KENYA – Uniti dalla croce

Per celebrare il grande giubileo, una pesante croce è stata portata
in processione attraverso le 22 parrocchie
della diocesi di Marsabit. Una iniziativa efficace per aiutare le comunità a crescere nell’impegno per la giustizia e pace
e promuovere
la riconciliazione
tra le varie popolazioni della diocesi.

A Baragoi fu deciso di portare la grande croce in tutte le cappelle della parrocchia. Per ogni tappa furono fissate alcune celebrazioni liturgiche comuni: via crucis o rosario; esortazione del diacono o della suora; sacramento della riconciliazione e celebrazione dell’eucaristia. Fu dato spazio anche ad altre manifestazioni religiose, secondo la creatività della comunità locale.
La prima cappella ad accogliere la croce, proveniente dalla parrocchia di Sererit, fu quella di Ngilai. C’era tutta la popolazione, maestri e alunni, bambini e adulti, guidati dal parroco, padre Giuseppe Da Fré, e vice-parroco, padre Giovanni Pronzalino. Era l’11 luglio 2000.
Lo scambio avvenne a un incrocio stradale, confine tra le due parrocchie. Padre Aldo Giuliani, parroco di Sererit, la consegnò solennemente dicendo: «Ecco la croce di Cristo! Prendetela: sono certo che vi farà del bene!». Consegna e accoglienza avvennero tra un tripudio di canti e danze delle due comunità.
Il giorno dopo, i cristiani di Ngilai passarono la croce a quelli di Bendera; questi, il mattino seguente, la consegnarono alla comunità di Marti. In ogni tappa i fedeli la onorarono con commoventi preghiere e danze giorniose.

A Marti, però, nutrivamo non poca apprensione. Il posto è tristemente famoso per una serie di scontri tra samburu e turkana che hanno lasciato profonde ferite nella popolazione. Fu, invece, un incontro sereno e tranquillo. Di fronte alla croce cantarono tutti di cuore la misericordia di Dio, meditarono attenti i misteri del rosario e, durante la messa, ascoltarono commossi la lettura della passione di Cristo.
Significativi furono i commenti della gente. «Ascoltare quanto Gesù ha sofferto per noi ci riempie il cuore di grande dolore» disse Peter Logilae. «Eppure, in un secondo tempo, eravamo pieni di gioia» incalzò Petro Echuka. «Le sofferenze di Cristo ci guariscono da odio e risentimento» concluse Augustine Nakio.
Da Marti la croce sarebbe dovuta andare a Nachola. All’ultimo momento gli organizzatori decisero di spendere un paio d’ore a Naturkan, una comunità appena nata nella valle di Suguta. «In questa zona – mi informò il catechista Andrea Dida – abbiamo circa 20 catecumeni e pochi cristiani provenienti da Marti, Kawop e Parkati».
Sembrava di essere fuori del tempo e in un altro mondo: sole caldissimo, pietre, spine dappertutto. Una visione impressionante. Dalla collinetta su cui si radunò la piccola comunità si vedevano in basso Ter-Ter, Nakupurat, Lochootom e, in lontananza, Lomaro e la valle di Suguta. Eravamo sulle pendici di quell’ampia e lunga spaccatura della terra chiamata Rift Valley.
Per raggiungere questa zona non esistono strade, eccetto una pista che la missione ha fatto tracciare, impiegando la gente del posto, compensandola col «cibo in cambio di lavoro». La popolazione vive col minimo necessario, che è sempre scarso. Abituato ad altre parti del Kenya, dove le comodità modee sono abbastanza diffuse, mi venne il dubbio che questo pezzo di terra non facesse parte della stessa nazione.
Mentre contemplavo tanta bellezza intatta e selvaggia, si avvicinò un bambino di circa sette anni, magrissimo, la pancia gonfia e ferite fresche e da poco medicate sulla testa e sulle braccia. Guardai con sorpresa padre Da Fré, che mi spiegò cosa era capitato: «Mentre stava mungendo una cammella per mettere qualcosa nello stomaco, fu battuto a colpi di panga (coltellaccio). Ora vive con il catechista. Sarà un nostro futuro seminarista!» concluse il padre accarezzando il bimbo.
Rimasi impressionato nel vedere la gente di quella zona così povera accogliere la croce con tanta gioia, che emanava dai volti sorridenti: sembrava non avere alcun problema.

D a Naturkan la croce proseguì per Nachola, come stabilito; il giorno seguente raggiunse Baragoi, sede parrocchiale.
Nel mese di maggio, questa comunità aveva programmato la celebrazione del proprio giubileo. Come momento culminante e a ricordo dell’evento, era stato deciso di piantare una croce, con la scritta «2000 anni di Redenzione», in cima alla collina di Logeterni, a circa 5 chilometri dal centro abitato. Ma i rischi contro la sicurezza delle persone, causati dalla tensione tra turkana e samburu, consigliarono di rimandare tutto a tempi migliori.
La peregrinazione della croce attraverso la diocesi e il suo arrivo a Baragoi offrirono l’occasione per concretizzare tale desiderio. Al suono della campana, tutti i cattolici e molti non-cattolici si radunarono nell’Huruma Village (villaggio della misericordia), la casa per anziani costruita dalla parrocchia.
Poiché la maggioranza della gente che vive vicino a questa casa è turkana, si temeva che potesse sorgere qualche problema con i samburu, poiché la tensione non era ancora del tutto smaltita. Ma non ci furono problemi: turkana e samburu si radunarono insieme pacificamente, consapevoli che Cristo è al di sopra di ogni differenza.
La croce preparata dalla parrocchia, portata a spalle da giovani, apriva la processione; seguiva lo stendardo parrocchiale, sostenuto da due donne: l’una turkana e l’altra samburu. I vari gruppi della comunità intercalarono canti, ognuno nella propria lingua. Mentre la fiumana di gente guadava il fiume Baragoi e il torrente che scende da Logeterni, pensavo al passaggio degli israeliti attraverso il Mar Rosso.
In cima alla collina la comunità di Logeterni aveva fatto un bel lavoro: strade pulite, altare addobbato, area circostante decorata con pietre bianche. Piantata la croce, fu celebrato il sacrificio eucaristico.
Al termine Thomas Lolkirik mi sussurrò: «Mi ha molto impressionato vedere quelle due madri, rivestite degli oamenti caratteristici delle rispettive etnie, portare lo stendardo in processione in perfetta armonia. Un fatto che ha commosso molta gente: ho visto persone versare qualche lacrima. Due donne semplici, che non hanno mai messo piede in un’aula scolastica, sono state una testimonianza di ciò che la fede cristiana può operare. Un bellissimo esempio per la comunità di Baragoi; uno stimolo per lavorare insieme, mettendo da parte le rivalità tribali che da troppo tempo provocano sanguinosi conflitti».
È pure la speranza di noi missionari: possa la celebrazione giubilare portare a tutti gli abitanti di Baragoi, cattolici e non cristiani, pace e unità, amore e fiducia reciproca!

Daniel Lorunguya




Il cuore in Kenya

Caro direttore,
il tuo intervento a Radio Maria è stato meraviglioso. Grazie per averci regalato un’«ora missionaria». Io avrei voluto dire tante cose; ma, pensando ai nostri amici in difficoltà, un nodo alla gola me lo ha impedito.
Sono appena ritornato dal Kenya e, con me, ho portato l’angoscia di tanta gente affamata a causa della siccità. In 15 giorni ho visitato alcune missioni per offrire ai padri la mia amicizia e quel poco che, con l’aiuto di benefattori, ho portato. Quante richieste! Specialmente per il cibo e qualche pompa per irrigare. Anche da fratel Argese l’acqua scarseggia, ma lui con il suo grande ingegno la va a cercare ovunque.

Nino è un caro amico. Forse i lettori ne conoscono la passione missionaria insieme alla moglie Mariangela e al figlio Giorgio, morto giovanissimo. Missioni Consolata, giugno 1986, ne aveva parlato… Il cuore di Nino batte soprattutto per il Kenya, dove vivono alcuni suoi figli adottivi. Un Kenya, dove due milioni di persone rischiano la fine, data la siccità. E la fame alimenta pure il brigantaggio.
«Noi – scrive dal Kenya padre Attilio Ravasi – tiriamo avanti come possiamo. Ora in città si razionano acqua e luce. L’economia, già in difficoltà, sta subendo un colpo mortale. Gioi fa ho rischiato grosso. Accompagnavo in auto Piera, una laica missionaria da tanti anni in Kenya, all’ospedale di Sololo, e siamo stati braccati per strada da alcuni banditi: hanno sparato, obbligandoci a fermare; ci hanno fatto sdraiare per terra e spogliato di tutto. Io avevo poco, ma Piera ci ha rimesso parecchi soldi e il computer portatile, appena giunto dall’Italia. Però ci hanno lasciato la cosa più bella e importante: la vita. Ma anche tanta tanta paura…».

Nino Maurel




NAIROBI (KENYA) – «Polepole»… entra in episcopio

Anthony Ireri Mukobo,
primo missionario
della Consolata kenyano
e vescovo ausiliare
di Nairobi dal 18 marzo,
è entrato in servizio
in punta di piedi,
ossia «polepole».
Una vita semplice la sua,
ma con un’idea chiara della nuova responsabilità:
imprimere maggiore spirito missionario
alla chiesa del Kenya.

