Per un pugno di pesos

La rivolta dei maestri di Oaxaca… non è ancora finita

Per oltre 5 mesi, a Oaxaca, stato del Messico centrale, lo sciopero dei maestri ha paralizzato 12 mila scuole pubbliche, ricevendo il sostegno di 350 organizzazioni civili di base e resistendo alla repressione violenta del governo centrale, Ulises Ruiz, finché il nuovo presidente del Messico ha firmato un accordo con il sindacato degli insegnanti. La scuola è ripresa, ma la tensione continua.

«Fino a quando non pagheranno un po’ di più mio papà, non me ne andrò da questa piazza». Adriana ha 9 anni ed è già una messicana decisa e senza timori. Con il sorriso ammaliante dei bambini e due occhioni luccicanti, mi viene incontro guardandoti fisso in volto e cercando la tua approvazione. «È quasi quattro mesi che dormo qui nello zócalo, la piazza principale della città, e lo faccio assieme a loro», mi dice la bambina indicandomi con il dito le centinaia di persone che, sotto tendoni di fortuna e striscioni di ogni tipo, vivono barricati in una sorta di campeggio cittadino.
Ma dove siamo?
«Bienvenidos en Oaxaca – continua Adriana – il luogo in cui i diritti umani non esistono più». Fa impressione sentir parlare una bambina in questo modo. Per capie di più, mi avvicino al gruppetto di donne più vicine a lei: sono la sua mamma, la zia e due cugine, anche loro ragazzine. Sguardo fiero e un’aria distesa, nonostante la situazione precaria, espongono Adriana come un piccolo trofeo. «Sono orgogliosa di lei – dice – per come mostra amore e solidarietà a suo padre, che si trova in una situazione bruttissima: è un maestro».
«Che male c’è ad essere un insegnante?» penso. Ma la donna mi anticipa: «Mio marito è uno dei 70 mila maestri pagati una miseria dallo stato, che ora è in sciopero permanente assieme a tutti gli altri».
L’equivalente di quasi 100 euro al mese, ecco quello che guadagna un maestro di Oaxaca. Uno stipendio da fame. Che lo porta a cercare un doppio, triplo lavoro, con il quale non riesce più a passare del tempo in casa e a crescere i propri figli. La situazione a Oaxaca e nello stato omonimo (il Messico è una federazione) è insostenibile da anni, ma solo il 14 giugno 2006, esasperati, i maestri sono scesi in piazza, per una marcia pacifica in cui chiedevano un aumento di salario.
Il governatore statale, Ulises Ruiz Ortiz, non ha badato a mezze misure nel reprimere la sollevazione popolare: gas lacrimogeni, proiettili di gomma, manganelli in aria hanno seminato il panico tra i manifestanti, bambini compresi. La violenza della polizia statale, anziché zittire il movimento di protesta, ha scatenato l’indignazione della società civile di Oaxaca e di tutto il Messico. Il capo della polizia si è dovuto dimettere, ma il governatore, la vera mente dell’assalto, è rimasto al suo posto, diventando così il bersaglio popolare.
Invitato ad andarsene anche dal governo centrale di Città del Messico, «Uro» (così chiamato per le iniziali del suo nome) non ha fatto alcun passo indietro, anzi: «Non cederò ai ricatti di questi sobillatori» ha detto, riferendosi ai maestri. I quali, decisi ad andare fino in fondo nella loro rivolta, si sono organizzati in una assemblea permanente, la Appo: Assemblea popolare dei popoli di Oaxaca.
La Appo è diventata da subito un esempio a livello mondiale per la radicalità della sua lotta: in decine di parti della città, ma anche nei piccoli centri dello stato, sono sorti dei plantón, cioè occupazioni di piazze, edifici pubblici, emittenti radiotelevisive. Sono state messe auto, pullman di traverso per le strade, e sassi giganteschi hanno impedito il passaggio di qualsiasi veicolo. Proprio quando stava per arrivare il flusso di turisti nordamericani, canadesi ed europei, Oaxaca è diventata una città fantasma, sconsigliata da tutti gli operatori turistici mondiali.

La gente del posto, all’inizio, era divisa in due pensieri: da una parte, con l’occupazione, perdeva i guadagni del turismo, che permettevano un’esistenza dignitosa a migliaia di persone; dall’altra, le veniva spontaneo appoggiare la lotta dei maestri, la cui soddisfazione lavorativa avrebbe garantito un’adeguata educazione ai propri figli, in una zona dignitosa ma in cui la povertà non è mai stata completamente cancellata. Alla fine i commercianti, a parte qualcuno vicino al potere, ha appoggiato la protesta.
Dopo la violenza iniziale delle autorità, per 160 giorni, da giugno a ottobre 2006, il conflitto che si è creato ha conosciuto solo botta e risposta attraverso i mezzi di comunicazione. Le forze di polizia, accusate di corruzione e brutalità, sono state costrette ad abbandonare la città, mettendosi in periferia.
Dentro, la sicurezza era garantita dalla gente della Appo, che, organizzata in tui, manteneva l’ordine pubblico in un modo a prima vista facile, senza grandi problemi: la coscienza collettiva era ai massimi livelli; si sapeva che bastava veramente poco per generare un caos in cui le prime vittime sarebbero state i civili e il messaggio pacifico che portava con sé la protesta. In città tutto continuava a funzionare, compreso il coloratissimo mercato cittadino, in cui decine di donne industriose vendevano i loro prodotti fabbricati a mano: vestiti, oggetti in legno, e molti generi alimentari, soprattutto cibo prodotto in casa, come lo squisito pizatl, una sorta di pollo cotto al vapore, immerso nella polenta e racchiuso in una foglia di pannocchia o di banana. Erano funzionanti anche i locali in cui scorrevano fiumi di mezcal, la famosa bevanda alcolica messicana, quella del guisanito, il vermicello messo a riposare sul fondo della bottiglia per dare più sapore alla storica bevanda.
Per tutto questo tempo, centinaia di persone, come Adriana e la sua famiglia, hanno abbandonato le proprie case e sono andate a dormire in piazza. Soprattutto donne, mentre i mariti (più del 90% dei maestri è di sesso maschile) discutevano in accese riunioni sui passi successivi da compiere.
«C’è qualcuno che vorrebbe passare a un’azione più diretta – racconta José, insegnante elementare padre di quattro bambini -. Meno male che poi si convince a continuare la protesta in forma nonviolenta». Per far capire alla gente le loro intenzioni, decise ma contrarie all’uso della violenza, José e gli altri maestri hanno tappezzato la città di gigantografie di Gandhi, il padre della nonviolenza.
Anche i comuni della zona, imitando in piccolo Oaxaca, hanno organizzato forme di resistenza popolare, sospendendo le attività, scendendo in piazza con i gonfaloni, offrendo appoggio e mezzi alla campagna informativa della Appo. «Ci diamo da fare per far conoscere a tutti la situazione – dice Marcela, giovane attivista -. In molte piazze abbiamo allestito punti di informazione che, con video e assemblee, spiegano quello che sta accadendo».
I l luogo più suggestivo è la piazza di San Francisco, dove sorge la chiesa più bella e meglio conservata della città: qui, subito fuori l’imponente struttura dei francescani e all’inizio di una delle vie dove si vende artigianato e il famoso cioccolato locale, si è installato il Campamento por la dignidad y contra la represion en Oaxaca (Accampamento per la dignità e contro la repressione a Oaxaca). Marcela parla a decine di cittadini e ai pochi viaggiatori che entrano in città, raccontando la vita disperata di migliaia di maestri e delle loro famiglie. «Riceviamo appoggio e solidarietà da tutto il Messico e dall’estero – dice -: è una grossa spinta ad andare avanti».
E come hanno reagito i religiosi all’occupazione simbolica della piazza? «Sostenendoci anche loro – rivela con un sorriso Marcela -. Qui la chiesa è vicina alla gente, ne vive problemi e sfide, cercando di offrire il massimo appoggio».
Proprio così. Dai pulpiti delle decine di chiese di Oaxaca i sacerdoti invitano la gente a tener duro, senza cedere alla tentazione dello scontro diretto. Una mensa popolare è stata aperta proprio nei locali attigui alla cattedrale, nella piazza principale. La chiesa stessa rimane aperta giorno e notte per le preghiere dei fedeli, qui come in tutto il Messico molto devoti. «Non possiamo non sentire l’ansia della gente in questo momento» dice padre Andres, cappellano della cattedrale.
In effetti, a fine ottobre la tensione è alle stelle. Giravano voci di un avvicinamento di soldati dell’esercito alla città, in arrivo dalla capitale. Si era in alerta roja, allarme rosso. Ma senza farlo troppo vedere. «Da fuori, Oaxaca sembra una città in preda alla guerriglia» dice Sandra, che gestisce una pensione nel centro città, a pochi passi dallo zócalo. «La realtà, invece, mostra una città tranquilla, troppo tranquilla; chissà quando tutto si sistemerà e come andrà a finire» continua la donna preoccupata.

