CONGO, RD – Con le mani nel fango

Uno è italiano e l’altro congolese.
Entrambi missionari della Consolata,
alle prese con una nuova missione.
In un lembo di terra fuori del mondo.
E in guerra dal 1996.
Dove tutti sono poveri.
E i pigmei anche discriminati.

In mano a Piero e Clément

«Siamo pazzi o stupidi? O entrambe le cose insieme?». Ce lo domandiamo (senza risposta), mentre varchiamo la soglia della casetta di Bayenga, scuotendo l’abbondante fango dai piedi. Il vescovo di Wamba e i nostri superiori ci hanno chiesto di «far ripartire la missione»! Ma come?
Bayenga è un grosso villaggio, a 23 chilometri da Wamba, sulla strada Niania-Kisangani, nell’Alto Uele (repubblica democratica del Congo). La collettività è nata artificialmente nel tempo in cui si estraeva oro nelle miniere dei dintorni. La popolazione appartiene a diverse etnie bantu: wabudu, walika, waberu…
Bayenga, nel passato recente, è stato un centro importante, perché sede amministrativa della Forminière, una compagnia belga che estraeva l’oro nei villaggi di Mambati, Bolebole e Bonzunzu. La società ha chiuso i battenti già prima dell’indipendenza del Congo nel 1960.
Oggi le miniere sono sfruttate in modo artigianale da migliaia di persone, specialmente giovani, che vengono da ogni parte con la speranza di far fortuna. Purtroppo i cercatori d’oro e diamanti, nella maggioranza dei casi, si riducono ad una vita di miseria materiale e morale.
Dato il degrado sofferto dal Congo durante il regime-ladro del dittatore Mobutu, anche a Bayenga il collasso è totale: ad esempio, non esistono più strade. Ci si sposta a piedi, in bicicletta o al massimo in moto.
Finora la «parrocchia» di Bayenga si è potuta occupare solo saltuariamente della realtà umana. Tuttavia, poiché tanta gente frequenta la zona e gran parte della produzione agricola è destinata a chi lavora in miniera, come missionari ci sentiamo coinvolti direttamente.
Il territorio della missione, oltre Bayenga, comprende altre 16 cappelle succursali, già costituite. Altre due dovrebbero sorgere presto… fra i cercatori d’oro. Di regola queste cappelle sono seguite da animatori di comunità e volontari. La popolazione vive in abitazioni di fango e paglia, costruite lungo la strada. Si contano, complessivamente, 25 mila abitanti, di cui 3.500 cattolici.
La fondazione della missione risale al 1962. I missionari belgi del Sacro Cuore e le suore comboniane italiane, che vi lavoravano, nel 1964 dovettero abbandonarla a causa della ribellione dei Simba. Furono assassinati un sacerdote e un medico, che gestiva un piccolo ospedale.
Nel 1968 a Bayenga ritoò un altro missionario del Sacro Cuore, che lavorò fino alla morte (1980). Successivamente la comunità cristiana si è mantenuta viva grazie all’opera di un catechista, assistito di tanto in tanto da un missionario che veniva da Wamba.
Oggi Bayenga è in mano ai missionari della Consolata, cioè noi due: padre Piero, italiano di 65 anni, e padre Clément, congolese di 42.
Cercando casa
La parrocchia di Bayenga non ha strutture proprie. Finora si è servita dei locali che la società mineraria belga aveva, a suo tempo, concesso alla diocesi di Wamba perché li custodisse, permettendo così la continuazione dell’ospedale e delle scuole. Attualmente la Forminière è proprietà di un congolese.
La missione è costretta a cercarsi un’altra sistemazione, pur provvisoria. Però la nostra casa (tre stanzette) è ancora della Forminière. Ma prestissimo sloggeremo.
Dunque bisogna edificare la missione dalle fondamenta. È prevista la costruzione di un complesso con chiesa, scuole elementari e secondarie, ospedale, nonché locali per le attività parrocchiali e sociali. Le prime strutture saranno in fango. Il tutto poco a poco e in un mare di guai.
Tra le difficoltà, quella cruciale è senz’altro costituita dalla guerra in corso e dallo stato di incertezza che regna nella nazione. È difficile trovare il materiale da costruzione, come cemento, ferro, ecc. Dovendolo acquistare a Kampala, in Uganda, e trasportarlo con aerei privati, i prezzi diventano esorbitanti.
A Dio piacendo e, soprattutto, allorché il paese raggiungerà un minimo di stabilità, si potrà realizzare il grande sogno. Un sogno, però, che noi iniziamo già ora partendo… dal fango.
In barba alle ricchezze
La povertà è una realtà generalizzata, a dispetto delle ricchezze ingenti del paese. Da anni non arrivano più camion con mercanzie. Queste vengono trasportate in bicicletta da giovani, che vanno a Bunia, Butembo e Kisangani percorrendo oltre 1.000 chilometri in due o tre settimane. E spesso ci rimettono la salute.
Quanto alla scuola, su 6 mila ragazzi, solo un terzo ha la possibilità di ricevere un po’ d’istruzione. Noi missionari non possiamo sostituirci allo stato, ma non dobbiamo nemmeno rimanere a guardare. Pertanto la maggior parte delle scuole è gestita dalla chiesa.
A Bayenga abbiamo appena iniziato una scuola secondaria con 29 studenti del primo anno, con aule in fango naturalmente. Nel territorio della missione ci sono anche tre scuole primarie, complete, con un curriculum di sei anni; altre scuole succursali, specialmente per i primi due anni, sono disseminate in vari villaggi. Ma è pochissimo.
La poche scuole funzionano avvalendosi del contributo dei genitori degli allievi: circa 2.700 lire l’anno. Da tale entrata si ricava lo stipendio degli insegnanti. Questi a loro volta, per sopravvivere, si arrangiano coltivando i campi e, talora, «si fanno aiutare» dagli alunni.
La cronica penuria di mezzi impedisce alla maggioranza di studiare. Le più penalizzate risultano le bambine: devono anche dare la precedenza ai maschi, mentre loro restano in casa ad aiutare la mamma e accudire i fratellli più piccoli.
La missione gestisce pure un piccolo dispensario medico. Per la popolazione è un punto di riferimento importante, perché l’ospedale di Wamba è lontano e l’unico mezzo per arrivarci (per chi può permetterselo) è la bici. Nel dispensario lavorano due infermieri e tre ostetriche. Funziona con l’apporto economico (del tutto insufficiente) dei malati… C’è bisogno di materiale da laboratorio, medicine, letti e di riparare le strutture cadenti.
L’evangelizzazione, in senso stretto, viene portata avanti con la collaborazione essenziale degli animatori di comunità. Sono un centinaio di buoni cristiani, che lavorano come volontari a tempo parziale. La missione li aiuta per le cure mediche e in caso di estrema necessità. Per loro abbiamo programmato incontri di formazione della durata di quattro giorni, per altrettante sessioni annuali.
Ovviamente la missione si fa carico di vitto, alloggio ed altre necessità. Un sacrificio non indifferente, ma necessario per fare crescere la comunità che il Signore ci ha affidato.
ultimi i pigmei
Un’altra realtà importante, che ci ha spinto ad accettare la missione di Bayenga, è la presenza di alcuni accampamenti di pigmei (bambuti). Si calcola che, nel territorio, la popolazione pigmea sia di circa 2 mila persone. Spesso nomadi, i pigmei vivono di caccia e raccolta, in relativa simbiosi con i bantu. Di regola risiedono nella foresta e, dopo il tempo della caccia, ritornano agli accampamenti per scambiare i propri prodotti (carne affumicata, miele e frutti della foresta) con quelli agricoli dei bantu.
La convivenza con le etnie bantu non è né semplice né pacifica, perché queste ritengono i bambuti degli esseri inferiori e senza diritti: da alcuni sono considerati una specie intermedia tra la scimmia e l’uomo. Con la possibilità di fare confusione!
Anche nei loro accampamenti i pigmei non sono del tutto liberi, ma spesso vengono considerati «proprietà» di un capo o di un membro della famiglia regnante. Ad esempio: quando un’autorità ha bisogno di qualcosa, non ha che da dire al suo luogotenente: «Manda subito i tuoi pigmei a cercare carne e miele per me!».
Il baratto con i bantu si fa anche con alcornol e droga. Così i bambuti si abbrutiscono sempre di più.
I pigmei, rinomati per le danze, in molte occasioni vengono invitati nei villaggi per rallegrare le feste dei bantu. Questo li tiene occupati per mesi. Nel frattempo continuano a cacciare selvaggina nella foresta, pena la sopravvivenza.
C’è il problema dell’alfabetizzazione. Sono stati fatti dei tentativi per convincere i pigmei a mandare i loro figli a scuola; ma i risultati sono deludenti. Oggi si sta prospettando un «insegnamento speciale» con programmi e tempi adatti. Però le difficoltà sono tante (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2000).
Nel nostro lavoro missionario riteniamo prioritario stabilire rapporti di amicizia con i gruppi minoritari e discriminati e riconoscere la loro cultura. Fra i pigmei, oltre ad insistere affinché mandino a scuola i loro bambini, li assistiamo con cure mediche e li incoraggiamo a coltivare campi «propri», per rompere la dipendenza economica dai bantu.
Si sta pure valutando come introdurre i bambuti nel catecumenato cristiano. Forse ci vorrà un lungo periodo di pre-catecumenato per portarli ad accettare e vivere alcune esigenze fondamentali del vangelo.
Nella missione di Bayenga tutti sono poveri, ma i pigmei sono miseri. Veramente gli ultimi.

PIGMEI PROTAGONISTI

La diocesi di Wamba ha, da sempre, desiderato una vera integrazione dei suoi 35.200 pigmei (dei quali 7.500 bambini), che popolano una buona parte delle sue 18 parrocchie.
Popolo nomade che vive di pesca e caccia, i pigmei sono considerati i primi e più antichi abitanti della foresta dell’Uele e dell’Ituri; eppure, a causa del loro modo di vivere, sono sempre stati lasciati al margine e discriminati.
Di fronte a questa ingiustizia, ci sono stati diversi tentativi di avvicinamento e accoglienza. In modo timido, all’inizio, la diocesi di Wamba aveva sognato di integrarli nell’ambito della società modea; per questo era stata decisa la creazione della prima scuola per pigmei già nell’anno 1959, nella parrocchia di Nduye e, nel 1984, di un centro di formazione per pigmei a Imbau, diretto da padre Pedro (missionario spagnolo) e suor Docita (olandese).
Ma si è dovuto aspettare il 1989 perché l’idea si concretizzasse meglio e diventasse realtà. È nato il «Progetto diocesano pigmei», la cui espressione «visibile» sono state le scuole per pigmei nelle parrocchie di Mungbere, Bangane e Maboma.
Il progetto ha come obiettivo l’integrazione e lo sviluppo totale dei pigmei, rispettando le loro esigenze e abitudini. Per esempio, la scolarizzazione dei ragazzi (e, quindi, il… calendario) deve tener conto della realtà «della foresta»; le lezioni vengono interrotte durante la stagione secca (gennaio-marzo), essendo il periodo favorevole alla ricerca e raccolta di miele selvatico.
La scuola segue una metodologia speciale, rispettosa della cultura pigmea. Le lingue da insegnare, come swahili, lingala e francese, non devono annientare la lingua matea. Il metodo ORA (osservare-riflettere-agire), concepito e strutturato da fratel Antonio Huysman del Camerun, sembra essere il migliore finora adottato.

La scuola non è l’unica preoccupazione del progetto.
C’è anche la pastorale, che ha di mira una vera promozione dei pigmei, considerati alla stessa stregua degli altri gruppi etnici: è chiamata a collaborare in diversi ambiti, come l’agricoltura, il commercio, la salute, ecc. Nessuno ignora quanto i pigmei restino insuperabili in materia di caccia, pesca e uso di alcune medicine naturali. Forte di questi elementi, i pigmei si impongono come partners con cui si deve lavorare in uguaglianza, invece di considerarli esseri inferiori.
Secondo Laurent Badukanayaa, cornordinatore aggiunto del progetto diocesano, il vescovo Janvier Kataka ha rafforzato l’impegno verso i pigmei, inserendolo però nel piano più vasto di un cammino d’insieme, per assicurae la continuità. La pastorale mira all’integrazione dei pigmei e di altre etnie nell’unica chiesa, famiglia di Dio, e nell’unica società congolese di oggi.
L’iniziativa della diocesi di Wamba è lodevole per il fatto che questi nostri fratelli, «primi abitanti del paese», sono sempre rimasti ai margini della società modea, nonostante i mille tentativi fatti per la loro integrazione.
Ora è il loro momento di… entrare in scena e diventare protagonisti!

Piero Manca e Balu Futi




CONGO – Dopo cena, sotto la “pailotte” e altrove

Il fiore all’occhiello della diocesi di Wamba?
Senz’altro il Centro di pastorale:
perché radica la fede cristiana nel contesto africano,
sprona la persona allo sviluppo integrale,
educa alla pace in un paese in guerra…
Il Centro si avvale del contributo della tedesca «Missio»,
ma anche della solidarietà di amici italiani e colombiani.
Fra i colombiani, tanto di cappello ad Alonso, missionario della Consolata.
Il quale ha lanciato pure «Radio Nepoko».