È la prima volta. Non mi era mai capitato di intervistare un nuovo vescovo africano. Temevo che il compito non mi sarebbe riuscito, sia per la mia mancanza di esperienza, sia per la naturale circospezione dell’interessato. Invece tutto è filato liscio, con soddisfazione per entrambi.
Seduti attorno ad un tavolo, monsignor Anthony Ireri Mukobo, missionario della Consolata, consacrato vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Nairobi (Kenya) il 18 marzo scorso, mi ha raccontato la sua storia in modo semplice e cordiale.
È una storia che non ha nulla di straordinario, ma profondamente intessuta dell’eroismo del dovere quotidiano e della ricerca serena della volontà di Dio.
Ve la offro come il protagonista me l’ha raccontata.
Non cristiano
fino a 16 anni
Sono nato il 23 settembre 1949 in un piccolo villaggio chiamato Mufu, nei dintorni di Kyeni. Mio papà seguiva la religione tradizionale. È voluto diventare cattolico soltanto dopo la mia ordinazione sacerdotale. Io stesso ho avuto la grande gioia di battezzarlo, con il nome significativo di Paolo. Mia madre Maria, invece, era cattolica. È morta quando ero bambino. Ho due fratelli e due sorelle maggiori di me. Il papà è morto mentre mi trovavo missionario in Colombia.
Io non ero ancora cristiano quando frequentavo la scuola elementare a Kyeni e poi la Kangaru secondary school di Embu. È stato alla fine del ciclo scolastico che ho deciso di entrare nella chiesa cattolica: ho frequentato per due anni il catecumenato e, nel natale del 1965, padre Livio Tessari mi ha battezzato nella parrocchia di Kyeni.
Approfondendo la mia fede e vivendo con i missionari, sentivo sorgere in me il desiderio di diventare sacerdote, stupito com’ero dalla vita che conducevano queste persone venute da lontano. Avevano lasciato tutto e tutti per evangelizzare e rendere migliore la mia gente, sia a Kyeni sia nelle missioni vicine.
All’inizio non li conoscevo bene; ma mi impressionavano molto per dedizione, spirito di sacrificio e disponibilità giorno e notte. Oltre a padre Livio, ricordo con riconoscenza i padri Giuseppe Maggioni e Bruno Porcu. Quest’ultimo lavorava molto bene nella promozione spirituale e sociale tra la gente di Kyeni.
Verso il termine delle scuole secondarie ho manifestato il desiderio di diventare sacerdote al padre Angelo Dwera, incaricato per la pastorale vocazionale del seminario di Nyeri. Ma i parenti non erano molto contenti della mia decisione.
Intanto, però, la Provvidenza mi apriva un’altra strada facendomi incontrare padre Giuseppe Demarie. Questi, con pazienza e saggezza, mi spiegava le diversità tra il prete diocesano e il religioso-missionario. Mi raccomandava di chiedere luce al Signore nella preghiera.
Un kenyano
in Colombia
Finita la scuola, ho scelto di diventare anch’io come uno dei missionari che avevo conosciuto. Molti sacerdoti diocesani e studenti del seminario di Nyeri hanno cercato di dissuadermi, dicendo: «Un giorno te ne andrai e ci lascerai, mentre qui c’è tanto lavoro!». Ma la chiamata alla missione era più forte di me. Così ho fatto domanda di entrare tra i missionari della Consolata e sono stato accolto nel seminario di Langata (Nairobi). Era il 1972.
Eravamo in otto. Frequentavamo i corsi di filosofia nel vicino seminario diocesano di St. Thomas Aquinas. Al termine degli studi, nel 1974 entrai in noviziato. Ma ero rimasto solo. Gli altri avevano lasciato.
L’anno di noviziato è stato determinante per la mia vita. Avevo il maestro, padre Luigi Tempini, tutto per me: sotto la sua guida ho conosciuto lo «stile» dei missionari della Consolata, ho sciolto dubbi e difficoltà e sono entrato «ufficialmente» nella nuova famiglia.
Finiti gli studi di teologia ho esercitato per un anno il diaconato a Karima e il 5 gennaio 1980 sono stato ordinato prete a Nairobi da monsignor Njiru Silas, vescovo di Meru.
H o vissuto le prime esperienze di sacerdote nella parrocchia di Kyeni e Karima, dove ho lavorato per due anni. Poi sono stato inviato a Roma, per frequentare il pontificio istituto di spiritualità Teresianum.
Nel 1983, conseguita la licenza in spiritualità, sono partito per le missioni della Colombia. Gli inizi sono stati difficili: l’impatto con una nuova lingua e cultura è stato faticoso.
La gente non era abituata a vedere un sacerdote nero. Più di una volta ho raggiunto a cavallo varie comunità sconosciute per celebrare la messa, ma la gente continuava ad aspettare il sacerdote. Si accorgeva che ero io soltanto quando avevo indossato i paramenti…
Superate a poco a poco le difficoltà, si è creato un clima amichevole. Sono rimasto in Colombia sette anni, lavorando nel Caquetá (Puerto Rico), nel Cauca (El Tambo) e a Manizales come incaricato della pastorale vocazionale.
Richiamato in Kenya, sono stato destinato al seminario filosofico di Langata, addetto alla formazione dei seminaristi (1991-93). Poi sono nuovamente ritornato al lavoro pastorale, prima come viceparroco a Timau e poi come parroco a Karima (1995).
Insegnavo anche missiologia e spiritualità nel seminario maggiore di Nyeri.
Per una chiesa africana
più missionaria
Tutto ciò fino a quando mi è arrivata la nomina a vescovo ausiliare di Nairobi.
Ora inizia una nuova fase della mia vita. L’arcidiocesi di Nairobi ha problemi immensi. Una grossa croce mi è caduta sulle spalle. Ma, come ogni altra incombenza precedente, è una croce che viene dal Signore: Egli mi darà anche la forza per portarla. Spero di trovarmi bene e di aiutare con tutte le energie l’arcivescovo, monsignor R. Ndingi.
Cosa farò adesso? Prima di tutto, sarà necessario sedersi attorno ad un tavolo con l’arcivescovo, l’altro vescovo ausiliare, D. Kamau, e i diversi incaricati della pastorale, sacerdoti e laici, per pianificare il lavoro e camminare insieme.
Il fatto che io sia missionario della Consolata è molto positivo: i confratelli in Kenya non mi faranno sentire solo. Essi continueranno a essere la mia famiglia.
Penso, inoltre, d’impegnarmi per infondere lo spirito missionario nella chiesa locale, affinché alcuni sacerdoti e laici diventino evangelizzatori in altri paesi del mondo, come 99 anni fa i missionari della Consolata. Sono partiti da Torino per venire ad evangelizzare il Kenya…

G razie, monsignor Anthony, per la sua disponibilità. Auguri sinceri per il suo nuovo e non facile lavoro missionario.

Achille Da Ros




KENYA & TANZANIA – Dialogare… da dove cominciamo?

Il fenomeno delle sètte costituisce una sfida
per le giovani chiese in Africa. Alcune di esse vorrebbero azzerare un secolo di evangelizzazione.
Eppure è urgente aprire un dialogo anche con loro: un nuovo fronte missionario di non facile attuazione.

«Lodiamo il Signore, fratelli, prima di continuare il nostro viaggio! Preghiamo!». Con voce forte e suasiva, il predicatore di strada John Mwangi si fa largo tra la folla alla stazione degli autobus di Nairobi, abborda un gruppo di persone in attesa di partire per Ngong, sale sul bus e continua il suo sermone.
La sua predicazione è basata su un versetto della bibbia, quasi sempre lo stesso. Finita la predica, chiede ai passeggeri un minuto di preghiera, in silenzio, occhi chiusi e testa bassa. E conclude con la terza parte, la più lunga e importante: «E ora, fratelli, prima di lasciarvi, se qualcuno vuole donare uno scellino per la parola di Dio, può farlo».
È così che, da due anni, Mwangi si guadagna da vivere; lo confessa candidamente e giura di essere un predicatore convinto e genuino. Ma ammette che altri usano la parola di Dio per i loro interessi.

A Githuri, sobborgo di Nairobi, sta prendendo piede una setta anticristiana per soli uomini. Ispirandosi alle tradizioni ataviche, lo sguardo rivolto al monte Kenya, gli adepti cantano in kikuyu le lodi di Ngai (Dio).
Kimani, un membro della setta, dice che la religione tradizionale è l’unico mezzo per unire la gente, mentre il cristianesimo, secondo lui, è causa di divisione. «Guarda a quante sètte ha dato origine: tutte in guerra tra di loro» aggiunge.
Il movimento non ha leader, perché davanti a Dio sono tutti uguali. Non credono in Cristo; ma buona parte del loro insegnamento si rifà all’Antico Testamento. Si considerano dei «Sansoni» redivivi, col compito di salvare il mondo dai «filistei» cristiani. Non si tagliano i capelli e temono le donne: potrebbero diventare potenziali Dalila.
L’identità più segreta è svelata solo ai nuovi adepti. La disciplina è molto rigida; chi disubbidisce è punito severamente. Sembra, tuttavia, che tra i loro ideali ci sia quello di servire la gente. Per esempio, si danno da fare per ridurre borseggi alla stazione degli autobus. Sono convinti che, con l’aiuto di Dio, cambieranno il mondo in un luogo di delizie.

A vvolti in tuniche multicolori, i seguaci della setta Thai invadono le strade di Nairobi; in nome di Mugeka, creatore e protettore di tutti, predicano la fedeltà coniugale. Se la prendono con i contracettivi, ma chiudono un occhio per i condom.
Molti aderenti a questa setta sono giovani e fanatici: arrivano con grandi altoparlanti; predicano anche quando la gente è poca o indifferente. Le zone residenziali, soprattutto, sono oggetto delle loro crociate.

S iamo a Nyeri, nel cuore della terra dei kikuyu. Poco lontano dalla città l’Outspan Hotel è pieno di turisti. Oltre il fiume Chania si estende il Mathari, dove i missionari della Consolata hanno costruito una roccaforte cristiana, con ospedale, scuole, seminario, istituti tecnici, tipografia, casa madre di una congregazione di suore africane.
Eppure, in città, all’ombra di un mugumo, pianta sacra per i kikuyu, in una piccola capanna-santuario, alcuni anziani discutono della loro religione tradizionale, incuranti delle beffe ironiche degli abitanti della zona. Uno di loro legge una vecchia bibbia. Per terra ci sono coa di animali differenti, teschi di capre, lattine di plastica, zucche svuotate.
Un uomo vestito di bianco sostiene che quel luogo è la fonte della loro antica fede religiosa: è la «chiesa» di Gikuyu e Mumbi, la coppia che ha dato origine all’etnia kikuyu.
Chege Kibiro, l’uomo vestito di bianco, è il «prete» del santuario, un esperto di tradizioni locali. Spiega con orgoglio che tale santuario fu costruito da alcuni vecchi mau mau, i guerriglieri del Kenya che hanno lottato per liberare il paese dal governo inglese e missionari cristiani. «La nostra religione – afferma Kibiro – è stata dispersa dall’uomo bianco. Con l’indipendenza va rivitalizzata. Fa parte della libertà per cui abbiamo combattuto».
La decisione di creare tale santuario fu presa il 14 aprile 1989, durante un raduno di ex combattenti. Vicino dovrebbe sorgere un istituto tecnico, dedicato a un eroe della lotta per l’indipendenza. È già stata inoltrata all’amministrazione governativa la richiesta di un pezzo di terra per tale costruzione, vicino a un grande mugumo naturalmente.
Kibiro è stato scelto come sacerdote in virtù dei suoi poteri straordinari, che risalgono al leggendario Mugo wa Kibiro, il profeta kikuyu che aveva previsto un’invasione della loro terra da parte di gente «con la pelle come quella di un rospo» (sarebbero i colonialisti e i missionari).
Il santuario è molto frequentato, spiega il custode della tradizione. Vengono anche alcuni politici per consultare la divinità tradizionale. All’ombra dell’albero sacro, si sacrifica una capra e si gettano i dadi: così si rivela la volontà divina.
E tutto questo avviene a pochi chilometri da Tetu e da Mathari, dove i missionari della Consolata hanno cominciato la loro attività nel lontano 1902. Quasi cent’anni fa!
Una grande sfida per la giovane chiesa di Nyeri e per i missionari.

Mtoto wa Siasa

Alessandro Di Martino




KENYA – Tra passato e futuro

Squarci di vita di un’importante tribù.
È vivo il desiderio di far convivere tradizione e modeità.
In questo contesto si innesta l’opera della chiesa, pastorale e di promozione umana.
Anche con l’aiuto di generosi… piemontesi.