I timori di Sandra sono risultati profetici: il 28 ottobre, a 160 giorni dall’inizio del conflitto, la polizia di Uro ha fatto sgombrare con la forza la piazza principale; nella settimana successiva si è scatenato il finimondo: dieci persone sono rimaste uccise, tutti civili, tra cui un ragazzino 14enne e un giornalista freelance statunitense, William Bradley. Altre 70 persone almeno sono state arrestate, in maggioranza maestri e leader della Appo.
Grande è stata l’indignazione mondiale per il modo in cui è stata affrontata la situazione: il governatore si è dimostrato un mandante di assassini feroci, a volte travestiti da cittadini comuni, come nel caso dell’uccisione del maestro Fidel Garcia: è stato colpito alle spalle da una raffica di proiettili, mentre tornava a casa dopo una riunione della Appo.
L’arcivescovo di Oaxaca, Wilfredo Mayren, ha dato asilo politico a decine di maestri, tra cui Flavio Sosa, uno dei massimi dirigenti della Appo. «Esiste un terrorismo di stato e una persecuzione schizofrenica» affermava l’arcivescovo, accusando duramente le forze armate statali.
Per qualche giorno tutto è stato zittito e, quando la polizia se n’è andata, Oaxaca è tornata una città fantasma; ma per poco. La voce popolare, nonostante i morti, i feriti e i detenuti, si è rifatta viva quasi subito, con nuove occupazioni, nuovi scioperi, ed eclatanti denunce verso le autorità penitenziarie, ree di usare contro i maestri incarcerati violenza e torture, documentate dalla Ccdoih, Commissione civile internazionale per l’osservazione dei diritti umani, creata con l’avvallo di Amnesty Inteational.
Il famigerato Uro è rimasto al suo posto e lo è ancora oggi. Ma la situazione è cambiata, complice il cambiamento avvenuto il primo dicembre 2006 a livello di governo centrale: Vicente Fox, che si era mostrato indifferente verso la protesta dei maestri, viene sostituito alla presidenza del paese da Felipe Calderón, compagno di partito (del Pan, Partito di azione nazionale, conservatore), ma, almeno in apparenza, più deciso a risolvere la crisi di Oaxaca, tenendo conto delle richieste della gente.
Calderón è salito al potere nel mezzo di scandali e accuse di brogli elettorali: ha vinto per poche migliaia di voti, battendo il favorito della vigilia, il progressista Manuel Lopez Obrador, che non ha mai riconosciuto l’esito del voto. Nonostante ciò, il nuovo presidente ha concluso un accordo con la Appo per un aumento dei salari e un miglioramento delle condizioni di vita.
Tutto risolto, quindi? «All’apparenza sembra risolto – dice Berta Muñoz della Ccdoih -. Il 9 marzo 2007 c’è stato l’ultimo arresto ai danni di una professoressa, Yolanda Ramirez, portata via dalla polizia mentre camminava per strada, senza alcuna spiegazione né accusa specifica». Berta, la Appo e tutte le persone di Oaxaca si chiedono quale sarà la prossima mossa di Uro. Perché alla fine, come spesso succede in America Latina, le efferatezze vengono ideate da chi dovrebbe difendere il popolo, anziché attaccarlo.
Il nuovo presidente dice di volere la pace sociale, ma la gente gli crede poco. Nel frattempo, a Oaxaca qualche piazza rimane occupata, soprattutto in periferia e nei quartieri più popolari, dove le forze dell’ordine non riscuotono alcun successo.
I turisti sono tornati. Questi sono interessati alle spoglie ma affascinanti rovine di Monte Albán (poste su un’alta collina a 15 minuti dal centro), ai 42 metri di circonferenza di El Tule, l’albero più grande al mondo, alla natura incontaminata di Ixtlán e ai lavoratissimi palazzi della civiltà mixteca di Mitla.
Il commercio è ripreso, le scuole anche. Ma quello che manca all’appello, come spesso accade, è il rispetto dei diritti umani, soprattutto dei «senza voce». Chissà se Adriana, un giorno, vorrà seguire le orme del padre e diventare maestra. Forse no. 

Di Daniela Biella

Daniele Biella




Miracoli feriali

Presenza delle suore Marcelline nel «Paese delle aquile»

Sono arrivate nel paese quando molti albanesi si davano alla fuga; hanno aiutato famiglie e profughi negli anni di emergenza; e continuano a lavorare a fianco dei più bisognosi: cinque suore Marcelline raccontano le loro storie di amore a fianco di gente dimenticata e senza voce.

Ci sono luoghi nel mondo dove i miracoli hanno nomi, volti e raccontano storie. Storie bellissime, speciali, ma allo stesso tempo semplici, quasi «normali». Perché vissute ogni giorno e rinnovate con l’amore verso il prossimo, soprattutto se questo è indifeso, dimenticato, senza voce.
Saranda, cittadina del sud dell’Albania, è uno di questi luoghi e il miracolo che vi si compie ha il volto di cinque donne, tre italiane e due messicane: tutte appartenenti alla congregazione delle suore Marcelline. Suor Daniela e suor Lucia sono quelle che hanno aperto la strada della nuova missione, nel 1995. Suor Maricruz e suor Betty hanno lasciato Città del Messico qualche anno dopo, mentre suor Anna, giovanissima, è arrivata nel 2005.
Cinque donne e una grande storia da raccontare: quella che le ha portate, passo dopo passo, ad aprire un asilo, un centro medico, una mensa scolastica, un centro di formazione. Ma soprattutto, a guadagnare la fiducia della gente d’Albania, un popolo schivo e all’apparenza duro, dal passato oscuro e dal presente difficile, dove povertà e progresso sono due facce di una stessa medaglia.
Oggi le suore sono conosciute, rispettate e apprezzate da tutta Saranda. Autorità comprese: la loro presenza e il loro parere in consiglio comunale sono sempre ben accetti; la loro esperienza è sinonimo di affidabilità e saggezza.

STORIE DI EMERGENZA

Ma come si è arrivati a tutto questo? Piccoli miracoli di ogni giorno, si diceva. Con il volto e la storia di suor Daniela, che è arrivata in Albania quando tutti, anche gli stessi albanesi, si davano alla fuga. «Nei primi anni  ‘90 vivevamo a Lecce – racconta la suora, milanese di origine -.  Vedevamo passare centinaia di disperati in cerca di nuove speranze».
Erano gli anni delle navi mercantili sulle coste pugliesi, piene di albanesi in fuga dal proprio paese, dopo la caduta del rigido regime comunista. «Allora ci siamo dette – prosegue suor Daniela -: anziché aiutarli dando loro accoglienza, perché non andare nel loro paese e convincerli a rimanere?».
Detto fatto. Così nacque la prima casa delle Marcelline a Valona, appena 60 chilometri di mare da Brindisi. «Eravamo tre suore in una casa molto piccola – continua la suora -, ma da subito abbiamo attivato un piccolo asilo con 20 bambini, e l’aula era la nostra camera da letto». Un ricordo che ancora oggi le fa abbozzare un sorriso, assieme a quello dell’ambulatorio, «posto all’entrata dell’abitazione: un salottino senza finestre».
Ma erano tempi d’emergenza, che si sono poi aggravati nel marzo 1997, all’indomani della crisi finanziaria, che gettò sul lastrico migliaia di famiglie albanesi. In quel momento le suore si erano già trasferite a Saranda, dove la presenza internazionale era pressoché inesistente.
Suor Daniela ricorda il 1997 come un inferno, dal quale, però, non è voluta scappare. «Anche la polizia aveva abbandonato la città; tutti rubavano tutto; i ragazzini giravano in bande con i kalashnikov – racconta la suora -. Noi vivevamo rinchiuse nella nostra casa, ospitando più bambini possibile».
La normalità sarebbe tornata solo molti mesi dopo, ma un’altra emergenza era già alle porte: migliaia di sfollati dalla guerra del Kosovo inondavano l’Albania con le loro angosce. Siamo nel giugno 1999. Le Marcelline si rimboccarono subito le maniche e un altro miracolo si faceva strada, giorno dopo giorno. «Siamo riuscite ad accogliere 1.500 profughi – ricorda suor Daniela -; 600 di loro erano nell’hotel Butrint, che ancora oggi è l’alloggio più famoso della città».
Le suore erano aiutate dall’operazione Arcobaleno, ovvero decine di volontari che scaricavano container pieni di beni di prima necessità raccolti dal governo italiano. Alla fine, le suore ce l’hanno fatta. I kosovari sono poi rientrati nelle loro case e, con l’inizio del secolo xxi, una sorta di normalità ha preso piede in tutto il «paese delle aquile» (o Shiqperia, nome ufficiale dell’Albania; la bandiera nazionale è infatti una grande aquila nera su sfondo rosso).
Govei meno corrotti di un tempo, più relazioni paritarie con l’estero e lo sviluppo di un commercio interno hanno gettato le basi di una fragile, ma decisa democrazia, quella che tuttora vige nel paese.

