «CHAT» E «CLAN»

In
tutta questa storia, un piccolo capitolo a sé meritano il chat e il clan.

Il chat
è quell’erba tanto cara al nostro autista. È un prodotto eccitante di cui
gli uomini sono accaniti consumatori. Si consuma nell’arco di tutto il
pomeriggio, fino alla chiamata del muezzin, che arriva verso le cinque. Il
chat, se serve, fa passare la fame e fa combattere. Ti tiene sveglio e può
mandare l’adrenalina alle stelle. Il nostro autista, per fortuna, si
accontenta di sognare beatamente all’ombra di un albero.


Controllare il mercato del consumo del chat significa poter contare su una
quantità enorme di denaro. Denaro indispensabile, a sud, per mantenere le
milizie armate; a nord, più prosaicamente, per arricchirsi.

Il chat
arriva clandestinamente dal Kenya e dall’Etiopia. Dall’alba fino alle 11
tutti i mercati della Somalia vengono raggiunti dal chat.

Tutti
lo masticano, quasi tutti ne abusano. Costa caro: una mazzetta di erba
(per poco più di un giorno) vale alcuni dollari.

Il
bello è che il chat è formalmente illegale. Per riprendee la vendita al
mercato ci appelliamo ai buoni uffici di Coopi. Alla fine ce lo offrono
anche. Ovviamente il dovere dell’ospitalità ci impone di assaggiarlo. Non
è male…

Il clan
è la cellula su cui si fonda la società somala. Sia essa il Somaliland
indipendente o quel che resta della Somalia unita. Il clan è,
sostanzialmente, una grande famiglia allargata, ma che ha potere assoluto
nella zona in cui vive. Senza l’assenso del clan, nessuna decisione
governativa può sperare di essere attuata.

Il
parlamento del Somaliland, che in tutto conta meno di 2 milioni di
abitanti, è formato da 600 persone. Al di là del fatto che l’elezione dei
parlamentari avviene per cornoptazione da parte dei clan, ciò rende l’idea
di quanto sia diverso il concetto di «rappresentanza politica».

Gli
«elders», gli anziani, rappresentano all’interno del parlamento, l’intero
scacchiere dei clan presenti sul territorio. Poi nascono alleanze,
convergenze, programmi comuni, ma l’instabilità è sempre in agguato. A
tenere insieme il puzzle c’è Egal, il presidente, «il padre della patria»,
colui che ha dato fuoco alle polveri nella seconda metà degli anni
Ottanta, iniziando a incalzare Siad Barre fino a farlo cadere.



LABORATORIO

Il
Somaliland è uno spicchio di mondo sospeso tra realtà e finzione.
Sicuramente degno di essere «scoperto» dalle telecamere. Credo si possa
affermare che siamo in presenza di un «laboratorio», tanto più
significativo in quanto sorto in un contesto di caos politico-militare
assoluto.

La
scommessa in atto è di quelle da far tremare i polsi. Di fronte
all’anarchia, il Somaliland ha scelto di dotarsi di un governo, di
strutture e di darsi una prospettiva economica. A noi, visitatori
occasionali, questo coraggio è piaciuto. Il continente africano attraversa
una crisi che sembra senza fine. In quella fetta di Coo d’Africa si sono
cercate e, forse trovate, risposte a quella crisi.

 


(*) Sante Altizio, nato a Torino nel 1966, lavora come programmista e
regista presso la «Nova-T», società di produzioni televisive di Torino. È
specializzato in reportage su temi sociali, con particolare attenzione per
le realtà dei paesi del Terzo mondo.


Ha firmato lavori su Capo Verde, Etiopia, Guinea Bissau, Brasile,
Argentina, El Salvador, India, Russia.


Tra l’autunno 2000 e la fine del 2001 è stato insignito di vari
riconoscimenti: documentari da lui firmati sono stati premiati ad
«Anteprima Spazio» di Torino, al «Festival Internazionale del Cinema» di
Saleo, al «XXX Premio Guidarello» di Ravenna.

***

(**) Il
Coopi, «Cooperazione internazionale», è un’associazione italiana di
volontariato internazionale che opera dal 1965. Attualmente interviene in
36 paesi del Sud del mondo con 106 progetti. La sede centrale è a Milano.

 

 


Scheda
geo
politica

 SOMALIA,
SOMALILAND E PUNTLAND


 Situata nel Coo d’Africa, estremità orientale del continente nero, la
Somalia conta su una popolazione di circa 9 milioni di abitanti, di
religione islamica al 95%. Ex colonia italiana indipendente dal 1960. Un
colpo di stato, nel 1969, guidato dal generale Siad Barre, conduce il
paese in un vortice di guerre (contro l’Etiopia) e violenze (contro gli
oppositori) senza fine. Anche negli anni più bui del governo di Siad
Barre, l’appoggio politico, economico e militare italiano (in particolare
di Bettino Craxi) non viene mai meno.

Mentre
la popolazione soffre le conseguenze di siccità e carestia, nel 1991 Siad
Barre viene deposto. È l’anarchia che dilania il paese costringendo le
Nazioni Unite all’intervento (1992, operazione Restore Hope). L’emergenza
umanitaria viene superata, quella politica no. L’intervento Onu è un
fallimento militare, raccontato dal recente film di Ridley Scott «Black
Hawk Down».

Dal
1992 la Somalia è abbandonata a se stessa. Dilaniata dalla guerra civile,
lo stato non esiste più. La Somalia, di fatto, è una nazione fantasma,
dove il potere è in mano ai «signori della guerra», finanziati per lo più
da capitali arabi.

Negli
ultimi anni, nel nord del paese, due regioni (Somaliland e Puntland) hanno
dichiarato unilateralmente la propria indipendenza. Nel 2001 un consiglio
di anziani ha eletto, a Gibuti, un presidente della repubblica, Moahamed
Abdim Kassim. La sua autorità non è stata riconosciuta dai clan più
importanti. Mogadiscio, la capitale, è una città isolata dal resto del
mondo.

 

Una
serie di documentari della NOVA-T


Quelle guerre dimenticate


Democrazia in salsa somala


Produzione: NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti

Regia
di Sante Altizio (con la collaborazione

di
Davide Demichelis e Raffaele Masto)

Prezzo:
12,90 Euro

 

Le
radici degli scontri si perdono negli anni Sessanta e si allungano fino
alla crisi di metà degli anni Novanta.

Le
testimonianze di Giancarlo Marocchino (forse l’italiano più famoso di
Mogadiscio) e di Hersi Morgan, il «macellaio», rendono bene l’idea di cosa
significhi vivere nella più completa anarchia. Il chat, il clan, gli
eserciti privati. E poi ancora Restore Hope, le organizzazioni umanitarie.

Abbiamo
provato a ricostruire il puzzle somalo. E di aiutare lo spettatore (grazie
anche alla presenza in video del prof. Angelo Del Boca) a cogliere
l’unicità di un paese che esiste solo sulla carta geografica.


«Democrazia in salsa somala» racconta anche il Somaliland, regione
settentrionale della Somalia. Nel 1993 ha dichiarato unilateralmente la
propria indipendenza. Hanno eletto un presidente, commerciano, battono
moneta. Non fanno più la guerra. Nel silenzio della comunità
internazionale, che riconosce la Somalia (che non c’è), ma non il
Somaliland (che c’è).

 È
questo l’ultimo episodio della serie intitolata «Guerre dimenticate»,
dedicata a conflitti di cui nessuno parla. Paesi in cui da anni si
combattono alcune tra le guerre più assurde del pianeta: lotte tra poveri
per il predominio di una striscia di arido deserto o per la supremazia di
una etnia sull’altra. 


Democrazia in salsa somala

Produzione:
NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti


Regia di Sante Altizio (con la collaborazione di Davide Demichelis e
Raffaele Masto)


Prezzo: 12,90 Euro


 


Saharawi, un muro nel deserto
– Per oltre 20 anni, il Sahara
occidentale è stato testimone della guerra tra l’esercito del Marocco e il
Fronte Polisario, organizzazione armata del popolo saharawi. Un muro di
2.000 chilometri è stato costruito dal Marocco, quale argine agli attacchi
del nemico.

 


Etiopia & Eritrea: vite di frontiera
– Erano paesi fratelli,
accomunati da usi e costumi simili. La guerra scoppia, improvvisamente,
nel 1998. Decine di migliaia di morti, profughi, feriti. Due economie, già
gracilissime, in

ginocchio.
Le ostilità dilagano per una contesa di territori che ha radici nella
storia coloniale: per brulle pietraie e deserti infuocati, senza valore
economico, senza una linea certa di confine.

 


Hutu-Tutsi. La guerra infinita
– Il Ruanda è un paese consumato da
lotte tribali. Quasi 1 milione di morti lasciati sul campo da hutu e
tutsi, le due etnie più rilevanti del paese. E la riconciliazione, a
distanza di anni, resta un traguardo lontano.

 

I
Nuba del Sudan
– Nel cuore del Sudan, nella regione dei monti Nuba, si
vive ancora secondo usi e costumi dell’Africa Nera. Dal 1983 la chiusura è
totale, a causa della violenta guerra che spacca il paese e oppone i
ribelli dell’«Esercito di liberazione» (Spla) al regime islamico, per
affermare l’autonomia del sud e dei monti Nuba.

 


Angola. La guerra invisibile
– Il conflitto, che da oltre 25 anni
insanguina questo grande e travagliato paese, di solito non appare. È una
guerra senza testimoni, combattuta in un territorio vastissimo, in
villaggi dispersi e isolati nella grande foresta pluviale che copre gran
parte del territorio. A scontrarsi sono i soldati governativi e i
guerriglieri dell’Unita, formazione nata dalla lotta per l’indipendenza,
che non ha mai accettato di integrarsi nel governo. Il conflitto non si
vede, ma se ne vedono gli effetti: fame, distruzione, fuga.

  


Per
informazioni su tutti i documentari, contattare:  «Libreria Missioni
Consolata», corso Ferrucci 12 ter,


Torino
– Tel. 011.44.76.695 – E-mail: libmisco@tin.it

 



I 20 anni della Nova-T

Due
decenni di reportage dal pianeta, sui problemi della globalizzazione, i
drammi del Terzo mondo, i temi dello spirito.

 di
Luca Rolandi


 Torino. Chilometri di nastro magnetico attraversano le frontiere sociali,
etniche, religiose e culturali per raccontare il mondo arabo, l’America
Latina, l’Africa, attraverso le parole e le esperienze di chi, in questi
paesi, vive e opera. Oltre 5.000 ore di girato in più di 80 paesi del
mondo. È questa la prima eredità di un progetto nato, quasi per caso, nel
1982, dall’intuizione di un cappuccino, padre Ottavio Fasano. NOVA-T
(Nuove Terre) da quell’anno fatidico di strada ne ha fatta moltissima. Nei
primi anni di vita ha lavorato molto nel mondo delle missioni per
raccontare quella parte dell’umanità dimenticata e afflitta da carestie,
guerre, povertà. NOVA-T ha realizzato documentari «senza frontiere», atti
a testimoniare l’attività di promozione sociale e umana svolta da
Organizzazioni non governative e da istituti religiosi impegnati nella
missione ad gentes.

La
società dei frati cappuccini della provincia di Torino all’inizio ha
lavorato molto nel Terzo mondo, poi negli anni ha spostato il suo raggio
d’azione anche nel settore educativo, catechistico, di promozione della
fede alla luce delle storie di santità, note e meno note. Le telecamere
della NOVA-T hanno filmato le vie della fede, della cultura, della guerra
e della pace, documentato le bellezze e le miserie del mondo, con un
occhio sempre attento all’uomo (i suoi bisogni, le sue pene, le sue
speranze).

Un
percorso che racconta grandi figure religiose: da San Francesco a papa
Giovanni Paolo II, dai santi sociali torinesi ai missionari martiri nelle
terre di frontiera. Tante finestre aperte sul mondo e realizzate con i più
modei strumenti tecnologici, audiovisivi e multimediali.

In
vent’anni di lavoro, faticoso e senza onori, vissuto con passione dai suoi
dipendenti, collaboratori, registi, amici, missionari, molte sono state le
collaborazioni di prestigio, realizzate con istituzioni civili e religiose
e con grandi protagonisti del mondo del cinema e del teatro.

Negli
anni Novanta, con il trasferimento nella suggestiva sede di Via Ferdinando
Bocca, in un ex convento e chiesa parrocchiale, all’inizio della salita
che porta alla basilica di Superga, la ricerca di nuovi stimoli e la
volontà di crescere professionalmente hanno portato NOVA-T a partecipare
alle principali rassegne del settore e a creare sinergie con distributori
e produttori di profilo internazionale. Prende il via la stagione
d’importanti collaborazioni.

Con la
serie «Popoli e Luoghi dell’Africa», nel 1996 NOVA-T trova in Superquark
della RAI il primo importante cliente nazionale televisivo: è l’inizio di
un interesse verso la società torinese, che culminerà con la co-produzione
NOVA-T e RAIGIUBILEO di «Padre Pio. Uomo di Dio», video ufficiale per la
beatificazione del frate di Pietrelcina.

Nel
1998, l’ostensione della Sindone a Torino, offre l’occasione di
realizzare, con l’Euphon, «L’Uomo dei dolori. La Sindone di Torino», video
ufficiale dell’evento. Nel 2000 escono due importanti co-produzioni:
«Conoscere la Sindone» (NOVA-T, Arcidiocesi di Torino ed Euphon) e
«Giovanni Paolo II. Quasi un’autobiografia» (NOVA-T, Centro Televisivo
Vaticano, Euphon).

Nel
2001 è la volta de «Una giornata al Concilio», rilettura critica e
divulgativa dell’evento che ha cambiato la chiesa, il Vaticano II,
realizzato in collaborazione con il Centro televisivo Vaticano e
l’Istituto Luce di Roma, del documentario «I fioretti di San Francesco».
Ed infine gli episodi della serie per la Tv «Guerre dimenticate», dedicata
a sei conflitti africani semisconosciuti ma, comunque, terribili.

E la
sfida di NOVA-T prosegue con l’arrivo di molti lavori tra i quali spiccano
i documentari sul beato Ignazio da Santhià (il cappuccino piemontese che
Giovanni Paolo II canonizzerà domenica 19 maggio 2002) e il film sul beato
Giuseppe Allamano, dove si racconta l’affascinante storia del fondatore
dei missionari/e della Consolata. Un uomo che non si mosse mai da Torino,
eppure abbracciò il mondo.

Sante Altizio




DOSSIER: mutilazioni genitali femminili


Circa 130 milioni di donne, soprattutto nel sud del mondo,
sono sottoposte a scioccanti mutilazioni: l’operazione si pratica su
bambine in tenera età. Un atto contro i diritti dell’integrità della
persona. Una sua manipolazione. E la denuncia è doverosa.


Persone in
corpo e anima

Lo scrisse
su Missioni Consolata, nell’aprile 1996, la ricercatrice Anna Bono.

La piaga
riguardava allora 80 milioni di donne, mentre oggi ne investe 130 milioni.
Il dato al rialzo è dovuto a maggiori informazioni acquisite negli ultimi
anni: informazioni non facili, trattandosi di un tabù.

Nel giugno
1996 il Tribunale di Washington riconosceva che l’escissione, ad esempio,
è una persecuzione: quindi motivo sufficiente per concedere asilo alle
donne che lo richiedono.

In Italia
le mutilazioni femminili sono vietate,in base all’articolo 5 del Codice
civile e agli articoli 582 e 583 del Codice penale.

Missioni
Consolata ritorna sul tema con un dossier, perché ritiene che la sua
conoscenza sia fondamentale per debellare la piaga. È una violazione dei
diritti umani.

Secondo la
teologia morale cristiana, «l’uomo è unità»: di qui l’importanza anche del
corpo-soggetto. La persona si apre al mondo attraverso il corpo. Ma, se
l’individuo è corpo, è pure vero che non si identifica con esso. «Il
soggetto umano è il proprio corpo e tuttavia più del proprio corpo»
(Tullio Goffi, Problemi e prospettive di teologia morale, Queriniana,
Brescia, 1976, p. 335).

In nome di
una presunta supremazia (complici tradizioni culturali discutibili),
l’uomo può trattare i suoi simili da oggetto. A fae le spese sono spesso
le donne. Donne ferite, nel corpo e nella mente, anche attraverso le
mutilazioni genitali. Una gravissima manipolazione.

Non
l’unica oggi.

Francesco
Beardi


Storie
drammatiche sulla propria pelle

 E
non sei più come prima


 «Io urlavo come un animale al macello… Non permetterò
mai che le mie figlie possano subire un torto simile» (Aisha). «Sono stata
cucita con spine senza anestesia. La ferita mi bruciava» (Basma). «Ci
hanno dato dei regali: ma con quello che abbiamo patito non sarebbe
bastato tutto l’oro del mondo» (Fatima).

