Sotto il titolo «Euntes in mundum universum» (andate in tutto il mondo), si è svolto, dal 16 al 18 novembre 2022, presso la Pontificia università Urbaniana, il Convegno internazionale di studi per celebrare il IV centenario della «Sacra congregatio de Propaganda Fide» (22 giugno 1622-2022).
Nata nel XVII secolo in pieno contesto coloniale, Propaganda Fide (lett. «propagazione della fede», ndr) ha posto al centro della Chiesa l’azione missionaria che ha portato al rifiuto della colonizzazione e del razzismo ad essa correlato, e ha scelto il rispetto delle culture e delle lingue di tutti i popoli.
È stato un percorso segnato inizialmente dalla missione in stile coloniale, per giungere a quella interculturale. Un percorso che è passato dal conflitto e scontro al dialogo nell’incontro con le diverse culture del mondo.
Tutti i relatori del convegno, provenienti da nove nazioni dei cinque continenti, nelle cinque sessioni di lavoro hanno sottolineato l’importanza di «Propaganda Fide» e della sua missione evangelizzatrice nella Chiesa.
Da «Propaganda Fide» al «Dicasterium pro Evangelizatione»
L’anniversario della bolla Inscrutabili Divinae con cui il papa Gregorio XV il 22/06/1622 istituì la «Sacra congregatio de Propaganda Fide» ha coinciso con la promulgazione della Costituzione apostolica «Praedicate Evangelium», con cui papa Francesco ha conferito una struttura più missionaria alla Curia perché sia sempre meglio al servizio delle Chiese particolari e dell’evangelizzazione. Con questo documento il papa ha, inoltre, unito la secolare e conosciuta «Propaganda Fide» con il pontificio «Consiglio per la nuova evangelizzazione» creando il nuovo «Dicasterium pro evangelizzazione».
L’anniversario ricorda quattro secoli segnati non solo dal passaggio della missione da uno stile coloniale a uno interculturale, ma anche dal passaggio dalla propagazione della fede all’evangelizzazione, come ha sottolineato padre Bernard Ardura, presidente del Pontificio comitato di scienze storiche.
Dopo il concilio di Trento (1545-1563), la necessità di unire e centralizzare l’organizzazione dell’attività missionaria nel mondo aveva mosso papa Gregorio XV a fondare Propaganda Fide. Occorreva dare maggiore impulso a un’azione più unitaria e concertata in un contesto segnato dalla colonizzazione e dal sistema del «patrocinio» (per il quale l’evangelizzazione era affidata a uno stato, come Portogallo o Spagna, ndr) che non rispondeva più ai bisogni del tempo. L’intenzione era quella d’impegnarsi affinché: «L’evangelizzazione non fosse condizionata dalle grandi potenze del momento o da particolarismi religiosi» (prof. Pizzorusso, Università degli studi G. D’Annunzio, Chieti, Pescara).
«Propaganda Fide nasce dunque per coordinare le forze, per dare direttive alle missioni, promuovere la formazione del clero e delle gerarchie locali, per incoraggiare la fondazione di nuovi istituti missionari e, infine, per provvedere agli aiuti materiali per le attività missionarie». Inoltre, non certo per ultimo, avrebbe avuto la responsabilità della diffusione della fede cattolica in America, Africa e Asia.
Con la costituzione apostolica Regimini ecclesiae universae, del 15 agosto 1967, san Paolo VI ha confermato la competenza generale del dicastero missionario come organo centrale della Chiesa, e nel contempo ne ha cambiato il nome in «Congregatio pro gentium evangelizatione seu de Propaganda Fide» (Congregazione per l’evangelizzazione delle genti o di Propaganda Fide, ndr). Paolo VI aveva ben capito che il nome «Propaganda» non era più adeguato: la missione della Chiesa non è «la propagazione della fede», ma «l’evangelizzazione dei popoli». Il passaggio è dalla propaganda al servizio, dall’imposizione al dono gratuito, dall’obbligo alla libertà.
Papa Francesco, con la costituzione apostolica Praedicate Evangelium del 19 marzo 2022, ha istituito il «Dicastero per l’evangelizzazione», presieduto direttamente dal pontefice, composto dalla sezione per le questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo e dalla sezione per la prima evangelizzazione e le nuove chiese particolari. La prima sezione raccoglie l’eredità di Propaganda Fide, dalla seconda dipendono alcune circoscrizioni ecclesiastiche delle Americhe, quelle di quasi tutta l’Africa, dell’Asia (ad eccezione delle Filippine) e dell’Oceania (ad eccezione dell’Australia). Attualmente ci sono 1.117 circoscrizioni ecclesiastiche (arcidiocesi, diocesi, vicariati apostolici, prefetture apostoliche, ecc.) sotto la competenza del dicastero missionario, con l’obiettivo di ritrovarsi come unità.
Padre Ardura ha sottolineato che la Praedicate Evangelium mette in luce un aspetto preciso: l’impegno per una nuova evangelizzazione nei territori dove è arrivato storicamente l’annuncio, ma dove non ci sono più, nelle nuove generazioni, evidenze di cristianizzazione.
Quattro secoli di missione nel mondo
Gli studiosi intervenuti hanno cercato di rispondere alla seguente domanda: «Qual è stato l’impatto di Propaganda Fide nei cinque continenti in questi 400 anni di esistenza e di missione evangelizzatrice, e quali sono state le figure della Congregazione che hanno marcato questi quattro secoli?».
Si è trattato di offrire «una rilettura storica delle origini istituzionali di Propaganda Fide, ponendo in rilievo le istanze dei pontefici tra il XVI e il XVII secolo, soffermandosi su alcune rilevanti figure di prefetti (il capo di una congregazione è chiamato «prefetto», ndr) tra il Settecento e il Novecento, per poi porre in evidenza la feconda apertura del cattolicesimo a una dimensione universale, che in Propaganda Fide ravvisa al contempo un testimone privilegiato e un pionieristico attore».
In sintesi, come ha posto in rilievo il cardinale Luis Antonio Tagle, nel discorso inaugurale, l’obiettivo del convegno è stato quello di capire il passato e il presente attraverso le testimonianze di prima mano.
Gli elementi qualificanti
La professoressa Françoise Fauconnet-Buzelin ha messo in evidenza la grande importanza che ebbero «Les instructions de la S. Congregatio de Propaganda Fide», documento redatto nel 1659 che può essere definito la «magna carta» delle missioni moderne, perché condensa le linee essenziali della strategia missionaria: la proibizione ai missionari di intervenire nella vita politica e di partecipare ad attività commerciali, la necessità di fornire agli stessi una preparazione scientifica e spirituale, la creazione di un clero indigeno e l’adattamento alle culture native.
1. impegno culturale e scientifico
Urbano VIII, con la bolla Immortalis Dei Filius del 1° agosto 1627 fondò il «Pontificio ateneo de Propaganda Fide», con le facoltà di Filosofia e Teologia per la formazione di base dei missionari. Il 1° settembre 1933 la Congregazione dei seminari e delle università degli studi creò il «Pontificio istituto missionario scientifico», per offrire un’ulteriore specializazzione garantita da gradi accademici nelle discipline missiologiche e giuridiche. L’università ha sede sul Gianicolo, a due passi dal Vaticano, e ospita le facoltà di Teologia, Filosofia, Diritto Canonico e Missiologia (per missionari e sacerdoti di tutte le parti del mondo) e, dal 1976, anche l’Istituto di catechesi missionaria. L’Università oggi è frequentata da circa 2mila studenti, con un corpo docente di circa 170 professori. Uno dei suoi gioielli è la Biblioteca missionaria che contiene circa 350mila volumi, e dal 1933, ogni anno, pubblica un’apprezzata «Bibliografia missionaria» che cataloga tutte le pubblicazioni sul tema a livello mondiale.
2. un collegio per la formazione
Gli stessi motivi apostolici che ispirarono l’istituzione di «De Propaganda Fide» furono all’origine dell’erezione del «Pontificio collegio de Propaganda Fide», conosciuto come Collegio Urbano, nel 1627. L’obiettivo era chiaro sin dall’inizio, ha sottolineato il padre Leonardo Sileo, rettore della Pontificia Università Urbaniana: essere una residenza per accogliere e formare al sacerdozio e alla missione giovani provenienti dai vari continenti e da differenti riti cristiani (in specie quelli orientali) con una speciale attenzione alla conoscenza e allo studio delle lingue e delle culture del mondo.
