IMPARARE… PER SERVIRE

Il missionario novello atterra,
per esempio, a Maputo
(Mozambico). E che fa?
Certamente impara la lingua.
E poi? Prima di annunciare
il vangelo,deve capire.
Meglio «intelligere».

Sono un missionario fidei donum
di Brescia. Ho partecipato
con piacere al «Corso di inserimento
» in Mozambico, organizzato
presso il Centro pastorale di
Guiua, nella diocesi di Inhambane.
Eravamo in 36: religiose e religiosi,
sacerdoti e laici. Varia la provenienza:
Italia, Spagna, Portogallo,
Brasile, Angola, India, Argentina.
Tutti uniti nella fedeltà a Cristo e in
ascolto delle chiese locali, che vogliamo
servire ogni giorno.
Guidati da amici ed esperti, abbiamo
focalizzato i contenuti dell’azione
missionaria di Gesù Cristo. In
lui «il volto della missione» è chiaro,
come pure lo stile: è quello dell’incarnazione,
che non ha niente a che
vedere con le violenze estee, che
stravolgono tutto. L’incarnazione richiede
rispetto e pazienza, se si vuole
che il «seme» cresca e maturi.
Infine abbiamo condiviso le motivazioni
del nostro annuncio, già tutte
contenute nella vita del Maestro:
bellezza, verità, amore.

Quando si partecipa
a un evento bello, lo si racconta;
quando si conosce un fatto vero, lo si
annuncia; quando si gusta l’ebbrezza
dell’amore puro, lo si condivide.
Il lavoro di analisi e sintesi è stato
alimentato da un’intensa preghiera
liturgica. La preghiera è il respiro
della missione. L’evangelizzatore è
un contemplativo in azione e un attivo
in contemplazione. Questo ci ricorda
la vocazione alla santità. La
santità poi va fatta risplendere nella
multicolore sapienza di Dio (cfr. Ef
3, 10). Solo se vivremo plasmati dal
magistero e dalla logica della preghiera,
potremo invitare a credere in
Gesù Cristo.

Oltre ad essere
«un dimorare con il Signore», la
missione è pure un andare verso i
fratelli e sorelle che vivono in terre
lontane.
Però l’annuncio del vangelo non
può essere improvvisato. È vero che
la parola annunciata ha in sé tutta la
sua efficacia; ma è altrettanto vero
che, per essere buoni missionari, è
necessario amare, conoscere e valorizzare
la persona che s’incontra e il
contesto culturale nel quale l’annuncio
risuona, soprattutto quando
recano il sigillo della differenza. In
tutto questo il corso ci è stato di valido
aiuto.
Parlare dell’Africa e degli africani
non è facile. Sono realtà complesse,
che presentano stratificazioni di
tempi e, pertanto, differenti culture.
Sono realtà instabili, perché animate
e attraversate da fatti molteplici e
a volte contraddittori. La tradizione
africana, pur affondando le radici in
un humus vitale comune, si presenta
con varietà di forme: visione della
vita, simboli sacri, proibizioni morali e religiose, costumi che cambiano
da gruppo a gruppo e da villaggio
a villaggio. Così è delle persone.
L’Africa è molto interculturale a livello
nazionale e locale. Ogni nazione
e luogo influenza i comportamenti
personali. Sulle persone ci sono
state date indicazioni precise e
dettagliate circa la nascita, crescita,
riti di iniziazione, maturità, matrimonio,
scelta di consacrazione, malattia
e morte. La questione femminile
è particolare.
Una speciale
attenzione è stata riservata alle religioni
tradizionali. Il mondo religioso
africano è complesso. Tale complessità
deriva dall’esperienza in sé
stessa, dai tentativi teorici messi in atto
per spiegarlo, dal vasto ambiente
sociale in cui si esplica, dagli interessi
culturali che suscita. Ciò che più ci
ha fatto riflettere è il valore e l’influsso
della tradizione, che non deve
essere minimizzata.
La religione africana è di natura
esperienziale, non teorica. Si esprime
con un vocabolario teologico
preso dalla vita vissuta in un preciso
contesto geografico. Si tratta di esperienze
senza «autori», prive di strutture
cultuali chiare, prive di libri sacri:
perciò è difficile evidenziae gli
aspetti dottrinali e determinare i
contenuti.
Per qualificare il fenomeno religioso,
si raccomanda di respingere i
termini feticismo, animismo, paganesimo,
antenatismo, totemismo.
L’africano crede in due mondi, uno
visibile e l’altro invisibile, e nella loro
interazione. Crede nella comunità
gerarchizzata e, soprattutto, in un
Essere supremo, creatore e padre di
tutto ciò che esiste.
Con questa ricchezza il cristianesimo
deve dialogare. Nel dialogo ciascuno
dovrà donare non tanto idee
e dottrine, ma storie vissute. Il dialogo
richiede di esprimersi con parole
e gesti autentici, che sappiano porre
a confronto tutta la propria storia di
fede. Il passato emerge con grandezza
e forza. Chi oggi non ricorda
ciò che lo ha preceduto ieri (antenati,
eventi…) vive senza meta.

Sono state illustrate
le dinamiche e problematiche della
vitalità ecclesiale odiea.
La chiesa in Africa è chiamata ad
essere «chiesa-famiglia», ambiente
dove Dio riunisce i suoi figli dispersi
nel mondo (Gv 11,52), luogo dove
coloro che invocano Gesù Cristo
(2 Cor 1,2) si accolgono reciprocamente
come dono di Dio (Gv 17,6-
24) per vivere l’amore del Padre e
del Figlio; luogo di vita caratterizzato
dalla premura verso l’altro, solidarietà,
calore delle relazioni, accoglienza
e fiducia.
Per rendere incisiva l’evangelizzazione,
i vescovi mozambicani sollecitano
la creazione di «piccole comunità
cristiane»: cellule di base ecclesiale,
progetto per un’autonomia
delle giovani chiese e punto di riferimento
per una pastorale a dimensione
d’uomo.
In tali comunità tutti sono chiamati
ad essere responsabili; esse sono
luoghi di convivenza quotidiana
e aiutano a vincere i tribalismi; stimolano
a cogliere i segni dei tempi
nel contesto sociopolitico del paese.
Il laico, con la grazia di Cristo, è una
pietra angolare della nuova costruzione.

Ringrazio il Signore
per il Corso di inserimento in
Mozambico. Esprimo gratitudine,
soprattutto perché si è svolto a
Guiua, una località dove alcuni cristiani
sono stati martirizzati per la fede
(*). Pregando sulle loro tombe
pensavo: la missione avanza lentamente
all’insegna della croce e da essa
si caratterizza.
Essere missionari significa credere
che la chiesa cresce con la testimonianza
del martirio.
Anche del mio martirio.
(*) Ai 24 catechisti, martirizzati
in Mozambico il 22 marzo 1992,
Missioni Consolata di Marzo 2002
ha dedicato un dossier.

Adriano Dabellani




TOCCA A LULA!!

Dal 1° gennaio il Brasile ha un nuovo presidente:
Luis Inácio da Silva, soprannominato
Lula, vincitore delle elezioni presidenziali
tenute lo scorso ottobre, candidato del
Partido dos trabalhadores (Pt). Il 39° presidente
della Repubblica brasiliana proviene dalla classe
dei poveri e degli emarginati: è la prima volta
nella storia del paese.
Dopo tre tentativi andati a vuoto (nel 1990,
1994 e 1998), Lula sembrava deciso a gettare la
spugna, come confessò in un’intervista rilasciata
alla nostra rivista nel 1999 (cfr. M.C. dicembre
’99). Ci ha riprovato e i brasiliani ne hanno premiato
carisma e caparbietà; soprattutto, hanno
dato credito al programma condensato nel motto
elettorale: «Per un Brasile decente».
Contro la più grande concentrazione al mondo
di latifondi, Lula ha promesso la riforma agraria a
favore di centinaia di migliaia di famiglie «senza
terra»; a oltre 34 milioni di persone che vivono
con meno di un dollaro al giorno ha dichiarato
«zero fame»; ad altri milioni al di sotto della soglia
della povertà ha assicurato una più equa distribuzione
delle ricchezze; di fronte al dilagare della criminalità
organizzata e di quella spicciola ha promesso
di garantire la sicurezza di tutta la popolazione;
di fronte a un’economia alla deriva ha
dichiarato guerra alla corruzione.
Per garantirsi il sostegno delle classi medie e
medio-alte e per non allarmare i «poteri forti»,
Lula ha fatto capriole ideologiche: ha moderato la
sua abituale retorica contro il capitalismo, Stati
Uniti e istituti finanziari inteazionali, ha abbracciato
vari principi dell’economia di mercato,
ha abbandonato l’intenzione di rifiutare il pagamento
del debito estero e di rompere i rapporti col
Fondo monetario. Idee che hanno causato travasi
di bile ai più radicali leaders del suo partito.
«Più che povero, il Brasile è un paese ingiusto»
ha affermato il suo ex rivale F. H. Cardoso. Forse
per questo anche i «poteri forti» gli hanno dato
credito, convinti che prendersi cura dei poveri,
combattere l’analfabetismo, riformare la distribuzione
della terra e delle pensioni, non mettono a
rischio i loro interessi. Anzi.
I l 1° gennaio in tutto il mondo si celebra la
Giornata mondiale della pace: sia di buon auspicio
anche per Lula e il popolo brasiliano.
Nel messaggio per tale occasione, Giovanni
Paolo II ripropone i valori dell’enciclica Pacem in
terris, pubblicata 40 anni fa da Giovanni XXIII e
indirizzata a «tutti gli uomini di buona volontà»,
per costruire un’autentica convivenza umana.
Anche Lula appartiene a questa categoria e tali
valori, come «bene comune, diritti umani fondamentali,
verità, giustizia, carità, libertà», fanno
parte del suo programma di governo.
Fare in modo che, come diceva Giovanni XXIII,
non rimangano «solo un suono di voce», non è facile
neppure in Brasile. Cinque secoli di squilibri e
ingiustizie non si risolvono con un decreto presidenziale.
Lula lo sa.
I pericoli ci sono, dentro e fuori: c’è il conflitto
tra la cruda realtà e le aspettative della gente;
ci sono le resistenze del mondo finanziario e
imprenditoriale. Lo «zio Tom» gli ha fatto tanti
auguri, ma lo aspetta al varco, pronto a stringere i
cordoni finanziari.
Egli sa pure che la sua elezione è un’occasione
storica per il suo paese e tutta l’America Latina, da
oltre 20 anni laboratorio mondiale del liberalismo
più selvaggio. Il Brasile potrebbe diventare il laboratorio
per un mercato dal
volto umano e uno sviluppo
sostenibile.
Sempre che Lula
riesca a mantenere
le promesse.
«Ce la faremo
» ha detto il
neopresidente il
giorno della vittoria.
Glielo auguriamo
di cuore,
per il bene dei brasiliani
e di tutti i latinoamericani!

BENEDETTO BELLESI




Scandalo «silenzio»

Cari missionari,
scrivo perché (non per la
prima volta) ho visto un
programma su Rai 3
(«C’era una volta»). Parlava
della prostituzione
minorile in Brasile.
Il giornalista (un «vero»
giornalista) intervistava le
bambine che si prostituiscono
per strada a 9, 10,
12 anni, perché «non hanno
da mangiare», per
«aiutare la mamma»; intervistava
i genitori, taluni
ignari e taluni consenzienti
(per necessità); intervistava
anche alcuni turisti
(italiani) del sesso, non
sempre minorile…
Perché questi programmi
vengono dati in tarda
serata? Perché scandalizzano?
Forse, se venissero
dati all’ora di cena, sarebbe
meglio: molti di noi
smetterebbero di mangiare
e inizierebbero a pensare,
a pensare veramente.
Dopo quel programma,
non sono riuscito a dormire,
pensando al volto di
quelle bambine, una in
particolare… Io conosco il
problema abbastanza bene…
ma non ho mai visto
il volto di una bambina
«di vita».
Mi sono detto: non sentirti
in colpa, perché non
fai quelle cose. Eppure mi
sento in colpa, perché faccio
parte di quel tipo di
società che sfrutta la fame
di una bambina per un…
Dopo quello che ho visto,
tutto diventa piccolo,
insignificante, inutile… di
fronte al volto di quella
bambina, i cui occhi, pieni
di rassegnazione, con la
voglia di sognare ma senza
la speranza di un sogno,
mi guardano ancora
mentre vi scrivo.
Fra poco andrò al lavoro.
Ma quale attività, professione,
impiego o perdita
di tempo è più importante
di quella bambina?
Quale sport, quale «ragazza», quali parole sono più
importanti?
Forse è questo che spinge
voi missionari a partire
per andare da chi ha veramente
bisogno; ma penso
anche che parecchi di noi,
cristiani «perbenisti», non
vogliono vedere quei programmi,
perché «si scandalizzano». Questo mi
riempie di tristezza e, soprattutto,
di indignazione.
Certe cose è meglio non
saperle: rimuovono l’appetito
ed anche la voglia
(probabilmente) di comprare
inutili oggetti che la
pubblicità ci propone o di
ascoltare le stupidate dei
quiz televisivi!
Cari missionari, non abbiate paura di scandalizzare.
L’unico vero scandalo
è stare zitti.

A proposito di «veri»
scandali (come il turismo
sessuale, che sfrutta persino
i bambini), Gesù
disse: chi scandalizza anche
uno solo di questi
piccoli, sarebbe meglio
che fosse buttato in mare.
Gli scandali sono inevitabili.
Ma guai a chi li
provoca (cfr. Mt 18, 7).

Alessio Anceschi




NON DI SOLO CALCIO

Giugno 2002 passerà alla storia per i
goals di Ronaldo, che hanno laureato il
Brasile pentacampione mondiale di futebol.
Nell’euforia si è esclamato: «Ora anche
Dio è brasileiro!».
A noi, tuttavia, preme ricordare due altri eventi:
il Vertice mondiale sull’alimentazione, svoltosi
a Roma il 10-13 giugno presso la Fao, e il
Summit dei G 8 sulle Montagne Rocciose del
Canada dal 26 al 28 giugno. Incontri apertisi tra
perplessità e conclusisi nella delusione.
Idubbi sul vertice di Roma avevano un fondamento:
primo, perché la Fao è un’agenzia delle
Nazioni Unite che, mentre lotta contro la
povertà nel mondo, spende ogni anno 500 milioni
di euro per mantenere i propri apparati burocratici;
secondo, perché promette di sanare la
piaga di 800 milioni di affamati… a parole,
esattamente come nel vertice del 1996.
Accanto (o in contrapposizione) al vertice
Fao, se n’è svolto un altro con 2.000 delegati
di Organizzazioni non governative
(Ong), impegnate nel Sud del mondo. Nel
documento finale hanno osservato che il
piano della Fao del 1996 «è fallito… perché
si è basato su politiche che incentivavano
la fame nel mondo e la liberalizzazione
economica». L’errore è stato di «avere
forzato i mercati al dumping [con prezzi
stracciati, inferiori persino al costo
di produzione, per vincere la concorrenza],
alla privatizzazione di terreni
e risorse pubbliche: acqua, foreste,
aree di pesca». Inoltre c’è stata la
repressione di movimenti sociali.
Per le Ong la via di uscita è la
«sovranità alimentare»: ossia il
diritto dei popoli ad autodefinire
le proprie politiche produttive,
abbattendo la concentrazione di
proprietà, riconoscendo il ruolo
delle donne, investendo a favore
di piccoli produttori. Ma, per questo,
urgono riforme agrarie, l’esclusione
dell’Organizzazione mondiale
del commercio dalle politiche agricole, la moratoria
sugli organismi geneticamente modificati
(omg).
Il Summit in Canada è stato definito da Silvio
Berlusconi «un vertice concreto» con un piano
di azione per l’Africa povera. Ma, secondo
Sergio Marelli (direttore di 56 movimenti di volontariato
internazionale di ispirazione cristiana),
si tratta di un piano di inazione. Per dimezzare la
povertà entro il 2025, servono ogni anno 54 miliardi
di dollari: lo sostiene la Banca Mondiale,
mentre i G 8 si sono impegnati con 12 miliardi di
dollari: troppo poco rispetto ai 300 miliardi di debito
estero dell’Africa. Né si profila un piano di
aiuti, pari allo 0,7% del prodotto interno lordo,
da parte dei paesi ricchi a favore di quelli poveri.
Questi, nell’ultimo decennio, hanno aumentato
le esportazioni del 40%, vedendone però diminuire
il valore del 30%.
I leaders africani chiedono una collaborazione
collettiva, forte e responsabile, mentre i G 8
sembrano selezionare i paesi da soccorrere,
senza investirvi risorse. Il presidente del
Sudafrica, Thabo Mbeki, ha fatto buon viso a
cattiva sorte, affermando: «Il piano dei G
8 per l’Africa non è che il punto di partenza.
Però la forza non sta nelle risposte
che essi daranno, bensì nella convinzione
con cui gli africani si assumeranno la responsabilità
diretta di fare decollare
il continente».
E che dire dei milioni e milioni
di morti, uccisi da guerre? Al
riguardo, Berlusconi ha ricordato
che l’Africa è arretrata
anche per i conflitti armati.
Verissimo.
Ma, allora, come si può accettare
che, alla Camera dei
deputati italiani, la maggioranza
abbia approvato la
riforma della legge 185/94,
che allarga le maglie del traffico
di armi in Africa?

