Entusiasta e irruente come sempre, padre Antonello è ritornato a Neisu, la missione dove aveva lavorato 15 anni fa, per rimettersi al servizio di un paese spaccato in due e sommerso da problemi infiniti. Annunciando l’amore di un Dio («Anghele») che ci salva con la croce e vuole una vita migliore per tutti.
Dopo 15 anni, sono tornato in Congo con un sentimento di grande gioia, anche se offuscata dal fatto che non avrei più incontrato padre Oscar (vedi inserto), con il quale avevamo iniziato la missione di Neisu in piena foresta… Ricominciare non è stato facile.
UNA povertà… troppo visibile
Avevo lasciato lo Zaire. Mi ritrovo nel Congo (repubblica democratica), in una zona staccata dal resto del paese e occupata dai soldati dell’Uganda. Vigono ancora le vecchie cariche politiche, ma mancano i fondi. L’Uganda, occupando queste terre, porta via diamanti, oro, legname, senza investire. Ne consegue che l’intera classe politica (dai governatori ai commissari zonali), polizia, insegnanti, infermieri… non sono pagati. Gli unici che hanno qualcosa sono i missionari e pochi commercianti. Chi ne patisce le conseguenze è, naturalmente, il popolo, oppresso da multe fantomatiche, requisizioni arbitrarie, imprigionamenti senza processo. Per esempio: un lavoratore della missione di Neisu è stato imprigionato per un litigio in famiglia; oltre un mese di assenza, senza processo, perché nel frattempo doveva lavorare… per il capo! Avevo lasciato uno Zaire che, comunque, tirava avanti, e ho ritrovato una repubblica solo di nome e allo sfascio. Nella nostra brousse (60 mila abitanti), 15 anni fa, esistevano una ventina di piantagioni di caffè, due fabbriche per l’olio e una per il cotone. Chi gestiva le piantagioni si preoccupava poco della gente, però assicurava l’assistenza medica agli operai e un salario: non molto alto, ma garantiva un minimo di liquidità per acquistare un vestito, pagare le tasse scolastiche ai figli, curarsi in caso di malattia, ecc. Dopo la stagione del caffè, venivano le arachidi e, in dicembre, il riso. L’economia funzionava, perché si commercializzavano i prodotti. Alludo, per esempio, alla produzione di riso, a Isiro: i contadini non solo ne avevano per il loro fabbisogno, ma potevano venderlo alla brasserie (fabbrica di birra). E la gente aveva qualche soldo. Ora, di quelle 20 piantagioni non ne esiste più una. Abbiamo una cappella, che si chiama Noula Huilerie; ma bisognerà cambiarle il nome, perché dell’oleificio esistono solo i muri, giacché hanno rubato anche le lastre zincate. Funzionava pure la ferrovia: molti sacchi di cemento, per la costruzione del nostro ospedale, sono arrivati in treno. Oggi è solo un triste ricordo. Ho trovato una povertà estrema, e stento a capirla. Un giorno scaricavamo la macchina con delle mercanzie. C’era un ragazzo a torso nudo (è raro qui vedere, pur nella povertà, gente che viaggia senza camicia, a meno che siano bambini). L’ho rimproverato. Lui mi ha detto: «Padre, io ho una sola camicia e la uso per la scuola; l’ho lavata e sta asciugando al sole!». Alla missione non mancano i bambini. Ciò che più mi impressiona è che non cercano più soldi, ma lavoro: tutti ragazzini delle elementari alla ricerca di un po’ di denaro per pagare la scuola. Uno mi ha detto: «Sono stato cacciato, perché non ho pagato la tassa scolastica». – Chiama papà o mamma e digli che il padre vuole conoscerli per sapere come stanno le cose! – Papà e mamma sono morti di aids… Il catechista di un villaggio ha nove figli, quattro suoi e cinque del fratello morto, e li mantiene tutti. Nonostante la pena, i bambini sono accolti da altre famiglie… solo che la situazione diventa sempre più drammatica. Allora i bambini disertano la scuola. Non è colpa loro, come non lo è dei genitori, che stentano a sopravvivere. Le mamme non ce la fanno più. Mancando in casa di un salario, devono arrangiarsi, magari inseguendo i mercatini per racimolare due soldi. Eppoi basta che ci sia un lutto in casa e tutti i risparmi se ne vanno: perché si deve ospitare le famiglie che arrivano, comprare un lenzuolo per avvolgere il cadavere, costruire la bara per non far torto al morto… Ho ricevuto, da una signora non vedente della Brianza, un pacco di lenzuola, ma stanno andando tutte per i morti, perché bisogna rispettare le tradizioni. Quando sono arrivato nel dicembre 1999, un dollaro veniva cambiato a 900 mila nouveaux zaires. Oggi ne occorrono 7 milioni! Invitare al risparmio è assurdo, perché non esistono banche. Facciamo un’opera educativa, per coinvolgere la gente nella gestione delle scuole e dell’ospedale. Infatti la scuola funziona, perché i genitori degli allievi pagano gli insegnanti; pagano pure l’ospedale. Interviene anche la missione per i casi pietosi. Però mi chiedo di che cosa la gente deve ancora farsi carico, quando è abbandonata dallo stato e abita in un paese ricchissimo senza godee assolutamente nulla.
L’ultimo stregone
Sotto l’aspetto religioso, mi ha favorevolmente impressionato la crescita del clero locale. Anche noi, a Neisu, lavoriamo con un missionario della Consolata congolese: un segno che i tempi stanno cambiando. Un’altra novità: un tempo si battezzavano quasi tutti adulti; ora il catecumenato è seguito in maggioranza da bambini. L’evangelizzazione di massa è stata fatta; oggi si tratta di approfondire la fede, che in molti è abbastanza marcata. Un grosso aiuto ci viene dal movimento carismatico, soprattutto a livello familiare: fare ordine nelle famiglie dei poligami e in quelle che hanno difficoltà per la dote matrimoniale. Ci è venuta un’idea: scrivere una lettera (con i protestanti) e proporre ai parenti di chi è sposato già da sette anni di «condonare» la dote, anche se non è stata pagata tutta, e permettere ai figli-nipoti di celebrare il matrimonio religioso. L’anno santo è stato un forte momento di evangelizzazione. Convinti che il cuore del vangelo è la croce di Gesù Cristo, abbiamo visitato tutte le cappelle, portando il grande crocifisso della chiesa parrocchiale. Abbiamo annunciato in kimgbetu che il compendio della bibbia è la morte di Cristo e che Anghele (Dio) ci ha amati fino alla fine. L’amore di Dio sono in tanti a conoscerlo, ma un Dio che ci ami fino a morire… Non è buono solo perché ci dà i frutti della foresta o i figli, o perché ci fa felici qualche giorno e poi ci castiga quando le cose vanno male. No, Dio è sempre buono perché è morto per noi! E non mancano «le conversioni». Un giorno padre Richard è tornato dalla brousse con lo strumento di divinazione di uno stregone. Ha voluto convertirsi al vangelo e, per questo, ha rinunciato ai suoi «strumenti di lavoro», causando dei problemi al capovillaggio, che diceva: «Se costui si fa cristiano, non so più dove mandare la gente a risolvere i problemi, perché è l’ultimo stregone». Era… potente, perché con la sua soroka (pietra magica) riusciva perfino a mandare i fulmini su chi voleva! Un vecchietto furbo. Eppure si è convertito, non perché vicino alla morte, ma perché davanti alla croce di Gesù ha intuito quanto grande è l’amore del Padre per gli uomini, per lui. È stato un grande segno per tutta la popolazione. Però la nostra gente non ha il senso dell’eucaristia. Questo ci richiede un grande impegno: la missione non arriva al suo fine se non giunge all’eucaristia. L’eucaristia è il crinale, è l’amore di un Dio che vuole vivere con noi nella storia. Oltre a dispensari e scuole, vorremmo allora costruire chiese in muratura, nei grossi centri, per celebrare e distribuire l’eucaristia la domenica: è attorno ad essa che si consolideranno le comunità cristiane, legate dalla stessa fede e impegnate a cambiare in meglio la realtà. Puntiamo anche sulle comunità di base, come mezzo di inculturazione del vangelo: pensare ai problemi locali, ma dal punto di vista cristiano. Ad esempio, la morte. Quando un mangbetu muore, arrivano parenti e amici. Allora sorgono i problemi, perché – dicono – la morte è stata causata da uno della famiglia (anche se il decesso è avvenuto all’ospedale). Con padre Oscar, avevo scritto un libretto, Nella sofferenza ti ho cercato, per evangelizzare il dolore e la morte: un piccolo tentativo per condurre la cultura locale (che di fronte alla sofferenza si ribella in modo violento) alla fede in Gesù salvatore e alla speranza cristiana. Un messaggio che, se compreso, può allargare il cuore alla speranza e spingere a lottare, senza stancarsi, per costruire un paese e una comunità dove trionfi finalmente la vita.
Il «cuore» Nella missione del «cuore» padre Oscar Goapper, missionario e medico
Missione di Neisu. Vi si arriva attraverso una via sterrata di 30 chilometri, tra le palme e i bambù della fitta foresta. Tempo, un’ora e mezza di Land Rover, se non piove. Neisu, in lingua mangbetu, significa «cuore». Un cuore che oggi batte soprattutto nell’ospedale. È sorto in una notte di natale senza stelle, allorché i padri Antonello Rossi e Oscar Goapper si sono visti morire fra le braccia una bambina. «Che evangelizzatori siamo – si sono chiesti i due missionari – se non compiamo le opere del vangelo? Gesù curava gli ammalati. E noi? Quanti bambini moriranno stanotte di malaria! E domani, dopodomani?». L’ospedale è stato, soprattutto, il capolavoro del genio di padre Oscar in un crescendo irresistibile: pediatria, chirurgia, medicina generale; sala operatoria, farmacia, gabinetto dentistico, laboratorio di analisi, raggi X, orto con piante medicinali locali per produrre, ad esempio, l’artimisia contro la malaria. A Neisu il dottor Oscar ha effettuato la prima ecografia di tutto l’Alto Zaire. Oggi vi si compie anche l’osmosi inversa, ossia la distillazione dell’acqua per ottenere un liquido epirogeno per le flebo.
I mprovvisamente, il 18 maggio 1999, il cuore-tornado di padre Oscar si è schiantato. Troppo lavoro, troppa fatica, troppa tensione in un paese maledetto dalle guerre. Al funerale, i suoi pazienti sono corsi a migliaia: vecchi, donne e bambini sbucavano da ogni spiraglio della foresta, dopo aver inseguito sentirneri anche di 50 chilometri. La scena si è ripetuta, 40 giorni dopo, per la tradizionale matanga (fine del lutto). Secondo il costume dei mangbetu, padre Oscar è stato sepolto in casa, cioè nel cortile dell’ospedale. Così, di fronte a quella tomba, i nonni racconteranno ai nipoti la storia di mupe Oscari: (padre Oscar): un missionario della Consolata argentino che nel 1994, a 43 anni, si è pure laureato a pieni voti in chirurgia e medicina a Milano, dopo aver fatto la spola tra Africa ed Europa.
G iungiamo a Neisu una domenica, all’alba. E ci imbattiamo subito in… Oscar, «nel cuore della missione del cuore». Il cortile dell’ospedale è deserto. Sulla tomba del missionario si staglia una croce in ferro. Dopo alcuni istanti di preghiera, scorgiamo una decina di persone a pochi metri di distanza, in silenzio. Un anziano ci invita a seguirlo, per introdurci in tutte le stanze dell’ospedale, zeppe di ammalati: ovunque campeggia il ritratto del grand docteur. Da ultimo, apre la porta di uno studio. «Padre Oscar è ancora qui – afferma -. Questo è il suo microscopio, come lui l’ha lasciato. Ecco perché l’attuale dottor Norbert, congolese, non ha voluto prendere posto in questo ufficio. Però, per fronteggiare le esigenze, sarebbe necessario almeno un altro medico. Le docteur Oscar lavorava per quattro». Su una parete l’ennesima foto di padre Oscar Goapper, sorridente, che abbraccia un bambino. Francesco Beardi
Antonello Rossi
CONGO – A scuola con una bottiglia d’olio
Non è più giovanissimo quando raggiunge il malconcio Zaire di Mobutu. Parla il francese così così, mentre ignora del tutto lo swahili. Ma il missionario della Consolata è un marchigiano tenace. Sul campo viene addirittura promosso vicevescovo,nonché cornordinatore di tutte le scuole della diocesi di Wamba. E incomincia il «bello» in un «bruttissimo» paese, che si dibatte fra due guerre: quella di Kabila nel 1996e quella contro il nuovo presidente subito dopo. Tuttora in corso, dopo 2 milioni di morti.