A partire da questa esperienza, Propaganda Fide ha fondato dei collegi per la formazione del clero locale anche nelle «terre di missione». Tale il caso del Collegio di Zacatecas, in Messico, che ha cominciato a funzionare nel 1707.
Propaganda Fide ha poi portato migliaia di giovani a Roma da paesi lontani per sostenere la loro formazione, senza stravolgere le culture d’origine, e farli tornare alle comunità di provenienza. Questo può essere considerato anche uno straordinario esperimento, «un contributo alla comprensione reciproca e al rispetto tra popoli e culture», iniziato secoli prima degli scambi e dei programmi «Erasmus» attivati dalle moderne istituzioni accademiche e universitarie.
3. Incontrare altri popoli e culture
Nei secoli in cui il colonialismo europeo invadeva il mondo ed esportava ovunque l’idea di superiorità dell’Europa, Propaganda Fide seguiva la strada opposta. «Non la superiorità di qualcuno – bianco, europeo e occidentale -, ma l’uguaglianza e la pari dignità di tutti», come ha detto il professor Giampaolo
Romanato del «Pontificio comitato di scienze storiche». Di questo approccio ha dato testimonianza anche il principio sempre affermato che il missionario «deve imparare la lingua locale, per quanto difficile e lontana essa sia». Perché «parlare la lingua dell’interlocutore è la via maestra affinché egli si senta trattato alla pari», e non debba sentirsi ridotto a una condizione di sudditanza.
Propaganda Fide è la prima istituzione «globale», in essa i flussi di scambio informativo che da secoli vi si attivano sono finalizzati non a gestire la «politica alta», ma ad affrontare l’esistenza quotidiana di persone e comunità.
4. Unità di dottrina, fede e liturgia
Nell’incontro con l’altro, Propaganda Fide si confrontava con la diversità delle culture, delle forme politiche, delle civiltà, delle lingue, in un tempo in cui le distanze e i pericoli nei viaggi rendevano precario lo scambio delle informazioni. Nello stesso tempo doveva promuovere l’unità cattolica di dottrina, fede, liturgia. Come ha ricordato il professor Burigana, nel parlare di «Propaganda Fide e il mondo della riforma», i missionari arrivati in Estremo Oriente, oppure nelle regioni americane più impervie come le Ande o l’Amazzonia, avvicinavano popolazioni «radicalmente diverse, con forme di civiltà e lingue a loro sconosciute». I quesiti che si ponevano rendevano evidente che «la verità del cattolicesimo romano era chiamata a confrontarsi con queste radicali diversità. Bisognava trovare soluzioni in grado di conciliare l’unità della stessa fede, e della teologia che la esprimeva, con la diversità delle lingue, e la molteplicità delle sensibilità». Salvare l’unità abbracciando la molteplicità fu il compito spesso gravoso affidato a Propaganda Fide, chiamata sempre a esercitare una grande disponibilità all’adattamento e a trovare soluzioni nuove per situazioni non previste, e neppure prevedibili, in Europa.
Un lavoro enorme che «incise anche sul Diritto canonico», con l’emergere di una specifica sezione dedicata al «Diritto missionario» che «divenne una sorta di regno dell’eccezione e della tolleranza rispetto alla normativa vigente nella Chiesa latina», ha continuato il professor Romanato.
Tipografia poliglotta
L’utilizzo della stampa fu deciso nella Congregazione (assemblea, ndr) generale di Propaganda Fide tenutasi il 3 giugno 1626. Il cardinale Francesco
Ingoli, uomo di cultura e di riconosciute competenze linguistiche, era fortemente convinto che il neonato dicastero dovesse provvedere, tra i suoi compiti principali, alla stampa di libri nelle diverse lingue che fossero utili ai missionari, i quali avevano bisogno di testi della Sacra Scrittura e della Dottrina cattolica che fossero redatti nella lingua dei popoli a quali erano stati mandati. Si pubblicavano così documentazioni che davano un quadro completo dell’attività missionaria della Chiesa cattolica a metà del XVII secolo, sia per far conoscere ai missionari sparsi nel mondo quanto veniva fatto a Roma, sia per rendere partecipe Roma, e la Chiesa in generale, di quanto facevano i missionari.
La controversia dei riti in Asia
Il tema della controversia dei riti in Asia è stato affrontato dal professor Benedict Kanakappally. L’introduzione del cristianesimo in Asia a fine Cinquecento vide due modelli di evangelizzazione. Da una parte quello dei missionari (uno dei più noti è padre Matteo Ricci, di cui nel 2022 si è aperta la causa di beatificazione, ndr)) che ritenevano che il cristianesimo dovesse inculturasi e accettare espressioni linguistiche e riti (come certe manifestazioni del culto dei morti) delle culture locali, ad esempio in Cina (riti cinesi) e in India (riti malabarici). Dall’altra, quello di chi sosteneva con forza che i nuovi cristiani dovessero abbandonare tutte le tradizioni locali per abbracciare solo il modello cattolico che valeva per tutto il mondo. Questi ultimi consideravano la pratica dei riti cinesi e malabaresi una «superstizione» incompatibile con la dottrina cattolica.
I missionari avevano affrontato il problema dell’adattamento a civiltà lontane e cercato di mediare fra la propria cultura e quella locale, soprattutto in Giappone, Cina e India; tuttavia, vi fu la condanna dei riti cinesi (la prima nel 1645), poi di quelli malabaresi.
Nel 1659 Propaganda Fide inviava ai Vicari apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina, un’istruzione in cui si leggeva tra l’altro: «Cosa potrebbe essere più assurdo che trasferire in Cina la civiltà e gli usi della Francia, della Spagna, dell’Italia o di un’altra parte d’Europa? Non importate tutto questo, ma la fede che non respinge e non lede gli usi e le tradizioni di nessun popolo, purché non siano immorali, ma vuole piuttosto salvaguardarli e consolidarli». Propaganda Fide fu, dunque, esempio di integrazione religiosa.
La questione delle lingue
Un altro contributo di Propaganda Fide fu dato alla questione dello studio delle lingue che ha sempre cercato di diffondere tra i missionari sia che fossero essi religiosi o diocesani. Nel processo di evangelizzazione è indispensabile «la conoscenza degli idiomi delle varie parti del mondo nello sforzo di comunicare con le varie popolazioni allo scopo di ottenerne la conversione oppure di mantenerle nella fede cristiana, potendo in tal modo istruirle adeguatamente nei principi dottrinali e nella pratica di un comportamento canonicamente corretto».
Domande aperte
Il professor Romanato nel discorso conclusivo ha affermato: «C’è un punto mai smentito nella “politica missionaria” di Propaganda Fide: la pari dignità di ogni cultura, l’obbligo di usare le lingue locali e di non imporre la propria. La necessità di portare nel mondo la fede e non la cultura occidentale». Questi tratti, come si è visto durante il Convegno, hanno segnato la vicenda storica della Sacra congregazione «de Propaganda Fide» fin dalla sua istituzione.
Propaganda Fide ha avuto un suo percorso nei suoi quattro secoli di vita, ma oggi vede aprirsi davanti a sé nuove sfide.
Bisognerà, dunque, rispondere alle domande poste inizialmente dal cardinale Luis Antonio Tagle, attuale prefetto del nuovo Dicastero per l’evangelizzazione, e che propongo come domande conclusive sulle quali meditare: «Chi racconterà la storia di Gesù? Quali parole e quali strade si troveranno per raccontarla nei nuovi mondi contemporanei segnati dall’intelligenza artificiale e digitale, dall’estremismo polarizzante, dall’indifferenza religiosa, dall’immigrazione forzata, dai disastri climatici?».
Afonso Osorio Citora*
* Missionario della Consolata mozambicano, lavora al servizio del Dicastero per l’evangelizzazione.
«Euntes in mundum universum»
Dal 16 al 18 novembre 2022 si è svolto, presso l’aula magna «Benedetto XVI» della Pontificia università Urbaniana, sul Gianicolo a Roma, il Convegno internazionale: «Euntes in mundum universum» per celebrare il IV centenario dell’istituzione della «Sacra congregatio de Propaganda Fide» (1622-2022). Ogni giorno c’erano più di 500 partecipanti tra professori, studiosi e studenti. I relatori sono stati 24 provenienti da nove nazioni dei cinque continenti e hanno sottolineato l’importanza di «Propaganda Fide», cercando di rispondere alla domanda: «Qual è stato l’impatto di Propaganda Fide nei cinque continenti in 400 anni di esistenza e di missione evangelizzatrice e quali sono state le figure della Congregazione che hanno marcato questi quattro secoli?».