FRANCESCO BERNARDI




UIRAMUTAN, L’ULTIMA FRONTIERA

Lo scorso maggio il governo brasiliano
ha inaugurato una caserma militare
in pieno territorio indigeno. È l’ennesimo
atto di prepotenza, che mette a rischio
la sopravvivenza dei popoli autoctoni
dell’Amazzonia, già prostrati da problemi
più grandi di loro.
Nel frattempo, su iniziativa dei missionari
della Consolata, parte una nuova,
grande campagna in favore degli indigeni
di Roraima. Si chiama «Vogliamo vivere!».
Lo scorso maggio il governo brasiliano
ha inaugurato una caserma militare
in pieno territorio indigeno. È l’ennesimo
atto di prepotenza, che mette a rischio
la sopravvivenza dei popoli autoctoni
dell’Amazzonia, già prostrati da problemi
più grandi di loro.
Nel frattempo, su iniziativa dei missionari
della Consolata, parte una nuova,
grande campagna in favore degli indigeni
di Roraima. Si chiama «Vogliamo vivere!».

Il 2 maggio 2002 l’esercito brasiliano
ha inaugurato, nella località
di Uiramutàn, nello stato di
Roraima, con festeggiamenti, spari
e grande dispiegamento militare, la
caserma del 6° plotone di frontiera.
Hanno partecipato soldati, ufficiali,
quattro generali, politici, fazendeiros.
La cerimonia è stata impeccabile,
ma nell’aria e nel cuore
degli organizzatori non c’era tanto
lo spirito di chi è lieto per aver portato
a termine una buona impresa,
quanto piuttosto il sentimento segreto
di chi è conscio (anche se non
lo dice) di aver affermato il suo potere
per prevenire qualsiasi velleità
di ribellione.
Era presente anche un gruppo di
indios, antichi e veri abitatori della
regione, incapaci, eccetto pochi, di
comprendere la ragione, la portata
e le conseguenze di quella costruzione
e della festa. Erano stati spinti
a venire dal desiderio di vedere, in
un luogo di solito silenzioso, tanti
aerei in una sola volta, soldati che
sfilano, ufficiali che danno ordini,
trombette che suonano, politici ben
vestiti e compiacenti, discorsi altisonanti.
Davanti a questo spettacolo inusuale
gli indios si sono sentiti ancora
più piccoli ed estranei al mondo
dei bianchi.

CORPO ESTRANEO
Uiramutàn è il nome del villaggio
e della regione, situata molto lontano
dai grandi centri abitati, ma non
distante dal monte Roraima (2.772
metri) che dà il nome allo stato. Chi
vi giunge ha subito l’impressione di
essere in un altro mondo, tale è il silenzio,
la pace e serenità.
È una regione poco abitata: c’è il
piccolo villaggio di Uiramutàn e pochi
altri, sparsi e distanti chilometri
gli uni dagli altri. Impressionante a
quell’altezza è la luminosità intensa
e il panorama formato da una distesa
di basse montagne intramezzate
da vallate strette ed erbose. Il suolo,
quasi tutto arenoso, non ha molta
vegetazione. Qua e là qualche albero
di piccole dimensioni, mentre è
più intensa la presenza di arbusti
lungo i due piccoli torrenti portanti
scarsa acqua e infossati rispetto all’altopiano.
Sono questi torrenti la sola riserva
idrica per la popolazione indigena
locale le cui semplici abitazioni, fat-
te di materiale raccolto nella zona, si
allineano in una ristretta area. Il terreno
coltivabile è limitato e appena
sufficiente agli abitanti, che non sanno
cosa sia il mercato: ciascuna famiglia
produce il proprio sostentamento
o se lo procura con la caccia
e la pesca (anche queste, invero,
piuttosto scarse).
Oltre alle abitazioni degli indios,
si trovavano nell’area, fino a poco
tempo fa, poche costruzioni in muratura:
una chiesetta, la scuola, il
municipio e rare abitazioni di bianchi.
Oggi c’è anche la caserma del 6°
plotone. Perché – si chiede qualcuno
– una costruzione così grande?
Perché una simile ostentazione di
forze, potere e superiorità al cospetto
di abitanti tanto ingenui?

DIFESA DA CHI?
I giornali di Boa Vista e di altri stati
del Brasile hanno commentato gli
eventi del 2 maggio ripetendo il solito
ritornello stereotipato e trionfalistico:
«difesa delle frontiere, onore
della patria».
La frontiera con la Guyana, costituita
dal fiume Maù, si trova poco
lontana ed oltre la stessa esiste una
regione ugualmente montagnosa, arida
e totalmente spopolata. È difficile
immaginare che possano esistere
nemici da quelle parti, tanto più
che, da secoli, la bandiera brasiliana
sventola anche nei villaggi indigeni.
Chi la porta e la difende, ora come
nel passato, sono gli indios. Chi parla
la lingua brasiliana e porta un nome
brasiliano sono gli indios.
Mai gli indios furono nemici, ma
al contrario sempre amici e difensori
del suolo nazionale. Lo dimostra
chiaramente il libro As muralhas do
Sertão, scritto dalla storiografa Farage.
Gli indios della regione sono di
etnia macuxì del gruppo karib.
Hanno una cultura analoga a quella
di tanti altri indios e vivono in un regime
comunitario, pacifici, ma
preoccupati della vicinanza dei
bianchi e timorosi della ingordigia
della società che si dice civile. Non
c’è ragione che qualcuno vada a turbare
la loro pace e i loro modi di vivere.
Anche i legislatori brasiliani
hanno compreso questo e la Costituzione
del 1988 decreta che siano
demarcate le terre dei popoli indigeni,
allo scopo di difenderli da invasioni
e aggressioni.
Lungo la storia furono sovente attaccati
e persino fatti prigionieri e
schiavi per lavorare nelle fazendas
dei grandi latifondisti dell’Amazzonia
a sud del fiume Amazonas. Ma
poi le relazioni con i bianchi ebbero
momenti di concordia e con la legge
suprema del paese si pensava che
le invasioni, le violenze e lo sfruttamento
sarebbero cessate. Invece no:
la demarcazione è stata iniziata e
non conclusa, forze politiche si opposero
ad essa e, fatte rare eccezioni,
le comunità indigene continuarono
a essere oppresse, a volte con
modi astutamente amichevoli, altre
con la prepotenza e le minacce.
L’insediamento militare, realizzato
con tanta pompa al cospetto delle
rocce montagnose, pare costituire
un’aggressione camuffata contro
una popolazione inerme e pacifica.
Il 2 maggio soltanto una voce si è
posta fuori dal coro, quella del
tuxaua Orlando, capo indigeno del
villaggio. Questi, dopo i discorsi laudatori
ufficiali, ha affermato che la
caserma militare è deleteria per la
convivenza, perché viene a sopraffare
costumi ed abitudini indigene,
stronca il naturale avvicinamento ai
bianchi e, quel che è peggio, porta
prostituzione e diffusione delle bevande
alcoliche contro le quali i responsabili
delle comunità stanno da
tempo lottando.

L’ARROGANZA DEI BIANCHI
I giornali che hanno descritto l’evento
danno rilievo al fatto che i
massimi esponenti delle forze militari
si sono stupiti dello svolgersi
«pacifico» delle cerimonie. C’era
quindi la coscienza di fare qualcosa
che feriva gli animi dei gruppi indigeni,
soprattutto di quelli organizzati
nella associazione chiamata
Conselho Indigena de Roraima (Cir),
che da anni difende i diritti e la dignità
degli indios. Gli organizzatori
della festa avevano quindi timore
che l’esile organizzazione facesse dimostrazioni
pubbliche di dissenso.
Ma era assurdo pensarlo.
Gli indios, da tanti secoli umiliati
perché nullatenenti e differenti, abituati
allo sfruttamento, alla prepotenza
e arroganza dei bianchi, ma
anche attratti dal benessere a cui in
cuor loro ambiscono, cosa potevano
fare contro quello spiegarsi di
forze militari? E poi perché opporsi
quando essi si sentono parte della
nazione brasiliana?
Trovano sbagliato e incoerente
con lo spirito della Costituzione la
caserma nel bel mezzo di un loro villaggio
ed hanno manifestato il loro
disappunto all’inizio dei lavori di costruzione.
Poi, facendo violenza su
se stessi, hanno dichiarato apertamente
l’opposizione al progetto, ricorrendo
ai tribunali. Questi hanno
dato loro ragione, ma i militari hanno
fatto ricorso e benché non sia ancora
venuta la sentenza, essi – sfidando
la giustizia – hanno proseguito
i lavori e terminato la costruzione,
fiduciosi di prevalere sulla legge.
Così, come tante volte nella storia,
le autorità che devono difendere la
popolazione specialmente la più umile
e indifesa, si sono comportate
da aggressore.
La coscienza etnica, che da qualche
anno si è risvegliata negli indios,
ora si sente non solo impotente ma
costeata ed esasperata. Anni addietro
era il piede delle mucche del
fazendeiro che calpestava il suolo e
l’animo degli indios, oggi è il crepitio
delle pallottole e il fragore delle
bombe che esplodono durante le
manovre militari eseguite intenzionalmente
in terre indigene per intimorire
un popolo inerme.

<b<LA CASERMA COME «CAVALLO DI TROIA»
I missionari, obbedienti al vangelo,
da decine di anni stanno vicini a
tutto il popolo brasiliano, impegnato
seriamente a consolidare le strutture
nazionali e progredire sulla via
del benessere. Essi sono pure compagni
delle numerose etnie indigene
che vivono nel territorio dello stato
di Roraima, condividendo lo sforzo
per raggiungere un tenore di vita
degno, senza rinunciare alla loro
cultura e valori tradizionali.
A questo scopo, i missionari cercano
di infondere coraggio e speranza
per resistere contro chi tenta
di farli scomparire distruggendone
l’identità. Purtroppo anche a Uiramutàn
si sta mettendo in atto questa
strategia di eliminazione delle etnie
indigene. Chi conosce i retroscena,
non ha difficoltà a comprendere cosa
si nasconde dietro l’apparato militare
esterno.
Quello che si vuole ottenere non
è una conquista del territorio «manu
militare», perché è chiaro come
il sole che non ce n’è bisogno. Invece,
una caserma militare abitata da
60 giovani soldati, situata in mezzo
a villaggi indigeni, è proprio quello
che ci vuole perché le giovani donne
indie mettano al mondo un grande
numero di meticci, inquinando e
snervando la loro etnia.
Tale progetto già è in atto nella regione
della serra Surucucus, a ponente
di Roraima, con effetti disastrosi
per gli indios yanomami.
È questo progetto, sottinteso a
tanto apparato celebrativo, che naturalmente
rattrista. Il popolo indio
che ha voglia di crescere ed essere
autosufficiente e che porta in se tanti
valori morali, è forzato ad accettare
situazioni avvilenti e a veder corrosa
la propria identità e dignità per
obbedire a interessi nascosti sotto la
scusa della integrità territoriale nazionale.
L’indio Massaranduba, tuxaua emerito
di Uiramutàn, ora con 104
anni, nel giorno festivo della inaugurazione,
è stato premiato davanti
alla comunità che lo venera, con la
consegna di un simbolico «bastone
di comando».
Quando lo incontrai la prima volta,
nel suo villaggio, nel gennaio del
1976, mi si avvicinò, nella oscurità
della notte per dirmi triste, che un
bianco, venuto abusivamente da poco
a risiedere presso il loro villaggio,
proibiva, con minacce, tutta la comunità
indigena di allevare galline
ed ogni animale da cortile. L’arroganza
del bianco faceva soffrire lui
e la sua gente, e anche temere.
Ora, passati 25 anni, astutamente
manipolato con vane illusioni,
da persone interessate, Massaranduba
accetta non solo un fazendeiro
che impone ordini nel suo piccolo
villaggio, ma addirittura una
caserma di militari. Quegli stessi
militari, che consegnandogli il bastone
del comando, invece di onorarlo,
in realtà gli hanno tolto, senza
che l’anziano capo se ne accorgesse,
tutta l’autorità e il
potere che la legge indigena
gli conferisce.

(*) Mons. Aldo Mongiano è stato
vescovo di Roraima dal 1975 al
1996.

Sul problema dell’insediamento
militare, nel luglio 2001 «MISSIONI
CONSOLATA» aveva lanciato una
campagna dal titolo «Ma la caserma
no!». Tutto è stato inutile, come ben
si comprende dall’articolo. Oggi si
riparte con una campagna di più
ampio respiro, perché abbraccia
una pluralità di tematiche.

VOGLIAMO VIVERE!
Da troppo tempo i popoli indigeni dello stato brasiliano di Roraima soffrono continue aggressioni fisiche, psicologiche e culturali.
Latifondisti, risicoltori, cercatori d’oro, imprese del legname e minerarie, nazionali e multinazionali, occupano le loro terre causando la
distruzione dell’ambiente naturale e minacciandone la sopravvivenza. Un’intera classe politica pratica varie forme di razzismo e
discriminazione e semina l’odio all’interno dei gruppi indigeni, mettendo comunità contro comunità, provocandone così la disgregazione
socio-culturale. Inoltre, continua ad incentivare, verso una foresta inadatta all’agricoltura, la migrazione di coloni dalle zone più povere del
Paese, creando masse di diseredati che si riversano nelle periferie dei centri urbani o premono sulle terre indigene. Infine, i militari si
oppongono alla demarcazione delle aree indigene creando disagi e conflitti in tali aree.
Per porre fine a questa lunga serie di violenze, i popoli di Roraima hanno rivolto alle organizzazioni della società civile nazionale e
internazionale una richiesta di appoggio nella lotta che essi conducono per il riconoscimento dei loro diritti fondamentali, come popoli
indigeni e come esseri umani.
Preso atto della gravità della situazione, nonché dell’appello del Consiglio Indigeno e della Diocesi di Roraima, chiediamo:
Al Goveo brasiliano:
– L’approvazione dello “Statuto dei Popoli Indigeni”, tenendo conto dei suggerimenti proposti da questi ultimi nell’aprile 2001,
– la demarcazione immediata in area continua delle terre indigene prevista dalla Costituzione vigente, il mantenimento dei limiti di
quelle già demarcate e l’omologazione dell’Area Raposa/Serra do Sol,
– di regolamentare la presenza militare nelle terre indigene di frontiera,
– di fermare il disboscamento, l’inquinamento, lo sfruttamento minerario e agricolo e l’allevamento, in atto o programmato, sulle terre
indigene
– di non incoraggiare con false speranze l’afflusso di coloni verso le terre di Roraima.
Al Parlamento europeo:
– di controllare l’utilizzo dei fondi inteazionali ed europei destinati all’Amazzonia brasiliana e, in particolare, allo stato di Roraima,
affinché essi siano usati prioritariamente per la tutela dei diritti dei popoli indigeni,

– di farsi interprete delle suddette richieste davanti al governo e al parlamento brasiliano.
Alle organizzazioni della società civile brasiliana e internazionale:

– di sottoscrivere questo appello ed aderire alla campagna in tutte le forme possibili.

Coordinamento italiano della Campagna Internazionale“VOGLIAMO VIVERE!”
in difesa della foresta amazzonica e della vita dei suoi abitanti.
e-mail: indiosroraimabrasile@libero.it

Aldo Mongiano




Argentina. ll mercato dove il denaro non conta

Non c’è lavoro, non ci sono soldi: che fare per vivere? Si torna ad un’economia di baratto dove le persone si scambiano beni e servizi senza utilizzare denaro. Il primo «club del trueque» dell’Argentina cominciò a funzionare nel maggio del 1995. Oggi ce ne sono migliaia, diffusi in tutto il paese. Per capire come questo sistema funziona, abbiamo visitato il club che si trova a «La Boca», noto quartiere di Buenos Aires. Tra un banchetto di vestiti e uno di torte, ecco ciò che la gente ci ha raccontato.

Buenos Aires. La tipica forma della «bombonera», lo stadio del Boca Juniors (la squadra che lanciò Maradona), si nota anche a distanza. «Attenti a dove andate – ci mette in guardia il taxista -. Oggi c’è la partita tra il Boca e il San Lorenzo!». Le tifoserie delle due squadre non si amano e per questo spesso avvengono incidenti. Ci troviamo a «La Boca», un quartiere popolare (e turistico) cresciuto dove il Riachuelo confluisce nel Rio de la Plata. Siamo qui non per andare allo stadio o al porto, ma ad un «club del trueque» (nodo), vale a dire un mercato con una caratteristica molto particolare: non prevede l’utilizzo del denaro.

Tutti in fila

In via Olavarria la fila arriva fino all’angolo. La gente attende con pazienza di entrare al numero 486, la scuola salesiana che ogni domenica ospita il trueque.