D ire «Piemonte» significa evocare le montagne, richiamare alla mente il mormorio di mille ruscelli, sorgenti, fontane ancora ricche d’acqua fresca e cristallina, elemento indispensabile per la nascita di una vegetazione brillante e rigogliosa.
Dire «Africa» significa, invece, quasi sempre evocare immagini di deserto, aridità, sete. E non è un caso, allora, che la generosità di alcuni piemontesi abbia fatto sì che uno dei beni più preziosi per gli esseri viventi potesse giungere in un pezzo d’Africa povero e assetato.
I piemontesi in questione sono il cuneese fratel Mario Beardi, missionario della Consolata (che ha costruito 10 pozzi), e un benefattore che desidera restare anonimo e ha fornito all’intraprendente missionario i mezzi economici per realizzare il suo obiettivo.
UNA MISSIONE E TANTI POZZI
La terra africana di cui stiamo parlando è Chiga: una missione «giovane» (appena 10 anni di vita), che fa parte dell’archidiocesi di Kisumu, città sulle sponde del lago Vittoria, la terza del Kenya in popolazione, commercio e industria.
Chiga è una delle quattro parrocchie legate alla cattedrale di Santa Teresa e si estende su un’area lunga 22 km e larga 15, con una popolazione di circa 80 mila persone, distribuite su una superficie di 330 kmq. La missione comprende 26 villaggi, ciascuno dei quali ha la scuola elementare (spesso molto povera), una chiesetta di frasche, paglia, fango e un «centro di salute», dove un infermiere governativo arriva ogni tanto a distribuire medicinali.
Delle 26 scuole, 16 sono sponsorizzate dall’archidiocesi e offrono il loro servizio a circa 8 mila alunni, suddivisi negli otto anni dell’obbligo. Ma ogni scolaro deve pagare una retta; per cui soltanto il 70% di loro può permettersi di frequentare la scuola. Vi sono anche quattro scuole superiori, che danno la possibilità di completare gli studi e ottenere il diploma di licenza con cui accedere all’università.
Tutti i villaggi fanno capo alla parrocchia di Santa Maria, sede dei missionari. Qui, in questi ultimi tre anni, sono sorte importanti opere che toccano tutti i settori della vita sociale e che non avrebbero potuto vedere la luce se l’impegno di fratel Mario, nella costruzione di pozzi, non avesse permesso di far vivere oltre i limiti della pura sopravvivenza una terra difficile e singolare.
Singolare, perché la zona che circonda il lago Vittoria riceve acqua (e a volte anche in abbondanza); ma il terreno impermeabile non è in grado di accoglierla. Ecco quindi che, a mesi di grande siccità, si alternano periodi di vere e proprie inondazioni.
Vita, dunque, non facile quella dei luo, il popolo in mezzo al quale è sorta la missione di Chiga. Questa popolazione si è insediata da secoli sulle sponde orientali del lago Vittoria: vanta tradizioni di grande interesse, come la sacralità del matrimonio, il rispetto per l’anziano… valori che la nostra società modea, forse, si è affrettata a dimenticare (vedi inserto). Proprio qui sta il pericolo: che l’esasperata modeizzazione porti anche i luo a perdere la propria identità, adottando atteggiamenti e usi che non sono i loro.
Ma l’arcivescovo di Kisumu, Zacchaeus Okoth, è stato lungimirante: dopo aver esortato, nel 1992, i missionari della Consolata ad assumere la responsabilità della parrocchia, ha accolto con entusiasmo la loro proposta: nel 1995 ha sostituito il parroco, l’italiano Luigi Bruno, con un luo, Matthew Ouma, attualmente coadiuvato da un viceparroco, pure luo, John Wao Onyango.
Nessuno meglio di padre Matthew è in grado di coniugare gli aspetti positivi del mondo moderno con la preziosa tradizione del suo popolo. Ed è proprio questo che sta facendo, impegnandosi ad aiutare la sua gente a non dimenticare il significativo cerimoniale nella celebrazione dei matrimoni, cerimoniale che invece i luo (purtroppo attratti dall’aspetto omologato del matrimonio all’europea) tendono a trascurare.
Padre Matthew li guida con discrezione e intelligenza, cercando di evidenziare il lato negativo di un comportamento troppo lontano dalle loro tradizioni e troppo vicino al consumismo, capace di spazzare via decenni di consuetudini e valori.
Anche presso i luo il denaro e la concezione di una posizione sociale, che si conquista più con l’apparenza che con la sostanza, cominciano a mietere molte vittime: la prova più evidente la si riscontra in occasione del funerale, quando la famiglia del defunto arriva a indebitarsi pesantemente pur di offrire ai partecipanti un banchetto tanto indimenticabile quanto costosissimo.
I due sacerdoti sono costantemente impegnati su questo fronte, che ritengono di loro stretta competenza; mentre un gran numero di iniziative le lasciano invece ai vari comitati parrocchiali: liturgico, pastorale, pubblica istruzione, consiglio dei giovani, comunità di base…
I parrocchiani, giovani e vecchi, sono coinvolti e tutti sono fieri di appartenere a un gruppo nel quale, attraverso riunioni settimanali o quindicinali, organizzano le più svariate attività. Vi sono poi 76 piccole comunità di base che funzionano con tanto di presidente, consiglio e segretario: si radunano ogni settimana per pregare e preparare i sacramenti. Questi gruppi funzionano indipendentemente dalla presenza del parroco, che (al massimo) può essere invitato a esprimere la sua opinione.
Se i fedeli non fossero responsabilizzati e non si gestissero autonomamente, sarebbe troppo arduo il compito di padre Matthew. Questi già spende gran parte delle sue energie per cornordinare il tutto e visitare settimanalmente i centri disseminati sul vasto territorio parrocchiale.
FANTASIA DI OPERE
Sono proprio questi centri ad avere beneficiato della capacità tecnica di fratel Mario Beardi. Il missionario è riuscito, in ciascuno di essi, a scavare un pozzo e installare una pompa a mano; oppure, dove c’è energia elettrica, una pompa che spinge l’acqua in una cisterna da cui la gente può attingere.
A noi (abituati ad aprire il rubinetto d’acqua) può sembrare poca cosa; ma, per la gente di Chiga, si tratta di un bene preziosissimo: anche se non è sufficiente per tutti gli usi, soprattutto agricoli, l’acqua del pozzo almeno disseta e allontana le malattie.
L’acqua piovana non è mai potabile, poiché ristagna nelle crepe che si sono aperte durante il periodo di siccità e forma pericolose pozzanghere che richiamano zanzare, portatrici di malaria. I primi ad essee colpiti sono bambini e anziani, ma tutta la popolazione è a rischio per colera o dissenteria, malattie spesso mortali.
La costruzione dei pozzi è la dimostrazione di come sia indispensabile, prima di avviare un processo di evangelizzazione, offrire alla gente la possibilità di sopravvivere dignitosamente. Solo così la missione diventa un centro di promozione dello sviluppo, dove la popolazione, nonostante malattie, carestie o epidemie, cresce e trova nella comunità cristiana un punto di riferimento; non solo per ricevere assistenza spirituale, ma anche per essere soggetto di sviluppo umano e progresso sociale.
Il pozzo non è certamente l’unica «trovata». C’è anche l’«Istituto tecnico magistrale della Consolata» (Cttc), con candidati scelti tra gli studenti che terminano l’ottavo anno della scuola d’obbligo. Qui fratel Mario Beardi esplica tutte le sue capacità: oltre a dirigere la scuola, sovrintende ai vari corsi di falegnameria, meccanica, elettricità e sartoria, aperti a ragazzi e ragazze, tenuti unicamente da maestri locali. Inutile sottolineare la grande importanza del Cttc, che ha il delicato compito di permettere ai giovani di mantenere la loro identità, attraverso la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro.
Non lontano dall’Istituto tecnico, sorge la «Piccola Casa», dove sono raccolti bambini poliomielitici. È un’opera caritativa che, sostenuta da benefattori italiani, si propone di seguire i bambini più gravi, abbandonati spesso dai genitori, vittime di tabù ed ignoranza dei parenti. Spesso questi bambini si trovano soli, in quanto le malattie e l’Aids li hanno privati dei genitori.
Essendo la percentuale degli orfani molto alta (15%), la parentela non sempre è in grado di assorbirli completamente. Ecco, allora, che per loro si apre la porta della «Casa degli orfani», dove hanno la possibilità di frequentare la scuola, cominciando dall’asilo nido. Questo è dedicato a Luca Delfino, un giovane cuneese, morto tragicamente all’età di 21 anni.
Ancora una volta un forte legame unisce il Piemonte all’Africa, grazie ad una mamma che, invece di chiudersi nel suo dolore, ha voluto offrire a tanti bimbi la possibilità di crescere, come era cresciuto il suo Luca. L’antica conoscenza tra mamma Lucia e fratel Mario è stata l’occasione per far nascere questa importante opera, punto di partenza dello sviluppo sociale di Chiga. L’asilo è guidato dalle suore della Beata Vergine e accoglie bambini di quattro anni, che in un biennio si preparano alla scuola dell’obbligo.
Di grande importanza sociale è pure la «Casa delle vedove», dove sono ospitate alcune donne. Queste, se non avessero un luogo in cui rifugiarsi, sarebbero costrette a sottostare al fratello del marito defunto in condizione di semischiavitù, private della possibilità di decidere autonomamente del loro futuro.
Recentemente è sorto, accanto alla bella e ampia chiesa, il Centro pastorale, ove si radunano catechisti e maestri cattolici. Questo è il «cuore apostolico» della missione: qui si svolgono incontri, seminari e conferenze; qui hanno sede i diversi gruppi caritativi, il catecumenato e l’assistenza agli orfani e alle vedove.
Vi è, infine, il «Centro sociale per la gioventù e lo sviluppo», nel quale i giovani organizzano feste, convegni e iniziative varie. Un’idea «invidiata» da altre parrocchie.

L a missione di Chiga ha compiuto passi da gigante. Con il contributo di generosi benefattori, si è avviata verso un futuro meno… grigio.
Ora rimane aperta una sfida: saprà il popolo luo fare tesoro di queste realizzazioni e valorizzarle anche in seguito? Saprà mantenere il senso di responsabilità e comunione anche quando i missionari, terminato il loro compito di «seminatori», se ne andranno?
È questo, per ogni missionario, il compito più difficile: evitare di fare perennemente da stampella, bensì educare all’autogestione responsabile. Solo così i soggetti, pur tra errori e difficoltà, impareranno a camminare con le proprie gambe.
I padri Matthew, John e fratel Mario continuano a seminare, mantenendo quel prezioso legame di fratellanza e solidarietà tra il popolo italiano e quello luo, ben sapendo che il futuro dell’Africa dovrà restare nelle mani degli africani. Lavorando, affinché questi imparino a riconoscere il bene con umiltà, riceverlo con dignità e restituirlo con altrettanta generosità.