A Wamba, nel nord del Congo, mi sono sistemato in una cameretta infestata da mosconi. Ho subito scambiato due battute con i missionari: l’infaticabile Enrico Casali (a dispetto dei by pass al cuore e della rimozione di un rene) e il vulcanico Angelo Baruffi. «Alonso dov’è?» domando, mentre i padri mi intrattengono con una tazza di tè. «Lo vedrai a pranzo».
L’orologio segna le 11. In attesa della chakula (cibo) di mezzogiorno, mi aggiro nei dintorni della missione… quand’ecco apparire, su un viale in terra rossa, una moto. Mi fermo e, quasi subito, dico: «Tu sei Alonso, suppongo». «In persona». Ci abbracciamo come vecchi amici, anche se è la prima volta che ci incontriamo.
Alonso Jesús Alvarez, 38 anni, in t-shirt verde e jeans marrone, è un missionario della Consolata colombiano. È in Congo da sette anni e prete da otto. A Roma si è specializzato in tecniche della comunicazione e giornalismo.
«Quella è senz’altro l’antenna di Radio Nepoko – affermo puntando il dito, mentre camminiamo verso casa -. Come va?». «Caro collega, non sarà meglio parlarne, seduti, dopo pranzo?».
Non solo catechismo
Causa imprevisti, non ci incontriamo dopo pranzo, bensì dopo cena, all’aperto, sotto la paillote (tettornia di paglia), fra il ronzio di non pochi insetti, attratti dalla luce di una lampadina. «Temi le zanzare?» mi provoca Alonso. «E tu no?» replico prontamente. Ne scaturisce una risata cordiale e fragorosa, specie nel colombiano.
Prima dell’incontro, ho raccolto alcune informazioni su Wamba, sede dell’omonima diocesi (con la presenza del vescovo Janvier Kataka) e l’annesso Centro di pastorale, di cui Radio Nepoko è parte integrante.
«Al mio arrivo in Congo – spiega padre Alonso – il Centro era solo una scuola per catechisti. Ogni parrocchia inviava qualche candidato; questi risiedeva al Centro, con moglie e figli, e apprendeva il “mestiere”; terminato il curriculum, ritornava alla propria comunità».
Ma in Africa i catechisti non si limitano solo all’insegnamento della dottrina cristiana. Essi sono i factotum nel villaggio: organizzano e presiedono la liturgia domenicale senza il sacerdote, seguono i catecumeni, controllano i ragazzi della scuola, visitano i malati, dirimono le contese. Di fronte a tante mansioni ed esigenze, il «Centro di catechesi» ha mutato identità, per divenire «Centro di pastorale». Una struttura più articolata e complessa.
La svolta risale al 1995, quando la diocesi ha effettuato un’analisi accurata della realtà, in preparazione anche al suo centenario del 2004… Al presente il Centro di pastorale, mentre continua a formare catechisti, attende pure alle comunità di base, ai movimenti laicali, allo sport, nonché ai ritiri ed esercizi spirituali dei sacerdoti congolesi, dei missionari, delle suore. Il Centro è un laboratorio di idee: organizza e stimola le attività delle commissioni diocesane per «l’inculturazione del vangelo», «la giustizia e pace», «l’impegno dei giovani».
Il Centro spalanca le porte a tutti, offrendo le sue strutture: un salone per le assemblee generali e diverse aule per i lavori di gruppo; in alcune casette, indipendenti, possono peottare fino a 50 persone.
La struttura si avvale del finanziamento dell’organizzazione cattolica tedesca Missio e di alcuni gruppi di solidarietà italiani e colombiani. Ma i congolesi che se ne servono non si presentano a mani vuote: foiscono il fabbisogno di riso e olio.
Direttore del Centro di pastorale di Wamba è padre Alonso Jesús Alvarez.
voglia di formazione
Gli zairesi-congolesi hanno stornicamente sopportato la trentennale e barbara dittatura di Mobutu. Inoltre hanno patito due guerre; la seconda (che dall’agosto 1998 ha mietuto circa 2 milioni di vittime) è in corso. «Nonostante le difficoltà – afferma padre Alonso -, la gente ha capito che una risposta ai suoi mali è la formazione. In tale senso il Centro di pastorale è prezioso».
«Qual è la frequenza ai corsi di formazione proposti dal Centro?».
«Se inviti, per esempio, gli infermieri ad un recyclage – risponde il colombiano -, li hai tutti: camminano magari per 50-100 chilometri… anche per fermarsi solo pochi giorni».
È così grande la voglia di formazione che si supera ogni ostacolo. Neppure la guerra ferma i corsisti del Centro. Un catechista (con moglie e tre figli) ha percorso a piedi 280 chilometri, pur di attendere ad alcune settimane di studio.
D’altro canto, anche il personale del Centro raggiunge i villaggi. Vi sono maestri, colpiti da malaria o reumatismi, che si sobbarcano 40 chilometri: pedibus calcantibus naturalmente, perché le auto sono come… l’iperuranio di Platone. Si è fortunati, c’è il vélo, la bici, che è sempre più veloce dell’«asino di san Francesco».
«Padre Alonso, circa l’evangelizzazione, ci sono iniziative particolari?».
«Tutto il Centro è evangelizzatore. Tuttavia in diocesi, per parecchio tempo, è mancato un vero progetto di evangelizzazione. Oggi qualcosa sta muovendosi, grazie alla presenza di persone più qualificate: alcuni preti congolesi hanno studiato in Europa; gli ultimi missionari recano nuove idee. Si sta passando da una pastorale formalista ad una più contestualizzata: ecco l’importanza dell’analisi della realtà socioculturale, della promozione integrale dell’uomo».
A Wamba la chiesa sta diventando «famiglia di Dio», come ha raccomandato il Sinodo per l’Africa. E i risultati si vedono: i giovani, ad esempio, parlano maggiormente di Gesù quale loro compagno di viaggio e maestro di vita… La diocesi ha anche una commissione per lo sviluppo. Ieri il catechista era l’«esperto» su Dio; oggi conosce pure i problemi dell’uomo.
L’impotenza della gente
In un villaggio ho visto un ragazzo attaccato ad una scassata e gracchiante transistor; e ripeteva a voce alta ad alcuni anziani le notizie sull’andamento della guerra.
«La popolazione segue le vicende del conflitto con angoscia e fatalismo – commenta padre Alonso -. I mezzi di informazione sono scarsissimi. Ciò nonostante, la politica del governo di Kinshasa, l’azione dei ribelli, la presenza delle truppe straniere… sono temi su cui tutti discutono. Se chiedi alla gente che cosa è capitato durante la settimana, ottieni risposte precise: mi riferisco in particolare agli insegnanti. Spesso (è vero) si tace: come il malato che non ama parlare del suo male, pur avvertendone il dolore. Il popolo è stanco della violenza. C’è una grande sfiducia, ma anche un’enorme attesa. La gente aspetta, aspetta…».
«Aspetta che cosa?».
«Ovviamente la fine delle ostilità, la pace. Alcuni dicono: siamo poveri e impotenti, non abbiamo fucili, non sappiamo fare la guerra, stiamo a vedere…».
Non scorgo più il viso intenso dell’interlocutore, né il corrugarsi della sua fronte preoccupata. La foltissima capigliatura nera di Alonso si confonde con la notte. La lampadina della paillote è stata spenta, perché bisogna risparmiare il diesel che alimenta il generatore elettrico.
Con l’oscurità, gli insetti si sono allontanati, ma sono aumentate le malariche zanzare. Alonso si schiaffeggia le braccia nude per acchiappae qualcuna, ebbra del suo sangue. Dopo un istante di silenzio, il missionario quasi intima: «Entriamo in casa».
«Buona notte».
«Di già? Sono appena le 21!» risponde Alonso illuminando l’orologio con una torcia a pile.
la nuova avventura
Il colombiano sorseggia una spremuta di arancio nel suo ufficio, alla luce di una lampadina di pochi volt, alimentata da batteria. E prosegue: «Non volevi sapere qualcosa anche su Radio Nepoko?».
Nella regione funzionava una radio importante, gestita dalla chiesa cattolica. Ma il regime dispotico di Mobutu ne fece un boccone… Oggi che Wamba abbia una «sua» emittente è un avvenimento straordinario. L’avventura è iniziata con un apparecchio di 250 volt, che copriva solo un quarto della diocesi.
«Io sono giunto a Wamba subito dopo l’inizio della radio – racconta padre Alonso – con l’incarico di allargae il raggio di ricezione. Mi sono messo al lavoro con 8 persone, che non sapevano neppure che cosa fosse un microfono. Ancora una volta si imponeva il problema della formazione. Lentamente abbiamo creato una rete di 70-80 volontari, divenuti presto allievi di radiofonia e comunicazione. Dopo tre mesi di studio faticoso, abbiamo elaborato il progetto organico di Radio Nepoko».
Il progetto si articola in quattro sezioni: evangelizzazione, sviluppo, cultura e spettacolo. Ogni sezione si prefigge obiettivi precisi da raggiungere con programmi adeguati.
«Con quali risultati?».
«Buoni, sia a livello tecnico che di contenuto. Abbiamo fatto miracoli. Senza elettricità, si lavora con un gruppo elettrogeno. Ma i costi sono elevatissimi, perché dobbiamo importare il carburante personalmente par avion».
L’emittente Nepoko è soprattutto la radio della comunità.Tutti vi possono accedere, per discutere di tutto. I giornalisti (si fa per dire) partono con i poveri mezzi a disposizione e raggiungono i villaggi: intervistano donne e uomini, vecchi e bambini; colgono i rumori della foresta, il canto degli uccelli, le danze dei giovani, le preghiere di tutti.
«Così siamo giunti a cinque ore di trasmissione al giorno: due al mattino e tre nel pomeriggio. Abbiamo documentato e commentato tre anni di vita zairese-congolese, durante i quali abbiamo vissuto due guerre».
«Alonso, soffermati sul tuo ruolo a “Radio Nepoko”…».
«Mah! Io sono come lo Spirito Santo, che soffia ovunque… senza farsi vedere. All’inizio ero il direttore. Ora non più: ho passato la mano ad un congolese. Oggi, se andassi via, Radio Nepoko sarebbe in grado di continuare con una buona resa. I “miei” ragazzi sanno montare trasmissioni a sette voci su altrettante piste. Hanno sputato sangue, all’inizio, perché il lavoro non era facile ed io molto esigente. Però oggi sorridiamo tutti».
La politica no
«Qual è il rapporto della radio con l’autorità politica?».
«Noi siamo stati sempre critici sia verso Mobutu sia verso Kabila. Con lo scomparso dittatore abbiamo avuto problemi seri, ma abbiamo resistito alle sue pressioni… Allo stato concediamo 20 minuti per parlare di amministrazione, non di politica. Pertanto abbiamo dato la parola al sindaco, il quale però sapeva che altre persone gli avrebbero replicato… Devo dire che, dopo la prima guerra (sotto il governo di Kabila), non abbiamo avuto grossi problemi con lo stato».
«Tuttavia 200 soldati di Kabila hanno disturbato l’emittente!».
«E noi abbiamo denunciato il fatto, rischiando la galera e la chiusura della radio. Dicevamo a tutti: “Se ci succede qualcosa, tutte le radio del mondo lo sapranno. State attenti!”. Ci è andata bene».
Radio Nepoko è ascoltata anche da militari. Chi vi si sintonizza coglie trasmissioni ad hoc sui diritti umani, sulle torture, oltre che sull’evangelizzazione, attraverso piccole drammatizzazioni con musiche congolesi. «Per fare questo, abbiamo dovuto conoscere la vita militare: siamo andati in caserma a parlare con il comandante. E, siccome costui era orgoglioso e gli piaceva sentirsi alla radio, ha accettato di rispondere alle nostre domande. C’è stato una conseguenza interessante: la rimozione di un graduato, che censurava quanto i soldati dicevano alla radio».
Ebbene: i militari congolesi parlano alla radio, il sabato pomeriggio, con messaggi e petizioni. Forse se ne sono persino un po’ innamorati, se è vero che l’hanno difesa dal saccheggio dei soldati rwandesi all’inizio della seconda guerra.

N el corso del 1998 un fulmine si è schiantato sull’antenna di Radio Nepoko e l’ha zittita… proprio quando stava per potenziarsi ulteriormente. La nuova strumentazione era già arrivata dall’Italia nella capitale Kinshasa. E là è rimasta, perché imperversava la seconda guerra e i soldati del Rwanda avevano occupato Wamba.
Chissà! Forse (una volta tanto!) non tutto il male è venuto per nuocere, almeno per quanto riguarda la radio. Sì, perché i soldati rwandesi se la sono subito presa… mollando poi la «preda malata». Se la radio fosse «sana», in mano a militari stranieri oggi non sarebbe più libera!
Quando i congolesi riascolteranno il familiare e libero «buon giorno» di Radio Nepoko?

L’articolista ha incontrato padre Alonso J. Alvarez e il signor Joseph Mandi prima dell’uccisione di Laurent D. Kabila, avvenuta il 16 gennaio scorso.

Francesco Beardi




CONGO – L’amore grande di Anghele

Entusiasta e irruente come sempre,
padre Antonello è ritornato a Neisu,
la missione dove aveva lavorato 15 anni fa,
per rimettersi al servizio di un paese
spaccato in due e sommerso da problemi infiniti.
Annunciando l’amore di un Dio («Anghele»)
che ci salva con la croce
e vuole una vita migliore per tutti.

Dopo 15 anni, sono tornato in Congo con un sentimento di grande gioia, anche se offuscata dal fatto che non avrei più incontrato padre Oscar (vedi inserto), con il quale avevamo iniziato la missione di Neisu in piena foresta…
Ricominciare non è stato facile.