NELLA GIUNGLA DI CEMENTO

L’Italia è il primo partner dell’Albania per tutto: import-export, aiuti umanitari residui, progetti di sviluppo. L’attività principale è ancora oggi quella che esisteva già ai tempi di Mussolini: la costruzione di strade. Appena fuori dalle città si possono leggere su enormi cartelli le scritte: «Strada realizzata grazie al contributo della Cooperazione italiana».
Così, chilometri e chilometri di asfalto rendono più veloci i collegamenti del paese; ma l’asperità del terreno fa di ogni viaggio una piccola odissea, permettendo, però, una lenta scoperta dell’Albania più profonda, quella dei piccoli paesi collinosi, dediti all’agricoltura e pastorizia, dove il tempo è fermo e lo rimarrà per chissà quanto ancora.
Tale è, per esempio, il paesaggio attraversato dalla strada che dalla capitale Tirana porta a Saranda: solo 120 chilometri, che con un maneggevole pulmino si coprono in «sole» sette ore. Dopo decine di colline, valli mozzafiato e quasi nessuna presenza umana (a parte alcune splendide cittadine come Argirocastro e il suo centro medievale, oggi sede di una grossa università), Saranda ti accoglie con la sua freschezza di città costiera, affacciata sul mar Mediterraneo e sull’isola greca di Corfù, meta migratoria agognata dagli albanesi tanto quanto l’Italia.
Grazie a Corfù e alla Grecia in generale, Saranda sta vivendo negli ultimi cinque anni un boom turistico senza precedenti: i 30 mila abitanti invernali triplicano d’estate. Molti rientri vacanzieri in famiglia di lavoratori albanesi, ma anche una crescente mole di turisti greci, che trovano alloggio in alberghi e appartamenti che spuntano come funghi in tutta la città.
Progresso, ma anche nuovi problemi, a cominciare dallo spazio. Non ditelo alle Marcelline e a Rocco, volontario italiano che da cinque anni vive con loro. Quando le suore sono arrivate nel quartiere, la loro casa era circondata da campi, e si vedeva il mare. Oggi tre dei quattro lati (il quarto dà sulla strada) sono coperti da palazzoni, due dei quali costruiti a metà. 
«Qui non c’è un piano regolatore e tutti costruiscono dove gli pare» dice Rocco, che si occupa dell’educazione di adolescenti albanesi tramite lo sport . «Poco tempo fa abbiamo avuto problemi con uno dei proprietari qui a fianco – continua il ragazzo pugliese – perché voleva che accorciassimo il campo di calcio per farci stare il suo appartamento».
Rocco e le Marcelline hanno dovuto accontentarlo, vista la sua prepotenza e l’assenza di regole. Lo stesso avviene nell’edificio dove le suore hanno adibito la mensa per bambini, che si trova a lato di un albergo che si espande sempre più, nonostante i pochi clienti che lo frequentano.

I SEGRETI DI SUOR LUCIA

Nonostante l’abusivismo edilizio, che sta trasformando e abbruttendo Saranda, la casa delle suore Marcelline rimane ancora oggi un punto di riferimento per tutta la città. Dal 2000, grazie al contributo economico della fondazione Pierfranco e Luisa Mariani, tutta la struttura ha subito un rinnovamento totale, e oggi risplende per ordine e semplicità.
All’interno del recinto in muratura si apre un mondo chiamato «Qendra sociale Santa Marcellina», un centro sociale composto da due grandi edifici, giardino con giochi per bambini, e un piccolo campo di calcio. Qui centinaia di persone si recano ogni giorno, per svariate ragioni.
La giornata al Qendra comincia prestissimo. Non sono ancora le otto, infatti, quando 150 bambini, accompagnati dai genitori, riempiono di colori e schiamazzi il cortile: ha così inizio l’asilo, la principale attività delle suore, aiutate da sei insegnanti albanesi, che ricevono regolare stipendio grazie all’impegno della stessa fondazione Mariani. Grazie all’asilo, le suore vengono a contatto con decine di famiglie in difficili condizioni economiche, che poi cercano di aiutare attraverso la condivisione dei loro problemi.
Suor Lucia è risoluta nel tracciare una profonda analisi della società albanese e non risparmia le critiche: «Violenza familiare, pregiudizi verso le persone con problemi di handicap, assenza quasi totale delle istituzioni, corruzione ancora molto viva: questi i maggiori problemi con cui abbiamo a che fare» enumera la suora, originaria di Tricase, paesino in provincia di Lecce.
Suor Lucia, oltre ad abile cuoca, è anche infermiera; è lei a gestire l’altra grossa attività del Qendra, l’ambulatorio di neurologia pediatrica, dove ogni pomeriggio arrivano le famiglie i cui bambini hanno problemi legati alle terminazioni nervose. «Esaurimenti ed epilessia sono le malattie più frequenti, e si presentano già dai primi anni di vita» spiega la suora.
Nell’area attorno a Saranda almeno 5 mila persone hanno problemi di natura epilettica, dicono gli ultimi studi. Una delle percentuali più alte d’Europa, superiore anche alle zone dove è alta la concentrazione di radiazioni. «A questi problemi se ne aggiungono altri, di natura psicologica, legati a quello che è successo nel 1997» continua suor Lucia.
Nell’ambulatorio, ad accogliere le centinaia di piccoli pazienti, lavorano vari pediatri ed esperti di neurologia; alcuni arrivano direttamente da Tirana almeno una settimana al mese. L’ambulatorio è l’ambito in cui la fondazione Mariani ha dedicato i suoi sforzi maggiori nell’aiuto alle suore. Per un semplice motivo: lo scopo principale della Mariani, da oltre 20 anni, è il sostegno a chi si dedica alla neurologia infantile, in Italia e nel mondo.
Quello delle Marcelline è l’unico centro medico specializzato del sud dell’Albania, anche perché l’ospedale cittadino è fatiscente e poco attrezzato, a cominciare dai medicinali.
Suor Lucia questo lo sa bene. Ciò che pochi sanno è che la religiosa ha il suo segreto-miracolo: una stanzetta, chiusa ermeticamente, adibita a dispensario medicinale. Centinaia di medicine diverse, di vario tipo, non solo neurologico, arrivate da varie donazioni italiane ed inteazionali. «Questo piccolo tesoro è vitale per molti albanesi – confessa la suora – anche perché molti di loro non si fidano a comprare medicinali fabbricati nel proprio paese».
La ragione? «A volte quello che c’è scritto sulla confezione non corrisponde alla realtà – spiega suor Lucia -. Le farmacie, forse approfittandosene un po’ troppo, consigliano alla gente di comprare quelle inteazionali, che però costano dieci volte tanto». Molte famiglie non ce la fanno, per questo la suora ha il suo «forziere», al quale attinge con molta cautela.

IL COMPUTER DI MARICRUZ

Anche suor Anna e le due suore messicane sono infermiere e sono un valido aiuto a suor Lucia. Ma oltre all’asilo e all’ambulatorio, le Marcelline a Saranda si occupano di formazione e promozione umana: corsi di artigianato, tessitura, turismo e informatica riempiono i pomeriggi al Qendra. Suor Maricruz è la responsabile e, da come si muove sul computer, si può dedurre la sua abilità d’insegnamento informatico. «Cerchiamo di dare ai giovani strumenti per trovare lavoro» dice la suora.
I risultati dei primi anni di corsi fanno ben sperare. Ad esempio, grazie al corso di operatore turistico, la 25enne Emirjeta Roboci lavora oggi come guida alle vicine rovine romane di Butrinto. La ragazza ha inoltre avviato la prima esperienza di turismo responsabile nella zona, ricevendo alcuni turisti italiani e portandoli nei luoghi che il turismo tradizionale non contempla.
Tra questi vi è il piccolo villaggio di Shendelli, situato in un lembo di terra vergine, tra due enormi laghi naturali, una visuale a 360 gradi, dalla quale si vedono le case di Corfù.
La particolarità di Shendelli, però, è nella sua gente: almeno cento famiglie rom, originarie del nord dell’Albania, arrivate in queste terre nel 1996.  Vittime di pregiudizi da parte dei locali, queste persone hanno vissuto per anni in baracche, fino a quando le suore Marcelline, tramite aiuti inteazionali, hanno dato loro quella dignità che era negata.
Ora, con case in muratura, piccole attività commerciali legate all’agricoltura e all’artigianato, riescono a vivere senza patire la fame. «Ma ora bisogna insegnare ai loro bambini a leggere e a scrivere», dice suor Daniela. Un altro piccolo miracolo da compiere. Un’altra bella storia da raccontare, un giorno non lontano.  

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Piccoli miracoli

I camilliani in lotta contro l’Aids nella capitale peruviana

Il Perù è il primo paese dell’America Latina raggiunto dai camilliani all’inizio del 1700,
per offrire la loro assistenza ai malati più poveri.
Un bel numero di giovani stanno rispondendo all’appello del carisma camilliano.
Nel 1995, a Lima, hanno dato vita all’Hogar San Camilo, dove si prendono cura dei sieropositivi
e malati di aids e organizzano vari programmi
di prevenzione a favore di famiglie, madri sole, bambini dei rioni più disastrati e abbandonati.