In attesa ci sono soprattutto donne, quasi tutte cariche di borse e pacchetti. Come Ilda, che viene dal vicino quartiere di Barracas ed è accompagnata da uno dei 4 figli e dal marito: «Oggi porto vestiti, ma in altre occasioni cibo. In questo momento di crisi ognuno si arrangia come può per sopravvivere». Ilda, lei parla di sopravvivenza… «Certo. Se una persona è occupata, il trueque è un aiuto importante, ma per chi non ha lavoro (e sono sempre di più) è una vera ancora di salvezza. Qui è possibile procurarsi da mangiare e molte delle cose di cui una famiglia ha bisogno». In realtà, in America Latina il trueque è sempre esistito tra i contadini e le comunità aborigene. Però, a partire dagli anni Novanta, arrivò anche nelle città, afflitte da disoccupazione e mancanza di denaro. La gente, accomunata dalle difficoltà, iniziò ad incontrarsi per scambiarsi prodotti e servizi. In Argentina, il primo club nacque a Beal, nella provincia di Buenos Aires, il 1° maggio 1995 per iniziativa di un gruppo ecologista.

«Tutti i giorni c’è una coda così?» domandiamo ad una signora che ci precede nella fila.

– Sì, la domenica è sempre così. Questo è uno dei nodi principali.

– E quanti nodi ci sono in città?

– Moltissimi, ma non saprei dire quanti esattamente. Ormai sono diffusi in tutto il paese.

– Lei che cosa fa?

– Anch’io porto vestiti. Si porta ciò di cui una persona dispone in quel momento.

– Vuole prendere qualcosa oggi?

– Vorrei portare a casa qualcosa da mangiare: pane, verdura, quello che c’è.

Le persone in fila maneggiano strani assegni, sul tipo di quelli che si usano nel gioco del monopoli. Si chiamano «ticket trueque» e la loro unità di misura sono i «crediti». Viviana ci spiega: «Ho cominciato a vendere perché non avevo un credito. Adesso posso anche comperare. Ma non le cose care!».

«Questo posto ha un responsabile?» chiediamo. «Sì, sì. È quello lì all’entrata».

Le torte dei disoccupati

Quando finalmente raggiungiamo l’entrata, siamo accolti da un signore con capelli nerissimi e baffi. «Horacio Cavalieri, coordinador» si legge sul cartellino appiccicato alla maglia. «Stiamo diventando famosi – ci dice aprendosi in un ampio sorriso -. Oggi c’è anche una troupe televisiva francese a fare delle riprese nel nostro mercato». «Il trueque è una risposta concreta alle esigenze della gente. Siamo il contrario del governo, che non dà risposte al bisogno di lavorare. Noi, invece, siamo generatori di lavoro. Il principio di base è l’aiuto reciproco. Migliaia di argentini oggi stanno vivendo soltanto grazie alla rete dei club di trueque». La signora Maria Cristina Marabelli è un’altra coordinatrice del nodo de La Boca.

«Come funziona un mercato senza denaro? Significa che ognuno si arrangia con quello che sa fare. Tutti noi abbiamo qualcosa di speciale. Tutti noi, in un periodo di crisi, abbiamo interesse ad aiutarci reciprocamente per creare un sistema autosufficiente. C’è chi viene al trueque per offrire i propri prodotti agricoli, chi il cibo cucinato a casa, chi le proprie prestazioni di estetista o parrucchiera, chi le proprie abilità di sarta. Ma non mancano neppure i professionisti più accreditati: medici, dentisti, psicologi». Lasciamo i coordinatori per aggirarci un po’ tra le decine di banchetti, raggruppati all’interno di un grande capannone e nei cortili esterni della scuola salesiana. C’è tantissima gente, che vende di tutto: dai vestiti ai giocattoli, dalle torte alle empanadas.

La nostra curiosità non passa inosservata. Siamo avvicinati da una signora di bassa statura e corporatura piuttosto robusta, che ha voglia di parlare.

– Da dove viene, signora?

– Dalla Sicilia. Mi chiamo Giuseppina Coppola. Arrivai a Buenos Aires nel 1951.

– Allora, signora Giuseppina, provi a spiegarci questo strano mercato…

– Potrà apparire strano, ma è necessario. Questa crisi dell’Argentina ci ha riportato indietro nel tempo: a scambiare le cose. Avete già visto che qui dentro si può trovare di tutto.

– Come si regola nelle compravendite?

– Ogni biglietto vale 0,50 di peso. Uno calcola più o meno quanto può ottenere dando una cosa e poi torna a casa con dei crediti che utilizzerà per avere altre cose. Oggi sono qui per comprare, ma di solito vendo. Vendo un po’ di tutto, ma soprattutto vestiti, perché mia figlia aveva una boutique. Ha dovuto chiudere perché non bastavano i soldi per la luce, l’affitto e tutte le spese. È rimasta molta merce che cerco di vendere, anche se in questo nodo va di più il mangiare. Per questo a volte faccio delle pizze.

– Il coordinatore ha detto che ci sono anche professionisti qui.

– Sì, ce ne sono, ma qui non molti, a parte estetiste e parrucchiere. Io vado in club dove ci sono anche cardiologi, dentisti, oculisti. Ogni giorno della settimana c’è un posto dove si può andare.

– Questo è un sistema per cercare di vivere normalmente?

– È un sistema per sopravvivere alla crisi. Una persona disoccupata non è obbligata a spendere soldi. Si arrangia in questo modo vendendo qualcosa che ha in casa. Prende i crediti e usa quelli per comprare, soprattutto cibo. Quello che compra la gente è soprattutto mangiare.

– Che gente frequenta il trueque?

– C’è gente della classe bassa, ma anche di quella media. Ci sono sempre più persone che non hanno nulla da fare e nulla da mangiare.

– Lei ha famiglia, signora?

– Sì, ho un marito e tre figli.

– Loro cosa dicono?

– Di non fare fatica. Ma a volte non riescono a capire che anch’io ho delle esigenze. Ho un figlio in Canada e qui una ragazza e un ragazzo che sono sposati e lavorano. Ma non mi aiutano perché non possono. La situazione è pessima per tutti. Non per poche famiglie dei ceti bassi. Oggi è così per tutti gli argentini.

NUMERI IMPRESSIONANTI

Il trueque non significa soltanto vestiti, cibo, servizi alla persona. Oggi il fenomeno ha assunto dimensioni tali (4.500 club di trueque, 2,5 milioni di partecipanti, 50 milioni di ticket trueque in circolazione) che con i crediti attribuiti dai ticket si possono comprare terreni, costruire case, affittare appartamenti, andare in vacanza e persino pagare le imposte municipali.

Horacio Cavalieri gonfia il petto per l’orgoglio quando spiega: «Siamo ormai la terza moneta del paese e i crediti vengono accettati anche in altri paesi latinoamericani (ad esempio, in Brasile, Cile, Paraguay) dove funzionano club a noi associati». Ci rivolgiamo al giovane che ci sta accanto e che ascoltava con attenzione la nostra conversazione.

«Crediamo profondamente in un’idea di progresso come conseguenza del benessere sostenibile del maggior numero di persone» (princìpi del trueque).

«A me piace molto – ci spiega – la gente che c’è al trueque, perché si dà da fare e non si chiude in casa ad aspettare che le cose cadano dall’alto. Però sono molto preoccupato per la situazione del paese, perché è ovvio che non si può andare avanti in queste condizioni per tanto tempo». «L’Argentina – continua il giovane – è un paese ricco in tutto. Molto più ricco dell’Italia per esempio. Abbiamo grano e petrolio. Sulla nostra terra basta buttare sementi e le piante crescono rigogliose È un delitto trovarci nella situazione in cui siamo ora». Grazie ai politici?, chiediamo. «Sì, grazie ai politici, ma questo ci ha fatto prendere coscienza di quello che dobbiamo fare. Ora sappiamo chi votare e chi no, guardando non alla bella faccia, ma ai progetti che queste persone hanno in testa». Un tifoso del Boca sta offrendo le maglie della sua squadra. Tutte le domeniche siete qui?, chiediamo. «Sì, noi siamo qui tutte le domeniche, mentre durante la settimana andiamo in altri trueque di Buenos Aires e provincia».

«Assaggi questa empanada…»

Ci avviciniamo a un banco di cibarie, molto attraenti…

– Cosa vende, signora?

– Torte, empanadas e tutti i cibi che la gente mi commissiona.

– Mi stava spiegando che la situazione economica è pessima?

– Diciamo che, dal punto di vista economico, siamo schiacciati. Non c’è lavoro e la mancanza di lavoro permette che accadano certe cose, no? Se una persona ha famiglia, in qualche modo deve sopravvivere. E una forma di sopravvivenza è quella del trueque: fare alcune cose che si sanno fare e scambiarle con altre di cui si ha bisogno. È anche un modo per tenersi occupati, per non chiudersi in casa a dormire.

– Lei lavora qui alla domenica. Negli altri giorni cosa fa?

– Siccome non c’è denaro, devo fare altre attività. Vado in altri club a fare quello che faccio qui.

– Lei crede in questo sistema?

«Crediamo che le nostre azioni, prodotti e servizi possano rispondere a norme etiche ed ecologiche, prima che ai dettati del mercato, del consumismo e del profitto immediato» (princìpi del trueque).

– Sì, ovviamente. Questa è una buona soluzione, ma non può essere definitiva. Speriamo soprattutto che ci sia una ripresa del mercato del lavoro, perché ognuno possa guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte.

«Ho paura, perché se continuiamo su questa strada non c’è futuro. Cosa diranno gli argentini ai loro bambini? Io ho tre figli e tre nipoti. Ho sempre lavorato, anche quando studiavo giornalismo. Ora mi trovo qui a un banchetto a vendere torte. Ma non mi arrendo e non mi vergogno, nonostante i miei studi. Devo fare questo per sopravvivere. Però ora basta parlare dei nostri disastri. Noi argentini siamo già abbastanza depressi. Assaggi questa empanada piuttosto…».

(Fine 4.a puntata – le precedenti sono state pubblicate in maggio, giugno e luglio)

  • Trueque: oggi possiamo considerarlo come una forma evoluta di baratto, ma la sua origine è antica; il termine «trueque» deriva dal verbo «trocar» che significa «scambiare, permutare, barattare»
  • Prosumidores: sono le persone che scambiano beni e servizi all’interno del sistema del trueque
  • Créditos: rappresentano l’unità di misura dei «ticket trueque», cioè dei buoni simil-monetari emessi dal trueque; i ticket funzionano come strumento compensatore e sono anche chiamati «moneta sociale»
  • Coordinador: è un membro del club che apre la sede e ne facilita il funzionamento
  • Clubes de trueque: sono i luoghi fisici (detti «nodi») della rete del trueque, dove le persone («prosumidores ») si scambiano beni e servizi
  • principios del club de trueque: sono i fondamenti etici su cui deve basarsi ogni club

www.revistargt.org: è il sito ufficiale della rete globale del trueque

IN ATTESA DI MARZO 2003 (e di Carlos Menem?)

12-21 GIUGNO: L’FMI SI DICE DELUSO Una delegazione del «Fondo monetario internazionale » (Fmi) fa visita al governo argentino, per cercare un accordo sugli aiuti finanziari, congelati dal dicembre 2001. La discussione non approda a risultati positivi. Il direttore generale dell’Fmi, Horst Köhler, si dichiara deluso dall’Argentina.

26 GIUGNO: SCONTRI E MORTI Una protesta dei piqueteros si trasforma in tragedia. La polizia attacca i dimostranti sul ponte di Pueyrredón, nei pressi del quartiere di Avellaneda, nella periferia sud di Buenos Aires. Due piqueteros (Dario Santillán e Maximiliano Costeki) rimangono uccisi, altri 90 feriti, 173 vengono arrestati.

2 LUGLIO: INDETTE ELEZIONI ANTICIPATE Con un breve discorso pronunciato alla radio e in televisione il presidente Eduardo Duhalde annuncia le elezioni generali per il marzo 2003, sei mesi prima della naturale scadenza della legislatura.

3 LUGLIO: DI NUOVO MENEM?  In un’intervista al Clarin, l’ex presidente Carlos Menem confessa l’intenzione di presentarsi come candidato alle prossime elezioni presidenziali. A dicembre, nelle primarie intee del partito giustizialista (i peronisti), dovrebbe battersi con l’attuale presidente Eduardo Duhalde.

4-5 LUGLIO: TRA MERCOSUR ED ALCA A Buenos Aires si incontrano i paesi appartenenti al Mercosur («Mercato comune del sud»): Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, con la presenza anche di Bolivia, Cile e Messico. Si cerca (inutilmente) una strategia comune per affrontare la crisi economica e finanziaria. L’influenza del Mercosur, già debole, è destinata ad annullarsi, qualora dovesse andare in porto la nascita dell’Alca («Area di libero scambio delle Americhe»), fortemente voluta dagli Stati Uniti.

9 LUGLIO: «L’ARGENTINA AL LIMITE DEL TRACOLLO» In occasione dell’anniversario dell’indipendenza, il presidente Duhalde tiene a Tucumán un discorso incentrato sull’orgoglio nazionale: «L’Argentina è in pericolo e al limite di un tracollo epico, mai conosciuto prima. Gli argentini sono passati dal sogno all’incubo: il Primo mondo, al quale erano sicuri di appartenere, li sta espellendo. Soltanto uniti possiamo tornare ad essere una nazione libera e sovrana. Soltanto uniti possiamo affrontare la favolosa epopea della ricostruzione della patria». 11 LUGLIO: SEMPRE MENO LAVORO I dati di Indec (riferiti a maggio 2002) parlano di un ulteriore peggioramento della situazione economica: 3,2 milioni di argentini sono disoccupati, 3,05 milioni sottoccupati, cioè il 45% della popolazione attiva del paese ha problemi di lavoro.

11 LUGLIO: LE «BASI PER LA RIFORMA» La «tavola del dialogo» (organo consultivo tra chiesa cattolica e governo) presenta il documento «Basi per la riforma». Con esso si chiedono soluzioni profonde e a lungo termine per costruire una società più equa, che risolva l’emergenza sociale. Per arrivare a questo è necessario realizzare, in contemporanea con le presidenziali del marzo 2003, anche un rinnovamento di tutti gli incarichi elettivi, nazionali, provinciali e municipali (*).

(*) La cronologia storica dell’Argentina è stata pubblicata su MC nella puntata di maggio 2002.

 

CONTAGIO SÌ, CONTAGIO NO, CONTAGIO FORSE

Il timore c’è tutto. Brasile, Uruguay, Cile guardano con crescente preoccupazione alla crisi argentina, mentre altri paesi latinoamericani (Paraguay, Bolivia, Ecuador, Perù, Venezuela) sono già al collasso per proprio conto.

In Brasile, il paese economicamente più importante, la situazione è grave, ma drogata dalle imminenti elezioni presidenziali. Le agenzie di rating internazionale (quelle che valutano quanto sia conveniente investire) hanno alzato il «rischio paese», anche in considerazione di un’eventuale vittoria di Lula, leader del «Partito dei lavoratori» (Pt), che a loro dire non darebbe garanzie sul debito estero. Ancora più esplicito è stato il megaspeculatore statunitense George Soros, secondo il quale, se il Brasile vuole evitare il caos, sarà obbligato ad eleggere José Serra, il candidato scelto dagli Stati Uniti e dal mercato finanziario (1).

Detto per inciso, varrebbe la pena di chiedersi: perché le agenzie di rating si esprimono con grande rapidità e severità quando si tratta di giudicare persone o istituzioni a loro non graditi, ma tacciono quando si tratta di valutare il comportamento di grandi gruppi multinazionali? (2)  In questa ennesima crisi del sistema neoliberista ancora una volta risulta fondamentale il doppio ruolo ricoperto dal Fondo monetario internazionale (Fmi): da un lato primo artefice del collasso, dall’altro potenziale (e presunto) salvatore.

L’esempio argentino è molto istruttivo al riguardo. Durante il decennio di Carlos Menem (che, tra l’altro, pare voglia ripresentare la propria candidatura), l’Fmi considerava l’Argentina uno degli allievi più bravi, soprattutto perché obbediva in pieno alle proprie direttive (le privatizzazioni in primis) (3). Poi quello studente tanto elogiato è entrato in coma e al suo capezzale si è presentato, come niente fosse, lo stesso carnefice…

(1) Sulle gravi irregolarità della campagna elettorale brasiliana si veda il quindicinale «Adista» dell’8 luglio 2002.

(2) Si pensi ai recenti scandali planetari che hanno avuto come protagoniste due (ma molte altre sono sospette) grandi multinazionali statunitensi, la Enron (energia) e la WordlCom (telefonia). I più penalizzati dagli imbrogli contabili sono stati i dipendenti delle compagnie e i piccoli investitori di borsa.

(3) Le privatizzazioni volute dall’Fmi hanno creato molti problemi anche in Perù, dove il presidente Toledo, lo scorso giugno, ha dovuto sospendere la vendita di due imprese elettriche pubbliche in seguito alla violenta opposizione della popolazione.

 

CHE NON PREVALGA LA «VIVEZA CRIOLLA» (ovvero barattare sì, barare no!)