UNA povertà…
troppo visibile

Avevo lasciato lo Zaire. Mi ritrovo nel Congo (repubblica democratica), in una zona staccata dal resto del paese e occupata dai soldati dell’Uganda. Vigono ancora le vecchie cariche politiche, ma mancano i fondi. L’Uganda, occupando queste terre, porta via diamanti, oro, legname, senza investire. Ne consegue che l’intera classe politica (dai governatori ai commissari zonali), polizia, insegnanti, infermieri… non sono pagati. Gli unici che hanno qualcosa sono i missionari e pochi commercianti.
Chi ne patisce le conseguenze è, naturalmente, il popolo, oppresso da multe fantomatiche, requisizioni arbitrarie, imprigionamenti senza processo. Per esempio: un lavoratore della missione di Neisu è stato imprigionato per un litigio in famiglia; oltre un mese di assenza, senza processo, perché nel frattempo doveva lavorare… per il capo!
Avevo lasciato uno Zaire che, comunque, tirava avanti, e ho ritrovato una repubblica solo di nome e allo sfascio.
Nella nostra brousse (60 mila abitanti), 15 anni fa, esistevano una ventina di piantagioni di caffè, due fabbriche per l’olio e una per il cotone. Chi gestiva le piantagioni si preoccupava poco della gente, però assicurava l’assistenza medica agli operai e un salario: non molto alto, ma garantiva un minimo di liquidità per acquistare un vestito, pagare le tasse scolastiche ai figli, curarsi in caso di malattia, ecc.
Dopo la stagione del caffè, venivano le arachidi e, in dicembre, il riso. L’economia funzionava, perché si commercializzavano i prodotti. Alludo, per esempio, alla produzione di riso, a Isiro: i contadini non solo ne avevano per il loro fabbisogno, ma potevano venderlo alla brasserie (fabbrica di birra). E la gente aveva qualche soldo.
Ora, di quelle 20 piantagioni non ne esiste più una. Abbiamo una cappella, che si chiama Noula Huilerie; ma bisognerà cambiarle il nome, perché dell’oleificio esistono solo i muri, giacché hanno rubato anche le lastre zincate.
Funzionava pure la ferrovia: molti sacchi di cemento, per la costruzione del nostro ospedale, sono arrivati in treno. Oggi è solo un triste ricordo.
Ho trovato una povertà estrema, e stento a capirla.
Un giorno scaricavamo la macchina con delle mercanzie. C’era un ragazzo a torso nudo (è raro qui vedere, pur nella povertà, gente che viaggia senza camicia, a meno che siano bambini). L’ho rimproverato. Lui mi ha detto: «Padre, io ho una sola camicia e la uso per la scuola; l’ho lavata e sta asciugando al sole!».
Alla missione non mancano i bambini. Ciò che più mi impressiona è che non cercano più soldi, ma lavoro: tutti ragazzini delle elementari alla ricerca di un po’ di denaro per pagare la scuola. Uno mi ha detto: «Sono stato cacciato, perché non ho pagato la tassa scolastica».
– Chiama papà o mamma e digli che il padre vuole conoscerli per sapere come stanno le cose!
– Papà e mamma sono morti di aids…
Il catechista di un villaggio ha nove figli, quattro suoi e cinque del fratello morto, e li mantiene tutti. Nonostante la pena, i bambini sono accolti da altre famiglie… solo che la situazione diventa sempre più drammatica. Allora i bambini disertano la scuola. Non è colpa loro, come non lo è dei genitori, che stentano a sopravvivere. Le mamme non ce la fanno più. Mancando in casa di un salario, devono arrangiarsi, magari inseguendo i mercatini per racimolare due soldi.
Eppoi basta che ci sia un lutto in casa e tutti i risparmi se ne vanno: perché si deve ospitare le famiglie che arrivano, comprare un lenzuolo per avvolgere il cadavere, costruire la bara per non far torto al morto… Ho ricevuto, da una signora non vedente della Brianza, un pacco di lenzuola, ma stanno andando tutte per i morti, perché bisogna rispettare le tradizioni.
Quando sono arrivato nel dicembre 1999, un dollaro veniva cambiato a 900 mila nouveaux zaires. Oggi ne occorrono 7 milioni! Invitare al risparmio è assurdo, perché non esistono banche.
Facciamo un’opera educativa, per coinvolgere la gente nella gestione delle scuole e dell’ospedale. Infatti la scuola funziona, perché i genitori degli allievi pagano gli insegnanti; pagano pure l’ospedale. Interviene anche la missione per i casi pietosi.
Però mi chiedo di che cosa la gente deve ancora farsi carico, quando è abbandonata dallo stato e abita in un paese ricchissimo senza godee assolutamente nulla.

L’ultimo stregone

Sotto l’aspetto religioso, mi ha favorevolmente impressionato la crescita del clero locale. Anche noi, a Neisu, lavoriamo con un missionario della Consolata congolese: un segno che i tempi stanno cambiando.
Un’altra novità: un tempo si battezzavano quasi tutti adulti; ora il catecumenato è seguito in maggioranza da bambini. L’evangelizzazione di massa è stata fatta; oggi si tratta di approfondire la fede, che in molti è abbastanza marcata.
Un grosso aiuto ci viene dal movimento carismatico, soprattutto a livello familiare: fare ordine nelle famiglie dei poligami e in quelle che hanno difficoltà per la dote matrimoniale. Ci è venuta un’idea: scrivere una lettera (con i protestanti) e proporre ai parenti di chi è sposato già da sette anni di «condonare» la dote, anche se non è stata pagata tutta, e permettere ai figli-nipoti di celebrare il matrimonio religioso.
L’anno santo è stato un forte momento di evangelizzazione. Convinti che il cuore del vangelo è la croce di Gesù Cristo, abbiamo visitato tutte le cappelle, portando il grande crocifisso della chiesa parrocchiale. Abbiamo annunciato in kimgbetu che il compendio della bibbia è la morte di Cristo e che Anghele (Dio) ci ha amati fino alla fine.
L’amore di Dio sono in tanti a conoscerlo, ma un Dio che ci ami fino a morire… Non è buono solo perché ci dà i frutti della foresta o i figli, o perché ci fa felici qualche giorno e poi ci castiga quando le cose vanno male. No, Dio è sempre buono perché è morto per noi!
E non mancano «le conversioni». Un giorno padre Richard è tornato dalla brousse con lo strumento di divinazione di uno stregone. Ha voluto convertirsi al vangelo e, per questo, ha rinunciato ai suoi «strumenti di lavoro», causando dei problemi al capovillaggio, che diceva: «Se costui si fa cristiano, non so più dove mandare la gente a risolvere i problemi, perché è l’ultimo stregone».
Era… potente, perché con la sua soroka (pietra magica) riusciva perfino a mandare i fulmini su chi voleva! Un vecchietto furbo. Eppure si è convertito, non perché vicino alla morte, ma perché davanti alla croce di Gesù ha intuito quanto grande è l’amore del Padre per gli uomini, per lui. È stato un grande segno per tutta la popolazione.
Però la nostra gente non ha il senso dell’eucaristia. Questo ci richiede un grande impegno: la missione non arriva al suo fine se non giunge all’eucaristia. L’eucaristia è il crinale, è l’amore di un Dio che vuole vivere con noi nella storia. Oltre a dispensari e scuole, vorremmo allora costruire chiese in muratura, nei grossi centri, per celebrare e distribuire l’eucaristia la domenica: è attorno ad essa che si consolideranno le comunità cristiane, legate dalla stessa fede e impegnate a cambiare in meglio la realtà.
Puntiamo anche sulle comunità di base, come mezzo di inculturazione del vangelo: pensare ai problemi locali, ma dal punto di vista cristiano. Ad esempio, la morte.
Quando un mangbetu muore, arrivano parenti e amici. Allora sorgono i problemi, perché – dicono – la morte è stata causata da uno della famiglia (anche se il decesso è avvenuto all’ospedale). Con padre Oscar, avevo scritto un libretto, Nella sofferenza ti ho cercato, per evangelizzare il dolore e la morte: un piccolo tentativo per condurre la cultura locale (che di fronte alla sofferenza si ribella in modo violento) alla fede in Gesù salvatore e alla speranza cristiana.
Un messaggio che, se compreso, può allargare il cuore alla speranza e spingere a lottare, senza stancarsi, per costruire un paese e una comunità dove trionfi finalmente la vita.

Il «cuore» Nella missione del «cuore»
padre Oscar Goapper, missionario e medico

Missione di Neisu. Vi si arriva attraverso una via sterrata di 30 chilometri, tra le palme e i bambù della fitta foresta. Tempo, un’ora e mezza di Land Rover, se non piove.
Neisu, in lingua mangbetu, significa «cuore». Un cuore che oggi batte soprattutto nell’ospedale. È sorto in una notte di natale senza stelle, allorché i padri Antonello Rossi e Oscar Goapper si sono visti morire fra le braccia una bambina. «Che evangelizzatori siamo – si sono chiesti i due missionari – se non compiamo le opere del vangelo? Gesù curava gli ammalati. E noi? Quanti bambini moriranno stanotte di malaria! E domani, dopodomani?».
L’ospedale è stato, soprattutto, il capolavoro del genio di padre Oscar in un crescendo irresistibile: pediatria, chirurgia, medicina generale; sala operatoria, farmacia, gabinetto dentistico, laboratorio di analisi, raggi X, orto con piante medicinali locali per produrre, ad esempio, l’artimisia contro la malaria. A Neisu il dottor Oscar ha effettuato la prima ecografia di tutto l’Alto Zaire. Oggi vi si compie anche l’osmosi inversa, ossia la distillazione dell’acqua per ottenere un liquido epirogeno per le flebo.

I mprovvisamente, il 18 maggio 1999, il cuore-tornado di padre Oscar si è schiantato. Troppo lavoro, troppa fatica, troppa tensione in un paese maledetto dalle guerre. Al funerale, i suoi pazienti sono corsi a migliaia: vecchi, donne e bambini sbucavano da ogni spiraglio della foresta, dopo aver inseguito sentirneri anche di 50 chilometri. La scena si è ripetuta, 40 giorni dopo, per la tradizionale matanga (fine del lutto).
Secondo il costume dei mangbetu, padre Oscar è stato sepolto in casa, cioè nel cortile dell’ospedale. Così, di fronte a quella tomba, i nonni racconteranno ai nipoti la storia di mupe Oscari: (padre Oscar): un missionario della Consolata argentino che nel 1994, a 43 anni, si è pure laureato a pieni voti in chirurgia e medicina a Milano, dopo aver fatto la spola tra Africa ed Europa.

G iungiamo a Neisu una domenica, all’alba. E ci imbattiamo subito in… Oscar, «nel cuore della missione del cuore». Il cortile dell’ospedale è deserto. Sulla tomba del missionario si staglia una croce in ferro. Dopo alcuni istanti di preghiera, scorgiamo una decina di persone a pochi metri di distanza, in silenzio.
Un anziano ci invita a seguirlo, per introdurci in tutte le stanze dell’ospedale, zeppe di ammalati: ovunque campeggia il ritratto del grand docteur. Da ultimo, apre la porta di uno studio. «Padre Oscar è ancora qui – afferma -. Questo è il suo microscopio, come lui l’ha lasciato. Ecco perché l’attuale dottor Norbert, congolese, non ha voluto prendere posto in questo ufficio. Però, per fronteggiare le esigenze, sarebbe necessario almeno un altro medico. Le docteur Oscar lavorava per quattro».
Su una parete l’ennesima foto di padre Oscar Goapper, sorridente, che abbraccia un bambino.
Francesco Beardi

Antonello Rossi




CONGO – A scuola con una bottiglia d’olio

Non è più giovanissimo quando raggiunge
il malconcio Zaire di Mobutu.
Parla il francese così così, mentre ignora del tutto lo swahili. Ma il missionario
della Consolata è un marchigiano tenace.
Sul campo viene addirittura promosso vicevescovo,nonché cornordinatore di tutte le scuole
della diocesi di Wamba. E incomincia il «bello»
in un «bruttissimo» paese, che si dibatte fra due guerre: quella di Kabila nel 1996e quella contro il nuovo presidente subito dopo. Tuttora in corso,
dopo 2 milioni di morti.