Vedi Lima solo dopo aver visto la niebla (nebbia). Non la nebbia
del Nord Italia, fitta, carica di pioggia, che va e viene a seconda del
peso dell’atmosfera. Quella di Lima è qualcosa che non se ne va via
mai: rimane lassù, sospesa sulla città a 30 metri d’altezza, si
traveste da cielo plumbeo, immobile e persino un po’ triste. È chiamata
«garúa».
A Lima non piove quasi mai. Gli abitanti, soprattutto, quelli più
anziani si ricordano la data precisa delle ultime gocce d’acqua cadute
sulla città. Sembra che la niebla abbia la funzione di tappo al
rovescio: non permettendo al cielo di arrivare alla terra, alle
precipitazioni sulle case. E che case: tolte quelle solide dei
quartieri residenziali e i palazzi storici sopravvissuti all’incuria,
la gran parte sono baracche, sorte come funghi qualche decennio or sono
e tuttora onnipresenti. Dalle pareti al tetto sono fatte di fango,
paglia e qualche legnetto; visti dall’alto appaiono come dei piccoli
quadrati marroni, sembrano una miriade di dadi gettati nel vuoto.
Qui vivono decine di migliaia di persone, di cui un buon numero fuori
Lima, in quei pueblos jovenes nati dal nulla e destinati allo stesso
nulla, poiché carenti delle strutture base: acqua, luce, fogne, gas.
Lima è una metropoli di 7 milioni di abitanti, di cui quasi il 50% vive
sotto la soglia della povertà e le baracche sono l’unico bene materiale
che possiede. Ma anche questo è un bene a rischio. Circola, infatti, un
timore nelle conversazioni dei limeños, i cittadini della capitale
peruviana: se arriva un potente nubifragio, chi può negare che tutte
quelle dimore possano non reggere l’urto e sciogliersi in un fiume
marrone devastante? Per ora, nei rarissimi giorni di pioggia, la realtà
parla di qualche disagio in più, insignificante nella vita di stenti di
questa gente ridotta in miseria.

Come altrove, anche nelle baracche di Lima povertà e malattia vanno di
pari passo. Sporcizia e malnutrizione rendono la vita difficile. Ma da
qualche tempo c’è ben altro che si insinua da queste parti: si chiama
aids, e sta proliferando, soprattutto fra i giovani.
All’inizio la diffusione della malattia era rimasta un segreto che
doveva rimanere «custodito» nella baracca. Solo negli ultimi anni le
cose sono cambiate. Più assistenza e prevenzione hanno portato più
controllo e qualche piccolo miracolo.
Uno dei più significativi di questi miracoli lo si trova immergendosi
nel centro storico di Lima, in un quartiere popolare dal nome
ingannevole di Barrios Altos (quartieri alti). Qui di turisti ne
passano, ma è un mordi e fuggi; vedono le cose importanti: la chiesa di
San Francesco, con le sue enormi catacombe, Plaza Mayor, la piazza
principale in cui si trova il Parlamento.
Proprio a due passi da Plaza Mayor, dal 1995 esiste un luogo conosciuto
come Hogar San Camilo, centro di accoglienza per le persone
sieropositive.  Qui pochi uomini, con il loro intenso lavoro,
ridanno speranza a decine di famiglie che con il «sida» (versione
spagnola di aids) combattono una dura battaglia quotidiana.
Questi uomini sono preti dell’ordine di San Camillo de Lellis. La loro
prima presenza nel cuore di Lima data metà secolo xviii, quando
aprirono una casa di formazione vocazionale nella parte nord del
Convento de la buena muerte, ancora oggi attiguo all’Hogar San Camilo.
Nell’Hogar, camilliani italiani, peruviani e di altre nazioni accolgono
in particolare le madri che hanno contratto la malattia con l’obiettivo
che i loro figli nascano sani. Un miracolo? Di certo un grande
traguardo raggiunto, a livello scientifico e, quindi, umano.
Un’innovazione che permette di salvare migliaia di vite.
Lo sa bene padre Zeffirino Montin, l’anima fondatrice dell’Hogar, che,
proprio per la sua attività missionaria, è stato nominato un paio di
anni fa Cavaliere della Repubblica italiana. «Siamo partiti con pochi
mezzi, ma tanta speranza, unita alla voglia di fare – dice padre
Zeffirino -. Oggi contiamo sempre di più; lo si capisce dal crescente
numero di persone che arrivano fin qui da tutte le zone disagiate di
Lima».
I numeri la dicono tutta sull’autorevolezza che il Centro ha acquisito
negli 11 anni di attività: 400 persone ospitate, almeno 6 mila
beneficiari diretti delle cure contro la malattia e 20 mila beneficiari
indiretti. Alle medicine, i gestori dell’Hogar alternano il latte
mateizzato, il vero antidoto che salva migliaia di bambini
dall’infezione sicura. «Oltre a distribuirlo all’Hogar, con due gruppi
di medici, operatori e volontari, andiamo a portarlo direttamente nelle
case dei malati, soprattutto quelli più poveri» continua padre
Zeffirino.
E ccoci di ritorno nelle baracche, quindi. Qui, nascosti tra i vicoli e
le strutture fatiscenti di quartieri come Callao, Ventanilla e tanti
altri, si addentrano i camilliani e i loro aiutanti. Le visite sono
sempre organizzate prima. Alla gente del posto il camioncino bianco è
sempre più familiare e, dove prima c’era diffidenza, ora c’è un
sorriso, anche se malato. Come quello a tre denti di Ana, 31 anni, ma
che ne dimostra almeno il doppio per lo stato avanzato della malattia,
e i sorrisi dei suoi figli Nina e Andres, 3 e 6 anni, che giocano con
alcune scatolette nella piccola aia di terriccio.
«Io so di non avere molta vita davanti, ma ai miei figli vorrei dare
qualcosa di più – dice Ana -; ma mi ritengo già fortunata: loro non
hanno preso la malattia grazie alle cure, già questo è un piccolo
miracolo».
Come Ana, tante altre donne hanno ripreso la speranza dopo aver
conosciuto l’Hogar. Oggi anche lo stato peruviano, dopo anni di totale
assenza, riconosce il lavoro dei camilliani e collabora ai loro
progetti, soprattutto dal punto di vista economico. Dall’inizio del
2006 molti bambini del Centro hanno anche una famiglia (italiana) in
più, grazie all’adozione a distanza, sostenuta dall’organizzazione non
governativa Coopi (Cooperazione internazionale), che ha sede a Milano e
una storia di 40 anni nella cooperazione.
M a la presenza dei padri ispirati a san Camillo, patrono dei malati e
dei dottori, vive anche di altre splendide realtà. Una di queste è il
seminario, sorto nel 1980 dopo l’arrivo di padre Giuseppe Villa
dall’Italia. Dagli 8 seminaristi peruviani con i quali è iniziata la
scuola vocazionale, oggi si arriva quasi a 40, molti dei quali
provengono dalle terre amazzoniche, nel nord del paese.
Oggi a dirigere la scuola del seminario è padre Camillo Scapin,
sacerdote veneto, da più di  20 anni a Lima. «Ogni anno accogliamo
nuovi studenti, mentre altri finiscono gli studi e sono a un passo
dall’ordinazione – dice padre Camillo -. Anche qui le vocazioni sono
diminuite, ma quelli che arrivano sono convinti, raramente lasciano gli
studi durante il cammino di formazione».
Gli alunni del seminario, oltre agli studi teorici, seguono la
vocazione camilliana fin da subito, entrando come volontari nelle
strutture ospedaliere della città per portare assistenza e spiritualità
ai malati. Alcuni di loro, terminati gli anni da seminaristi, ricevono
la chiamata per lavorare in altre nazioni. Oggi i camilliani sono uno
degli ordini più presenti nel mondo: offrono il loro servizio in ben 35
paesi.
Padre Camillo, oltre all’insegnamento, passa molto tempo negli ospedali
della capitale e nelle strade. Con lui può capitarti di fare un giro
nella Lima «quotidiana»: i mercati vivacissimi e pieni di frutta
esotica mai vista in Europa, le scuole blu costruite qualche anno fa
nei quartieri poveri dal presidente-ladròn Fujimori a caccia di voti;
oppure, nella Lima storica: le catacombe, la casa di Santa Rosa da
Lima, prima santa del continente americano di cui i peruviani sono
devotissimi, il monte San Cristobal, che domina tutta la città e,
quando la niebla lo consente, permette di vedere il mare, posto alla
fine dei quartieri ricchi.
«Ma anche qui da noi c’è qualcosa di particolare» svela padre Camillo,
che apre le porte della Iglesia de la Buena Muerte, chiesa del convento
spesso chiusa al pubblico per salvaguardae i tesori storici, tra cui
una serie di quadri inediti del Veneziano. «La chiesa è comunque aperta
a chiunque voglia pregare – continua il padre -. Lasciarla sempre
aperta in questa zona della città è pericoloso».
Fuori dal convento, infatti, un vociare continuo e macchine che passano
da tutte le parti fanno capire che Barrios Altos è un quartiere molto
frenetico, dove ognuno vende quel poco che ha, e chi non ce l’ha vive
di espedienti.