Teresa de Martino




KENYA – …Affetto cercasi…

Si chiama Familia ya ufariji, cioè famiglia della consolazione: è la casa per i bambini di strada che i missionari della Consolata hanno costruita alla periferia di Nairobi. In un ambiente di serenità e amore,
i ragazzi sono aiutati a riacquistare fiducia in se stessi e nella società a riavere l’affetto di cui sono stati defraudati.

Kamau mostra delle cicatrici sulle gambe: la madre, in un momento di pazzia, lo aveva messo nell’acqua bollente e poi abbandonato nel bosco. Fu raccolto da un vecchio ubriacone, che lo tenne in casa per qualche giorno. Ma poiché il bimbo piangeva per le scottature, cominciò a picchiarlo, poi decise di portarlo all’ospedale. Quando fu guarito, il ragazzo si mise a vivere per le strade di Nairobi, finché fu preso dalla polizia e rinchiuso nel riformatorio di Kabete.
Come Kamau, altri 60 mila bambini di strada, a Nairobi, potrebbero raccontare simili storie di maltrattamenti. Una cinquantina di essi sono accolti nella Familia ya ufariji (famiglia della consolazione), una iniziativa avviata dai missionari della Consolata per accogliere i ragazzi di strada della capitale kenyana.

CORSA A OSTACOLI
L’idea di costruire la Familia ya ufariji nacque nella conferenza regionale del 1994. Durante le discussioni rimbalzava spesso una domanda: «Come missionari della Consolata, cosa possiamo fare, oltre alle tradizionali attività parrocchiali e diocesane, per rispondere alle attuali sfide della società del Kenya, come Aids, bambini di strada, ragazze madri, senzatetto?». Fu deciso di intraprendere un’opera sociale. Dopo un sondaggio in cui furono interpellati tutti i missionari, fu scelto di dar vita a un centro di accoglienza dei bambini di strada.
Lo stesso anno fu comprato un vasto appezzamento di terreno a Kahawa, periferia nord di Nairobi, e creato un comitato per disegnare il progetto e raccogliere i fondi. Ma la gente del posto, già impaurita dalla criminalità cui dovevano far fronte, non voleva ragazzi di strada nella zona; non fu facile convincerla che la loro presenza non avrebbe causato alcun inconveniente.
Più difficile fu superare gli ostacoli burocratici per ottenere l’autorizzazione e soddisfare tutte le pratiche legali. Una volta presentati gli incartamenti agli uffici comunali di Nairobi furono sottratti; una seconda volta smarriti. Finalmente, nel gennaio del 1997, si poté dare il via alle costruzioni. «Dato che questa zona vanta uno dei più alti tassi di criminalità di Nairobi – racconta padre Alessandro Signorelli, direttore del Familia ya ufariji -, cominciai a circondare la proprietà di un alto muro con filo spinato e istallare un potente allarme, per la sicurezza mia e dei ragazzi. Ciò nonostante, una notte i ladri sono riusciti a entrare indisturbati e rubare il ferro già cementato nelle fondamenta».
Ultimata la prima fase del progetto con la costruzione di due dormitori, salone-refettorio, cucina e casa dei padri, passarono altri mesi prima che l’ispettore governativo approvasse la funzionalità degli edifici e le autorità competenti concedessero il permesso di prelevare i ragazzi dal riformatorio. Nel settembre 1998 furono accolti i primi 12 ragazzi; altri scaglioni arrivarono nei mesi successivi, a mano a mano che procedeva la costruzione di altri dormitori.
Oggi sono 50 i bambini accolti nella casa; a settembre di quest’anno ne entreranno altrettanti. «Quando il progetto sarà completato – spiega padre Alessandro – potremo ospitare 120-150 ragazzi. Non intendiamo superare questo numero; ne scapiterebbe la formazione. Inoltre accogliamo solo i più piccoli, tra quattro e sei anni, perché più malleabili, indifesi e bisognosi di affetto».
«Il progetto prevede di prendersi cura solo dei maschi?» domando.
«Per il momento, sì – risponde padre Alessandro -. In futuro si vedrà: se trovassimo una comunità di suore disposte a vivere e lavorare in questa istituzione, potremmo estendere il progetto anche alle bambine».

INFANZIA BRUCIATA
Secondo le statistiche ufficiali, a Nairobi vivono circa 60 mila bambini di strada; la metà di essi non rientrerebbero in questa categoria: sono costretti dai genitori a mendicare per le vie della città; hanno quindi una famiglia cui la sera fanno ritorno per consegnare quanto hanno raccolto.
L’altra metà, invece, ha tagliato ogni legame con la propria famiglia: alcuni sono figli di prostitute; altri sono scappati dai maltrattamenti di genitori violenti e maneschi; altri ancora sono stati abbandonati da parenti poveri e disperati.
In città i ragazzi vivono nelle zone dove sono più sicuri e meno infastiditi; si aggregano in piccole bande per aiutarsi e sentirsi più protetti. Per sopravvivere fanno lavoretti improvvisati; chiedono l’elemosina; cercano nei rifiuti; poi condividono quello che hanno racimolato. Molti di essi si arrangiano ricorrendo a furti e altre attività illegali.
Ogni tanto la polizia fa delle retate, specie se i bambini sconfinano nel centro della città e in luoghi di maggiore affluenza turistica. Nella rete, però, cadono solo i pesci piccoli e inesperti. Portati in caserma, i ragazzi vengono interrogati; alcuni (pochi in verità) raccontano la loro storia e sono riconsegnati ai genitori e parenti; i più tacciono sulla loro provenienza e vengono rinchiusi nel riformatorio, dove sono costretti a una vita inumana. Alcuni riescono a scappare e ritornare sulla strada; gli altri aspettano che qualche organizzazione caritativa li richieda per offrire loro un futuro migliore.
«Tutti i ragazzi che accogliamo ci vengono affidati dal tribunale dei minori, dopo un esame della loro situazione sanitaria e familiare – continua padre Alessandro -. La legge proibisce qualsiasi altro canale non ufficiale, per impedire eventuali commerci di minori».
Quando arrivano alla Familia ya ufariji, i bambini hanno ancora i segni dell’infanzia bruciata: sporcizia e denutrizione, maltrattamenti e malattie, piaghe e scabbia. Soprattutto, sono chiusi e sospettosi di tutto e di tutti. Di fronte a qualsiasi domanda temono che li si voglia interrogare per riportarli al riformatorio o alla famiglia di origine.
In un paio di settimane i bambini si rimettono fisicamente in sesto. Più lungo e laborioso risulta, invece, aiutarli a rimarginare le ferite interiori, a riacquistare il sorriso e la naturale loquacità.

UNA VITA NORMALE
Tra i vari fabbricati non vedo alcun edificio scolastico né chiesa. «I più piccini vanno all’asilo, che si trova appena fuori delle mura – spiega padre Alessandro -. Gli altri camminano un po’ di più per frequentare le varie scuole pubbliche disseminate nella zona. La domenica vanno a messa in parrocchia, distante due o tre chilometri. Il sabato pomeriggio possono mescolarsi con i ragazzi del circondario, che vengono a giocare con loro nella nostra proprietà. Tutto questo li aiuta a liberarsi dal complesso di inferiorità e sentirsi parte della società. Voglio che i nostri ragazzi abbiano una vita il più possibile normale, come quella dei loro coetanei africani».
La normalità «africana» sembra un chiodo fisso di padre Signorelli. «Cerco di ricostruire l’ambiente africano il più possibile, soprattutto nel cibo che, pur abbondante e bilanciato, è conforme alla dieta a cui sono abituati – continua il padre -. Non voglio che crescano viziati, per cui non permetto che i turisti diano loro caramelle o altri regalucci. Nel salone non c’è alcuna televisione, poiché a casa non ce l’anno. La sera preferisco che giochino, perché si conoscano meglio e diventino più amici».
A creare l’amicizia contribuiscono anche la disposizione degli edifici e l’organizzazione in piccoli gruppi: 12 ragazzi per ogni camera. In gruppo e individualmente i ragazzi sono educati a pulire gli ambienti in cui vivono, lavarsi la biancheria, fare qualche lavoretto utile nell’orto… e tutto quello che la tradizione africana si aspetta dai bambini di questa età.
In linea di massima, i ragazzi rimarranno nella Familia ya ufariji fino a quando avranno completato le scuole elementari e qualche anno di quelle secondarie. I più promettenti saranno aiutati a frequentare le scuole secondarie e istituti tecnici che i missionari della Consolata gestiscono nelle varie missioni. Ma non rimarranno oltre i 18 anni; a questa età tutti i giovani africani devono essere responsabili del proprio avvenire.

RICREARE LA FAMIGLIA
L’unica abitudine africana bandita da padre Signorelli sono i castighi corporali. «Non voglio che i bambini vengano picchiati, come si faceva nel sistema educativo introdotto dagli inglesi – spiega il padre -. Tra l’altro, è proibito dalla legge del Kenya; ma il costume continua ugualmente, talora con atteggiamenti sadici. Se ci sarà bisogno di punizioni, studieremo i provvedimenti da prendere caso per caso. Ma nessuna punizione corporale».
Per formare i ragazzi e mantenere la disciplina, padre Alessandro ha scelto dei collaboratori africani sperimentati: una mamma, una maestra diplomata e un assistente. Una dozzina di persone curano l’andamento esterno della casa: custodi, guardiani, operai. «Lo scopo fondamentale della casa è espresso dal nome: “Famiglia della consolazione” – continua il padre -. Tutti, piccoli e grandi, devono sentirsi membri di questa famiglia e collaborare al suo buon andamento. Anche gli operai e lavoratori: ho spiegato loro che devono sentirsi coinvolti in questo fine, come fratelli maggiori, cercando di conoscere i ragazzi, rispettarli e trattarli come fratelli minori, bisognosi di affetto e attenzione».
Al tempo stesso padre Signorelli cerca di rintracciare la parentela dei ragazzi e restituirli alla famiglia d’origine, aiutando i genitori a far fronte alle eventuali difficoltà. «È il lavoro più difficile – conclude il padre -. Le timidi confessioni, i comportamenti che riflettono i drammi vissuti in famiglia e sulla strada (balbuzie, incontinenza nottua, chiusura e isolamento), mi dicono che questi bambini non vogliono avere più nulla a che fare con l’ambiente da cui sono fuggiti. Eppure sono tanto sensibili. Una sera un bambino si avvicinò e mi cantò una canzoncina: un gesto per esprimere i sentimenti più profondi e, soprattutto, per chiedere affetto e tenerezza.

Benedetto Bellesi




KENYAScommettiamo sui giovani (seconda parte)

Continua il viaggio nella diocesi di Marsabit.
Morijo, Maralal, Wamba: stessi problemi di povertà,
insicurezza, banditismo, impraticabilità delle strade…
E identiche testimonianze di amore e di speranza:
missionari e missionarie della Consolata investono
la loro vita in istruzione e sanità, per un futuro migliore
di queste regioni e del resto del paese.