Il Convegno è stato diviso in 5 sessioni sui seguenti temi:
la Congregazione de Propaganda Fide: evangelizzazione e missione;
figure chiave e configurazione istituzionale;
al servizio della fede e dei popoli in tutti i continenti;
dal conflitto al dialogo;
l’incontro con le culture.
Af.Os.Ci.
Cop27, un passo avanti necessario ma insufficiente
La 27ª Conferenza delle parti di Sharm el-Sheikh si è conclusa con un accordo per compensare i paesi del Sud del mondo, i meno responsabili delle emissioni, per i danni che il cambiamento climatico sta causando nei loro territori. Ma sulla mitigazione non si è andati oltre la Cop26 di Glasgow, che era stata troppo debole sull’eliminazione dei combustibili fossili.
Una sintesi efficace di questa Cop27 l’ha tracciata Manuel Pulgar-Vidal, che aveva presieduto l’edizione 2014 del vertice, la Cop20, e ora è il responsabile del clima per il World wide fund for nature, Wwf (già World wildlife fund): «L’accordo su perdite e danni è un passo avanti», ha detto Pulgar-Vidal al New York Times, ma il fondo di compensazione che l’accordo crea «rischia di diventare un “fondo per la fine del mondo” se i paesi non si muovono più veloci per ridurre drasticamente le emissioni. Non possiamo permetterci un altro vertice sul clima come questo»@.
L’accordo su perdite e danni (loss and damage, in inglese)@ prevede l’istituzione di un fondo che compensi i paesi più poveri e vulnerabili per i danni provocati da disastri climatici che le emissioni dei paesi ricchi e il conseguente aumento delle temperature hanno contribuito a rendere più frequenti e intensi.
L’accordo rappresenta una svolta nel lungo e duro scontro fra gli stati del Sud del mondo, che da decenni sollecitano i paesi industrializzati a pagare per i danni causati al clima dalle loro economie, e le potenze come Usa e Ue, decise a evitare che queste compensazioni vengano viste come un’ammissione di responsabilità e per questo dovute per decenni a venire.
Un comitato di transizione, composto dai rappresentati di 14 paesi in via di sviluppo e 10 paesi sviluppati, avrà dunque l’incarico di preparare nel corso del 2023 tutte le raccomandazioni per creare il fondo e regolarne la gestione, in modo che possano essere discusse e adottate durante la Cop28 e che il fondo stesso diventi operativo nel giro di un paio di anni. Le risorse necessarie per le compensazioni, riportava Ferdinando Cotugno su Domani del 21 novembre 2022, «potrebbero essere tra i 300 e i 500 miliardi di dollari all’anno già entro la fine di questo decennio»@.
I paesi già colpiti
«Abbiamo lottato per 30 anni su questa strada», ha detto la ministra per il clima del Pakistan, Sherry Rehman, rivolgendosi al presidente della Conferenza, il diplomatico egiziano Sameh Shoukry, nella plenaria conclusiva, «e oggi a Sharm el-Sheikh questo viaggio ha raggiunto il suo primo traguardo positivo. Signor presidente, lei ci ha promesso una Cop di implementazione e ce l’ha data. Per questo mi congratulo con lei e con tutti noi»@.
In molti si aspettavano in realtà una Cop di transizione e il fatto che sia stata presa una decisione come quella sulle compensazioni è in effetti un successo inatteso. La posizione del
Pakistan era quest’anno più dura e significativa, poiché il paese ha subito una delle peggiori catastrofi naturali della sua storia, con alluvioni che hanno sommerso un terzo del territorio, causato oltre 1.100 morti e provocato danni per circa 30 miliardi di dollari. Come presidente di turno della coalizione G77, che riunisce dal 1964 i paesi in via di sviluppo e ha il sostegno della Cina, il Pakistan ha guidato con successo lo sforzo negoziale affermando che riconoscere e risarcire le «perdite e i danni non è beneficenza, ma giustizia climatica»@. Gli scienziati che si occupano di clima e che hanno analizzato gli eventi estremi che hanno colpito il Pakistan si stanno mostrando abbastanza concordi nell’affermare che il riscaldamento globale ha avuto un ruolo non nel determinare il fenomeno – i monsoni, e le piogge abbondanti che questi portano, sono ricorrenti in Pakistan e la loro intensità subisce notevoli variazioni di anno in anno – ma nell’aumentarne la portata, incrementando la quantità di acqua evaporata dall’oceano che si è poi accumulata nell’atmosfera e ha intensificato le precipitazioni. Carbon Brief, un sito web britannico che si occupa di riscaldamento globale e temi connessi, ha una mappa del pianeta interattiva che mostra gli eventi meteorologici estremi legati al cambiamento climatico, quelli che non hanno con questo nessuna connessione e quelli per i quali i dati sono insufficienti per stabilire o escludere un legame@.
Mitigazione, pochi progressi
Al momento, il mondo si trova su una traiettoria che lo porterà a un riscaldamento fra i 2,1 e i 2,9 gradi celsius entro la fine di questo secolo. Ogni frazione di grado in più rischia di esporre ulteriori milioni di persone a ondate di caldo, scarsità di acqua e inondazioni costiere dagli effetti potenzialmente letali@. Mantenere il riscaldamento del pianeta non oltre 1,5 gradi significa evitare che aumenti la frequenza con cui si presentano i fenomeni più estremi. Mezzo grado può sembrare poco, ma secondo le stime sarebbe sufficiente perché la quota di popolazione mondiale colpita da ondate di caldo estremo almeno una volta ogni cinque anni passi dall’attuale 14% al 37%@.
Per mitigare il cambiamento climatico, cioè prevenirne gli effetti e non solo limitarsi ad adattarsi a essi, il solo modo efficace è ridurre le emissioni. Ma su questo punto la Cop27 non è andata oltre i risultati ottenuti a Glasgow nella conferenza precedente. Anzi, come ha commentato durante la plenaria conclusiva un deluso Frans Timmermans, vicepresidente dell’Unione europea@, durante le negoziazioni ci sono stati troppi tentativi di tornare indietro rispetto alla già poco incisiva Cop26@.
L’Ue ha ottenuto il solo risultato di imporre il mantenimento della soglia di 1,5 gradi come limite accettabile per il riscaldamento globale. «Viviamo già in un mondo con un cambiamento di 1,2 gradi e questo mondo è già invivibile per molti», ha concluso Timmermans, «non possiamo fallire di nuovo nel tentativo di evitare il peggio».
Il ruolo dell’Egitto
Un dato che rischia di non apparire in tutto il suo peso a chi osserva questi vertici dall’esterno è il ruolo decisivo degli aspetti organizzativi e logistici, a cominciare dal ruolo centrale del paese ospitante, che guida le negoziazioni e determina l’agenda.
Se alla Cop27 si è parlato tanto di perdite e danni, fino a raggiungere un importante accordo, è perché questo tema è molto sentito dai paesi a medio e basso reddito, e l’Egitto e uno di essi. Per questo la presidenza egiziana della Cop27 ha dedicato tempo e sforzi a raggiungere un obiettivo condiviso con altri paesi del Sud del mondo, mentre ha messo in secondo piano la mitigazione e la riduzione dei combustibili fossili.
L’Egitto ha fatto di più che trascurare la mitigazione: ha portato avanti la propria agenda di paese esportatore di gas. «Sotto diversi punti di vista», scriveva Ferdinando Cotugno su Domani il 13 novembre scorso, «la Cop27 per l’Egitto sta andando benissimo: partnership energetiche, affari d’oro e incontri bilaterali di prestigio»@.
La prossima Conferenza delle parti, Cop28, si svolgerà a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, uno dei dieci più grandi produttori mondiali di petrolio, e molti stanno già ipotizzando che sarà un’altra conferenza non abbastanza incisiva per la riduzione delle emissioni.