passando davanti all’ex carcere
– Padre Angelo, quando ci possiamo incontrare? – Domani mattina in ufficio, alle otto. È l’alba, mentre raggiungiamo a piedi l’episcopio di Wamba (nella repubblica democratica del Congo), dove padre Angelo Baruffi è vicario generale della diocesi. Passiamo di fronte alle ex prigioni in mattoni rossicci. Il primo sole investe i muri rendendoli quasi sanguigni. All’ingresso di quel carcere, il 26 novembre 1964, fu massacrato dai simba di Mulele il vescovo belga Joseph Wittebols: il corpo, buttato in un torrente, non fu più ritrovato. Il giorno dopo furono trucidati altri sette missionari, anch’essi «perduti» per sempre. I simba non risparmiarono neppure i cattolici locali, fra cui suor Anwarite. Beatificata nel 1985, è patrona delle diocesi di Wamba e Isiro. Nel 1964 il Congo era indipendente da soli quattro anni, però già si tingeva di sangue. Nel luglio del 1960, sotto il presidente Kasavubu e il capo di stato maggiore Mobutu, la nazione conobbe la secessione del Katanga, guidata da Ciombé, e il 18 gennaio 1961 l’assassinio del premier Lumumba. Poi sia la secessione del Katanga sia la ribellione dei simba (fra i quali militava Kabila, attuale presidente) fallirono. Nel trentennio 1966-96 il paese fu ostaggio di Mobutu, che nel 1971 gli cambiò anche il nome: da Congo a Zaire. Ritoò ad essere Congo nel 1997, allorché le truppe di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi e Uganda, cacciarono il dittatore. I guai però non erano finiti, perché nell’agosto del 1998 il Congo si rituffò nel sangue: l’esercito di Kabila, con Zimbabwe, Angola e Namibia a fianco, contro gli alleati di ieri: Uganda, Rwanda, Burundi e gruppi di ribelli congolesi. Poi gli ugandesi e i rwandesi hanno incominciato persino a prendersi a cannonate fra loro: a Kisangani, per esempio, al fine di depredare il ricco paese senza spartire il bottino con nessuno. È quanto fanno anche gli alleati di Kabila. È sempre stato così in Congo, fin dal 1885, quando il paese divenne proprietà personale di re Leopoldo del Belgio. un funzionario in uno stato colabrodo «Non ti spaventare del disordine!» esclama padre Angelo allorché, un po’ guardinghi, varchiamo la porta del suo ufficio. Sul pavimento in cemento giacciono zappe, scope, barattoli di colore, scatoloni di medicine, un set di strumenti meccanici, una motosega a diesel, un trapano elettrico. Un ufficio anomalo per un vicevescovo. Ma Angelo Baruffi è un missionario che non rifiuta di rimboccarsi le maniche. Tuttavia, in ufficio, indossa la camicia di prete… e un berretto quadrangolare, intessuto di fibre multicolori e infiocchettato di piume. È il tradizionale copricapo dei wabudu, l’etnia della zona, dove ufficialmente si parla swahili e francese. La nostra attenzione cade su un mucchio di cartelle. Ne prendiamo in mano una. «Quella cartella – afferma il missionario – contiene l’ultimo programma scolastico governativo. Che fatica ad averlo!». – E che te ne fai? – Beh… io sono un funzionario dello stato in tema di istruzione. – Ma se lo stato è un colabrodo! – Però non mancano i bambini che vogliono andare a scuola… In Congo esistono «tre scuole», ma con gli stessi programmi, riconosciute dallo stato e da esso sovvenzionate (oggi solo sulla carta!): – «scuole ufficiali», gestite direttamente dal governo; – «scuole private», in mano a singoli individui; – «scuole convenzionate», affidate ad enti religiosi. «Io sono cornordinatore delle scuole cattoliche primarie e secondarie della diocesi di Wamba – dichiara padre Baruffi -. Questo servizio mi è stato sollecitato dal vescovo nel 1991: un servizio che non ho certamente chiesto io, straniero, giunto in Congo a 43 anni suonati con una modesta conoscenza del francese, mentre dello swahili ero completamente digiuno. Ma, quale missionario della Consolata che deve avere a cuore i problemi del popolo, potevo forse rifiutare l’invito del vescovo?». – Qual è stato il tuo primo impatto con il problema-scuola? – Preoccupante, come minimo. Nel 1991, su 138 mila possibili allievi, quelli che frequentavano la scuola erano 22 mila, di cui solo 9 mila ragazze. DI FRONTE ALLO SCIOPERO Se nel 1991 la situazione scolastica era preoccupante, il peggio però doveva ancora venire. Fu nel 1992-93 che si toccò quasi il fondo, allorché lo stato non pagava più gli insegnanti. I genitori, pur di mandare i figli a scuola, si tassarono per rimunerare i maestri con 19 mila lire al mese. Una miseria. Ma per i wabudu era un salasso, mentre il corrotto Mobutu spendeva e spandeva. Nel giugno del 1993, dopo aver terminato l’anno scolastico con difficoltà, gli insegnanti dichiararono sciopero contro il governo che non pagava i salari. Vescovo, sacerdoti e capifamiglia erano solidali. Passarono luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre… E lo stato era sempre assente. «Io – commenta padre Angelo – non visitavo più le scuole in qualità di cornordinatore, perché non c’era alcunché da cornordinare. Un giorno, per strada, alcuni ragazzini mi hanno chiesto: “Padre, quando ci riporti a scuola?”. La stessa domanda mi è stata posta da altri bambini. Sono entrato in crisi. Ma che fare?». Già, che cosa poteva fare un missionario… straniero? «Ho chiesto al vescovo – riprende padre Angelo – di scrivere una lettera per natale da leggersi in tutte le comunità. Così è stato. Nella lettera raccontavo una storia, parafrasando il profeta Ezechiele (16, 6-14): è nato un bambino, ma viene gettato in strada, perché rifiutato; però qualcuno lo raccoglie, lo nutre e diventa bello… “Allora, fratelli, che facciamo dei nostri figli? Li lasciamo marcire sulla strada? Essi sono l’unica ricchezza rimastaci in questo stato ladro. Aiutarli significa salvare la speranza. Se volete, io riapro le scuole, ma con voi”». Da gennaio 1994 i ragazzi sono ritornati in classe. In loco si produce olio di palma: viene anche commercializzato. Serve pure a pagare gli insegnanti: circa mezzo litro al mese per allievo. ANCHE I PIGMEI A SCUOLA Nella diocesi di Wamba prevalgono i wabudu, ma si contano pure circa 30 mila bambuti (pigmei). Si tratta di popoli molto diversi, a prescindere dall’altezza (i pigmei sono più bassi: gli uomini raggiungono mediamente 145 centimetri e le donne 132). Ma la vera diversità è culturale: i wabudu sono bantu, a differenza dei pigmei che non sono classificabili. I bambuti sono molto più antichi delle etnie bantu. Ne parla il greco Omero nell’Iliade e, soprattutto, il faraone d’Egitto Neferkara (nel 2500 a. C. circa). Le differenze sono vistose anche nella vita socioeconomica. I wabudu, agricoltori, lavorano specialmente nella stagione delle piogge; i pigmei, cacciatori e raccoglitori nella foresta, operano in quella asciutta. L’insegnamento scolastico, per i pigmei, deve tenere conto della loro diversità. È assurdo programmare la scuola durante il tempo della caccia, cioè del lavoro. Nel 1994 padre Angelo Baruffi ottenne dal governo centrale un trattamento scolastico speciale per i pigmei: speciale per programma e calendario delle lezioni. Fu un’impresa ardua, come racconta il missionario: «Quando ho accennato ai pigmei, i responsabili dell’istruzione pubblica mi hanno riso in faccia, segno di non curanza e razzismo». Oggi a Wamba, su un totale di 7.500 ragazzi pigmei da alfabetizzare, 3.000 frequentano la scuola, di cui 1.300 ragazze. Sono distribuiti in 114 classi con 122 insegnanti. Vi sono scuole con soli pigmei e altre miste. Ma i wabudu devono essere in minoranza, perché c’è sempre il rischio che il più forte (bantu) schiacci il più debole (bambuti). L’accettazione dei pigmei, senza livellamenti culturali, è fondamentale, ma non facile. Al riguardo, la chiesa ha parecchio da dire. E, soprattutto, da testimoniare. nel cuore della guerra Nel 1991 gli studenti della diocesi di Wamba erano 22 mila. Al presente sono 44 mila. Un raddoppio miracoloso: perché, se nove anni fa lo stato era un misero «focherello», oggi è «cenere». Nel 2000 «Congo» è sinonimo di anarchia e guerra, che coinvolge eserciti di varie nazioni dal 1996. Senza dimenticare che a Wamba le «scuole convenzionate» con lo stato sono 85, ma padre Baruffi ne cornordina 247. – Padre Angelo, i ragazzi come vanno a scuola in un clima di guerra? – Con paura. Ma ci vanno, e l’anno inizia e termina regolarmente. – Come cornordini l’insegnamento? – Come posso. Al sopraggiungere di bande armate, tutti scappano in foresta. Ma, se le scuole sono aperte, si va anche al lavoro, si produce… La scuola è più che una speranza. – Paghi i maestri sempre con una bottiglia di olio di palma? – Anche con denaro. Però non supero le 10 mila lire mensili. – Com’è la situazione altrove? – Dipende. Nel Kivu, dove la gente sta meglio, gli insegnanti ricevono anche 70 mila lire al mese. Da noi ciò è impossibile. – Comunque tu garantisci almeno 10 mila lire al mese. – Non sempre. Dove troverei i soldi per 1.500 maestri? – Vi sono allora insegnanti che prestano servizio gratis! – Certamente. Non è di poco conto in un paese stremato. Dietro il volontariato degli insegnanti, c’è sempre lo stimolo di padre Angelo: «Se non lo fate voi, nessun altro lo fa. I ragazzi, cui consentite di studiare, sono i vostri figli, i vostri fratelli!…». La diocesi, però, fornisce libri, quadei e tutto il materiale didattico, grazie alla solidarietà della chiesa italiana. Non mancano le rotture fra i genitori degli studenti e i professori: sempre per ragioni economiche. In tali frangenti il missionario ricuce gli strappi. È un mediatore autorevole perché, pur essendo un funzionario dello stato ad alto livello, non percepisce una lira. Inoltre tutti sanno che «il padre» non si risparmia, rischiando anche la vita. N el 1996, quando Kabila iniziò la conquista del Congo e i soldati di Mobutu battevano in ritirata saccheggiando le parrocchie, i missionari furono costretti ad andarsene. Lasciarono il campo anche i vescovi di Wamba, Dungu-Doruma, Isiro e di altre diocesi. Padre Angelo no. Ricercato dai soldati, si dava alla macchia. Ma era là. Con la gente, i «suoi» ragazzi.
«SUONATE QUELLA CAMPANA PER DIO!»
In Congo gli eserciti si stanno combattendo da quattro anni. Quattro anni (destinati ad aumentare, purtroppo), che non potrò mai scordare. L’anno che, finora, mi ha maggiormente «segnato» è stato il 1997, durante il quale ho trascorso mesi interminabili da fuggiasco. A parte le distruzioni, il sangue, la morte. Restando sul «campo di battaglia», ho capito che cosa significhi vivere da solo con la gente. All’inizio, quando si sentiva la mia auto, tutti scappavano, perché pensavano che fossero arrivati i soldati per razziare; poi, riconoscendo il mio braccio bianco dal finestrino o il mio vecchio cappello kibudu, gridavano di contentezza. In Congo, prima dell’attuale conflitto bellico, ho giornito della spontanea vivacità della gente: le sonore risate degli uomini, i trilli acuti delle donne, i giochi dei bambini, i canti e balli al ritmo di tamburi o al battito di mani… Ma, con la guerra, impera il silenzio anche in pieno giorno. Un silenzio che impressiona quanto il crepitio delle pallottole. Allora nel 1997, passando di villaggio in villaggio, se c’era una campana o un cerchione d’auto (appeso ad un albero) che funge da gong, quasi gridavo: «Suonate quella campana, perdio! Battete quel gong! Rompete il silenzio!…». Il silenzio in guerra è allucinante. L’ho vissuto anche con padre Edward Olali, missionario della Consolata kenyano: io «silenzioso» da una parte e lui da un’altra. In tale contesto ho toccato con mano quanto il prete sia un punto di riferimento per la popolazione. In guerra le differenze svaniscono, anche quelle tra bianco e nero. Tutti diventano uguali, perché tutti hanno paura allo stesso modo. Però se il prete è «là», la gente (non solo cattolica) appare più tranquilla. È per questo che, come responsabile della diocesi di Wamba, in assenza del vescovo, raccomandavo a tutti i sacerdoti di celebrare la messa, di suonare ogni giorno le campane. Al mattino, se si udiva il loro suono, si andava in chiesa, e chi vedeva le persone uscire di casa ritrovava la voglia di lavorare. Anche i sacerdoti, in tempo di guerra, hanno bisogno di un riferimento. Io mi trovavo in un’area che comprende cinque diocesi, senza un vescovo. Erano rimasti solo i preti africani; ma erano «pecore senza pastore». Tutti giovani, ed io con i capelli bianchi. Sono diventato il loro «pastore». Ecco perché non ho voluto lasciare il Congo. Sono passato di missione in missione (anche per fuggire dai soldati che mi cercavano) e vi trascorrevo 15-20 giorni. Dalle parrocchie poi, grazie alla radiofonia, tenevo i contatti con tutti. Mai, come in quei momenti, mi sono sentito missionario della «Consolata», pur essendo un fuscello in balia dell’uragano. Sono stato anche un incosciente, rischiando grosso. Ma ne è valsa la pena. Oggi sono ancora vicario generale, oltre che cornordinatore delle scuole. Avverto la mia scomoda posizione di straniero, mentre infuria una guerra voluta soprattutto da… stranieri (rwandesi, angolani, ecc.) con armi… straniere: francesi, statunitensi, ecc. Credo nel servizio. Agli altri il giudizio sul mio operato.
p. Angelo Baruffi
Francesco Beardi
CONGO – E sul muro una scatola vuota
Nei «Balcani dell’Africa» gli eserciti si fronteggiano, soprattutto per accaparrarsi legname e caffè, oro e diamanti. Difficile raggiungere il paese ai «non addetti ai lavori»: non fa eccezione la città di Isiro, sotto il tiro degli ugandesi. Altrove sono i rwandesi che non scherzano. Da mesi è in ballo l’invio di 5.337 «caschi blu» delle Nazioni Unite, per garantire il «cessate il fuoco». Ma è solo un «ballo». I missionari con la gente.
«Finalmente!» dico a padre Giano Benedetti. Decollato dall’aeroporto militare di Entebbe, in Uganda, viaggio con altri missionari della Consolata: i padri Enrico Casali, Celestino Marandu e Simon Tshiani. Sono le ore 15. Destinazione Isiro, nella Repubblica democratica del Congo, occupata dall’esercito dell’Uganda. «Ti è andata molto bene!» Giungiamo all’aeroporto di Entebbe alle 5.30 con un taxi-minibus, mentre è ancora notte. Svegliati dal rumore del veicolo, due soldati ugandesi sporgono il capo da una tenda per dire: «Aspettate». Ci dividono una rete e un cancello. Il taxi, carico delle nostre valigie, rimane sul posto. Mezz’ora dopo, un camion supera il cancello, seguito da padre Celestino, che dichiara: «Ci vorrà tempo a caricare l’aereo». Celestino, tanzaniano, conosce l’iter burocratico per giungere ad Isiro. Un lampo sul cielo nuvoloso, un tuono fragoroso e la pioggia inonda la campagna. «È una benedizione di Dio» commenta il taxista. Quando cessa di piovere, propone: «Perché non facciamo colazione?». C’è una bettola a due chilometri. Il taxista mangia con appetito uno spezzatino di maiale e banane fritte. Un nuovo tuono… e le cateratte del cielo si riaprono. Piove anche sul nostro tavolo, mentre ci servono il tè. Padre Enrico sorride divertito, pur non essendo un pivello dell’Africa: conta 5 anni di Tanzania e 26 di Zaire-Congo. Ora vi ritorna, dopo un by pass al cuore e altri gravi problemi di salute. La missione è il suo dna, come pure delle sorelle Emma Piera, Aalda e Simplicia, missionarie della Consolata. «Adesso ritorniamo all’aeroporto, perché dovreste partire» dice il taxista. «Ecco i piloti» continua per strada, additando una Mercedes con due biondoni russi a torso nudo. Attraversano il cancello; però, un quarto d’ora dopo, ritornano sui loro passi. Un’operazione compiuta tre volte… E l’orologio segna le 12. Alle 13 appare padre Celestino: «In fretta, si va!». Scarichiamo i bagagli. Il sole dardeggia. Ai piedi di un aereo-cargo Antonov, un soldato mi ordina: «Apra la valigia». Tremo. Sull’asfalto ribollente compaiono tre salami, una bottiglia di grappa e due pezzi di formaggio. Il militare osserva tutto e solleva un sacchetto di plastica. – Che cos’è questo? – Sono grani per confezionare corone del rosario. – Ah!