La parrocchia «Nuestra Señora de Pompeya» (Merlo) è una delle prime fondate e rette dai missionari della Consolata nel Gran Buenos Aires. Conta circa 60 mila abitanti. Riassume tutta la realtà di disoccupazione, impoverimento, violenza e… ricerca di modi per far fronte alla situazione disastrosa abbattutasi recentemente sull’Argentina. Per quanto riguarda il «trueque», in due dei quattro centri pastorali la parrocchia ha dato spazio a questo strumento di sopravvivenza nell’emergenza. Peraltro, nell’accettare la richiesta da parte dei coordinatori di poter funzionare all’interno delle nostre strutture, abbiamo sentito il bisogno di chiarire con loro, sin dall’inizio, l’impegno all’onestà, affinché il trueque, basato fondamentalmente sulla solidarietà, non fosse svilito dalla tentazione di approfittarsene, considerando soprattutto il contesto di povertà generalizzata. Purtroppo la stessa situazione di povertà e miseria crescenti, a volte, inducono al «si salvi chi può e in qualsiasi modo», magari anche imbrogliandosi fra poveri. E poi c’è anche l’altro comportamento nazionale, denominato «viveza criolla», cioè la furbizia malintenzionata che, in relazione all’attuale grave crisi nazionale, ne è una delle con-cause. Questo pericolo può diventare molto concreto nel momento in cui i politici (come, ad esempio, stanno già facendo alcuni sindaci) si impossessano dell’idea e finiscono per svuotarla del contenuto e creare «trueques truchos» (truccati, falsati).

Abbiamo tradotto «trueque» con baratto, barattare: viene allora spontaneo ricordare: «Attenti a non barare». Inoltre, giocando con le parole, se al termine italiano baratto togliamo una «t», abbiamo «barato», che in castigliano vuol dire economico, cioè non caro. Ecco, è importante che nel baratto tutto sia «más barato», più a buon mercato, perché sia veramente conveniente. Dato che riceviamo lamentele dei partecipanti al trueque circa i prezzi di alcuni articoli quasi più cari di quelli che si trovano nei negozi di quartiere, sentiamo il dovere di farlo presente ai coordinatori. Nell’articolo principale si accenna al baratto come forma abituale di sussistenza delle comunità indigene. Gli indios tobas della Colonia Aborigen (con cui ho lavorato per anni) sono soliti portare in paese, a Machagai, nostra ex parrocchia, i loro prodotti, ma lo scambio non si svolge quasi mai in parità di condizioni: consegnando un bel carico di zucche, pompelmi, manioca o altri prodotti, gli indigeni si ritrovano poi con un pezzetto di carne o un po’ di zucchero o yerba mate. I forti e i furbi l’hanno sempre vinta.

padre Giuseppe Auletta, da Merlo (Buenos Aires)

 

Paolo Moiola

 

 




Viaggio in Togo: paese del vodoun

Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.
Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.

Storia di un dittatore «dinosauro»
L’INNOMINATO
Da secoli il Togo vive nel limbo della storia (vedi
scheda). Pochi saprebbero indicarne la posizione
geografica; meno ancora ne conoscono la
situazione della gente, violentata da una
dittatura che dura da 35 anni, senza sapere come
e quando potrà liberarsene

I pannelli con la sua faccia ossessionano
il paese; spille e distintivi
con la sua immagine sono
su tutti i petti d’impiegati governativi;
nugoli di donne lo accolgono
danzando ogni volta che visita un
villaggio; la sera, la televisione racconta
come ha speso la giornata…
Parlando con la gente, però, il suo
nome non lo sento pronunciare mai.
Anche i più coraggiosi usano i pronomi:
lui, costui, quello lì, quello là.
I sostenitori lo chiamano: timoniere,
padre della nazione, salvatore
della patria; i più prudenti: vecchio,
dinosauro; gli avversari gridano: assassino,
bufalo, elefante, lupo mannaro,
demonio di Pya, suo paese natale,
nel nord del Togo.
«Lui» è Gnassingbé Eyadéma, da 35
anni presidente del Togo, il più longevo
dittatore di tutti i paesi dell’Africa
post-coloniale. E resterà ancora
a lungo sulla scena, secondo diplomatici
e analisti politici.

NAZIONE ALLO SFASCIO
«Radio e televisione presentano la
situazione del paese come la migliore
che possa esistere – afferma un
missionario, che per prudenza non
nominiamo -; “lui” rassicura che tutto
va bene. Ma la realtà è differente:
la povertà impera; manca il lavoro e
la gente sopravvive col piccolo commercio;
la terra disponibile è ancora
molta, ma rende poco, per arretratezza,
siccità o troppe piogge; maestri
e funzionari statali hanno stipendi
da fame, arretrati fino a 5-6
mesi e non tutti retribuiti».
In tali condizioni, non ci si può
aspettare che gli insegnanti siano
motivati e le scuole funzionino: quelle
elementari sono in tutti i villaggi,
ma il tasso di analfabetismo è al
50%, tra le donne soprattutto.
Il rendimento scolastico è in caduta
libera. Nelle superiori i programmi
non sono svolti per intero e, all’esame
di maturità, la percentuale dei
promossi non supera il 10%; in alcuni
licei il tasso è zero. I giovani ripetono
per più anni, finendo d’iscriversi
all’università a 30 anni. Molti abbandonano
gli studi e cercano di
scappare in Europa o America, perché
il paese non garantisce un avvenire
alla sua gioventù.
Il paese è ricco di fosfati; ha industrie
di cemento; produce cotone,
caffè, cacao; ma nessuno sa dove vadano
a finire i proventi di tali risorse,
poiché ormai tutto è privatizzato.
«È stato privatizzato anche l’acquedotto
– aggiunge il missionario -.
L’acqua potabile si paga; chi non può
permettersela attinge ai fiumi, con
deleterie conseguenze per la salute».
La gente non protesta?
«Resistenze e proteste sono frequenti
e nella legalità – continua il
missionario -. Uno sciopero generale,
protratto per molti giorni, ha paralizzato
il paese. Lomé, per esempio
sembrava una città fantasma: tutto
era chiuso e nessuno per strada. Per
ora il popolo è vincente, perché ha
grande forza di sopportazione; sa che
la violenza genera violenza. La pazienza
della gente rasenta il fatalismo;
vorremmo che avesse più iniziativa
e, da parte nostra, bisognerebbe
impegnarsi di più nell’opera di
coscientizzazione: non si può parlare
molto, altrimenti quello là…».

IL COLONNELLO
Di etnia kabyé, nato nel 1935, dopo
un breve curricolo scolastico
Etienne Eyadéma diventò sotto ufficiale
dell’esercito francese e militò
per 12 anni sotto tale bandiera in
Dahomey (attuale Benin), Algeria,
Niger e Indocina. L’esperienza militare
ha supplito alla mancanza di formazione
scolastica, facendo di lui un
grande lavoratore, che si corica a
mezzanotte e si alza alle 4 del mattino.
I vicini lo dipingono affabile, disponibile
all’ascolto, grande intrattenitore
che racconta fatterelli. Tutte
doti abilmente sfruttate per farsi
una buona reputazione all’estero e
interporsi come uomo di mediazione
in vari conflitti africani: Biafra,
Ciad, Niger e Congo (Zaire).
Scampato a vari incidenti e attentati,
veri o presunti, si è costruito
un’aureola d’immortalità
e la gente lo crede dotato di
poteri occulti. A tali credenti
egli dice che, a dargli
forza, c’è un «solo marabutto:
il caro popolo
togolese».
Eyadéma militava
ancora nell’esercito francese il 27
aprile del 1960, quando il Togo, terzo
paese a sud del Sahara, dopo
Ghana (1957) e Camerun (gennaio
1960), raggiunse la piena sovranità.
Artefice dell’indipendenza fu
Sylvanus Olympio, di etnia ewé del
sud, nazionalista moderato, vero
creatore del Togo moderno.
Il presidente, però, sottovalutò
le tensioni tra nord
e sud del paese: le popolazioni settentrionali, da lui definite
petits nordiques, si sentirono trascurate.
E quando, nel 1963, rifiutò d’integrare
nell’esercito nazionale 600
soldati, quasi tutti kabyé del nord, reduci
dal servizio sotto la bandiera
francese, il colonnello Eyadéma ne
approfittò per fare un golpe militare:
Olympio fu freddato mentre cercava
di rifugiarsi nell’ambasciata americana.
Eyadéma rivendica ancora a sé tale
assassinio, anche se altri dicono
che sia stato un soldato francese a
sparare al presidente.
Eyadéma fu il primo a innescare la
danza macabra di colpi di stato militari
che, in breve tempo, avrebbero
consegnato tanti paesi africani a dittatori
senza scrupoli come lui.
Promosso generale dell’esercito,
nel 1967 Eyadéma capeggiò un altro
colpo di stato, incruento, e si autoproclamò
capo dello stato.

IL DITTATORE
In due anni Eyadéma instaurò un
regime autoritario: fece confluire i
movimenti operai in un’unica federazione
sindacale; abolì i partiti politici
e fondò il suo: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
Nei paesi confinanti erano in corso
rivoluzioni marxiste (Ghana, Burkina
Faso e Benin); ma egli rimase legato
all’Occidente, pur senza rompere con
la Corea del Nord. E ne fu largamente
ricompensato con aiuti militari dai
francesi e benevolenza da Washington
e vari governi europei, che chiusero
gli occhi sui suoi eccessi.
Ciò non gli impedì qualche sterzata
nazionalista: nel 1972-76 nazionalizzò
la produzione ed esportazione
dei fosfati. Emulando l’amico Mobutu,
dittatore dello Zaire, si erse a
paladino dell’«autenticità»: ordinò ai
togolesi di rimpiazzare i nomi europei
con quelli africani e lui stesso
cambiò Etienne in Gnassingbé; costruì
uno dei più pervasivi culti della
personalità, circondandosi di uno
stuolo di leccapiedi e di donne festanti
in abiti tradizionali.
Nel 1974 uscì indenne da un incidente
aereo, da lui pubblicamente
attribuito a un complotto di «imperialisti
» stranieri, e diventò più irrazionale
e imprevedibile.
Per una decina d’anni (1970-80)
l’incremento del turismo e l’aumento
del prezzo dei fosfati fecero esplodere
un boom economico che meritò al
Togo l’appellativo di «Svizzera africana
». Eyadéma cavalcò il miracolo
per varare una nuova costituzione
(1979) che sanciva il presidenzialismo
e, manco a dirlo, fu eletto presidente
per sette anni.
La pacchia finì nel 1981: il prezzo
dei fosfati si dimezzò e la recessione
economica mondiale ridusse drasticamente
il turismo europeo; il deficit
della bilancia dei pagamenti fece
schizzare il debito estero a un miliardo
di dollari.
Per avere altri prestiti, Eyadéma dovette
adottare le misure imposte dagli
organismi finanziari mondiali:
congelare i salari, ridurre le spese statali,
aumentare le imposte fiscali, privatizzare
le aziende pubbliche e licenziare.
Il debito estero aumentava
e l’economia continuò a decadere.
Sindacati e movimenti di opposizione
alzarono la testa con scioperi
e pubbliche proteste. Ma alle elezioni
del 1986, il presidente fu rieletto
per altri sette anni col 99,95% dei
voti.
Di fronte al plebiscito fasullo, l’opposizione
scese di nuovo in piazza.
Nel settembre dello stesso anno un
gruppo di esuli in Ghana riuscì a entrare
nel palazzo presidenziale e in
un campo militare di Lomé. Ci furono
morti da ambo le parti; Eyadéma
stesso sparò parecchi colpi. Ma a salvarlo
furono 200 paracadutisti francesi,
prontamente inviati dal Gabon
e Centrafrica.
Il dittatore continuò a disfarsi degli
oppositori con ogni mezzo illecito,
finendo regolarmente sulla lista
nera di Amnesty Inteational.

SPERANZA STRANGOLATA
Finita la guerra fredda (1989), la
Francia cominciò a mollare Eyadéma
e fece pressione perché aprisse il paese
al multipartitismo, come stavano
facendo altre ex colonie francesi.
Per mettere in cattiva luce i sistemi
pluralisti, la televisione di stato
mostrava scioperi e violenze; ma ottenne
l’effetto contrario: all’inizio
del 1991 le forze favorevoli alla democrazia,
in maggioranza ewé e mina
del sud, iniziarono scioperi e tumulti,
repressi brutalmente: 28 corpi
furono ripescati nella laguna di
Lomé e scaricati sulla gradinata dell’ambasciata
americana.
Di fronte alle pressioni estee e
intee, Eyadéma dovette concedere
libertà di stampa, liberare i prigionieri
politici e convocare una Conferenza
nazionale sovrana (Cns), come
era avvenuto l’anno prima in Benin,
per decidere l’avvenire del paese.
Aperta nel giugno 1991 e presieduta
da mons. Philippe Kpodzro, vescovo
di Atapkamé, poi di Lomé, la
Cns spogliò il dittatore d’ogni potere,
formò un governo di transizione, guidato
da Kokou Koffigoh, già presidente
della Lega per i diritti umani, e
istituì l’Alto consiglio della repubblica
(Atr), massimo organo legislativo,
sempre presieduto dal vescovo.
Ma i militari disertarono subito
l’Assemblea: non ci stavano a perdere
i privilegi e sentirsi rinfacciare torture,
assassinii e carneficine. Quando
fu deciso lo scioglimento del partito
unico (Rpt), essi sequestrarono
e umiliarono i membri dell’Atr finché
non si rimangiarono il decreto; la
settimana seguente presero in ostaggio
il primo ministro, obbligandolo a
formare un governo d’unità nazionale,
cioè con uomini di Eyadéma.
Tattiche intimidatorie e mini colpi
di stato continuarono per tutto il
1992, costringendo Koffigoh a continui
rimpasti governativi, secondo
gli umori del dittatore. Diversi leaders
dell’opposizione subirono attentati,
tra cui Gilchrist Olympio, figlio
di Sylvanus e capo dell’Unione di forze
per il cambiamento (Ufc). Prontamente
ricoverato a Parigi, si salvò.
Più volte Koffigoh chiese alla Francia
di difendere la democrazia; ma
questa non mosse un dito, pur avendo
300 paracadutisti nel Benin, pronti
a evacuare i 3.500 connazionali
ancora in Togo.
In un anno Eyadéma riacquistò
quasi tutto il potere. Sindacati, organizzazioni
politiche e partiti d’opposizione
lanciarono uno sciopero
generale a oltranza, durato nove mesi:
la guardia presidenziale uccise un
centinaio di manifestanti; migliaia di
togolesi fuggirono in Ghana e Benin.
Eppure la Cns è stato un evento
storico: ha permesso alle forze democratiche
di emergere, guardarsi in
faccia; ha fatto il processo al regime,
costringendolo a gettare la maschera;
ha attirato sul paese l’attenzione
della comunità internazionale.
Inoltre la Cns ha varato la nuova costituzione
(1992), fissando la durata
del mandato presidenziale a cinque
anni, rinnovabile una sola volta:
un cavallo di Troia in mano alle forze
democratiche, che possono mobilitarsi
per esigee il rispetto.

FARSA CONTINUA
Ma le elezioni presidenziali del
1993, da tenersi secondo le regole
della nuova costituzione e sotto gli
occhi di osservatori africani e occidentali,
furono una farsa: il principale
oppositore, Gilchrist Olympio, fu
squalificato dalla competizione per
un cavillo burocratico; altri due candidati
si ritirarono. Gli osservatori tedeschi
e americani tornarono a casa;
restarono quelli francesi e del Burkina
Faso e avallarono le elezioni «democratiche
»: il dittatore fu eletto col
96,5% di suffragi; solo un terzo degli
aventi diritto si recò alle ue.
Le elezioni parlamentari del 1994
furono preparate da coprifuoco e sparatorie
giornaliere; ciò nonostante,
l’opposizione ottenne la maggioranza:
su 78 seggi, 34 andarono al Comitato
d’azione per il rinnovamento
(Car), guidato da Yao Abgoyibo, 6 all’Unione
democratica togolese (Udt)
di Edem Kodjo, 38 al partito di Eyadéma.
Ma il dittatore riuscì a dividere
l’opposizione: affidò a Kodjo la formazione
del governo con il suo partito
(Rpt) e il Car fu messo fuori gioco.
Di fronte alle frodi elettorali e violazioni
dei diritti umani, nel 1994 la
Comunità Europea, Stati Uniti e organismi
finanziari mondiali esclusero
il Togo da aiuti e prestiti. Eyadéma
cominciò a stringere rapporti col
Giappone, Arabia Saudita, Emirati
Arabi, Kuwait, Iran, Cuba…
Le elezioni presidenziali del 1998
si svolsero all’insegna «della legge
del terrore, in un clima d’impunità»
secondo Amnesty Inteational, che
portò davanti all’opinione mondiale
centinaia di uccisioni di oppositori e
testimoni. La rivelazione fece imbestialire
il dittatore, costretto ad accettare
una commissione d’inchiesta
internazionale.
La vittoria del dittatore arrivò con
la «frode sistematica», parole del Dipartimento
di stato americano: la
conta delle schede fu bloccata, quando
apparve chiaro che Eyadéma stava
perdendo; la commissione elettorale
fu costretta a dare i numeri: 52%
ad Eyadéma, 34% all’Udt, 9,5% al
Car: un altro plebiscito non era più
credibile.
Inutili furono le contestazioni, disperse
con pallottole e gas lacrimogeni.
Le elezioni parlamentari del
1999 furono boicottate da Car e Udt
e il partito di Eyadéma ottenne quasi
tutti i seggi: 78 su 81. Il governo
fu affidato ad Agbéyomé Kodjo, tuttora
in carica.