I problemi sono gli stessi di altre grandi metropoli, ma qui a Lima la
forbice economica è in continuo aumento ed è sottolineato
«geograficamente»: l’indigente non incontra quasi mai il ricco e
viceversa, poiché questi vive nei quartieri lussureggianti che
finiscono sul mare come Miraflores o quelli delle grandi ville come Los
Olivos, dove le strade sono perfette e i marciapiedi sono puliti. Unico
punto di contatto, le entrate delle tangenziali. Ma è un attimo, basta
un rombo e una chiusura di finestrino, e via.
Dall’altra parte, sulla strada, la vita è ardua. Nonostante il clima
temperato, polvere e smog fanno ammalare migliaia di persone ogni
giorno. Il peruviano in condizioni di povertà, come del resto molte
altre popolazioni sudamericane, è tenace e sorride sempre alla vita,
anche quando le cose non vanno granché bene. Spesso nasconde i
problemi, ancor più spesso (e qui si parla degli uomini) si attacca
alla bottiglia, primo passo per la rovina di sé e della famiglia.
Non che manchino le istituzioni, a Lima e in Perù: dal 2001 a questa
parte, ovvero dopo gli scandali di corruzione legati al dittatore
Alberto Fujimori e al suo braccio destro Vladimiro Montesinos, la
situazione politica nel paese sembra aver cambiato rotta. Il presidente
Alejandro Toledo, seppur mai troppo indipendente dal governo degli
Stati Uniti, ha avviato nuove riforme e cercato di farsi ricordare come
una figura «pulita». Ha aperto relazioni con altri paesi sudamericani e
asiatici, pur manifestando qualche rancore, soprattutto verso i vicini
cileni, con i quali, dalla fine della guerra del Pacifico (1884), il
Perù non ha mai avuto un rapporto veramente  amichevole.
Un’altra svolta è avvenuta con le elezioni di aprile-maggio 2006, nelle
quali, a scapito di una nuova figura politica, rappresentata dal
militare nazionalista e indigeno Ollanta Humala, ha preso il potere il
socialdemocratico Alan Garcia, che dice di essere al governo per
portare il Perù ad avere più peso internazionale e ridurre
drasticamente le differenze intee.

Ma ce la farà davvero? «I detrattori sono tanti, ma un po’ di speranza
non guasta» dice padre Camillo, profondo conoscitore della politica
peruviana.
Di certo una sorta di redistribuzione delle ricchezze non farebbe male,
soprattutto considerando un altro fattore importante di sviluppo: il
turismo. Il Perù è la culla degli Inca; a Macchu Picchu e alla città
sacra di Cuzco arrivano centinaia di migliaia di visitatori ogni anno.
Al sud ci sono splendidi scenari naturali, il canyon del Colca, le
misteriose linee di Nazca, la splendida città bianca di Arequipa, la
penisola desertica di Paracas. Al nord, l’immensa foresta amazzonica.
Il potenziare questo settore e il dividere equamente gli introiti senza
affidarli a società private, che «depredano» il mercato, come accade
per il monopolio ferroviario che PeruRail ha per Macchu Picchu,
porterebbe nuova linfa vitale ai peruviani. Un turismo, naturalmente,
che si attui nel rispetto dei luoghi e delle tradizioni e alla ricerca
del Perù nascosto, non solo quello degli abbaglianti depliant delle
agenzie di viaggio.
Si potrebbe cominciare proprio dalla «brutta» Lima, che poi, sotto la
sua niebla, così brutta non è. E perché no, passare da Barrios Altos,
nei pressi del Convento de la Buena Muerte, a visitare le opere dei
camilliani. Magari fermandosi qualche settimana, qualche mese, per dare
una mano. «Abbiamo sempre bisogno di persone con tanta buona volontà»,
suggerisce con un sorriso padre Zeffirino. 

Daniele Biella

Daniele Biella




VIVA LA ROJA

Un cileno su tre vive nella capitale, nelle cui periferie, come quella di Peñalolen, molta gente nasconde le ferite aperte dalla dittatura di Pinochet dietro la facciata della normalità. Oltre alla squadra nazionale di calcio, dal mese di gennaio i cileni hanno un buon motivo di orgoglio e di speranza, con l’elezione di Michelle Bachelet alla presidenza del paese.

Un’immensa distesa di luci gialle, a perdita d’occhio. Se una notte ti capita di ammirare Santiago del Cile da Peñalolen, quartiere periferico che finisce dove cominciano le Ande, rimani senza parole. Quei puntini luminosi che fanno fatica a entrare nel tuo campo visivo ti fanno capire che una metropoli latinoamericana è grande, proprio grande.
Non ha le cifre di Città del Messico o San Paolo, ma con i suoi cinque milioni di abitanti Santiago ospita il 35% della popolazione totale, vale a dire un cileno su tre. Gli altri? Vivono lungo i 4 mila chilometri del paese, il più lungo e stretto del continente, imbrigliato tra la cordigliera andina e l’Oceano Pacifico.
A Santiago, spesso, l’aria fa ammalare. Chiusa in una conca dalle montagne circostanti, la città non riesce a liberarsi dall’inquinamento che produce: la nube che si ferma a pochi metri d’altezza, imponente, giallastra, ti entra nelle vie respiratorie e lì ci rimane, fino a quando un raro acquazzone non ti permette di assaporare, ma solo per un attimo, l’odore delle stagioni.
Le stufe a legna, dichiarate fuorilegge dal governo per il fumo che sprigionano, sono ancora presenti. Soprattutto nelle zone più povere: una baracca che s’incendia è una stufa malridotta, assemblata male o troppo vicina a materiale infiammabile.
E di baracche, a Santiago del Cile, ce ne sono a volontà. Ma spesso non si vedono, perché nascoste tra case normali o «mimetizzate» tra esse. Ricco o povero, bianco o meticcio, il cileno è orgoglioso della sua patria: provate a cercarne uno per le strade in occasione delle partite della Roja (Rossa, la nazionale di calcio cilena), rimarrete completamente a mani vuote.

UN PULLMAN ARANCIONE

La strada che porta dall’aeroporto internazionale al centro città ti riempie gli occhi di «normalità». Industrie, cantieri, cartelloni pubblicitari, e poi grattacieli, macchine modee, ristoranti, cinema multisala: il modello di vita occidentale è stato assimilato completamente anche a queste latitudini.
Nella frenesia degli acquisti, del ritmo di lavoro, delle relazioni fra le persone, il centro di Santiago ricorda il Nord Italia. Persino i lineamenti delle persone, a volte, ricalcano quelli europei.
Le micro, gli onnipresenti pullman arancioni, sfrecciano per le vie della città in eterna competizione: chi ha più passeggeri ha maggiori guadagni, buona parte degli autisti sono proprietari del mezzo, e ognuno di essi lo personalizza a piacimento, con tendine colorate, santini, portafortuna, scritte e immagini incollate ai vetri.
Se riesci a prenderla o a salire senza cadere, la micro ti racconta Santiago, essendone il mezzo di trasporto più diffuso e popolare, che raggiunge anche le periferie più estreme. Salgono studenti, lavoratori, disoccupati (il 9% secondo le stime ufficiali, almeno il doppio a giudicare da quello che si vede nelle strade), anziani (ma pochissimi pensionati, la previdenza sociale è una chimera), vagabondi, artisti che si esibiscono in cambio di una mancia e mercanti di ogni bene di consumo, commestibile o meno.
I disoccupati, dice il governo, sono circa il 9%, meno dell’Italia. Ma se poi scopri che «occupati» sono considerati tutti coloro che hanno guadagnato anche solo qualche peso durante l’anno, il discorso cambia.
Luis è uno di questi: 35 anni, tossicodipendente e con precedenti penali per furto, vende gelati sui pullman e agli incroci stradali. Lo incontri a una mensa popolare, tutti i giorni, dove racconta le sue peripezie agli altri avventori (anziani, alcolizzati cronici, famiglie indigenti) caricandole di immagini forti: «Ieri i carabineros mi hanno fermato (Luis non ha il permesso per fare il venditore ambulante, quasi nessuno ce l’ha); ho cercato di scappare, ma mi hanno raggiunto. E sono state botte da orbi» dice mostrandoti grossi lividi su braccia e gambe.
Per conoscere Luis e tanti altri come lui devi cambiare il tuo modo di «vedere» Santiago: via dal luccichio dei negozi del centro, via dai grattacieli della zona commerciale di Providencia, via dalle sontuose ville e dai futuristici centri commerciali di Las Condes e La Reina, dove sembra di passeggiare sopra un enorme tappeto di benessere.
Il cileno che tiene plata (ha i soldi, e ne ha tanti) vive in un mondo in cui tutto è possibile, a portata di mano. Cliniche private, università prestigiose, servizi alla persona impeccabili e tutti nelle vicinanze: un paradiso sociale.
Ma c’è un altro cileno, tanto diffuso quanto nascosto, che per tutta la vita sarà chiuso in un altro mondo, fatto di miseria, soprusi, nessuna speranza di sbarcare il lunario.
Nascosto perché vive lontano dai riflettori, in posti dai nomi molto meno accattivanti: La Pintana, Maipú, La Legua. O Peñalolen, il luogo da cui vedi le «luci gialle», la cui situazione merita una fermata speciale.