… Partite pure. Ma siamo nuovamente bloccati, perché il numero dei passeggeri è diverso da quello notificato: cinque, invece di quattro. L’aereo può trasportare fino a 20 tonnellate, che sono state superate da una persona in più. «Uno deve scendere!» intima secco il comandante dell’aeroporto. Padre Celestino si apparta con il graduato. Sostano 20 minuti sotto il sole furente, gesticolando, talora separandosi per poi riavvicinarsi… E si va! Nell’Antonov non pressurizzato padre Simon, congolese, mi grida all’orecchio: «Ti è andata molto bene! Io ho aspettato due settimane». In aereo chi si sistema a cavalcioni di una balestra di Land Rover, chi su uno scatolone di pelati, chi su un sacco di zucchero… Noto anche un borsone di zip e bottoni. E, soprattutto, le medicine per l’ospedale della diocesi di Wamba e dei missionari della Consolata. DOVE LE BICI SONO CAMION Isiro, il mattino seguente, casa dei missionari della Consolata. Con la barba di cinque giorni, vorrei radermi. Ma in camera non trovo lo specchio. «Per favore, c’è uno specchio?» chiedo a padre Rinaldo Do, il superiore. «Scusa, ci siamo dimenticati di importarlo…». Allora rivedo l’Antonov con il borsone di zip. «Qui, se perdi un bottone, o stai senza o te lo importi tu stesso… noleggiando un aereo». Per non parlare di benzina. I missionari talora riescono ad acquistae qualche fusto dai militari ugandesi, per poi «centellinarla». Anche monsieur Joseph ha comprato due bidoni di carburante e ha aperto «un distributore» in città. È uno sgabello con, sopra, una tanica mezza piena e una bottiglia vuota a lato come «contatore»: si fermano una-due moto per rifoirsi di tre litri. Sul lato opposto funziona un altro «distributore», gestito da un bambino: vende al dettaglio petrolio per illuminazione domestica, misurandolo con una scatoletta da sardine. Chi si accaparra qualche fusto di carburante può diventare un commerciante a livello nazionale: lo vende ai rifornitori, che percorrono anche 700 chilometri in bicicletta con quattro taniche da 20 litri. È l’unico mezzo di trasporto anche per capre e maiali. Un litro di benzina costa 3 milioni di nouveaux zaires (moneta locale), l’equivalente di un dollaro Usa. Questo prezzo risale al maggio scorso; un mese prima la benzina valeva 2.500.000 nouveaux zaires. Il che significa che l’inflazione è alle stelle, con sacchi e sacchi di carta-moneta. «Questa cassa – indica Dario Gramuglia, tecnico nell’ospedale di Neisu – è zeppa di grosse banconote, per un valore complessivo di 15 dollari». La cassa misura 56 centimetri di larghezza e lunghezza e 72 di altezza. Per 3 milioni di nouveaux zaires si vende una gallina e si acquistano tre pacchetti di sigarette o una birra. Sigarette e birra, made in Rwanda, non è necessario importarle. Ma che lusso con salari da 5 dollari al mese! «dagli atri muscosi…» «Per pasqua mi piacerebbe essere a Pawa» confida padre Giano, consigliere generale dei missionari della Consolata, che ha lavorato in quella missione tre anni. «È già programmato» risponde padre Rinaldo. Mi accodo anch’io. Un safari di 52 chilometri in Land Rover, su una strada internazionale, della durata di tre ore. «Perché in Congo non esistono più strade, degne di tale nome». Lasciamo, dunque, Isiro. La città conserva ancora qualche brandello d’asfalto, ma non c’è luce né acqua. Eppure, fino agli anni ’80, era vivace e festosa, con donne elegantissime, musiche e danze. Vi trovavi di tutto: dal whisky al frac per il gala raffinato. Anche se i voli non erano regolari, l’aeroporto era un viavai di commercianti. Ma il nefasto regime di Mobutu, le angherie dei funzionari pubblici, la guerra di Kabila e l’occupazione dell’Uganda… «Che tristezza, l’altro giorno, quell’aeroporto così sporco e polveroso!» conclude padre Giano. «Dagli atri muscosi» e «dai fori cadenti» di Isiro emerge la banca, chiusa a tempo indeterminato con una catena arrugginita. Anche i missionari vi depositavano il denaro. Ma, invece di riscuotere qualche interesse, si vedevano continuamente assottigliare la somma. Tutto normale secondo il direttore della banca, che non lesinava il sarcasmo: «Dovreste esserci grati, perché custodiamo con cura i vostri capitali». Sulla facciata del palazzo di giustizia campeggia la scritta dura lex sed lex. E padre Rinaldo commenta: «È stata proprio la mancata applicazione delle leggi a condurre il Congo-Zaire allo sfacelo». All’uscita da Isiro, uno stop per il controllo da parte dei soldati ugandesi. Solo una formalità, per fortuna. E riprendiamo il safari. Il territorio vanta notevoli potenzialità agricole: riso, soia, granoturco, arachidi, fagioli, frutta, come pure cotone e caffè. Negli anni ’60 il Congo produceva 60 mila tonnellate di caffè. Oggi la produzione non supera le 2 mila tonnellate. Sul mercato di Isiro il caffè (già decorticato) viene svenduto agli ugandesi a 800 lire al chilo. «È niente. Però, se protesti, non ti danno neppure questo “niente”»: è lo sfogo amaro dell’unico produttore della zona. «PREGHIAMO PER LA PACE» «Ferma, ferma!» grida con affanno padre Rinaldo. A 40 metri, tre soldati «esigono» un passaggio. Sono congolesi alle dipendenze di ugandesi. Hanno camminato sotto il sole molte ore e la loro meta è ancora distante. Padre Rinaldo, dopo essersi presentato come missionario, li intrattiene con qualche domanda. – Come stanno i vostri camerati? – Quali? Ugandesi o congolesi? – Entrambi. – Il capitano ugandese non ci paga… Però gli ugandesi sono migliori dei rwandesi, che uccidono la gente, ne estraggono il cervello e lo mangiano mescolato ad erbe bollite. I rwandesi in Congo sono armati fino ai denti. Nel 1999 il Rwanda investì in armi 141 milioni di dollari. E il Fondo monetario internazionale (così severo sugli sprechi nel sud del mondo) approvò un prestito al regime di Kigali di 33 milioni di dollari… Sto osservando un soldato dall’aspetto giovanissimo. – Da quanto tempo fai il militare? – Da due mesi. – Perché, invece di fare la guerra, non vai a scuola? – In Congo non ci sono scuole. E poi, se ci fossero, dovrei solo zappare il campo dei maestri. – Quanti anni hai? – Sedici. La risposta è troppo pronta per essere sincera. Che il ragazzo non abbia più di 12 anni traspare e dal viso e dalla statura. Certamente lo hanno imbeccato: «Ricordati che tu hai 16 anni». Tale infatti è l’età minima per l’arruolamento volontario di minorenni. L’hanno stabilito, il 21 gennaio scorso, le Nazioni Unite con un articolo sottoscritto da 70 nazioni. E ciò per smantellare l’esercito mondiale dei 300 mila bambini-soldato. Prima di congedarci dal terzetto, padre Rinaldo afferma: «Amici, anche voi soffrite la guerra. Allora preghiamo tutti insieme per la pace». A due chilometri da Pawa, padre Giano viene riconosciuto da due catechisti: e dire che vi mancava da 17 anni. Deve procedere a piedi, con alle spalle un corteo che l’osanna. La missione è retta da padre Tarcisio Crestani. Gli consegno «il sacchetto dei grani del rosario», che ha «protetto» grappa e salami. – Tarcisio, quante corone hai fatto? – 26 mila in 26 anni di missione. – Perché non insegni l’arte ad altri? – Ho tentato varie volte. Ma la gente vuole solo i rosari delle mie mani. Li considera «più benedetti». Padre Tarcisio è entusiasta del suo lavoro. E precisa: «Ci sono due missioni ad gentes: una dottrinale e una esperienziale. Credo nella prima e cerco di vivere la seconda. Ad gentes: stare con la gente ascoltando e camminando con tutti, magari anche a piedi, specie in tempo di guerra». Una guerra economica Ritornato ad Isiro, incontro nuovamente padre Simon Tshiani. Padre Simon, quale congolese, come giudichi la guerra nel tuo paese? – È una guerra soprattutto economica. Qui siamo sotto il controllo degli ugandesi: a loro non interessano i nostri problemi politici; essi mirano solo ad impadronirsi del nostro oro. Ci sono già stati tre «cessate il fuoco». Ma la guerra continua. Perché? – Tutte le forze in campo dicono di volere la pace, però alle loro condizioni: cioè esigono potere sul Congo, o economico o politico. E il Congo sarà diviso? – Questa è la grave minaccia che incombe. Però tutti i congolesi sono nettamente contrari. In un paese vasto come il Congo, il federalismo può essere la soluzione dei problemi? – Un governo centrale e unitario, con autonomie regionali, può essere una soluzione. Lo si è detto anche nella Conferenza nazionale, al tempo di Mobutu, per scrivere la nuova costituzione. Poi, nel 1996, le cose sono precipitate con la guerra di Kabila. Il governo di Kabila è in grado di riprendere in mano il paese e di avere l’appoggio di tutti i congolesi? – No, perché Kabila non è stato eletto dal popolo e perché è troppo legato alle città di Lubumbashi (con le sue ricchezze) e Kinshasa. Allora come uscire dall’anarchia? – Le Nazioni Unite impongano il ritiro delle forze straniere che hanno invaso il paese. Un volta sgombrato il campo, i congolesi devono prendere in mano le sorti del paese rilanciando la Conferenza nazionale con la partecipazione di tutte le forze politiche. Come missionario della Consolata, ci tengo a dire anche questo: nonostante la guerra, noi continuiamo a lavorare. E «meritiamo» la solidarietà della Caritas italiana, di Missio e di tante persone generose… Si fa avanti padre Rinaldo e annuncia che venerdì ci sarà l’aereo per il ritorno in Italia. Ma venerdì non parto e neppure sabato. L’aereo sarebbe arrivato certissimamente domenica, alle ore 7 in punto. Passano le 7, le 8, le 9. A mezzogiorno il simpatico Rinaldo sorride: «Se in cielo comparirà un aereo, partirai». Compare alle ore 18.30. Mi precipito all’aeroporto, carico la valigia nel piccolo bimotore e siedo. Poi… ritorno nella camera senza specchio di Isiro. «Signori, sono le 19.04! Troppo tardi per il decollo»: sono le parole del comandante. Troppo tardi per quattro minuti.
Il giorno seguente, in volo verso Roma, ripenso all’aeroporto di Isiro: su una parete spicca una scatola vuota. È un orologio. Ma le lancette si sono arrestate, perché… il tempo si è fermato; poi sono addirittura scomparse, quasi a dire: in Congo il tempo non esiste più. Intanto, sulla fertile terra rossa di Isiro e dintorni, le donne avanzano con pesanti carichi in testa.
La seconda guerra
u 1996, ottobre. I soldati dell’Alleanza delle forze democratiche di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda, Stati Uniti e vari mercenari, iniziano da Uvira la conquista militare dello Zaire di Mobutu.
u 1997, 17 maggio. Le truppe dell’Alleanza occupano la capitale Kinshasa. Kabila si autoproclama capo dello stato. Lo Zaire diventa Repubblica democratica del Congo. Però sono sospesi i partiti. Il 7 settembre Mobutu muore in Marocco: lascia ai familiari 6 miliardi di dollari. Ha depredato il paese per 32 anni.
u 1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo (la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle risorse agricole e minerarie del paese.
u 1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia. Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che se, il paese verrà diviso (come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.
u 2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco», firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la cattedrale: mille morti, migliaia e migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in balia della fame e delle epidemie. Il 17 giugno il Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.
>b>Gli attori della tragedia
I n Congo la seconda guerra, scoppiata nell’agosto 1998 e tuttora in corso, ha causato numerose vittime. Le cifre sono assai confuse: si va da un minimo di 100.000 morti ad un massimo di 1.700.000. È uno scontro moderno e primitivo ad un tempo: con elicotteri, armi automatiche e aerei da bombardamento, ma anche con rozzi fucili e machete, mentre i soldati (talora ragazzi) sbucano dalla foresta. È pure un conflitto interafricano e mondiale.
p L’esercito di Kabila conta 70 mila uomini, ma poco addestrati e mal pagati; però è sostenuto dalle seguenti nazioni: – Zimbabwe (7-11mila soldati); la ricompensa è l’accesso alle miniere di diamanti; – Namibia, che (sull’«esempio dello Zimbabwe») ha inviato 2 mila uomini; – Angola: è con Kabila per debellare i guerriglieri dell’Unita (un tempo protetti da Mobutu), come pure per rendere più operativa la propria compagnia petrolifera «Sonangol-Congo»; – Sudan: offre a Kabila aerei militari per bombardare i ribelli congolesi nel nord-est; ma il governo di Khartum smentisce.
p Il fronte contro Kabila è più contradittorio; vi militano: – tre gruppi di ribelli congolesi (10 mila soldati di Bemba, 10-15 mila di Ilunga e 4 mila di Wamba); Bemba, Ilunga e Wamba sono «signori della guerra»; – i guerrieri congolesi mayi-mayi: operano nel Kivu e, protetti da un’acqua magica, si ritengono invulnerabili; – le milizie degli hutu (diverse migliaia): già responsabili di massacri di tutsi in Rwanda nel 1994, oggi hanno in mano le miniere di diamanti di Mbuji Mayi; – 9 mila soldati ugandesi: affermano di «essere costretti» a difendere le frontiere del loro paese; in realtà sono in Congo per accaparrarsi i suoi beni; appoggiano Wamba e Bemba; – 10 mila soldati rwandesi: anch’essi «devono» proteggere il loro paese dai fuggiaschi hutu che hanno trovato rifugio in Congo; ai rwandesi si ascrivono saccheggi di chiese e atti di cannibalismo; appoggiano Ilunga. Lo stato di anarchia in Congo raggiunge l’apice con gli ugandesi e i rwandesi che, mentre combattono Kabila, sono pure ai ferri corti fra loro. Di qui gli scontri a Kisangani, città strategica per lo smercio di preziosi.
I n questo tragico caos, l’8 maggio scorso la Segreteria di stato del Vaticano ha inoltrato alle Nazioni Unite, all’Organizzazione per l’Unità africana, all’Unione europea, alla Corte internazionale di giustizia… un documento, redatto a Roma da otto vescovi congolesi. Il documento denuncia l’aggressione di truppe straniere, ritenuta «una nuova colonizzazione vergognosa»; sollecita l’intervento serio ed efficace della comunità internazionale, ma non con la vendita di armi. Al riguardo, sotto accusa sono Francia, Italia, Gran Bretagna, Belgio, Stati Uniti e Israele. I vescovi, infine, stigmatizzano il tentativo di imbrigliare la chiesa «nelle ideologie delle diverse fazioni in guerra e di impedire ad alcuni pastori di esercitare il loro ministero». Il riferimento è a monsignor Emanuel Kataliko, vescovo di Bukavu, al quale i ribelli di Ilunga impediscono di rientrare nella sua diocesi.
Francesco Beardi
I balcani del Congo (RDC)
U na mano aveva scritto con un bastoncino carbonizzato: «Signore, mandaci subito papà Kabila! Altrimenti moriremo tutti!». Tale grido di aiuto in un paese in guerra compariva ad Isiro, nel nord della repubblica democratica del Congo (RDC), sul muro esterno della casa dei missionari della Consolata. Sono le 7 del 18 aprile 2000. Un’ora dopo, la scritta viene cancellata dai soldati dell’Uganda, che occupano il territorio. Non sono i soli stranieri in Congo: a Kisangani e Bukavu spadroneggiano i rwandesi, cui si ascrivono persino atti di cannibalismo. Ugandesi e rwandesi, ieri alleati di Kabila per abbattere il famigerato Mobutu, oggi sono in guerra contro il nuovo presidente. E sono pure ai ferri corti fra loro. Non mancano i «signori della guerra» locali: Ilunga, Wamba, Bemba… armati con i proventi dell’oro e dei diamanti. Oro e diamanti di cui fanno man bassa anche Uganda e Rwanda. C’è lo stesso «papà» Kabila, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia che, tuttavia, non sono in Congo per «carità cristiana». E, infine, i ribelli congolesi appartenenti al movimento Mai-Mai. «Siamo pronti alla guerriglia su tutto il territorio, se divideranno il Congo come una torta» dichiarano. Nel frattempo non stanno con le mani in mano. Il nuovo Congo nacque il 17 maggio 1998 sulle ceneri dello Zaire. Ma fra i nuovi padroni del ricco e vasto paese scoppiò subito la rissa, che ha portato all’attuale anarchia. O balcanizzazione del paese, mentre Stati Uniti e Francia stanno a guardare: gli uni strizzando l’occhio all’Uganda e l’altra ammiccando a Kabila.
P asqua nella missione di Pawa, a 60 chilometri da Isiro. Nella chiesa superaffollata, durante l’eucaristia un missionario domanda: «La guerra è peccato?». L’assemblea tace: forse il quesito l’ha colta alla sprovvista. Poi una voce mormora: «La guerra è peccato». «La guerra è peccato» ripete subito un altro. «La guerra è peccato» sentenzia alla fine tutta la folla in un crescendo drammatico. «È la prima protesta pubblica contro questa guerra assurda – ci confida il missionario -. La gente finora l’ha esorcizzata con il silenzio». Non lontano tre soldati ugandesi siedono all’ombra di un mango. Dopo alcuni convenevoli, accettano di parlare. «Noi non vogliamo la guerra. Il fucile uccide, uccide anche noi. Ma che possiamo fare contro i nostri capi?».
A eroporto di Fiumicino, 12 maggio. Dopo 28 giorni di assoluto digiuno giornalistico, acquistiamo un quotidiano per leggere in prima pagina: «Guerriglia degli ultrà laziali. Sconvolto il centro di Roma. Tifosi caricati dalla polizia con lacrimogeni: 12 feriti, di cui 10 agenti. Auto danneggiate e vetrine sfasciate». Con noi c’è un congolese, che capisce l’italiano. «Povero Congo e povera Italia!» commenta.
Francesco Beardi
kinshasa (Congo R. D. ) – Pelle a rischio
Nella spirale di violenza che ha insanguinato la capitale della Repubblica Democratica del Congo padre Stefano ha condiviso con la gente rischi e pericoli, fino a sentire un mitra puntato alle tempie. La presenza dei missionari continua a infondere nella popolazione semi di speranza.