Prende
fiato Aisha, una bella ragazza somala di 30 anni, mentre inizia il suo
racconto percorrendo, a ritroso nella memoria, i ricordi di un evento
traumatico. «Avevo otto anni – continua -, stavo giocando a pallone con
alcune amiche e cuginette, in mezzo alla strada, davanti alla casa di mia
nonna. All’improvviso arrivò correndo mia sorella, Zahra, che disse:
“Vieni, dài, stiamo per essere infibulate…”. Era felice. Ci avevano
detto che era un grande evento e che, per l’occasione, avrebbero ucciso un
pollo e ci avrebbero offerto dei dolci. Quindi mi alzai e, felice, corsi
via con lei. Entrammo in una casa poco distante, dove abitava una vecchia
levatrice. Toccò per prima a mia sorella, di un anno più grande di me. La
donna, con l’aiuto di mia madre e mia nonna, fece stendere la sorella su
una stuoia. Io rimasi nella stanza a fianco, seduta per terra, silenziosa,
come paralizzata. La sentii urlare. Il suo dolore mi sembrava atroce: mi
entrava nelle orecchie e mi impediva di respirare. Ero terrorizzata. Una
violenta ribellione si impossessò di me. Feci per fuggire.

Non capivo
bene che cosa stesse accadendo, ma certamente, regali o no, non volevo
soffrire. “Non voglio più essere cucita” gridai con quanto fiato avevo in
gola. Ma la nonna mi afferrò stretta e, aiutata da una vicina, mi adagiò
su un materasso. Poi si sedette dietro di me e mi tenne aperte le gambe,
come in una morsa. La vecchia ostetrica aveva terminato il lavoro di
ricucitura. Mia sorella ora se ne stava quieta, come un animale ferito,
senza forze e senza volontà, sulla stuoia ancora insanguinata.

Era il mio
tuo. Sentivo crescere la disperazione e la rabbia. In ginocchio, di
fronte a me, la vecchia mi guardava sicura e severa. Con un esperto colpo
di coltello mi tagliò la clitoride e le piccole labbra, senza anestesia.
Allora non si usava ancora; ora sì, in ospedale, dove l’infibulazione è
praticata dai medici.

Furono
minuti indescrivibili: il coltello grondava sangue, mentre io urlavo come
un animale al macello; non capivo perché mi stessero facendo quel male.
Mia madre e mia nonna mi rassicuravano dicendo che stavo per diventare una
donna, che avremmo festeggiato tutti insieme l’evento, che erano
orgogliose di me, della sorella e che, qualche anno dopo, avrei potuto
sposarmi e fare dei bambini.

“Sposarmi?
Fare figli?” domandavo a me stessa mentre mi tagliavano, e pensavo ai
giochi lasciati per strada… Mi cucirono con ago e filo, lasciando
un’apertura sottile per far defluire l’urina e il sangue mestruale. Poi mi
lavarono e disinfettarono con erbe e unguenti. Infine mi legarono le gambe
strette tra loro e mi portarono a casa della nonna, insieme a mia sorella,
dove rimanemmo immobili, distese su stuoie, per due settimane. “La ferita
si deve rimarginare bene – ci spiegarono -; altrimenti, quando
partorirete, si lacererà”.

In quei
giorni arrivarono familiari, parenti e amici a congratularsi con noi.
Portarono dolci e doni, ma a me non interessava nulla: ero mortificata e
scioccata. Mia sorella sembrava invece gradire tutte quelle attenzioni; si
sentiva importante. Io ero piena di rabbia: “Mai – mi ripetevo –
permetterò che le mie figlie possano subire un torto simile”.

Pochi anni
dopo, fui data in moglie ad un uomo molto più vecchio di me… La notte
delle nozze avrei voluto morire. Provai un dolore atroce. Per il marito,
invece, fu un grande onore, una prova di virilità, avere rapporti con una
sposa così cucita. È anche una sicurezza sulla sua fedeltà: con chi altri
potrebbe mai tradirlo?

Rimasi
incinta. Andai in ospedale a Mogadiscio. Là mi aprirono per farmi
partorire, e mi ricucirono. Avevo 14 anni e avevo appena terminato le
scuole. All’età di 18 arrivai in Italia con mia sorella…».

Da 12 anni
Aisha vive in Piemonte con delle connazionali e si prende cura della
figlia. Il marito è in America a lavorare.

A
Mogadiscio ha frequentato, finché ha potuto, scuole italiane, come la
maggioranza delle sue coetanee benestanti, e in Italia si è laureata in
medicina, mentre lavorava come assistente domiciliare per anziani. La sua
attività più importante è quella di sensibilizzare le sue connazionali,
giovani mamme e ragazze, contro la pratica delle mutilazioni genitali,
affinché quelle giovani vite non debbano patire torture atroci in nome
della tradizione e del controllo dell’uomo sulla donna.

Una donna
grossa mi bloccava tra le sue gambe, mentre mi bendavano gli occhi con un
foulard nuovo. Mi hanno operato senza anestesia (sono solo 20 anni che
hanno iniziato ad usarla, ad operare su tavoli e a chiamare un’ostetrica).
Sono stata cucita con le spine. La ferita mi bruciava. Mia madre mi ha
lavata con acqua calda. Dopo aver scavato una buca per terra e deposto
della carbonella con delle erbe che producevano fumo, mi hanno fatta
appoggiare sopra per disinfettare e seccare la cucitura, che è diventata
scura. Ho contratto un’infezione, perché mi sfregavo la ferita: sono stata
male per un mese, avevo la febbre…».

Nonostante
il ricordo ancora vivo della sofferenza causatale da tale pratica, Basma
si dichiara pronta per lo stesso intervento: sua figlia è stata infibulata
e vorrebbe che anche le nipoti seguissero la tradizione.

Per
Fatima l’esperienza non è da ripetersi. «Sono stata circoncisa a sette
anni, insieme ad una sorella di nove. Altro che festa! Quel giorno ho
subìto uno shock che non dimenticherò più. Sono stata operata senza
anestesia, senza niente. Ho sofferto moltissimo. Eravamo sette bambine da
sei a nove anni; c’erano le figlie dei vicini di casa, nel tempo di
chiusura delle scuole. Le donne si erano dette: “Facciamo ciò che dobbiamo
fare, perché le ragazze sono ormai grandi”.

Hanno
chiamato una donna anziana e siamo state operate in una casa vicina. La
prima ad essere sottoposta ai ferri è stata la più piccola, mentre noi
guardavamo terrorizzate, in lacrime. La mamma era fuggita, perché non
voleva sentire i nostri pianti.

Mi
hanno deposta nuda su un tavolo grande, mentre tre donne mi tenevano
legate mani e piedi. Non ho visto con che cosa mi hanno tagliata, se con
un coltello o una forbice (si nascondono gli strumenti, perché la pratica
incomincia ad essere criticata). Mi hanno asportato la clitoride e le
piccole labbra. Poi sono stata cucita con filo, perché eravamo in città, e
non con spine, come avviene in campagna. Il dolore è durato ben sette
giorni. Sono rimasta con le gambe legate (dalla vita fin sotto le
ginocchia) per due settimane. Non si può mangiare… Io sono riuscita a
fare pipì, mentre a mia sorella (che non l’ha fatta per tre giorni) si è
gonfiata la pancia. Ha sofferto di più, perché era più grande.

Mamma e
papà, una volta guarite, ci hanno dato dei regali: ma con ciò che abbiamo
patito non sarebbe bastato tutto l’oro del mondo a consolarci! Per fortuna
non sono sorte infezioni, perché papà ci portava tintura di iodio e
antibiotici.

Prima
dell’operazione correvo, giocavo a pallone, ma dopo non l’ho più fatto.
Mia madre mi diceva sempre: “Attenta, ora sei diventata grande, ti
strappi!”.

Non ero
più libera. Non era più come prima. Mi hanno lasciato un buco
strettissimo. Prima del contatto con l’uomo, le mestruazioni erano molto
dolorose. I primi rapporti sessuali mi hanno fatto schifo. Poi è andata un
po’ meglio».

 



Il parere medico sulle mutilazioni

 Igiene?

C’è ben altro!

 «L’infibulazione
è un rapporto tra schiava


e padrone, dove, in accordo a schemi primitivi,

si dona
tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è zero. Esse non valgono
nulla» (dott. Mascherpa).


«È un rito iniziatico: la donna rimane un oggetto e, nello stesso tempo,
viene allontanata da lei ogni tentazione» (dott. Bracco).



E le conseguenze sono clamorose.


 Abbiamo interpellato il dottor Franco Mascherpa, medico presso la clinica
ginecologica universitaria di Torino, a suo tempo impegnato in Somalia,
sulle mutilazioni genitali femminili.


Dottore, cosa s’intende per mutilazione sessuale femminile?


«Attualmente sono circa 130 milioni le donne che hanno subìto pratiche di
mutilazione sessuale. Sono interventi laceranti, che si effettuano sui
genitali estei delle bambine prepubere.

Sono
possibili tre tipi di operazione. La più diffusa è quella sudanese o
faraonica (infibulazione), che risulta la più mutilante e dà origine a
tanti problemi medici e psicologici. Essa consiste nell’asportazione della
clitoride e delle piccole labbra, nella cruentazione (con incisioni
verticali, scaificare) della parte intea delle grandi labbra, della
parte mediana della vulva e nella cucitura delle labbra. Le tecniche di
sutura sono diverse: nelle zone rurali si possono usare spine di acacia,
tenute insieme da fili di cotone.

La
clitoridectomia (escissione) è meno diffusa: prevede l’asportazione della
clitoride e della parte superiore delle piccole labbra. La ferita non
viene mai suturata, bensì tamponata con erbe. Le bambine vengono fasciate
con le gambe strette.

La
sunnah (circoncisione), diffusa nei paesi arabi, ma anche in Somalia) è
una pratica meno cruenta della clitoridectomia: comporta minori
conseguenze permanenti sul piano fisico. Consiste, nei casi più radicali,
nella asportazione di una parte della clitoride. Nelle varianti minori
vengono prodotte piccole ferite superficiali nella regione paraclitoridea.
Lo scopo di tale pratica è di produrre una fuoriuscita di sangue.
Solitamente viene utilizzato un coltello rituale, oppure una lametta da
barba. Vengono anche impiegate sostanze anestetiche.

Dopo
l’intervento, le gambe delle bambine vengono saldamente legate con fasce
all’altezza delle caviglie, delle ginocchia e delle cosce, e mantenute in
questa posizione per dieci giorni, durante i quali seguono una particolare
dieta. Talvolta cospargono la ferita con una sostanza a base di incenso e
mirra, che ritengono svolga un’azione antisettica e cicatrizzante.

Un
altro aspetto del fenomeno è la reinfibulazione post partum. Una
missionaria mi raccontò che, in Somalia, la praticavano alle donne che
avevano appena partorito per evitare tensioni familiari».

Come
sono considerate le donne non circoncise?

«In
Somalia le donne non circoncise sono ritenute orfane, meticce e fanno di
mestiere le prostitute: questo perché perdono dignità, valore sociale ed
economico; non sono più sposabili e hanno perciò poche speranze di
sopravvivenza. In un paese povero come la Somalia, infatti, le poche
risorse sono legate alla presenza di un uomo. Le donne, se non c’è un
maschio a fianco che abbia qualche attività commerciale, da sole non
possono sopravvivere. Per la stessa ragione vogliono essere sempre
incinte: il marito, che ha mogli sparse qua e là, è più propenso ad
andarle a trovare spesso e portare loro da mangiare. Se la donna è
sterile, rischia di non ricevere mezzi di sussistenza».

In
Occidente consideriamo affascinanti le somale: la loro bellezza, la
fierezza e la sensualità del portamento sembrano giustificare tale
considerazione. Ma come vivono il rapporto con il proprio corpo?

«In
Somalia, come ginecologo e sessuologo, ho cercato di capire come le donne
si rapportavano alla propria sessualità: l’unica risposta che ne ho
dedotto è che essa ha una pura funzione riproduttiva. La loro grande
sensualità non è genitale, perché da quegli organi ricavano solo molto
dolore. Dal punto di vista ginecologico, hanno sempre mal di pancia e
problemi vari. Per loro il benessere non è vivere bene la sessualità nel
matrimonio, bensì avere un marito che le mantenga.

Le
bambine di soli cinque anni, che sanno di essere infibulate, aspettano con
ansia il momento di passaggio all’età adulta. Se una ragazzina grandicella
non ha ancora subìto tale operazione, viene emarginata dal gruppo di
amiche.

Il
corpo della somala è un corpo doloroso. Infatti i racconti sui primi
rapporti sessuali sono agghiaccianti, traumatici: lei si presenta a lui
“cucita”. Sono poche le mogli che, d’accordo con il marito, si fanno
scucire. In genere lui vuole constatare di persona che lei sia chiusa. La
regola è quella del grano di mais: se passa un grano è ben cucita. Da quel
foro fuoriescono urine e mestruazioni, ma con gran ristagno di liquidi.

Al
momento della penetrazione sorgono i problemi: la cucitura deve essere
aperta o con il pene o un oggetto qualsiasi (un coltello, una lametta, la
parte superiore di una lattina di coca-cola).

L’atto
sessuale, più che un rapporto intimo, è un gesto di valorizzazione sociale
delle velleità maschili: io, uomo, la posso penetrare anche se è
difficilissimo. È una prova, mentre alla donna è richiesta una
superverginità. Spesso questa ha il primo rapporto in modo strumentale,
non naturale: vetri, coltelli, forbici, frammenti di latta che lacerano le
suture. Una donna facile da avere è vista come una prostituta, con
sospetto. Una donna non infibulata può essere ripudiata immediatamente. Se
il marito non riesce a deflorare la moglie, può sempre dire di aver
sposato una donna ben cucita, quindi di grande moralità.

In
Somalia si porta ad estreme conseguenze questo aspetto antropologico: “io
sono così preziosa che sono inaccessibile; però quando mi conquisti mi dai
tutto”. È un rapporto tra schiava e padrone, in cui, in accordo a schemi
primitivi, si dona tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è
zero. Esse non valgono nulla.

Se
l’orgasmo femminile è seducente per l’uomo in un contesto occidentale, è
superfluo, negativo, privo di interesse in società maschiliste e sadiche.
“Perché una donna mi deve sedurre? Faccio io quello che voglio di lei.”
Innamoramento, amore non esistono. La donna è un mezzo attraverso il quale
l’uomo realizza la propria discendenza.


Comunque, a livello sessuale, donna e uomo hanno strategie diverse: la
prima deve essere prudente, poiché ne può conseguire una gravidanza; il
secondo invece cerca di sedurre più donne possibile, perché la poligamia è
la forma di famiglia più diffusa nel mondo (come numero di culture, non di
persone). In Occidente si espleta attraverso numerosi rapporti
extraconiugali, che coinvolgono l’80% delle persone».

Ci sono
donne somale che chiedono di essere deinfibulate perché sono fidanzate ad
italiani?

«Dove
sono? Si sposano solo tra loro. Da me arrivano donne con complicazioni
mediche… Un somalo non sposerebbe mai una connazionale, anche se
infibulata, arrivata qui molto tempo fa, perché pensa che abbia ormai
assunto la mentalità occidentale. Tutte le donne che hanno avuto
“contaminazioni” con l’Occidente non si sposano più».

Tutte
le giovani somale in Italia sono qui sapendo che perdono la possibilità di
trovare marito?

«Se non
trovano subito un fidanzato somalo, con il passare del tempo perdono la
propria accettabilità sessuale».

 


 Abbiamo brevemente intervistato anche il ginecologo Roberto Bracco.


Dottore, in certi contesti culturali l’infibulazione è considerata
un’usanza igienica, che rende più bello e pulito il corpo della donna.
Cosa ne pensa?


«L’infibulazione non è una pratica igienica. In tutti i casi che ci sono
capitati, quando abbiamo riaperto la ferita, abbiamo trovato l’assenza
totale di igiene. L’urina e il sangue mestruale ristagnano all’interno
della cucitura».

Come
intervenite?


«Introduciamo una pinza a becco e tagliamo i punti. In certi casi è
necessario operare con anestesia totale».

Come
definire allora l’infibulazione?

«Un
intervento mutilante che, dal punto di vista sanitario, non ha nulla di
igienico. È un rito iniziatico: l’asportazione della parte erettile della
donna. La clitoride, infatti, ha la stessa struttura anatomica dei corpi
caveosi del pene; rappresenta il centro del piacere sessuale femminile,
che viene così ad essere mutilato. Se in un rapporto di coppia si toglie
alla donna la parte di piacere, essa rimane un oggetto e, nello stesso
tempo, viene allontanata da lei ogni tentazione. Il controllo dell’uomo è
così veramente efficace.