Chiara Giovetti
Come cooperavamo cinquant’anni fa
Negli anni Settanta la rivista Missioni Consolata aveva una rubrica che si chiamava «Appelli dal fronte», attraverso la quale presentava ai benefattori una realtà in missione e chiedeva il loro sostegno per risolvere un problema.
Cinquant’anni fa, nel gennaio del 1973, «Appelli dal fronte» era dedicata a Materi, villaggio nella centrale regione del Meru, ai piedi del monte Kenya. Padre Maggiorino Botta chiedeva ai suoi benefattori di aiutarlo a comprare una pompa, il motore, le tubature e i serbatoi per pompare l’acqua dal fiume Mutunga visto che nella zona, «arida e torrida», non c’era alcuna sorgente. Costo dell’iniziativa: due milioni di lire.
Oggi Matiri (pronunciato Materi ma scritto Matiri secondo la dizione inglese, ndr), gode ancora della presenza dei Missionari della Consolata. Vi prestano servizio due missionari keniani, i padri Stephen Murungi e Matthew Kirema, che seguono la comunità parrocchiale e trenta comunità periferiche.
Scrive Naomi Mwingi, dell’ufficio progetti dei Consolata fathers a Nairobi: «La maggior parte delle attività missionarie sono tuttora di prima evangelizzazione: le persone di questa zona sono ancora profondamente radicate nelle loro credenze e tradizioni culturali, che includono la stregoneria, le mutilazioni genitali femminili e la poligamia.
Il centro sanitario Matiri è sotto la gestione della diocesi di Meru, mentre la scuola elementare e la scuola tecnica sono gestite dalla parrocchia di Matiri; vi sono inoltre altre scuole private. La siccità, che colpisce buona parte del Kenya (20 contee, soprattutto del Nord, su 47), sta peggiorando la situazione in tutta la contea di Tharaka Nithi dove si trova Matiri: i fiumi si prosciugano e i residenti vanno a dormire a stomaco vuoto.
Per questo, la Chiesa cattolica di Matiri ha un programma di emergenza alimentare per sostenere le famiglie più colpite dalla siccità.
L’orto esiste ancora, ma data l’aridità della zona richiede costantemente acqua, che arriva ancora oggi alla missione e alla comunità circostante dal fiume Mutunga, oltre un centinaio di metri più in basso. Non ci sono pozzi d’acqua nella missione che è riuscita ultimamente a sostituire la vecchia pompa a motore con una a energia solare, ma questa pompa ha avuto qualche problema, che ora i missionari stanno cercando di risolvere».
Chi.Gio.
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2023, anno del miglio
Su proposta del governo dell’India, le Nazioni Unite hanno proclamato il 2023 anno internazionale del miglio. Anzi, dei vari tipi di miglio: caratterizzati da un alto valore nutritivo, si legge sul sito delle notizie delle Nazioni Unite. Essi sono un gruppo di graminacee a seme piccolo coltivate principalmente nelle zone aride dell’Asia e dell’Africa. Includono sorgo, miglio perlato, miglio indiano, fonio, panìco, teff e altre varietà più piccole.
L’Onu porta quest’anno il miglio al centro dell’attenzione per il ruolo che potrebbe giocare nell’attuale crisi climatica: si tratta infatti di un cereale che, rispetto ai più noti frumento, riso o mais, è in grado di crescere in condizioni più difficili, di siccità e di precipitazioni molto scarse, e ha una bassa impronta idrica.
Può, inoltre, contribuire a soddisfare i bisogni nutrizionali di un pianeta che, nel 2030, avrà 8,5 miliardi di abitanti e 9,7 miliardi nel 2050: è infatti ricco di vitamine e minerali, tra cui ferro e calcio, di proteine, di fibre, di amido resistente e ha un basso indice glicemico, che può aiutare a prevenire o gestire il diabete@.
Chi.Gio.
Cristiani e musulmani: una parola comune
A partire dal documento firmato nel febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb, un libro che segue le recenti tappe del dialogo tra le due più diffuse religioni al mondo, ricco di sfide difficili, ma belle.
Anche nel nostro tempo segnato da secolarizzazione e pluralismo, le religioni hanno un ruolo importante per la costruzione di un rapporto pacifico tra le culture.
Un segno di questo è la rilevanza assunta dal Documento di Abu Dhabi, poche pagine firmate da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar, il 4 febbraio 2019, nell’ottavo centenario dell’incontro di san Francesco d’Assisi con il sultano d’Egitto.
Ne parlano nel loro volume: Per una fratellanza umana. Cristiani e musulmani uniti nella diversità, edito da Paoline nel 2021, Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba, e Antonio Cuciniello, assegnista di ricerca in studi islamici, entrambi presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.
I due autori rileggono quel documento sotto il profilo dei rapporti tra la Chiesa cattolica e i musulmani, e lo inquadrano nel percorso compiuto negli ultimi decenni, indicandone gli orientamenti di fondo: il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità, la sincerità delle intenzioni (papa Francesco); il «proclamare con chiarezza ciò che abbiamo in comune» (Benedetto XVI); infine i quattro livelli della solidarietà spirituale enucleati da padre Maurice Borrmans, islamista francese e missionario dei Padri Bianchi: il dialogo dei cuori; il dialogo della vita; il dialogo audace su Dio e sull’uomo; il coraggioso dialogo del silenzio, in cui Dio parla al cuore di ciascuno.
Gli autori Barca e Cuciniello ripercorrono, quindi, alcune delle tappe del dialogo islamocristiano che hanno fatto maturare il Documento di Abu Dhabi.
Scrivono della Lettera aperta a sua santità papa Benedetto XVI inviatagli da trentotto sapienti musulmani nel 2006 dopo il suo famoso discorso di Ratisbona (per il quale il trascendentalismo islamico separava fede e ragione). In essa ribadivano che «l’unità di Dio, la necessità di amarlo e la necessità di amare il prossimo sono il terreno comune tra islam e cristianesimo», ricordando che Corano 16,125 invita i musulmani al dialogo con ebrei e cristiani.
I due studiosi della Cattolica ricordano poi la lettera indirizzata nel 2007 da 138 esponenti musulmani a capi religiosi cristiani, intitolata Una parola comune tra noi e voi, citazione del Corano 3,64: «Veniamo a una parola comune tra noi e voi». In essa si sostiene che le differenze tra le religioni non devono provocare odio e conflitto, ma il «gareggiare nelle opere buone» (Corano 5,48).
Nel 2016, trecento personalità musulmane da centoventi paesi, nella Dichiarazione di Marrakech sui diritti delle minoranze religiose nei paesi a maggioranza musulmana, auspicavano una «giurisprudenza della cittadinanza» come base comune per superare le discriminazioni religiose.
Infine, nel Documento di Abu Dhabi, breve e semplice, cristiani e musulmani hanno indicato insieme i valori che li accomunano e che appartengono anche all’etica laica delle dichiarazioni moderne dei diritti.
La fratellanza umana, in tutte le spiritualità, sostiene la dignità di poveri, deboli, vittime.
«In nome di Dio», musulmani e cristiani riconoscono questa fraternità e la cultura del dialogo.
Il pluralismo religioso è parte della volontà di Dio. I linguaggi religiosi orientano, più che definire. Il concetto occidentale di laicità è espresso col termine arabo che significa «civile», né militare, né confessionale.
In particolare, «Dio ha proibito di uccidere, perché chiunque uccide una persona è come se uccidesse tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se salvasse l’umanità intera», detto ebraico, poi islamico, ora anche cristiano, che suggerisce oggi l’illiceità di ogni guerra, incapace di realizzare giustizia.
Nel Documento sono affermati anche i diritti della donna.
Nasce un islam europeo che non è più solo importato. In Italia sono 2,7 milioni i musulmani residenti, tra cittadini italiani e stranieri.
Le giovani donne musulmane a scuola studiano più degli uomini, rispettano i genitori, ma non si riconoscono nel modello materno: cercano un compagno di vita da pari a pari. Se mettono il velo, lo fanno per scelta.
Nello stesso 2019, la dichiarazione, Una fratellanza per la conoscenza e la cooperazione, delle maggiori rappresentanze musulmane di Italia e Francia, ha aderito al Documento di Abu Dhabi e ha istituito, in scuole e università, consigli culturali per un patto educativo globale interreligioso.
Enrico Peyretti
Per approfondire
Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale. Guida alla lettura di Giacomo Costa, Elledici 2021.
Teologia del pluralismo religioso, Pazzini Editore 2013.