TOGO: STATO DI TERRORE»
Ora tutto sembra in pace, ma la povertà
aumenta di giorno in giorno. La
gente è stanca di protestare o, piuttosto,
è terrorizzata. L’opposizione è
imbavagliata: il suo leader principale,
Yao Abgoyibo, è appena uscito di
prigione; molti dirigenti di partiti sono
in esilio; altri cambiano ogni notte
domicilio; continuano la caccia ai
«democratici» e le sparizioni.
Per rientrare nelle grazie dell’Occidente
Eyadéma ha promesso di anticipare
le elezioni presidenziali al
2001: l’anno è passato e nessuno sa
dire se e quando si terranno. La scadenza
naturale è il 2003; si spera che
non si ricandidi: la Costituzione non
permette più di due mandati.
«Lo sanno tutti – afferma un oppositore
-. “Quello là” vuole restare al
potere fino alla morte e tenterà di farlo.
Vuole far credere al mondo che il
Togo è diventato democratico; ma
non è neppure uno stato a partito
unico: è un paese di un uomo solo, di
una famiglia sola. Con un esercito di
12 mila uomini ben pagati, per il 75%
kabyé, che lo riconoscono come unico
capo tribù e due figli in posizioni
chiave, addestrato in ogni tattica di
repressione da istruttori nordcoreani,
è difficile immaginare un rapido e pacifico
cambiamento».
«Più impensabile sarebbe una rivoluzione
– spiega un missionario -.
Il partito del presidente, che continua
a essere unico, è sempre in campagna
elettorale, con menzogne e
insulti all’opposizione e marce di sostegno
al dittatore. Gli stati confinanti
non hanno interesse a destabilizzare
il paese: Benin e Burkina
Faso sono governati da militari puri;
il Ghana è democratico, ma il suo
presidente è stato appena eletto e
accetta il Togo così com’è. Dell’opinione
internazionale il regime se ne
infischia, vomitando insulti da mattino
a sera, specialmente contro Amnesty
Inteational: si è permessa di
dire che “il Togo è uno stato di terrore“,
che esercito e polizia sono la
vera minaccia per la popolazione».
«Anche in Occidente ci sono troppe
forze interessate a lasciare le cose
come sono – aggiunge un altro
missionario -. Il giorno in cui perdesse
il potere, Eyadéma sarebbe messo
sotto accusa, trascinando sul banco
degli imputati potenze e governi stranieri
che lo hanno sostenuto».
Intanto a chi gli domanda se presenterà
per la terza volta la sua candidatura,
Eyadéma risponde che «rispetterà
scrupolosamente la Costituzione
». Ma quale? Il primo ministro
Kodjo getta pietre nello stagno, ventilando
la possibilità di cambiarla, per
dare al suo padrone altri cinque anni
di potere, e il parlamento ha tutti i
numeri per farlo.
Tale cambiamento, tuttavia, sarebbe
una sfida alla Comunità Europea,
che condiziona i suoi aiuti alla ripresa
della democrazia nel paese. Un altro
mandato presidenziale «si tradurrebbe
in un suicidio nazionale – afferma
l’americano Chris Fomunyoh,
direttore degli Affari africani presso
l’Istituto democratico nazionale – e
sarebbe terribile per la regione, per il
Togo e per il continente».

Superficie: 56.785 kmq.
Popolazione: 5,1 milioni di abitanti; è composta da 37 gruppi
etnici; i predominanti sono ewé-mina44%, kabyé27%,
gurma16%, tem4%, kebu3,8%, ana( yoruba) 3,2%, bianchi
0,3%. I brasileños(ex schiavi tornati dal Brasile) costituiscono
una «casta» molto influente sul piano economico e politico.
Lingua: francese (ufficiale) e vari idiomi etnici.
Istruzione: alfabeti 51%; maschi 67%; femmine 35%.
Religione: culti tradizionali 50%; cattolici 24%, musulmani
15%, protestanti 7%.
Capitale: Lomé.
Partiti politici: Raggruppamento del popolo togolese (Rpt), partito
unico fino al 1991; Unione democratica togolese (Udt); Comitato
d’azione per il rinnovamento (Car).
Forma di governo: repubblica presidenziale; presidente è Gnassingbé
Eyadéma dal 1967; primo ministro Koffi Sama dal 27-
6-2002, dopo la rimozione di Agbéyomé.
Moneta: franco C.F.A. (1 euro = 640 C.F.A.).
Debito estero: 1.448 milioni di dollari.
Crescita annua Pil: -1% (1998).
Economia: agricoltura con la produzione per il fabbisogno locale
(mais, miglio, riso, manioca, fagioli, arachidi e frutta) e
per l’esportazione (cotone, cacao, caffè, palma oleifera, cocco).
Minerali: fosfati, di cui il Togo è tra i primi paesi produttori
ed esportatori del mondo. Industrie chimiche, petrolchimiche,
tessili, alimentari e cemento.

Scheda storica politica e religiosa
12°-16° sec.: varie etnie si stabiliscono nell’attuale Togo: kabyéa
nord; ewé, mina, guinlungo le coste.
1470: navigatori portoghesi esplorano le coste dell’Africa occidentale
e iniziano il commercio dell’oro e prodotti esotici.
1482: costruzione del forte a La Mina (Elmina, Ghana).
16°-18° sec.: compagnie commerciali inglesi, olandesi, francesi
e danesi cacciano i portoghesi e monopolizzano il commercio degli
schiavi: Togo e Dahomey prendono il nome di «Costa degli
Schiavi».
1737-1771: la Società dei fratelli moravi (Giacomo Protte) opera
in Costa d’Oro e Togo.
19° sec.: abolizione dello schiavismo: famiglie di afro-brasiliani ritornano
in Togo.
1827: la Società evangelica di Basilea opera tra le popolazioni a
est del Volta.
1842: creazione del vicariato delle due Guinee. Metodisti ad Aneho.
1847: la Missione di Brema fonda missioni nell’interno del Togo.
1860: creazione del vicariato del Dahomey.
18 aprile 1861: primi missionari della Sma sbarcano a Ouidah.
1884: congresso di Berlino: le potenze europee si spartiscono l’Africa
in zone d’influenza; sorprendendo inglesi e francesi, i tedeschi
firmano un trattato di «protezione» col re togolese: per 20 anni sviluppano
infrastrutture e coltivazioni scientifiche.
1886: i padri Moran e Bauquis avvelenati.
1892: creazione della prefettura apostolica del Togo, affidata ai
missionari tedeschi dello Spirito Santo: il loro arrivo segna
la nascita ufficiale della chiesa togolese.
1914: il vicariato del Togo è elevato a prefettura apostolica.
Scoppia la prima guerra mondiale e il Togo è occupato
da inglesi e francesi.
1916: missionari tedeschi dichiarati prigionieri politici,
poi espulsi.
1918: la Società delle Nazioni (oggi Onu) affida due
terzi del Togo alla Francia, la parte occidentale all’Inghilterra.
1921: il Togo francese è affidato ai missionari di Lione
(Sma).
1923-45: mons. Cessou vescovo di Lomé.
1937: erezione della prefettura di Sodoké.
1939-45:2a guerra mondiale: soldati togolesi
nell’esercito francese.
1945: nascita di partiti indipendentisti:
Comitato dell’unione togolese (Cut) e
Partito togolese del progresso (Ptp).
1946: dal regime di mandato a quello
di tutela: il Togo diventa Territorio
d’Oltremare, con proprio parlamento e
deputati a Parigi.
1955: istituzione della gerarchia in Togo:
Lomé diventa arcidiocesi e Sodoké
diocesi.
1956: Togo diventa Repubblica autonoma:
esponente del Ptp, tendenze neocolonialiste.
1958: vince le elezioni Sylvanus Olympio, leaderdel Cut, ewédel
sud, indipendentista moderato.
27 aprile 1960: il Togo ottiene piena indipendenza. Olympio avvia
riforme nazionaliste, attirandosi le ire dei francesi. Si aggrava la tensione
con le etnie del nord.
1962: mons. Dosseh consacrato primo vescovo togolese di Lomé.
1963: colpo di stato guidato da Eyadéma; Olympio deposto e assassinato.
Grunitzky ritorna dall’esilio e guida il nuovo governo.
1964: mons. Atakpah, primo vescovo togolese di Atakpamé.
1965: mons. Bakpessi, primo vescovo togolese di Sodoké.
1967: nuovo golpe(incruento) di Eyadéma, che si autoproclama
capo dello stato e instaura un regime dittatoriale.
1969: movimenti operai riuniti in un’unica Federazione sindacale;
abolizione dei partiti politici e fondazione del partito unico: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
1970-80: nazionalizzazione della produzione ed esportazione dei
fosfati e processo di «autenticità» togolese; inizia il miracolo economico,
che merita al Togo il nome di «Svizzera dell’Africa».
1979: nuova costituzione instaura il presidenzialismo: Eyadéma
eletto presidente per sette anni.
1981: crollo del prezzo dei fosfati e recessione internazionale provocano
crisi economica e crescita del debito estero.
1986: Eyadéma presidente col 99,95% dei voti. Tumulti di sindacati
e movimenti di opposizione con scontri e morti.
Eyadéma è salvato dai paracadutisti francesi.
1989: la Francia preme per aperture democratiche.
1991: serie di scioperi e tumulti repressi nel sangue.
Eyadéma è costretto a concedere varie libertà
democratiche.
1991-92: convocazione della Conferenza
nazionale sovrana che avvia il processo democratico
e vara una nuova costituzione, sotto
la minaccia d’intimidazioni, attentati e mini
colpi di stato militari.
1993: elezioni farsa: Eyadéma eletto col 96,5%
di voti.
1994: elezioni parlamentari: l’opposizione ottiene
la maggioranza dei seggi, ma Eyadéma riesce
a imporre il suo governo. Comunità Europea,
Usa e organismi finanziari tagliano aiuti
e prestiti al Togo.
1998: votazioni presidenziali all’insegna di
brogli e terrore: il dittatore vince con il 52%
dei voti.
1999: elezioni parlamentari boicottate dai
partiti di opposizione: Eyadéma ottiene
quasi tutti i seggi in parlamento. Per rientrare
nelle grazie dell’Occidente il dittatore
promette di anticipare le elezioni presidenziali
al 2001: promessa non ancora
mantenuta.

Una chiesa nel cuore della società
PIÙ VOLTE RINATA
Ufficialmente iniziò nel 1892,
ma i precedenti tentativi di evangelizzazione
non sono da trascurare.
L’opera dei missionari ha forgiato
la società togolese, che ancora oggi
guarda alla chiesa come segno
di speranza, per una rinascita
nella giustizia e riconciliazione
nazionale.

Per oltre quattro secoli la storia
del Togo rimase legata a quella
della «Guinea», regione tra il
Senegal e l’equatore, esplorata dai
navigatori portoghesi a partire dal
1470. Per meglio commerciare oro e
prodotti esotici, essi stabilirono vari
insediamenti, ma scartarono le coste
del Togo, prive di porti naturali. Nel
1482 costruirono il forte a Elmina, poi
a Keta (Costa d’Oro, oggi Ghana) e a
Ouidah (Dahomey, oggi Benin).
L’espansione del cristianesimo era
una priorità dei conquistatori portoghesi.
Da ogni viaggio portavano a Lisbona
giovani «guineani» che, dopo
essere stati istruiti, venivano ricondotti
in patria per diffondere la fede
cristiana tra i connazionali. Gli insediamenti
portoghesi erano, quindi,
anche centri missionari, ma è difficile
dire fino a che punto tale irradiazione
abbia toccato il Togo.
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LA COSTA DEGLI SCHIAVI
Un cronista di quei tempi, Diego
d’Alvarenga, racconta che a Elmina,
nel 1503, «furono battezzati il capo
di Afouto, 6 ufficiali e 100 persone».
Nel 1634 Propaganda fide assegnò
ai cappuccini inglesi l’evangelizzazione
della Costa d’Oro; 10 anni dopo
arrivò a Roma la notizia del battesimo
del capo di Komenda e altri
principi. Poi i calvinisti olandesi presero
Elmina e cancellarono ogni traccia
cattolica.
Nel Dahomey, a est del Togo, i cappuccini
bretoni fondarono una missione
a Ouidah nel 1644; ma gli stregoni,
sobillati da mercanti inglesi e
olandesi, incendiarono la cappella e
i missionari dovettero scappare. Sedici
anni dopo arrivarono i cappuccini
spagnoli, richiesti dal re d’Arda al
sovrano di Spagna, ma furono cacciati
dai portoghesi. Ritentarono nel
1674 tre domenicani francesi: stavano
per convertire il capo di Ouidah,
ma i mercanti di schiavi montarono
la testa ai locali e i missionari morirono
sulla costa, forse avvelenati.
L’evangelizzazione era impossibile:
la tratta degli schiavi portava ad
identificare cristianesimo e schiavismo;
gli schiavisti, indigeni ed europei,
non permettevano che i missionari
turbassero i loro affari. E dovevano
essere enormi, se la regione tra
Keta e Lagos fu per secoli conosciuta
come «Costa degli Schiavi».
I primi a portare il cristianesimo
tra le popolazioni del Togo furono i
missionari protestanti: il loro eroismo
merita tanto di cappello.
Iniziò la Società dei fratelli moravi
con Giacomo Protte, un mulatto
nato in Costa d’Oro da padre danese
e madre africana. Dopo aver studiato
a Copenaghen, nel 1737 fu inviato
a convertire i suoi paesani; quattro
anni dopo toò in Olanda; nel
1757 e 1769 tentò altre due imprese
solitarie. Nel frattempo fu raggiunto
da altri 5 fratelli, tre dei quali scesero
nella tomba nel giro di due mesi.
Nel 1770 altri quattro missionari raggiunsero
i due sopravvissuti: l’anno
dopo morirono tutti e sei senza lasciare
traccia.
Nel 1827 i missionari della Società
evangelica di Basilea arrivarono nel
forte danese di Christianborg. Per
fuggire al clima micidiale della costa,
si concentrarono nell’interno del paese
e cominciarono ad evangelizzare le
popolazioni ad est del Volta.
Nel 1842 i metodisti si stabilirono
a Lagos, Ouidah e Aneho, grazie a ex
schiavi americani, tornati ai paesi
d’origine. Tra i missionari metodisti
si distinse Thomas Freeman, pastore
infaticabile: di padre africano e madre
inglese, fu educato a Londra; in
due riprese (1843 e 1854) visitò tutta
la Costa degli Schiavi, spingendosi
nell’interno del Togo.
Nel 1847 la Società missionaria di
Brema (Germania) si unì agli evangelici
di Basilea. Stabilito il quartiere
generale a Keta, evangelizzarono
la popolazione ewé a est del Volta e
fondarono varie stazioni missionarie,
distrutte dalle guerre e puntualmente
ricostruite; esplorarono le regioni
di Atakpamé e Anfoin, nel cuore del
Togo. Nel giro di 40 anni si succedettero
circa 100 missionari, 54 dei
quali falciati da febbri malariche.

TEMPI EROICI
Con l’abolizione dello schiavismo,
la Costa degli Schiavi vide nascere le
prime comunità cattoliche, formate
da famiglie di afro-brasiliani (Olympio,
de Souza, da Silveira, Santos,
Campos, Sacramento, Paraiso) che
avevano abbracciato il cristianesimo
durante la schiavitù ed erano tornate
nelle terre di origine: mercanti intelligenti,
diventarono l’élite del Togo
e Dahomey.
Nel 1835 Vanessa de Jesus fece costruire
una cappella ad Aneho, la prima
in terra togolese. Distrutta da un
incendio, fu ricostruita da un gruppo
di bahiani, guidati da Joaquim
d’Almeida. Preti portoghesi venivano
da São Tomé per amministrarvi i sacramenti:
il primo battesimo in Togo
porta il nome di Marcos Francisco da
Massa e la data del 1844.
A quel tempo, il Togo era inglobato
nell’immenso vicariato apostolico
delle due Guinee, creato da Propaganda
fide nel 1842, da cui fu ritagliato,
nel 1860, il vicariato del Dahomey
(tra il Volta e il Niger) e affidato
alla Società delle missioni africane di
Lione (Sma). Il 18 aprile 1861 sbarcarono
a Ouidah i primi due missionari,
l’italiano Borghero e lo spagnolo
Feandez.
Senza trascurare i cristiani brasiliani,
i missionari Sma evangelizzarono
i nativi: nel 1963 battezzarono i primi
due togolesi; 10 anni dopo si stabilirono
ad Agoué, in territorio togolese,
e si spinsero nell’interno del
paese, fino a Atakpamé.
Nel 1892 il vicariato fu smembrato
in due prefetture, l’una con sede a
Lagos, l’altra ad Agoué, avendo per
confini i fiumi Ouémé e Volta. Due
anni dopo (1884) il Togo diventò
protettorato tedesco e, con la firma
di accordi con inglesi e francesi, cominciò
ad avere confini più definiti:
tra i fiumi Mono e Volta.
Intanto i missionari francesi continuarono
ad avanzare nell’interno, accolti
a braccia aperte dal cecuziente
re Abasa: all’inizio del 1886, i padri
Moran e Bauquis, fondarono ad Atakpamé
la prima vera stazione missionaria
del Togo. I due padri non stavano
nella pelle per la gioia, ma dovettero
fare i conti con gli stregoni,
che cercarono di avvelenarli insieme
al vecchio re. Dopo vari tentativi, ci
riuscirono (vedi riquadro). Nell’agosto
del 1887 la missione fu abbandonata
e totalmente saccheggiata.