passando davanti
all’ex carcere

– Padre Angelo, quando ci possiamo incontrare?
– Domani mattina in ufficio, alle otto.
È l’alba, mentre raggiungiamo a piedi l’episcopio di Wamba (nella repubblica democratica del Congo), dove padre Angelo Baruffi è vicario generale della diocesi. Passiamo di fronte alle ex prigioni in mattoni rossicci. Il primo sole investe i muri rendendoli quasi sanguigni.
All’ingresso di quel carcere, il 26 novembre 1964, fu massacrato dai simba di Mulele il vescovo belga Joseph Wittebols: il corpo, buttato in un torrente, non fu più ritrovato. Il giorno dopo furono trucidati altri sette missionari, anch’essi «perduti» per sempre. I simba non risparmiarono neppure i cattolici locali, fra cui suor Anwarite. Beatificata nel 1985, è patrona delle diocesi di Wamba e Isiro.
Nel 1964 il Congo era indipendente da soli quattro anni, però già si tingeva di sangue. Nel luglio del 1960, sotto il presidente Kasavubu e il capo di stato maggiore Mobutu, la nazione conobbe la secessione del Katanga, guidata da Ciombé, e il 18 gennaio 1961 l’assassinio del premier Lumumba. Poi sia la secessione del Katanga sia la ribellione dei simba (fra i quali militava Kabila, attuale presidente) fallirono.
Nel trentennio 1966-96 il paese fu ostaggio di Mobutu, che nel 1971 gli cambiò anche il nome: da Congo a Zaire. Ritoò ad essere Congo nel 1997, allorché le truppe di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi e Uganda, cacciarono il dittatore.
I guai però non erano finiti, perché nell’agosto del 1998 il Congo si rituffò nel sangue: l’esercito di Kabila, con Zimbabwe, Angola e Namibia a fianco, contro gli alleati di ieri: Uganda, Rwanda, Burundi e gruppi di ribelli congolesi. Poi gli ugandesi e i rwandesi hanno incominciato persino a prendersi a cannonate fra loro: a Kisangani, per esempio, al fine di depredare il ricco paese senza spartire il bottino con nessuno. È quanto fanno anche gli alleati di Kabila.
È sempre stato così in Congo, fin dal 1885, quando il paese divenne proprietà personale di re Leopoldo del Belgio.
un funzionario in uno stato colabrodo
«Non ti spaventare del disordine!» esclama padre Angelo allorché, un po’ guardinghi, varchiamo la porta del suo ufficio.
Sul pavimento in cemento giacciono zappe, scope, barattoli di colore, scatoloni di medicine, un set di strumenti meccanici, una motosega a diesel, un trapano elettrico. Un ufficio anomalo per un vicevescovo.
Ma Angelo Baruffi è un missionario che non rifiuta di rimboccarsi le maniche. Tuttavia, in ufficio, indossa la camicia di prete… e un berretto quadrangolare, intessuto di fibre multicolori e infiocchettato di piume. È il tradizionale copricapo dei wabudu, l’etnia della zona, dove ufficialmente si parla swahili e francese.
La nostra attenzione cade su un mucchio di cartelle. Ne prendiamo in mano una. «Quella cartella – afferma il missionario – contiene l’ultimo programma scolastico governativo. Che fatica ad averlo!».
– E che te ne fai?
– Beh… io sono un funzionario dello stato in tema di istruzione.
– Ma se lo stato è un colabrodo!
– Però non mancano i bambini che vogliono andare a scuola…
In Congo esistono «tre scuole», ma con gli stessi programmi, riconosciute dallo stato e da esso sovvenzionate (oggi solo sulla carta!):
– «scuole ufficiali», gestite direttamente dal governo;
– «scuole private», in mano a singoli individui;
– «scuole convenzionate», affidate ad enti religiosi.
«Io sono cornordinatore delle scuole cattoliche primarie e secondarie della diocesi di Wamba – dichiara padre Baruffi -. Questo servizio mi è stato sollecitato dal vescovo nel 1991: un servizio che non ho certamente chiesto io, straniero, giunto in Congo a 43 anni suonati con una modesta conoscenza del francese, mentre dello swahili ero completamente digiuno. Ma, quale missionario della Consolata che deve avere a cuore i problemi del popolo, potevo forse rifiutare l’invito del vescovo?».
– Qual è stato il tuo primo impatto con il problema-scuola?
– Preoccupante, come minimo. Nel 1991, su 138 mila possibili allievi, quelli che frequentavano la scuola erano 22 mila, di cui solo 9 mila ragazze.
DI FRONTE ALLO SCIOPERO
Se nel 1991 la situazione scolastica era preoccupante, il peggio però doveva ancora venire. Fu nel 1992-93 che si toccò quasi il fondo, allorché lo stato non pagava più gli insegnanti. I genitori, pur di mandare i figli a scuola, si tassarono per rimunerare i maestri con 19 mila lire al mese. Una miseria. Ma per i wabudu era un salasso, mentre il corrotto Mobutu spendeva e spandeva.
Nel giugno del 1993, dopo aver terminato l’anno scolastico con difficoltà, gli insegnanti dichiararono sciopero contro il governo che non pagava i salari. Vescovo, sacerdoti e capifamiglia erano solidali.
Passarono luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre… E lo stato era sempre assente.
«Io – commenta padre Angelo – non visitavo più le scuole in qualità di cornordinatore, perché non c’era alcunché da cornordinare. Un giorno, per strada, alcuni ragazzini mi hanno chiesto: “Padre, quando ci riporti a scuola?”. La stessa domanda mi è stata posta da altri bambini. Sono entrato in crisi. Ma che fare?».
Già, che cosa poteva fare un missionario… straniero?
«Ho chiesto al vescovo – riprende padre Angelo – di scrivere una lettera per natale da leggersi in tutte le comunità. Così è stato. Nella lettera raccontavo una storia, parafrasando il profeta Ezechiele (16, 6-14): è nato un bambino, ma viene gettato in strada, perché rifiutato; però qualcuno lo raccoglie, lo nutre e diventa bello… “Allora, fratelli, che facciamo dei nostri figli? Li lasciamo marcire sulla strada? Essi sono l’unica ricchezza rimastaci in questo stato ladro. Aiutarli significa salvare la speranza. Se volete, io riapro le scuole, ma con voi”».
Da gennaio 1994 i ragazzi sono ritornati in classe.
In loco si produce olio di palma: viene anche commercializzato. Serve pure a pagare gli insegnanti: circa mezzo litro al mese per allievo.
ANCHE I PIGMEI A SCUOLA
Nella diocesi di Wamba prevalgono i wabudu, ma si contano pure circa 30 mila bambuti (pigmei). Si tratta di popoli molto diversi, a prescindere dall’altezza (i pigmei sono più bassi: gli uomini raggiungono mediamente 145 centimetri e le donne 132). Ma la vera diversità è culturale: i wabudu sono bantu, a differenza dei pigmei che non sono classificabili. I bambuti sono molto più antichi delle etnie bantu. Ne parla il greco Omero nell’Iliade e, soprattutto, il faraone d’Egitto Neferkara (nel 2500 a. C. circa).
Le differenze sono vistose anche nella vita socioeconomica. I wabudu, agricoltori, lavorano specialmente nella stagione delle piogge; i pigmei, cacciatori e raccoglitori nella foresta, operano in quella asciutta.
L’insegnamento scolastico, per i pigmei, deve tenere conto della loro diversità. È assurdo programmare la scuola durante il tempo della caccia, cioè del lavoro.
Nel 1994 padre Angelo Baruffi ottenne dal governo centrale un trattamento scolastico speciale per i pigmei: speciale per programma e calendario delle lezioni. Fu un’impresa ardua, come racconta il missionario: «Quando ho accennato ai pigmei, i responsabili dell’istruzione pubblica mi hanno riso in faccia, segno di non curanza e razzismo».
Oggi a Wamba, su un totale di 7.500 ragazzi pigmei da alfabetizzare, 3.000 frequentano la scuola, di cui 1.300 ragazze. Sono distribuiti in 114 classi con 122 insegnanti.
Vi sono scuole con soli pigmei e altre miste. Ma i wabudu devono essere in minoranza, perché c’è sempre il rischio che il più forte (bantu) schiacci il più debole (bambuti).
L’accettazione dei pigmei, senza livellamenti culturali, è fondamentale, ma non facile. Al riguardo, la chiesa ha parecchio da dire. E, soprattutto, da testimoniare.
nel cuore della guerra
Nel 1991 gli studenti della diocesi di Wamba erano 22 mila. Al presente sono 44 mila. Un raddoppio miracoloso: perché, se nove anni fa lo stato era un misero «focherello», oggi è «cenere». Nel 2000 «Congo» è sinonimo di anarchia e guerra, che coinvolge eserciti di varie nazioni dal 1996. Senza dimenticare che a Wamba le «scuole convenzionate» con lo stato sono 85, ma padre Baruffi ne cornordina 247.
– Padre Angelo, i ragazzi come vanno a scuola in un clima di guerra?
– Con paura. Ma ci vanno, e l’anno inizia e termina regolarmente.
– Come cornordini l’insegnamento?
– Come posso. Al sopraggiungere di bande armate, tutti scappano in foresta. Ma, se le scuole sono aperte, si va anche al lavoro, si produce… La scuola è più che una speranza.
– Paghi i maestri sempre con una bottiglia di olio di palma?
– Anche con denaro. Però non supero le 10 mila lire mensili.
– Com’è la situazione altrove?
– Dipende. Nel Kivu, dove la gente sta meglio, gli insegnanti ricevono anche 70 mila lire al mese. Da noi ciò è impossibile.
– Comunque tu garantisci almeno 10 mila lire al mese.
– Non sempre. Dove troverei i soldi per 1.500 maestri?
– Vi sono allora insegnanti che prestano servizio gratis!
– Certamente.
Non è di poco conto in un paese stremato. Dietro il volontariato degli insegnanti, c’è sempre lo stimolo di padre Angelo: «Se non lo fate voi, nessun altro lo fa. I ragazzi, cui consentite di studiare, sono i vostri figli, i vostri fratelli!…». La diocesi, però, fornisce libri, quadei e tutto il materiale didattico, grazie alla solidarietà della chiesa italiana.
Non mancano le rotture fra i genitori degli studenti e i professori: sempre per ragioni economiche. In tali frangenti il missionario ricuce gli strappi. È un mediatore autorevole perché, pur essendo un funzionario dello stato ad alto livello, non percepisce una lira. Inoltre tutti sanno che «il padre» non si risparmia, rischiando anche la vita.
N el 1996, quando Kabila iniziò la conquista del Congo e i soldati di Mobutu battevano in ritirata saccheggiando le parrocchie, i missionari furono costretti ad andarsene. Lasciarono il campo anche i vescovi di Wamba, Dungu-Doruma, Isiro e di altre diocesi. Padre Angelo no. Ricercato dai soldati, si dava alla macchia. Ma era là. Con la gente, i «suoi» ragazzi.

«SUONATE QUELLA CAMPANA PER DIO!»

In Congo gli eserciti si stanno combattendo da quattro anni. Quattro anni (destinati ad aumentare, purtroppo), che non potrò mai scordare. L’anno che, finora, mi ha maggiormente «segnato» è stato il 1997, durante il quale ho trascorso mesi interminabili da fuggiasco. A parte le distruzioni, il sangue, la morte.
Restando sul «campo di battaglia», ho capito che cosa significhi vivere da solo con la gente. All’inizio, quando si sentiva la mia auto, tutti scappavano, perché pensavano che fossero arrivati i soldati per razziare; poi, riconoscendo il mio braccio bianco dal finestrino o il mio vecchio cappello kibudu, gridavano di contentezza.
In Congo, prima dell’attuale conflitto bellico, ho giornito della spontanea vivacità della gente: le sonore risate degli uomini, i trilli acuti delle donne, i giochi dei bambini, i canti e balli al ritmo di tamburi o al battito di mani… Ma, con la guerra, impera il silenzio anche in pieno giorno. Un silenzio che impressiona quanto il crepitio delle pallottole.
Allora nel 1997, passando di villaggio in villaggio, se c’era una campana o un cerchione d’auto (appeso ad un albero) che funge da gong, quasi gridavo: «Suonate quella campana, perdio! Battete quel gong! Rompete il silenzio!…». Il silenzio in guerra è allucinante. L’ho vissuto anche con padre Edward Olali, missionario della Consolata kenyano: io «silenzioso» da una parte e lui da un’altra.
In tale contesto ho toccato con mano quanto il prete sia un punto di riferimento per la popolazione. In guerra le differenze svaniscono, anche quelle tra bianco e nero. Tutti diventano uguali, perché tutti hanno paura allo stesso modo. Però se il prete è «là», la gente (non solo cattolica) appare più tranquilla. È per questo che, come responsabile della diocesi di Wamba, in assenza del vescovo, raccomandavo a tutti i sacerdoti di celebrare la messa, di suonare ogni giorno le campane. Al mattino, se si udiva il loro suono, si andava in chiesa, e chi vedeva le persone uscire di casa ritrovava la voglia di lavorare.
Anche i sacerdoti, in tempo di guerra, hanno bisogno di un riferimento. Io mi trovavo in un’area che comprende cinque diocesi, senza un vescovo. Erano rimasti solo i preti africani; ma erano «pecore senza pastore». Tutti giovani, ed io con i capelli bianchi. Sono diventato il loro «pastore». Ecco perché non ho voluto lasciare il Congo.
Sono passato di missione in missione (anche per fuggire dai soldati che mi cercavano) e vi trascorrevo 15-20 giorni. Dalle parrocchie poi, grazie alla radiofonia, tenevo i contatti con tutti. Mai, come in quei momenti, mi sono sentito missionario della «Consolata», pur essendo un fuscello in balia dell’uragano. Sono stato anche un incosciente, rischiando grosso. Ma ne è valsa la pena.
Oggi sono ancora vicario generale, oltre che cornordinatore delle scuole. Avverto la mia scomoda posizione di straniero, mentre infuria una guerra voluta soprattutto da… stranieri (rwandesi, angolani, ecc.) con armi… straniere: francesi, statunitensi, ecc.
Credo nel servizio. Agli altri il giudizio sul mio operato.

p. Angelo Baruffi

Francesco Beardi




CONGO – E sul muro una scatola vuota

Nei «Balcani dell’Africa» gli eserciti si fronteggiano,
soprattutto per accaparrarsi legname e caffè,
oro e diamanti. Difficile raggiungere
il paese ai «non addetti ai lavori»:
non fa eccezione la città di Isiro,
sotto il tiro degli ugandesi. Altrove sono
i rwandesi che non scherzano.
Da mesi è in ballo l’invio di 5.337
«caschi blu» delle Nazioni Unite,
per garantire il «cessate il fuoco».
Ma è solo un «ballo».
I missionari con la gente.