Il Corano. A cura di Layla Mustapha Ammar. Introduzione, traduzione e commento di Alessandro Bausani, BUR, 2006.
Cristianesimo e Islam in dialogo, Claudiana 2004.
Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi 2003.
Storie italiane di buona convivenza, EDB 2004.
Vite e detti di santi musulmani, TEA 1988.
Detti e fatti del profeta dell’Islām, Utet 2009.
Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 2004.
Per un consenso etico tra culture, Marietti 1995.
Librarsi per la pace
Inizia con questo numero una nuova collaborazione tra Missioni Consolata e il Centro studi Sereno Regis. In un tempo di generale «chiamata alle armi», sentiamo il bisogno di tutti i contributi possibili per far crescere la cultura della pace.
I l Centro studi Sereno Regis (Cssr) è uno spazio culturale nato a Torino nel 1982 dall’iniziativa di alcune persone impegnate nei campi della pace, nonviolenza, obiezione di coscienza, disarmo, ma anche dell’ambiente, educazione e partecipazione dal basso (ad esempio con il sostegno al sorgere dei comitati di quartiere).
È oggi uno dei più importanti e riconosciuti centri italiani di documentazione e promozione della cultura della nonviolenza e della trasformazione nonviolenta dei conflitti con un patrimonio archivistico unico nel suo genere.
La «mission»
La mission del Cssr si declina in tre ambiti trasversali: ricerca, formazione e azione, e prevede un forte investimento nella condivisione del suo patrimonio archivistico e dei suoi studi, attraverso un programma di attività mirate a intensificare la relazione con il territorio e al coinvolgimento di ampi settori della società con un approccio libero, inclusivo e cooperativo.
La programmazione culturale, che si fonda sull’utilizzo di discipline diverse in dialogo tra loro (tra cui, ad esempio, le arti e il cinema, oltre alle iniziative educative, alle analisi offerte in convegni, e così via), è indirizzata all’approfondimento, alla discussione, al confronto sui temi cardine dell’ambiente, della pace, del dialogo, della partecipazione democratica.
Domenico Sereno Regis
Il Centro studi prende il nome da uno dei suoi fondatori, scomparso prematuramente nel 1984, Domenico Sereno Regis, partigiano nonviolento e, tra le altre cose, instancabile animatore dei primi comitati di quartiere nella Torino del dopoguerra. Il tema della partecipazione consapevole e diffusa, infatti, è da sempre una cifra della vita associativa del Centro. Facilitare i processi partecipativi, dare voce a chi non ne ha, accompagnare lo sviluppo di associazioni e movimenti verso il raggiungimento dei loro obiettivi, fa parte delle competenze che negli anni l’associazione ha sviluppato insieme all’approfondimento delle «tecnologie sociali» che permettono a questi processi di raggiungere i propri obiettivi con inclusività ed equità.
Nonviolenza e riconciliazione
Le figure di Domenico Sereno Regis (1921-1984) e di Nanni Salio (1943-2016), quest’ultimo presidente del Centro studi fino alla sua scomparsa, hanno dato le radici culturali e impersonato le motivazioni politiche e filosofiche dell’associazione.
L’ambito socioculturale di riferimento nel quale il Centro studi si riconosce è quello più ampio e complessivo del Movimento internazionale della riconciliazione (Mir) e del Movimento nonviolento (Mn), a livello internazionale rappresentato dall’Ifor (International fellowship of reconciliation, sei premi Nobel per la pace), di cui il Mir è la sezione italiana, e dalla War resisters’ international, di cui è sezione italiana il Movimento nonviolento.
Luca Lorusso e Cssr
MIR E MN
Il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione) opera congiuntamente al Mn (Movimento nonviolento).
Sulla base dell’insegnamento dei maestri della nonviolenza (Gandhi, M. L. King e Aldo Capitini) il Mir è impegnato nella contestazione radicale della guerra e della dottrina militare, di un modello di sviluppo piramidale basato sulla rapina di risorse umane e naturali, di una democrazia formale che sancisce di fatto il sopruso del forte sul debole.
Persegue il fine di una società pacificata più che pacifica, dove cioè il conflitto venga risolto in modo nonviolento, ma non negato o rimosso. Per questo è attento alle dinamiche sociali, ai fatti politici locali e internazionali, a quanto si muove dal basso nella direzione di una crescita del «potere di tutti».
Gli strumenti del suo agire, in base al principio gandhiano della connessione tra mezzi e fini, rispondono integralmente ai criteri di verità, gradualità, lealtà verso l’avversario.
Il Mir, pur essendo di matrice religiosa, rispetta e valorizza la tradizione laica. Il Mn, pur essendo di matrice laica, rispetta e valorizza ogni fede religiosa.
Visitando recentemente i locali utilizzati da san Giovanni Bosco a Valdocco (Torino) all’inizio dell’opera salesiana, mi sono interrogato sull’impronta che il santo educatore dei giovani può aver lasciato sul nostro Giuseppe Allamano che trascorse ben quattro anni nell’Oratorio salesiano (1862-1866). Erano gli anni della giovinezza dell’Allamano, il quale, infatti, per tutta la vita avrebbe ricordato il tempo trascorso vicino a don Bosco.
Lo stile educativo di don Bosco si basava fondamentalmente su tre capisaldi: «Ragione, religione, amorevolezza». Per «ragione» egli intendeva la formazione umana e civile dei giovani, tesa a prepararli ad affrontare il futuro come cittadini responsabili. «Religione» significava formazione religiosa, senza forzature, impartita con nozioni di catechesi e soprattutto con l’esempio di vita dei formatori. L’«amorevolezza» era da lui considerata l’elemento caratteristico che doveva accompagnare ogni aspetto della formazione dei giovani. Vicinanza e accompagnamento paterno e affabile nei riguardi dei giovani – asseriva – servono più di ogni altra componente formativa.
Questi tre aspetti sono diventati, a mio parere, parte irrinunciabile del bagaglio personale dell’Allamano, tanto da essere poi da lui utilizzati sia con i sacerdoti del Convitto che con i membri dei suoi due istituti missionari. Egli esortava i suoi giovani missionari non solo allo studio serio ma anche all’esercizio del lavoro manuale. Scriveva a quelli che già lavoravano in territori di missione: «Nelle località in cui sia possibile iniziare a promuovere colture di prodotti necessari od utili al proprio sostentamento, i missionari si adoperino a darvi sviluppo. Il che sarà pure una buona scuola per far apprezzare agli indigeni i benefici di una vita laboriosa e stabile».
Il beato Allamano visse tutta la sua vita nell’impegno senza riserve per diventare santo e ai suoi missionari amava ripetere sovente: «Prima santi poi missionari». Ciò che lui viveva lo volle instillare nei suoi figli e figlie. Diceva loro: «Condizione assolutamente necessaria per tutti e in ogni tempo, è il desiderio, la volontà di santificarsi. Si fa santo colui che lo vuole. Questo si richiede: avere fame e sete della santità».
Ciò che tutti hanno sempre ammirato nell’Allamano era, infine, la sua dolcezza e amorevolezza. Se egli era fermo nei principi, era umanissimo nell’applicarli agli altri. Il forte senso di
paternità ne era il segreto. Il prossimo, prima di essere considerato un individuo da istruire o correggere, doveva essere amato. Verso tutti, soprattutto i giovani, si sentiva veramente un «padre».
padre Piero Trabucco
Murang’a 2
Dal 13 al 16 giugno 2022 si è svolto online il Convegno internazionale della famiglia Consolata «Murang’a 2», un evento per fare memoria della «Conferenza di Murang’a»: la missione del Kenya dove dal primo al tre marzo 1904, i primi missionari della Consolata, pieni di problemi all’inizio della loro esperienza in una terra sconosciuta, avevano deciso di fermarsi a pensare, a pregare, a preparare il futuro (vedi il dossier «Il sogno concreto» in MC 10/2022).
Un sogno realizzato
La Conferenza di Murang’a rappresenta una pietra miliare nella storia degli istituti dei missionari e missionarie della Consolata, in quanto ha elaborato una metodologia che costituisce le basi dello «stile consolatino» fondato sulla promozione umana e l’evangelizzazione, caratterizzato dalla formazione ed educazione tramite le scuole, il catechismo, i catechisti; sulla cura delle persone con i dispensari e gli ambulatori; sull’incontro interpersonale con la visita ai villaggi, lo studio delle lingue locali, la vicinanza ai popoli e alle persone, la formazione all’ambiente.