L a chiamano «guerra mondiale africana». Tra paesi e gruppi ribelli si contano 19 soggetti in stato di guerra. È stato firmato un documento di «cessate il fuoco» tra l’esercito di Kabila e quello dell’Uganda e Rwanda, ma si continua a sparare. I gruppi ribelli continuano a frammentarsi e boicottare gli sforzi di pace, rivendicando fette di territorio e potere. Tra le varie aggregazioni, quella di «Bemba» riscuote le maggiori simpatie da parte della gente. Figlio di un ministro di Mobutu e ancora al governo con Kabila, Bemba è diventato a poco a poco uno degli uomini più ricchi del Congo, padrone di quasi un terzo del paese. Anche lui rivendica la sua fetta di potere. Tre quarti del territorio nazionale sono controllati da eserciti stranieri e forze ribelli. Troppi interessi sono in gioco e la guerra potrebbe durare molti anni. Alla fine il vecchio Zaire potrebbe essere smembrato in tre stati indipendenti. E sarebbe il male minore. UNA CITTÀ ARRABBIATA La situazione economica e sociale è allo sfascio. Kinshasa, capitale del Congo, fa paura: 8 milioni di abitanti cercano di sopravvivere in condizioni di precarietà. Non c’è lavoro. Chi ha un impiego non viene pagato, come maestri e professori, che continuano a insegnare per non perdere il posto. Per la penuria di benzina i trasporti sono allo sbando: tanta gente fa a piedi 6-7 km al giorno per raggiungere il posto di lavoro, con la prospettiva di non essere pagata. Il denaro non circola; eppure la vita continua, per una sorta di miracolo cittadino, dove ognuno s’inventa un modo di sopravvivenza. La gente è arrabbiata contro Kabila: in più occasioni gli ha tirato i sassi. Cacciato Mobutu e raggiunto il potere con l’aiuto di rwandesi e ugandesi, il nuovo presidente aveva suscitato grandi aspettative, finendo per scontentare tutti, a partire dagli alleati. Ritenendoli ormai troppo ingombranti, Kabila pensò di sbarazzarsene prendendoli a calci, innescando così una guerra che ha ripiombato il paese nel caos e, all’inizio dell’agosto 1998, ha affogato in un bagno di sangue la capitale congolese. In quei giorni, al colmo della rabbia, la gente ha sfoderato gli istinti più bassi della sua umanità, iniziando una feroce «caccia ai ribelli» e divertendosi nel bruciarli vivi: un copertone attorno al collo, inzuppato di benzina, un fiammifero… e lo spettacolo era assicurato! La fobia del «ribelle» aveva sparso la voce che le spie nemiche si fossero infiltrate in Kinshasa travestite da dementi: persone malvestite che si aggiravano per la città, barboni e vagabondi sorpresi a rovistare tra le immondizie, tutta gente ignara dell’esistenza di una guerra, furono scambiati per spie e bruciati vivi. La psicosi collettiva sembrava cancellare ogni senso d’umanità: si giunse a misurare il naso della gente, per decidere se uno era o meno un ribelle ugandese, e ad assassinare amici e conoscenti sospettati di collaborazionismo. Perfino le treccine legate ai capelli furono sospettate di essere veicolo per portare i messaggi al nemico: tale moda scomparve dalla circolazione in un baleno. Ho visto scene da fare accapponare la pelle. In alcuni casi sono intervenuto, rischiando grosso, per salvare qualche vittima di tanta follia; ma ho ottenuto solo che il condannato non venisse sacrificato sotto gli occhi dei bambini. TRE GIORNI DI FUOCO I momenti più drammatici iniziarono quando gli ugandesi si organizzarono per conquistare Kinshasa e cacciare Kabila. Una parte dell’esercito ribelle si attestò sulla collina di Mont Ngafula, dove ci sono la nostra parrocchia e il seminario filosofico. Rimanemmo per una settimana alla mercé di 3.000 militari ugandesi, mentre i soldati di Kabila erano fuggiti per organizzare la difesa. Bisognosi di cibo e medicine, i ribelli cominciarono a visitare conventi e fattorie della zona. A fae le spese erano soprattutto le galline. Vennero anche nelle nostre case e, devo confessarlo, si comportarono correttamente. Ci dissero di stare tranquilli, perché ce l’avevano solo con Kabila. Chiedevano da mangiare e medicine; poi se ne andavano. Prima che scoppiassero le ostilità, pensammo bene di mandare studenti e suore nel seminario teologico verso il centro città, a una ventina di chilometri da Mont Ngafula. Per percorrere quel tragitto di una quindicina di minuti in auto, fratel Paolo Ferrari e padre Giovanni Torres, che accompagnavano gli studenti e le suore, impiegarono più di tre ore. Dovettero superare 25 sbarramenti militari e ogni volta bisognava scendere dall’auto, aprire le borse, identificarsi e sottoporsi a interrogatori. Anche per me, rimasto a custodire la casa con tre seminaristi, quel viaggio fu un autentico calvario. In costante contatto telefonico con padre Vincenzo Mura, direttore del seminario teologico, mi sentivo morire dentro e mi domandavo cosa fosse loro capitato. Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per paura di essere presi dai soldati; donne e bambini, rimasti soli, si rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi. Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano palpabili. Dovendo comunicare a Roma la nostra situazione, accendevo un piccolo generatore che, essendo alquanto rumoroso, spegnevo al più presto possibile, per non attirare l’attenzione, limitandomi a trasmettere le notizie essenziali e in modo telegrafico. LA FUGA Quando si sparse la notizia che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Mi convinsi che non valeva la pena rischiare la pelle per restare a guardia della casa. Infilai i documenti essenziali in uno zainetto e raggiunsi la gente che sciamava. Tutto avvenne in maniera improvvisa e precipitosa, da non permettere alcuna pianificazione. Una fiumana di persone scendeva la collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari. Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui minacciato e molestato più degli altri. «Perché ce l’hanno tanto con me» pensai. Forse qualcuno aveva riferito ai soldati della nostra radiofonia, usata per restare in contatto con i confratelli del nord, e del telefono, che ci permette di comunicare con l’estero. Di conseguenza potevo essere sospettato di complicità con i ribelli e, soprattutto, di seminare zizzania, diffondendo all’estero notizie false sul paese. In uno di quei blocchi non ricordo cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i ribelli. «Voi preti, soprattutto, avete aperto le chiese e accolto i ribelli». Era vero. I soldati ugandesi erano entrati nelle nostre chiese. Cosa avremmo potuto fare contro 3.000 soldati armati fino ai denti? Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità; poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato. Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che piangevano. I cannoni sparavano contro la collina. Non fu difficile inventare qualche battuta scherzosa per sdrammatizzare e raffreddare la tensione. In un momento di calma, raggiunsi un convento di suore e telefonai a Roma per rassicurare i superiori che confratelli, seminaristi e suore erano tutti al sicuro. La domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi. IL RITORNO La domenica pomeriggio le truppe di Kabila avanzarono verso la collina e cominciarono il rastrellamento. Gli ugandesi fuggirono nella foresta, dove furono massacrati. La mattina seguente decisi di tornare a casa. Avevo fatto i primi passi con i tre seminaristi e alcuni amici, quando, come per incanto, la gente si accodò in massa dietro a noi. Più salivamo più la processione s’ingrossava. La fuga precipitosa del venerdì si era mutata in un rientro giornioso e pieno di speranza, tra i canti dei bambini. Più in alto la visione era raccapricciante e l’aria irrespirabile per il fumo delle case distrutte e il fetore dei corpi bruciati e in decomposizione. Arrivati in seminario, ricevemmo la sgradita visita dei soldati di Kabila: ci derubarono di tutto, dopo averci fatto patire le pene dell’inferno. Ci recammo in visita ai confratelli della parrocchia, che ci raccontarono la loro storia. Quel venerdì padre Fedele Crippa stava celebrando la messa, quando, al momento della comunione, i ribelli fecero irruzione nella chiesa, sparando in ogni direzione. Il celebrante rimase imperterrito, deciso a terminare la celebrazione, ma si ritrovò con la chiesa vuota: la gente, strisciando sotto i banchi, era scappata in sacrestia. Quando i soldati si furono allontanati, i missionari si rifugiarono nella casa parrocchiale e vi rimasero intrappolati, con alcuni fedeli, per tutto il tempo del bombardamento. Grazie a Dio, erano tutti incolumi. RICOSTRUIRE LA GENTE DAL DI DENTRO Tutti hanno apprezzato il fatto che siamo rimasti con loro e affrontato gli stessi rischi e sofferenze. In effetti è questo il significato principale della nostra presenza. La situazione di guerra in cui vive il paese non ci permette di fare grandi opere. È la terza volta che ci distruggono tutto e che dobbiamo ricominciare da capo. Stando con la gente, condividendone la precarietà e confusione del presente e l’incertezza del futuro, siamo un segno di speranza per un avvenire nuovo e migliore. Tuttavia continuiamo a domandarci come possiamo essere segno più efficace per questa popolazione che, oggi più che mai, riscopre la propria religiosità e la convinzione che il futuro è nelle mani di Dio. Per aiutarla a sopravvivere, cerchiamo di stimolare e coinvolgere la gente in varie forme di collaborazione, piccoli progetti, cornoperative di lavoro e commercio. Le donne, soprattutto, giocano un ruolo di grande importanza: sono esse le più creative nella ricostruzione del tessuto sociale, organizzando, per esempio, giornate di lavoro comunitario per riparare le strade e altre strutture di comune utilità. Al tempo stesso guardiamo anche lontano, per progettare un lavoro a lunga scadenza. A tal proposito, credo che dobbiamo dare priorità alla scuola, ormai completamente trascurata dallo stato. In un paese come il Congo, dove la corruzione è elevata a sistema di vita e di sopravvivenza, c’è bisogno di ricostruire la gente dal di dentro. Sarà questa la sfida del futuro: formare le nuove generazioni a un maggiore senso di responsabilità, amore per la pace e il bene comune.
Stefano Camerlengo
Sostenibilità neocoloniale. Minerali e transizione ecologica
La corsa del Nord ricco per prendersi le risorse altrui.
Il mondo in balia dei cambiamenti climatici necessita di quantità sempre maggiori di minerali critici per la transizione ecologica. Questi sono spesso presenti nei Paesi poveri. Le logiche neocoloniali dell’economia spingono questi ultimi a perdere il controllo sulle loro risorse. Si apre così la strada a progetti di sfruttamento indiscriminato delle grandi multinazionali.
Dagli anni Cinquanta del Novecento, il cambiamento climatico e i suoi effetti sono diventati sempre più evidenti e, soprattutto, irreversibili.
Come conseguenza delle crescenti emissioni di gas climalteranti (tra cui spicca l’anidride carbonica), negli ultimi 150 anni la temperatura terrestre è cresciuta in modo graduale, ma inesorabile.
Secondo il Climate change 2023 dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) – un gruppo scientifico fondato nel 1988 per studiare i cambiamenti climatici nel mondo -, attualmente ci sono 1,1°C in più rispetto al periodo preindustriale (convenzionalmente prima del 1851).
Nel mentre, gli eventi meteorologici estremi – diretta conseguenza dell’incremento delle temperature – sono diventati sempre più frequenti.
Summit internazionali sul clima
Società civile e classe politica di tutto il mondo hanno iniziato ad assumere reale consapevolezza del cambiamento climatico e dei suoi effetti nel 1972, quando il Massachusetts institute of technology (Mit) pubblicò il famoso rapporto «I limiti dello sviluppo». Un documento nel quale gli scienziati denunciavano come la crescita della popolazione e dell’economia mondiale – senza le adeguate misure di tutela dell’ambiente – rischiassero di portare il pianeta al collasso entro la metà del Ventunesimo secolo.
Da quel momento, c’è stato un susseguirsi sempre più frenetico di conferenze internazionali su ambiente e clima senza mai andare oltre le parole.
Si è dovuto attendere a lungo per assistere ai primi tentativi di adottare delle misure concrete per mitigare e contrastare il cambiamento climatico e i suoi effetti. E finalmente si è arrivati al 1992, quando il Summit sulla terra di Rio de Janeiro ha iniziato a cambiare l’approccio.
La conferenza brasiliana ha sancito l’entrata in vigore della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), il principale trattato internazionale sul clima.
Il documento – pur non essendo legalmente vincolante – impegnava i firmatari a ridurre le emissioni di gas serra e le interferenze umane nei confronti dell’ambiente.
Dal 1994 poi, i Paesi che avevano ratificato la Convenzione hanno iniziato a incontrarsi annualmente nella Conferenza delle parti (Cop), che ancora oggi rappresenta l’occasione per monitorare lo stato di avanzamento degli impegni presi e per adottarne di nuovi, questa volta obbligatori.
Durante la Cop3 in Giappone nel 1997, è stato concluso il Protocollo di Kyoto che stabiliva la necessità, entro il 2012, di ridurre le emissioni di gas serra del 7% rispetto ai livelli del 1990.
Nel 2015, invece, nel corso della Cop21, sono stati firmati i famosi Accordi di Parigi che fissavano la soglia limite dell’incremento della temperatura terrestre «ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali», oltre a esigere che il picco di emissioni di gas climalteranti venisse raggiunto entro il 2050.
Con il passare degli anni, la comunità internazionale ha impresso una graduale spinta verso l’adozione di politiche risolutive nei confronti del cambiamento climatico. Le strategie messe in atto dai diversi Stati, però, sono ancora ampiamente insufficienti. Infatti, la realizzazione degli obiettivi di Parigi resta lontana: secondo l’Ipcc, con gli impegni assunti finora dai firmatari, entro il 2100 la temperatura terrestre aumenterebbe comunque di 2,7°C rispetto ai livelli preindustriali.
I minerali del Sud globale
Anche se più lentamente di come richiederebbe il pianeta, il mondo si sta dirigendo verso la transizione ecologica. Un’evoluzione complessa che, per essere realizzata appieno, comporta un ripensamento dell’intero sistema economico e sociale mondiale al fine di sviluppare processi sempre più sostenibili.
Pannelli solari, computer, auto elettriche e pale eoliche sono solo alcuni dei dispositivi al centro del cambiamento. Non a caso, la loro domanda è in rapida ascesa, soprattutto in Occidente.
Produrli, però, richiede ampi giacimenti di minerali critici, concentrati in un numero abbastanza limitato di Paesi, soprattutto del Sud globale.
È così che il tantalio estratto in Congo Rd è diventato essenziale per i condensatori di computer e cellulari in tutto il mondo.
Il «Triangolo del litio» (l’area che comprende i deserti salati di Argentina, Bolivia e Cile) è sempre più cruciale nella catena di produzione globale di auto elettriche.
Il nichel indonesiano è invece centrale per migliorare qualità e durata delle batterie.
Strategici sono anche le terre rare abbondanti in Vietnam, il rame diffuso in Sud America e Africa subsahariana, il cobalto proveniente da Repubblica democratica del Congo e Zambia.
Il neocolonialismo delle risorse
Lo scenario appena descritto mostra il profondo intreccio che lega Nord e Sud globale. In particolare, come quest’ultimo e le sue risorse siano il mezzo con cui il primo tenta di esaltare il proprio impegno nel contrasto al cambiamento climatico e i risultati raggiunti in termini di transizione ecologica e decarbonizzazione.
Mostra anche, e soprattutto, la corsa all’accaparramento dei minerali del Sud globale da parte di Stati stranieri e aziende multinazionali. Un processo dai chiari connotati neocoloniali.
D’altronde, nel Sud globale, il colonialismo non è mai scomparso. Semplicemente, ha assunto una nuova veste. Il controllo che ancora oggi l’Occidente esercita su molte delle sue ex colonie non è più di natura politica, ma economica.
Fin dalle indipendenze, numerose aziende europee sono rimaste nel Sud globale, giustificandosi con la necessità di supportare il consolidamento delle nascenti economie indipendenti. In realtà, ciò ha permesso agli europei di insinuarsi a fondo nell’economia di Stati fragili, prendendone il controllo e appropriandosi di molte delle loro risorse.
Le condizioni di sfruttamento che le multinazionali si assicurano sui giacimenti sono estremamente favorevoli (ad esempio le tasse molto basse), e le modalità per ottenerle (spesso la corruzione di funzionari statali), alquanto discutibili.
Il più delle volte, le popolazioni locali non sono consultate e, anzi, sovente vengono espropriate in modo unilaterale delle proprie terre. Mentre la tutela dell’ambiente naturale e della salute delle persone è completamente assente.
Aurora Guainazzi
Contro le miniere in Europa
Giacimenti di minerali critici sono presenti anche in Occidente.
Sebbene siano in quantità minore rispetto a quelli del Sud globale, stanno assumendo una rilevanza sempre maggiore in un contesto mondiale nel quale Stati Uniti e Unione europea hanno iniziato a puntare all’autosufficienza.
Sia gli Usa che l’Ue, infatti, guardano allo sviluppo di giacimenti interni e alla creazione di industrie di trasformazione proprie come a una strategia per dipendere sempre meno dalla Cina.