La
circoncisione femminile, praticata alle donne egiziane, è invece più
blanda e permette loro di avere una vita sessuale normale.

Nei
casi estremi si può intervenire chirurgicamente con una plastica delle
piccole labbra».

 

La
pratica delle mutilazioni genitali femminili può comportare delle
complicazioni mediche immediate e a lungo termine.


Nell’immediato: shock post-operatorio, infezione locale, setticemia,
tetano, emorragia, lesioni delle vie urinarie e della regione perianale,
ritenzione di urina e infezioni urinarie…

A lungo
termine: proliferazione fibrosa del tessuto, cisti e ascessi, malattia
infiammatoria pelvica, ritenzione di sangue nella vagina e cavità uterina,
defibulazione cruenta al momento della deflorazione e del parto, parto
distocico, fistole vagino-vescicali e rettali post partum, rapporti
sessuali difficoltosi e dolorosi, infezioni uro-genitali ricorrenti…


mancano ripercussioni psicologiche: paura e angoscia infantile,
lacerazione in infanzia/età adulta, senso di inevitabilità del proprio
destino, senso di inferiorità sociale, morale e spirituale della
condizione femminile, disturbi della sfera sessuale, restringimento di
interessi e perdita di intraprendenza, senso di offesa alla propria
integrità psico-fisica, caduta di autostima, malattie mentali (nevrosi
cenestopatica, stati depressivo-reattivi).

 


I dati riportati sono stati desunti dalla ricerca della professoressa
Silvana Borgognini Tarli, docente di antropologia all’università di Pisa,
e della dottoressa Elisabetta Marini, ricercatrice in scienze
antropologiche, pubblicata dalla rivista «Sapere», maggio-giugno 1994.

 

 



Altre dichiarazioni e precisazioni

 Tra
dovere



e vergogna

 


Alia: sono stufa di sentirmi chiedere se approvo o meno l’infibulazione e
se la ripeterei sulle mie figlie… Mariam: l’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna; è una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci…Giovanna: i seni, i glutei e altre
parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse altrettante
forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al maschio o
di tenersi il marito?

 

Alle
donne somale dà spesso fastidio l’interesse dell’Occidente verso
l’infibulazione: sentono una ingerenza nella loro vita, nelle loro
tradizioni, nei loro corpi.

Alia,
studentessa somala, dichiara: «Noi non andiamo a sindacare sulle abitudini
sociali, sessuali o estetiche delle donne europee. Sono fatti loro, come
la tradizione dell’infibulazione è affare nostro. Sono stufa di sentirmi
chiedere se approvo o meno questa usanza e se la ripeterei sulle mie
figlie. L’Occidente non può sempre esportare i suoi valori e il suo
modello di vita agli altri paesi. Credo che ogni popolo vada lasciato
libero di scegliere il suo modello di sviluppo e di seguire le proprie
tradizioni, senza per questo essere accusato di barbarie o di inciviltà».

Di
opinione differente si dimostra Mariam, mediatrice culturale presso uno
sportello sociosanitario di Torino: «Sono contraria alla pratica delle
mutilazioni genitali, anche se l’ho subìta e non me ne vergogno, come
invece accade ad alcune mie connazionali. È parte della nostra cultura e
non c’è da vergognarsene. Anche sul termine “mutilazioni” non sono
d’accordo. Si può condividere o meno l’uso di tale pratica, ma non credo
che si tratti di una mutilazione. Certo, i danni causati sono molti. Da
noi infatti arrivano donne infibulate, che hanno sviluppato seri problemi
clinici e hanno timore di essere visitate, ma anche madri che chiedono
consigli sulla scelta di fare infibulare (o circoncidere) le proprie
figlie.

In
Somalia tutte le bambine sono sottoposte a tale intervento. Vengono
preparate dalle madri ad accettare ciò che dovranno subire come un momento
importante nella loro vita: è un “rito di passaggio” che si manifesta
anche attraverso la festa, i regali e l’aspetto gratificante del
riconoscimento pubblico. Le mamme chiedono alle figlie di non esteare
dolore e pianto, perché altrimenti disonorano la famiglia: infatti la
parte coinvolta del corpo è “vergognosa”, e non può essere menzionata. Il
dolore, dunque, va nascosto, segregato, represso.

Alcuni
fanno ricoverare le proprie figlie in ospedale, affinché l’operazione sia
eseguita in modo corretto e igienico; altri si rivolgono a “mammane”, che
tagliano senza anestesia e in condizioni sanitarie pessime. In entrambi i
casi, tuttavia, la ferita rimane: nel corpo e nella mente. Ed è difficile
da rimarginare. Crescendo sorgono grossi problemi ginecologici, che si
manifestano soprattutto durante i rapporti matrimoniali, la gravidanza e
le mestruazioni. Le donne, qui in Italia, hanno paura di farsi visitare:
temono di essere scucite. A Firenze opera un medico somalo, che con il
laser deinfibula coloro che glielo richiedono.

Prima
della notte di nozze, qualche donna accetta di farsi scucire per evitare
lacerazioni e sofferenze eccessive; ma la maggioranza rifiuta tale
pratica, temendo il giudizio negativo del marito. Si dice che venga a
mancare la sensibilità femminile durante il rapporto sessuale; non è vero.
Ad essere asportata è solo la parte superiore della clitoride. Io ritengo,
comunque, che noi donne abbiamo il dovere di ribellarci a questa pratica.
Dobbiamo dire “no”. Dobbiamo porre fine a tale cultura.

Prima
della guerra civile, il presidente Siad Barre (1) aveva promosso una
campagna contro l’infibulazione, ma con il conflitto tutto è andato
perso…

Le
donne somale in Europa, ad esempio, si pongono il problema se fare
tagliare o meno le proprie bambine e pensano: “Adesso siamo qui e tutto va
bene. Ma, se torniamo nel nostro paese, cosa accadrà alle nostre figlie?
Verranno prese in giro dai coetanei, additate come prostitute e non
troveranno mai marito“.

A
Torino le donne somale sono oltre un migliaio, e sono poche quelle che si
rifiutano di ricorrere all’infibulazione. È sentita come un retaggio
culturale da mantenere.

Io non
l’accetto. Che senso ha? Perché mai è necessaria? Nel passato era forse
usata come una sorta di “cintura di castità”… L’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna. È una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci».

 


 Abbiamo avuto pure l’occasione d’incontrare Giovanna Zaldini, di origine
somala, vicepresidente dell’Associazione torinese Alma Terra.

Ci sono
famiglie, in Italia, che richiedono di infibulare le proprie figlie?

«A
Torino non sono mai state registrate, finora, richieste di
infibulazione/circoncisione.

Chi ha
scelto di emigrare in Italia ha pure scelto di mettere in discussione le
proprie origini e tradizioni, diversamente da chi è stato costretto a
lasciare il proprio paese a causa della guerra. Questa seconda tipologia
di persone si sente più sradicata e non è in grado di operare scelte
contro la propria cultura e tradizione… In ogni caso, se in Italia vi è
stata richiesta di infibulazione, non troverà risposta da parte dei
medici.

Il
problema più evidente è quello delle conseguenze sulla salute delle donne
già infibulate. A livello sanitario nazionale, permane ancora una grande
impreparazione nell’affrontare casi di pazienti infibulate e nel prestare
loro soccorso e cure adeguate. Quando, ad esempio, in ospedale arrivano
delle partorienti infibulate nessuno pensa di scucirle prima del parto. Il
personale sanitario ricorre automaticamente al taglio cesareo.

Inoltre
le donne giovani non si sottopongono a visita ginecologica per paura del
dolore, ma anche perché si vergognano e non si sentono capite dai medici.
Qualcuna ha raccontato di avere provato molto disagio, perché si sentiva
studiata, osservata.

Anche
per questa ragione va posta molta enfasi sulle nefaste conseguenze
cliniche di tale pratica e sulle ragioni che spingono certi poteri ad
infibulare le proprie donne; così facendo, sottopongono queste ultime ad
umiliazioni e mortificazioni ulteriori.

In
Occidente si parla di “mutilazioni” sessuali. Già! Ma i seni, i glutei e
altre parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse
altrettante forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al
maschio o di tenersi il marito? Altrimenti se ne cercherebbe una più
giovane, più bella o più “nuova”…

Il
comune denominatore tra “noi” e “voi” resta sempre la sottomissione al
desiderio maschile. Abbiamo tutte subìto un lavaggio del cervello. Siamo
dipendenti dagli uomini, in un modo o nell’altro, a livello sociale,
economico, psicologico.

Per una
donna somala non essere infibulata significa non trovare marito; per una
occidentale non possedere un bel seno vuol dire non essere neanche
guardata. Per la paura di non trovare un uomo che le sposasse, nel mio
paese erano le bambine stesse a chiedere alle mamme più liberali di essere
cucite.

In
Somalia, durante il 1986-90, è stata portata avanti una campagna di
sensibilizzazione contro l’infibulazione, che non ha inciso molto.
Tuttavia, la massiccia emigrazione porterà per forza al confronto con
altre culture e al cambiamento di mentalità nei confronti di questa
pratica.

Se si
supera l’età più a rischio, che va fino a 12-13 anni, le ragazze saranno
fuori pericolo e le mamme avranno un alibi per evitare loro l’intervento.

Presso
gruppi somali, residenti all’estero da lungo tempo, si è visto come il
fenomeno dell’infibulazione si stia trasformando in un’azione puramente
simbolica, iniziatica (pungere la clitoride in modo che fuoriesca del
sangue), finalizzata alla purificazione».


Come dire: l’incontro fra culture diverse può essere liberatorio.

 

(1)
Siad Barre, presidente-dittatore, fu al potere in Somalia dal 1969 al
1991.

 

 


Mutilazioni
sessuali femminili nel mondo

Sono
circa 130 milioni le donne che, nel mondo, hanno subìto mutilazioni
sessuali: circoncisione (clitoridectomia), escissione, infibulazione.

La
circoncisione consiste nella rimozione del prepuzio della clitoride; tale
pratica, nei paesi arabi che la eseguono, è chiamata anche «sunnah».


L’escissione prevede la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole labbra (interamente o in parte), ma lascia intatte le grandi
labbra e il resto della vulva.


L’infibulazione è la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole e grandi labbra, la sutura delle due estremità della vulva (viene
lasciata una piccola apertura per permettere al flusso dell’urina e del
sangue mestruale di scorrere).

 

Queste
pratiche mutilatorie sono largamente diffuse in Africa, Asia, Mondo Arabo,
America Latina ed Europa.

n
Africa: nella costa occidentale, dal Camerun alla Mauritania, nelle zone
centrali e nel Ciad, nel nord dell’Egitto, in Kenya e Tanzania
(circoncisione ed escissione), in Mali, Sudan, Somalia, Etiopia e nel nord
della Nigeria (infibulazione).

n Asia:
Filippine, Malesia, Pakistan e Indonesia (tra i gruppi musulmani).

n Mondo
Arabo: Emirati Arabi Uniti, Yemen del sud, Bahrain, Oman.

n
America Latina: la circoncisione femminile è praticata in Brasile, in
Messico e Perù (presso gruppi di origine africana).

n
Europa: a causa della numerosa presenza di immigrati provenienti dai
sopracitati paesi, il fenomeno delle mutilazioni genitali, dall’antichità
dov’era sepolto, è ritornato alla luce e interessa una vasta fascia di
donne e bambine straniere. Una nuova tendenza, al riguardo, è stata
introdotta da ricchi africani che portano le loro figlie in Europa per
sottoporle a circoncisione, sotto anestesia e in condizioni
igienico-sanitarie migliori di quelle presenti nei loro paesi.

(cfr.
«The circumcision of women. Strategy for eradication», Zed Books ltd,
London).

 


E il
nostro paese?

 L’
Italia è interessata al fenomeno, insieme al resto dell’Europa, anche se
non è possibile risalire a dati certi e reali: certamente esistono casi
(forse qualche centinaio), dal 1992 ad oggi, di bambine, figlie di
immigrati, che hanno subìto mutilazioni sessuali nel nostro paese o in
patria. Quando i genitori non decidono di accompagnarle al paese
d’origine, le piccole vengono operate qui, in cliniche private o in case,
dove medici italo-somali o personale paramedico eseguono l’intervento.

Per
un’infibulazione la famiglia giunge a pagare oltre 1.000 euro. L’età delle
bambine si aggira tra 5 e 12 anni.

Molto
più alto è, invece, il numero di donne straniere, residenti in Italia, che
sono state sottoposte, anni addietro e nel paese d’origine, a
circoncisione o infibulazione.

Oggi
qui, in terra di immigrazione, manifestano varie patologie, fisiche o
mentali, o semplicemente profondo disagio psicologico.

 

 



Infibulazione: è possibile cambiare?

  

Di
questa pratica, delle sue origini, motivazioni e degli strumenti per
sradicarla totalmente dall’uso comune in molte aree dell’Africa, si è
occupato il seminario internazionale «Mutilazioni dei genitali femminili.
Una questione di relazioni tra uomini e donne», organizzato nel giugno
scorso a Torino, presso il Centro internazionale di formazione, dall’Aidos
(Associazione italiana donne per lo sviluppo). Numerosi gli interventi di
esperte africane (giuriste, psicologhe, medici, sociologhe e
antropologhe), da anni impegnate in prima fila nella lotta contro il
fenomeno.

«ll
nostro intento è quello di promuovere scambi di informazioni e conoscenze
fra le associazioni africane ed occidentali – ha detto Cristiana Scoppa,
dell’Aidos e una delle organizzatrici del corso – e di fornire strumenti
formativi e didattici per facilitare l’opera di prevenzione nei villaggi e
nelle città dell’Africa.


Cerchiamo di aiutare a sviluppare una consapevolezza sulle motivazioni
personali, non solo sociali e tradizionali, alla base del radicamento di
tale pratica. È solo prendendo coscienza di sé, del proprio ruolo di
donna, del proprio valore e dei modelli familiari di appartenenza
(centrati sul controllo della donna da parte del clan familiare maschile)
che è possibile apportare un cambiamento a tradizioni antiche e radicate.

Un
altro aspetto altrettanto importante è quello dell’informazione
nell’ambito sanitario: medici e infermieri, infatti, sempre più spesso in
Italia e a Torino, si trovano di fronte a donne infibulate o escisse, in
procinto di partorire, ed è impensabile che possano operare alla rimozione
della sutura al momento delle doglie. Bisogna intervenire prima,
altrimenti si creano lacerazioni o complicazioni gravi e tanto disagio,
sia per le pazienti sia per i medici».

 

Il prezzo … della
sposa

Le
mutilazioni genitali femminili (mgf) hanno radici lontane e ancora oscure.
Qualcuno le fa risalire ai faraoni di Egitto (circoncisione faraonica),
altri all’antica Roma (in-fibulare, chiudere con fibbia: è l’usanza di
applicare ai genitali estei maschili o femminili fermagli o anelli per
evitare i rapporti sessuali).

Molti
sono gli studi sull’argomento, a livello sia antropologico-sociologico sia
medico-scientifico, che tuttavia non hanno scalfito il silenzio e il
disagio che gravitano attorno a questo diffusissimo fenomeno.

 Scrive
Carla Pasquinelli nella ricerca «Antropologia delle mutilazioni dei
genitali femminili», curata dall’Aidos (Associazione italiana donne per lo
sviluppo): «Dietro questo silenzio ci sono molte cose: c’è un mondo di
donne chiuso su se stesso, un mondo di interni, sospeso tra l’attesa e il
timore di togliare via una parte del corpo delle proprie bambine nel corso
di cerimonie di cui per secoli le madri sono state le grandi registe, e
c’è un mondo esterno, un mondo di uomini che si mantiene estraneo e
distante, e che però su questo disciplinamento dei corpi femminili ha
fondato le proprie strategie di potere. A tenere insieme e dare coerenza a
questi due mondi così distanti tra loro c’è una pratica cruenta, che
stringe in una morsa tutta la fascia dell’Africa subsahariana, e che
costituisce l’espressione simbolica di un complesso sistema economico e
sociale di strategie matrimoniali diffuso in maniera capillare in tutta
l’area.

Si
tratta di un meccanismo di dominio fondato sul prezzo della sposa, cioè
sul compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della
futura moglie in cambio di una donna illibata, il che vuol dire circoncisa
(escissa o infibulata che sia), pronta a rispedirla al mittente e a
riprendersi il compenso versato… se la donna non è operata come si deve.
Il valore di una sposa dipende infatti dalla sua verginità e le mgf sono
una forma di protezione che inibisce nella donna desideri e tentazioni di
rapporti prematrimoniali, ma che soprattutto la preserva e la difende da
violenze e stupri».