Murang’a 2 ha visto la partecipazione di 656 persone tra missionari, missionarie e laici della Consolata, e si è svolto nello spazio di quattro giornate imperniate ciascuna su una parola chiave: comunione, carisma, missione e sogno.
Come superiore generale, nel tirare le conclusioni di quel convegno, ne ho parlato come di «un sogno realizzato» che ci aiuta a riscoprire, quasi a reinventare, il carisma della vita consacrata rispondendo più direttamente ai bisogni e alle aspirazioni del nostro tempo pur restando fedeli al carisma del padre Fondatore.
Alla scuola di Allamano
I primi allievi e allieve, discepoli e discepole di Giuseppe Allamano videro sempre risplendere «un alone di santità» o di straordinarietà attorno alla sua figura e ai suoi gesti, anche minimi. Sentendosi amati e amate, «coccolati e coccolate» da lui, si diedero da fare per conservare tutto di lui (anche i capelli e i bottoni della sua veste), soprattutto il suo insegnamento, le sue calde raccomandazioni, lettere o bigliettini che volentieri scriveva a molti e a molte di loro.
Più passa il tempo, più Allamano cresce. Più si scava in profondità, più lo si ritrova ingigantito e presente. Questo prete, defunto da quasi un secolo, affascina e stimola ancora. Per noi, missionari e missionarie della Consolata «fa ancora notizia», non commemorazione, non rievocazione: fa ancora scuola. È lui, anche oggi, la novità, la spiegazione, l’attrattiva. Si va da lui non per visitare un monumento, ma per frequentare una persona viva, per ascoltare «un silenzioso che ha qualcosa da dire» (come lo ha definito suor Gian Paola Mina). Per riscoprire, ogni volta che ne sentiamo il bisogno, qual è la nostra vocazione, il nostro posto nella Chiesa, la nostra presenza nel mondo.
Tre perle
Desidero mettere in evidenza tre perle, tra le tante, dell’insegnamento di Allamano che possono orientare ancora:
«Fare bene il bene»: ossia, ricerca della qualità della vita. La qualità della vita viene indicata da Allamano, come «principio ispiratore» della nostra vita e missione. È soprattutto la qualità nell’essere e nel fare missione che vorremmo assumere come principio ispiratore del nostro futuro.
«Nella discrezione e semplicità»: la vita più che le parole del beato Fondatore ci insegna uno stile fatto di discrezione, semplicità e garbo. Sono atteggiamenti che nascono spontanei nella persona che si dona senza mirare a diventare centro d’attenzione, che punta a essere efficace nella sua azione senza giocare il ruolo di protagonista, che è semplice, accogliente dell’altro, aperta alla dimensione comunitaria.
Esprime questo stile allamaniano il missionario, la missionaria che ha la coscienza di essere servo e serva, che sa ritirarsi nel tempo opportuno senza pretese, che propone ma non impone, che conosce il valore della gratuità. Basta ricordare quanto di lui disse il giornale «Il Momento» il giorno dopo la sua morte: «Non era l’uomo dell’ostentazione. Non era l’uomo eloquente. Era l’uomo del silenzio operoso. Noi crediamo che la caratteristica di tutta la sua vita sia stata questa».
«L’amore alla gente»: «L’Allamano ebbe a cuore la gente, non tanto le idee. E credo che se tornasse per indicarci qual è la prima cosa che dobbiamo fare, continuerebbe a dirci: “Abbiate cura della gente; abbiate a cuore la gente. Beato te perché, quando verrai a visitarci per presentarci la santità di Dio, ci dirai ancora una volta che la prima cosa che dobbiamo fare è avere tanta tenerezza verso tutti quelli che incontriamo”» (don Dario Berruto, rettore del santuario della Consolata).
Ispirati a Murang’a
Siamo eredi di un passato, responsabili di un presente, costruttori di un futuro dalla nostra povertà. Solidali con i nostri popoli e tra noi, dobbiamo cercare di seguire il passo del Signore nel nostro oggi, qui e ora.
Il nostro metodo missionario è caratterizzato da vicinanza, incontro, dialogo e accompagnamento. La missione con i poveri aiuta a superare i rischi dell’autoreferenzialità, senza mai dimenticare che la missione nasce dall’incontro con Cristo. Il missionario, la missionaria, prima di tutto deve essere audace e creativo, al punto da ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi della missione, perché è necessario ripensare tutto alla luce di ciò che esige lo Spirito.
In questo sforzo per rispondere al Signore, contempliamo Maria, missionaria dei cammini di Dio nella storia, «Vergine magnanima del Magnificat», stella dell’evangelizzazione rinnovata. Ella è per noi modello di autentica missione.
padre Stefano Camerlengo
La carità nella verità
La vita e il genio di Giuseppe Allamano si esprimono in uno zelo ardente per vivere la verità di Cristo e promuoverne la presenza nelle persone, nelle culture, nella società e in ogni aspetto della vita quotidiana.
Nella vita della Chiesa occupa un posto di rilievo la storia delle varie spiritualità che sono come dei «tesori viventi» lasciati da individui arricchiti da Dio con un dono sacro e speciale di intuizione e di convinzione.
Papa Benedetto XVI, nell’enciclica «Caritas in veritate», ha affermato che verità e carità in Gesù «si rendono reciprocamente testimonianza, perché l’una non può stare senza l’altra». Anche Allamano si era già avventurato in un’appassionata ricerca per penetrare il significato di questa relazione in ogni aspetto della vita individuale e sociale. Un profondo e incondizionato amore per la verità è divenuto come l’ancora o il fondamento della sua spiritualità. Ne sono prova le sue parole ai missionari quando ha consegnato loro le prime Costituzioni dell’istituto nel 1923: «Ricevetele, o carissimi, non come dalla mia mano, ma dalla mano del Signore e della SS. Consolata che a questo istituto vi chiamarono, con vivo spirito di fede. Questo vi posso assicurare, che ogni singola regola, e non dubito di dire ogni singola parola, fu oggetto di serio studio, di lunghe considerazioni, specialmente di molte preghiere».
Vivere la carità nella verità è saggezza
La spiritualità allamaniana è l’antitesi della mentalità del «ghetto»: essa è fatta di sorgenti e ponti, non di muri e steccati. Allamano si deliziava a invogliare i suoi missionari a contemplare il vero, a dialogare con la gente, a capire la realtà locale con le sue culture. Uno dei suoi slogan era: «Ci vuole fuoco per essere apostoli». Sicuramente intendeva un fuoco nel dialogo con l’altro, che non sia un semplice scambio di vedute, ma una ricerca appassionata della verità.
In più Allamano era convinto che la ricerca intelligente della verità, quando non è fine a se stessa o sterile soddisfazione intellettuale, si orienta necessariamente alla missione, che ha come parte integrante la formazione e promozione umana degli individui e, di conseguenza, l’autentico progresso della società.
La spiritualità nella «pubblica piazza»
Per evangelizzare le persone nella «pubblica piazza», cioè nella società, ci vuole il vero fuoco missionario, non tiepidezze o mezze verità. Oggi, il secolarismo pervade la maggior parte delle società. Esso respinge la scuola di Dio, pone il Creatore fuori gioco, mettendo al centro la creatura.
Conoscendo lo spirito di Allamano, ecco quale sarebbe la sua denuncia al riguardo: distaccata dalla verità di Cristo, la persona afferra solo mezze verità, opinioni parziali e pregiudizi travestiti da dichiarazioni importanti e imperativi categorici. Così la sua condotta scivola nel compromesso permanente, che ottunde lo spirito. Gradualmente l’autentica libertà umana, che deriva dall’amore alla verità, si riduce a «scelte» parziali compiute in modo indiscriminato, quasi obbligatorie perché in voga, subito sostituite da altre nell’insaziabile ricerca di novità.
In questa mentalità secolarizzata Allamano ci invita ad aderire con tutte le nostre forze a ciò che è vero e buono. «Tutto faccio per il Vangelo» (1 Cor 9,23), e Allamano aggiungeva: «Tutto, tutto! Mi spenderò e mi sacrificherò». E continuava: «Non poniamo riserve o indugi nella dedizione di noi stessi per la salvezza delle anime… Ah, non sarà mai missionario chi non arde di questo fuoco divino!».