SOTTO IL TAPPETO

Con 200 mila abitanti, l’aria più pulita della città (lontano dal centro, 700 metri sul livello del mare) è uno degli esperimenti più riusciti di politiche socio-ambientali (una vasta comunità ecologica in cui centinaia di artisti e musicisti vivono in modo autonomo offrendo spunti culturali di notevole livello), Peñalolen avrebbe tutte le caratteristiche per essere un quartiere ricco, come la vicina La Reina. Ma non è così.
C’è una chilometrica cancellata che divide i due quartieri su Avenida Josè Arrieta, arteria importante della zona est di Santiago: dietro queste inferriate, guardie private assicurano agli abitanti di La Reina quel paradiso sociale di cui sopra.
Dall’altra parte, nessuna guardia, molta più gente a piedi apparentemente senza meta, cani randagi e affamati ai bordi delle strade. Ma niente esagerazioni: le case sono modeste ma di mattoni; le attività commerciali non mancano; frotte di bambini si recano a scuola con il loro grembiule color piombo, tanto obbligatorio quanto «scialbo».
Dove sta il dilemma? Toiamo per un attimo all’immagine del tappeto.
Se ci avviciniamo a queste case all’apparenza normali, notiamo subito due cose: una striscia verde, impeccabile, di erba, e una stradina che, circumnavigando l’abitazione, sparisce dietro di essa.
La striscia verde, innaffiata quotidianamente da ogni buon cileno, memore di un’efficace affermazione venuta dagli ambienti governativi («il giardino davanti a casa è lo specchio della vostra anima»), è il trionfo dell’apparenza: dentro, le case non sono così pulite, belle; spesso il cibo a tavola è scarso, l’arredamento ridotto all’essenziale, i letti meno delle persone. Invece, la televisione c’è e troneggia nel salotto, radio e computer non sono così insoliti.
La stradina è la via che conduce alla verità: ti aspetti un giardino nel retro, trovi una baracca; sposti di qualche metro lo sguardo, ne trovi un’altra, poi un’altra ancora.
Ecco che il tappeto si alza, per poi sparire senza lasciare traccia. Sotto questo tappeto centinaia di famiglie, migliaia di bambini che vivono in condizioni di forte disagio. Famiglie del tutto atipiche: padri inesistenti, ragazze-madri ospitate da zii, nonni, o conviventi con fratelli, cugini; un nugolo di niños che spesso condivide il proprio letto con due, tre persone adulte, con le conseguenze del caso. Nelle baracche, oltre all’acqua calda e alla vasca da bagno, mancano le divisioni fra gli ambienti.
Perché queste baracche così nascoste? Sono le uniche abitazioni che si trovano, per chi non è povero. L’affitto, seppur alto, è contrattabile con il proprietario del terreno, reduce anch’egli da un passato simile e dunque, quando va bene, «sensibile».
Ma la ragione vera è un’altra: se sei così nascosto, nessuno ti può vedere «dentro». Per ricostruirti un’immagine nella società, spendi i pochi soldi che hai in capi d’abbigliamento e altri beni secondari che ti fanno apparire interessante. Non ti accorgi, ma baratti la dignità con il materialismo, passando dalla povertà alla miseria.
A Peñalolen, negli ultimi 40 anni, si sono riversate migliaia di persone provenienti dalla campagna, in cerca di un’anonima ma più speranzosa vita di città. Il quartiere si è espanso, tuttavia, con le Ande così vicine, i nuovi arrivati si sono dovuti incastrare dove hanno potuto. Poi è arrivata la dittatura, e con essa la volontà del regime militare di «ripulire il cuore della capitale»: migliaia di senzatetto, vagabondi cacciati nelle periferie, laggiù dove nessuno può né vederli né sentire il loro odore. Sotto il tappeto, dunque.
Molti sono stati torturati, chissà quanti desaparecidos (scomparsi) o eliminati sommariamente; pochi altri, quelli con più niente da perdere, si sono riorganizzati. Chi impugnando armi, aumentando in tal modo la spirale della violenza, chi i propri diritti: prendi un terreno qualsiasi, ne rivendichi il possesso, costruisci case di lamiera, legno, polistirolo, a volte decine in una sola notte, ti attacchi a edifici circostanti per ottenere luce, acqua, gas. Fai così nascere i campamentos: versione tutta cilena, assai organizzata a livello politico, delle baraccopoli sudamericane.

LE FERITE, IL FUTURO

Pinochet è l’eterno incubo con cui, ancora oggi, deve fare i conti gran parte della popolazione cilena.
Ultraottantenne, finalmente subissato dai processi a suo carico (per violazione dei diritti umani, dove riesce sempre a farla franca, facendosi passare per pazzo; per frodi bancarie di migliaia di dollari, per le quali anche la sua famiglia è finita agli arresti) e da «fedeli del regime», che gli voltano le spalle, il generale in ritiro Augusto Pinochet ha ancora il 30 per cento della popolazione che lo apprezza.
Persone che, per la maggior parte, hanno vissuto la dittatura senza conoscee le efferatezze, in quanto appartenenti alle classi alte, o lontani dalla politica. Sono molti quelli che negano la politica di terrore fisico e psicologico del regime, nonostante le migliaia di testimonianze raccolte e il recupero storico dei «luoghi della tortura»: case e ville private, scuole, edifici dismessi, disseminati in tutto il paese.
Uno di questi, il più famoso, è la Villa Grimaldi, che, guarda caso, si trova proprio a Peñalolen, al numero 8201 di Avenida Arrieta. Dall’11 settembre 1973, giorno del golpe, per i primi 5 anni del regime, migliaia di dissidenti politici e semplici cittadini «sospetti» sono stati sottoposti a violazioni di diritti umani, con forme brutali e umilianti. Chi per pochi giorni, settimane o mesi interi, chi scomparendo nel nulla o non uscendone vivo.
Hugo, che oggi ha 53 anni, ma ne dimostra almeno una decina in più, è entrato e uscito diverse volte dalla Villa in quegli anni. Ieri era sostenitore del governo di Unidad Popular di Salvador Allende, oggi si ritrova ridotto a uno straccio: fegato spappolato, numerose fratture intee che non si sono mai rimarginate, dentatura pressoché inesistente e una sofferenza sul viso che si attenua solo quando c’è una bottiglia di vino tinto nel suo campo visivo. Le torture l’hanno ucciso dentro, tanto da non aver risposto all’ultimo appello del governo, che ha chiesto ai cittadini di «raccontare» le proprie storie, in un tentativo di cancellare gli orrori del passato recente (la dittatura è caduta nel 1990, con l’esito a sorpresa di un referendum che avrebbe dovuto prolungarla), riportando verità e giustizia.
A Hugo fa troppo male scavare nel passato. In lui, come in tanti altri, rimane l’orgoglio di essere cileno, quello dell’attaccamento alla Roja e della goliardia delle Fiestas Patrias, che cadono il 18 settembre e riuniscono tutta la popolazione in balli e canti popolari. Ma è un orgoglio ferito, e rimarrà segnato per sempre.
Hugo non crede nel futuro, per colpa del passato. Gli abitanti di Santiago e del resto del Cile, invece, possono lottare per avere un futuro sempre più equo a livello etico, imparando proprio da un difficile passato in cui il valore di una vita umana dipendeva dall’appartenenza a un partito.
Possono cominciare dal rimuovere tutti i tappeti, magari destinandoli ad abbellire le tante micro sgangherate.

Daniele Biella




Noi e Voi


Dubbi sì, ma poi?

Egregio direttore, premetto che sono abbonato alla vostra rivista da diversi anni e che la considero una delle più interessanti riviste missionarie. Leggendo l’editoriale di novembre dal titolo «dubbi», sono rimasto poco soddisfatto delle conclusioni. Interessanti le varie osservazioni a eccezione di quella sulle diete dove si domanda chi paga il prezzo. Io sono vegetariano e con me tanti amici. Cosa vuol dire con l’affermazione: «Chi paga il prezzo dell’espansione delle monocolture»?

Ma a parer mio, manca la conclusione con un invito a ogni singolo uomo e alle nostre comunità a una riduzione dei prodotti di origine animale, all’utilizzo di vetture a basso consumo energetico, a ridurre lo spreco in queste festività (sprechi nelle decorazioni …) cene varie, all’utilizzo di prodotti non avvelenati, una riflessione sui regali e così via. Tanti saluti e auguri

Daniele Engaddi Pontida (Bg), 21/12/2019

I dubbi sono dubbi, non affermazioni categoriche. Quanto alla domanda sulle monocolture, non vuole essere una provocazione, ma un invito a riflettere, abbandonando posizioni ideologiche. Su questa rivista abbiamo già espresso alcune riserve in merito nella rubrica Nostra madre terra del giugno 2019 dal titolo «L’altra faccia della soia». Ma si possono trovare altri interventi autorevoli nella stampa internazionale.

Grazie dell’invito alla sobrietà nelle festività (non solo nel periodo natalizio e di fine anno) e in tutto quello a esse correlato. Su questo ci trova completamente concordi. Lo spreco è una grande ingiustizia ed è una realtà che esigerebbe una maggior riflessione da parte di tutti, a cominciare dallo spreco del cibo a quello di energia, illuminazione notturna, imballaggi, vestiario, acqua … una lista infinita.

Finché siamo capaci di dubitare e di porci interrogativi c’è speranza. Se poi siamo anche capaci di «conversione», allora sì che c’è futuro.


«Cattolici» vs Francesco

Ho amici, cattolici, che purtroppo se la prendono con il santo padre Francesco, accusandolo di tutto il male che accade dentro la Chiesa, anche di colpe che storicamente non sono certamente sue, e a me queste loro posizioni dispiacciono molto. Tra le varie accuse, ultimamente si è inserita la vicenda del Sinodo amazzonico. In particolare, per loro «motivo di «scandalo» sarebbero le «cerimonie» di adorazione o comunque venerazione di statuette femminili, considerate dai nativi come vere divinità locali reali e di una maschile raffigurante un uomo in condizioni di erezione sessuale e di altri simboli, tra cui la barca, portati persino, a loro avviso, in processione in San Pietro, presente il papa. Io credo che quanto visto non abbia affatto motivazioni e finalità idolatriche, ma tant’è.