PIONIERI E STRATEGHI
Intanto l’amministrazione tedesca
impose nelle scuole l’insegnamento
della lingua del padrone, pena la
chiusura delle missioni. I missionari
di Brema e Basilea giocavano in casa;
cattolici e metodisti dovettero
correre ai ripari.
La congregazione di Propaganda fide
eresse il territorio del protettorato
a prefettura apostolica del Togo,
e la affidò alla Società del verbo divino
(Svd), la più grande congregazione
missionaria tedesca: era il febbraio
del 1892, data ufficiale della
nascita della chiesa togolese.
Il 27 agosto dello stesso anno, 2
preti e 3 fratelli erano a Lomé e si misero
subito al lavoro; il 18 settembre
era pronta la cappella; il 20 dello
stesso mese apriva la scuola con 25
alunni; il 25 ottobre iniziava il catecumenato;
a natale i primi battesimi.
Alla fine del 1893, la relazione inviata
a Propaganda fide così riassumeva
i 15 mesi di lavoro: 3 missioni
con 5 preti, 8 fratelli e un volontario
laico; 135 alunni nelle scuole di
Lomé, Adidjo e Togoville; 150 cristiani
e 160 catecumeni; battezzati
50 adulti e un migliaio di morenti.
Le cifre non danno conto dei missionari
falciati da malaria e vaiolo, o
costretti a rimpatriare a pochi mesi
dall’arrivo. «Tutti malati! Stop. Aiuto!
» gridava il telegramma del prefetto
al superiore generale nel giugno
1896. Ma dalla casa madre, almeno
nei primi anni, arrivano pochi
soldi e tante critiche: si parlava d’infantilismo,
ambizioni e sprechi, anche
se, per sopravvivere, i missionari
si arrangiavano con artigianato e
agricoltura.
Anche sul campo abbondavano le
spine. Il manipolo di cristiani afrobrasiliani
trovati in Togo vivevano
«nelle condizioni dell’Antico Testamento
– scriveva il prefetto, padre
Schäfer -; molti sono tornati alla poligamia;
ma sono ben disposti verso
i missionari». Più dura era la lotta
con gli stregoni, che proibivano di
mandare i ragazzi a scuola e tentarono
di avvelenare un missionario.
Inoltre, bisognava sgomitare per
farsi largo tra i protestanti, arrivati
decenni prima. Il governo fu costretto
a dividere il territorio in zone
d’influenza e proibire invasioni di
campo. Solo nel 1913, i padri poterono
spingersi nell’estremo nord.
Autentici strateghi, i missionari tedeschi
si stabilirono nei centri popolosi,
mercati e incroci di vie di comunicazione.
Poiché il mondo degli
adulti resisteva alla penetrazione del
vangelo, a causa dell’attaccamento
alla religione tradizionale (vodoun e
feticismo) e poligamia, essi concentrarono
gli sforzi sui giovani, seminando
il paese di scuole primarie,
agricole e professionali.
Alla formazione umana e religiosa,
i verbiti univano lo studio di lingue
e culture locali, traduzioni e pubblicazioni
di libri religiosi. Studiarono i
problemi più spinosi, come la poligamia,
prospettando soluzioni audaci:
dare almeno il battesimo ai poligami
più aperti ai valori del vangelo.
I fratelli, spesso in numero superiore
ai padri, innalzarono le strutture
materiali (case, chiese, cappelle,
scuole e cattedrale di Lomé) e si immersero
nella formazione scolastica,
sfoando maestri, artigiani e catechisti.
Altrettanto preziosa, nella formazione
femminile, fu la presenza
delle suore, arrivate nel 1897.
Tale strategia lungimirante si dimostrò
vincente: la maggioranza dei
battezzati e famiglie cristiane nascevano
sui banchi di scuola. In 20
anni la chiesa in Togo era impiantata
e consolidata. Nel 1914 essa contava
quasi 20 mila battezzati, 6.425
catecumeni e 1.235 matrimoni religiosi;
47 padri, 15 fratelli e 25 suore
erano distribuiti in 15 missioni, attendevano
a un numero impressionante
di stazioni periferiche e gestivano
198 scuole con 8.463 alunni e
228 maestri e catechisti. C’erano più
alunni nelle scuole cattoliche del Togo
che in tutte le colonie francesi
dell’Africa occidentale.
«Se i tedeschi fossero rimasti, oggi
tutto il Togo sarebbe cattolico»
sospira un missionario italiano con
lunga esperienza nel paese.

SECONDA NASCITA
Con lo scoppio della prima guerra
mondiale (1914), il Togo fu occupato
dalle truppe inglesi e francesi, prima
vittima del conflitto. Inizialmente
tollerati, ma con le ali tarpate da
restrizioni d’ogni genere, i missionari
tedeschi vennero dichiarati prigionieri
politici nel 1916 e, nel giro
di un anno, erano tutti fuori del paese:
padri e fratelli deportati in Inghilterra,
le suore rimpatriate.
Per quattro anni i vescovi della Costa
d’Oro e Dahomey presero in consegna
il vicariato e inviarono alcuni
missionari per tenere aperte alcune
missioni e scuole. Finita la guerra, i
verbiti cercarono di ritornare nelle
amate missioni, ma Parigi e Londra
non ne vollero sapere. Nel 1921 Propaganda
fide affidò la parte francese
ai missionari di Lione; quella amministrata
dagli inglesi fu annessa al vicariato
di Keta.
La chiesa togolese cominciò a riprendersi,
ma molto lentamente: i
missionari arrivavano col contagocce,
sempre insufficienti a coprire tutte
le opere avviate dai verbiti: nel
1958 il numero dei missionari era di
poco superiore a quello del 1914.
Nonostante ciò, la chiesa togolese
sperimentò una nuova nascita, grazie
al sacrificio del personale missionario
e alla lungimiranza del vicario,
mons. Jean-Marie Cessou. Egli continuò
lo sviluppo delle scuole, aprì
nuove missioni nel centro e nord del
paese e, per neutralizzare l’influenza
islamica, facilitò la creazione della
prefettura di Sodoké (1937).
Grande merito di mons. Cessou fu
la promozione delle vocazioni indigene.
Nel 1922 fu ordinato il primo
prete africano nella zona britannica;
6 anni dopo un togolese nella zona
francese. Alla sua morte (1945) il vescovo
lasciava 23 preti europei e 4
togolesi, 26 suore e 292 catechisti,
191 scuole e 13 mila allievi, 88 mila
cristiani e 200 chiese e cappelle.

CHIESA MAGGIORENNE
Dopo il secondo conflitto mondiale,
che aveva richiamato sotto le armi
i missionari più giovani, arrivarono
una quindicina di congregazioni
maschili e femminili di diverse nazionalità
e la chiesa togolese fu rivitalizzata.
Furono promesse numerose
associazioni, confrateite religiose
e istituzioni varie: collegi, seminari,
noviziati di suore indigene, per rispondere
ai venti nuovi che soffiavano
sulla società del Togo.
Nel 1955 il vicariato di Lomé fu
elevato ad arcidiocesi e la prefettura
di Sodoké a diocesi; pochi anni dopo
la chiesa cominciò a passare nelle
mani della gerarchia togolese: nel
1962 Robert Dosseh fu consacrato
vescovo di Lomé; due anni dopo Beard
Ogouki-Atakpah guidava la diocesi
di Atakpamé; l’anno seguente
Chretien Bakpessi quella di Sodoké.
Il Togo è stato definito «figlio primogenito
della chiesa». Non è retorica.
Con le solide strutture e organizzazioni,
qualità delle scuole, formazione
di quadri ed élites, strutture
sanitarie e ospedaliere, opere agricole
e idrauliche, sociali o di beneficenza
sviluppate prima e dopo l’indipendenza
(1960) la chiesa cattolica
ha modellato la nascita e la crescita
della società togolese.
Nel 1958, per esempio, alle votazioni
per il parlamento della Repubblica
autonoma, 37 deputati su 46 e
8 ministri su 10 erano cattolici, tra
cui il primo ministro, Sylvanus Olympio,
padre del Togo indipendente.
Oggi, su una popolazione di circa 5
milioni di abitanti, la chiesa conta
quasi un milione e mezzo di cattolici
(25%) e 65 mila catecumeni, 7 diocesi
guidate da altrettanti vescovi autoctoni,
oltre 300 preti diocesani
(erano 170 nel 1990) e 200 seminaristi,
160 religiose di origine straniera
e più di 400 religiose autoctone,
appartenenti a una trentina di istituti
missionari; quattro istituti locali
che contano oltre 300 suore.

SFIDE DEL TERZO MILLENNIO
Nell’ultima visita ad limina (1999),
i vescovi togolesi hanno sentito dal
papa queste parole: «Auguro che una
vera solidarietà si manifesti tra le
diocesi, attraverso una ripartizione
adeguata di personale apostolico,
che permetta di aiutare generosamente
quelle più povere».
Di fatto, la chiesa del Togo sembra
spaccata in due: al sud è ultracentenaria,
tradizionalista e clericalizzata,
ricca di clero, suore e risorse finanziarie;
al nord è appena cinquantenne,
povera d’organizzazione e totalmente
dipendente dalla chiesa universale
in quanto a personale e aiuti
materiali. Il cammino verso la solidarietà
della «chiesa famiglia», ideale
del sinodo per l’Africa, in Togo è
ancora ai primi passi.
La sfida più lacerante viene dalla situazione
politica e sociale del paese.
Se all’inizio della dittatura la chiesa
si era appiattita sulle posizioni del regime,
scegliendo il male minore, ben
presto ha recuperato il suo ruolo profetico:
nel 1976 il vescovo di Atakpamé
fu costretto a dimettersi per
aver osato criticare il dittatore. Questi
diede ordine all’esercito d’impedie
la consacrazione del successore,
mons. Kpodzro: il giorno prima
dell’ordinazione fu cambiato il luogo
e i soldati arrivarono alla fine della
cerimonia. Ma il vescovo rimase sequestrato
a Lomé per cinque anni,
prima di entrare nella sua diocesi.
Nel passaggio alla democrazia la
chiesa c’era: comunità cristiane e preti
erano contro la dittatura e mons.
Kpodzro fu chiamato a guidare la
Conferenza nazionale (1991-92). Il
prestigio che gode nella società togolese
è uno stimolo in più per impegnarsi
nella promozione della giustizia
e riconciliazione nazionale.
Alcune lettere pastorali presentano
diagnosi inequivocabili dei mali della
società: paura, violenze, vendette,
corruzione, impunità. «Come missionari
– afferma uno di essi – vorremmo
dai vescovi un po’ più di interventismo
in occasione delle elezioni, nel
campo sociale e dei diritti umani».
La chiesa rimane una spina nel
fianco del regime, che reagisce con
meccanismi diabolici e, per tagliarle
l’erba sotto i piedi, strizza l’occhio alle
sètte, massoneria, Rosa Croce e
mondo islamico soprattutto.
Presenza percettibile solo nel centro-
nord, l’islam è passato dal 5% del
1960 all’11% nel 1970, al 16% nel
2001. Da un decennio si assiste a una
fioritura di moschee, centri islamici
e scuole coraniche in tutto il paese,
soprattutto da quando il Togo è diventato
membro dell’Organizzazione
della conferenza islamica nel 1997.
Tale adesione non è disinteressata:
i paesi islamici aprono la borsa dei loro
petrodollari; in compenso, il regime
concede spazio ai musulmani nella
stanza dei bottoni, amministrazione
e uso di radio e televisione.
«L’islam fa breccia anche tra i più
poveri – afferma mons. Kpodzro -.
Promesse di denaro e promozione sociale
sono forti tentazioni per farsi
musulmano. Malgrado tutto, la chiesa
intrattiene buone relazioni con i
musulmani. Ma come arginare tale
offensiva legata essenzialmente alla
potenza del denaro?».
Alla domanda il vescovo di Lomé
ha già trovato la risposta: nella sua
diocesi ha aperto la «Scuola cristiana
della fede», che opera su tre direttive:
formazione dei laici, studi biblici
e Forum fede e vita, destinata a
incontri e dibattiti ad alto livello sulla
dottrina sociale della chiesa.
«C’è bisogno di una rinascita nella
catechesi, sia a livello popolare, per
aiutare i cristiani a difendersi dall’aggressività
delle sètte e dell’islam,
sia a livello di élites cristiane, poiché
hanno una cultura religiosa rudimentale.
Con la nostra “Scuola” vogliamo
dare loro una formazione dottrinale,
spirituale e morale, per avere
una classe dirigente ancorata ai
valori cristiani e pienamente impegnata
nella promozione della pace,
giustizia, bene comune e un’autentica
democrazia. E che Dio ci aiuti!».

PRIMI MARTIRI

Due donne stavano raccogliendo legna.
Sbadatamente raccattarono
frasche di un albero sacro. Era un crimine
meritevole di morte, anche se
commesso inavvertitamente: furono
avvelenate. L’una morì, l’altra fu portata
ai missionari, che riuscirono a salvarla.
Gli stregoni le diedero un’altra
porzione di veleno; e i missionari la salvarono
una seconda volta.
I fattucchieri erano infuriati: quei due
stranieri erano più forti di loro. Il sabato
santo del 1886 li avvelenarono, non
si sa come, insieme al re. Questi morì
all’istante; i missionari se la cavarono;
ma erano così indeboliti che dovettero
andare a riposarsi sulla costa.
Toati ad Atakpamé, padre Moran
si guadagnò la simpatia di alcuni
capi e stregoni, distribuendo regali, e
ottenne il permesso di esercitare la medicina.
Per qualche mese i missionari
furono lasciati in pace. La gente accorreva
alla missione, disertando le
pratiche feticiste, provocando rabbia e
gelosia tra vari fattucchieri.
Questi studiarono i movimenti dei missionari
e videro che, ogni giorno, un ragazzo
andava a comperare una zucca
di vino di palma per i padri; avvicinarono
il mercante, avvelenarono il vino
e raccomandarono al ragazzo di non
berlo, perché sarebbe stato un furto.
Appena i missionari bevvero il vino,
sentirono subito gli effetti del veleno.
Presero immediatamente dei rimedi e
vomitarono anche l’anima: era il 7
agosto 1887. Padre Bauquis si salvò;
ma padre Moran spirò tra atroci contorsioni,
senza medico e senza prete,
poiché il confratello era troppo debilitato
per assisterlo. Aveva solo 28 anni.
I nemici della missione avevano raggiunto
lo scopo: un missionario morto
e l’altro in fin di vita. Padre Bauquis dovette
ritirarsi sulla costa, dove morì nel
1891.
Nel 1939 si venne a sapere che il
calice di padre Moran era stato
usato come feticcio in una festa pagana
ufficiale. I missionari lo reclamarono
energicamente. Ma i fattucchieri ricorsero
di nuovo ai veleni. Il vescovo
dovette ritirare i preti perché non rischiassero
la vita.
La storia riemerse nel 1951: per l’ordinazione
del primo prete di Atakpamé
i giovani gli offrirono un calice «per
cancellare l’onta dell’avvelenamento di
padre Moran».

Vodoun: religione tradizionale del Togo
NEL MONDO DEI GRI-GRI
Per capire una cipolla bisogna sfogliarla. Così il
vodoun: non esistono definizioni; per comprenderlo
bisogna guardare le sue manifestazioni.