Fare il bene bene
Come possiamo realizzare la verità unita all’amore, che si rivela essere il fondamento indispensabile per il bene di ogni famiglia e di ogni comunità? Come ridare speranza alla società perché raggiunga il suo fine?
Allamano ci può aiutare anche in questo. La sua robusta spiritualità lo ha aiutato a dare risposte a queste domande. Egli ha cercato per prima cosa la coerenza e l’integrità della propria persona attraverso ciò che definisce «la necessità della scienza», intesa come continua ricerca della verità su Dio e sull’uomo. Ha così raggiunto una grande maturità, che lo ha reso idoneo a diventare l’uomo dell’amore verso gli altri, cioè l’uomo dell’aiuto e del consiglio.
Allamano ha proposto lo stesso suo percorso anche ai suoi figli: «Essendo voi missionari, la vostra scienza è molto più ampia: dovete attendere principalmente agli studi sacri e secondariamente allo studio ed esercizio dei lavori manuali, e poi del catechismo, delle lingue e di quelle nozioni che possono aiutarvi a fare in missione maggior bene».
Quando parlava di studio, Allamano non intendeva solo un’attività intellettuale, ma un impegno di ricerca e quindi di formazione progressiva e continua, che non fosse fine a se stessa, ma in funzione del servizio del prossimo.
La vera scienza porta a Dio e all’uomo in armonia con la natura. In questa prospettiva si comprende l’importanza che l’Allamano dava anche al lavoro manuale. Educarsi alla comprensione di ciò che costituisce il vero essere spirituale e morale di ognuno entra in quell’impegno che Allamano spiegava con l’espressione «fare il bene bene», in base al quale, mentre si conosce il valore immutabile di ogni persona, la si ama in modo concreto.
Questa intuizione è di grande attualità. Infatti, oggi la questione della verità della persona umana, della sua natura e dignità, si è come eclissata; diverse espressioni dell’amore umano appaiono banali e persino distorte. Al contrario Allamano insegna che l’amore, se si illumina con la fede e la verità, conduce l’uomo a un fine «alto», che garantisce una felicità duratura e indirizza alla società, che nella sua espressione più elevata diventa missione «ad gentes».
Thomas Ishengoma
Come i Magi, portando doni
Le celebrazioni del Santo Natale avvengono rispettivamente il 25 dicembre per i cattolici e il 7 gennaio per le chiese ortodosse e i greco cattolici. Tra queste due date don Leszek Krzyża ed io siamo stati nuovamente in Ucraina per portare aiuti umanitari e incontrare le comunità.
Dall’Italia sono partiti due grandi tir con destinazione rispettivamente Odessa e Karkhiv per un totale di oltre 35 tonnellate di aiuti, raccolti con un progetto realizzato dall’Associazione Eskenosen di Como, il gruppo SOS emergenza Ucraina Cantú, la Caritas della comunità pastorale San Vincenzo di Cantù, la parrocchia di Rebbio-Como e il sig. Francesco Aiani e alcuni amici di Milano grazie ai quali sono state raccolte tavole di legno per chiudere le finestre degli edifici bombardati, e anche generatori di corrente elettrica, cibo, medicine oltre a una cospicua somma devoluta per acquistare sul posto piccole stufe casalinghe. Noi stessi abbiamo trasportato sulla macchina sei piccoli generatori e scatole di medicinali. Il programma del viaggio è stato creato giorno dopo giorno tenendo conto dei continui combattimenti in alcune zone del paese e rispondendo ai tanti inviti, ma anche ricevendo in diretta garanzie e suggerimenti sulle strade da percorrere. I nostri spostamenti sono stati sempre seguiti dall’Ambasciata italiana a Varsavia così come dalla Nunziatura apostolica in Ucraina.
1° gennaio
Il primo dell’anno arriviamo a Leopoli in serata. Leopoli è una grande città vicina al confine polacco. Qui vivono centinaia di migliaia di profughi provenienti dalle regioni più colpite. Purtroppo, anche qui sono avvenuti bombardamenti soprattutto sulle centrali elettriche della città e provincia. Don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio aiuto alla chiesa nell’Est presso la Conferenza episcopale polacca, con cui viaggio, ha contatti in tutto il paese. Telefoniamo alle Suore Francescane di frate Alberto (Fratelli Albertini e Suore Albertine), una congregazione polacca, per chiedere ospitalità per una notte. La notte trascorre tranquilla.
2 gennaio
Al mattino ci raggiunge Rika Itozawa assistente di don Leszek, che era già in Ucraina da qualche giorno in un orfanotrofio visitato nei viaggi precedenti. Prima di lasciare la città le suore ci mostrano il complesso in costruzione che prevede una nuova parrocchia e una casa di accoglienza per giovani madri coi loro bambini. Molte sono le donne che soffrono non solo a motivo della guerra, ma anche per gravi problemi familiari. Qui fra poco potranno trovare conforto e iniziare una nuova tappa di vita. A fianco di questo centro, sempre in città, incontriamo i fratelli della stessa congregazione che quotidianamente distribuiscono cibo ai senza tetto e ai rifugiati (foto 1). Li salutiamo lasciando un’offerta e anche un nuovo tabernacolo comprato in Polonia per la nuova cappella.
Lo stesso giorno il nostro viaggio continua in direzione di Kiev. Raggiungiamo la capitale in serata accolti nella Nunziatura Apostolica. Kiev si trova nel centro del paese ed è il crocevia per tutte le direzioni delle città più importanti. Fino la notte precedente al nostro arrivo a Kiev sono stati lanciati molti razzi e droni, quasi tutti intercettati dalla contraerea. Infatti, la difesa ultimamente è molto migliorata e le percentuali degli abbattimenti sono molto alte. Purtroppo, i detriti non si possono controllare e a volte causano danni. Su uno di questi lanciato la notte di Capodanno c’erano scritti ironicamente gli auguri di buon anno. A sera facciamo un breve giro della città. (foto 2).
3 gennaio – Odessa
La mattina dopo, ristorati e riposati, partiamo per il Sud, destinazione Odessa, che raggiungiamo dopo poche ore di viaggio. La città che si affaccia sul Mar Nero è ricca di storia e di cultura, ed è il porto principale da cui partono gigantesche navi container che trasportano tonnellate di cereali per tutto il mondo. Da quando è scoppiata la guerra queste navi sono rimaste a lungo bloccate nel porto e questo ha innescato una gigantesca crisi con il rialzo dei prezzi in tutto il mondo. La zona del porto e la spiaggia sono minate, non sono accessibili e non si possono fotografare. Odessa deve difendersi dal tentativo di occupazione, vero obiettivo che garantirebbe il totale controllo del traffico marittimo. La nostra visita è breve. Incontriamo il vescovo locale mons. Stanislav Šyrokoradjuk, a cui lasciamo due generatori di corrente e una somma di denaro per gli aiuti da acquistare sul posto (foto 3). Qui deve arrivare a giorni uno dei due tir provenienti dall’Italia con un carico di generatori e di assi di legno. Vediamo solo velocemente la piazza centrale dove al posto della statua della zarina Caterina II oggi sventola la bandiera ucraina (foto 4). Questa città, infatti, come le altre vicine sulla costa, come Mykolaiv e Kherson, sono state costruite dai russi e ancora oggi la lingua più parlata qui è il russo. Queste premesse però non sono bastate alla popolazione locale per accettare l’occupazione, al contrario ci si difende con tutte le forze.
Da Odessa ci muoviamo per raggiungere in serata Mykolaiv, che è anche sulle sponde del Mar Nero. Sono molti i camion che incontriamo durante il viaggio che termina dopo due ore. Ci accoglie un confratello di don Leszek, don Alessandro, giovane prete ucraino parroco del Santuario di san Giuseppe, una delle due chiese cattoliche della città. Con don Alessandro vivono due suore benedettine. Questa zona e duramente provata dalla mancanza di corrente e di acqua. Il danneggiamento della struttura idrica obbliga l’uso della acqua salata marina che a causa dell’acidità del sale rovina spesso le condutture. Durante la notte suonano le sirene di allarme senza conseguenze. Qui è la quotidianità.