Morijo: 2.000 metri di altitudine. L’aria è frizzante, ma l’accoglienza di padre Aldo Vettori è calorosa: «Per i superiori questa è una missione ad personam» esordisce con una fragorosa risata. L’ha iniziata 11 anni fa, partendo da zero, dopo aver fondato e organizzato la missione di Barsaloi.
Padre Aldo racconta a ruota libera virtù e miracoli dei suoi samburu; fornisce la sua versione sulle passate lotte tribali; descrive con passione il suo lavoro missionario, catechisti e catecumenati, organizzazione comunitaria impressa alla parrocchia, progetti realizzati o ancora nel cassetto. Rimango a bocca aperta, come 42 anni fa, quando raccontava le avventure di naia e lotte sindacali. Non è cambiato di una virgola: sempre entusiasta di tutto e di tutti. Essendo io cresciuto, faccio mentalmente un po’ di tara.
I fatti mi fanno ricredere. Morijo è un cantiere aperto: nel cortile i meccanici aggiustano le macchine; nella falegnameria stridono pialle e seghe; poco lontano alcune donne sistemano la cucina della scuola, i muratori riparano le case dei maestri, altri costruiscono la sede della polizia. Qui padre Aldo alza la voce: minaccia il governo di sospendere tutto, se non arriva il granoturco promesso per pagare lavoro e materiale. Gli operai gli danno ragione e continuano la costruzione.
Visitiamo il dispensario, la scuola, l’asilo, il laboratorio di taglio e cucito e il serbatornio dell’acqua: fiore all’occhiello della missione. Da lontano sembra un diroccato castello medievale, da vicino un’opera geniale: il fianco d’una collina è stato sbancato, pavimentato e circondato da un muro, per raccogliere l’acqua piovana e convogliarla in un’enorme cisterna. Per le stagioni secche, padre Aldo ha scovato una falda acquifera in una valletta; ha scavato un pozzo di 140 metri e, con un motore, pompa l’acqua nel serbatornio. Le famiglie più isolate, con casa in muratura e tetto di lamiera, sono aiutate dalla missione a costruirsi un modesto serbatornio dove raccogliere l’acqua piovana: è il «progetto anfora».
La visita è quasi finita. Uno stuolo di donne aspetta il missionario per esporgli i loro problemi, sicure di ricevere un aiuto. Ci sono anche alcuni catechisti e uomini armati. «Sono le mie “guardie del corpo” – dice padre Aldo sorridendo -. Ogni notte si dispongono strategicamente attorno al villaggio, per difenderlo dai malintenzionati. Qui mi sento sicuro».
Morijo è l’unica missione senza reticolati, muri di recinzione e cancelli blindati, eretti negli ultimi anni per motivi di sicurezza in tutte le missioni visitate.
Alcune persone sono venute a vendere latte, favi di miele, legna, carbone. Padre Aldo compera tutto, aiutando la gente a guadagnarsi qualche soldo; poi lo rivende ai poveri a minor prezzo di quanto lo ha pagato. Confratelli un po’ maligni raccontano che uno stesso sacco di carbone venga più volte comprato e rivenduto agli stessi poveri. Padre Aldo ha un cuore troppo grande per accorgersi di tali sottigliezze.
A proposito di cuore: padre Aldo, 68 anni, di cui 30 vissuti in Africa da pioniere solitario, ha fatto tre by pass, ma si sente ringalluzzito. «Per ringiovanire l’istituto, ho suggerito al superiore generale di sottoporre i vecchietti alla stessa operazione» dice ridendo sonoramente. Poi confessa di non poter guidare a lungo come una volta; che preferisce il giorno alla notte, perché può muoversi e respirare senza fatica.
I superiori tentano di dargli un collaboratore: ma non è facile trovare chi resista ai suoi ritmi. Gli hanno proposto il trasferimento in una parrocchia più comoda, anche se sanno che, dovunque andasse, comincerebbe a mettersi in proprio e fonderebbe un’altra missione ad personam.

Maralal, ore 6.30, concelebro con padre Marino Gemma: da una collinetta poco lontana un altoparlante vomita musica assordante, seguito da un sermone a squarciagola. «È così ogni mattina – spiega padre Marino -. La chiesa dell’Assemblea di Dio è sempre vuota, ma il pastore fa la predica a tutta la città. Qui i cattolici sono in maggioranza; ma il pullulare di sètte religiose sta creando grande confusione, specie tra i giovani».
I giovani: sono la grande sfida della parrocchia di Maralal; se ne contano a migliaia nelle numerose scuole elementari e superiori della città. Se ne occupa padre Marino quasi a tempo pieno: ogni giorno, al pomeriggio, si reca nelle varie scuole per insegnare religione, incontrare gruppi di Azione cattolica e istruire catecumeni; la sera visita una delle 16 piccole comunità cristiane della città. «Sono quasi tutte formate da kikuyu: è bello vedere come la fede sia radicata nella loro vita; più che nei cristiani di qualsiasi altra etnia».
La parrocchia è il punto di riferimento della gioventù anche fuori della scuola. Ogni fine settimana vengono organizzati toei sportivi e competizioni culturali. «Non si tratta solo di farli divertire – spiega il missionario -, ma di promuovere conoscenza reciproca e amicizia, di cui sentono tanto bisogno.
Le attività giovanili culminano con la Consolata Cup, nel mese di giugno, a cui partecipano tutte le scuole di Maralal».
Altre opere a favore della gioventù sono gestite dalle missionarie della Consolata, come il collegio per studentesse di scuole secondarie e l’«Irene Training Center»: un istituto professionale, dove le ragazze si specializzano in tessitura, cucito, maglieria, lavorazione del cuoio, scienze domestiche, e conseguono un diploma che le abilita all’esercizio di una professione e a insegnare le materie in cui si sono specializzate.
Capoluogo amministrativo del distretto Samburu, Maralal è anche il cuore della diocesi di Marsabit: qui c’è il seminario minore, diretto da padre Paschal Libana, missionario della Consolata tanzaniano; l’ex seminario maggiore (oggi filosofi e teologi studiano a Nyeri) ospita il centro pastorale, dove padre Roberto Sibilia dirige corsi di formazione per animatori e agenti pastorali e cura la pubblicazione di numerosi sussidi catechetici e liturgici in lingua inglese, samburu e swahili; il centro catechetico è in fase di ripensamento, ma continua la formazione dei catechisti nelle singole parrocchie.
La tabella di marcia non mi consente di sostare in tutte le missioni, ma una fugace visita a Suguta Marmar, 30 km da Maralal, è doverosa. Vi incontro un novizio d’eccezione, che emetterà la professione religiosa a metà marzo: è don Pietro Tablino, missionario fidei donum della diocesi di Alba, una vita spesa nelle regioni più inospitali del Marsabit. «In fondo al cuore mi sono sempre sentito missionario della Consolata – dice sorridendo -. È ora che lo diventi anche giuridicamente».
Wamba: la scuola secondaria «Santa Teresa» celebra 25 anni di vita. Nei viali fioriti c’è un indescrivibile viavai di colori, dal bianco e azzurro delle divise delle alunne, alle tinte smaglianti dei vestiti di signore sofisticate, dal nero dei veli musulmani ai variopinti oamenti samburu.
Alle 11 gli invitati affollano il salone parrocchiale. Per tre ore s’intrecciano discorsi, canti, danze e scenette. Comincia la preside, suor Giuseppina, ricordando gli obiettivi raggiunti dalla scuola: «Oltre 1.230 ragazze hanno completato con successo i quattro anni di formazione umana e accademica: sono state stimolate a sfruttare le doti personali e diventare responsabili del proprio e altrui futuro».
Una ventina di prosperose ex alunne raccontano la loro storia: sono insegnanti, infermiere, assistenti sociali, segretarie di provveditorati e aziende, impiegate e imprenditrici; altre frequentano ancora l’università. «Se siamo ciò che siamo, lo dobbiamo alle basi ricevute in questa scuola», affermano le signore Kaparo e Lesirma, rispettivamente mogli del presidente dell’Assemblea nazionale e del segretario del Parlamento.
Il signor Lengala, provveditore agli studi per il distretto Samburu, sottolinea l’eccellenza dei risultati ottenuti fin dagli inizi, che fanno di «Santa Teresa» un esempio per le scuole del distretto e di tutto il territorio nazionale. Poi aggiunge lodi e ringraziamenti per tutti, vivi e defunti: missionari e missionarie che hanno investito vita e mezzi materiali in questa istituzione e continuano a sponsorizzare le ragazze più povere; mons. Carlo Cavallera, primo vescovo di Marsabit, che ha scommesso sull’istruzione e promozione della donna; l’attuale vescovo, mons. Ambrogio Ravasi, che continua a sostenere questa scuola e altre opere sociali.
A parte la retorica di circostanza, Wamba è lo specchio di quanto è avvenuto nell’intero territorio di Marsabit: tutto ciò che esiste, nel campo dello sviluppo e promozione umana, istruzione e sanità, è opera della chiesa e dei suoi missionari.
Per 10 volte padre Lorenzo Rosano si era visto rifiutare dalle autorità coloniali il permesso di stabilirsi a Wamba, essendo zona d’influenza protestante. Ma continuò a fare il missionario ambulante tra Maralal e Wamba, fermandosi per i tre giorni consentiti. «Ironia della sorte – racconta padre Giuseppe Gorzegno -, per tutto il tempo in cui rimaneva a Wamba, padre Lorenzo era ospite di un catechista protestante di nome Filippo. È morto nel 1984. Mentre lo assistevo all’ospedale, mi diceva con orgoglio di essere stato il primo catechista cattolico di Wamba; raccontava della bontà del tenace missionario e dei palloni che gli portava per fare giocare i bambini».
Con l’indipendenza del Kenya, arrivò il sospirato permesso, nel 1965. «Quel giorno padre Rosano scrisse nel diario di aver pianto di gioia» continua padre Gorzegno. Accorse subito mons. Cavallera: piantò la tenda, radunò gli anziani e ottenne il terreno per costruire la scuola e il dispensario. Era la politica del vescovo pioniere: evangelizzare promuovendo istruzione e sanità.
Il ciclo elementare, nel 1973, sfociò nella scuola secondaria: Wamba Boys, per ragazzi, poi nazionalizzata, e «Santa Teresa», per le ragazze, gestita ancora oggi dalle missionarie della Consolata.
Anche le suore sono state protagoniste della crescita di Wamba. Attualmente sono quindici, in maggioranza impegnate nella scuola e ospedale; tre collaborano nelle attività della parrocchia: asili, catechesi, gruppi di donne e giovani, servizio della carità. «Quando qualcuno viene a chiederci aiuto, lo mandiamo da suor Michelita e lei risolve tutti i casi» racconta padre Giuseppe.
Dopo tanti anni di servizio in ospedale, suor Michelita continua a fare l’infermiera ambulante, scorrazzando in bicicletta per tutto il villaggio e dintorni: visita le famiglie povere, assiste gli ammalati a domicilio, distribuisce medicine e consolazione. Quando si ferma, è subito attorniata da un nugolo di poveri: ascolta, fa coraggio e aiuta più che può.