«Finalmente!» dico a padre Giano Benedetti. Decollato dall’aeroporto militare di Entebbe, in Uganda, viaggio con altri missionari della Consolata: i padri Enrico Casali, Celestino Marandu e Simon Tshiani. Sono le ore 15. Destinazione Isiro, nella Repubblica democratica del Congo, occupata dall’esercito dell’Uganda.
«Ti è andata molto bene!»
Giungiamo all’aeroporto di Entebbe alle 5.30 con un taxi-minibus, mentre è ancora notte. Svegliati dal rumore del veicolo, due soldati ugandesi sporgono il capo da una tenda per dire: «Aspettate». Ci dividono una rete e un cancello. Il taxi, carico delle nostre valigie, rimane sul posto.
Mezz’ora dopo, un camion supera il cancello, seguito da padre Celestino, che dichiara: «Ci vorrà tempo a caricare l’aereo». Celestino, tanzaniano, conosce l’iter burocratico per giungere ad Isiro.
Un lampo sul cielo nuvoloso, un tuono fragoroso e la pioggia inonda la campagna. «È una benedizione di Dio» commenta il taxista. Quando cessa di piovere, propone: «Perché non facciamo colazione?». C’è una bettola a due chilometri. Il taxista mangia con appetito uno spezzatino di maiale e banane fritte.
Un nuovo tuono… e le cateratte del cielo si riaprono. Piove anche sul nostro tavolo, mentre ci servono il tè. Padre Enrico sorride divertito, pur non essendo un pivello dell’Africa: conta 5 anni di Tanzania e 26 di Zaire-Congo. Ora vi ritorna, dopo un by pass al cuore e altri gravi problemi di salute. La missione è il suo dna, come pure delle sorelle Emma Piera, Aalda e Simplicia, missionarie della Consolata.
«Adesso ritorniamo all’aeroporto, perché dovreste partire» dice il taxista. «Ecco i piloti» continua per strada, additando una Mercedes con due biondoni russi a torso nudo. Attraversano il cancello; però, un quarto d’ora dopo, ritornano sui loro passi. Un’operazione compiuta tre volte… E l’orologio segna le 12.
Alle 13 appare padre Celestino: «In fretta, si va!». Scarichiamo i bagagli. Il sole dardeggia.
Ai piedi di un aereo-cargo Antonov, un soldato mi ordina: «Apra la valigia». Tremo. Sull’asfalto ribollente compaiono tre salami, una bottiglia di grappa e due pezzi di formaggio. Il militare osserva tutto e solleva un sacchetto di plastica.
– Che cos’è questo?
– Sono grani per confezionare corone del rosario.
– Ah!… Partite pure.
Ma siamo nuovamente bloccati, perché il numero dei passeggeri è diverso da quello notificato: cinque, invece di quattro. L’aereo può trasportare fino a 20 tonnellate, che sono state superate da una persona in più. «Uno deve scendere!» intima secco il comandante dell’aeroporto.
Padre Celestino si apparta con il graduato. Sostano 20 minuti sotto il sole furente, gesticolando, talora separandosi per poi riavvicinarsi… E si va! Nell’Antonov non pressurizzato padre Simon, congolese, mi grida all’orecchio: «Ti è andata molto bene! Io ho aspettato due settimane».
In aereo chi si sistema a cavalcioni di una balestra di Land Rover, chi su uno scatolone di pelati, chi su un sacco di zucchero… Noto anche un borsone di zip e bottoni. E, soprattutto, le medicine per l’ospedale della diocesi di Wamba e dei missionari della Consolata.
DOVE LE BICI SONO CAMION
Isiro, il mattino seguente, casa dei missionari della Consolata. Con la barba di cinque giorni, vorrei radermi. Ma in camera non trovo lo specchio.
«Per favore, c’è uno specchio?» chiedo a padre Rinaldo Do, il superiore. «Scusa, ci siamo dimenticati di importarlo…». Allora rivedo l’Antonov con il borsone di zip. «Qui, se perdi un bottone, o stai senza o te lo importi tu stesso… noleggiando un aereo».
Per non parlare di benzina. I missionari talora riescono ad acquistae qualche fusto dai militari ugandesi, per poi «centellinarla».
Anche monsieur Joseph ha comprato due bidoni di carburante e ha aperto «un distributore» in città. È uno sgabello con, sopra, una tanica mezza piena e una bottiglia vuota a lato come «contatore»: si fermano una-due moto per rifoirsi di tre litri. Sul lato opposto funziona un altro «distributore», gestito da un bambino: vende al dettaglio petrolio per illuminazione domestica, misurandolo con una scatoletta da sardine.
Chi si accaparra qualche fusto di carburante può diventare un commerciante a livello nazionale: lo vende ai rifornitori, che percorrono anche 700 chilometri in bicicletta con quattro taniche da 20 litri. È l’unico mezzo di trasporto anche per capre e maiali.
Un litro di benzina costa 3 milioni di nouveaux zaires (moneta locale), l’equivalente di un dollaro Usa. Questo prezzo risale al maggio scorso; un mese prima la benzina valeva 2.500.000 nouveaux zaires. Il che significa che l’inflazione è alle stelle, con sacchi e sacchi di carta-moneta. «Questa cassa – indica Dario Gramuglia, tecnico nell’ospedale di Neisu – è zeppa di grosse banconote, per un valore complessivo di 15 dollari». La cassa misura 56 centimetri di larghezza e lunghezza e 72 di altezza.
Per 3 milioni di nouveaux zaires si vende una gallina e si acquistano tre pacchetti di sigarette o una birra. Sigarette e birra, made in Rwanda, non è necessario importarle. Ma che lusso con salari da 5 dollari al mese!
«dagli atri muscosi…»
«Per pasqua mi piacerebbe essere a Pawa» confida padre Giano, consigliere generale dei missionari della Consolata, che ha lavorato in quella missione tre anni. «È già programmato» risponde padre Rinaldo. Mi accodo anch’io. Un safari di 52 chilometri in Land Rover, su una strada internazionale, della durata di tre ore. «Perché in Congo non esistono più strade, degne di tale nome».
Lasciamo, dunque, Isiro. La città conserva ancora qualche brandello d’asfalto, ma non c’è luce né acqua. Eppure, fino agli anni ’80, era vivace e festosa, con donne elegantissime, musiche e danze. Vi trovavi di tutto: dal whisky al frac per il gala raffinato. Anche se i voli non erano regolari, l’aeroporto era un viavai di commercianti. Ma il nefasto regime di Mobutu, le angherie dei funzionari pubblici, la guerra di Kabila e l’occupazione dell’Uganda… «Che tristezza, l’altro giorno, quell’aeroporto così sporco e polveroso!» conclude padre Giano.
«Dagli atri muscosi» e «dai fori cadenti» di Isiro emerge la banca, chiusa a tempo indeterminato con una catena arrugginita. Anche i missionari vi depositavano il denaro. Ma, invece di riscuotere qualche interesse, si vedevano continuamente assottigliare la somma. Tutto normale secondo il direttore della banca, che non lesinava il sarcasmo: «Dovreste esserci grati, perché custodiamo con cura i vostri capitali».
Sulla facciata del palazzo di giustizia campeggia la scritta dura lex sed lex. E padre Rinaldo commenta: «È stata proprio la mancata applicazione delle leggi a condurre il Congo-Zaire allo sfacelo».
All’uscita da Isiro, uno stop per il controllo da parte dei soldati ugandesi. Solo una formalità, per fortuna. E riprendiamo il safari.
Il territorio vanta notevoli potenzialità agricole: riso, soia, granoturco, arachidi, fagioli, frutta, come pure cotone e caffè. Negli anni ’60 il Congo produceva 60 mila tonnellate di caffè. Oggi la produzione non supera le 2 mila tonnellate. Sul mercato di Isiro il caffè (già decorticato) viene svenduto agli ugandesi a 800 lire al chilo. «È niente. Però, se protesti, non ti danno neppure questo “niente”»: è lo sfogo amaro dell’unico produttore della zona.
«PREGHIAMO PER LA PACE»
«Ferma, ferma!» grida con affanno padre Rinaldo. A 40 metri, tre soldati «esigono» un passaggio. Sono congolesi alle dipendenze di ugandesi. Hanno camminato sotto il sole molte ore e la loro meta è ancora distante.
Padre Rinaldo, dopo essersi presentato come missionario, li intrattiene con qualche domanda.
– Come stanno i vostri camerati?
– Quali? Ugandesi o congolesi?
– Entrambi.
– Il capitano ugandese non ci paga… Però gli ugandesi sono migliori dei rwandesi, che uccidono la gente, ne estraggono il cervello e lo mangiano mescolato ad erbe bollite.
I rwandesi in Congo sono armati fino ai denti. Nel 1999 il Rwanda investì in armi 141 milioni di dollari. E il Fondo monetario internazionale (così severo sugli sprechi nel sud del mondo) approvò un prestito al regime di Kigali di 33 milioni di dollari…
Sto osservando un soldato dall’aspetto giovanissimo.
– Da quanto tempo fai il militare?
– Da due mesi.
– Perché, invece di fare la guerra, non vai a scuola?
– In Congo non ci sono scuole. E poi, se ci fossero, dovrei solo zappare il campo dei maestri.
– Quanti anni hai?
– Sedici.
La risposta è troppo pronta per essere sincera. Che il ragazzo non abbia più di 12 anni traspare e dal viso e dalla statura. Certamente lo hanno imbeccato: «Ricordati che tu hai 16 anni». Tale infatti è l’età minima per l’arruolamento volontario di minorenni. L’hanno stabilito, il 21 gennaio scorso, le Nazioni Unite con un articolo sottoscritto da 70 nazioni. E ciò per smantellare l’esercito mondiale dei 300 mila bambini-soldato.
Prima di congedarci dal terzetto, padre Rinaldo afferma: «Amici, anche voi soffrite la guerra. Allora preghiamo tutti insieme per la pace».
A due chilometri da Pawa, padre Giano viene riconosciuto da due catechisti: e dire che vi mancava da 17 anni. Deve procedere a piedi, con alle spalle un corteo che l’osanna.
La missione è retta da padre Tarcisio Crestani. Gli consegno «il sacchetto dei grani del rosario», che ha «protetto» grappa e salami.
– Tarcisio, quante corone hai fatto?
– 26 mila in 26 anni di missione.
– Perché non insegni l’arte ad altri?
– Ho tentato varie volte. Ma la gente vuole solo i rosari delle mie mani. Li considera «più benedetti».
Padre Tarcisio è entusiasta del suo lavoro. E precisa: «Ci sono due missioni ad gentes: una dottrinale e una esperienziale. Credo nella prima e cerco di vivere la seconda. Ad gentes: stare con la gente ascoltando e camminando con tutti, magari anche a piedi, specie in tempo di guerra».
Una guerra economica
Ritornato ad Isiro, incontro nuovamente padre Simon Tshiani.
Padre Simon, quale congolese, come giudichi la guerra nel tuo paese?
– È una guerra soprattutto economica. Qui siamo sotto il controllo degli ugandesi: a loro non interessano i nostri problemi politici; essi mirano solo ad impadronirsi del nostro oro.
Ci sono già stati tre «cessate il fuoco». Ma la guerra continua. Perché?
– Tutte le forze in campo dicono di volere la pace, però alle loro condizioni: cioè esigono potere sul Congo, o economico o politico.
E il Congo sarà diviso?
– Questa è la grave minaccia che incombe. Però tutti i congolesi sono nettamente contrari.
In un paese vasto come il Congo, il federalismo può essere la soluzione dei problemi?
– Un governo centrale e unitario, con autonomie regionali, può essere una soluzione. Lo si è detto anche nella Conferenza nazionale, al tempo di Mobutu, per scrivere la nuova costituzione. Poi, nel 1996, le cose sono precipitate con la guerra di Kabila.
Il governo di Kabila è in grado di riprendere in mano il paese e di avere l’appoggio di tutti i congolesi?
– No, perché Kabila non è stato eletto dal popolo e perché è troppo legato alle città di Lubumbashi (con le sue ricchezze) e Kinshasa.
Allora come uscire dall’anarchia?
– Le Nazioni Unite impongano il ritiro delle forze straniere che hanno invaso il paese. Un volta sgombrato il campo, i congolesi devono prendere in mano le sorti del paese rilanciando la Conferenza nazionale con la partecipazione di tutte le forze politiche.
Come missionario della Consolata, ci tengo a dire anche questo: nonostante la guerra, noi continuiamo a lavorare. E «meritiamo» la solidarietà della Caritas italiana, di Missio e di tante persone generose…
Si fa avanti padre Rinaldo e annuncia che venerdì ci sarà l’aereo per il ritorno in Italia.
Ma venerdì non parto e neppure sabato. L’aereo sarebbe arrivato certissimamente domenica, alle ore 7 in punto. Passano le 7, le 8, le 9. A mezzogiorno il simpatico Rinaldo sorride: «Se in cielo comparirà un aereo, partirai». Compare alle ore 18.30.
Mi precipito all’aeroporto, carico la valigia nel piccolo bimotore e siedo. Poi… ritorno nella camera senza specchio di Isiro. «Signori, sono le 19.04! Troppo tardi per il decollo»: sono le parole del comandante.
Troppo tardi per quattro minuti.

Il giorno seguente, in volo verso Roma, ripenso all’aeroporto di Isiro: su una parete spicca una scatola vuota. È un orologio. Ma le lancette si sono arrestate, perché… il tempo si è fermato; poi sono addirittura scomparse, quasi a dire: in Congo il tempo non esiste più.
Intanto, sulla fertile terra rossa di Isiro e dintorni, le donne avanzano con pesanti carichi in testa.

La seconda guerra

u 1996, ottobre. I soldati dell’Alleanza delle forze democratiche di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda, Stati Uniti e vari mercenari, iniziano da Uvira la conquista militare dello Zaire di Mobutu.

u 1997, 17 maggio. Le truppe dell’Alleanza occupano la capitale Kinshasa. Kabila si autoproclama capo dello stato. Lo Zaire diventa Repubblica democratica del Congo. Però sono sospesi i partiti. Il 7 settembre Mobutu muore in Marocco: lascia ai familiari 6 miliardi di dollari. Ha depredato il paese per 32 anni.

u 1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo (la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle risorse agricole e minerarie del paese.

u 1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia. Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che se, il paese verrà diviso (come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.

u 2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco», firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la cattedrale: mille morti, migliaia e migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in balia della fame e delle epidemie.
Il 17 giugno il Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.

>b>Gli attori della tragedia

I n Congo la seconda guerra, scoppiata nell’agosto 1998 e tuttora in corso, ha causato numerose vittime. Le cifre sono assai confuse: si va da un minimo di 100.000 morti ad un massimo di 1.700.000. È uno scontro moderno e primitivo ad un tempo: con elicotteri, armi automatiche e aerei da bombardamento, ma anche con rozzi fucili e machete, mentre i soldati (talora ragazzi) sbucano dalla foresta. È pure un conflitto interafricano e mondiale.

p L’esercito di Kabila
conta 70 mila uomini, ma poco addestrati e mal pagati; però è sostenuto dalle seguenti nazioni:
– Zimbabwe (7-11mila soldati); la ricompensa è l’accesso alle miniere di diamanti;
– Namibia, che (sull’«esempio dello Zimbabwe») ha inviato 2 mila uomini;
– Angola: è con Kabila per debellare i guerriglieri dell’Unita (un tempo protetti da Mobutu), come pure per rendere più operativa la propria compagnia petrolifera «Sonangol-Congo»;
– Sudan: offre a Kabila aerei militari per bombardare i ribelli congolesi nel nord-est; ma il governo di Khartum smentisce.

p Il fronte contro Kabila
è più contradittorio; vi militano:
– tre gruppi di ribelli congolesi (10 mila soldati di Bemba, 10-15 mila di Ilunga e 4 mila di Wamba); Bemba, Ilunga e Wamba sono «signori della guerra»;
– i guerrieri congolesi mayi-mayi: operano nel Kivu e, protetti da un’acqua magica, si ritengono invulnerabili;
– le milizie degli hutu (diverse migliaia): già responsabili di massacri di tutsi in Rwanda nel 1994, oggi hanno in mano le miniere di diamanti di Mbuji Mayi;
– 9 mila soldati ugandesi: affermano di «essere costretti» a difendere le frontiere del loro paese; in realtà sono in Congo per accaparrarsi i suoi beni; appoggiano Wamba e Bemba;
– 10 mila soldati rwandesi: anch’essi «devono» proteggere il loro paese dai fuggiaschi hutu che hanno trovato rifugio in Congo; ai rwandesi si ascrivono saccheggi di chiese e atti di cannibalismo; appoggiano Ilunga.
Lo stato di anarchia in Congo raggiunge l’apice con gli ugandesi e i rwandesi che, mentre combattono Kabila, sono pure ai ferri corti fra loro. Di qui gli scontri a Kisangani, città strategica per lo smercio di preziosi.

I n questo tragico caos, l’8 maggio scorso la Segreteria di stato del Vaticano ha inoltrato alle Nazioni Unite, all’Organizzazione per l’Unità africana, all’Unione europea, alla Corte internazionale di giustizia… un documento, redatto a Roma da otto vescovi congolesi.
Il documento denuncia l’aggressione di truppe straniere, ritenuta «una nuova colonizzazione vergognosa»; sollecita l’intervento serio ed efficace della comunità internazionale, ma non con la vendita di armi. Al riguardo, sotto accusa sono Francia, Italia, Gran Bretagna, Belgio, Stati Uniti e Israele.
I vescovi, infine, stigmatizzano il tentativo di imbrigliare la chiesa «nelle ideologie delle diverse fazioni in guerra e di impedire ad alcuni pastori di esercitare il loro ministero». Il riferimento è a monsignor Emanuel Kataliko, vescovo di Bukavu, al quale i ribelli di Ilunga impediscono di rientrare nella sua diocesi.