 

Fra
tanta incertezza circa l’origine del fenomeno delle mutilazioni genitali
domina una certezza: l’islam non ha nulla a che vedere con la diffusione
in territorio africano di questa antica pratica ad esso antecedente.

Scrive
ancora Carla Pasquinelli: «L’attribuzione che spesso viene fatta
all’islam… è probabilmente dovuta alla facilità con cui si è saputo
adattare al tessuto tradizionale conformandosi al modo di vita locale.

La sua
penetrazione, infatti, è stata resa possibile dalla presenza nelle culture
africane di alcuni elementi (come le strutture patrilineari e la
concezione di Dio fondata su un forte senso di dipendenza), che ne hanno
favorito l’accettazione, permettendogli di radicarsi nel tessuto
tradizionale molto più di quanto non siano riuscite a fare le varie chiese
cristiane che si sono impegnate alcuni secoli più tardi
nell’evangelizzazione del continente africano…

Questo
diverso atteggiamento della religione islamica e di quella cristiana si
riflette anche nella percentuale di donne sottoposte alla mutilazione dei
genitali nei due contesti. Le cifre parlano chiaro: mentre in area
cristiana (dove predomina la clitoridectomia) le percentuali oscillano tra
il 20 e il 50, in area islamica (in particolare nel Coo d’Africa, dove
l’infibulazione è di rigore) si toccano punte che vanno dall’80 al 100%.

Con il
tempo l’identificazione dell’islam con la tradizione indigena non ha fatto
che rafforzarsi, a tal punto che è stato il maggior responsabile della
diffusione delle mutilazioni genitali femminili fuori dell’Africa,
esportandole tra l’altro in Indonesia e Malesia».

 

Bibliografia

– The
circumcision of women, a strategy for eradication (a cura di Olayinka
Koso-Thomas), Zed Books Ltd, London


Antropologia delle mutilazioni dei genitali femminili, una ricerca in
Italia (a cura di Carla Pasquinelli), Aidos


Special needs of ritually circumcised women patients (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein – Evelyn Shaw), in «Jognn, principles & practice»


Figlie d’Africa mutilate. Indagini epidemiologiche sull’escissione in
Italia (a cura di Pia Grassivaro Gallo), Editrice L’Harmattan Italia, 1998

– Nous
protégeons nos petites filles (a cura de la «Prefecture d’Ile-de-France»)

– Il
corpo offeso, in «Sapere», 1994

– The
sexual esperience and marital adjustment of genitally circumcised and
infibulated females in the Sudan (a cura di Hanny Lightfoot-Klein), in
«The Joual of sex research», 1989


L’histornire de Fatoumata (a cura di «Campagne pour l’éradication des
mutilations génitales féminines»)


Mutilazioni dei genitali femminili. Una questione di relazioni tra uomini
e donne, diritti umani e salute (convegno), Torino, luglio 2001, OIL


Figlie d’Africa mutilate, anche in Italia (convegno), Torino, febbraio
1999


Infibulazione tra diritti umani e identità culturale (a cura del CSA,
Centro Piemontese di Studi Africani, Associazione Frantz Fanon, Istituto
Avogadro), Torino 1998


Pharaonic circumcision of females in the Sudan (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein), in «Medicine and Law», 1983


Observation ethnopsychiatrique de l’infibulation des femmes en Somalie (a
cura di Michel Erlich) in «Terrain Ethnologique»

– La
lunga marcia delle donne contro l’infibulazione, in «Tam Tam», 1995

– Waris
Dirie, Fiore del deserto. Storia di una donna, Garzanti Editore, 2000


L’excision hors la loi (a cura di Karine Sidibe), in «Le Temps de
l’Afrique noire», novembre 1996

– La
salute delle donne e le mutilazioni sessuali: un problema della società
multietnica (a cura di Elisabetta Cirillo), in «Politica del Diritto»,
marzo 1992

Angela Lano




DA PORTO ALEGRE, L’UTOPIA POSSIBILE

«Lasciamo il pessimismo
per tempi migliori»

Se questo mondo non può andare avanti così, esiste un’alternativa credibile?
Sono seri i movimenti di contestazione che si stanno diffondendo a Nord
come a Sud? Meglio continuare sulla strada segnata dai leaders dell’economia
mondiale riuniti nel «World Economic Forum» di Davos? O raccogliere le sfide
e le alternative proposte dai rappresentanti della società civile raccolta
nel «World Social Forum» di Porto Alegre?
Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Houtart, sacerdote, già «collega» di Carol Wojtyla e amico di Helder Camara.

Porto Alegre. Belga, classe
1925, primo di 14 figli,
François Houtart è direttore
del «Centro Tricontinentale» di
Lauvain (Lovanio), in Belgio. Il
centro accoglie ricercatori provenienti
da tre continenti: America
Latina, Africa ed Asia. Si fanno ricerche
nei campi della sociologia,
della cultura e della religione.
Quella delle grandi collaborazioni
inteazionali è una caratteristica
di Houtart, che è anche segretario
del «Forum mondiale delle alternative» e membro del comitato
organizzatore del Forum di Porto
Alegre.
Lo incontriamo in una delle
grandi sale della «Pontificia università
cattolica» (Puc), mentre, seduto
in prima fila, è in attesa dell’inizio
di una conferenza.
Professor Houtart, siamo venuti
da tutto il mondo per capire
se «un altro mondo è possibile».
Ma, sia sincero, in questi tempi
parlare di alternative è realistico?
«L’alternativa esiste ed è concreta.
Il problema è che, oggi come oggi,
non c’è la volontà politica per attuarla.
D’altra parte, le 60.000 persone
giunte da tutto il mondo per
questo secondo Forum di Porto
Alegre sono a dimostrare che la voglia
di cambiamento c’è ed è forte».
Nella coloratissima e festosa sfilata
per le vie di Porto Alegre i manifestanti
scandivano slogan contro
le istituzioni inteazionali:
Fondo monetario (Fmi), Banca
mondiale, Area di libero commercio
delle Americhe (Alca), Organizzazione
mondiale del commercio
(Wto). Anche alla luce della
recente riunione di Doha, quale
aspetto di quest’ultima le sembra
più deplorevole?
«Penso alla proprietà intellettuale,
difesa con i denti dalle industrie
farmaceutiche. Un mio fratello lavora
nel campo farmaceutico. È un
esperto internazionale di processi
di fabbricazione. Non ha idee socialiste,
tutt’altro. Alcune volte è
stato mandato a Cuba e mi ha detto:
“Cuba è molto più efficiente
nella ricerca scientifica di un paese
capitalista. Hanno 40 laboratori e,
quando uno di essi scopre una cosa
nuova, immediatamente lo comunica
agli altri. Allora si fa una
riunione per capire quale laboratorio
è più efficiente per continuare
l’investigazione. Nel mondo capitalista
la prima cosa che si fa è
chiedere il brevetto per fare denaro.
La privatizzazione della ricerca
scientifica serve a giustificare il
profitto di pochi. L’alternativa è
che la ricerca scientifica sia un settore
di competenza pubblica, sostenuto
con soldi pubblici. Per il
vantaggio della collettività e non a
servizio delle multinazionali…».
Ma le industrie si giustificano dicendo
che se non c’è la proprietà
dei brevetti, si frena la ricerca…
«Mi viene in mente l’inventore
dei “raggi X” (Wilhelm Conrad
Röntgen, 1845-1923, premio Nobel
per la fisica nel 1901, ndr), che
si rifiutò di brevettare la sua scoperta perché la considerava un bene
comune da dividere tra tutti».
Professore, qualcuno sostiene
che con il vertice di Genova (luglio
2001) e di Doha (novembre 2001)
si sono fatti passi in avanti nel
campo delle politiche sanitarie. È
vero?
«Affatto. Gli unici progressi sono
avvenuti per puro caso. Dapprima,
per lo scandalo del Sudafrica,
poi a seguito della vicenda dell’antrace,
quando il governo degli
Stati Uniti è intervenuto sulla Bayer
per costringerla a vendere l’antibiotico
a metà del suo prezzo».
Io continuo a chiamarla professore,
ma lei è anche un sacerdote…
«Non c’è dubbio al riguardo. Sono
– risponde con un sorriso – amico
di papa Wojtyla da oltre 30 anni.
L’ho conosciuto da giovane,
quando studiavo in seminario a Roma.
Egli veniva a trascorrere le sue
vacanze di natale e pasqua in Belgio,
mentre io lo visitavo spesso in
Polonia, a Cracovia soprattutto. In
seguito, ci ritrovammo al Concilio
Vaticano II in una commissione
preparatoria per la “Gaudium et
Spes”, della quale io ero il segretario.
Dopo la sua elezione a papa, io
non l’ho più visto…».
Le sue idee, i suoi studi le hanno
creato qualche problema con i vertici
ecclesiastici?
«Sì, ma il fatto di essere sociologo
mi ha aiutato a non rompere.
Comunque, i miei problemi non
sono iniziati con il pontificato di
Giovanni Paolo II. Già durante la
conferenza di Medellin, dove ero
stato invitato dalla Conferenza latinoamericana,
sono stato fatto oggetto
di veto da parte della Santa
Sede. Identicamente c’è stato un
veto per la mia nomina alla testa
dell’“Istituto missiologico” dell’Università
di Münster, in Germania».
D’altra parte, lei ha insegnato
lungamente presso l’Università di
Lovanio, una delle più antiche e
prestigiose università cattoliche
del mondo…
«Verissimo. Ho insegnato a Lovanio
per oltre 30 anni, dal 1958 al
1990. Ad onor del vero, anche lì ho
avuto un paio di richiami…
Tutto ciò non mi ha impedito di
avere rapporti normali con l’episcopato
belga e gli organi centrali
della chiesa. Io affermo la mia appartenenza
alla chiesa cattolica».
Da dove nasce il suo amore per
l’America Latina?
«Da 15 anni di lavoro con quei
paesi e poi dalla stretta amicizia che
mi ha legato a monsignor Helder
Camara. Comunque, non mi sono
interessato soltanto di America Latina.
Ho lavorato anche in Asia, soprattutto
in Sri Lanka e Vietnam».
Lei è uno dei principali organizzatori
del «Forum sociale mondiale
» di Porto Alegre. Rispetto ad esso
le opinioni sono discordanti.
Qualcuno lo disprezza, altri sorridono
con sufficienza, altri ancora
sparano insulti contro i partecipanti,
definendoli illusi o addirittura
pericolosi, nemici dei poveri
e del progresso…
«A me pare che Porto Alegre abbia
prodotto un effetto fondamentale
sul piano internazionale. Vale
a dire un cambiamento di prospettiva,
in base al quale all’idea dominante
che non ci sono alternative al
cammino del capitalismo oggi si
contrappone l’idea che “un altro
mondo è possibile”, perché esistono
delle alternative credibili.
Per sintetizzare, possiamo dire
che il “Forum Social Mundial” di
Porto Alegre rappresenta il punto
di vista della società civile dal basso,
mentre il “World Economic
Forum” di Davos (quest’anno spostato
a New York) porta avanti le
istanze dall’alto.
Attualmente la responsabilità
principale del Forum di Porto Alegre
è sulle spalle di movimenti latinoamericani
ed europei. Ma stiamo
lavorando per coinvolgere di
più il mondo africano, asiatico ed
arabo. Per questo è probabile che,
dopo la prossima edizione (ancora
a Porto Alegre), il Forum sarà ospitato
altrove, forse in India».
Gli obiettori (anche tra i lettori
che scrivono alla nostra rivista) affermano
che tutti questi movimenti
contrari alla globalizzazione
sono, per la loro stessa natura,
contro la società nella quale vivono.
Per dirla in maniera popolare,
sarebbero «persone che sputano
nel piatto nel quale mangiano».
Che rispondere, professor Houtart?
«Il grande vantaggio di Porto
Alegre è di riunire movimenti e organizzazioni,
che non hanno l’obbligo
di essere d’accordo su un testo
unico. D’altra parte, è vero che
a Porto Alegre si riuniscono tutti i
soggetti che hanno preso posizione
contro il neo-liberismo e il capitalismo,
e a favore di una ricerca di
alternative.
Accanto a tutto ciò ci sono anche
molti pericoli: una certa dominazione
delle Organizzazioni non governative
(Ong) sui movimenti sociali,
una folklorizzazione dei movimenti
di resistenza contro la
mondializzazione della filosofia capitalista,
una repressione sempre
più forte (soprattutto dopo l’11
settembre) da parte dei poteri dominanti,
con una criminalizzazione
delle resistenze e delle lotte sociali,
e una militarizzazione delle società».
Professore, a sentire queste sue
considerazioni, non mi pare si possa
essere molto ottimisti per il futuro…
«Guardi, voglio risponderle con
le parole di Edoardo Galeano: “Lasciamo
il pessimismo per tempi migliori”».

Per un’«ecologia
dell’informazione»

Oggi anche l’informazione è una merce. Spesso distribuita in un regime
di monopolio e priva di una qualità essenziale: la veridicità. Ecco cosa propongono
Ignacio Ramonet, direttore de «Le Monde Diplomatique», Roberto Savio, presidente
dell’agenzia giornalistica internazionale IPS, e lo scrittore spagnolo Manuel Vasquez
Montalban. Che concordano su un punto fondamentale: un altro mondo
sarà possibile solo con un’altra informazione. A meno che non si considerino
le notizie della CNN come l’esempio da imitare.

Porto Alegre. Le borse danzano
pericolosamente su teste e
tastiere. Le pance provano a
ritrarsi per tentare di passare nei
pochi centimetri che separano una
postazione di computer dall’altra.
Ci si muove a fatica nella sala stampa
del Forum. L’hanno sistemata in
posizione strategica (ovvero di
fronte ai grandi saloni delle conferenze),
l’hanno attrezzata con computer
nuovi fiammanti, ma hanno
esagerato a comprimere gli spazi.
O, forse, non hanno previsto che al
secondo appuntamento di Porto
Alegre si sarebbero presentati
3.000 giornalisti da 50 paesi.
Già, l’informazione. Una delle tematiche
a cui gli organizzatori del
Forum hanno lasciato più spazio,
per cercare di rispondere a una serie
di difficili quesiti.
Negli spazi dello splendido campus
della Pontificia università cattolica
(la Puc, sede principale del
Forum) sull’argomento si sono susseguite
conferenze, dibattiti, seminari.
Proviamo allora a riassumere
i termini della discussione attraverso
le tesi sostenute da alcuni dei
principali relatori.

LE NOTIZIE?
BREVI, SEMPLICI, LEGGERE

Si dice: nell’era della globalizzazione,
l’informazione è una merce
come un’altra. Una simile affermazione
corrisponde al vero?
Tutti i relatori hanno concordato
che (purtroppo) questa è una
tendenza ormai consolidata. In un
processo di globalizzazione di tutto
e tutti, anche l’informazione è diventata
una merce che circola secondo
le leggi del mercato: domanda
e offerta.
Le multinazionali della comunicazione
hanno fissato le caratteristiche
del prodotto-informazione.
Come debbono essere, allora, le
notizie? «Brevi, semplici, leggere»
ha spiegato Ignacio Ramonet.
Ciò produce conseguenze rilevanti.
Secondo il giornalista francese,
tutto è ridotto a schemi elementari.
Come si nota nell’informazione
che riguarda il Sud del
mondo. I paesi del Sud sono rappresentati
soltanto a tinte forti. Come
un paradiso quando si parla dei
loro prodotti (il caffè, le banane
ecc.) o delle loro attrattive turistiche.
Come un inferno nelle uniche
occasioni in cui la televisione si occupa
di loro e cioè in concomitanza
con tragedie naturali, guerre civili,
genocidi, colpi di stato.
Questa descrizione caricaturale
confonde le idee, crea stereotipi e,
in ultima analisi, disinforma.
Ma – si obietta – ci sono così tanti
mezzi d’informazione che chiunque
ha la possibilità di scegliere tra
una pluralità di fonti alternative…
Oggi l’informazione si è moltiplicata
(soprattutto grazie alle nuove
tecnologie), ma il fenomeno della
concentrazione proprietaria si è
accentuato.
«La globalizzazione – ha spiegato
Manuel Vasquez Montalban –
non è soltanto economica, ma anche
ideologica. L’idea di base (“ha
valore ciò che produce lucro”) deve
essere diffusa. Ecco, dunque, il
motivo della crescente concentrazione
dei mezzi di comunicazione:
la propagazione del pensiero unico
neoliberale».
Il calcolo è presto fatto: tanti media
in poche mani significano meno
pluralismo e quindi meno diversificazione.
Negli Stati Uniti,
per esempio, 5 grandi consorzi detengono
il controllo dell’informazione.
Non c’è quindi da stupirsi se
i contenuti (e i messaggi) si assomigliano
tutti, proprio come una
qualsiasi merce.