È domenica. Wamba riprende ad animarsi fin dalle prime ore del mattino. Alle sette, la prima messa è affollata da suore, personale medico, studenti infermiere e ragazze della scuola Santa Teresa. La seconda, alle 9.30, dura quasi due ore. Animano la liturgia gli Wamba Boys, che, secondo il costume samburu, cantano con tutta la voce in canna.
Il pomeriggio visito l’ospedale. Pare un giardino: bougainvillee multicolori e sfavillanti oano i viali e pensiline che collegano i vari padiglioni. Ordine e pulizia dappertutto. L’attrezzatura dei vari reparti non ha nulla da invidiare agli ospedali europei.
Il dispensario, nato nel 1965, è cresciuto celermente, diventando un ospedale con oltre 150 letti e, grazie alla dedizione del dottor Prandoni e della sua équipe medica, la sua fama è dilagata sino ai confini dell’Etiopia e Somalia. «I malati arrivano da centinaia di chilometri – afferma padre Giuseppe -. Molti musulmani lo preferiscono agli ospedali governativi più a portata di mano».
Sostenuto e amministrato per molti anni dai missionari della Consolata, l’ospedale di Wamba è passato sotto la responsabilità della diocesi e, attraverso una rete di amici e organismi inteazionali, si è reso autosufficiente. Molti dottori e professori italiani vengono a prestarvi servizi specialistici gratuiti.
Accanto all’ospedale, un’altra prestigiosa istituzione per la costruzione del futuro del Kenya: la scuola per infermiere, l’unica in tutta la diocesi. Gestita da una suora della Consolata, con la collaborazione d’insegnanti formati in loco, la scuola assicura il servizio all’ospedale di Wamba e fornisce personale qualificato e specializzato a quelli governativi.
La visita si conclude alla Huruma home (casa della misericordia), aperta dalla diocesi nel 1990 per bambini handicappati fisici e mentali. Tre suore indiane e alcune donne africane stanno imboccando alcuni bambini. Altri riescono a nutrirsi da soli. «Ne abbiamo 25, tra 2 e 15 anni – spiega la suora direttrice -. Otto di essi fanno fisioterapia nell’ospedale, perché imparino a badare a se stessi il più possibile. Ma il loro male più grave è la mancanza di affetto: sono rifiutati dalla famiglia, che li ritiene una maledizione. Abbiamo tentato inutilmente di convincere i familiari a riprenderli in casa; abbiamo organizzato delle feste per i genitori, con la presenza del vescovo, perché vengano almeno a visitarli; ma pochissimi si sono presentati. Oramai, per queste creature, siamo noi le loro mamme».

Benedetto Bellesi




KENYA – Tanta fede e nervi saldi

Sono in Kenya per la quarta volta; la prima come «giornalista» di Missioni Consolata. Dal lago Turkana all’Oceano Indiano, passando per le regioni di Meru, Kikuyu e Nairobi, ho incontrato missionari e missionarie impegnati allo spasimo, nonostante l’età, per sovvenire alle necessità e aspirazioni della gente; condiviso dolori e speranze;
sentito racconti di atrocità e miseria; visto comunità in piena fioritura di fede e vita cristiana; vissuto emozioni indimenticabili… Presento il tutto a puntate.

Alle 8.30 il piccolo Fok-ker decolla dall’aeroporto Windsor di Nairobi diretto a Maralal, dove avrà luogo il funerale di padre Luigi Andeni, ucciso da malviventi il 14 settembre ad Archer’s Post. Viaggio insieme a vari confratelli, due nipoti del defunto, mons. John Njue, presidente della Conferenza episcopale del Kenya, e il nunzio apostolico Giovanni Tonucci.
Traballiamo sopra una fitta coltre di nuvole; poi l’orizzonte si squarcia d’improvviso: la catena dell’Aberdare, a sinistra, sembra a portata di mano; a destra ammicca tra le nubi il massiccio del monte Kenya.
Dopo un’ora di volo, atterriamo su una pista fiancheggiata da zebre, mucche, capre, asini e pastori, avvolti in vesti scarlatte e armati di lance e bastoni. Ancora mezz’ora in Land Rover e arriviamo a Maralal. Il tempo di salutare qualche confratello e inizia il funerale: tre ore di commozione intensa e palpabile. Dentro e fuori la chiesa una folla traboccante segue riti e discorsi con attenzione, applaudendo i passaggi più toccanti e graffianti. Ne parlerò in una prossima puntata.
Alle due del pomeriggio sono di nuovo in Land Rover per raggiungere Loyangalani, da dove inizierà la mia visita al Kenya. Viaggio insieme a padre Lino Gallina, che rientra nella sua missione dopo le vacanze in Italia. Per 200 chilometri la strada sale e scende per pendii scoscesi e pietrosi; scossoni e sobbalzi mettono a dura prova la spina dorsale. Più che sul tracciato stradale e i panorami mozzafiato, l’attenzione si concentra sulle persone che incrociamo: fa un certo effetto vedere i pastori con perizoma scarlatto e sofisticati fucili a tracolla, al posto delle tradizionali lance e bastoni.
«Per difendere il bestiame dalle razzie dei predoni ngorokos – spiega padre Lino -, il governo ha concesso ai capi dei villaggi di tenere le armi. Da quel momento tutta la gente ha cominciato a comperare fucili dai mercanti somali e sudanesi, col risultato che turkana e samburu si sono armati fino ai denti. Nel 1996, durante la campagna elettorale, alcuni candidati al parlamento hanno alimentato le rivalità tra le varie etnie, sfociate in razzie e scontri feroci, con centinaia di morti e migliaia di persone in estrema povertà. Ora la situazione sembra calma; ma l’abbondanza di armi ha fomentato il banditismo: le missioni sono i bersagli preferiti; ma anche le strade del Marsabit sono a rischio per tutti, bianchi e neri, senza distinzione».
A parte un pizzico di apprensione, la strada massacrante, l’oscurità impenetrabile, il viaggio prosegue tranquillo. Alle dieci di notte arriviamo a destinazione. Il tempo di prendere un boccone, scambiarci qualche notizia e subito a letto. La notte si trasforma in un bagno turco: non sono trascorse 48 ore tra il fresco autunno torinese e gli oltre 30° in casa.

Mi alzo al canto degli uccelli, per godermi la brezza mattutina. Il cortile sembra coperto di brina gialla: sono i fiori caduti dalle acacie sotto l’impeto del vento. Alcuni bambini li raccolgono per darli in pasto alle caprette. Poetico, vero? Ma il termometro in saletta è bloccato sui 30 gradi.
Comincia la visita alle varie attività della missione, rifugiandomi il più possibile sotto l’ombra. Si avvicina una vecchia turkana per salutare padre Lino: rosicchia un grosso dattero. «Lo chiamiamo “arancia di Loyangalani” – spiega il padre sorridendo -; ma non è buono neppure per le capre».
Salutiamo suor Florinda: sta annaffiando l’orto. Ci mostra le piante di cetrioli: tanti fiori, ma niente frutti. Da 30 anni, padri e suore le stanno provando tutte per coltivare qualche verdura; ma non hanno ottenuto una sola foglia d’insalata. Il terreno e troppo acido e salato.
Sulla sponda del lago Turkana, Loyangalani è una piccola oasi in una immensa zona vulcanica. Tutto attorno sono pietre infuocate. Grazie a Dio, un bel vento spira giorno e notte, dal lago verso la montagna e viceversa, rendendo l’aria più respirabile, ma mettendo a dura prova il sistema nervoso di chi non è abituato. E per abituarsi occorrono tanta fede e nervi saldi.
Entriamo nel centro medico: oltre alle medicine, offre la possibilità di degenza per i casi gravi; per quelli disperati c’è un ospedale a quattro ore di Land Rover. Ogni settimana i due infermieri prestano servizio ambulante in 14 villaggi, per preparare ostetriche e insegnare igiene e pulizia.
Nonostante le precauzioni, un’epidemia di colera scoppiò nel luglio scorso. «Diagnosticati i primi casi – racconta padre Achille Da Ros -, telefonai subito ai Medici senza frontiere, che accorsero tempestivamente, curarono i malati e attivarono tutti i mezzi per bloccare l’epidemia: con una campagna a tappeto, tutti gli el molo, i più colpiti, e vari gruppi di turkana e samburu furono immersi in bagni disinfettanti, strigliati a dovere e ingozzati di medicine. Sono stati giorni cruciali, specie per suor Linda Hill, missionaria della Consolata, che ha vegliato i pazienti notte e giorno, fino all’esaurimento».
Accanto al dispensario, gruppi di bambini siedono sotto gli alberi; altri, aggrappati alla rete di recinzione, hanno gli occhi fissi su un enorme pentolone di polenta.
«La denutrizione infantile è un problema endemico a Loyangalani – spiega padre Lino -. Da uno studio fatto nel 1996, risultava che, su 600 bambini da zero a cinque anni, il 35% è denutrito; nei villaggi la percentuale era del 50%. Il problema si è aggravato negli ultimi due anni. Partiti i Medici senza frontiere, che hanno provveduto a superare l’emergenza, la missione continua la lotta contro la denutrizione, dando a 150 bambini un bicchiere di latte e un’abbondante porzione di polenta, integrata con proteine e vitamine».
A una quindicina di chilometri, altrettanti bambini el molo attendono di essere sfamati. Vi ha già provveduto padre Achille, partito con un altro pentolone di polenta.
Il pomeriggio, sotto una calura infeale, padre Achille mi fa visitare alcuni luoghi caratteristici: la valle dove è stato girato il film I monti della luna, varie sorgenti di acque diuretiche e lassative, immense distese di pietre nere e cocuzzoli ferrigni, con rari alberelli spinosi e scheletriti, selvaggiamente scorticati.
Ci fermiamo in riva al lago. Scuola, asilo, cappella e un rubinetto da cui scorre inutilmente acqua calda e pura: ecco quanto resta dei pittoreschi villaggi el molo di Komote e Laiyeni: spaventati dall’uccisione di un loro membro, gli abitanti hanno abbandonato gli accampamenti e si sono rifugiati tutti sull’isolotto antistante. «Mi sto dannando l’anima per convincerli a ritornare sulla terra ferma – racconta padre Achille -. L’isola è infestata dai coccodrilli. Senz’acqua potabile e in condizioni igieniche precarie, il colera potrebbe riesplodere da un momento all’altro».