Pechino d’altronde controlla quasi interamente la catena di lavorazione di minerali cruciali come nichel, cobalto, litio e terre rare.
Aprire miniere in Occidente, però, è decisamente più complesso che aprirle nei paesi del Sud globale.
I tempi burocratici sono lunghi (in media, in Unione europea, sono necessari quindici anni per ottenere tutte le autorizzazioni), le regolamentazioni ambientali stringenti, le tutele da garantire ai lavoratori molto maggiori, e l’opposizione della società civile locale frequente.
Proprio quest’ultima, negli ultimi anni, ha avuto un ruolo centrale in molti Paesi europei nell’ostacolare o, addirittura, nell’impedire l’apertura di siti estrattivi.
Nella regione spagnola dell’Estremadura, cospicue riserve di litio si situano a soli due chilometri di distanza dalla città di Cáceres, sito Unesco e set del film Game of Thrones (cfr. Daniela Del Bene, Miniere «green», MC ago-sett 2021).
Fino agli anni Settanta, nell’area era attiva una miniera di stagno con effetti dannosi su ambiente e salute. Non stupisce, quindi, che l’attuale progetto, la miniera di litio di San José Valdeflórez, veda l’opposizione di politica e società civile.
«Infinity lithium», l’impresa australiana che guida le operazioni, ha promesso investimenti iniziali per 280 milioni di euro e la creazione di più di 200 posti di lavoro. L’azienda sostiene che la miniera possa produrre il litio necessario per dieci milioni di veicoli elettrici e prevede un’attività di trent’anni. Ma, nel maggio 2021, il comune di Cáceres ha approvato una mozione che ha blindato la zona dal punto di vista ambientale, oltre ad aver negato un permesso operativo alla multinazionale.
Già nella primavera del 2017 la società civile si era attivata con la nascita del gruppo di cittadini Plataforma salvemos la montaña per difendere l’ambiente naturale circostante Cáceres e impedire la creazione di una miniera con inevitabili effetti dannosi su ambiente e salute.
Dopo la conclusione degli studi di fattibilità nel 2019, era stato stabilito che l’estrazione sarebbe iniziata entro venti mesi, ma – al momento – la miniera di San José Valdeflórez non è ancora entrata in funzione.
Cáceres non è l’unico caso europeo dove la popolazione ha manifestato contro le attività estrattive. In Portogallo, le proteste dei cittadini di Montalegre stanno bloccando l’apertura di sei miniere di litio.
Scene simili si sono viste in Serbia: quando nel 2022 il governo ha tentato di dare il via libera a quella che sarebbe diventata la miniera di litio più grande d’Europa, la popolazione è insorta, costringendo le autorità a fermare il progetto (cfr. Daniela Del Bene, Il litio della Serbia. Un rio rosso sangue, MC ago-sett 2023).
Questi sono solo alcuni esempi – emblematici – di manifestazioni contro le attività estrattive nel continente europeo. In alcuni casi, le proteste hanno impedito l’avvio delle attività, in altri le stanno rallentando.
L’altra faccia della medaglia, però, è che – in un mondo dove i minerali per la transizione ecologica sono sempre più urgenti – un numero crescente di multinazionali si rivolge ai giacimenti del Sud globale. Di fatto, l’alternativa più «semplice» e da cui l’Occidente cerca di trarre il massimo guadagno al minor costo possibile.
A.G.
Multinazionali estrattive
Le concessioni minerarie. Ambiente e popolazioni impoveriti.
Interi territori devastati, a volte in zone protette con biodiversità uniche. Comunità sgomberate o avvelenate. Le enormi concessioni minerarie che molti Paesi del Sud globale offrono ad aziende transnazionali del Nord non sono quasi mai un affare per gli abitanti del posto, eppure crescono di numero ovunque.
Le grandi aziende multinazionali sono spesso le principali protagoniste della corsa ai minerali critici presenti nei paesi del Sud globale. Il più delle volte sono occidentali – Usa, Canada, Regno unito, Svizzera, Australia -, ma non mancano quelle cinesi (cfr. box pag. 38).
I loro progetti estrattivi sono enormi – sia per l’estensione del territorio coinvolto, sia per i volumi di materie prime estratte – e non si curano dei danni causati a popolazione e ambiente. L’unico obiettivo è massimizzare i profitti, soddisfacendo la galoppante domanda occidentale.
Violazioni ambientali e sociali
Corruzione, frodi e cavilli legislativi sono spesso utilizzati dalle multinazionali per aggiudicarsi vaste concessioni nei Paesi del Sud globale.
Capita che le imprese ottengano permessi di esplorazione e sfruttamento in aree protette o ad alto rischio ambientale.
È successo nelle Filippine, nell’isola di Sibuyan, soprannominata «Galapagos d’Asia», che dal 1996 è un parco naturale la cui biodiversità e bellezza sono riconosciute e apprezzate in tutto il mondo.
Lì, l’impresa Altai Philippines mining corporation, succursale locale della canadese Altai resources inc, si è aggiudicata una concessione di nichel proprio all’interno dell’area protetta con danni ambientali irreversibili per una biodiversità unica.
Le attività estrattive e di lavorazione, infatti, causano una considerevole distruzione ambientale.
Lo sversamento di rifiuti tossici nei fiumi, la dispersione di metalli pesanti nell’aria, nel suolo e nell’acqua, sono azioni che minano la biodiversità, causano malattie tra la popolazione e ne mettono a repentaglio le fonti di sussistenza.
Nel gennaio 2022, un report dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha definito la città peruviana di Cerro Pasco una delle quattro «zone di sacrificio» dell’America Latina. Il documento denunciava «un’enorme cava a cielo aperto adiacente a una comunità impoverita ed esposta a elevati livelli di metalli pesanti». Già nel 2009, l’Ong Source international aveva rilevato quantità di arsenico, mercurio e cadmio ben al di sopra dei limiti stabiliti dal governo peruviano e dagli standard internazionali. Metalli che erano presenti non solo nell’acqua e nel suolo, ma anche nel cibo e negli spazi pubblici frequentati dai bambini.
Nonostante le evidenze, però, nessuna misura concreta e realmente efficace è stata ancora presa.
Le popolazioni indigene generalmente sono le più colpite dall’avvio delle attività estrattive. In molti casi sono costrette ad allontanarsi dalle proprie terre e spesso non vengono preventivamente informate e consultate sull’apertura delle miniere. In Indonesia, ad esempio, l’impresa francocinese Weda bay nickel non ha informato il popolo seminomade degli O Hongana Manyawa dei potenziali impatti negativi dell’estrazione del minerale, né l’ha consultato prima dell’apertura della miniera nel suo territorio.
E questi sono solo alcuni degli innumerevoli esempi di devastazione ambientale e sociale causata dalle attività estrattive messe in opera in modo incontrollato da multinazionali di diversa bandiera nei paesi a basso reddito.
Nessun guadagno
Se non prendiamo in considerazione le élite politiche ed economiche, i Paesi e le popolazioni locali ottengono ben poco da questo processo di sfruttamento. Quasi tutte le ricchezze sono drenate: i contratti garantiscono alle aziende condizioni estremamente favorevoli, tali da massimizzare i profitti e ridurre all’essenziale quanto lasciato nel paese di estrazione.
Ne sono il segno le poche royalty (quote di prodotto lordo) e le basse aliquote sugli utili netti che le imprese versano agli Stati concedenti.
Nel 2021, ad esempio, l’impresa Minera Panamá, sussidiaria panamense della canadese First quantum minerals, ha pagato solo 61 milioni di dollari di royalty sulla produzione di oltre 86mila tonnellate di rame. Solo con una recente revisione degli accordi (in vigore dal 2023), il governo panamense è riuscito a innalzare le aliquote dal 2% al 12% dei profitti della miniera (quindi ora corrispondenti a circa 375 milioni di dollari).
Altre aziende invece optano per l’evasione fiscale. Dichiarano guadagni molto più bassi del reale (o addirittura perdite) per versare meno imposte di quanto dovrebbero. «War on want», un’Ong inglese per la tutela dei diritti umani, ha denunciato che tra il 2010 e il 2011 solo due delle cinque compagnie minerarie attive in Zambia avevano dichiarato guadagni positivi. Ne è risultata una perdita di entrate fiscali per tre miliardi di dollari l’anno, il 12,5% del Pil annuo del Paese.
Infine, quel poco che resta nel Sud globale, spesso finisce nelle tasche di politici corrotti, invece di essere investito in politiche di welfare e crescita economica. Non è un caso che le due aree più ricche di minerali in tutto il mondo siano anche la più diseguale – il Centro e Sud America – e la più povera – l’Africa subsahariana.
In opposizione alle miniere
Sebbene nei Paesi del Sud sia ben più difficile, rispetto all’Occidente, impedire l’apertura di siti minerari – soprattutto in contesti nei quali la corruzione è dilagante -, non mancano esempi di mobilitazione della società civile locale. Proteste che in alcuni casi hanno avuto successo, arrivando a impedire lo sfruttamento dei giacimenti o a costringere le multinazionali a risarcire le popolazioni colpite dagli impatti ambientali e sociali.
In Madagascar, il sito di Ampasindava è considerato uno dei maggiori giacimenti di terre rare fuori dalla Cina. Ma finora la mobilitazione degli abitanti dell’area e delle associazioni per la tutela dell’ambiente – preoccupati da deforestazione, dispersione di metalli pesanti e rilascio di rifiuti tossici – è stata tale da impedire l’inizio delle operazioni estrattive.
In Sudafrica, invece, dopo un lungo processo giudiziario e complessi negoziati, la Corte suprema di Johannesburg ha stabilito che i minatori locali colpiti da silicosi e tubercolosi avevano diritto a ricevere indennizzi. Un obbligo gravante su diverse aziende – African rainbow minerals, Anglo American sa, AngloGold ashanti, Gold fields, Harmony e Sibanye stillwater – tenute a compensare migliaia di lavoratori e famiglie di minatori che, tra il 1965 e il 2018, hanno manifestato queste malattie.
Aurora Guainazzi
Aziende cinesi nel Sud globale
A fianco degli investimenti occidentali, nel Sud globale sono particolarmente diffusi anche quelli cinesi. La Cina, infatti, al di là delle terre rare, non dispone di significativi giacimenti di altri minerali critici. Tuttavia, grazie allo sviluppo di accordi tra le proprie aziende e i governi di diversi Paesi, Pechino riesce a mettere le mani su ingenti risorse che poi le sue imprese trasformano.
Ugualmente dannosi a livello ambientale e sociale, i progetti estrattivi cinesi si differenziano da quelli occidentali per la retorica.
Nei confronti del Sud globale, la Cina, infatti, ha sempre enfatizzato la ricerca di una collaborazione alla pari senza l’imposizione di condizioni di natura politica ed economica.
Dopotutto, Pechino stessa si definisce parte del Sud globale e aspira alla leadership del blocco.
Le compagnie cinesi – in cambio di concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti – promettono investimenti per lo sviluppo economico e sociale degli Stati concedenti, oltre che fruttuosi legami commerciali. In realtà, i Paesi del Sud globale ricevono ben poco in proporzione ai benefici che la Cina ottiene dalle risorse di cui si appropria. Ad esempio, nella provincia congolese del Katanga, le aziende cinesi si sono aggiudicate lo sfruttamento di giacimenti di rame e cobalto. Di tutti gli investimenti infrastrutturali promessi in cambio, però, ben poco è stato realmente realizzato (cfr. MC marzo 2024).
Ma, in Paesi stremati dalla spirale del debito e dove la democrazia fatica a farsi strada, la retorica cinese su una collaborazione alla pari senza l’imposizione di condizionalità politiche ed economiche fa presa.
A.G.
Catene produttive locali nel Sud
Nell’attuale sistema economico internazionale, il Sud globale è spesso visto come semplice fornitore di materie prime, le quali vengono poi lavorate in altri contesti, soprattutto in Cina. In questo modo, però, i guadagni e le opportunità lavorative legati alla raffinazione dei minerali in loco sono ben pochi.
Proprio con l’obiettivo di accrescere le entrate statali e creare nuovi posti di lavoro, molti Paesi si stanno muovendo verso la creazione di filiere produttive locali, in grado di lavorare le risorse direttamente sul territorio di estrazione.
Dall’Africa, al Centro e Sud America, passando per il Sud Est asiatico, questa è una tendenza diffusa, sebbene con intensità e stati di avanzamento differenti a seconda delle eredità storiche e delle criticità locali (come conflitti e limiti infrastrutturali).
Nella «Copperbelt», la cintura del rame che corre tra Repubblica democratica del Congo e Zambia, si trovano considerevoli giacimenti di cobalto. Perciò, l’African finance corporation, un’istituzione finanziaria multilaterale, ha siglato un memorandum d’intesa con l’azienda zambiana Kobaloni energy.
Investimenti per 100 milioni di dollari permetteranno di costruire in Zambia la prima raffineria africana di cobalto entro il 2025.
Si tratterà di una delle pochissime strutture di questo genere al di fuori della Cina – che attualmente controlla il 75% della lavorazione del minerale -. Essa permetterà di produrre componenti essenziali per le batterie al litio.
Il fatto che a investire non sia un’azienda straniera ma un’impresa africana non deve stupire: nel continente è sempre più forte la volontà di difendere le proprie risorse dallo sfruttamento delle multinazionali per trarne maggiori guadagni.
Non a caso, gli Stati africani stanno collaborando in seno all’Unione africana per delineare una strategia unitaria per uno sfruttamento vantaggioso dei propri minerali critici.
In Sud America invece, Cile e Perù, oltre a essere i due maggiori produttori mondiali di rame, sono anche leader continentali nella sua raffinazione. Dati alla mano, però, si tratta di capacità limitate: solo l’11% del totale del rame estratto nei due Paesi viene realmente lavorato sul posto. La maggior parte è esportata e processata in altri Paesi, tra i quali spicca, ancora una volta, la Cina.
A fine 2022, un rapporto della Commissione cilena sul rame, infatti, denunciava che «il Paese dispone di fonditrici vecchie, poco competitive e costose».
Migliorare le strutture per la lavorazione permetterebbe di ottimizzare i processi e ridurre gli sprechi, accrescendo le entrate nelle casse statali, e creerebbe nuove opportunità lavorative.
Il Burkina Faso invece sta guardando ancora più in là. La giunta militare al potere a Ouagadougou ha infatti annunciato la costruzione, alla periferia della capitale, del primo impianto nel Paese per il recupero e il riciclo di residui. In questo modo, i metalli, contenuti negli scarti derivanti dall’estrazione dell’oro, saranno lavorati internamente e non mandati all’estero.
Anche il riciclo sta diventando una componente importante della filiera dei minerali critici: dato che l’attuale trend di crescita dell’estrazione non sarà in grado di soddisfare l’incremento – ancora maggiore – della domanda, riciclare gli scarti o le componenti minerarie di dispositivi non più funzionanti è diventata una strada attraente.
A.G.
Sopravvivere da minatori
L’estrazione artigianale dei minerali critici.
In molti Paesi del Sud globale l’estrazione artigianale delle materie prime utili alla transizione ecologica è molto diffusa, con pesanti conseguenze ambientali e sociali. Nonostante i rischi elevati e i frequenti incidenti mortali, sono milioni le persone che scavano ed estraggono. Tra loro, anche molti bambini.
Al pari dei progetti delle multinazionali, anche l’estrazione artigianale è in continua espansione. Il prezzo abbastanza elevato dei minerali, e la loro richiesta consistente, fanno sì che molti abitanti dei paesi poveri decidano di lavorare nel settore minerario. Per quanto pericoloso e poco remunerativo sia, spesso però l’estrazione artigianale è il modo più semplice per assicurarsi la sopravvivenza quotidiana.
Nel 2020, in tutto il mondo, secondo la Banca mondiale, c’erano circa 45 milioni di minatori artigianali (oltre ad altri 120 milioni di persone che dipendevano indirettamente dal settore).
Impatti sociali e ambientali
I siti di estrazione informale, dove i minatori lavorano senza permessi governativi, sono sempre più diffusi. Così come aumentano le miniere illegali, spesso aperte sulle concessioni di grandi aziende che, per svariati motivi come insicurezza o mancanza di infrastrutture, sono incapaci di sfruttare il giacimento.
I minatori artigianali non si servono di particolari tecnologie o macchinari, non dispongono di protezioni e non godono di tutele.