NESSUN MESSAGGIO
È INNOCENTE

«Il problema con i grandi media
– ha precisato Montalban – è “saper
leggere”. In primo luogo, dobbiamo
chiederci chi è il padrone
del mezzo e cosa questi vuole proporci.
Nessun messaggio è innocente!».
La qualità della notizia è diventata
così poco rilevante che le imprese
produttrici tendono a offrire
l’informazione gratuitamente. Ma
dove sta allora il business? «Le imprese
in realtà – ha spiegato Ignacio
Ramonet – non vendono informazioni
ai cittadini, ma questi ultimi
agli inserzionisti».
E la veridicità è ancora ingrediente
fondamentale?
Secondo Ramonet, oggi esiste
una diffusa contaminazione dell’informazione,
tanto grave da riuscire
a trasformare la menzogna in
verità e la verità in menzogna. Per
questa ragione il direttore de Le
Monde Diplomatique propone di
praticare una nuova forma di ecologia:
«l’ecologia dell’informazione
», attuata attraverso appositi osservatori
istituiti in ogni paese.
Esiste la possibilità di avere una
contro-informazione? Per Roberto
Savio, fondatore e presidente
emerito dell’agenzia giornalistica
internazionale IPS, a un’informazione
fondata sulle regole della globalizzazione
(come il profitto e l’efficienza)
è necessario opporre una
informazione basata sui valori dei
cittadini: solidarietà, giustizia,
equità e partecipazione.
È vero che stanno apparendo
mezzi di comunicazione alternativi,
«però – ha confessato Montalban
– è difficile resistere».
Inteet è, oggi, uno strumento
fondamentale per mettere in comunicazione
la società civile, ma va
utilizzato bene.
Perché, dopo aver imparato a difenderci
dall’informazione del sistema,
occorre non cadere nello
stesso errore. «La controinformazione
– ha sottolineato Ignacio Ramonet
– deve essere rigorosa. Altrimenti
non serve alla causa».

ALTRO MONDO,
ALTRA INFORMAZIONE

È stato detto: un altro mondo
sarà possibile solo con un’altra
informazione. Difficile non concordare
con questa affermazione.
Manuel Vasquez Montalban ha
portato l’esempio della CNN in
lingua spagnola (la famosa televisione
statunitense ha anche un canale
in questo idioma). «Il canale
nordamericano – ha avvertito lo
scrittore spagnolo – sta seguendo
sia il Forum di New York che quello
di Porto Alegre. Ma ha un approccio
completamente diverso nei
confronti dei due avvenimenti. Serio
per l’evento statunitense, folcloristico
per quello brasiliano».
Capito come funziona il meccanismo?

Sfogliando s’impara…
A NEW YORK, I SIGNORI DEL NEOLIBERISMO
«Il Forum economico (…) ha riunito nel Waldorf
Astoria di New York capi di governo, industriali,
banchieri e scienziati, in breve, i signori e i cervelli
del neoliberismo, quelli che orientano e dirigono la
finanza e l’economia del nostro mondo globalizzato.
(…) Quest’anno non si sono celebrati i trionfi del
cosiddetto “pensiero unico”, della filosofia e dell’economia
occidentale e liberista. Il capitalismo
non se la passa troppo bene in questo tempo».
Gabriele Ferrari sul quindicinale cattolico
«Testimoni», Bologna, 28 febbraio 2002

MA NON ERANO FINITI?
«Chi sperava in una fine imminente del “popolo di
Seattle”, dopo il disgraziato capitolo di Genova, dovrà
per il momento riporre i suoi sogni nel cassetto.
La lunga kermesse di Porto Alegre (…) ha rassicurato
il movimento sulla sua capacità di superare
le avversità».
Maurizio Salvi su «Rocca», quindicinale edito
da Pro Civitate Christiana (Assisi),
15 febbraio 2002

«QUELLI DI PORTO ALEGRE»
«Come chiamarli? Diciamo che sono quelli di Porto
Alegre, perché è ormai questo il simbolo. Globale,
mondiale. Certo sono molto più “global” di un sacco
di gente che li ha definiti sbrigativamente “noglobal”.
(…) Oggi, in tutto l’Occidente
ricco, non c’è paese che
possa vantare una vitalità critica,
democratica, così intensa come
questa Italia, dove c’è un’altra
Italia così poco “global” che fa fatica
persino a stare in Europa. (…)
E infine c’è la sterminata galassia
cattolica, che vedo emergere con
una vitalità strabiliante. Un segmento
di società italiana vasto,
dinamico, carico di idealità. Anche
loro in libera uscita, forse definitiva,
rispetto alle rappresentanze
cattoliche istituzionali. (…)
Fino a luglio del 2001 si diceva
che il movimento era incoerente, contraddittorio,
che non aveva soluzioni da proporre. Adesso che la
globalizzazione è in crisi, l’America è ferma, diventa
chiaro che le soluzioni non le ha nessuno».
Giulietto Chiesa sul quotidiano «La Stampa»,
18 gennaio 2002

ECONOMIA DI RAPINA
«Siamo sicuri, signor ministro, che abbiamo il diritto
di difendere un’economia che non si regge se non
sul furto? (Risponde il) ministro Martino: “(…) Noi
non abbiamo il diritto di difendere le nostre conquiste
economiche e sociali, noi abbiamo il dovere
di farlo (…). I paesi non nascono ricchi, diventano
ricchi. (…) C’è un solo modo per diventare ricchi,
ed è lo sviluppo. È soltanto lo sviluppo che rende
ricchi i paesi. (…) Coloro i quali si oppongono allo
sviluppo, all’apertura dei mercati che sono l’unica
ricetta che conosciamo per produrre ricchezza, colpiscono
soprattutto i poveri, e l’assurdo è che hanno
persino la pretesa di farlo in nome della difesa
dei poveri. (…)”. Un commento? Non è superfluo segnalare
il cinismo delle argomentazioni di questo
discorso (e Martino non è certo il peggiore dei ministri
di questo pericolosissimo governo). La sostanza
del nostro quesito è stata del tutto elusa, ma
indirettamente confermata: abbiamo il diritto di difendere
la nostra economia di rapina? Il governo dice
SÌ, e non smentisce che si tratti di un’economia
di rapina. (…) Lo sviluppo economico è indipendente
dalle scelte dell’etica politica? Questa sarebbe
la questione morale, di cui non si vuole più parlare
(…)».
Da «Tempi di frateità», periodico cattolico
di Grugliasco (Torino), gennaio 2002

«È IL MERCATO, BELLEZZE»
«Fra le tante novità del nostro tempo, anche in Italia,
c’è l’assoluta fiducia nell’economia di mercato.
Quando questa colpisce duro, si ricorda sempre che
lo fa per il nostro bene futuro, avendo essa per scopo
unico, assoluto e indiscutibile lo sviluppo, che a
sua volta non tollera lacci e lacciuoli, di nessun genere.
(…) I lavoratori vogliono conservare le loro
pensioni? Sì, gli dicono Maroni e Tremonti, a patto
che i vostri risparmi contributivi finiscano
nei ‘fondi pensione’ (…). E
se i fondi pensione investono male,
o sono sfortunati, e perdono i vostri
soldi? “È il mercato, bellezze”».
Da «Il nostro tempo»,
settimanale cattolico
di Torino, 20 gennaio 2002

LA GALLINA DALLE UOVA D’ORO
«I contestatori che vogliono limitare
i poteri del Wto o mandarlo a picco
(…) distruggerebbero la gallina dalle
uova d’oro. Dobbiamo respingere
con decisione queste istanze, ma
anche tenere in considerazione le
preoccupazioni legittime e sincere di chi critica il
modo in cui queste uova vengono utilizzate e distribuite».
George Soros sul quotidiano «La Repubblica»,
9 novembre 2001

«DALLA CONTESTAZIONE ALLA PROPOSTA»
«Sono sempre di più i movimenti e le azioni civili di
cooperazione e solidarietà; i vari forum liberi e alternativi
all’economia, al pensiero e alla politica
neoliberisti, che sono passati dalla semplice contestazione
alla proposta, dall’impotenza alla convocazione
efficace».
Pedro Casaldaliga, vescovo di São Felix
do Araguaia (Brasile), sul quindicinale
«Adista», 14 gennaio 2002

…il Forum visto dagli altri
«CHE PENA GLI APOSTOLI TERZOMONDISTI»
«Tutti i mezzi d’informazione contrappongono simbolicamente
– anche per la non casuale contemporaneità
– il Forum economico di Manhattan al Forum
“no global” di Porto Alegre. In maniera esplicita
o suggerita o sottintesa le simpatie vanno in
larga prevalenza a Porto Alegre.
Il buonismo – che non costa nulla e piace molto – induce
a parteggiare per gli apostoli terzomondisti
vocianti nelle piazze o in assemblee confusionarie,
anziché per governanti, banchieri e miliardari rinchiusi
nei loro santuari ovattati. (…) I capitalisti e il
capitalismo hanno trovato (…) un sostegno nelle
manifestazioni dei “no global”: così parolaie, inconcludenti
e truffaldine, nonostante la loro ostentata
nobiltà d’intenti, da riabilitare ogni cinismo
dei possidenti. Il disagio ispirato da questa retorica
saltellante della povertà diventa disgusto se ci
si riferisce alla marea di
politici che (…) sanno
quanto squinteate e
fanfarone siano le parole
d’ordine dei “no
global”. (…) Che pena,
per usare un eufemismo
pietoso».
Mario Cervi
sul quotidiano
«Il Gioale»,
2 febbraio 2002

«UN CAPITALE
E UNA SPERANZA»
«Che “senso” ha, in questo
tempo convulso (…),
il movimento mondiale
che ha tenuto l’ultima sua grande convocazione a
Porto Alegre all’inizio del 2002? Chi voglia guardarlo
con oggettività deve, intanto, prendere atto
di alcuni dati dei quali non è più possibile, dopo tanti
eventi e tante notizie, continuare a dubitare o,
peggio, a negarli. Uno di essi è la ormai assodata
profondità storica del movimento. (…) Un altro elemento
assolutamente caratterizzante è che non siamo
davanti a un movimento soltanto critico (né men
che meno unicamente protestatario) ma, non cessando
di essere tale, esso è anche intensamente
propositivo e costruttivo. (…) Altrettanto brutale,
fino ad essere falsificante, la semplificazione di chi
pretende ridurre tutto ad un insieme di manifestazioni
di strada in reazione ad iniziative ufficiali. (…)
Il senso vero del movimento è di mettere a tema i
problemi della società globale. Da quando (…) la
globalizzazione dell’economia, della politica, della
cultura (…) ha toccato una nuova misura (…), l’intreccio
dei problemi generati da questo nuovo modo
di essere (…) della condizione umana, si è fatto
più aspro e più difficili le condizioni di soddisfazione
degli elementari bisogni di sostentamento materiale,
di crescita umana, di pacifica convivenza.
(…) La riscossa della società (…) si va componendo
appunto attraverso il nuovo movimento globale.
(…) Altro che movimento “no-global”! (…)
Insomma, c’è in queste associazioni, gruppi, movimenti,
reti minori (…) una responsabilità per l’umanità
che spesso manca di essere altrettanto acuta
nelle organizzazioni politiche, nelle istituzioni e
nella cultura ufficiale. Un capitale e una speranza
per il mondo che occorre coltivare con delicatezza
e, vorrei dire, tenerezza».
Umberto Allegretti su «Rocca», quindicinale
edito da Pro Civitate Christiana (Assisi),
1 marzo 2002

«ANCHE PADRE PIO»
«Anche Padre Pio, che aveva il dono dell’ubiquità,
sarebbe entrato in crisi davanti al programma del
secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre
(…). D’altra parte, lo slogan scelto (“Un altro mondo
è in costruzione”)
non lascia dubbi: i noglobal
(…) vogliono rifare
tutto, ma proprio tutto.
(…) I temi messi in
discussione dagli antiliberisti
sono sterminati.
Si va dai “cavalli di battaglia”,
cioè commercio
mondiale, multinazionali
e debito estero, alla
“democratizzazione della
comunicazione”; dall’accesso
alla ricchezza
alla sostenibilità dello
sviluppo; dalla lotta
contro le discriminazioni
fino alla proprietà intellettuale,
etica e politica, diritto alla salute, questioni
ambientali, guerra e terrorismo internazionale.
(…)
I maestri del pensiero no-global tentano di articolare
un’intera visione del mondo anticapitalista. (…)
Ma nonostante la “svolta intellettuale” e le ripetute
assicurazioni di non volere un’altra Genova, resta
la minaccia dei Black Bloc (…) ».
Stefano Filippi sul quotidiano «Il Gioale»,
31 gennaio 2002

«SENI NUDI E BLACK BLOC»
«A guardarlo prevalentemente o esclusivamente dal
punto di vista dello spettacolo, l’“anticonclave” di
Porto Alegre batte largamente il “conclave” di New
York. Vi si incontrano spalla a spalla, o petto a petto,
pensosi uomini di Stato – soprattutto in pensione
– e lesbiche che inalberano il seno nudo come argomento
contro la “globalità”, dai sindacalisti brasiliani
agli anarchici greci, dagli “amici del
consumatore” americani di Ralph Nader ai Black
Bloc».
Alberto Pasolini Zanelli
da Washington per il quotidiano «Il Gioale»,
2 febbraio 2002

«Io e i compagni»
Ho seguito, a debita distanza, il convegno di Porto
Alegre. I temi trattati sono grosso modo lavoro
minorile, sfruttamento sessuale, assenza di tutele
sindacali, fame e denutrizione, istruzione/ignoranza,
insensibilità alla tutela ambientale, malattie endemiche,
assenza di protezione sanitaria e altri analoghi.
Qual è la differenza tra me e i compagni? Essi immaginano
per ognuno di questi problemi competenti
organismi inteazionali (dell’Onu, della Fao, dei
ministeri…), adeguati aiuti economici e ancora più
stringenti apparati normativi, a garanzia di adeguati
controlli in tutto il pianeta, affinché in ogni angolo
della terra si imponga il buon agire e il buon fare…
Io ragiono diversamente e parto da una domanda:
quanti di quei problemi allignano in Italia, in Europa
e in genere nei paesi ricchi d’Occidente? Qualcosa in
verità alligna anche da noi, ma si tratta di fenomeni
da decenni ridotti a percentuali lusinghiere. Allora
viene la seconda domanda: perché da noi tutto sommato
bene e nei paesi del Terzo mondo tutto sommato
male, anzi malissimo? È ovvia e facile la risposta:
da noi lo sviluppo e livelli capillari della libera
iniziativa economica, cioè del capitalismo, ha prodotto
benessere di massa. Altrove manca del tutto o
non riesce, per i più disparati motivi, ad impiantarsi
stabilmente e utilmente, con ciò favorendo il permanere
di ogni arbitrio ed abuso.
In definitiva penso che lo sforzo a favore dei popoli
del Terzo mondo (sforzo sia nostro che loro) sia quello
di rielaborare/inventare grosso modo gli stessi
meccanismi sociali (economici, politici, culturali) che
a noi hanno giovato molto. Altro che «fermare i motori
», come postula il confuso piagnisterno dei no global!
Si tratta, al contrario, di farli girare molto e nel
migliore dei modi. Lo sviluppo più equilibrato possibile
del capitalismo e del mercato porta in sé l’eliminazione
o, quanto meno, la drastica riduzione dei
problemi elencati all’inizio.
Non è una differenza da poco, cari compagni.
Spero di sbagliarmi, ma se davvero foste tornati dal
Brasile con l’idea di prendere a pretesto le sofferenze
del mondo per gonfiare le burocrazie inteazionali
(un posticino non si nega a nessun militante…),
sappiate che questa pretesa è più oscena del turismo
sessuale.
Luigi Fressoia