È domenica: padre Achille è partito presto per Komote. Padre Lino celebra la messa nella chiesa parrocchiale per samburu e rendille; subito dopo quella per i turkana, i cui vestiti tradiscono estrema povertà. «Da sempre emarginati e sfruttati, oggi i turkana si sentono anche rifiutati dai samburu – spiega padre Lino -. Purtroppo tale tensione si riflette anche nella comunità cristiana; per questo abbiamo dovuto mettere due messe. Speriamo che tutto ritorni come prima».
Le tensioni etniche aumentano la povertà e l’incertezza del futuro. Il turismo dava lavoro a parecchie famiglie e stimolava l’artigianato: ora si vedono rari turisti mordi-e-fuggi. La pesca è crollata da quando l’Inghilterra ha sospeso le importazioni del pesce fresco e secco, in attesa di garanzie igieniche. L’allevamento del bestiame è sempre più difficile, a causa delle razzie e la scarsità di pascoli. I giovani, soprattutto, finite le elementari non sanno cosa fare: le scuole secondarie sono care e a centinaia di chilometri: continuare gli studi è un miraggio.
Bussando alle porte di varie organizzazioni, i missionari riescono a procurare qualche borsa di studio; fondi per attività di sopravvivenza. «Ci stiamo scervellando per trovare una soluzione che aiuti questa gente a camminare con le proprie gambe – confessa sconsolato padre Lino -, ma non ci riusciamo».
Il sole s’immerge nelle acque del lago, accendendo in cielo un immenso rogo fiammeggiante: di roseo, a Loyangalani, c’è solo il tramonto.

South Horr. Dalle prime luci del mattino, una fila di donne staziona davanti all’ufficio parrocchiale. Fino a sera ripetono lo stesso drammatico ritornello: «Padre, ho fame!».
«Quando mi siedo a tavola – racconta padre Egidio Pedenzini, parroco di South Horr -, mi si blocca lo stomaco, pensando a quelli che sono davanti alla porta. Spesso gli studenti delle secondarie mi dicono che non mangiano da tre giorni e ci credo».
Per convincermi, mi affida al catechista John, per una lunga camminata fuori del centro abitato, dove si sono rifugiate alcune famiglie scampate agli scontri tribali. Nella fuga hanno salvato il salvabile: una capretta scheletrita, qualche pentola ammaccata e i figli, naturalmente. Eppure c’è qualche segno di vita: lungo un torrente, che quest’anno non si è seccato, alcune famiglie hanno strappato qualche fazzoletto di terra alla boscaglia, vi hanno incanalato l’acqua per irrigare fagioli e granturco. Una novità per i samburu: pastori per tradizione, si dedicano all’agricoltura.
Il pomeriggio padre Egidio mi porta in macchina a vedere un’altra parte della missione. «Qui abitavano i turkana – racconta il padre, indicando mucchi di cenere -. Una notte i samburu hanno bruciato le loro capanne, accusandoli d’aver ospitato avanguardie ngorokos. La gente si è rifugiata nella missione. Ho procurato due capre per il sacrificio di purificazione del luogo e aiutato le donne a raccogliere i rami per ricostruire il villaggio. Un giorno, alle due del pomeriggio, il villaggio era di nuovo incenerito. Per tre mesi abbiamo sfamato 250 turkana».
Per tale aiuto i missionari sono stati accusati di schierarsi dalla parte dei turkana. «Dite che la chiesa è turkana – disse il padre, intervenendo in un raduno di autorità locali -. L’ho sentito da voi. Parlo in nome dei padri e delle suore: per noi non c’è alcuna distinzione tribale; siamo qui per servire tutti. Oggi sono i turkana, domani forse sarete voi, samburu, oppure i rendille a chiedere rifugio: la chiesa rimarrà aperta a tutti».
Sfidando le incomprensioni, missionari e missionarie cercano di portare la riconciliazione con opere sociali (asili, scuole, acquedotti, assistenza medica) e la testimonianza quotidiana della carità. «Ma non basta. Occorre incarnare il vangelo nella cultura della gente» afferma padre Egidio, che ama e conosce il mondo samburu come le sue tasche.
«Quando una persona vuole chiedere perdono, offre all’offeso un mazzetto d’erba – continua il missionario -; nessuno può rifiutarlo. Un simbolo potente per aiutare la gente a perdonarsi e ricostruire l’armonia. L’abbiamo usato, insieme al fuoco, per tutto il 1998, per significare la forza dello Spirito Santo, in preparazione al giubileo del 2000. La domenica i fedeli entravano in chiesa reggendo ciuffi d’erba; due anziani passavano a benedirli con latte e miele; quindi aspergevano l’altare e il fuoco, acceso davanti allo stesso altare e alimentato da due donne con legna speciale, quella usata per i sacrifici tradizionali. La gente era felice».
Rimango incantato, mentre parla a ruota libera delle esperienze d’inculturazione. La frase del vangelo «nessuno può servire a due padroni…», per esempio, viene tradotta con due proverbi samburu: «Il cane non abbaia in due villaggi allo stesso tempo»; «un uomo non può tenere i piedi sulle due rive del fiume».
Ha tradotto il canone della messa nel linguaggio e stile samburu: al prefazio e dopo la formula di consacrazione, col bastone in mano, egli elenca le meraviglie di Dio e invoca la sua protezione sui vivi e sui defunti; a ogni frase la gente risponde: «Ngaì! Ngaì!» (Dio), mentre apre e chiude i pugni, per invocare la venuta di Dio tra i suoi figli.
Per aiutare i catechisti a esprimere il vangelo col linguaggio della gente, Padre Egidio ha composto due libretti sul concetto di Dio e sui miti delle origini secondo la cultura samburu; sta per essee stampato un terzo sui sacrifici e cerimonie; un quarto è in avanzata elaborazione, sulla preghiera e benedizioni.
«Tra i vari simboli – continua – il taglio dei capelli potrebbe essere introdotto nel rito del battesimo e matrimonio. Nei momenti più importanti della vita, infatti, i samburu si rasano a zero: la donna dopo il parto, il giovane al tempo dell’iniziazione; gli sposi nel giorno del matrimonio; il vedovo o la vedova alla morte del coniuge; il defunto appena deceduto: ciò significa l’inizio di una nuova vita. Il battesimo è rinascita nella vita di Dio? I capelli degli sposi sono mescolati in latte e miele; nessuno può più distinguere a chi appartengano: quale simbolo più potente per significare l’indissolubilità del matrimonio? Finora ho usato questi simboli per spiegare i sacramenti; bisognerebbe tradurli in pratica perché producano il loro effetto. Ci sto pensando: a pasqua, vorrei rasare tutti i battezzandi, giovani e anziani, donne e bambini… Però qualche missionario mi rompe l’anima con Il diritto canonico!».
Tante sue iniziative, dopo 20 anni, rimangono allo stadio di esperimento. Padre Egidio ha tutte le ragioni di sentirsi solo. Ma non demorde.
Sarei dovuto partire presto, con un comodo fuoristrada dei Medici senza frontiere; mi hanno lasciato a terra. Una breve revisione degli impegni e disponibilità dei mezzi di trasporto: padre Pietro Davoli mi porterà a Baragoi nel pomeriggio. Intanto lo accompagno a Ngorlé, dove si reca a celebrare la messa a una comunità che si sta riorganizzando.
A 88 anni, 64 dei quali spesi in Kenya, padre Davoli è una figura mitica: una vita densa di avvenimenti, che racconta con affascinante semplicità e gioia contagiosa; fresco e pimpante come in giovincello, nonostante l’età, si adatta a qualsiasi incombenza e imprevisto della vita missionaria; quando è libero da impegni religiosi, lo trovi nell’orto o a seccare e macinare peperoncini, che poi distribuisce a tutte le missioni.
Gli domando il segreto della sua eterna giovinezza. «La missione allunga la vita» risponde sorridendo.

Baragoi: padre Giovanni Pronzalino è partito presto per visitare vari villaggi, radunare le piccole comunità cristiane, spiegare la bibbia, celebrare l’eucaristia, ascoltare i problemi della gente. Toerà a casa nel tardo pomeriggio. Così ogni giorno, sistematicamente, nonostante i 70 anni suonati. Padre Giuseppe Da Fre’, parroco sessantenne, mi aggioa sulla situazione.
La parrocchia di Baragoi si estende su un’immensa savana quasi tutta pianeggiante, teatro degli scontri etnici più cruenti di tutto il nord del Kenya: samburu e turkana si leccano ancora le ferite.
«La tensione è altissima – spiega padre Giuseppe -. In un incontro di pochi giorni fa, i turkana hanno chiesto di fare la pace; ma i samburu hanno risposto che non vogliono avere nulla da spartire; che se ne devono andare, con le buone o con le cattive. Un vicecapo turkana mi ha confidato: “Se continueranno a complicarci la vita, impedendoci di fare acquisti nei villaggi e attraversare le zone di loro influenza, li cacceremo anche da Maralal”. Si prospetta un’ennesima guerra tribale, in cui i samburu avrebbero la peggio».
I turkana sono più industriosi. Pur essendo allevatori, si sono adattati all’agricoltura: coltivano sorgo, patate dolci, fagioli, granoturco e frutta. Liberi da tabù alimentari, mangiano di tutto, anche i serpenti; sono temprati a ogni fatica, robusti e coraggiosi.
I samburu sono solo pastori: orgogliosi della loro nobiltà, disdegnano i lavori manuali; al tempo stesso si vedono superati dall’intraprendenza dei rivali. Da qui una certa invidia, che, alimentata dai politicanti, è sfociata in scontri sanguinosi e nella persistente volontà di cacciare i turkana dal loro distretto.
A fae le spese sono anche le missioni: in varie comunità sono stati distrutti i fabbricati, rubate le lastre zincate, strappati i libri, usati i banchi come legna da ardere. Un maestro e un consigliere comunale di Baragoi sono arrivati a puntare il fucile contro i missionari, in casa loro, perché avevano soccorso i feriti turkana. «Gli stessi gesti li abbiamo fatti per voi samburu, quando vi siete trovati in identiche circostanze – risposero i padri -. Abbiamo medicato i vostri feriti, sfamato donne e bambini, seppellito i vostri morti».
Non è sempre facile fare da mediatore in casi di contrasto; risolvere problemi d’ogni genere; calmare gli animi esacerbati, misurare le parole nel denunciare ingiustizie e corruzione. «Pestiamo i piedi a qualcuno – continua padre Da Fre’-. Grazie a Dio, la gente ci vuole bene. Ma spesso ci sentiamo soli; abbiamo bisogno di qualche gesto di solidarietà, per non cadere nello scoraggiamento».
Padre Da Fre’ mi porta a visitare varie attività e opere sociali: pozzi, torrenti sbarrati, serbatorni per raccogliere l’acqua piovana. Ma le piogge non sono sempre regolari: capita che per un anno o due non cada una goccia d’acqua, allora è una tragedia per la popolazione e per il bestiame. Inizia l’ennesima emergenza.
Visitiamo vari asili. Ce ne sono 27 in tutta la parrocchia, per assicurare un pasto giornaliero a migliaia di bambini. «Concentriamo su di loro i nostri sforzi; sono i più indifesi – continua il missionario -. In questo modo speriamo di ricostruire il futuro di queste popolazioni».
Termino con la visita all’asilo adiacente alla chiesa parrocchiale: 150 bei bambini in divisa azzurra. Alcuni si divertono con scivoli e giostre; i più grandicelli giocano a pallone; altri coltivano l’orto; altri ancora sono attaccati alla sottana di suor Raimonda. «Abbiamo bimbi di tutte le etnie: turkana, samburu, rendille, meru, kikuyu… – dice la suora -. Speriamo che anche da grandi sappiano convivere in pace come oggi».