Racconta Viateur, cooperante congolese e analista della regione dei Grandi Laghi, area dove l’estrazione artigianale è particolarmente diffusa: «Nella miniera di Rubaya nel Nord Kivu, almeno cento minatori sono morti asfissiati dopo che una frana li aveva bloccati a una profondità di cento metri.
Le frane sono frequenti a causa dei dispositivi di sicurezza di cattiva qualità: la maggior parte delle gallerie sono sorrette da pali di legno che non sono in grado di sostenere il peso del terreno e dell’acqua nei periodi piovosi». E ancora: «La contaminazione delle acque sotterranee causa malattie legate ai metalli pesanti come disturbi del sangue e tumori». Ma anche «le malattie croniche – come polmonite, dolori articolari e mal di testa – sono diffuse: i minatori sono esposti all’assorbimento di particelle e gas. Anche i bambini sono colpiti perché partecipano allo smistamento dei minerali in superficie».
Nelle aree di estrazione artigianale, infatti, il lavoro minorile è molto diffuso: nelle sole miniere congolesi di coltan nel 2021 lavoravano almeno 40mila bambini e adolescenti. Oltre che nello smistamento dei minerali, i bambini sono impiegati anche nell’estrazione nelle gallerie più profonde e strette, dove gli adulti non riescono ad andare.
Man mano che l’attività estrattiva in un territorio si consolida, «la produzione agricola diventa sempre più difficile a causa dei residui minerari riportati in superficie che inibiscono la crescita delle piante. Questo provoca fame e malnutrizione».
Parole che valgono per la Repubblica democratica del Congo così come per tanti altri contesti dove l’estrazione artigianale – così come quella industriale delle grandi multinazionali – porta con sé una serie di conseguenze sociali e ambientali notevoli: dalla devastazione dell’ambiente, alla diffusione di malattie tra la popolazione, ai frequentissimi incidenti sul lavoro.
Per la sopravvivenza quotidiana
L’estrazione artigianale è trainata dal mercato internazionale e dalla crescente domanda di minerali critici per la produzione dei dispositivi al centro della transizione ecologica.
L’obiettivo prioritario per le popolazioni che vivono in condizioni di povertà e diseguaglianza è quello di assicurarsi la sopravvivenza quotidiana.
In mancanza di fonti di reddito alternative, soprattutto in zone remote e lontane dai centri urbani, è facile che molti decidano di dedicarsi all’estrazione mineraria. «In queste aree – ricorda Viateur – le opportunità di studio e ascesa individuale e collettiva sono limitate per l’assenza di scuole di qualità e centri di formazione al lavoro». E l’attività mineraria, particolarmente redditizia in questa fase storica, diventa una scelta facile: «A differenza dei prodotti agricoli e forestali, le risorse minerarie – come oro, diamanti e coltan – hanno un prezzo di mercato molto elevato e il trasporto su grandi distanze è facile».
Aurora Guainazzi
Sudafrica. Un piano difficile da realizzare
Nel corso della Cop26 a Glasgow, il presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, ha presentato il Just energy transition investment plan (Jet-Ip), il piano quinquennale per la transizione ecologica del Sudafrica. Stando ai dati dell’Agenzia internazionale per l’energia, infatti, nel 2020 solo il 7% dell’energia sudafricana proveniva da fonti rinnovabili, mentre l’85% proveniva da quattordici vecchie centrali a carbone, soggette a frequenti problemi di manutenzione e blackout. Il Paese era responsabile di un terzo delle emissioni totali dell’Africa subsahariana.
Il Jet-Ip, dunque, prevede interventi per decarbonizzare economia e società attraverso lo sviluppo di una mobilità sostenibile e l’incremento delle energie verdi. Smantellare le centrali a carbone è un punto centrale: Eskom, l’azienda energetica statale, prevede che metà degli impianti cesserà di funzionare entro il 2034. Al contempo, verrà espansa e rafforzata la produzione di energie rinnovabili e idrogeno verde (nella cui esportazione il Sudafrica vuole diventare leader mondiale grazie a investimenti nelle infrastrutture portuali).
Realizzare questo piano e – più in generale – la transizione ecologica in Sudafrica, però, non vuol dire solo introdurre e utilizzare nuove tecnologie, ma anche un cambiamento profondo del sistema economico e sociale.
Il Paese è il settimo produttore mondiale di carbone e il quarto esportatore. Oltre 120mila persone lavorano nella sua estrazione o nella gestione delle centrali. Lo smantellamento degli impianti, quindi, avrà effetti sociali poco considerati da un piano che prevede semplicemente la riallocazione dei lavoratori in altri settori. Un problema non da poco in un Paese dove la disoccupazione – pari al 32%, la più elevata dell’Africa subsahariana – è da decenni un problema strutturale.
Infine, c’è il nodo dei costi, una questione emersa fin da subito a Glasgow. Il Jet-Ip prevede investimenti per 84 miliardi di dollari su cinque anni.
Durante la Cop26, il Sudafrica si è accordato con Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione europea per 8,5 miliardi di dollari di finanziamenti. Ma perché diventassero realtà ci è voluto un anno di negoziati.
Al momento, manca ancora il 44% dei fondi. Il governo auspica di ottenerli grazie a finanziamenti di Stati stranieri, banche di sviluppo multilaterali, settore privato e filantropi. Però, la maggior parte delle risorse sono fornite sotto forma di prestiti, su cui gravano considerevoli tassi di interesse, piuttosto che in termini di sovvenzioni.
Un peso notevole per le finanze di un Paese già in profonda difficoltà economica.
A.G.
Chi non può resta indietro
La transizione ecologica dal punto di vista del Sud
I maggiori responsabili del cambiamento climatico sono i Paesi del Nord, mentre quelli del Sud ne subiscono gli effetti peggiori. Il principio secondo cui «paga chi inquina», però, non è applicato, e a decidere tempi, costi e fattibilità della transizione nel Sud rimane l’Occidente.
Nonostante il cambiamento climatico coinvolga tutto il mondo e – anzi – i suoi effetti peggiori si manifestino nel Sud globale, è l’Occidente a guidare la transizione ecologica. Sono i suoi decisori politici a determinare tempi, costi e fattibilità di questo processo per tutta la Terra. Chi riesce, si adegua. Chi non ce la fa è lasciato indietro e ne paga le conseguenze.
Eredità storiche
Storicamente, la responsabilità maggiore del cambiamento climatico – in termini di emissioni di gas serra – grava sulle spalle del mondo occidentale. Il carbone prima e il petrolio poi, infatti, sono stati i cardini dell’industrializzazione e della crescita economica del Nord globale.
Piano piano poi, si sono aggiunti alcuni Paesi del Sud globale. Ma non prima degli anni Novanta. Per circa 150 anni, quindi, è stato solo l’Occidente a produrre i gas climalteranti. Oggi, questa responsabilità è condivisa con alcuni Paesi come Cina e India, ma molti altri – di fatto la maggioranza – inquinano ancora ben poco. Mentre subiscono gli effetti peggiori del cambiamento climatico.
Proprio in virtù di questa differenza storica nelle responsabilità, a Rio de Janeiro nel 1992 è stato formulato il principio delle «responsabilità comuni ma differenziate». In poche parole: chi inquina di più, paga di più. Il principio si radicava nella consapevolezza che lottare contro il cambiamento climatico era un obiettivo comune a tutta la comunità internazionale, ma riconosceva anche che era necessario differenziare il peso sui diversi Paesi a seconda del loro contributo storico all’inquinamento planetario.
Infatti, durante la Cop3 di Kyoto del 1997, sono stati stabiliti obblighi differenti nella riduzione delle emissioni a seconda che i Paesi fossero classificati come «sviluppati» o «in via di sviluppo».
A Parigi nel 2015, però, questa distinzione è venuta meno e sono state introdotte regole comuni per tutti. I contributi, determinati a livello nazionale (piani quinquennali nei quali i paesi firmatari degli accordi delineano le proprie strategie di lungo periodo in termini di transizione ecologica e decarbonizzazione), sono diventati il cardine delle politiche di lotta al cambiamento climatico.
Anche i Paesi del Sud globale si sono impegnati a presentare e aggiornare questi documenti. Ma, data l’assenza di fondi e mezzi, non deve stupire se tra ciò che questi Paesi scrivono nei piani e ciò che sono realmente in grado di realizzare c’è un abisso. Ancor di più, se si considera che a Parigi era stato stabilito che il Nord del mondo dovesse fornire risorse tecnologiche e finanziarie per sostenere la transizione del Sud. Un onere che finora, però, è stato ampiamente disatteso.
Questione di soldi e approccio
Nel tentativo di dare seguito a questo obbligo, negli anni, l’Occidente ha provato a introdurre strumenti per sostenere i piani del Sud globale, ma i fondi destinati finora, oltre a essere molto in ritardo rispetto a quanto deciso, sono insufficienti.
Alla Cop21 di Parigi, i Paesi più ricchi avevano promesso di destinare, a partire dal 2020, 100 miliardi di dollari l’anno in aiuti climatici al Sud.
Solo nel 2022 poi, alla Cop27 di Sharm el-Sheikh, è stato individuato uno strumento per canalizzare questo genere di risorse: il Fondo perdite e danni.
Un anno dopo, il meccanismo non era ancora operativo. Si è dovuta attendere la Cop28 di Dubai per raggiungere l’accordo su un finanziamento iniziale di 700 milioni di dollari entro gennaio 2024: lo 0,2% di tutte le risorse necessarie.
Il fondo è una sorta di palliativo che tenta di ammortizzare i danni, di mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Ciò che, ancora oggi, manca sono risorse adeguate per la transizione ecologica del Sud globale. Esso, infatti, con l’esclusione della Cina, secondo il report Finance for climate action, necessiterebbe di due trilioni di dollari l’anno entro il 2030 per rispettare gli obiettivi di Parigi.
Oltre alle risorse contenute in questi fondi, molti paesi del Sud devono ricorrere ai prestiti stanziati dalle istituzioni finanziarie internazionali (tutte a guida occidentale) o da Paesi stranieri. Finanziamenti spesso molto onerosi: raramente i tassi di interesse sono inferiori al 3%, e in molti casi raggiungono picchi del 9%. Con il risultato di creare una spirale del debito senza fine.
Dunque, a determinare tempi, costi e fattibilità della transizione ecologica nel Sud globale è sempre l’Occidente. Di fatto, un’altra delle sue tante manifestazioni neocoloniali.
L’attivismo
Anche sul piano dell’attivismo, la transizione ecologica è spesso e volentieri presentata come un processo a guida occidentale.
Eppure, nel Sud globale fioriscono movimenti per la difesa dell’ambiente e la lotta al cambiamento climatico.
In occasione del Forum economico di Davos del 2020, l’agenzia di stampa statunitense «Associated press» ha tagliato l’attivista ugandese Vanessa Nakate da una foto che la raffigurava con le colleghe europee Greta Thunberg, Luisa Neubauer, Isabelle Axelsson e Lukina Tille. Un anno dopo, alla Cop26 di Glasgow, la cosa si è ripetuta. Ancora una volta, Vanessa Nakate è stata eliminata da un’immagine che così mostrava solo volti bianchi.
La Cop26 è stata considerata la più escludente di sempre. Complici la pandemia da Covid-19 e l’iniqua distribuzione di vaccini nel mondo, infatti, diversi attivisti e rappresentanti della società civile del Sud globale non hanno potuto raggiungere la Scozia per partecipare ai lavori della conferenza e far sentire la propria voce.
Tra le comunità indigene colpite dagli effetti del cambiamento climatico e dell’estrazione mineraria, sono sempre più diffusi movimenti di protesta nei confronti dell’Occidente e delle sue multinazionali. Ma l’attenzione mediatica che ricevono spesso è molto limitata. Così come poca visibilità viene data alle richieste dei leader dei piccoli Paesi insulari del Pacifico, una delle aree del mondo più a rischio a causa dell’innalzamento del livello dei mari.
Dunque, rendere la transizione ecologica realmente accessibile a tutti, oltre che ascoltare le voci provenienti dal Sud globale, è fondamentale per costruire un futuro sostenibile.
Aurora Guainazzi
Hanno firmato il dossier:
Aurora Guainazzi. Si occupa di Africa subsahariana sia nell’ambito della cooperazione internazionale che dell’informazione. La sua attenzione si rivolge in particolare alle dinamiche economiche, sociali e politiche della regione africana dei Grandi Laghi.
A cura di Luca Lorusso, redattore MC.
Noi e voi, lettori e missionari in dialogo
Taiwan 10 anni di presenza
Il 21 settembre 2024 è stata celebrata la festa per i dieci anni di presenza dei Missionari della Consolata a Taiwan. Le celebrazioni si sono svolte con una messa nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù, a Hsinchu, gestita dai missionari dal 2017.
L’inizio
Era il 12 settembre del 2014, quando tre missionari atterravano all’aeroporto Taoyuan di Taipei. Iniziava così l’avventura dell’istituto fondato da Giuseppe Allamano a Taiwan. I tre erano i padri Eugenio Boatella (Spagna), Mathews Owuor Odhiambo (Kenya) e Piero Demaria (Italia).
Oggi i missionari sono sette. Alcuni sono partiti e altri sono arrivati. Padre Jasper Kirimi, keniano, arrivato nel 2016, è l’attuale coordinatore dei missionari della Consolata a Taiwan. Con lui a Hsinchu, lavora padre Caius Moindi, anch’esso keniano.
I padri Bernado Kim (Corea) e Antony Chomba (Kenya) hanno preso in carico la parrocchia san Joseph di Xinpu, una città vicina a Hsinchu, mentre il padre Emanuel Temu (Tanzania) segue da alcuni mesi la parrocchia di Xinfong, la terza gestita dai missionari della Consolata a Taiwan. I padri Thiago Jacinto da Silva (Brasile) e Pablo Soza Martin (Argentina) stanno attualmente studiando la lingua cinese.
La voce del vescovo
La celebrazione dei dieci anni ha visto la partecipazione del vescovo di Hsinchu, monsignor John Baptist Lee e del pro-chargé d’affaires della Nuziatura apostolica di Cina, Taipei, monsignor Stefano Mazzotti.
Nella lunga omelia, il vescovo Lee ha esordito dicendo: «Oggi è un giorno di gioia nel quale celebriamo dieci anni di contributi e sacrifici dei Missionari della Consolata nella diocesi di Hsinchu. Non si tratta di un periodo lungo nella storia della Chiesa di Taiwan, ma una volta arrivati in questa terra ci si scontra con grandi sfide e difficoltà e la Consolata, affrontandole, ci ha manifestato la grazia di Dio. Carente di vocazioni, la diocesi di Hsinchu è molto grata alla generosità della Consolata nell’aiuto al lavoro pastorale».
Il vescovo ha poi sottolineato come sia cambiata l’origine dei missionari: «Il Dicastero per l’evangelizzazione in Vaticano ha visto un grande numero di missionari africani lavorare in Europa, invertendo la regola per cui i missionari arrivati dal vecchio continente andavano a predicare in Africa. Adesso la buona notizia è che li vediamo arrivare in direzione di Taiwan, nella diocesi di Hsinchu».
Monsignor Lee ha chiesto ai cristiani locali di «lavorare con i missionari, supportarli e aiutarli nei bisogni della missione». Perché, ha detto rivolgendosi a loro: «Dopotutto, ognuno di voi è un missionario ed è vostro dovere partecipare all’evangelizzazione, vivendo a pieno la sinodalità».
La Consolata a Taiwan
Padre Jasper Kirimi dopo la celebrazione e la festa di condivisione ci dice: «È stato emozionante. In primo luogo, perché ho visto questi video con le testimonianze dei missionari che hanno lavorato qui (video di saluto e augurio sono stati mostrati dopo la messa, nda). Ho lavorato con tutti loro ed è passato un bel po’ di tempo. Quando io sono arrivato, non pensavo di stare tanto così, perché era davvero dura. Imparare questa lingua e la cultura così diversa. Invece sono ancora qui. In secondo luogo, la partecipazione oggi è stata davvero importante. Io penso che la gente sia venuta anche per la Consolata. Questo vuol dire che c’è un nuovo riferimento che aggrega i cristiani di Taiwan ed è proprio la Consolata. Giuseppe Allamano, che sta per diventare santo, penso che non abbia mai immaginato di arrivare fino a questa terra».