«Um outro mundo é possível!»
La Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb)
Èstato questo il tema della seconda edizione del
«Forum sociale mondiale» (FSM), svoltosi a Porto
Alegre (Rio Grande do Sul) dal 31 di gennaio al 5 febbraio
2002. Decine di migliaia di persone, venute da
131 paesi, 16 mila delegati, migliaia di Ong, entità,
movimenti sociali, associazioni, chiese, partiti: insomma
un’ampia rappresentazione
nazionale e internazionale
(…). Il FSM è più che
uno spazio aperto al dialogo
e al dibattito. Oltre ad essere
un incontro tra persone ed
idee, culture ed esperienze,
l’evento è un cammino per la
costruzione collettiva di un
modello alternativo di società.
I partecipanti all’unisono, attraverso
conferenze, dibattiti
e seminari, hanno sollevato
critiche contundenti alla globalizzazione
neoliberale, quale
modello accentratore ed
escludente. Nello stesso tempo,
hanno cercato di indicare
le vie per una nuova civiltà:
giusta, solidaria e fratea.
Una civiltà sociale ed ecologicamente sostenibile,
pluralistica, democratica e senza esclusione.
Se il «Forum economico mondiale», a New York, si
è concentrato sull’uso delle ricchezze accumulate,
delle risorse del pianeta e del lavoro umano, a Porto
Alegre il fulcro del dibattito è stata la globalizzazione
della giustizia, della solidarietà
e della pace, in un mondo
ricreato dall’intelligenza
umana. (…)
Seminari, conferenze, dibattiti
hanno fatto di Porto Alegre la
capitale del «pensiero politico
alternativo» contrapposto al
«pensiero unico».
Il FSM, sia nella prima che nella
seconda edizione, ha rappresentato
un vero segno dei tempi.
Segno del quale si può dire
a gran voce e non in termini interrogativi,
ma affermativi: um
outro mundo é possível! («un
altro mondo è possibile!»).
Conferenza episcopale
brasiliana
(Brasilia, 7 febbraio 2002)

«SIAMO
UN MOVIMENTO
DI SOLIDARIETÀ
GLOBALE»

Di fronte al continuo deterioramento delle
condizioni di vita dei popoli, noi, movimenti
sociali del mondo intero, ci siamo
incontrati in decine di migliaia nel secondo
Forum sociale mondiale di Porto Alegre. Siamo
qui in gran numero a dispetto dei tentativi di
spezzare la nostra solidarietà. (…)
Siamo diversi (…). L’espressione di questa diversità
è la nostra forza e la base della nostra
unità. Siamo un movimento di solidarietà globale,
unito nella determinazione di lottare contro
la concentrazione della ricchezza, la proliferazione
della povertà e delle ineguaglianze e
la distruzione del pianeta. Stiamo costruendo
alternative, utilizzando modi creativi per promuoverle.
(…)
Noi vogliamo rafforzare il nostro movimento attraverso
azioni e mobilitazioni comuni per la
giustizia sociale, il rispetto dei diritti e delle libertà;
per la qualità della vita, l’uguaglianza, la
dignità e la pace. Lottiamo:
– per la democrazia: i popoli hanno il diritto di
conoscere e criticare le decisioni dei loro governi,
specialmente quando riguardano istituzioni
inteazionali (…);
– per l’abolizione del debito estero e la sua riparazione;
– contro le attività speculative, chiedendo l’introduzione
di tasse specifiche, come la Tobin
tax, e l’abolizione dei paradisi fiscali;
– per il diritto all’informazione;
– contro la violenza, la povertà e lo sfruttamento
delle donne;
– contro la guerra e il militarismo, contro le basi
e gli interventi militari stranieri, e la sistematica
escalation di violenza, noi scegliamo di privilegiare
il negoziato e la soluzione non violenta
dei conflitti;
– per una Unione europea democratica e sociale,
basata sui bisogni dei lavoratori e dei popoli,
che includa la necessità della collaborazione
e della solidarietà con i popoli dell’Est e del Sud;
– per i diritti dei giovani, il loro accesso a una
istruzione pubblica, gratuita e socialmente autonoma,
e l’abolizione del servizio militare obbligatorio;
– per l’autodeterminazione dei popoli, soprattutto
dei popoli indigeni. (*)

(*) Stralcio del documento dei movimenti sociali presenti
al Forum di Porto Alegre. Per scelta del Comitato
organizzatore, il Forum non produce un proprio documento
finale.

«INSIEME, PER UN CAMBIAMENTO POSSIBILE»
Proprio qui, nella nostra Europa dei potenti,
possiamo trovare le chiavi per disinnescare i
meccanismi dell’economia neoliberista che,
nel Sud come nel Nord del mondo, opprimono e
uccidono donne, uomini e bambini, ampliando il divario
tra poveri e ricchi, minando alla base le garanzie
dei diritti umani universalmente riconosciuti,
distruggendo l’ambiente con consumi e produzioni
insostenibili, minacciando la stessa
democrazia. Le colpe dei nostri governi sono evidenti.
Di questo ci sentiamo responsabili. Per questo,
a Genova come a Porto Alegre, ci siamo impegnati.
Per un cambiamento possibile, come ci
hanno insegnato le lotte e le resistenze di tanti movimenti
di base del Sud del mondo. Qui e ora. Ma,
dopo Genova, tanti compagni di strada si sono allontanati.
Spaventati dalla violenza
della repressione, ma anche diffidenti
rispetto a meccanismi di rappresentanza
del movimento e di scelta
dei contenuti e delle azioni (…).
(…) saremo insieme, ma solo se saremo
davvero tutti, condividendo uno
stile nonviolento della nostra iniziativa
politica dal quale non vogliamo
prescindere.
Una partecipazione orizzontale,
senza relatori o portavoce non scelti
da tutti, in un confronto aperto (…)
tra tutte le realtà presenti, impegnandoci
ad allargare, a tornare a
quella pluralità che aveva dato forza
e spessore al Genoa social forum.
Insieme con le nostre storie, politiche,
valori, fedi, convinzioni tutte
sullo stesso piano, compagni, compagne,
fratelli e sorelle. Tutti dentro al Forum,
con regole certe e condivise da tutti, perché il vero
Forum resta fuori, nelle strade e nelle piazze,
nelle periferie e nelle stanze del potere, nei campi,
in fabbrica, nelle case e sotto i cartoni, nei luoghi
della preghiera e della disperazione. Ma solo
insieme. (*)
(*) Stralcio dell’appello all’unità del 26 febbraio già sottoscritto,
tra gli altri, da: don Vinicio Albanesi, don Luigi
Ciotti, don Alessandro Santoro, don Tonio Dell’Olio,
don Paolo Tofani, don Beppe Stoppiglia, Rita Borsellino
(Libera), Sabina Siniscalchi (Mani Tese), Marina Ponti
(Tavola della pace), Gianfranco Bologna (WWF), Nicoletta
Dentico (MSF), Michele Sorice (Università La Sapienza),
ecc.ecc.

Paolo Moiola




IL GIGANTE IN TRAPPOLA

La Rete di Lilliput è nata nel 1998 dall’incontro tra
alcune associazioni nazionali (Aifo, Ctm, Mani Tese,
Pax Christi, Beati Costruttori di Pace, Wwf Italia, Rete
Radiè Resch, Centro nuovo modello di sviluppo, ecc.),
la rivista Nigrizia e diversi promotori di campagne nazionali di pressione e sensibilizzazione (Chiama l’Africa,
Sdebitarsi, Campagna per la riforma della Banca Mondiale,
ecc.).
Il nome e il significato di «Rete di Lilliput» derivano
da un’analogia ed una riflessione. Nella favola «I viaggi
di Gulliver» (1725), dello scrittore e politico irlandese
Jonathan Swift, i minuscoli «lillipuziani», alti appena
pochi centimetri, catturano Gulliver, il gigante
molto più grande e potente di loro,
legandolo nel sonno con centinaia di fili.
Gulliver avrebbe potuto schiacciare
qualsiasi «lillipuziano» sotto il suo stivale,
ma la fitta rete di fili lo immobilizza
e lo rende impotente (cfr. Missioni
Consolata, gennaio 2000).
D i fronte a poteri schiaccianti e istituzioni
globali, cittadini e associazioni
possono usare le forze modeste di
cui dispongono ed unirle a quelle di altri individui
e movimenti in vari luoghi. Il sogno è che
tanti gruppi, presenti in ogni angolo del paese, diventino
una grande voce, capace di farsi sentire e incidere
sulle scelte economiche che stanno alla base dei gravi
problemi sociali e ambientali che affliggono il pianeta.
In concreto, la Rete di Lilliput crea collegamenti con
tutte le realtà locali e nazionali che già operano nell’economia
di giustizia, nella non-violenza, nella difesa
dell’ambiente e nei diritti umani, per rendere più efficace
la promozione di nuovi stili di vita, la denuncia dei
rischi sull’ambiente di scelte politiche (che dovrebbero
invece contribuire allo sviluppo sociale). La Rete promuove
pressioni su governi e istituzioni nazionali e inteazionali,
affinché intraprendano iniziative concrete
per la pace e il benessere dei popoli.
I «lillipuziani» non sono mancati alle principali mobilitazioni:
per esempio, durante il vertice dei G8 a Genova,
quello di Mobilitebio nel 2000, la marcia per la
pace Perugia-Assisi nel dicembre scorso. I «lillipuziani»
hanno partecipato ad entrambe le edizioni del World Social
Forum di Porto Alegre (Brasile).
O ggi in Italia esistono 69 «nodi» della
Rete di Lilliput: sono il riflesso di
una presenza omogenea sulla nazione
e la prova di un forte incremento numerico
nel corso di questi anni (in
particolare si è registrata una crescita
alta in occasione dei G8 di Genova).
Nei «nodi» operano gruppi, associazioni
e individui, che non si sono dati regole
scritte o un’organizzazione formale,
ma decidono secondo il consenso generale in
assemblea. Esistono «gruppi tematici di lavoro» che
hanno carattere nazionale; ad essi partecipano persone
aderenti a un «nodo» e particolarmente interessate
all’argomento.
Il gruppo tematico più «antico» è quello sull’«impronta
ecologica e sociale». È già attivo uno nuovo, che
si occupa di non-violenza e conflitti. Altri gruppi sono
stati promossi durante l’assemblea di Marina di Massa.

Luca Graziano e Cristina Coppo




altri «trentatre»

Il 2001 ha portato con sé un terribile bagaglio di violenza
e disprezzo verso l’uomo e verso Dio. È stato l’anno
dell’attacco alle Torri Gemelle, della campagna militare in
Afghanistan, delle violenze fondamentaliste in Pakistan,
Nigeria, Indonesia, India. I faeticanti messaggi di Bin Laden, che assaporavano come un gioco la distruzione dell’altro, rischiano di essere l’immagine dominante di questo inizio di millennio…
La lista dei martiri cattolici che presentiamo va controcorrente. Per motivi contingenti non abbiamo aggiunto ad essa i 16 protestanti uccisi a Bahawalpur (Pakistan), le
centinaia di uccisi a Jos e Kano in Nigeria, i trucidati nelle Molucche o nelle città palestinesi. La lista è sempre stilata per difetto. I 33 nomi che riportiamo sono i rappresentanti di un lungo esercito dell’Agnello, che in tutto il mondo sono pronti a dare la vita per il loro Signore e per gli uomini.
I mesi trascorsi (con le rovine fumanti di «Ground Zero
») ci hanno messo sotto gli occhi la capacità dell’uomo
di uccidere sé e gli altri, magari in nome di Dio. I 33 che
presentiamo (sacerdoti, suore, seminaristi e laici) sono invece morti in nome di Dio, ma per donare la vita. Erano
andati in missione per predicare il vangelo, edificare comunità, aiutare giovani, difendere i diritti umani. Il loro slancio d’amore è stato apparentemente stroncato. La maggior parte di loro sono morti proprio a causa del fondamentalismo religioso o etnico.
Alcuni di loro sono morti per «cause banali»: rapina,
furto. Ma spesso l’apparenza nasconde motivi più profondi.
Per esempio: suor Barbara Ann Ford, americana, lavorava
in difesa degli indios ed era stata stretta collaboratrice
di Juan Gerardi, vescovo guatemalteco assassinato
3 anni fa; padre Ettore Cunial, italiano, cercava di strappare i giovani alla mafia albanese, per salvarli dal commercio di droga e organi. Anche questo è un fatto che segna una tendenza.
Fino a 10-15 anni fa i missionari erano amati per essere
i rappresentanti di valori spirituali. Oggi si vede in essi
solo prede inermi, facili da colpire, perché (si sa) non
portano armi e non rispondono con la vendetta.
In tutto il mondo, anche in Irlanda o negli Stati Uniti, vi
è un oscuramento dell’orizzonte spirituale, una crescita di
materialismo che vede le persone come oggetti da spogliare,
strumenti di possesso.
I l fondamentalismo religioso e il fondamentalismo del
possesso sono le cause profonde del martirologio di
quest’anno. A differenza della morte di un giornalista, un
capo di stato o un terrorista, l’uccisione di questi martiri
non suscita scalpore. Ma essi sono come l’humus della
terra: non lo si nota, ma rende fecondo il campo per nuove
semine e raccolti.
La loro cocciutaggine, nel voler vivere e morire per amore
di Gesù fra le piaghe del pianeta, sostiene la speranza
anche per il 2002.
Questi martiri sono il segno che l’amore è possibile e
che la terra appartiene a Cristo, non alla violenza e al terrore.

MARTIROLOGIO DELL’ANNO 2001
1. Sr. Dionitia Mary (indiana) India – 21/1
2. P. Pietro De Franceschi (italiano) Mozambico -1/2
3. P. Tom Manjaly (indiano) India – 2/2
4. P. Nazareno Lanciotti (italiano) Brasile – 21/2
5. P. Jan Franzkevic (polacco) Siberia – 15/4
6. Sr. Barbara Ann Ford (Usa) Guatemala – 5/5
7. P. Raymond M. Gamach (canadese) Perù – 7/5
8. P. Raphael Paliakara (indiano) India -15/5
9. P. Andreas Kindo (indiano) India -15/5
10. Sem. Joseph Shinu (indiano) India – 15/5
11. P. Henryk Dejneka (polacco) Camerun – 17/5
12. Sr. Claire (burundese) Burundi – 11/6
13. P. Leonardo Alzate (colombiano) Colombia – 14/6
14. P. Martin Royackers (canadese) Giamaica – 21/6
15. P. Fabian Thom (australiano) Papua NG -16/8
16. P. Galeano Buitrago (colombiano) Colombia – 27/8
17. P. Emil Jouret (belga) R.D.Congo – 28/8
18. P. Rufus Halley (irlandese) Filippine – 29/8
19. P. Héctor Fabio Vélez (colombiano) Colombia – 2/9
20. P. John Baptist Crasta (indiano) India – 6/9
21. Vol. Giuliano Berizzi (italiano) Rwanda – 6/10
22. P. Ettore Cunial (italiano) Albania – 8/10
23. P. Eesto Martearena (argentino) Argentina – 8/10
24. P. Gopal (indiano) India – 12/10
25. P. Celestino Digiovambattista (ital.) Burkina F. – 13/10
26. Sr. Lita Castillo (peruviana) Cile – 29/10
27. P. Simeon Coly (senegalese) Senegal – 7/11
28. P. Hubert Hofmans (olandese) Papua N. G. – 23/11
29. P. Peter Obore(sudanese) Uganda – 24/11
30. Sarita Toppo (indiano) India – 28/11
31. P. Michele D’Annucci (italiano) Sudafrica – 8/12
32. P. Michael Mac (Usa) USA – 8/12
33. Sr. Philomena Lyons (irlandese) Irlanda – 15/12
(Fonte: «Fides»)

Beardo Cervellera




Lettere: cari missionari


Il paradiso
è qui



attraverso Missioni Consolata
di settembre, il giornale Times of India rivela che, se si riducesse la
popolazione mondiale a 100 individui, ci sarebbero 57 asiatici, 21
europei, 14 americani, 8 africani. Il quotidiano fa conoscere altri dati
(probabilmente tratti da un sito internet), omettendo però che 89 persone
sarebbero eterosessuali e 11 omosessuali; 6 individui possiederebbero il
59% della ricchezza del mondo intero e tutti e sei sarebbero statunitensi.
Ancora, su 100 individui, 80 vivrebbero in case senza abitabilità, 70
sarebbero analfabeti, 50 soffrirebbero di malnutrizione e 1 solo sarebbe
laureato.


«Se avete soldi in banca, nel
vostro portafoglio e spiccioli in una ciotola, siete fra l’8% delle
persone più benestanti al mondo. Se i vostri genitori sono vivi ed ancora
sposati, siete persone veramente rare, anche negli Stati Uniti e nel
Canada».


Qualcuno ha detto: «Lavora come
se non avessi bisogno di soldi; ama come se nessuno ti abbia mai fatto
soffrire, balla come se nessuno ti stesse guardando; canta come se nessuno
ti stesse sentendo.Vivi come se il paradiso fosse sulla terra.


Giovanni Fumagalli


Casatenovo (LC)

E noi, a poche settimane dal
natale di Gesù Cristo, citiamo un canto:


No, non è rimasta fredda la
terra:
Tu sei rimasto con noi…
Sì, il cielo è qui su questa terra:
Tu sei rimasto con noi,
ma ci porti con Te…
No, la morte non può farci paura:
Tu sei rimasto con noi…
Sei Dio con noi,
sei Dio per noi,
Dio in mezzo a noi.