Benedetto Bellesi




Italia. Missione come ponte tra mondi


Il Festival della missione 2025 si terrà a Torino. Preceduto da eventi pre festival durante il 2025, si svolgerà tra il 9 e il 12 ottobre nelle piazze della città.
In un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali, il tema della kermesse sarà «Il volto prossimo».
Non sarà una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza nel quale ascoltare il racconto di molte esperienze di pace, resistenza e trasformazione.

Sarà Torino la città ospite del prossimo «Festival della Missione», occasione di riflessione e, soprattutto, di incontro con molti protagonisti della «Chiesa in uscita» nelle periferie del mondo.

Un evento che, come spiegano i promotori, non sarà solo una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza e un invito a tutti ad aprirsi al mondo.

Dal 9 al 12 ottobre 2025, la terza edizione della kermesse promossa da Cimi (Conferenza degli istituti missionari italiani) e Fondazione Missio Italia, avrà come location l’area tra piazza Castello e piazza Carlo Alberto. Si interfaccerà con il programma del Festival dell’Accoglienza, evento diffuso promosso dalla Pastorale migranti dell’arcidiocesi di Torino tra settembre e ottobre, e avrà come tema di fondo «Il volto prossimo», collegandosi alla riflessione sul «Vivere per-dono» iniziata nella scorsa edizione del 2022 a Milano. Si inserirà, inoltre, nel contesto del Giubileo del 2025 promosso dal Papa con il tema «Pellegrini di speranza».

Festival della Missione 2022 a Milano. L’incontro «Missione tra vecchie e nuove vie». Da sinistra: p. Carlos Reynoso Tostado, saveriano; Elisabetta Grimoldi, laica saveriana; suor Dorina Tadiello, comboniana della comunità di Modica; il giornalista Paolo Affatato; i coniugi Marangoni della comunità di famiglie Bethesda di Padova; Fabio Agostoni, laico a Ginevra. @foto di Luca Lorusso

L’interrogativo sul volto del prossimo, e sul rendere prossimo il nostro volto all’altro, ha una sua urgenza particolare oggi, in un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali.

Alla conferenza stampa di presentazione del Festival, tenutasi martedì 19 novembre presso l’Arcivescovado di Torino, sono intervenuti monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, Agostino Rigon, direttore generale del Festival (insieme a Isabella Prati), e Lucia Capuzzi, giornalista di «Avvenire» e direttrice artistica dell’evento (insieme al regista e documentarista Alessandro Galassi).

Per loro, Torino, città con una forte vocazione missionaria che ha visto nascere le missioni salesiane di don Bosco e l’Istituto Missioni Consolata di san Giuseppe Allamano, canonizzato lo scorso 20 ottobre, diventerà il cuore pulsante di una riflessione universale.

Il legame tra il Festival della Missione e il Festival dell’Accoglienza, come sottolineato da monsignor Repole, sarà un’occasione per allargare gli orizzonti, connettendo l’attenzione ai più fragili (del secondo) con la prospettiva internazionale (del primo).

Agostino Rigon ha definito il Festival «una risposta al movimento dello Spirito e della storia», sottolineando l’urgenza di camminare insieme come Chiesa e società.

In un momento in cui le forze del mondo missionario sembrano ridursi, l’obiettivo dell’iniziativa non è solo quello di unire risorse, ma di costruire alleanze e ponti con realtà civili e religiose.

Tra piazza Castello e piazza San Carlo, ha aggiunto il direttore generale del Festival, si allestiranno «tavoli di ascolto» dedicati alla ricerca delle tracce del divino nella realtà contemporanea.

Il centro di tutto, ha spiegato Lucia Capuzzi, sarà la narrazione. Non la speculazione teologica sulla missione, ma il racconto dei protagonisti della missione.

Le storie saranno il fulcro del programma, coinvolgendo missionari e comunità di tutto il mondo per raccontare esperienze di annuncio, di pace, giustizia e trasformazione.

Tra i progetti più significativi che faranno parte degli eventi «pre festival», quelli che verranno organizzati in città nelle settimane che precederanno il Festival, vi sarà un focus su Haiti, paese «invisibilizzato» dai media internazionali e attualmente sconvolto da violenza e povertà, e un altro su una periferia come Brancaccio, a Palermo, dove la memoria di don Pino Puglisi continua a ispirare progetti di rinascita.

Il Festival proporrà durante l’anno scolastico anche un programma educativo sulla pace, elaborato in collaborazione con il Centro studi Sereno Regis, che mira a mostrare i meccanismi della violenza e a promuovere la nonviolenza e giustizia riparativa. L’11 ottobre, in Piazza Castello, si terrà un grande evento dedicato alla pace.

Durante la conferenza stampa, per dare un assaggio di cosa sarà il Festival, sono intervenuti anche tre missionari per dare la loro testimonianza: suor Angela Msola Nemilaki, superiora generale delle Madri Bianche, le suore missionarie di Nostra Signora d’Africa, ha acceso i riflettori sul dramma della tratta di esseri umani. La religiosa ha raccontato la storia di Lulu, una giovane vittima di tratta e tortura. La missione, per suor Angela, è ridare dignità a chi se n’è visto privato, attraverso piccoli gesti di presenza e gentilezza, nella consapevolezza che, come affermato da papa Francesco, «solo aprendo il cuore agli altri scopriamo la nostra umanità».

Padre Dario Bossi, missionario comboniano in Brasile, ha parlato delle sfide globali legate al cambiamento climatico e del «razzismo ambientale», per cui capita sovente che le prime e principali vittime dei cambiamenti climatici siano i più poveri. «La missione oggi è costruire alleanze dal basso», ha detto, invitando a riflettere sul debito di giustizia che il Nord del mondo ha nei confronti del Sud.

Infine, Cristian Daniel Camargo, giovane missionario laico della Consolata e artista argentino, ha presentato il suo progetto «Murales por la Paz», una proposta artistica e teologica che invita comunità di tutto il mondo a dipingere insieme, costruendo pace e dialogo attraverso l’arte.

Dal 2018, il suo progetto «teo artistico» ha realizzato oltre 60 murales in luoghi come Colombia, Guatemala, Italia, Salvador e Argentina, e Camargo spera di proseguirlo in Kenya e Uganda, e poi di tornare in Italia nell’ottobre prossimo per partecipare al Festival della Missione.

«Se la Chiesa sparisse, è come se non ci fosse più cielo sulla terra», ha concluso monsignor Repole, citando il sociologo Hans Joas. Il Festival della Missione 2025 promette di essere uno «squarcio di cielo» su Torino, un’occasione per riflettere sulla dimensione umana e trascendente della missione, intrecciando storie di fragilità e speranza, per fare del mondo una sola famiglia.

Luca Lorusso

Il Festival della Missione 2022 a Milano si è tenuto prevalentemente all’aperto. La gran parte degli incontri sono stati alle Colonne di San Lorenzo. Anche il Festival 2025 a Torino si terrà negli spazi di piazza Castello e piazza Carlo Alberto in centro città. @foto di Luca Lorusso




Senza confini


Nel settembre scorso i missionari della Consolata hanno festeggiato i primi dieci anni di presenza a Taiwan, in particolare nella diocesi di Hsinchu. Il vescovo John Baptist Lee ha celebrato una messa molto partecipata nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù a Hsinchu (vedi pag. 5). Oggi l’istituto è presente con sette missionari di cinque diverse nazionalità (Kenya, Tanzania, Corea del Sud, Brasile e Argentina) e ha la gestione di tre parrocchie nella stessa diocesi, oltre a Hsinchu, animata dal 2017, anche Xinpu e Xinfong.

Un primo decimo anniversario, che pare poca cosa, ma rivela una presenza discreta, continua e con prospettive di crescita.

Ho avuto la possibilità di partecipare all’evento al Sacro Cuore e di visitare le altre due parrocchie. Ho potuto vedere e ascoltare persone impegnate nella vita della comunità, ma anche molto accoglienti verso chi viene da fuori. Peter e sua moglie Jennifer, Carmen, Lucia, Cathy, solo per citarne alcune, senza volere fare torto alle altre.

Taiwan, ufficialmente Repubblica di Cina, viene più volte citata anche sui nostri media come centro di tensioni tra la Repubblica popolare di Cina (la Cina comunista continentale) e gli Stati Uniti. Ma è ben più di questo. Vorrei dare qualche elemento della società nella quale stanno operando i missionari da dieci anni.

Si tratta di una società moderna, anzi una società che definirei «tecnologica», dove cioè la tecnologia ha un peso rilevante. Con le relative problematiche: secolarizzazione, i giovani in particolare sentono poco il richiamo della spiritualità di tipo convenzionale, quindi delle religioni, la bassa crescita demografica e l’alto livello di invecchiamento della popolazione che comporta le criticità conosciute anche da noi, le migrazioni da paesi vicini più poveri (in particolare da Filippine, Vietnam, Indonesia, Thailandia).

A Taiwan, inoltre, la Chiesa cattolica è una minoranza tra le minoranze, interessando l’1,3% della popolazione (i fedeli sono circa 300mila su 23 milioni di taiwanesi).

Il vescovo di Hsinchu, monsignor Lee, mi diceva che su settanta sacerdoti della sua diocesi solo due sono originari del Paese. Gli altri sono missionari. Molti sono coreani, poi vietnamiti, filippini e, recentemente, africani. Tutto questo denota la necessità e l’urgenza della missione ad gentes.

Guardando sul planisfero le presenze dei missionari e missionarie della Consolata nel mondo, la missione a Taiwan è forse quella nella società più moderna.

Per contrasto, il mio pensiero va a un’altra missione, che ho avuto la possibilità di visitare molti anni fa. Quella di Catrimani, nello stato di Roraima in Brasile. Una presenza nel mezzo della foresta amazzonica, dove si può arrivare solo a piedi o con piccoli aerei. Un cammino, quello a fianco del popolo Yanomami, che la Consolata porta avanti oramai da 59 anni.

Se penso alla società yanomami, a lungo studiata da generazioni di missionari della Consolata, con la sua lingua (anzi, quattro), le sue credenze, la sua cultura, credo che sia quella meno tecnologica, quella che vive maggiormente in simbiosi con la natura, con la quale i missionari della Consolata si siano confrontati da decenni. In un certo senso, una struttura sociale delicata, che rischia in ogni momento di essere sopraffatta dalla società dominante, quella dei «bianchi», come dicono in Brasile, quella moderna, dico io.

Due ambienti sociali che sembrano, o forse sono, in antitesi. Due culture entrambe distanti da quelle dei missionari che le affrontano, difficili da comprendere e far proprie con un processo di inculturazione, a partire dalle lingue, dai costumi e dalla spiritualità.

Eppure due contesti nei quali i missionari della Consolata sono presenti con il loro approccio ad gentes, ma anche di promozione umana, sociale e dei diritti che da sempre li contraddistingue.

Questo mi fa credere che la missione pensata e maturata da san Giuseppe Allamano prima, e dai suoi missionari e missionarie poi, sia a tutti gli effetti universale e senza confini.