Francesco Beardi




I balcani del Congo (RDC)

U na mano aveva scritto con un bastoncino carbonizzato: «Signore, mandaci subito papà Kabila! Altrimenti moriremo tutti!». Tale grido di aiuto in un paese in guerra compariva ad Isiro, nel nord della repubblica democratica del Congo (RDC), sul muro esterno della casa dei missionari della Consolata.
Sono le 7 del 18 aprile 2000. Un’ora dopo, la scritta viene cancellata dai soldati dell’Uganda, che occupano il territorio. Non sono i soli stranieri in Congo: a Kisangani e Bukavu spadroneggiano i rwandesi, cui si ascrivono persino atti di cannibalismo. Ugandesi e rwandesi, ieri alleati di Kabila per abbattere il famigerato Mobutu, oggi sono in guerra contro il nuovo presidente. E sono pure ai ferri corti fra loro.
Non mancano i «signori della guerra» locali: Ilunga, Wamba, Bemba… armati con i proventi dell’oro e dei diamanti. Oro e diamanti di cui fanno man bassa anche Uganda e Rwanda.
C’è lo stesso «papà» Kabila, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia che, tuttavia, non sono in Congo per «carità cristiana». E, infine, i ribelli congolesi appartenenti al movimento Mai-Mai. «Siamo pronti alla guerriglia su tutto il territorio, se divideranno il Congo come una torta» dichiarano. Nel frattempo non stanno con le mani in mano.
Il nuovo Congo nacque il 17 maggio 1998 sulle ceneri dello Zaire. Ma fra i nuovi padroni del ricco e vasto paese scoppiò subito la rissa, che ha portato all’attuale anarchia. O balcanizzazione del paese, mentre Stati Uniti e Francia stanno a guardare: gli uni strizzando l’occhio all’Uganda e l’altra ammiccando a Kabila.

P asqua nella missione di Pawa, a 60 chilometri da Isiro. Nella chiesa superaffollata, durante l’eucaristia un missionario domanda: «La guerra è peccato?». L’assemblea tace: forse il quesito l’ha colta alla sprovvista. Poi una voce mormora: «La guerra è peccato». «La guerra è peccato» ripete subito un altro. «La guerra è peccato» sentenzia alla fine tutta la folla in un crescendo drammatico.
«È la prima protesta pubblica contro questa guerra assurda – ci confida il missionario -. La gente finora l’ha esorcizzata con il silenzio».
Non lontano tre soldati ugandesi siedono all’ombra di un mango. Dopo alcuni convenevoli, accettano di parlare. «Noi non vogliamo la guerra. Il fucile uccide, uccide anche noi. Ma che possiamo fare contro i nostri capi?».

A eroporto di Fiumicino, 12 maggio. Dopo 28 giorni di assoluto digiuno giornalistico, acquistiamo un quotidiano per leggere in prima pagina: «Guerriglia degli ultrà laziali. Sconvolto il centro di Roma. Tifosi caricati dalla polizia con lacrimogeni: 12 feriti, di cui 10 agenti. Auto danneggiate e vetrine sfasciate».
Con noi c’è un congolese, che capisce l’italiano. «Povero Congo e povera Italia!» commenta.

Francesco Beardi




kinshasa (Congo R. D. ) – Pelle a rischio

Nella spirale di violenza che ha insanguinato
la capitale della Repubblica Democratica del Congo padre Stefano ha condiviso con la gente rischi e pericoli, fino a sentire un mitra puntato alle tempie.
La presenza dei missionari continua
a infondere nella popolazione semi di speranza.

L a chiamano «guerra mondiale africana». Tra paesi e gruppi ribelli si contano 19 soggetti in stato di guerra. È stato firmato un documento di «cessate il fuoco» tra l’esercito di Kabila e quello dell’Uganda e Rwanda, ma si continua a sparare. I gruppi ribelli continuano a frammentarsi e boicottare gli sforzi di pace, rivendicando fette di territorio e potere.
Tra le varie aggregazioni, quella di «Bemba» riscuote le maggiori simpatie da parte della gente. Figlio di un ministro di Mobutu e ancora al governo con Kabila, Bemba è diventato a poco a poco uno degli uomini più ricchi del Congo, padrone di quasi un terzo del paese. Anche lui rivendica la sua fetta di potere.
Tre quarti del territorio nazionale sono controllati da eserciti stranieri e forze ribelli. Troppi interessi sono in gioco e la guerra potrebbe durare molti anni. Alla fine il vecchio Zaire potrebbe essere smembrato in tre stati indipendenti. E sarebbe il male minore.
UNA CITTÀ ARRABBIATA
La situazione economica e sociale è allo sfascio. Kinshasa, capitale del Congo, fa paura: 8 milioni di abitanti cercano di sopravvivere in condizioni di precarietà. Non c’è lavoro. Chi ha un impiego non viene pagato, come maestri e professori, che continuano a insegnare per non perdere il posto.
Per la penuria di benzina i trasporti sono allo sbando: tanta gente fa a piedi 6-7 km al giorno per raggiungere il posto di lavoro, con la prospettiva di non essere pagata. Il denaro non circola; eppure la vita continua, per una sorta di miracolo cittadino, dove ognuno s’inventa un modo di sopravvivenza.
La gente è arrabbiata contro Kabila: in più occasioni gli ha tirato i sassi. Cacciato Mobutu e raggiunto il potere con l’aiuto di rwandesi e ugandesi, il nuovo presidente aveva suscitato grandi aspettative, finendo per scontentare tutti, a partire dagli alleati. Ritenendoli ormai troppo ingombranti, Kabila pensò di sbarazzarsene prendendoli a calci, innescando così una guerra che ha ripiombato il paese nel caos e, all’inizio dell’agosto 1998, ha affogato in un bagno di sangue la capitale congolese.
In quei giorni, al colmo della rabbia, la gente ha sfoderato gli istinti più bassi della sua umanità, iniziando una feroce «caccia ai ribelli» e divertendosi nel bruciarli vivi: un copertone attorno al collo, inzuppato di benzina, un fiammifero… e lo spettacolo era assicurato!
La fobia del «ribelle» aveva sparso la voce che le spie nemiche si fossero infiltrate in Kinshasa travestite da dementi: persone malvestite che si aggiravano per la città, barboni e vagabondi sorpresi a rovistare tra le immondizie, tutta gente ignara dell’esistenza di una guerra, furono scambiati per spie e bruciati vivi.
La psicosi collettiva sembrava cancellare ogni senso d’umanità: si giunse a misurare il naso della gente, per decidere se uno era o meno un ribelle ugandese, e ad assassinare amici e conoscenti sospettati di collaborazionismo. Perfino le treccine legate ai capelli furono sospettate di essere veicolo per portare i messaggi al nemico: tale moda scomparve dalla circolazione in un baleno.
Ho visto scene da fare accapponare la pelle. In alcuni casi sono intervenuto, rischiando grosso, per salvare qualche vittima di tanta follia; ma ho ottenuto solo che il condannato non venisse sacrificato sotto gli occhi dei bambini.
TRE GIORNI DI FUOCO
I momenti più drammatici iniziarono quando gli ugandesi si organizzarono per conquistare Kinshasa e cacciare Kabila. Una parte dell’esercito ribelle si attestò sulla collina di Mont Ngafula, dove ci sono la nostra parrocchia e il seminario filosofico. Rimanemmo per una settimana alla mercé di 3.000 militari ugandesi, mentre i soldati di Kabila erano fuggiti per organizzare la difesa.
Bisognosi di cibo e medicine, i ribelli cominciarono a visitare conventi e fattorie della zona. A fae le spese erano soprattutto le galline. Vennero anche nelle nostre case e, devo confessarlo, si comportarono correttamente. Ci dissero di stare tranquilli, perché ce l’avevano solo con Kabila. Chiedevano da mangiare e medicine; poi se ne andavano.
Prima che scoppiassero le ostilità, pensammo bene di mandare studenti e suore nel seminario teologico verso il centro città, a una ventina di chilometri da Mont Ngafula. Per percorrere quel tragitto di una quindicina di minuti in auto, fratel Paolo Ferrari e padre Giovanni Torres, che accompagnavano gli studenti e le suore, impiegarono più di tre ore. Dovettero superare 25 sbarramenti militari e ogni volta bisognava scendere dall’auto, aprire le borse, identificarsi e sottoporsi a interrogatori.
Anche per me, rimasto a custodire la casa con tre seminaristi, quel viaggio fu un autentico calvario. In costante contatto telefonico con padre Vincenzo Mura, direttore del seminario teologico, mi sentivo morire dentro e mi domandavo cosa fosse loro capitato.
Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per paura di essere presi dai soldati; donne e bambini, rimasti soli, si rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi.
Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano palpabili. Dovendo comunicare a Roma la nostra situazione, accendevo un piccolo generatore che, essendo alquanto rumoroso, spegnevo al più presto possibile, per non attirare l’attenzione, limitandomi a trasmettere le notizie essenziali e in modo telegrafico.
LA FUGA
Quando si sparse la notizia che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Mi convinsi che non valeva la pena rischiare la pelle per restare a guardia della casa. Infilai i documenti essenziali in uno zainetto e raggiunsi la gente che sciamava.
Tutto avvenne in maniera improvvisa e precipitosa, da non permettere alcuna pianificazione. Una fiumana di persone scendeva la collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari.
Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui minacciato e molestato più degli altri. «Perché ce l’hanno tanto con me» pensai. Forse qualcuno aveva riferito ai soldati della nostra radiofonia, usata per restare in contatto con i confratelli del nord, e del telefono, che ci permette di comunicare con l’estero. Di conseguenza potevo essere sospettato di complicità con i ribelli e, soprattutto, di seminare zizzania, diffondendo all’estero notizie false sul paese.
In uno di quei blocchi non ricordo cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i ribelli. «Voi preti, soprattutto, avete aperto le chiese e accolto i ribelli». Era vero. I soldati ugandesi erano entrati nelle nostre chiese. Cosa avremmo potuto fare contro 3.000 soldati armati fino ai denti?
Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità; poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato.
Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che piangevano.
I cannoni sparavano contro la collina. Non fu difficile inventare qualche battuta scherzosa per sdrammatizzare e raffreddare la tensione. In un momento di calma, raggiunsi un convento di suore e telefonai a Roma per rassicurare i superiori che confratelli, seminaristi e suore erano tutti al sicuro.
La domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi.
IL RITORNO
La domenica pomeriggio le truppe di Kabila avanzarono verso la collina e cominciarono il rastrellamento. Gli ugandesi fuggirono nella foresta, dove furono massacrati.
La mattina seguente decisi di tornare a casa. Avevo fatto i primi passi con i tre seminaristi e alcuni amici, quando, come per incanto, la gente si accodò in massa dietro a noi. Più salivamo più la processione s’ingrossava. La fuga precipitosa del venerdì si era mutata in un rientro giornioso e pieno di speranza, tra i canti dei bambini.
Più in alto la visione era raccapricciante e l’aria irrespirabile per il fumo delle case distrutte e il fetore dei corpi bruciati e in decomposizione. Arrivati in seminario, ricevemmo la sgradita visita dei soldati di Kabila: ci derubarono di tutto, dopo averci fatto patire le pene dell’inferno.
Ci recammo in visita ai confratelli della parrocchia, che ci raccontarono la loro storia. Quel venerdì padre Fedele Crippa stava celebrando la messa, quando, al momento della comunione, i ribelli fecero irruzione nella chiesa, sparando in ogni direzione. Il celebrante rimase imperterrito, deciso a terminare la celebrazione, ma si ritrovò con la chiesa vuota: la gente, strisciando sotto i banchi, era scappata in sacrestia.
Quando i soldati si furono allontanati, i missionari si rifugiarono nella casa parrocchiale e vi rimasero intrappolati, con alcuni fedeli, per tutto il tempo del bombardamento. Grazie a Dio, erano tutti incolumi.
RICOSTRUIRE LA GENTE
DAL DI DENTRO
Tutti hanno apprezzato il fatto che siamo rimasti con loro e affrontato gli stessi rischi e sofferenze. In effetti è questo il significato principale della nostra presenza. La situazione di guerra in cui vive il paese non ci permette di fare grandi opere. È la terza volta che ci distruggono tutto e che dobbiamo ricominciare da capo. Stando con la gente, condividendone la precarietà e confusione del presente e l’incertezza del futuro, siamo un segno di speranza per un avvenire nuovo e migliore.
Tuttavia continuiamo a domandarci come possiamo essere segno più efficace per questa popolazione che, oggi più che mai, riscopre la propria religiosità e la convinzione che il futuro è nelle mani di Dio. Per aiutarla a sopravvivere, cerchiamo di stimolare e coinvolgere la gente in varie forme di collaborazione, piccoli progetti, cornoperative di lavoro e commercio. Le donne, soprattutto, giocano un ruolo di grande importanza: sono esse le più creative nella ricostruzione del tessuto sociale, organizzando, per esempio, giornate di lavoro comunitario per riparare le strade e altre strutture di comune utilità.
Al tempo stesso guardiamo anche lontano, per progettare un lavoro a lunga scadenza. A tal proposito, credo che dobbiamo dare priorità alla scuola, ormai completamente trascurata dallo stato. In un paese come il Congo, dove la corruzione è elevata a sistema di vita e di sopravvivenza, c’è bisogno di ricostruire la gente dal di dentro.
Sarà questa la sfida del futuro: formare le nuove generazioni a un maggiore senso di responsabilità, amore per la pace e il bene comune.

Stefano Camerlengo




Guerre finanziate, guerre dimenticate


Lo scorso febbraio anche Bukavu, capitale del Sud Kivu, in Congo Rd, è caduta in mano ai ribelli dell’M23. Centinaia di migliaia sono gli sfollati che cercano riparo a Bujumbura, la capitale del Burundi. La milizia, armata ed equipaggiata con attrezzatura moderna, affiancata dall’esercito ruandese, il Rwanda defence force (Rdf), sta continuando la sua «conquista» verso Sud.

Il piccolo Rwanda (di superficie poco superiore alla Sicilia), di fatto, sta sfruttando le risorse minerarie dell’Est del Congo almeno dal 1996. È diventato un grande esportatore di stagno, tungsteno, tantalio, oro (chiamati oggi «minerali strategici»), senza però averne un grammo nel proprio sottosuolo. Ne abbiamo scritto su MC in questi anni.

Allora perché negli ultimi mesi il Rwanda ha deciso di invadere anche le due grandi città del vicino Paese sovrano, Goma e, appunto, Bukavu?

L’M23 già nel 2012 aveva occupato Goma per diverse settimane, ma la pressione di alcuni Paesi occidentali, che avevano minacciato il Rwanda di tagliargli i finanziamenti, era bastata a fare ritirare ribelli.

Dal 2021, quando l’M23 ha ripreso le attività, non ha fatto che appropriasi con la forza di siti minerari, dal Nord al Sud Kivu, terrorizzando la popolazione che fugge ingrossando i campi profughi. Intanto, l’esercito del Congo non riesce a opporre resistenza.

Oggi sembra che Paul Kagame, il «presidente-uomo solo al comando» dal 1994 del Rwanda, abbia deciso di tentare lo stesso colpo che fece nel 1996 con un altro gruppo ribelle da lui pilotato, l’Afdl (Allenaza delle forze democratiche per la liberazione del Congo), ovvero di riprendere il controllo de facto del Congo o di parte di esso.