Gli europei li chiamano feticci; i locali tolegba (spirito
del paese); è una testa di terra, con occhi spalancati,
piantata al suolo. Impossibile non notarli: sono posti ai
crocicchi, all’entrata dei villaggi e nei luoghi più frequentati.
A Fiata ce ne sono due a poca distanza: uno accanto
alla strada, protegge il paese; l’altro nel mercato, sotto una
pianta, aiuta la gente a fare buoni affari.
Spesso ci si imbatte in tempietti, altarini, simulacri, oamenti
e altri feticci di vario genere e forma: tutti simboli
del vodoun, la religione tradizionale praticata dalla
maggioranza della popolazione del Togo e del Benin.
«In principio Mawu (Dio) viveva fra gli uomini – racconta
un mito degli ewé -. Il cielo era così basso che
lo si poteva toccare con la mano. Un giorno una donna stava
cuocendo la polenta e, non potendo girare il mestolo
perché il cielo era troppo vicino, s’indispettì e gettò la polenta
contro il cielo. Mawu si arrabbiò e disse: “D’ora in poi
non voglio più stare fra gli uomini!”. E tirò su anche il cielo».
Mawu, il Dio creatore e trascendente, è inteso lontano e
irraggiungibile, impassibile alle preghiere e vicende umane:
ma per compensare il suo allontanamento, affida la cura
della creazione a divinità minori: i vodoun. Il termine,
infatti, nella lingua fon (Benin) significa «cosa misteriosa,
nascosta, sacra», tra le popolazioni togolesi «messaggero
del profondo». Tale parola sta a indicare, quindi, l’insieme
delle forze da cui dipende l’uomo, nel bene e nel male,
e la religione che ne deriva.
Nessuno sa quanti siano i vodoun; i più informati dicono
che possono essere quasi duemila. I più antichi e importanti
sono identificati
con le forze della natura (fulmine,
vaiolo, mare, terra, foresta,
animali, serpenti), altri
si rifanno a personaggi
storico-mitici e antenati; ne
esistono di modei, inventati
per far fronte a potenze
occulte (magia e violenza) e
ottenere favori «immediati»:
protezione, benessere o maledizioni
per i nemici.
I vodoun cosmici e degli
antenati hanno propri templi
e conventi, sacerdoti, sacerdotesse
e adepti, ai quali
vengono trasmessi i relativi
poteri. Tale iniziazione dura tre anni: novizi e novizie apprendono
tutto lo scibile e la saggezza religiosa ricevuta
dagli antenati: storia, leggende, miti, erbe medicinali e arte
divinatoria… una vera e propria enciclopedia orale.
Nella natura e nella vita umana non si muove foglia che
il vodoun non voglia. Esso, di per sé non è né buono
né cattivo: tutto dipende dal comportamento dell’uomo.
Perciò i fedeli, attraverso giochi divinatori, devono conoscere
il proprio destino e imparare come comportarsi e soprattutto,
mediante preghiere e danze, sacrifici animali e
libagioni di olio di palma, offerte di farina di mais e altri
doni di vario genere, devono convincere i vodoun a elargire
favori e protezione.
I vodoun, inoltre, sono «energie vitali» presenti dappertutto
e che si concretizzano in diverse forme del regno
animale, vegetale e minerale. Tale forza vitale può essere
controllata, aumentata o diminuita mediante offerte e sacrifici.
Più le offerte sono abbondanti, più le divinità hanno
forza e migliori sono le loro intenzioni; se esse diminuiscono,
i vodoun s’indeboliscono.
Tale interdipendenza tra
l’uomo e le forze cosmiche e
ancestrali presenta una visione
altamente positiva
dell’universo: il mondo è
un’immensa manifestazione
del sacro, mistero «tremendo
e fascinoso», che permea
tutta l’esistenza quotidiana;
la relazione tra vita e pratica
religiosa è così stretta che
rende impossibile stabilire
una netta divisione tra sacro
e profano.
I l mondo visto dal vodoun
è solidarietà, unità, totalità,
eloquentemente tradotto in simbolo dal serpente che
si morde la coda; ma presenta pure aspetti patologici. Lungo
le rive del Volta, in Ghana, per esempio, esistono vari
templi in cui vivono le trokosi o schiave di Tro: donne che,
fin da bambine, sono state offerte alla divinità in riparazione
di colpe commesse dai genitori; in pratica sono proprietà
dei sacerdoti e passano la loro vita in stato di schiavitù,
soggette a ogni genere di abuso.
Inoltre, i confini tra religione e magia sono incerti; anzi,
spesso entrano in cortocircuito. Mentre la religione cerca di
onorare e propiziarsi la divinità, la magia cerca, con precisi
e vincolanti rituali, di sottomettere al proprio potere spiriti
e forze della natura e sfruttae la potenza per provocare
effetti benefici (magia bianca) o malefici (magia nera).
Tutto dipende dagli addetti ai lavori: indovini, curatori,
maghi, stregoni, uomini e donne, che praticano
la magia con abilità, turlupinando la gente. Non
per nulla la popolazione del Benin chiama il bokono
(sacerdote di fa, lo spirito dell’oracolo) awono: bugiardo.
Un esempio di magia nera è il chakata, chiamato «fucile
africano»: serve ad avvelenare o a infiggere nel corpo
della vittima, distante anche vari chilometri, chiodi,
aghi, sassi, lamette, pezzi di vetro e simili, provocando
atroci dolori, fino alla morte. Per prevenire
o liberarsi da simili disgrazie, si ricorre a stregoni
più potenti, capaci di diagnosticare il maleficio
e rimuoverlo con medicine, incantesimi, sacrifici,
dietro lauta ricompensa.
Esistono anche mezzi fai-da-te: amuleti o grigri.
E sono innumerevoli. Si può richiederli
agli stregoni: basta pagare. Ma li si può
comprare anche al mercato:
sono di ogni forma e grandezza,
pezzi di legno o di ferro,
statuette di creta, tutti decorati
da piume, denti di rettili, pesci
e uccelli. Per farli agire basta pronunciarvi
una formula oscura e il gri-gri è confezionato,
pronto da portare a casa.
I primi missionari videro nel vodoun una religione politeista,
simile a quella dell’antica Roma, opera del diavolo,
e come tale da combattere frontalmente, bruciando
feticci e distruggendo idoli e altarini. Oggi il loro atteggiamento
è cambiato: i vodoun non sono dèi, al pari di
Mawu, ma semplici creature; non più lo scontro, ma la cristianizzazione
degli aspetti cultuali più significativi.
Ne è un esempio il santuario della Madonna del Lago,
costruito nel 1973
a Togoville, cuore
del feticismo. Qui
risiede il capo dei
sacerdoti vodoun, il
quale ha rappresentato
la religione
tradizionale africana
all’incontro interreligioso
di preghiera
per la pace,
tenuto ad Assisi nel
1986. Qui la gente
viene per sottomettersi
a riti di purificazione
individuali
e collettivi.
Oggi il tempio
mariano è diventato
santuario nazionale,
meta di pellegrinaggi
provenienti da tutte le
parti del Togo: così la purificazione
continua, ma in senso cristiano.
Nel febbraio 1993, Giovanni Paolo
II, in visita al Benin, incontrò i
capi del vodoun e, nel suo discorso,
insistette sulla «necessità del
dialogo tra tutti i credenti in
Dio». I vescovi presenti masticarono
amaro, timorosi
che le parole papali potessero
accrescere la confusione
tra i cristiani, già così
facili a conciliare le due
religioni.
Alcuni cristiani, infatti, si
comportano come tali la
domenica; ma nelle case
conservano i soliti feticci e
amuleti; varie donne sgranano
il rosario inginocchiate davanti
alla Vergine; poi si abbandonano
alle danze più sfrenate in
preda alla possessione. Non sono
pochi coloro che si fanno contemporaneamente
cristiani e musulmani,
considerando Allah e Cristo
alla stregua dei vodoun
tradizionali. Non si sa mai: se
uno non funziona si ricorre all’altro.

RESTITUIRE DIGNITÀ
Da una decina d’anni, le Figlie di S. Gaetano sono
presenti in Togo e, secondo il loro carisma, si
occupano «dei più poveri tra i poveri», curando
ammalati, assistendo handicappati, aiutano la
gente a camminare con le proprie gambe.
Èancora scuro a Fiata, ma la
gente è già in strada per recarsi
nei campi, sfruttando le
ore fresche del mattino. Quando il
sole è alto e il caldo troppo forte, lavorare
diventa più faticoso. Anche il
guardiano della casa delle suore è già
in azione: pulisce il cortile, annaffia
i fiori, apre il portone che immette al
dispensario e subito si forma la lunga
fila di pazienti.
I PIÙ POVERI TRA I POVERI
È così ogni mattina. Suor Fatima,
brasiliana, responsabile della direzione
del dispensario, comincia ad
accogliere i malati e, coadiuvata da
suor Alfonsa e un’infermiera locale,
riempie le schede sanitarie, ascolta
le sofferenze della gente, prescrive e
distribuisce medicine. Malaria e
malnutrizione infantile sono le patologie
più frequenti, insieme alle
infezioni e malanni vari causati dal
clima tropicale e dalla miseria. Negli
ultimi tempi si è aggiunto il flagello
dell’Aids.
Il dispensario è la prima struttura
che le Figlie di San Gaetano, arrivate
in Togo una decina di anni fa,
hanno costruito per rispondere al
loro carisma: amare «i più poveri tra
i poveri». E la povertà è visibile e
tangibile, scolpita nel viso di bimbi
scheletriti soprattutto.
La struttura è semplice, ma dignitosa
ed efficiente, attrezzata per sfidare
le necessità della gente e le precarietà
della situazione del paese: un
sistema di pannelli solari, realizzato
di recente, permette ai frigoriferi di
conservare vaccini e medicine deperibili,
anche quando la rete elettrica
nazionale non funziona; il che
capita spesso.
L’elettricità solare ha reso possibile
attivare un laboratorio di analisi.
Lo hanno organizzato Donato ed
Elena Calocero, due volontari torinesi
che, ottenuto un anno di aspettativa
dall’ospedale delle Molinette
di Torino, hanno montato le strutture,
messo in funzione il laboratorio
e passato le consegne a suor Innocence,
infermiera togolese della
stessa famiglia gaetanina.
Fiore all’occhiello di tutta la diocesi
di Aneho, il dispensario di Fiata
è un’autentica testimonianza di
carità e la gente vi accorre con fiducia,
sia perché vi trova le medicine di
cui ha bisogno, sempre scarse o inesistenti
nelle strutture statali, sia perché
si sente trattata con amore e rispetto
della propria dignità.

I CIECHI VEDONO
GLI ZOPPI CAMMINANO…

Tra i poverissimi le missionarie
hanno incontrato gli handicappati,
con alle spalle storie di degrado ed
abbandono, come quella di Ekoué
Kankoé. Colpito da malformazione
congenita, orfano di madre, rifiutato
dal padre passato in seconde nozze,
il ragazzo conduceva una vita
randagia quando fu scoperto dalle
suore: si trascina a fatica con mani e
piedi; incapace perfino di tirare l’acqua
dal pozzo, era sopravvissuto
grazie alla compassione della gente
e qualche furtarello.
Dopo aver rintracciato un cugino,
che lasciò la scuola per assisterlo all’ospedale,
le suore provvidero a farlo
operare. Quando Ekoué ritoò
al villaggio, la gente non credeva ai
propri occhi, vedendolo ritto sulle
proprie gambe; il padre rimase impietrito,
in un misto di stupore e
rabbia, e continuò a ignorarlo.
Per alcuni mesi il cugino lo portò
a scuola sulle spalle, finché il ragazzo,
con la forza di volontà, riuscì a
recarvisi da solo, con l’aiuto delle
stampelle. Nel frattempo, gli fu trovata
una sistemazione in una famiglia
che, oltre ai propri figli, si prende
cura di quattro orfani.
Oggi Ekoué frequenta la quinta
elementare; nella nuova famiglia ha
trovato la gioia di vivere e ottenuto
tutti i documenti di un normale cittadino.
Anche Yawo Missadjo, detto Tata,
è stato rifiutato dai genitori, ma
è stato accolto da una zia. «È il pri-
mo dramma degli handicappati –
continua suor Luciana -: i genitori li
considerano un castigo divino, una
vergogna da tenere nascosta il più
possibile; quando non sono abbandonati
a se stessi, tali figli vengono
affidati a nonni o zii».
Per 16 anni Yawo non aveva alzato
le mani da terra più di un palmo.
Ma riusciva a fare qualche lavoretto,
intrecciando la paglia. Sottoposto
all’operazione, è riuscito a rimettersi
in piedi. Quindi fu iscritto
alla scuola di alfabetizzazione, ma
con scarso successo: riesce appena
a scrivere il suo nome. Ma ha molte
doti pratiche e alcuni stregoni lo
hanno ingaggiato per fare collane e
altri oggetti artigianali; con i guadagni
riesce a badare a se stesso, anche
se per rinnovare gli apparecchi ortopedici
dipende ancora dall’aiuto
della missione.
Gloria Kankoé è cieca dalla nascita.
Anche lei abbandonata dai genitori,
è stata raccolta dalle suore e
affidata a un istituto per non vedenti,
dove ha imparato a impagliare sedie,
fare stuoie e tappeti. Ha incominciato
a studiare e già maneggia
una macchina da scrivere braïlle.
Il caso di Missan Afli fa eccezione:
fu il padre in persona a portare
la figlia alla missione, quando seppe
che le suore si prendevano cura degli
handicappati. L’esempio delle
suore ha risvegliato in lui l’amore
paterno, offrendo tutta la collaborazione
possibile per restituire alla
figlia la sua dignità.
La bambina camminava con mani
e piedi, ma l’attenzione delle suore
e l’amore del padre le hanno dato
tale forza di volontà per reagire
al suo handicap, finché è
riuscita a camminare senza bisogno
di alcuna operazione. Nonostante
una mano ancora gravemente menomata,
ha imparato a scrivere. La
domenica, mentre procede danzando
in processione con le offerte
della messa, non manca di dare una
sbirciata alla suora, per esprimere la
felicità di camminare come le compagne.
Storie di «ciechi che vedono e
storpi che camminano» ce ne sono
altre 130, racchiuse in un faldone
che suor Luciana sfoglia con la reverenza
dovuta a un messale. Sono
schede con fotografie scattate prima
e dopo l’operazione, dati anagrafici,
situazioni familiari, progressi di
riabilitazione, resoconti contabili,
relazioni aggiornate e spedite regolarmente
al Lilian Fonds, un’associazione
olandese che si occupa del
recupero di handicappati.
«È un lavoro che assorbe energie
fisiche e mentali – confessa sorridendo
suor Luciana, responsabile
di fronte all’associazione dei progetti
di recupero -. Ma procura soddisfazioni
impareggiabili: rimettere
in piedi questi infelici significa reintegrarli
nell’umanità, restituire loro
la dignità umana. Oggi, nel raggio
30-40 km, non si vedono più handicappati
chiedere l’elemosina per
strada. Alcuni di essi hanno raggiunto
la piena indipendenza».
È il caso di Ekoué Gakpea: rimesso
in piedi, ha imparato a fare il sarto;
ha ricevuto una macchina da cucire
e con il suo lavoro mantiene se
stesso e tutta la famiglia. Anzi, è diventato
tanto esperto di macchine
da cucire che va in giro ad aggiustare
quelle degli altri.

MANAGER DELLA…
PROVVIDENZA

Fino a quando non è raggiunta la
piena autonomia, il processo di riabilitazione
è lungo e faticoso: bisogna
seguire caso per caso, controllare
se gli apparecchi sono in buono
stato o troppo stretti, riportarli all’ospedale
per eventuali riparazioni
o adattamenti.
Speciale attenzione è rivolta alle
famiglie degli handicappati, per esigere
la loro collaborazione, specialmente
quando i figli incontrano delle
difficoltà, rifiutano gli apparecchi
ortopedici, si buttano per terra e ritornano
a una situazione peggiore
di quella precedente l’operazione.
«Il mio lavoro consiste nel cornordinare
iniziative e progetti – continua
la missionaria, sentendosi quasi in
colpa per mancanza d’umiltà -. Va-
do a visitare i genitori solo quando
essi rifiutano di essere coinvolti nel
recupero dei figli. Il grosso del lavoro
è fatto da collaboratori, due
uomini e due donne, che scovano i
casi più pietosi, visitano regolarmente
i 130 ragazzi e ragazze, ne seguono
da vicino il processo di riabilitazione
e fanno i rapporti sulla situazione.
Uno dei collaboratori è il mio
braccio destro: battezzato otto anni
fa insieme a tutta la famiglia, macina
chilometri e chilometri, sostenuto da
fede granitica e tanta passione per gli
handicappati, che mi sembra di toccare
con mano la misericordia del Signore
per questa popolazione, povera
e sofferente da fare pietà».
Un’altra iniziativa intrapresa dalle
suore è quella delle adozioni a distanza.
Anche questa attività è racchiusa
in grossi faldoni e gestita da
suor Luciana. «L’adozione dura cinque
anni – spiega la missionaria -: oltre
500 adottati ne hanno beneficiato
e concluso il ciclo elementare; altre
900 sono ancora in corso. Spesso
devo fare le ore piccole per compilare
e aggioare le schede degli
adottati e inviare relazioni ai padrini
e madrine sulla situazione dei figliocci».
Il lavoro più delicato consiste nel
vagliare i casi da aiutare, poiché tutti
sono poveri, ed evitare di creare
dipendenze e, soprattutto, gelosie
tra le famiglie del villaggio. In questo
campo i collaboratori africani si
rivelano indispensabili: una bianca
darebbe troppo nell’occhio. E se la
cavano da veri 007, sia nello scoprire
le reali situazioni familiari, sia nell’evitare
la curiosità dei vicini, sia
nello scattare le fotografie senza che
gli interessati se ne accorgano.
Inoltre, non si parla mai di «adozione
», affinché i genitori non avanzino
pretese, ma il denaro viene distribuito
in tre rate annuali, sotto
forma di prestiti, aiuti di emergenza
o pagamento diretto alla scuola dalla
quale gli alunni sono stati cacciati,
perché i genitori non hanno pagato
la tassa scolastica.
Secondo il sistema proposto dalle
Figlie di San Gaetano, la cifra di
adozione è assai modesta (100 mila
lire, ora portata a poco più di 80 euro);
sbriciolata in tre rate, appare ancora
più esigua, ma non in Togo,
dove tali briciole equivalgono allo
stipendio mensile di molti maestri
di scuola elementare.