«Gratia
plena»

sono un giovane devoto
dellaVergine Maria, perché le devo moltissimo. Ho avuto da poco una totale
conversione, grazie ad un vostro missionario, padre Serafino, che mi ha
aperto la strada della salvezza facendomi incontrare la madre di Dio.

Padre Serafino mi ha raccontato
come ha cercato di rendere santa la sua vita donandola a Dio; lungo la
strada della carità e della povertà spirituale ha incontrato molti
bisognosi in Africa e in tutti quei posti in cui Dio lo ha inviato
nell’arco della sua missione. Prego affinché i suoi sacrifici non siano
vani. Il mondo avanzi sulla strada della pace che Dio ha dato a noi
uomini, forse anche grazie ai sacrifici di persone come padre Serafino.


Firma non leggibile,


località non espressa

Nessuna
sanità da «terzo mondo»


in questi giorni il Consiglio
dei ministri ha approvato il documento di programmazione economica e
finanziaria per gli anni 2002/2005.


Tra gli interventi in
programma, leggo che sono previsti 120 mila miliardi di privatizzazioni
(la Repubblica 17/7/01). Ho istintivamente collegato questa notizia alle
perplessità espresse da Gianni Vaccaro nella sua lettera «Se ospedali e
scuole diventano imprese», pervenuta dal Perù e pubblicata su Missioni
Consolata, luglio-agosto 2001.


Ho poche idee in materia
politica ed economica; però mi sono chiesta: si stanno preparando per il
nostro servizio sanitario nazionale tempi difficili, ovvero da terzo
mondo?


Diana Cassani


Milano

La lettrice, più che un
interrogativo, lancia un monito. Ben venga ogni progetto del governo che
elimini gli sprechi e renda il servizio sanitario più efficiente, ma non a
scapito degli ammalati che non possono usufruire di strutture alternative!
Inoltre la lotta agli sprechi deve investire ogni ambito, compreso quello
della produzione di armi. Ecco un altro punto su cui bisogna essere
«svegli». E ci preme dire con forza che sanità, scuola, posta, trasporto,
informazione… da «terzo mondo» non sono tollerabili né nel nord né nel
sud del mondo.


Uso delle
offerte



la lettera di padre Marco
Bagnarol, pubblicata sul numero di luglio-agosto, mi ha lasciata
sconcertata.


Che un missionario, in possesso
di così generose offerte, scriva quelle due-tre cose che gli sono passate
per il capo è veramente inammissibile!


Pensavo che i missionari
destinassero al meglio i soldi che le persone, magari rinunciando a
qualche legittimo desiderio, offrono in favore di un numero indescrivibile
di individui che necessitano, prima di tutto, di medicine per sopravvivere
ed anche cibo per vivere.


D’ora in poi, prima di fare
un’offerta, ci penserò ben bene.


Lettera anonima

I missionari impiegano le
offerte ricevute secondo il desiderio dei donatori: se il denaro è per la
costruzione di un dispensario medico o di una scuola, viene impiegato a
tale scopo. E l’ha fatto, scrupolosamente, anche padre Marco Bagnarol.

Però padre Marco solleva un
altro problema; si domanda: perché è più facile raccogliere fondi per un
allevamento di animali che per la costruzione di una cappella? In altre
parole, il missionario sottopone la sensibilità evangelizzatrice dei
credenti ad un esame di coscienza. Un esame da non sottovalutare.


Se vince la
violenza

Gentile
direttore,


abbiamo vissuto un’estate
«calda», da stampare nella memoria nella sua nefasta realtà. L’estate 2001
(che ci attendeva per trascorrere nel silenzio della montagna e nel riposo
balneare o in un semplice stacco dalla realtà quotidiana) ha portato in
trionfo la violenza. Una violenza sorda e anarchica, disorganizzata e
spietata, disperata e inconcludente. Una violenza che deve farci
interrogare su dove nasce, perché riemerge con tutta la sua forza
distruttrice e contagia le giovani generazioni.


Sono ancora i fatti di
luglio-agosto (specie le vicende del G8 di Genova) che ci turbano e fanno
sobbalzare le coscienze.


A Genova perché la violenza ha
schiacciato le ragioni della protesta, del dialogo, del confronto tra
uomini e donne che vivono gli uni accanto agli altri?… Sono state messe
in soffitta le ragioni nobili di molti, che hanno partecipato non solo
alla manifestazione di sabato 21 luglio, ma anche alla settimana di
dibattito sulla globalizzazione, e che da anni lavorano con coerenza per
lo sviluppo dei paesi più poveri. Non una minoranza, ma un gruppo
consistente di giovani ha usato lo scontro per opporsi ai «grandi della
terra». La violenza, come mezzo per dire «ci siamo!», ha dimostrato ancora
una volta di essere il principio dell’autodistruzione. È scoccata la
scintilla… e l’incendio ha incenerito i buoni e sinceri, che animano la
parte sana e si impegnano per una globalizzazione al servizio dell’uomo.


I violenti hanno creduto di
vincere. In realtà hanno perso. Hanno provocato una reazione scomposta;
hanno evidenziato nel sistema la mancanza di prevenzione e tutela dei
cittadini genovesi; hanno portato a conseguenze tragiche il gioco dello
«spacca tutto», culminato con la morte di un giovane e la disgrazia per
un’altra giovane esistenza. Nelle settimane a venire è nato uno scontro
avvilente nel mondo politico: non una voce si è alzata, ferma,
intransigente, autorevole, per dire basta allo stillicidio, per indicare
un’altra strada a chi vuole perseguire valori umani, per chi deve tutelare
la sicurezza dei cittadini. Alla riflessione pacata si sono privilegiati
gli scambi di accuse e le violenze verbali, che producono solo danni,
spesso irreversibili. Della «non violenza» pochi hanno parlato. Della
capacità di opporsi all’ingiustizia, grazie all’opera silenziosa e
all’amore di coloro che vivono in prima persona i drammi nel Sud del
mondo, nulla. Solo risse verbali.


Allora la violenza dilaga,
penetra nel cuore dei deboli che si credono forti, annebbia menti e
coscienze, entra nelle giovani vite come un virus, una droga e agisce.
Attraverso la violenza si giustifica ogni azione, si chiedono protezioni
politiche, sociali, economiche e financo giustificazioni religiose.


Oggi non si può rimanere inermi
o chiedere solo ordine e repressione. È importante riportare al centro la
cultura della pace, per sradicare la violenza dai cuori, per allontanare
dalla storia l’idea che solo il male trionfa.


I cristiani e tutti gli uomini
di buona volontà sono pronti alla prova?


Luca Rolandi


Torino


Non basta la
parola

Caro
direttore,


«fare un salto» mi hanno
risposto in una banca. Significa che l’impiegato sarebbe stato assente per
tutta la mattinata… Le parole non riescono spesso a rendere il concetto
che ci frulla in testa, perché le giriamo come vogliamo.


Prendiamo, ad esempio, il
termine global. Per esso si azzuffano non solo i politici. Un bene, un
male, una novità?


Global è stato l’antico impero
di Roma, con il virgiliano imporre costumi di pace, usando clemenza a chi
cede e sgominando chi si oppone (Eneide, VI, 852-3). Anche per Marco Polo,
Cristoforo Colombo, Giuseppe Garibaldi o Guglielmo Marconi la realtà era
globale. Ma lo è stata pure nelle guerre modee e nelle epidemie antiche.
E lo è nell’economia. Dunque global non è un’invenzione di questi giorni.
Nel 1969 Marshall McLuhan scrisse sul «villaggio globale», cioè
elettronico. Oggi abbiamo quello telematico di internet. Ma i messaggi
sono destinati pure al bambino del Nepal, costretto a lavorare in una cava
di pietre, o a quello nostrano obeso per eccesso di merendine?


Global: l’esportazione che
arricchisce le nostre imprese, ma anche il lavoro minorile nei paesi «in
via di sviluppo» per prodotti destinati a noi.


Global: la nuova economia che,
ad esempio in Perù, fa rispuntare la TBC, perché gli ospedali (obbedendo
al Fondo monetario internazionale) sono ora imprese di mercato, e non
attuano prevenzione. Il Perù, dove si paga per donare il sangue ad un
malato; dove una donna muore con il figlio, perché senza soldi per il
taglio cesareo (cfr. Missioni Consolata, luglio-agosto 2001). In Gran
Bretagna hanno aggiunto a «capitalismo» l’aggettivo «compassionevole».
Sono parole povere quelle che necessitano di un abbellimento!


Antonio Montanari


Rimini

Avanti
così!

Egregio
direttore,


dopo quanto accaduto a Genova a
luglio e dopo i drammatici avvenimenti dello scorso 11 settembre negli
Usa, nel corso di frequenti discussioni con amici e conoscenti, ci siamo
ulteriormente convinti del valore che riviste come Missioni Consolata
possono assumere.


La vostra rivista garantisce la
qualità e l’originalità delle informazioni, che riescono a comunicare,
attraverso i servizi e le documentazioni che pubblicate, una testimonianza
diretta e continuativa delle culture mondiali e delle condizioni delle
economie nei singoli paesi considerati, evidenziando le contraddizioni che
emergono.


I motivi di riflessione che si
trovano aiutano anche a comprendere le ragioni che hanno spinto centinaia
di migliaia di persone a partecipare in maniera diretta, e molte di più a
condividere le ragioni di una manifestazione quale quella di Genova del 21
luglio. La prevalenza dei mezzi d’informazione ha poi fatto diventare
quanto accaduto una sola «questione di ordine pubblico», scrivendo una
valanga di inutili considerazioni, quando ben altro era il valore di ciò
che si voleva sostenere. Nel panorama dell’informazione nazionale, troppo
impegnato a fornire notizie sugli indici di borsa e sulle tendenze dei
mercati, solo in maniera sporadica trovano visibilità le realtà «altre»
dall’occidente, spesso strumentali a qualche campagna più o meno occulta.


Soprattutto in questi giorni,
in cui con leggerezza sono usate parole terribili, ci aspettiamo che
proseguiate, con il vostro lavoro, a trasmettere un messaggio di giustizia
sociale e di pace.


E questo per continuare a
«sognare un mondo diverso dall’attuale».


Aldo Da Boit


e Tamara Prest



Sorpresa,
stupore…


Spettabile
direzione,


ho letto con attenzione su
Missioni Consolata di settembre «Ai lettori» e «Battitore libero», scritti
da Paolo Moiola.


Mi ha molto stupito la
sicurezza (sicumera?) con cui il redattore individua la causa di tutti i
mali del mondo nella globalizzazione e nelle «violenze di certe
multinazionali», senza accennare alle enormi risorse sperperate in
armamenti convenzionali e no ed in guerre intee dai cosiddetti paesi
poveri (mentre, secondo notizie di stampa, l’ex-terrorista Gheddafi,
cambiando registro, ha ormai ultimato, impiegando utilmente i
petro-dollari, un imponente sistema di acquedotti per portare l’acqua dal
deserto alla costa).


Confesso, infine, sorpresa nel
trovare le tesi antiglobalizzazione e antiamericane, cavallo di battaglia
dell’estrema sinistra italiana, sostenute su Missioni Consolata da Paolo
Moiola, senza far parola su una possibile globalizzazione governata e non
selvaggia. Ancora sono sorpreso nell’apprendere la contiguità di certi
dimostranti a Genova (durante il «G 8») con tute bianche e no.


Chiedo a codesta direzione se o
in quale misura si riconosce nelle tesi del redattore Paolo Moiola.


La presente globalizzazione,
fondata sul neoliberismo economico, solleva forti perplessità nello stesso
«Rapporto delle Nazioni Unite sullo Sviluppo»: come è possibile, ad
esempio, che tre individui nel 1999 avessero ricchezze pari al reddito
complessivo di 42 paesi poveri? Come spiegare il crescente divario
economico fra paesi ricchi e poveri, rispettivamente di 11 a 1 nel 1913,
di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973, di 72 a 1 nel 1992?


Multinazionali.

Vale il discorso della non
demonizzazione. Ma è eloquente che la «Del Monte», ad esempio, sia stata
«processata» in Kenya e, alla fine, abbia accettato le richieste dei
lavoratori nelle piantagioni di ananas.


Guerre e armi.

Nel sud del mondo esistono conflitti assurdi, mancanza di rispetto dei
diritti umani e sprechi di risorse… che Missioni Consolata ha
denunciato. Ma, ancora una volta, sorge la domanda: chi produce e vende
armi? Chi ha addestrato i terroristi, responsabili delle stragi negli Usa
l’11 settembre?

In redazione il dottor
Moiola
ha le «sue» idee (come tutti), che rispettiamo, perché crediamo
nel pluralismo. Questo non significa che tutte le opinioni siano giuste,
ma che tutti possono esprimerle. Altri nostri collaboratori talora
sostengono tesi discutibili. L’invito a ciascuno è: sappi far credito
anche a chi non la pensa come te. Per tale ragione pubblichiamo anche le
lettere anonime (non siamo tenuti a farlo) e quelle che ci insultano.

Come missionari, non possiamo
dimenticare personaggi di chiesa, ieri condannati e oggi assolti: Ricci,
De Nobili, Rosmini… Grazie a Dio (è proprio il caso di affermarlo), la
chiesa cattolica (cioè universale) è quella di san Pietro e di san Paolo:
il missionario Paolo ha accusato Pietro, primo papa, di ipocrisia (cfr.
Gal 2, 11-14)… ed entrambi sono i pilastri della chiesa.

Ai nostri giorni il cardinale
Biffi «non è» il cardinale Martini. Però entrambi hanno diritto di parola,
e lo esercitano.

Complimenti
di «troppo»

Leggo
su Missioni Consolata, settembre 2001, p. 67: «… spero che il mondo che
lei difende un giorno o l’altro si frantumi sotto il peso delle proprie
contraddizioni. Con l’aiuto di quel “popolo di Seattle” (e di Porto Alegre)
che lei liquida con accademica sicumera»… Nell’attesa avete frantumato
le Twin Towers di New York e le persone che si trovavano al loro interno.
Complimenti!


A proposito, se quel mondo si
frantumerà, non ci saranno più antibiotici, aspirina, generosi oboli di
fedeli laboriosi che risparmiano.


A proposito bis, «George il
texano» si chiama George W. Bush ed è il presidente degli Stati Uniti;
merita rispetto come il suo paese che è democratico, generoso, ospitale.


A proposito tris, della «Tobin
tax» si pente persino l’ideatore Tobin, che si è reso conto di aver preso
una cantonata. A Genova non se n’è parlato, perché non funziona, non
serve, anzi fa danno.



Non si stigmatizza la
mercificazione della salute indicata dalla signora Bono, bensì quella
esemplificata da Gianni Vaccaro, che dovette pagare 20 dollari per donare
il sangue ad una ragazza con cancro terminale (cfr. Missioni Consolata,
luglio-agosto 2001).

Bis. Nell’articolo contestato,
alla riga 26 della seconda colonna, si riconosce il «presidente George W.
Bush».

Ter. Nel 1972 James Tobin
(premio Nobel per l’economia nel 1981) propose un’imposta dello 0,05%
sulle transazioni valutarie. Oggi non si riesuma la «Tobin tax» tout
court, ma qualcosa di analogo. È questo pure il parere della studiosa
Susan George,
nostra ospite il 18 settembre scorso (cfr. pagina 43).
Al riguardo, si legga: Alex C. Michalos, Un’imposta giusta: la Tobin Tax,
Gruppo Abele, Torino 1999.

Circa la «nostra» frantumazione
delle torri gemelle e l’assassinio dei residenti, i «complimenti» della
lettrice… li meritiamo davvero?

Usa,
il migliore di tutti?


essendo un lettore di Missioni
Consolata, di cui Paolo Moiola è tra i componenti la redazione, ho avuto
modo di leggere fondi o reportages di suo pugno e più volte sono stato
preso dall’impulso di scrivergli (come più volte sono stato tentato
d’invitare la direzione della rivista ad eliminare il mio nome dagli
abbonati).


Sul numero di settembre il
fondo riguardante i fatti di Genova non poteva essere che di Moiola. Il
livore che manifesta sempre verso gli Stati Uniti, per lui il Satana che
ha demonizzato il mondo occidentale (a proposito, quanto è diverso tale
livore da quello espresso dall’integralismo islamico?), appare anche in
queste righe riguardanti i fatti di Genova.