Il Rwanda ha ricevuto ingenti finanziamenti dall’Occidente negli ultimi trent’anni. Ad esempio, la cifra media annuale tra il 2020 e il 2021 è stata di 1,24 miliardi di dollari. Intanto la spesa militare è cresciuta da 40 milioni di dollari nel 2005 a 180 nel 2021. L’Rdf è un esercito grande rispetto alle dimensioni del Paese, molto ben addestrato e moderno.

In particolare, è stato finanziato per operazioni di peacekeeping in diversi Paesi africani. Dal 2017, i militari ruandesi sono presenti nel Nord Mozambico in un’operazione contro i gruppi islamisti che imperversano nella regione di Cabo Delgado.

Sono documentati i 40 milioni di dollari che l’Unione europea ha dato al regime ruandese (sotto spinta francese) per proteggere i pozzi petroliferi della Total, tra il 2022 e il 2024. Sono inoltre documentati (da esperti delle Nazioni Unite), la coincidenza in alcuni casi di truppe e comandi tra le Rdf presenti in Mozambico e quelle in Congo.

Il 13 febbraio scorso, il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione europea di congelare gli aiuti budgetari al Rwanda e di sospendere l’accordo sui minerali strategici, stipulato nel febbraio 2024 (MC aprile 2024), finché i militari ruandesi saranno impegnati in Congo. Altre sanzioni Ue sarebbero pronte, su iniziativa di Belgio e Francia. Mentre anche Londra ha annunciato la sospensione degli aiuti finanziari.

Allargando l’orizzonte, noto che le importanti guerre in Ucraina e in Medio Oriente si prendono tutta l’audience nei media italiani. Altri conflitti, che magari influiscono meno sulla vita dei cittadini, semplicemente scompaiono. Sto pensando a quello in Sudan, guerra civile ma con caratteristiche regionali e globali, di cui parliamo nelle pagine di questo numero. Penso al Sahel (Mali, Niger, Burkina Faso), la cui popolazione è presa tra gruppi armati islamisti e governi golpisti dei militari. In un’area in cui passa una delle maggiori rotte della migrazione tra l’Africa e l’Europa. Paesi che si sono alleati con la Russia, mettendo nelle mani di Putin il «rubinetto» di questo flusso. Penso ad Haiti, Paese diventato invivibile perché controllato da bande armate criminali. Le cause sono storiche e precise, documentate e sempre occidentali.

E penso alla guerra civile in Myanmar, che ha compiuto quattro anni, e della quale parliamo anche sul nostro sito.

Aspettiamo dunque che il Rwanda, con uno degli eserciti più forti d’Africa, finanziato dagli occidentali, conquisti il Burundi (che è già allarmato) e magari arrivi a Kinshasa?

Marco Bello, direttore editoriale

 




Pochi, tanti, troppi: il dilemma demografico


I paesi africani e l’India spingono verso l’alto la popolazione mondiale. Questa continuerà a crescere fino al 2100. Allo stesso tempo, molti paesi stanno sperimentando una rapida decrescita. Proviamo a dare un senso ai dati e a capirne le conseguenze.

Quando si parla di popolazione, lui – Thomas Malthus (1766-1834) – viene sempre evocato. Economista, demografo e anche pastore anglicano, il suo An essay on the principle of population, uscito per la prima volta nel 1798, rimane un caposaldo della tematica demografica. L’incremento della popolazione – spiegava il reverendo Malthus – andrebbe regolato perché esso eccede l’incremento delle risorse disponibili. Utilizzando le sue parole: «La popolazione, se non controllata, aumenta in proporzione geometrica. La sussistenza aumenta solo in proporzione aritmetica». Successivamente, si vide che calcoli e previsioni di Malthus erano errati, ma era corretto e antesignano il suo ragionamento di base: la correlazione tra popolazione e risorse disponibili.

Santiago Cilemauro-mora-unsplash

Numeri che parlano

All’epoca di Malthus la popolazione mondiale era stimata tra uno e 1,2 miliardi di persone. Oggi siamo arrivati a 8,2 miliardi e tale cifra raggiungerà un picco di 10,3 miliardi verso il 2085 per iniziare poi a decrescere. Non è però questo il dato fondamentale per comprendere quanto i tempi siano cambiati.

Quello su cui concentrarsi è il tasso di fertilità, che esprime il numero medio di figli per donna in età feconda (15-49 anni). Ebbene, a livello mondiale il tasso è passato da 5 figli per donna nel 1960 a 2,2 nel 2024.

Questo numero è vicinissimo a un altro chiamato tasso di sostituzione, che indica il numero di figli per donna necessario per sostituire i morti con nuovi nati e mantenere stabile la popolazione complessiva. Attualmente, il numero è pari a 2,1 figli per donna.

Venendo all’Italia, negli anni fra il 1955 e il 1975 sono nati ogni anno fra 800mila e un milione di bambini. Nel 2024 sono stati 374mila, segnando un nuovo record negativo.

Il tasso di sostituzione è stato raggiunto per l’ultima volta nel 1976. Poi è iniziata una rapida discesa arrivando all’attuale 1,2 figli per donna. Questo dato è ulteriormente distinguibile in 1,1 per le mamme italiane e 1,9 per le mamme straniere residenti in Italia. Queste ultime stanno però seguendo lo stesso percorso delle donne italiane con il loro tasso di fecondità in lenta ma costante riduzione (era 2,8 nel 2002).

La bassa fertilità è stata accompagnata da un graduale rinvio della genitorialità, come mostra l’aumento dell’età media delle donne che diventano madri per la prima volta, che oggi si situa sui 32 anni per le italiane e sui 29 per le madri straniere. D’altra parte, in tanti paesi del Sud del mondo avviene anche l’opposto: si diventa madri troppo presto.

«Nel 2024 – racconta il rapporto Onu World population prospects -, 4,7 milioni di bambini, ovvero circa il 3,5% del totale mondiale, sono nati da madri di età inferiore ai 18 anni. Di questi, circa 340mila sono nati da ragazze di età inferiore ai 15 anni, con pesanti conseguenze negative per la salute e il benessere sia delle giovani madri che dei loro figli».

Le motivazioni del calo delle nascite nei Paesi più sviluppati sono plurime, ma forse quella principale è una: la profonda modificazione di quella che un tempo veniva chiamata «famiglia tradizionale» (la donna vista soprattutto per il suo ruolo di madre e meno come soggetto con proprie ambizioni), a cui si aggiunge la motivazione economica («i figli costano»).

Un cimitero; nel 2023, ci sono stati 6 nati e 11 decessi ogni 1.000 abitanti (dati Istat). Foto Patricia Prudente – Unsplash.

«Sostituzione etnica»?

Si parla – soprattutto a livello giornalistico – d’«inverno demografico», o di «tempesta demografica perfetta». È sicuramente vero che un Paese con un tasso di fertilità inferiore al tasso di sostituzione avrà problemi importanti perché meno lavoratori e più anziani cambiano la società e il suo funzionamento.

In altri termini, un simile livello di denatalità potrebbe produrre una doppia conseguenza: da una parte una mancanza di lavoratori, dall’altra un’insufficienza di risorse per pagare le pensioni a una platea sempre più vasta di persone e sostenere le spese sanitarie e assistenziali per una popolazione più anziana e, quin- di, più fragile.

Appurato questo, soluzioni se ne possono trovare, visto che nel mondo di esseri umani non ne mancano e ci sono aree nelle quali il sistema sociale ed economico non regge la crescita numerica della popolazione.

Per esempio, dove ci fossero carenze demografiche si potrebbero indirizzare maggiori flussi migratori, anche se in questo caso – lo sappiamo bene – la questione diventerebbe soprattutto politica. In particolare, verrebbe paventato il fenomeno della «sostituzione etnica». Come, in un convegno dell’aprile 2023, ha sostenuto il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. «Non possiamo – ha spiegato – arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada».

Invece, la strada è proprio quella visto che fare risalire il tasso di fertilità è un’impresa difficile e, comunque, di lungo periodo.

Popolazione e ambiente

Attorno al tema demografico ruota anche un’altra questione, sempre più attuale.

Può essere riassunta in un quesito: più popolazione significa più pressione antropica? Sicuramente sì, ma la risposta non può esaurirsi qui.

Secondo uno studio scientifico (Environmental research letters del 12 luglio 2017), nei paesi sviluppati fare un figlio in meno ridurrebbe, in media, l’impronta ecologica di 58 tonnellate di CO2 all’anno.

Questo risultato non deve però indurre a conclusioni frettolose. Affrontiamo il problema da un punto di vista diverso, comparando la percentuale delle emissioni di anidride carbonica (il maggiore tra i cosiddetti gas serra) tra Paesi poveri ad alta crescita demografica e Paesi ad alto reddito con una crescita della popolazione bassa o nulla.

Scopriamo così che la Nigeria – paese africano con una popolazione in forte aumento – contribuisce alle emissioni mondiali di CO2 soltanto per lo 0,73 per cento e la Repubblica democratica del Congo, altro paese africano in crescita demografica, per lo 0,05 per cento. Molto diversi sono i dati dei paesi sviluppati. Per esempio, gli Stati Uniti (secondo paese più inquinante dopo la Cina) sono responsabili del 14,45 per cento delle emissioni e l’Italia del 5,32 (fonte: Statista, 2023).

Questo significa che, oltre alla pressione antropica, risulta determinante il modello economico e di consumo adottato ed è su quello che sarebbe necessario intervenire.

In caso contrario, se i Paesi del Sud globale (dove la popolazione cresce) volessero avere – come loro diritto – il livello di consumi di quelli del Nord, la crisi ambientale (già molto grave) esploderebbe.

La demografia modella il mondo

Secondo l’Onu, sono quattro le grandi tendenze demografiche che modellano il mondo: la crescita della popolazione, il suo invecchiamento, l’urbanizzazione e le migrazioni internazionali.

La sua lettura della situazione rimane improntata all’ottimismo: «I cambiamenti nella dimensione, nella struttura per età e nella distribuzione spaziale delle popolazioni – si legge nel rapporto – portano sia sfide che opportunità. Gestendo le sfide e sfruttando le opportunità, possiamo accelerare il raggiungimento di uno sviluppo inclusivo e sostenibile, creare opportunità per sradicare la povertà, migliorare l’accesso alla protezione sociale, all’assistenza sanitaria e all’istruzione, promuovere l’uguaglianza di genere, promuovere modelli più sostenibili di produzione e consumo e salvaguardare l’ambiente».

Paolo Moiola

uomini in cammino; i flussi migratori possono essere una risposta al calo demografico, ma questa soluzione trova l’opposizione dei partiti di destra. Foto Sebastien Goldberg – Unsplash.


La popolazione a livello mondiale

popolazione mondiale                               8,2 miliardi
A livello mondiale, il picco della popolazione sarà raggiunto verso il 2085 con 10,3 miliardi di persone.

tasso di fertilità                                             2,2
È il numero medio di figli per donna in età fertile. Nel 1960 era di 5 figli per donna.

tasso di sostituzione                                  2,1
Detto anche «tasso di rimpiazzo», è il numero  medio di figli per donna
che consente alla popolazione di restare numericamente costante.

aspettativa di vita                                       73,3 anni
Detta anche «speranza di vita» alla nascita. La più alta è in Giappone (84,4 anni),
la più bassa in Ciad (53 anni) e altri paesi africani.

Paesi in decrescita demografica      63 paesi
Comprendono il 28 per cento della popolazione mondiale.
Ne fanno parte i paesi europei (eccetto Francia e Gran Bretagna) e asiatici.
Tra essi anche Russia, Cina, Giappone e Corea del Sud.

Paesi in crescita fino al 2054                48 paesi
Comprendono il 10 per cento della popolazione mondiale.
Vi fanno parte anche il Brasile, l’Iran, la Turchia e il Vietnam.

Paesi in crescita fino al 2100                126 paesi
Record di crescita demografica per l’Africa con i paesi subsahariani,
il Congo Rd, l’Etiopia e la Nigeria. Al gruppo appartengono anche gli Stati Uniti
per via dei flussi migratori. L’India raggiungerà il picco di popolazione nel 2060.

            Fonti: United Nations, World population prospects, 2024;
United Nations, World fertility report, 2024.

La popolazione a livello italiano (dati 2024)

popolazione italiana           59 milioni
Gli stranieri residenti in Italia sono 5,3 milioni, r
appresentando circa l’8,9% della popolazione complessiva.

tasso di fertilità                    1,20
Nel 2024 ci sono stati 374mila nuovi nati, 5mila in meno rispetto al 2023.
Lontanissimi gli anni del baby boom: nel 1946, 1947, 1948 e 1964
nacquero più di un milione di bambini per anno.

aspettativa di vita                  84,01 anni
L’aspettativa di vita delle donne italiane è pari a 85,97 anni, quella degli uomini italiani è di 81,90 anni.

età media                                  48,4 anni
L’Italia ha la popolazione più vecchia tra i paesi dell’Unione europea. In Ue, la media è di 44,5 anni.

Fonti: Istat ed Eurostat. Tabelle: a cura di Paolo Moiola.




Africa, come va la lotta all’Hiv/Aids


Venticinque anni fa una storica conferenza sull’Aids di Durban, in Sudafrica, fece emergere le proporzioni dell’epidemia da Hiv in Africa. Oggi preoccupa la scelta dell’amministrazione Trump di congelare i fondi Usa destinati agli aiuti, inclusa la lotta all’Hiv/Aids.

Secondo il più recente rapporto di Unaids, l’agenzia Onu per la lotta all’Hiv/Aids, il 2023 è stato il primo anno in cui ci sono state più nuove infezioni fuori dall’Africa che al suo interno. Su 1,3 milioni di contagi, infatti, 640mila sono avvenuti in Africa e 660mila nel resto del mondo. La riduzione dei contagi nel continente è un traguardo notevole per l’area del mondo che è stata di gran lunga la più colpita dalla diffusione del virus: in Africa subsahariana sono avvenuti, infatti, circa il 70% degli oltre 42 milioni di decessi dall’inizio della pandemia da Hiv, cioè dagli anni Ottanta del secolo scorso a oggi.