Padre Jasper conclude: «Taiwan è molto diversa da Africa e America Latina. Noi siamo qui per imparare un nuovo modo di fare missione».
Dall’Asia
Una delegazione dei missionari della Consolata dalla Mongolia, con padre Dieudonné Mukadi Mukadi (congolese), e dalla Corea del Sud, con i padri Pedro Han Kyeong Ho (coreano) e Clement Kinyua Gachoka, superiore della Regione Asia, è venuta a Taiwan per l’occasione.
Secondo padre Clement: «Siamo la presenza più recente nella diocesi. Dal 2014 a Taiwan sono passati undici missionari della Consolata, che voglio ringraziare per l’apporto che hanno dato. È una presenza giovane, che ha affrontato tante sfide: la lingua, la cultura, la fatica di adattarsi. Dall’altra parte c’è stata la perseveranza che hanno avuto e la collaborazione con la Chiesa di Hsinchu, a tutti i livelli. La celebrazione dei primi dieci anni ci dà la speranza, che nonostante le sfide, le difficoltà e le paure, il cammino andrà avanti e la presenza sarà significativa».
Pensando al santo Giuseppe Allamano, Clement ci dice: «Siamo a un mese dalla canonizzazione e poco più di un anno dai cento anni della sua scomparsa. Penso che sia contento e ci guardi con orgoglio e stima, perché vede che stiamo camminando nella via dei sogni che lui aveva per la missione. Questo ci incoraggia a dare delle risposte alle sfide attuali della chiesa di Hsinchu».
Dopo la celebrazione la festa è continuata ed erano presenti anche i parrocchiani di Xinpu e Xinfong, oltre che diversi amici e membri di congregazioni venute anche dalla capitale Taipei.
Alla redazione MC,
vorrei sottoporre alla vostra attenzione un fatto di cronaca accadutomi pochi giorni fa. Forse può essere di interesse generale, soprattutto in questo periodo di forti contrasti xenofobi.
Cronaca di un contropiede con gol da fuori area
Arrivo, di fretta, alla stazione alle 7:45 am, giusto il tempo di comprare il biglietto dal distributore automatico e prendere il treno per Lecce delle 8:00. Ma, disgraziatamente, per piccoli importi (2,5 euro) il distributore riceve solo monete o banconote da 5 e da 10 e io ne avevo solo una da 20. Cavolo, che fare? Piano A, cercare un bar vicino, ma, ahimè, nessuno aperto in zona. Piano B: salire sul treno senza biglietto. «No dai, prima piano C, se non va in porto torno al piano B»: chiedere se qualcuno mi cambia la banconota.
Tra gli astanti, una decina in tutto, molti bianchi e qualche africano. Chiedo a un africano, il quale, in un discreto italiano, mi risponde che non ha da cambiare e, senza aspettare ulteriori domande, mi chiede se devo andare a Lecce. Annuisco. Allora mi fa segno di avvicinarci al distributore e, senza dire nulla, digita la destinazione, tira fuori il suo portafogli e mette le monete necessarie alla compera. Mi ha pagato il biglietto! Sinceramente io sono rimasto di stucco, sorpreso, meravigliato. Ovviamente contento, ma allo stesso tempo pensavo, «Chi lo avrebbe mai detto, chi lo avrebbe pensato? Cosa sta succedendo in questo momento?». L’ho ringraziato ampiamente, ci siamo stretti la mano forte, gli ho detto che a Lecce avrei cambiato la banconota per restituirgli i soldi. E lui, pacatamente, sguardo gentile, sorriso sereno, ha detto educatamente di no, che non ce n’era bisogno.
Un africano semplice, sui 35 anni, vestito in forma decorosa, chissà se stava andando a Lecce per vendere ciò che aveva in un mini-trolley bianco un po’ malandato.
Il treno è arrivato. È arrivato anche un suo connazionale e si sono messi a chiacchierare mentre tutti salivamo sul treno. L’ho perso di vista.
Arrivati a Lecce lo ritrovo sulla banchina, gli dico «andiamo al bar a prendere un caffè», e lui, sempre molto decorosamente, declina l’invito. Insisto, lui pure. Mi dice «non c’è bisogno», con occhi gentili e direi felici.
Felice perché? Ha fatto la sua buona azione quotidiana? Ha messo il suo positivo granello di arena nel calderone dell’integrazione? Ci ha insegnato che nero non è uguale a male? (Tanto di moda ultimamente…).
Chissà se qualcuno dei miei compaesani avrebbe avuto lo stesso atteggiamento alla mia richiesta; chissà se, a parti invertite, io mi sarei comportato allo stesso modo. Sta di fatto che lui ha segnato un piccolo grande spartiacque nella nostra ideologia contemporanea.
La gentilezza, l’educazione, la generosità non hanno colore. Se le coltivi, puoi avere la faccia nera, bianca o gialla ed è la stessa cosa. Se non le coltivi, puoi essere bianco, giallo, nero o meticcio e comunque non averle quelle qualità.
Anche perché per coltivare tutte quelle qualità che ci rendono veramente umani, basta avere il cuore e il cuore, si sa, è rosso per tutti.
Carmine Masciullo Galatina, 01/09/2024
Dieci anni dopo, l’Isis c’è ancora
Era il 2014 quando l’Isis entrò a Mosul instaurando il Califfato. Furono tre anni di dominio drammatico, soprattutto per le minoranze yazida e cristiana. L’organizzazione islamista non è però scomparsa. Anzi, si sta riorganizzando in vari paesi.
Sono trascorsi dieci anni da quando l’Isis issò la bandiera nera sulla città di Mosul, in Iraq. Il sogno era quello di costituire uno Stato islamico (Daesh), tra l’Iraq e la Siria, con leggi e regole che mettevano una dura ipoteca su diritti e libertà da poco conquistati, sia pure in misura limitata, in un’area del pianeta comunque da sempre instabile.
A farne le spese fino alla liberazione (avvenuta nel 2017), furono le minoranze, soprattutto quella cristiana e quella yazida. Ma stragi e lutti colpirono anche la stessa comunità musulmana, soprattutto la minoranza sciita.
Nadia Murad
Simbolo della resistenza a quella che è stata una delle pagine più cupe della storia recente, è senza dubbio Nadia Murad. Nata a Kocho (distretto di Sinjar), sulle alture irachene di Ninive, di religione yazida, nell’agosto del 2014, come tante ragazze della sua comunità, venne rapita e tenuta in ostaggio dai terroristi del Daesh. Resa schiava, picchiata, violentata, riuscì a scappare, nel novembre dello stesso anno, dalla sua prigione. Da allora non ha mai smesso di testimoniare la sua storia e quella del suo popolo perseguitato tanto da essere insignita, nel 2018, del Premio Nobel per la pace.
Nelle celebrazioni del decennale, che si sono tenute all’inizio del mese di agosto di quest’anno nella sua terra, il Sinjar, regione irachena incastonata tra il Kurdistan, la Turchia e la Siria nordorientale, Nadia Murad ha sottolineato: «Dieci anni fa, la mia vita e quella di centinaia di migliaia di yazidi furono sconvolte e distrutte. Ritrovarci insieme ad altri sopravvissuti dieci anni dopo per commemorare il decimo anniversario a Sinjar lancia un messaggio potente a coloro che hanno cercato di sradicarci dalla nostra patria e di metterci a tacere attraverso una campagna di genocidio e violenza sessuale: avete fallito. I sopravvissuti sono più resistenti che mai e hanno smascherato la malvagia ideologia dell’Isis».
Per non dimenticare quanto accaduto in quei mesi del 2014 nel Sinjar è sorto, anche grazie al coraggio e all’intraprendenza dell’attivista, ormai nota in tutto il mondo, lo Yazidi genocide memorial.
La fuga e un parziale ritorno
Dolori e lutti hanno investito e decimato anche la comunità cristiana. Era il 10 giugno del 2014 quando l’Isis dichiarò l’istituzione di un califfato introducendo la legge islamica. I cristiani furono costretti a scegliere tra lasciare le loro città, pagare l’esosa tassa di protezione o vedere la confisca delle loro proprietà. Qualche giorno dopo, le porte delle loro case vennero segnate con la lettera «n» in arabo, marchiati perché «nazareni», ovvero seguaci di Gesù. Era solo la premessa di quella grande fuga, avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 agosto dello stesso anno, di circa 120mila persone che dalla piana di Ninive raggiunsero il più sicuro Kurdistan, e si stabilirono soprattutto nel quartiere di Ankawa a Erbil. Fuggirono con ogni mezzo a disposizione, la maggior parte a piedi, portando con sé soltanto quanto avevano indosso.
A distanza di dieci anni solo una parte di loro è tornata nei villaggi dove abitavano fino al 2014, nonostante il messaggio di incoraggiamento, lanciato proprio a Mosul, da papa Francesco nel suo storico viaggio in Iraq del 2021. Con la papamobile Francesco ha attraversato e toccato le macerie della guerra e della devastazione. Dalla cattedrale di Qaraqosh, dedicata all’Immacolata Concezione, che i jihadisti avevano trasformato in un poligono di tiro, ma che era stata tirata a lucido proprio per la visita, il Pontefice ha esortato: «Non smettete di sognare! Non arrendetevi, non perdete la speranza!».
Per tanti cristiani, però, non è stato possibile ricominciare. Non c’erano solo le case e le chiese da ricostruire, ma anche una vita intera, dalle attività economiche chiuse al rapporto di fiducia con i vicini di casa che, in quei cupi mesi di dieci anni fa, fu compromesso, quando non completamente disintegrato.
Le cicatrici, dunque, sono ancora profondamente impresse in quei territori, nonostante siano stati liberati nel 2017 e le case, scuole e chiese rimesse in piedi dalle Chiese locali sostenute da agenzie umanitarie, come la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesache soffre o la Caritas. «Solo il 60 per cento circa dei cristiani ha fatto rientro a Mosul e nei villaggi della piana di Ninive», ha detto in una recente intervista al Sir il cardinale Louis Raphael Sako, patriarca dei caldei. «Tanti – ha spiegato – hanno scelto di restare nel Kurdistan», la regione che li aveva accolti nel momento della disperazione.
L’Isis non dorme
Sembra un secolo fa, con il mondo alle prese con nuove emergenze, tra le quali un conflitto nel cuore dell’Europa e la guerra in Medio Oriente. Eppure l’Isis, che ha dovuto abbandonare il sogno della fondazione di un sedicente Stato islamico, continua ad esistere, a fare stragi, a mietere vittime. Accade soprattutto in alcune zone dell’Africa, con cellule locali che rispondono a quella stessa filosofia del fondamentalismo islamista, ma troppo spesso lontane dai riflettori. Si contano sempre più adepti anche nel Sud Est asiatico, soprattutto nelle Filippine, in Indonesia e Malaysia.
Non solo: l’attacco terroristico al Crocus City Hall di Mosca, nel mese di maggio di quest’anno, costato la vita ad oltre 140 persone, è stato rivendicato proprio dall’Isis. Più precisamente dall’Isis-K, la nuova sigla che abbiamo imparato a conoscere proprio con l’eccidio che ha sorpreso Mosca nel corso di un concerto che aveva richiamato tante famiglie. Di fatto, Isis-K è una delle configurazioni territoriali dello Stato islamico, che ha l’obiettivo di creare un califfato nella regione storica del Khorasan. Secondo lo stesso gruppo, esso comprenderebbe parti di Afghanistan, Pakistan, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan e Iran.
Minacce e attentati
I jihadisti hanno anche minacciato gli Europei di calcio in Germania, come pure i Giochi olimpici che si sono svolti ad agosto a Parigi. Tutte occasioni, fortunatamente sventate dalle intelligence occidentali, che avrebbero potuto ridare visibilità ai terroristi.
Secondo quanto riferito dalle forze di sicurezza americane, militanti dell’Isis si erano preparati a colpire anche grandi eventi musicali, con la partecipazione di migliaia e migliaia di persone, soprattutto giovani, come i concerti in Europa della cantautrice statunitense Taylor Swift.
Porterebbe il timbro dell’Isis anche l’attacco al Festival cattolico che si stava tenendo ad agosto a Solingen, in Germania. Tre morti e otto feriti nell’attentato per il quale è stato arrestato un uomo siriano che, secondo la Procura federale tedesca, è «fortemente sospettato» di essere affiliato proprio all’Isis. D’altronde, l’organizzazione terroristica aveva subito rivendicato l’azione: «L’autore dell’attacco a un raduno di cristiani nella città di Solingen in Germania era un soldato del gruppo dello Stato islamico», si sottolineava in una dichiarazione dell’agenzia di stampa jihadista Amaq su Telegram, il giorno dopo. L’attacco è stato effettuato «per vendetta per i musulmani in Palestina e ovunque», si aggiungeva.
Il conflitto in Medio Oriente, dunque, viene messo al centro della nuova azione di coloro che vorrebbero rivedere in auge quella bandiera nera issata dieci anni fa nelle città conquistate dall’Isis. Cellule dormienti, ma non troppo.
Il nuovo salto di qualità è arrivato anche con la recente creazione di un notiziario governato dall’intelligenza artificiale, nell’ambito di un nuovo programma multimediale lanciato dallo stesso Daesh. I video, pubblicati settimanalmente, sono realizzati per assomigliare a un qualsiasi telegiornale e forniscono informazioni sulle «attività» dello Stato islamico nel mondo. «Per l’Isis, l’intelligenza artificiale è un punto di svolta -ha affermato Rita Katz, cofondatrice del Site intelligence group -. Sarà un modo rapido per diffondere e parlare dei loro attacchi sanguinosi in ogni angolo del mondo».
L’Isis dunque «non è morto», come sottolinea la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre. E se i cristiani sono stati in Iraq e Siria il target privilegiato del gruppo terrorista, non si può dimenticare che, sotto attacco, ci sono state, e ci sono tuttora, anche le altre minoranze religiose. «Molti bambini yazidi sono ancora sfollati dalle loro comunità. Molti vivono in ambienti non sicuri», sottolineava un rapporto dell’Ong Save the children due anni fa.
Questi dieci anni sono stati costellati anche dagli eccidi contro i musulmani, soprattutto sciiti. Una carneficina che ha visto saltare in aria moschee a Mosul in Iraq, a Shiraz in Iran, a Kunduz in Afghanistan. E sempre lo stesso scenario con decine di morti e feriti e i luoghi di preghiera ridotti in macerie.
Migliaia di miliziani
Oggi l’Isis sembra si stia riorganizzando. Secondo i dati diffusi dal responsabile dell’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov, ad agosto 2022 si contavano almeno 10mila miliziani ancora operativi tra Siria e Iraq.
A fine agosto, nell’Iraq occidentale, un’operazione militare ha colpito ed eliminato una quindicina di combattenti, come comunicato dal «Comando militare statunitense per il Medio Oriente» (Centcom). Il gruppo era dotato di numerose armi, granate e cinture esplosive. «L’Isis rimane una minaccia per la regione. I nostri alleati e il nostro Paese – ha sottolineato in una nota ufficiale il Centcom – continueranno a perseguire attivamente questi terroristi», ha aggiunto.
Gli Stati Uniti hanno circa 2.500 soldati in Iraq e 900 in Siria come parte della coalizione internazionale anti Isis.
Peraltro, lo scorso settembre Baghdad e Washington hanno annunciato un accordo per il ritiro delle truppe, accordo graduale che culminerà nel settembre del 2026.
Quel viaggio papale
Al momento, la risposta internazionale sembra, dunque, basarsi solo sulla forza militare e non anche su quella opera di riconciliazione, invocata dal Papa nel suo viaggio del marzo del 2021. Un viaggio che Francesco volle affrontare nonostante la pandemia del Covid in corso e la minaccia di attentati che si ripeterono fino a pochi giorni dalla sua partenza.
«Questo è il momento di risanare non solo gli edifici, ma prima ancora i legami che uniscono comunità e famiglie, giovani e anziani», aveva detto Papa Francesco in uno dei suoi discorsi. Dopo avere ascoltato la struggente testimonianza di Doha, una donna che aveva visto ucciso il suo bambino che giocava nel cortile di casa a Qaraqosh e che disse di avere perdonato, il Papa invitò la gente a seguire questa via, anche se dolorosa e difficile.