Potete dirmi qualcosa in merito? Oppure dove potrei trovare materiale utile per documentarmi? Vi ringrazio.

Bruno Cellini Follonica (Gr), 03/11/2019

Spero proprio che il dossier «Amazzonie», pubblicato in gennaio, abbia aiutato a chiarire alcuni di questi dubbi e l’infondatezza di tante accuse. Non aggiungo di più. Mi chiedo solo perché questi critici accettino invece come perfettamente coerenti con la nostra religione immagini come la «Madonna del latte» di Jean Fouquet, acclamata opera d’arte che di «Madonna» ha ben poco, oppure – per fare un altro esempio – la grande madre che distribuisce latte a tutti dalla parete della Sala Clementina in Vaticano, la tradizionale sala delle udienze pontificie. Per non dire di tante altre opere d’arte sparse nelle chiese di tutto il mondo o di processioni tradizionali nel Sud del nostro paese, in Spagna e in molti paesi dell’America Latina, che di cristiano hanno solo l’etichetta o la collocazione.

Gli attacchi contro il papa, specialmente – ma non solo – in occasione del Sinodo amazzonico, dimostrano solo una cosa: la lotta è contro una fede viva che interpella e provoca la società umana in tutte le sue dimensioni (politica, giustizia, pace, ambiente, povertà, centralità di Dio) per mantenere invece una religione contenta di se stessa nell’intimo di chiese inondate d’incenso, di arte e di ritualità, che si occupi solo delle anime e del cielo, lasciando ad altri la gestione del «corpo» e del mondo.


Ricordando il Mozambico

Carissimo padre, sono don Carlo Donisotti, ex missionario fidei donum della diocesi di Vercelli. La mia missione in Mozambico iniziò nel 2002 nella diocesi di Inhambane, presso la vostra missione di Santa Ana di Maimelane, fondata nel 1948 da padre Celestino Blasutto e altri confratelli. A causa della guerra in corso, due padri furono sequestrati e quindi i sacerdoti e le suore abbandonarono la missione. Il centro fu trasformato in caserma fino al 1997, quando la missione fu ripresa dai vostri missionari da Vilankulo. Là si stabilirono suor Rita, suor Florentina, suor Elisabetta e suor Clemenzia.

Ora vorrei parlarvi della loro bella testimonianza: suor Rita (Assunta Tessari) fu volontaria nel vostro ospedale, ora nazionalizzato, come infermiera e donna delle pulizie; suor Florentina (Busnello) seguiva le donne nel cucito; suor Elisabetta (Possamai) si occupava della catechesi e in tre anni è riuscita a creare un gruppo di catechisti che la aiutarono a ricostituire cinquanta comunità che si erano disperse durante la guerra; suor Clemenzia (Sicupira), con la sua moto, arrivava ovunque ad assistere ammalati, orfani e persone denutrite. Le sorelle erano seguite da padre Alceu Agarez di Vilankulo e, nonostante la malaria, con enorme fatica e tanto lavoro, riuscirono a dare forma alla missione. L’esempio di queste eroiche suore era sorprendente.

In quegli anni così belli ho apprezzato lo stile di famiglia proprio dei vostri missionari. A Maputo padre Manuel Tavares era una presenza attenta e sempre pronta ad aiutare i missionari in difficoltà. A Guiúa, padre Diamantino Antunes (oggi vescovo di Tete, ndr), con padre Gabriele Casadei, erano molto accoglienti e lasciavano i loro impegni per ascoltare e aiutare chi si rivolgeva a loro, come padre Alceu e padre Carlo Biella a Massinga. A Vilankulo, padre Andrea Brevi e padre Sandro Faedi erano diventati un punto di riferimento per i diocesani. Non si può dimenticare padre Arturo Marques, superiore regionale, che si fermava sempre dai padri e dalle suore consolatine.

Ho viaggiato attraverso le varie comunità, accompagnato da suor Elisabetta e sovente mi confidavo con lei esprimendomi un po’ negativamente sullo stile di alcuni missionari. La suora mi lasciava parlare e poi con garbo e tanta carità mi elencava le virtù e le qualità di ognuno di loro. In breve tempo, ho capito che i gruppi della congregazione avevano fatto proprie le qualità di rispetto, di comprensione e di famiglia di cui il beato Allamano era stato promotore. Anche a Mambone, padre Amadio Marchiol, apparentemente burbero nell’accoglienza, seguiva la stessa filosofia. Infine, fiore all’occhiello, era fratel Pietro Bertoni, anima stupenda, generosa, umile, gioiosa… le qualità di un vero missionario.

Tutti quei valori che padri e suore mi hanno trasmesso quando ero in Mozambico sono stati per me una ricchezza e un grande insegnamento che mi sostengono nella vita quotidiana.

Spero, prego e mi auguro che il beato Allamano e Maria Santissima illuminino il cuore di tanti giovani, affinché possano scoprire, nella vostra istituzione, la bellezza del vivere in famiglia, amandosi con uno stile unico e fraterno.

Grazie per il vostro esempio.

Don Carlo Donisotti 19/01/2020


Museo

Caro Direttore, bellissimo l’articolo sulla comunità di giovani famiglie di Mongreno (MC 12/2019, ndr). Ho trovato invece in un altro articolo un accenno un po’ troppo sbrigativo sul museo etnografico dei missionari della Consolata, che non è una robetta, ma un enorme patrimonio da valorizzare. È difficile trovare in Italia, e forse in Europa, tanta ricchezza che può essere di base a una cultura antropologica, e che ha solo bisogno di essere schedata, classificata e esposta in una sede più degna e più ampia, e non solo in un magazzino..

Certo, non è il compito dei missionari, anche se quelli in ritiro potrebbero essere utili. E tutto si deve a un colpo di genio dell’Allamano che prescrisse di riportare a Torino tracce delle culture e delle colture che i missionari incontravano, ma raccomandò di pagarle e di non farsele regalare. E una comunità che ha visto all’opera per anni un missionario che chiede di portare a Torino un bel ricordo e vuole assolutamente pagarlo il giusto, gli darà quello che ritiene il meglio. Certamente di più di quel che si dà a chi offre perline di vetro, o a chi cerca di razziare qualcosa.

Sono convinto che le fondazioni bancarie torinesi sarebbero felici di programmare la valorizzazione di tanto patrimonio, e anche di far collaborare la cattedra di antropologia dell’Università

Claudio Bellavita 25/12/2019

Effettivamente in una breve notizia si è solo accennato al museo etnografico dei missionari della Consolata custodito ormai da oltre un secolo nei locali della Casa Madre di Torino.

Iniziato ai tempi dell’Allamano, alimentato con competenza e passione da tanti missionari, sopravvissuto ai bombardamenti del 1943, rilanciato negli anni ‘80 e da allora curato con passione da padri come Bartolomeo Malaspina, Achille Da Ros e, ancora oggi, Giuseppe Quattrocchio, un affabulatore che incanta e Angelo Dutto, il museo attende un’esposizione più degna che richiede persone, tempo e mezzi. Aperto solo per visite private, si offre al pubblico – nella sua forma provvisoria – sul web come «Museo etnografico missionari Consolata».

Il successo dell’esposizione sull’Amazzonia nei Musei vaticani, realizzata con molti reperti provenienti dal nostro museo, sta incoraggiando a trovare una sistemazione dignitosa e definitiva, che speriamo possa diventare realtà quanto prima.


Svalutazione

Con riferimento all’articolo «L’euro della discordia» su MC 5/2019, senza prendere in considerazione le osservazioni sul dedito pubblico, ci troviamo assolutamente perplessi per quanto riguarda quanto scritto sull’euro, in particolare per i ragionamenti sulla svalutazione.

Quando si afferma che l’euro avrebbe danneggiato le esportazioni del nostro paese non si tiene conto di alcune questioni importanti.

  1. La svalutazione della moneta nazionale nei confronti delle altre vuol dire che, con una unità di moneta straniera, si comperano più unità di moneta nazionale. Per esempio, un tempo si comperavano più lire con un dollaro, quindi gli americani avevano maggior convenienza a comperare in Italia; di qui la maggior competitività delle nostre esportazioni. Per contro, poiché per comprare un dollaro erano necessarie più lire, tutte le materie prime con prezzi in dollari, a partire dal petrolio, costavano di più agli italiani. Se dunque oggi non avessimo l’euro, con il formidabile aumento dei prezzi del petrolio avvenuto negli scorsi anni – e che è prevedibile perduri – il costo di spese essenziali, quali per esempio il riscaldamento delle abitazioni e dell’energia elettrica, graverebbe ben di più sulle famiglie.
  2. La svalutazione della moneta porta all’inflazione interna e dilapida i risparmi delle persone cioè il valore del loro lavoro accumulato negli anni; di fatto l’inflazione riduce il potere di acquisto delle persone. Riuscire o non riuscire a difendersi dipende dalla più accidentale distribuzione del potere contrattuale tra i lavoratori.