L’anno con il numero più alto di morti è stato il 2004: due milioni di vittime nel mondo, di cui un milione e mezzo nella sola Africa. «Arrivai a Ikonda nel 2002, in piena crisi dell’Hiv/Aids», ricorda padre Sandro Nava, missionario della Consolata responsabile fino al 2019 del Consolata Ikonda Hospital e oggi dell’Allamano Makiungu Hospital, entrambi in Tanzania. «Trovai interi villaggi decimati: mi ricordo benissimo di un villaggio tra Ikonda e Makete dove tutti i giorni c’erano dei funerali. La tradizione prevede che si faccia il kiliyo, cioè la cerimonia funebre con i pianti rituali, e si condivida poi il cibo fra tutti i convenuti. La comunità fu costretta sospendere tutto: la gente che moriva era talmente tanta che era impossibile mantenere il rito».

 

La conferenza di Durban

Nel 2000 c’era stata a Durban, sulla costa orientale del Sudafrica, la XIII conferenza internazionale sull’Aids (spesso abbreviata in Aids 2000): si trattò di un evento storico, racconta@ in un Ted Talk del 2016 Stefano Vella, ex direttore del Dipartimento del farmaco e poi del Centro per la salute globale dell’Istituto superiore di Sanità e, all’epoca, presidente della International Aids society@, l’associazione con sede a Ginevra che organizza le conferenze. Fino a quell’anno, l’evento si era sempre svolto nei paesi del Nord globale, ma l’area del mondo in cui l’Aids stava facendo più vittime era di gran lunga l’Africa.

Anni Duemila, l’Africa travolta

Centre de Santé Notre Dame de la Consolata

Alla conferenza, ricorda Vella, si incontrarono migliaia di scienziati, medici, ricercatori, ma anche attivisti, pazienti, politici e un migliaio di giornalisti: il merito dell’evento fu quello di rompere il silenzio – come suggeriva il suo titolo, Breaking the silence – sulle enormi diseguaglian- ze fra il Nord e il Sud globale nell’accesso alla prevenzione, alla diagnosi e alle terapie.

La scelta del Sudafrica come nazione ospitante fu significativa: si trattava, infatti, del Paese più colpito al mondo con 3,6 milioni che avevano l’Hiv su 44 milioni di abitanti. Ci fu un accorato discorso conclusivo di Nelson Mandela, ex presidente del Sudafrica e figura chiave della lotta all’apartheid, che esortò tutti ad agire subito. I politici si mossero, spiega ancora Vella: un anno e mezzo dopo, nacque il Fondo globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria, che ad oggi ha speso 68 miliardi di dollari nella lotta alle tre malattie, 35 miliardi solo per l’Hiv@.

Inoltre, Aids 2000 diede un impulso fondamentale alla salute globale, grazie a un approccio che si fondava non solo del miglioramento della salute ma anche sulla riduzione delle diseguaglianze nell’accesso all’assistenza sanitaria.

Il Pepfar, acronimo per Piano d’emergenza del Presidente degli Stati Uniti per la lotta all’Aids (President’s emergency plan for Aids relief), fu lanciato dal presidente George Bush e dalla moglie Laura nel 2003. Sotto il suo coordinamento, diversi dipartimenti e agenzie governative Usa hanno investito finora oltre 110 miliardi di dollari grazie ai quali – si legge in una scheda@ dello scorso dicembre – 26 milioni di vite sono state salvate e 7,8 milioni di bambini hanno potuto nascere senza contrarre l’Hiv dalla madre. A settembre 2024, i pazienti che, grazie al Pepfar, ricevevano farmaci antiretrovirali – capaci di bloccare l’ingresso nella cellula e la replicazione del virus@ – erano 20,6 milioni, mentre i medici, infermieri e altro personale sanitario, i cui salari erano coperti dal programma presidenziale, erano 342mila.

I primi, difficili passi

«A Ikonda», dice ancora padre Nava, «grazie all’aiuto di alcuni donatori, nel 2004, aprimmo la clinica Hiv che, all’inizio, era tutta sulle nostre spalle. Ricordo che nel 2006 andai Monaco, in Germania, a visitare un’azienda che produceva le prime macchine per la conta dei Cd4», una proteina presente nel tipo di linfociti (globuli bianchi) che innescano la reazione del sistema immunitario alle sostanze estranee, come virus e batteri, e che vengono distrutti dall’Hiv. Contare i Cd4, dunque, dà una misura di quanto il sistema immunitario di un paziente sia «in difficoltà». «Il tecnico venne dalla Germania a Ikonda a installare la macchina e cominciammo così le prime conte dei Cd4.

Solo molto tempo dopo, il Governo sostenne l’installazione di attrezzature diagnostiche, come le macchine per misurare la carica virale, e iniziò anche a fornire farmaci. Nel frattempo, la clinica era giunta da avere quasi seimila persone registrate: ci aiutò molto il dottor Gerold Jäger, un dermatologo esperto di lebbra che aveva per questo una vasta conoscenza della sanità in Africa e che, una volta in pensione, venne con la moglie Elizabeth a lavorare per tre anni a Ikonda. Infine, arrivarono organizzazioni come Usaid», l’agenzia del Governo statunitense per lo sviluppo internazionale, uno degli enti che realizza il Pepfar, «a coprire i costi di una parte del personale della clinica Hiv che, per la quantità di pazienti, era di fatto un ospedale a sé».

«Quando alla prevenzione – racconta ancora padre Sandro -, cominciammo subito con la clinica mobile: andavamo nei villaggi con un generatore che alimentava un televisore, e mostravamo filmati per informare le persone su come evitare di contagiarsi». La provincia dove si trovava Ikonda, montana e senza attività produttive, era la più colpita del Paese: molti uomini migravano in altre regioni per cercare lavoro stagionale nelle piantagioni di tè, caffè o agave, e lì si infettavano; poi rientravano dalle loro mogli e le contagiavano. Le mogli, a loro volta, passavano l’infezione ad altri partner occasionali».

La situazione oggi e i tagli di Trump

Oggi, si legge nel rapporto 2024 di Unaids, dal titolo The urgency of now (L’urgenza di adesso), e nella scheda che mostra le statistiche globali@, le persone affette dall’Hiv sono 39,9 milioni. di cui 30,7 milioni hanno accesso alle terapie, mentre 9 milioni ne restano escluse. I decessi continuano a diminuire: da 2,1 milioni all’anno del 2004 sono scesi stabilmente sotto il milione nel 2014 e oggi sono circa 630mila, mentre le nuove infezioni – che negli anni peggiori, il 1995 e il 1996, erano state 3,3 milioni – sono ora due milioni in meno, una cifra che è comunque ancora tre volte sopra l’obiettivo di 370mila previsto per il 2025 dalla Stategia globale 2021 – 2026@ che mira a porre fine all’Aids entro il 2030.

Dal punto di vista dei farmaci, poi, ci sono stati diversi progressi: ad esempio, a settembre 2024 l’Organizzazione mondiale della sanità definiva «promettenti»@ i risultati nella prevenzione dell’Hiv di un farmaco antiretrovirale, il lenacapavir, che con due iniezioni l’anno impedirebbe al virus di replicarsi. Promettenti erano anche i risultati del lavoro dell’Unità di ricerca sulla terapia genica antivirale dell’Università del Witwatersrand, in Sudafrica, che applicava le tecnologie a mRna – su cui si basano alcuni dei vaccini contro il Covid – alla ricerca di un vaccino per l’Hiv. Lo studio, finanziato da Usaid con 45 milioni di dollari (più o meno il costo di 15 missili Patriot, ndr), è ora bloccato a causa della decisione@ del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di sospendere il lavoro dell’agenzia per valutare un suo eventuale smantellamento e l’attribuzione delle sue funzioni al dipartimento di Stato, l’omologo del nostro ministero degli Affari esteri@.

La ricerca non è il solo ambito che sta risentendo delle scelte di Trump: sul sito di Unaids, lo scorso febbraio, una scheda@ aiutava a farsi un’idea delle conseguenze che il blocco dei fondi produrrebbe in 39 Paesi che rappresentano il 71% di quelli finanziati dal Pepfar: in 35 di essi l’attuazione dei programmi di lotta all’Hiv si è interrotta, altri 14 Paesi riferiscono discontinuità nelle terapie salvavita, in dieci sono sospesi i test Hiv ai neonati esposti al virus e la profilassi preventiva per le giovani donne e le adolescenti. Inoltre, in nove Paesi la prevenzione della trasmissione da madre a figlio (Pmtct, nell’acronimo inglese) non funziona regolarmente, in quattro non è possibile fare i test Hiv a tutte le donne incinte e le neo madri e ci sono difficoltà a procurare e distribuire farmaci per l’Hiv; in due Paesi le scorte di medicinali sono descritte come «pericolosamente scarse».

Centre de Santé Notre Dame de la Consolata

Tagli al personale negli ospedali in Tanzania

«Da quando è arrivata la notizia dei tagli», scrivono gli attuali responsabili del Consolata Ikonda Hospital, i missionari della Consolata Marco Turra e Willam Mkalula, «i pazienti sono preoccupati. A nove persone dello staff è stato interrotto il contratto, e chi è rimasto cerca di rassicurare i pazienti. Con i farmaci e i test possiamo andare avanti qualche mese, ma per ora non ci è stato comunicato nulla sul futuro».

Gli iscritti al servizio della clinica Hiv dell’ospedale di Ikonda a febbraio erano 2.365. «Usaid assicura(va) farmaci, i test rapidi e quelli per misurare la carica virale», spiega padre Marco, «mentre i controlli su fegato e reni li fornisce l’ospedale, così come il cibo supplementare per alcuni pazienti». Lo screening si fa proponendo il test ai pazienti ritenuti più esposti o che hanno patologie compatibili con la sindrome da Hiv. C’è un servizio di counselling prima del test e, in caso di positività, una seconda sessione di counselling precede l’apertura della cartella clinica, cioè la presa in carico del paziente. «A quel punto interviene il medico, che prescrive altri esami e stabilisce la terapia. L’aderenza da parte dei pazienti oggi è molto alta: c’è chi tiene segreta la propria condizione, ma questo non porta all’abbandono».

La situazione non è molto diversa a Makiungu, quasi 800 chilometri più a nord di Ikonda, dove padre Sandro Nava, insieme alla dottoressa Manuela Buzzi, gestisce dal 2020 l’Allamano Makiungu hospital. «Alla clinica Hiv, lavoravano otto persone pagate da due fondazioni – la Elizabeth Glaser pediatric Aids foundation e la Benjamin William Mkapa foundation – finanziate da Usaid. Per tre mesi (da febbraio ad aprile 2025, ndr) le fondazioni non riceveranno soldi dagli Usa, perciò hanno licenziato o messo in aspettativa queste otto persone. Noi ne abbiamo assunte alcune, ma non possiamo farlo con tutte».

Quando padre Sandro arrivò a Makiungu, la clinica Hiv era già in funzione «ma aveva pochi pazienti. Potenziandola, i pazienti sono aumentati». Nel 2024, i test sono stati più di 8.000, 169 i risultati positivi. A ricevere cure e farmaci sono state 763 persone, di cui 33 bambini, mentre il programma di prevenzione della trasmissione da madre a figlio ha seguito 96 bambini.

«Il grosso dei pazienti frequenta la clinica ogni mese», dice ancora padre Sandro, «ma c’è anche chi viene ogni tre mesi o addirittura sei, magari perché vive lontano e il costo di un passaggio in moto per raggiungere l’ospedale è troppo elevato». Secondo i dati riportati dalla scheda Unaids, in Tanzania il 90% dei fondi per la lotta all’Aids viene dal Pepfar.

Kenya, ritirata anche l’ambulanza

«Qui c’è grande confusione», commenta preoccupato fratel Severino Mbae, missionario della Consolata incaricato del Wamba Catholic hospital della Diocesi di Maralal, nel nord del Kenya. «Ci aspettiamo di non poter più assistere oltre la metà dei pazienti che abbiamo in cura, che sono 146». Fratel Severino riferisce che, a causa della sospensione voluta dal governo Usa, si è interrotto il progetto di lotta all’Hiv Tujenge Jamii (dallo swahili: Costruiamo comunità) finanziato da Usaid, che garantiva – oltre ad assistenza tecnica, formazione del personale, sensibilizzazione dei pazienti e parte del materiale informatico – anche il salario di quattro persone: un medico, un responsabile del counselling per il test Hiv, un expert patient, cioè un sieropositivo che offre orientamento ad altri, e un incaricato per i giovani e gli adolescenti. «Wamba era una delle strutture sostenute dal progetto, grazie al quale avevamo anche un’ambulanza con cui fare le campagna contro l’Hiv e la tubercolosi, ma ora è stata ritirata».

Maraldallah e Neisu, farmaci scarsi

Il Centro di salute Notre Dame de la Consolata (Csndc) di Marandallah, nel nord della Costa d’Avorio, lavora da diversi anni con i fondi del Pepfar attraverso il ministero della Sanità e in collaborazione con l’Ong Santé espoir vie – Côte d’Ivoire (Sev-Ci). I pazienti sieropositivi in cura sono 294; nel 2024 sono stati fatti 4.800 test e i positivi sono risultati essere 18: un tasso di prevalenza dello 0,4%. I costi dei farmaci antiretrovirali, forniti dal sistema sanitario nazionale, sono stati finora coperti dal Pepfar, che – come in Tanzania – sostiene il 90% della spesa annuale in questo ambito.

«Lavorare con questi fondi ha diversi vantaggi», spiega padre Wema Duwange, che nel 2022 è succeduto a padre Alexander Likono nella gestione del centro. «Uno è quello di ricevere medicinali e sostegno sociale e psicologico per i pazienti. Inoltre, i fondi Usa garantiscono un salario a migliaia di persone in Africa e la formazione continua per tutti». La decisione di Trump ha avuto un effetto immediato, dice padre Wema: «Le medicine hanno iniziato a scarseggiare: tutto si è fermato in sole due settimane».

Interruzione nell’approvvigionamento dei farmaci si sono verificate anche a Neisu, in Repubblica democratica del Congo. «Ma non possiamo attribuirle con certezza ai tagli decisi dal governo Usa», dice Séraphine Nobikana, dottoressa direttrice dell’ospedale di Neisu. «Le difficoltà a trovare i farmaci sono frequenti nel nostro Paese», che da gennaio scorso ha visto aggravarsi la crisi nella zona orientale, dove i ribelli del M23 e le truppe regolari del Rwanda hanno occupato la città di Goma. Nel 2024 l’ospedale di Neisu ha seguito e curato 173 pazienti sieropositivi. I farmaci, riporta ancora Nobikana, li fornisce il sistema sanitario nazionale. La collaborazione con il governo statunitense viene gestita dal ministero della Sanità e per il biennio 2024/ 2025 avrebbe dovuto poter contare su 229 milioni di dollari@ per il Congo (il costo di due caccia F35, ndr).

Chiara Giovetti