«Perdono: questa è la parola chiave. Il perdono è necessario per rimanere nell’amore, per rimanere cristiani. La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma vi chiedo, per favore, di non scoraggiarvi. Ci vuole capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare. So che questo è molto difficile. Ma crediamo che Dio può portare la pace in questa terra».
Dal Medio Oriente all’Africa
Dall’Iraq e dalla Siria all’Africa: è in questo continente la nuova centrale delle cellule terroristiche che portano altri nomi ma sono affiliate o – comunque – si ispirano ai terroristi del Daesh.
Nel mese di agosto 2024 la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, con le sue fonti locali, ha messo in evidenza la carneficina attuata in Burkina Faso, dove gli attentati terroristici sono sempre più frequenti.
Il 25 agosto scorso nel villaggio di Sanaba, diocesi di Nouna, nell’Ovest del Paese, un folto gruppo di miliziani affiliati all’Isis ha circondato la comunità, radunato la popolazione e legato tutti i maschi di età superiore ai 12 anni di religione cristiana o tradizionale e, in generale, quanti erano stati considerati oppositori dell’ideologia jihadista. I terroristi hanno poi condotto gli uomini in una vicina chiesa protestante e lì ne hanno sgozzati ventisei, tra cui cattolici. L’attacco è avvenuto il giorno dopo la strage di Barsalogho, diocesi di Kaya, dove erano state uccise almeno 150 persone, «anche se il numero effettivo potrebbe essere a 250, secondo fonti locali, con 150 feriti gravi», riferisce ancora Acs. Le stesse fonti riferiscono di attacchi verificatisi nei giorni scorsi ai danni di tre parrocchie vicino al confine con il Mali, sempre nella diocesi di Nouna. «Circa cinquemila donne e bambini hanno cercato rifugio nella città di Nouna. Non c’è un solo uomo tra loro. Il luogo in cui si trova la popolazione maschile è ancora incerto, non sappiamo se siano fuggiti, se si nascondano o se siano stati uccisi», riferiva la fonte locale all’organizzazione umanitaria.
La diocesi di Nouna ha visto altri attacchi negli ultimi mesi, con un gran numero di luoghi di culto cattolici, protestanti e tradizionali saccheggiati o bruciati. Si ritiene che, dal maggio 2024, circa cento cristiani siano stati uccisi nella regione pastorale di Zekuy-Doumbala, mentre altri sono stati rapiti, senza che si sappia dove si trovino.
Dalla Repubblica democratica del Congo al Kenya, dal Mozambico all’Uganda, le sigle sono diverse ma i metodi sono sempre gli stessi: eccidi, stupri, rapimenti, case bruciate. Tutto questo nell’apparente affanno di una comunità internazionale alle prese con quella «terza guerra mondiale a pezzi» di cui da anni, profeticamente, parla papa Francesco.
Manuela Tulli
Progetti idrici, una panoramica
Il mondo non ha fatto sufficienti progressi verso il raggiungimento dell’obiettivo 6 dell’Agenda 2030 dell’Onu, quello relativo all’accesso all’acqua e ai servizi igienici. Nelle missioni della Consolata si continua a lavorare per garantire acqua pulita a famiglie, scuole e strutture sanitarie.
Nel 2023 i casi di colera nel mondo sono stati oltre 535mila, in aumento rispetto ai quasi 473mila dell’anno precedente, e le morti a causa della malattia sono passate da 2.349 del 2022 a 4.007 dell’anno scorso. Lo riportava a settembre un rapporto@ dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), secondo cui quella in corso è la settima pandemia di colera dal XIX secolo a oggi. Nel complesso, riportava una scheda informativa dell’Oms a marzo@, le malattie diarroiche, tra le quali il colera, continuano a essere la terza causa di morte di bambini sotto i 5 anni: ogni anno a causa della diarrea muoiono circa 444mila bambini fra 0 e 5 anni e altri 51mila fra i 5 e 9 anni.
Si tratta di malattie per le quali i trattamenti esistono e sono anche economici. A questo proposito, sul New York Times dello scorso settembre, Philippe Barboza, a capo del team che si occupa di colera nel programma delle emergenze sanitarie dell’Organizzazione mondiale della sanità, definiva inaccettabile che nel 2024 le persone muoiano perché non possono permettersi una bustina di sali per la reidratazione orale che costa 50 centesimi.
Prevenire le malattie diarroiche sarebbe poi ancora più semplice: basterebbe avere a disposizione acqua pulita per bere, cucinare e lavarsi le mani, eliminando batteri come il vibrio cholerae, l’escherichia coli e altri responsabili di queste patologie.
Ma, a oggi, il raggiungimento dell’obiettivo 6 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, quello che riguarda appunto l’acqua e i servizi igienico sanitari, non sembra vicino. Secondo il rapporto 2023 sugli obiettivi di sviluppo sostenibile@, nonostante alcuni miglioramenti, più di 2 miliardi di persone non hanno accesso ad acqua potabile gestita in modo sicuro e oltre 700 milioni sono privi di servizi idrici di base; 3,5 miliardi di persone non dispongono di servizi igienico sanitari adeguati e 2 miliardi non hanno le strutture per lavarsi le mani a casa con acqua e sapone.
C’è pozzo e pozzo
Le proposte di progetto in ambito idrico che i Missionari della Consolata hanno elaborato negli ultimi quattro anni, confermano che garantire acqua pulita continua a essere una priorità. Questo sforzo, infatti, ha assorbito in media almeno 100mila euro l’anno. Gli interventi, realizzati soprattutto in Africa, ma anche in America Latina, hanno riguardato perforazioni di pozzi per portare acqua a ospedali e dispensari, scuole e studentati, comunità e villaggi.
Ci sono diversi tipi di pozzi che possono essere realizzati: uno di questi è il pozzo artesiano, la cui caratteristica è quella di attingere da una falda artesiana, cioè da un accumulo di acqua fra le rocce del sottosuolo che nella parte superiore sono impermeabili e tengono l’acqua sotto pressione. A causa di questa pressione, una volta realizzata la perforazione, l’acqua risale in superficie in modo spontaneo e può essere attinta anche senza usare una pompa. I pozzi freatici attingono invece da falde freatiche, che hanno nella parte superiore rocce permeabili: l’acqua non è in pressione e per estrarla serve una pompa.
I pozzi non sono i soli interventi che i missionari si trovano a realizzare per garantire l’accesso all’acqua: a volte la perforazione esiste già, ma la parete di roccia del foro è crollata o danneggiata, oppure l’estrazione dell’acqua dipende da una pompa azionata da un generatore a gasolio, costoso e inquinante. O, ancora, non c’è un adeguato sistema di raccolta e distribuzione dell’acqua, per cui servono cisterne sollevate da terra dove pompare l’acqua, e tubature collegate per distribuirla sfruttando la forza di gravità.
Inoltre, alcuni interventi idrici riguardano il collegamento di una sorgente – cioè il punto da cui l’acqua sotterranea sgorga spontaneamente in superficie – con le strutture e gli edifici dove verrà utilizzata.
Congo, tanta acqua ma non per tutti
La Repubblica democratica del Congo è uno dei paesi con maggiori risorse idriche del pianeta: circa due terzi del bacino del fiume Congo si trova infatti all’interno del suo territorio e la sua foresta pluviale è la seconda al mondo per estensione dopo quella amazzonica. Eppure, si legge@ sul sito dell’agenzia Onu per l’acqua Unwater, solo il 12% della popolazione – poco più di un congolese su dieci – dispone di acqua potabile sicura e solo uno su cinque ha la possibilità di lavarsi le mani con acqua e sapone a casa. L’acqua ha un ruolo fondamentale in servizi come quelli sanitari: per questo, negli anni, una delle priorità dell’ospedale di Neisu, che i Missionari della Consolata gestiscono nel Nordest del Congo, è stata quella di dotare non solo l’ospedale ma anche i 12 centri e posti di salute della sua rete sanitaria di almeno un pozzo. «Qui da noi in genere i pozzi sono profondi 13-15 metri», spiega Ivo Lazzaroni, laico missionario della Consolata responsabile dell’ospedale. «La gente comincia a scavare con zappe e picconi e poi continua con il badile, scendendo fino a che non si trova l’acqua».
Una volta scavato, per rinforzare il muro di terra e roccia del foro – che ha un diametro di un metro o un metro e mezzo – i lavoratori preparano quattro o cinque cilindri di cemento (buse) e li calano uno dopo l’altro nello scavo, aiutandosi con un cerchione della ruota di un’auto e delle corde, in modo che si formi un condotto di cemento appoggiato al fondo. Si costruisce poi un muretto circolare di mattoni in superficie e si deposita sul fondo del pozzo uno strato di ghiaia, accompagnato a volte da un sacco di carbone spezzettato, per filtrare l’acqua.
Questi pozzi (freatici), tuttavia, rimangono asciutti quando la stagione secca è molto intensa e per questo Ivo, grazie al generoso sostegno di un donatore, ha deciso di realizzare un pozzo per l’ospedale a 40 metri di profondità (artesiano): «Per realizzare il pozzo, però, abbiamo chiamato il camion con la perforatrice meccanica: hanno fatto un forage (un buco) di 20 centimetri di diametro e inserito dei tubi di plastica a protezione del foro».
Ora la disponibilità d’acqua dell’ospedale dovrebbe essere garantita anche durante la stagione secca.
Scavare pozzi in Congo, si capisce dai racconti di Ivo, significa spesso anche venire a contatto con credenze e usanze locali: c’è ad esempio la convinzione che, una volta trovata l’acqua, occorra togliere il fango dal fondo del pozzo almeno cinque volte per far sì che questo non si asciughi più. Inoltre, c’è la credenza che la ricerca dell’acqua non può avere successo se i leader tradizionali non svolgono prima determinati riti per placare gli spiriti degli antenati. C’è poi chi fa ricorso alla rabdomanzia, una pratica che non ha però alcun riscontro scientifico: i rabdomanti sostengono di essere in grado di individuare il punto del sottosuolo nel quale si trova l’acqua «interpretando» le vibrazioni di un bastone di legno tenuto nelle loro mani.
Stress idrico in Kenya
Nelle nostre missioni in Kenya, scrive da Nairobi Naomi Nyaki, la responsabile dell’ufficio progetti dei missionari della Consolata, ci sono principalmente tre tipi di pozzi, qui definiti per il modo in cui vengono realizzati: i dug wells, scavati nel terreno con un badile a una profondità fra i 10 e i 30 metri, permettono di prelevare l’acqua con un secchio; i drilled wells, perforati con macchinari appositi, possono raggiungere i 300 metri di profondità e richiedono una pompa per portare l’acqua in superficie; e i driven wells, che sono pozzi in genere poco profondi realizzati inserendo un tubo nel terreno fino alla falda acquifera e collegando poi una pompa per portare l’acqua in superficie.
A volte, continua Naomi, il pozzo è sul terreno della missione o della parrocchia gestita dai missionari della Consolata, ma a beneficiarne sono comunque centinaia di persone: nella parrocchia di San Giovanni XXIII a Rabour, Kenya occidentale, il pozzo è a disposizione dei parrocchiani servendo così i due missionari che lavorano lì e i 1.700 abitanti dell’area.
E ancora: a Makima, città del Kenya centrale a circa 130 chilometri da Nairobi, il pozzo garantisce acqua a 14mila persone: «Profondo 280 metri, questo pozzo fornisce una grande quantità di acqua pulita, sufficiente per essere incanalata e raggiungere la township (insediamento informale) di Kitololoni, due scuole elementari, una scuola secondaria, un dispensario e la fattoria della missione cattolica di St. Paul».
Secondo i dati Unwater, in Kenya@ il 72% della popolazione dispone di una fonte di acqua potabile sicura: più del doppio della media regionale dell’Africa subsahariana, che è al 31%. Ma su altri indicatori il Kenya ha maggiori difficoltà, ad esempio quello dello stress idrico: quando un territorio preleva il 25% o più delle sue risorse rinnovabili di acqua dolce, si dice che è in «stress idrico» e il Kenya ne preleva il 33%.
Tanzania, acqua dalla montagna
La Tanzania ha un prelievo idrico più contenuto del Kenya: estrae infatti solo il 13% delle sue risorse idriche rinnovabili e non è, quindi, in stress idrico. Ma la quota di popolazione che ha accesso all’acqua pulita, pari all’11%, è molto sotto la media regionale. Per garantire l’acqua alle comunità con cui lavorano, scrive da Iringa la responsabile dall’ufficio progetti Imc, Modesta Kagali, i missionari della Consolata hanno costruito diversi tipi di pozzi che vengono scavati a mano o con una perforatrice, a seconda delle situazioni, e hanno profondità comprese fra i 10 e i 150 metri. A volte, però, ricorrono anche alla raccolta di acqua piovana o alla canalizzazione da fiumi o da sorgenti montane.
Nella missione di Ikonda, ad esempio, i missionari hanno realizzato un acquedotto, convogliando l’acqua dalla montagna attraverso un sistema di tubature e canali per raggiungere l’ospedale, le case del personale e il villaggio circostante di Ikonda. L’ospedale può così servire migliaia di pazienti – nel 2023, i ricoveri sono stati quasi 18mila – e anche la popolazione del villaggio. Come in Kenya, anche in Tanzania i missionari usano l’acqua per irrigare i campi delle fattorie che gestiscono, ma anche gli orti di seminari e scuole per abbattere i costi di gestione, coltivando frutta e verdura per le mense scolastiche.
Pozzi artesiani in Amazzonia
L’acqua che proviene dai rilievi circostanti è stata a lungo la principale risorsa idrica anche per molte comunità che vivono nella Terra indigena Raposa Serra do Sol (Tirss), nello stato di Roraima, Amazzonia brasiliana. Negli ultimi anni, però, difficoltà nella manutenzione e stagioni più secche hanno reso meno costante la disponibilità di acqua.
Spiegava nel 2022 padre Jean-Claude Bafutanga, allora in missione nella Tirss a Baixo Cotingo: «Ci sono spesso interruzioni nel sistema idrico che porta l’acqua a valle. In inverno l’acqua c’è, ma se piove troppo i canali si intasano per l’accumularsi di foglie; d’estate, invece, abbiamo avuto siccità così intense che l’acqua non c’era più».
Nella Tirss, completa padre Joseph Mampia, che lavora alla missione di Raposa, non esiste un sistema di raccolta e distribuzione dell’acqua come nelle città. Molti utilizzano l’acqua piovana accumulata negli igarapé, (ruscelli), che però si seccano d’estate e spesso portano acqua non potabile. Il garimpo, cioè l’estrazione mineraria illegale, infatti, ha peggiorato la situazione, inquinando l’acqua@. Per questo, concordano i due missionari, il pozzo artesiano è la soluzione migliore in questa zona: è abbastanza profondo da evitare le contaminazioni causate dal garimpo e l’acqua sgorga in modo spontaneo.
Chiara Giovetti
Giuseppe Allamano è santo
Oggi, 20 ottobre 2024, Giuseppe Allamano è ufficialmente santo. La messa di proclamazione, in piazza San Pietro, è stata intensissima.
Città del Vaticano. Fin dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia, necessari per entrare nella piazza.
Il popolo di Giuseppe Allamano è arrivato dai quattro continenti il giorno prima. Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma anche l’Asia c’è, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.
Su alcune bacchette viene issata l’immagine del futuro santo, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.
Oggi saranno, infatti, «canonizzati», termine tecnico, anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni).
Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con l’effige di Allamano e della Consolata.
L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato ad hoc per questo giorno.
Entriamo tra i primi, dopo il controllo metal detector.
La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.
I pellegrini sono assonnati, ma si vede la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.
Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.
È ancora un momento di attesa, e si approfitta per farsi delle foto, dei video, scambiarsi un contatto o un sorriso.
Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio.
A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte anche alcune migranti subsahariane.
Vediamo anche il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità.
Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.
Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.
Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcune canzoni diffuse con i potenti altoparlanti in tutta la piazza.
L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone da tutto il pianeta, spaccato di umanità.
Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva Papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «Papa Francisco», per culminare con un grande applauso.
Nel frattempo è comparso un tenue sole.
Scorgiamo evidente, in prima fila del gruppo di sedie delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.
La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.
«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno.
«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere».
E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».
Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.
«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.
All’Angelus papa Francesco mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».
Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo Santo.
Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si affollano alle transenne per salutare il Santo Padre.
Una volta passato, inizia il lento deflusso di alcune migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della Basilica di San Pietro sulla quale spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.