A PICCOLI SOGNI
Dopo il ciclo elementare, non c’è
speranza di continuare gli studi: le
tasse per accedere alle scuole superiori
e liceali sono proibitive. Ragazzi
e ragazze cercano di imparare un
mestiere e, magari, mettersi in proprio.
Per realizzare tale sogno occorre
prima di tutto avere un diploma,
senza il quale è impossibile ottenere
la licenza dal governo, e i soldi per
procurarsi strumenti e materiali.
Quando un falegname del luogo,
diplomato in Nigeria, ha presentato
a suor Luciana il progetto di avviare
una falegnameria, con scuola
per giovani apprendisti, e le hanno
chiesto una spinta per avere attrezzi
e rifoirsi di legname, la missionaria
non ha saputo dire di no: ha
scritto alla Caritas di Montegranaro
(Ascoli Piceno), suo paese di residenza,
e sono arrivati alcuni macchinari
e i fondi necessari.
Les Olivieres, così si chiama la
nuova società, è in piena attività: costruisce
e vende mobili di vario genere
e dimensione, preparano assi e
travi per fabbricare case. Mentre i
tre falegnami che gestiscono tale iniziativa
si guadagnano da vivere onestamente,
i quattro giovani imparano
il mestiere e, alla fine dei due anni
di apprendistato avranno il
diploma e potranno realizzare il sogno
di mettersi in proprio.
Ma poiché l’appetito viene mangiando,
suor Luciana ha presentato
alla Caritas marchigiana i progetti
per allargare la società con officine e
relativi corsi di formazione per elettricisti,
fabbri e meccanici. «Les Olivieres
si appoggiano ancora su di me,
ma spero che presto diventino autonomi
e camminino con le proprie
gambe», conclude la missionaria.
Un progetto diventato autonomo
è quello dei mulini per aiutare le madri
di famiglia. Il processo è molto
semplice: un gruppo di donne hanno
chiesto un prestito per comperare
il frantornio, costruire la struttura
muraria, acquistare granoturco, manioca,
palme da olio; una volta macinati
questi prodotti vengono ven-
duti al minuto; il ricavato viene diviso
in v

Benedetto Bellesi




Buona permanenza in…

Kenya. Quando chiudo
gli occhi, strade affollate
di volti percorrono i miei
ricordi. Odori densi, bancarelle
di legno scuro, frutti
verde-arancio riposano
sulla strada ad aspettare
passaggi.
Villaggi su villaggi lungo
l’asfalto che corre verso
nord, che apre paesaggi
variegati, senza orizzonte,
verdi, brulli, inaspettatamente
brulicanti di vita.
Acacie maestose ristorano
la vista di quell’Africa assaporata
sui libri di scuola.
Quando popoli, lingue,
colori si fondevano in
un’unica figura, disegnando
un continente tutto uguale,
senza voce.
Ora l’Africa ha per me
una voce. Volti diversi
s’affacciano a raccontarmi
la loro storia, le loro diverse
e infinite storie, ora si
distinguono al mio udito
lingue dai suoni variopinti.
Riconosco le tracce di
culture lontane, alterate, a
volte lasciate da parte. Ora
vedo. Mi sembra di vedere.
E così vado avanti in
questa ricerca, in questo
cammino da cui non riesco
più a distogliermi.
Nairobi, Sagana,
Nanyuki, South Horr, il
Turkana, Marsabit, nuovamente
Nairobi. Tutto si è
aperto, mi ha ospitato, mi
sono fatta ospitare, ho
parlato con tutti, ho pianto
commossa mille volte.
Ho visto dignità, fermezza,
donne dal volto sincero,
bambini veloci, vivaci,
curiosi. Gentilezza.
Ho sentito qualcosa di
sacro tra le immondizie di
Korogocho, una storia sacra
di sofferenza, sopravvivenza,
ma anche di devozione,
devozione verso
un Dio che vive tra le preghiere,
le mani unite, il rispetto
di chi lavora lì. Di
chi non riesce più a tornare.
Di chi ama troppo e
non riesce a dimenticare.
Sono partita, ho imparato,
ho portato con me a casa
una strana discrezione.
Leggera leggera l’Africa ritorna
in tutto ciò che faccio,
provo, penso.
Con discrezione.
Mi sento più vicina a
tutti, ai miei familiari, ai
miei progetti, a tutto ciò
cui giro intorno. Un’incredibile
discrezione. Non
posso descrivere in altro
modo il mio rientro. E ora,
ora mi preparo a ritornare.
Seriamente.
Ora voglio davvero lavorare.
Finirò i miei studi,
lascerò la fanciullezza che
ancora mi circonda e poi
prenderò in mano le mie
responsabilità. Discreta,
attenta, sincera.
Quando chiudo gli occhi…
Preghiere su preghiere.
La distesa del
Turkana. Il cielo giallastro
di Nairobi. Nanyuki e tutti
i suoi bambini.
Io e la mia decisione.
Grazie, grazie. Questo
piccolo viaggio spero sia
l’inizio di una vita intera.

Giulia è stata in Kenya.
Ha visitato pure le missioni.
E ci ha rivelato le
sue emozioni. Ma anche
gli impegni. Il tutto con
stile intenso.
Nel presente luglio e
nel successivo agosto altri
ragazzi e ragazze, altri uomini
e donne stanno
scrutando «il cielo giallastro
di Nairobi» o «la distesa
del Turkana». Altri
raggiungeranno il Tanzania
o il Brasile. A tutti
l’augurio di buona permanenza.
E che bello sarebbe se,
tornando a casa, tutti potessero
dire «grazie, grazie
»! E iniziare subito una
vita diversa.

Giulia Cavallo




IL BENE SENZA RUMORE di quattro generazioni insieme

Nella quaresima di quest’anno i bambini e i ragazzi
delle scuole elementari e medie di Corti
Sant’Antonio in Costa Volpino hanno raccolto una
somma, che intendono devolvere ai missionari. Di
questi ragazzi, che frequentano la catechesi, non
molti sanno dell’esistenza dei missionari della Consolata;
però ciò che conta è il messaggio che proviene
dal loro cuore, diffuso anche con l’impegno
generoso che hanno dimostrato.
Non sempre ci rendiamo conto del sacrificio dei
missionari, testimoni della fede, che offrono interamente
la vita per gli altri; ma siamo certi che la
preghiera che innalziamo per essi sia la
massima espressione della nostra solidarietà;
e, se talvolta ce ne dimentichiamo,
i nostri don Gianfranco e
don Endrio riaccendono la fiamma.
La somma che inviamo serva a
sostenere l’operato dei padri Rinaldo
Do (Congo) e Sandro Moreschi
(Kenya), che vivono realtà diverse,
ma entrambe difficili.
Cari missionari, nelle vostre preghiere
alla Madonna Consolata ricordatevi
anche della comunità di Corti
Sant’Antonio, perché sia sempre unita nella
fede e nell’amore.
LUIGI COCCHETTI – CORTI SANT’ANTONIO (BG)

Cari missionari, siamo un gruppo di giovani dai
16 ai 25 anni. Tutti gli anni, nel mese di maggio,
facciamo un pellegrinaggio in pullman ad un
santuario che dista 10 chilometri da casa nostra…
L’anno scorso, invece di prendere il pullman, siamo
andati a piedi; inoltre abbiamo fatto pranzo al sacco
e non al solito ristorante.
È stata un’esperienza bellissima, soprattutto
perché, con i soldi risparmiati, abbiamo potuto adottare
un bambino in Brasile. È stata pure una
grande gioia aiutare chi è meno fortunato di noi.
Alcuni ragazzi (che non si sono uniti a noi, ma
sono andati in pullman pensando che si sarebbero
stancati), vedendoci così felici, hanno deciso per il
prossimo anno di fare con noi la stessa camminata.
Facciamo conoscere l’esperienza ad altri giovani
sperando che seguano il nostro semplice esempio.
IL «GRUPPO GIOVANI» – BUSSETO (PR)

Siamo 10 anziani, abitanti in un paesino dell’alta
Val Tidone. Da quando è venuto a trovarci un padre
missionario (che ci ha parlato del terzo mondo),
abbiamo sentito il desiderio di adottare a distanza
un bambino; però non sapevamo come fare,
perché la nostra pensione ci consente ben poco.
Ma ecco che Tina Paulat, catechista dei nostri nipoti
(una santa donna!), ci ha dato un’idea: bere
qualche caffè in meno e destinare gli euro risparmiati
al progetto dell’adozione.
Da allora sono passati tre anni. Oggi siamo molto
orgogliosi di quanto stiamo facendo. Senza atteggiarci
ad eroi, ci sentiamo di dire: «C’è più gioia nel
dare che nel ricevere».
DIECI ANZIANI DI PIANELLO – VAL TIDONE (PC)

Spettabile redazione, fino a qualche tempo fa, una
volta alla settimana ci riunivamo per giocare
a carte; e, fra una partita e l’altra, ci rimpinzavamo
di torte e pasticcini, con l’immancabile spumante.
Siamo un gruppetto di amiche di mezza età.
Tempo fa la nipote di una di noi (missionaria
in Africa) è ritornata al paese per un
breve periodo di riposo. Una sera ci
ha fatto vedere una videocassetta,
che illustra la sua missione. Vedendo
alcuni lebbrosi anziani che
vivono in condizioni precarie (solo
una ciotola di cibo al giorno),
ci siamo sentite un po’ colpevoli.
Pertanto abbiamo deciso di non
mangiare più dolci (che ci fanno anche
male alla salute). Così, quando ci
ritroviamo per la solita partita, ci accontentiamo
di una tazza di caffè. I soldi (che
prima spendavamo per i dolci) li mettiamo in un
salvadanaio e, quando abbiamo raccolto una certa
cifra, li spediamo a quei poveri lebbrosi.

«LE AMICHE DELLA BRISCOLA»
POST SCRIPTUM
Non ci firmiamo, né riveliamo il nome del nostro
paese, perché non vogliamo metterci in mostra e
nemmeno farci intervistare da Emilio Fede.
Quello ci farebbe una telenovela.

Un «bravo» speciale alle «amiche della briscola»,
che rifuggono dai paparazzi della pubblicità. «Il bene
va fatto bene, e senza rumore»: affermano da sempre i
missionari della Consolata…
Le lettere ci propongono modi semplici e concreti di
fare il bene. È un bene che ci piace per tre ragioni:
– coinvolge quattro generazioni (bambini, giovani, adulti,
anziani);
– supera il «privato» ed entra nel «pubblico»: cioè è
fatto insieme; in altre parole (usando la celebre favola
dello scrittore e politico irlandese Jonathan Swift), la
generosità imprigiona il «mostro dell’indifferenza» con
la strategia di «tanti esili fili»… che diventano una
«rete» fitta e robusta;
– c’è pure l’invito a fare altrettanto…
Recita un noto principio etico-filosofico bonum diffusivum
sui: il bene si propaga di per sé… e contagia.

vari




NEMMENO UN BOCCONE DI ARROSTO!

Ho letto con attenzione il
dossier su Porto Alegre/
Brasile «L’utopia possibile»
(Missioni Consolata, aprile
2002). Se un proverbio dice
«molto fumo e poco arrosto»,
dopo la suddetta lettura dico: una nuvola atomica
di fumo e nemmeno un boccone di arrosto! A Porto
Alegre hanno venduto solo illusioni.
Mi permetto di allegare un breve articolo che,
nel dicembre scorso, ho inviato al mensile San Vincenzo
di Torino sullo stesso argomento. Avete il coraggio
di pubblicarlo su Missioni Consolata?
GIANNI ROCCHIETTA – IVREA (TO)

La sfida al nostro «coraggio» è ormai un luogo comune
abusato… Al Forum sociale mondiale di Porto Alegre
eravamo presenti con un redattore (Paolo Moiola)
e un collaboratore (Marco Bello, già volontario in Burundi
e Haiti). Che abbiano riportato i contenuti in
modo «fumoso»… passi. Ma che abbiano sprigionato
«una nuvola atomica di fumo» ci pare francamente esagerato.
Prima di pubblicare il testo del lettore, ricordiamo
che il mensile «San Vincenzo» è dei padri vincenziani;
si ispirano all’omonimo santo, che affermava: i poveri
«sono i nostri signori e padroni».
Scrive il signor Gianni Rocchietta:
«Dalla lettura degli articoli e delle lettere al
direttore comparsi sui numeri di «San Vincenzo
» e usciti dopo il G 8 di Genova e dopo l’11
settembre 2001, è emersa l’enorme gravità dei problemi
della società mondiale: 36 mila bambini
muoiono di fame ogni giorno! Molti invocano «la
sostituzione dell’attuale modello economico occidentale
con uno alternativo che difenda i 2/3 della
popolazione mondiale che vive in condizioni disumane
».
Le persone anziane come me o che conoscono la
storia degli ultimi due secoli sanno che i filosofi K.
Marx e F. Engels hanno pensato di distruggere tutti
i difetti del capitalismo con una nuova dottrina economico-
sociale chiamata comunismo, che dal
1917 ad oggi è stata attuata in molti paesi dell’Europa,
dell’Asia, dell’Africa e dell’America. Qual è
stato il risultato?
Anni fa a Parigi fu pubblicato un libro, frutto
della collaborazione di una decina di giornalisti,
che con un’analisi oggettiva ha denunciato che, dal
1917 al 1990, nei paesi comunisti sono morti 85-
100 milioni di persone per omicidi politici o per
fame. Ahimé: si è passati dalla padella alla brace!
La povertà investe gli stessi Stati Uniti, che hanno
il reddito pro capite più alto del mondo: i vescovi
hanno denunciato che 40 milioni di americani, su
280 milioni, non riescono a sbarcare il lunario.
Pertanto la frase che ricorre sulla bocca dei vincenziani
o dei cattolici in genere
«modificare l’attuale economia
in favore dei poveri»
appare astratta, senza indicazioni
concrete e reali.
E fra le centinaia di migliaia
di persone che hanno manifestato al G8 di Genova
o Seattle non se n’è trovata una che abbia saputo
dire: «Io come singolo sono capace di combattere
la povertà diventando datore di lavoro dei poveri»,
che sarebbe l’unica indicazione concreta e reale
che forse risolverebbe alla radice il problema.
Né il comunismo né il capitalismo sostengono che il
singolo possa risolvere la povertà nel mondo. È il sistema
economico mondiale che viene sottoposto a
giudizio, un sistema che genera… pochi ricchi sempre
più ricchi e tantissimi poveri sempre più poveri, specialmente
nel sud del mondo.
La povertà non è solo questione di posti lavorativi.
Ricordando che molti poveri lavorano (e duramente),
il problema investe le «condizioni generali di lavoro
»: multinazionali, trattamento salariale, prezzi dei
beni e servizi prodotti dagli stessi poveri, infortuni,
salute, tutela dell’ambiente, formazione, famiglia, lavoro
nero e sommerso, ecc.
Caro direttore, dopo aver parlato con padre Gottardo
Pasqualetti (superiore dei missionari della
Consolata in Italia), scrivo per manifestare la mia
più completa adesione alla linea della rivista.
Dire che non esiste guerra «giusta» è dire la verità,
e non essere «comunisti» o al soldo del nemico
(detto fra noi: chi è il nemico?). Dire che la pazzia
suicida dei palestinesi è stata scatenata dalla
pazzia terroristica di Ariel Sharon è dire la verità.
Dire che gli iracheni sono affamati da un embargo
delinquenziale degli Stati Uniti e dei paesi della
Nato è dire la verità. E così è per le azioni (da stato
autoritario) della polizia a Genova e Napoli: aggredire
e impaurire ragazzi e ragazze giovani, ingiuriarli
e picchiarli è un atto vergognoso e denunciarlo è
dire la verità. Dire che la globalizzazione e il capitalismo
stanno portando nel mondo più fame e ingiustizia
è dire la verità.
Non demorda, direttore. Nostro Signore dice: «Il
vostro parlare sia sì, sì… no, no». E ancora: «Beato
chi ha sete di giustizia e verità».
LUCIANO TEODOLI – ROMA

A Roma (da dove scrive il lettore) abbiamo studiato
filosofia e teologia. Numerosi professori, citando san
Tommaso d’Aquino, ci ricordavano che nella storia non
è mai esistito un sistema di pensiero completamente
falso né uno totalmente vero.
Ecco perché, a prescindere da ragioni religiose, suggeriamo
a tutti il rispetto dell’opinone altrui.
Uno solo è veramente ed interamente giusto.

vari