I bei tempi delle svalutazioni spingevano i «semplici» a ritenere di star bene in quanto c’era lavoro, ma non erano in grado di sapere che tale situazione era in buona parte sostenuta artificialmente dalla cosiddetta competitività dei prezzi che era permessa proprio da quelle svalutazioni.

Tornando però all’euro, in questi anni il problema italiano non sono state le esportazioni, aumentate dal 18% del Pil del 2009 a oltre il 25% del 2017. L’errore è nel credere che le nostre imprese debbano competere con la svalutazione della moneta nazionale, mentre ne hanno bisogno soltanto le imprese incapaci di migliorarsi attraverso la qualità dei loro prodotti e l’innovazione.

La vera carenza dell’economia nazionale è l’incapacità di creare un numero sufficiente di imprese che diano lavoro qualificato, soprattutto ai giovani, e siano in grado di competere grazie all’innovazione dei loro prodotti, non attraverso il basso costo del lavoro che permette bassi prezzi.

La carenza di imprese deriva, certamente anche dalla inefficienza della pubblica amministrazione, ma soprattutto dalla insufficiente capacità imprenditoriale. Non possono essere suscitate se non si riesce a cogliere e promuovere l’aspetto nobile dell’attività imprenditoriale: dare lavoro e soddisfare, con l’innovazione e le tecniche, i bisogni reali delle persone.

Grazie per l’attenzione

Piercarlo Frigero e Gian Carlo Picco, Torino, 07/06/2019

Questa email era finita nel dimenticatoio per un disguido. Sollecitato dagli autori, l’ho girata a Francesco Gesualdi, che così ha risposto.

«Ringrazio per le precisazioni che sono incontestabili. La svalutazione inevitabilmente ha effetti di lievitazione sui prezzi interni, specie se il paese dipende dall’estero per le materie energetiche. Ciò non di meno, è altrettanto innegabile che nell’immediato può avere la capacità di rilanciare le esportazioni perché rende le proprie merci più convenienti da un punto di vista valutario. Appurati gli effetti, decidere se svalutare o meno è una scelta politica che dipende da ciò che si ritiene preminente nel momento dato e dalle valutazioni che si fanno sugli effetti di lungo e breve periodo. Trattandosi di obiettivi, ponderazioni e valutazioni, ognuno può giungere a conclusioni diverse, e ciò mi pare più che legittimo. Il problema che si pone nel caso dell’euro è se sia stato vantaggioso sposare una situazione che priva dell’autonomia di svalutare. Ovviamente anche in questo caso non esiste una risposta univoca: più risposte sono possibili in base alle valutazioni sociali, politiche ed economiche, sapendo, comunque, che la storia è l’ultimo giudice di ogni scelta».

Francesco Gesualdi


Banche armate

Buongiorno Direttore e Redazione. Sono abbonato alla rivista Missioni Consolata i cui contenuti a carattere socioeconomico ed etico condivido e sostengo. Segnalo che tra le banche da voi utilizzate, compare Unicredit Banca che Francesco Gesualdi, ancora una volta, annovera tra le «banche con l’elmetto», quindi legate al commercio di armi (vedi MC 12/2019 pag.6). Mi aspetto che abbandoniate quanto prima questo legame e, come in molti hanno fatto e facciamo, intraprendiate rapporti bancari con Banca Popolare Etica, che vuole stare sul mercato in modo etico, responsabile e trasparente. Auguri a tutti Voi,

Alessandro Grando Verona, 21/12/2019

Siamo ben coscienti della problematica e della contraddizione della nostra posizione, nella quale da una parte attacchiamo le banche armate e dall’altra invece le usiamo. È certamente una situazione complessa, spina nel fianco da un bel po’. Grazie comunque per lo stimolo offerto che passo ai miei diretti superiori con speranza.


La lotta degli Yanomami

A Parigi, il 30 gennaio 2020, alla presenza di fratel Carlo Zacquini, Imc, e Davi Kopenawa, è stata inaugurata la mostra di Claudia Andujar «La lotta Yanomami». Promossa dalla Fondazione Cartier, rimarrà aperta fino al 10 maggio prossimo.
Info: www.fondationcartier.com.

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Cari Missionari

Michele De Michelis

Nasce
a Nichelino (To) il 06/12/39. In tenera età perde la mamma e vive con la
sorella poco più grande e il padre. Dopo la scuola media studia dai Salesiani
per diventare tipografo e, finita la scuola, inizia subito il lavoro in
tipografia. All’inizio degli anni ‘60 il padre viene trasferito a Biella per
lavoro, ma Michele sceglie di rimanere a Torino perché ama la sua città e le
montagne. Alcuni anni dopo inizia la sua avventura con le missioni, lavora a
Mani Tese, collaborando con il cuore e le mani; la sua disponibilità per la
realizzazione degli ideali del Movimento, e verso gli amici, è totale. Con gli
anni matura la decisione di andare in Africa, con i missionari della Consolata,
dove mette a disposizione la sua professionalità. Rimane due anni in Kenya.
Rientrato in Italia, riprende la sua vita da single e trova lavoro come custode
nel seminario di Via XX Settembre dove svolge il suo servizio con grande umanità
fino al-
l’età di 71 anni. Nella sua piena disponibilità verso il prossimo, i poveri e i
bisognosi per anni presta servizio al Sermig. Muore a Torino il 16 marzo 2013.
Michele, che hai amato la natura e la montagna, che hai sempre tenuto presente
e vissuto i valori dell’amicizia, sarai sempre nei nostri cuori.

Gli
Amici con p. Giordano Rigamonti,
16/04/2013

FESTA PER ROLANDO RIVI

Nel
68° dell’uccisione del Servo di Dio Rolando Rivi, il 13 aprile, alle 18,00, nel
Duomo di Modena, l’arcivescovo Antonio Lanfranchi ha dato l’atteso annuncio
della promulgazione del decreto della Congregazione della Cause dei santi che
ne riconosce il martirio avvenuto nel 1945, quando Rivi aveva solo 14 anni.

La
vita di Rolando è legata alla chiesa di San Valentino di Castellarano (Modena),
dove i missionari della Consolata sono stati fino al 2011. P. Colusso Giovanni
(1915-2007), parroco per molti anni e ivi sepolto, è stato uno dei principali
promotori della causa di beatificazione del martire e una concausa del
miracolo a lui attribuito, come racconta Emilio Bonicelli, autore del libro «Il
sangue e l’amore» sulla storia di Rivi, in un articolo del settembre 2012 su www.tempi.it.

«Sono rimasto folgorato dalla storia di questo piccolo
ragazzo, profondamente innamorato di Gesù e trasformato da questo amore, su cui
aveva progettato la sua intera esistenza. E per tale amore è stato sequestrato,
torturato e ucciso da uomini accecati dall’ideologia. Quando ho “incontrato”
Rolando vivevo una vicenda personale molto difficile. Ero da poco tornato al
lavoro dopo una lunga convalescenza seguita a un trapianto di midollo osseo per
curare una leucemia. Allo stesso modo, un bambino inglese era guarito da questo
cancro ma attraverso una grazia. Sotto il suo cuscino, un amico aveva posto una
ciocca di capelli di Rolando, intriso del sangue del martirio.

Come ha fatto una ciocca di capelli di Rolando Rivi a
finire in Inghilterra?

Un giovane di origine indiana, che aveva studiato a Roma
e completato i suoi studi in Inghilterra, dove guidava un gruppo di preghiera,
era stato accolto da una famiglia di amici protestanti. Rimase colpito da un
articolo dell’Osservatore romano, che parlava proprio di Rolando. Il giovane si
mise in contatto con padre Colusso, parroco di San Valentino dove Rolando è
sepolto e venerato. Il figlio più piccolo di quegli amici protestanti si era
ammalato di leucemia e il giovane chiese al prete una reliquia per poter
chiedere l’intercessione di Rolando. Padre Colusso gli spedì la ciocca di
capelli. Al termine di una novena di preghiera, il bambino stava bene».

Ora finalmente, dopo sessant’anni, il silenzio su Rolando
è finito e sarà dichiarato beato. Sono sicuro che p. Colusso, dal cielo, esulta
con tutti noi.

Bruno
Bardelli
Castellarano, 15/04/2013

Precisazione

Caro
direttore, mi permetta una piccola precisazione circa un dettaglio riguardante
il dossier «Missione di carta» marzo 2013 apparso sulla sua pregiata rivista
che leggo con tanto piacere. La precisazione riguarda l’articolo di Lorenzo
Fazzini, in chiusura di dossier. Di don Luigi Bonomi si dice che era «uno dei
preti mazziani rimasti prigionieri del Mahdi in Sudan». Don Bonomi non era un
mazziano, ma un sacerdote diocesano veronese reclutato da mons. Daniele Comboni
per il Sudan nel 1874. Alla morte di don Nicola Mazza (2 agosto 1865), il suo
successore don Gioacchino Tomba non si sentì di continuare l’impegno del suo
istituto per la missione africana e a Comboni non restò che continuare il suo
progetto con l’aiuto di missionari reclutati tra sacerdoti diocesani e altri
vari. Uno di questi fu anche don Luigi Bonomi, che divenne membro dell’istituto
fondato dal Comboni stesso nel 1867.

P.
Giuliano Chisté
Verona,10/04/2013

a cura del direttore