È ovvio che a Genova Moiola non
poteva non esserci e, ancora più ovviamente, per dimostrare in modo
pacifico, senza casco o mascherine e, men che meno, bastoni o spranghe. Ma
egli non ha mai dubitato che la sua «dimostrazione pacifica» avrebbe fatto
da paravento agli «spacca tutto» privi di qualsiasi motivazione se non
quella di fare disastri? O forse, sotto sotto, sperava che succedesse? Io
proprio non riesco a capire quali siano le origini del suo
antiamericanismo viscerale…


Possibile che, in tutti i suoi
redazionali, sia messo solo in evidenza l’aspetto negativo (che talvolta
esiste) dell’operato statunitense e mai ciò che di buono quel grande paese
compie a vantaggio dell’umanità? Negli anni ’40-50 Moiola non era ancora
nato; ma non gli è mai capitato di leggere qualcosa circa la storia di
quel tempo?


Io penso che il redattore sia
fondamentalmente onesto: purtroppo non si rende conto che il suo
atteggiamento (ancor più grave, perché il pensiero viene riportato da una
rivista cattolica) tende a creare un’immagine unicamente negativa di un
grande paese, non perfetto, ma sicuramente il migliore fra tutti quelli
esistenti sulla faccia della terra. Nelle sue vesti egli fa più danno dei
vari Fo, Santoro e Luttazzi, che neppure meriterebbero una citazione. Il
disprezzo, costantemente espresso e manifestato, alimenta sentimenti di
invidia, che sfociano poi in qualcosa di più grave per arrivare fatalmente
all’odio. Questa lettera viene scritta dopo i fatti di New York, che qui
non commento. Ma chiedo a me e a lui: quanta parte di responsabilità per
la tragedia può essere attribuita alle diffuse e infamanti accuse espresse
nel mondo occidentale verso gli Stati Uniti? Minima sicuramente, ma tale
da indirizzare le idee degli inconsapevoli e dei più violenti in una
direzione sbagliata, in grado di appoggiare (anche se inconsapevole) chi
intende realizzare un disegno perverso.


Che l’Italia sia «il ventre
molle» dell’Unione europea forse a Moiola farà anche piacere, confondendo
la nostra connaturata e opportunistica debolezza come una manifestazione
di non dipendenza dal «grande Satana» d’oltre oceano: non dipendenza che
esprime la solidarietà correlata sempre da «però».


Guarda caso Bush o il «texano»
(come forse Moiola preferisce), nel ringraziare i paesi che hanno
manifestato la loro solidarietà agli amici americani, ha dimenticato
l’Italia: un fatto che ha rattristato soprattutto la nostra comunità, che
si è sentita isolata e quasi emarginata in una fase storica così delicata.


Che gli Stati Uniti siano
«sicuramente il [paese] migliore fra tutti quelli esistenti sulla faccia
della terra»… signor Laurenti, provi ad affermarlo in America Latina o
nella repubblica del Congo, dove da tre anni è in corso una guerra che ha
seminato oltre 2 milioni di morti… con lo «zampone» anche degli Usa,
nonché della Francia! In ogni caso Paolo Moiola terrà conto delle
osservazioni. È stato lui a chiedere la pubblicazione della lettera,
nonostante alcuni passaggi offensivi.


Guide cieche
e sale senza sapore

Spettabile
rivista,


esprimo disappunto dopo aver
letto l’editoriale di Paolo Moiola. Non mi sarei mai aspettato di leggere
su una rivista missionaria un articolo di chiaro stampo anti-G8.


Anche il dossier di Igino
Tubaldo, sulla dichiarazione Dominus Jesus, era assai sgradevole per
alcune affermazioni di dubbio valore teologico ed ecclesiale.


Il vangelo pone un serio
interrogativo: «Può un cieco guidare un altro cieco?». Per noi cattolici
c’è una fortissima tentazione: seguire le mode di pensiero piuttosto che
la tradizione, la sacra scrittura e il magistero del papa e dei vescovi.


Assumendo categorie da altri
ambienti (per l’articolo anti-G8 da una certa sinistra e per il dossier
sulla Dominus Jesus dalla teologia protestante e del dubbio), si finisce
col diventare come il sale, che – afferma il vangelo – perde il suo
originale sapore e viene quindi buttato.


Così si diventa inutili alla
chiesa, cioè al progetto di Cristo, e al mondo! Scusate la franchezza. Mi
auguro che su queste cose ci si possa confrontare sulla rivista.


Da sempre crediamo nel
«confronto». Quindi abbiamo pubblicato anche la sua lettera.


«Dissenso»
non è «odio»



mia moglie è da decenni
abbonata a Missioni Consolata: crede nell’opera missionaria, che ha anche
visto la dedizione completa in Africa di un suo zio vescovo. Io leggo,
oltre alla vostra rivista, Corriere della Sera, di cui talvolta archivio
qualche articolo interessante ed incisivo; tra questi c’è proprio quello
del professor Panebianco del 23/6/01, che voi avete ferocemente attaccato
nel numero di settembre.


Io condivido il pensiero di
Panebianco e trovo scandaloso, sotto il profilo della faziosità e
ristrettezza di visione, quanto affermato nel vostro articolo, che ignora
almeno due cose semplicissime:




Non mi soffermo ad argomentare
perché i no global sono solo interessati, come dice Panebianco, a
sviluppare la loro identità e ideologia, e non argomenti razionali.


Resto, comunque, addolorato nel
vedere come gli articoli della vostra rivista, che vorrebbe essere
cattolica, contribuiscano a fomentare l’odio verso il mondo occidentale.


Antonio Filisetti (via e-mail)

Anche da parte nostra due
«cose»: – non ignoriamo affatto i problemi che il lettore ricorda (ma non
c’entrano con l’articolo di Panebianco); – il dissenso non è per forza
odio. Non lo è assolutamente in noi.


Il pane
bianco del professor Panebianco

Caro
direttore,


ho letto su Missioni Consolata
di settembre la critica di Paolo Moiola nei confronti del professor
Panebianco. Condivido pienamente i rilievi del vostro redattore.


Tra l’altro, il cognome del
professore mi ha ricordato che nel mio paese natale, la Serbia, il pane
bianco lo mangiano i ricchi e il pane nero o la polenta i poveri… Trovo
interessante il fatto che Panebianco difenda la società dei ricchi, la
società di coloro che mangiano pane bianco; anzi, tutte le mattine,
possono scegliere fra una ventina di pani diversi.


Il vostro giornalista è
arrabbiato, perché ha visto da vicino quelli che non hanno neanche il pane
nero, e io lo capisco. È sdegnato con quanti non vogliono né vedere né
assumersi le responsabilità di fronte alle sofferenze altrui, che egli ha
visto con i propri occhi e non riesce a cancellare dalla mente allorché
rientra nella «civiltà».


Signor direttore, sa come la
penso io? Se la globalizzazione garantisce a tutti benessere e democrazia,
io ci sto, eccome! Ma se aumenta il mio benessere e quello dei miei figli
a svantaggio delle creature di un’altra mamma, non ci sto più. Rinuncerei
al piatto pieno e ai 20 tipi di pane bianco, insieme ai miei figli;
rinuncerei ai tre pasti al giorno con molte persone che conosco… se
potessimo cancellare la morte per fame. E credo che lo farebbe anche il
professor Panebianco e, con lui, moltissimi «global», «antiglobal» e tutte
le persone che hanno un cuore nel petto.


Ma la fame nel mondo continua a
mietere numerose vittime, specialmente bambini. Se, pur con le nostre
rinunce, non eliminiamo il flagello, non significa che anche noi non ne
siamo responsabili. Non dobbiamo tranquillizzare le nostre coscienze; ma
trovare il modo che ci sia pane per tutti.


La nuova Europa e la sorella
America sono paesi meravigliosi, pieni di bellezze e ricchezze di vario
genere; ma, se avessero l’umiltà di riconoscere anche quelle degli altri,
se riconoscessero a tutti il diritto di vivere, respirare, lavorare,
studiare… se smettessero di misurare cose e persone con due misure
diverse… se dessero al mondo la parte più bella e sana della loro
civiltà… Purtroppo pochi lo fanno.


Allora ci sono quelli che non
vogliono accettare «tutto il pacchetto» della nostra civiltà, ma solo la
parte migliore. Sono i sognatori, gli utopisti. Sono anche coloro che si
ribellano, protestano, pregano. Sono quelli che Gesù chiama «sale del
mondo». Non sono terroristi e non seminano male e dolore. Possono essere
dei giornalisti, come Paolo Moiola e i suoi colleghi; sono i missionari
della Consolata e tutti quelli che combattono il dolore, la povertà e
l’ingiustizia. Che mondo sarebbe senza di loro?


Missioni Consolata rappresenta
per me un’«isola felice» nel mare delle informazioni quotidiane. Può
sembrare un paradosso: la rivista si occupa dei problemi più gravi del
mondo; eppure riesce a trasmettermi la bellezza e il valore della vita;
tiene sveglia la mia coscienza e mi fa sperare in un mondo migliore, per
il quale vale la pena di combattere e crescere i figli.


La signora Petrovic, sposata
con un medico italiano, è un’«operatrice interculturale» nelle scuole
della provincia di Trento. Ha pure una storia religiosa affascinante, che
i nostri lettori forse ricordano. Nata in Serbia sotto il regime ateo di
Tito, Snezana fu battezzata di nascosto dalla nonna… perché piangeva,
piangeva sempre. La bimba, una volta battezzata, non pianse più.  In un
post scriptum si rivolge pure ad Anna Turatello, invitandola a non avere
paura degli extracomunitari (cfr. Missioni Consolata, settembre 2001).


Scrive: Cara Anna, quell’extracomunitario
si è fermato, a differenza di altri (che non erano tali). Tu, però, non
buttarti sulla strada. E se i freni dell’auto non funzionassero?


Io ho una figlia di 16 anni,
come te. Questa estate siamo state a Belgrado. Lei ha passato delle
vacanze indimenticabili con gli «extracomunitari». Io però cancellerei
tale parola dal linguaggio della bella lingua italiana.


Sono stranieri di diversi
paesi. Ognuno ha un nome e cognome; può essere bello o brutto, onesto o
disonesto, educato o maleducato, pigro o diligente, stupido o
intelligente… Non aver paura, Anna. Anch’essi sono «il tuo prossimo».

Le
armi del «diavolo»

Cari
missionari,


temo di venire cestinato
scrivendo sull’orribile attentato negli Usa.


Il discorso di Bush, con la
parola «vinceremo», mi sa più di ragionamento di «vendetta» che di
giustizia; ancora una volta, dimostra che la civiltà civile siamo «noi» e
noi siamo nel giusto. Gli altri sono diavoli.


Lutto, minuti di silenzio,
trasmissioni sospese. Sono d’accordissimo: ci mancherebbe! Ma quando gli
Usa hanno attaccato Baghdad e Belgrado, quanti sono stati i minuti di
silenzio?


Il «diavolo» Bin Laden è stato
finanziato dalla Cia americana, finché ha fatto comodo, come i vari Saddam
(i nemici). Troppo comodo! Lo sbaglio, nella nostra epoca di popoli
civili, è stato ed è quello di vendere, vendere… senza pensare
minimamente che i «diavoli» le armi le comprano in casa nostra: non se le
sono create loro!


Il «mea culpa» è d’obbligo.


Gli Usa fanno una politica
estera dannatamente a loro favore, senza pensare ai popoli di «serie C».
Finché i palestinesi e i curdi non avranno una patria, ad esempio, e noi
continueremo a pensare solo al dio-denaro, al dio delle banche, non
stupiamoci se il diavolo prova invidia e odio nei nostri riguardi di
popolo occidentale santo. E con un nostro aereo ci condanna.



Diamo atto al presidente Bush
che, dopo le stragi dell’11 settembre, ha escluso la vendetta e persegue
la giustizia e la libertà. Ma come?


Una voce
fuori del coro


sono un ex allievo dei
missionari della Consolata. Dopo qualche anno di servizio in Mozambico,
sono ora responsabile del settore «cooperazione allo sviluppo» nella
provincia di Trento. In tale veste (ma anche e soprattutto a livello di
impegno personale), mi occupo di problemi legati allo sviluppo: diritti
fondamentali, pace, democrazia.


Ringrazio molto Missioni
Consolata, che rappresenta per me un valido strumento d’informazione,
analisi e riflessione, soprattutto in riferimento ai problemi degli
squilibri mondiali, della globalizzazione delle povertà, dei diritti dei
popoli colonizzati dai paesi occidentali, non più in senso classico, ma in
modo più subdolo e (se possibile) più pericoloso dalle logiche del
mercato.


Ogni mese leggo Missioni
Consolata, una delle poche voci fuori del coro, capace di leggere con
equilibrio e coraggio le contraddizioni dei nostri tempi, sempre con un
occhio attento ai diritti calpestati di milioni di persone, in nome di una
non ben definita libertà, che sempre più si rivela libertà di fare i
propri interessi a scapito di tutto e tutti.


Dopo le tragedie negli Stati
Uniti, mentre la violenza costringe a schierarsi senza «distinguo» né
capacità di riflessione, mantenere viva la fiamma della ragione e della
ricerca onesta rappresenta una scelta profetica, che solo chi è spinto
dalla passione e dalla generosità può fare.


Sono riconoscente ai missionari
della Consolata per la formazione ricevuta e mi complimento con la
rivista. Mi fa piacere vedere che i valori (che mi hanno sostenuto da
ragazzo) sono sempre la scelta degli ultimi, la giustizia, il rispetto,
l’equità, il pluralismo e rappresentino ancora oggi la linea direttrice
della rivista. Buon lavoro.

 



Chiesa e potere militare


 Gesù
non era cappellano di Erode

 


Cari missionari, il
dossier su «gli indios di Roraima/Brasile» è molto bello e ancora più
bella è la campagna di mobilitazione che avete lanciato per impedire la
costruzione della caserma nel villaggio di Uiramutã e arginare la
militarizzazione del territorio indigeno (Missioni Consolata,
luglio-agosto 2001).


Spero che da parte
di tutte le istituzioni cattoliche vi sia la medesima sollecitudine per
questa nobile causa o, quanto meno, non vi sia ostilità verso i vostri
progetti.


Dico questo perché
la presenza militare è molto radicata presso le alte sfere della chiesa
cattolica ed è una presenza pesantissima.


Ci siamo dimenticati
che Giovanni XXIII, prima di diventare papa, fu cappellano militare e che
l’attuale pontefice, tra gli altri titoli, detiene anche quello di
«vescovo militare»?


Il fatto potrebbe
funzionare se questi titoli e questa presenza fossero interpretati come un
servizio alla verità di Cristo, un servizio alla giustizia, alla pace,
alla salvaguardia del creato, e non una sovrastruttura finalizzata alla
legittimazione di strutture di peccato. Queste, sul piano morale e
religioso, non potranno MAI avere legittimità e autorevolezza (cosa ben
diversa da autoritarismo).


Io non so se e in
quale misura anche in Brasile sia presente una «chiesa in stellette», «in
anfibi» o un progetto di «caritas militare» e se i cappellani militari
italiani siano andati a Rio de Janeiro o Manaus a svolgere «pastorale
vocazionale militare» e addestrare in tale senso i loro confratelli per
far nascere una chiesa militare locale.


So che in paesi
latino-americani (in particolare Argentina e El Salvador) i cappellani
militari hanno avuto un ruolo assai importante nell’escalation delle
violenze contro la popolazione civile; e, se lo so, è perché ad ammetterlo
sono stati gli stessi autori delle atrocità e in qualche caso, sia pure a
distanza di anni, gli stessi cappellani.


Sono convinta che il
papa, a livello teorico, possa avere qualche ragione per tenere ancora in
piedi l’Ordinariato militare. A livello pratico, però, dovrebbe vigilare
di più su ciò che effettivamente i cappellani e vescovi militari insegnano
e fanno e, soprattutto, su ciò che omettono di insegnare e fare in prima
persona.


Gesù è andato nelle
case di tanti peccatori e ha usato misericordia con tanta gente che aveva
fatto del male. Ma non è stato né il cappellano di Erode né quello di
Pilato.


Rita Ferri – Fano
(PS)

 

Lettera che si
avvale di numerose fonti bibliografiche… Il papa non scende a patti con
la guerra. E lo sta dimostrando anche nel presente ed angoscioso frangente
mondiale, dopo l’«11 settembre 2001».

 

 

 



Abbiamo già tanti problemi, e voi…

 


Caro direttore,


per ragioni di
salute sto trascorrendo un po’ di tempo con i parenti, a contatto con la
gente, e raccolgo anche qualche parere su Missioni Consolata. In genere la
rivista piace per il taglio spigliato e non clericale, che – dicono – si
trova in pochissime riviste cattoliche. Quindi ringraziano te e la
redazione.


Permettimi anche di
riportare (senza offesa) due osservazioni critiche, abbastanza comuni.


1. Essendo Missioni
Consolata «la rivista missionaria della famiglia», si desidererebbe un
arti

AAVV