4 gennaio – Kyselivka
Il giorno successivo don Alessandro ci accompagna nel villaggio di Kyselivka, dove c’è la chiesa a lui affidata oltre al santuario dedicato a Maria Immacolata. Il villaggio di Kyselivka si trova a 40 km chilometri da Mykolayiv nell’oblast di Kherson. Lo spettacolo che incontriamo è desolante: tutto qui è distrutto. (foto 11) Dopo un’occupazione durata qualche settimana i russi sono indietreggiati per alcuni chilometri e da lì hanno lanciato in continuazione missili che hanno devastato tutto, chiesa compresa. Passeggiamo tra le rovine delle case incontrando solo cani magri e spaventati che scappano al vederci. La chiesa, che don Leszek venti anni fa aveva rinnovato, oggi è un ammasso di rovine essendo stata colpita da quattro razzi (foto 5-6). Un quinto razzo inesploso lo troviamo nei pressi. Avvertiamo i soldati presenti di modo che si adoperino per mettere in sicurezza il luogo. Sono tanti i colpi inesplosi così come le mine lasciate e che gli artificieri fanno brillare bonificando la zona (foto 12-13). In questo villaggio vivono pochissime persone che incontriamo con le suore e don Alessandro. Lasciamo a loro un generatore e dei vestiti invernali. (foto 7-8) Poi siamo invitati per una cena durante la quale cantiamo i tradizionali canti natalizi. Incontriamo una bambina sorridente che si avvicina. Ai piedi ha un solo pattino a rotelle. Le chiediamo dove sia l’altro pattino e lei ci risponde divertita: «a casa». (foto 9) Siamo accompagnati a vedere gli effetti dell’esplosione di un magazzino di concime altamente combustibile, il razzo che lo ha colpito a provocato un cratere largo decine di metri. (Foto 10)
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La sera concludiamo la giornata con una cena. Ci raggiunge il parroco di Kherson, la città sul fiume a poche decine di chilometri da Mykolayiv. Don Massimo è un giovane sacerdote diocesano parroco dell’unica chiesa cattolica di Kherson. La città liberata a novembre si trova sulla sponda sinistra del fiume Dnieper (o Dnipro), lì dove il fiume sfocia nel mar Nero. Dopo la liberazione l’esercito russo si è ritirato sulla sponda opposta del fiume e da lì continua incessantemente e colpire la città e i dintorni.
Don Massimo ci racconta di quando la vigilia di Natale due razzi hanno colpito la sua chiesa uno entrando dal tetto il secondo nella cantina. In chiesa cerano le donne che stavano preparando le feste natalizie. Miracolosamente i razzi non sono esplosi. Tuttavia, vediamo la preoccupazione del parroco nel diffondere questa notizia nel web con filmati che potrebbero essere vista dagli occupanti. Ci spiega infatti che se non è successo questa volta potrebbe accadere nuovamente con esiti ben peggiori. Anche a lui doniamo un generatore di corrente e un’offerta.
5 gennaio
Il mattino dopo ci rimettiamo in viaggio per attraversare il paese da Sud a Est con direzione Karkhiv. La strada che ci consigliano passa per le città di Krzywy Róg e di Dnieper, lasciando sulla destra la linea del fronte che passa per Zaporizhzhia.
Il viaggio è tranquillo. Ci fermiamo per un saluto a Krzywy Róg presso la comunità dei Salettiani. In questa città di miniere lunga ben 50 km, è stata aperta una mensa con l’aiuto della Protezione civile italiana che ha inviato una cucina. (foto 14)
La pausa è breve. Riprendiamo il viaggio per arrivare a Dnieper, la città che dà il nome al più grande fiume ucraino. Qui pranziamo presso la comunità dei frati Cappuccini. Sono molto ospitali. La città è senza energia elettrica. Neanche i semafori funzionano e questo rende il traffico caotico. Ci raccontano che da tempo stanno aspettando un generatore che mai arriva. Cogliamo l’occasione per lasciarne uno a loro dalla nostra macchina. Grande è la soddisfazione per questo dono, infatti l’unica illuminazione erano le lampadine di Natale collegate a delle normali batterie stilo. (Foto 15)
In serata, stanchi per il lungo viaggio sotto una pioggia battente, arriviamo a Kharkiw o meglio ci ritorniamo dopo due mesi. Siamo ospitati da don Wojciech, sacerdote polacco direttore diocesano della Caritas locale. Qui è previsto l’arrivo del secondo tir di aiuti umanitari.
6 gennaio
La mattina del 6 gennaio concelebriamo in cattedrale la messa dell’Epifania, festa che esprime l’università della salvezza portata da Gesù omaggiato dai Magi (foto 16). Tra i fedeli presenti c’è anche un soldato. Durante il pranzo con il vescovo locale siamo interrotti da alcune lontane esplosioni che solo il vescovo sente e che ci fa notare, essendo lui abituato da mesi. Con un mezzo sorriso, ci dice qui è la quotidianità. La città si trova a soli 30 km dal confine con la Russia.
Nel pomeriggio siamo accompagnati in macchina nei villaggi vicino al confine con persone che hanno l’autorizzazione a portare aiuti umanitari. Rapidamente la temperatura scende in poche ore fino a -20°. Lungo la strada che si dirige verso il confine vediamo i resti dei combattimenti. I russi infatti erano arrivati fino alla periferia della città per poi essere respinti al di là del confine. Il nostro autista, un volontario della Caritas, ci racconta molti dettagli. Tra questi ci mostra con orgoglio la foto del figlio pilota dei caccia ucraini, morto a 24 anni a soli due mesi dal matrimonio. Il papà lo ricorda senza emozionarsi mostrandoci le sue foto, facendo trasparire l’orgoglio per suo figlio che è stato premiato come eroe nazionale per aver evitato la caduta sulla città del suo aereo colpito, rinunciando a salvarsi la vita catapultandosi.(foto 17-18-19) (20-21-22)
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Visitiamo due famiglie tra le pochissime che ancora qui abitano. Ci raccontano che sono senza corrente dal febbraio scorso. Per scaldarsi usano una stufetta di ghisa mentre una batteria della macchina fornisce un minimo di energia per una lampadina (foto 23 e 24). Ci mettiamo alla ricerca di persone rimaste da sole nelle case. Per trovarle osserviamo se dai camini esce del fumo, segno della presenza in casa di qualcuno. Troviamo un uomo che dopo alcuni minuti apre la porta in risposta al nostro clacson e riceve così del cibo in scatola e, cosa importante, lascia il suo numero di telefono per mantenere un contatto coi volontari.
Il giorno successivo arriva il tir con gli aiuti spediti dall’Italia e dalla Polonia. Una gioia per il giorno di Natale. La temperatura e molto rigida. L’autista polacco Michele è riuscito ad arrivare in tempo prima del nostro rientro in Polonia. Sono pochi gli autisti che arrivano fino a Karkhiv. (foto 26)
Dopo questo possiamo finalmente metterci sulla strada del ritorno passando solo a salutare le suore Orionine che fuori città si occupane di giovani mamme.
Sul tragitto, una inaspettata sorpresa. Incontriamo tre bambini che passano di casa in casa cantando i canti natalizi, tradizione presente in diversi paesi del centro Est Europa. Ci fermiamo per dargli della cioccolata. Ci sorridono e ci ringraziano. (Foto 27) Siamo noi a ringraziarli per portare l’annuncio della buona novella in situazioni così difficili.
Il viaggio di ritorno prenderà due giorni a motivo della lunghezza e dei controlli. L’ultima notte la trascorriamo di nuovo in nunziatura a Kiev dove il personale ci attende per la cena che consumiamo in allegria. (foto 28) Le suore che qui lavorano, di rito greco cattolico, cantano i canti tradizionali di Natale.
Alla fine di questa lunga cronaca mi sento di ringraziare il Signore per averci guidato, le tante persone che ci hanno sostenuto con la loro preghiera e le loro offerte. La pace purtroppo e ancora lontana. Per questo senza scoraggiarci continuiamo a pregare per la pace e a costruirla attorno a noi. (Foto 29)
padre Luca Bovio, IMC
A Charkiv, un Natale speciale
Con padre Luca Bovio a Kharkiv in Ucraina il 6 e 7 gennaio 2023, per celebrate il Natale secondo il rito greco-cattolico e ortodosso.
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Ed ecco alcuni semplici video che aiutano a vivere con padre Luca questi momenti speciali.
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I ringraziamenti del direttore della Caritas di Kharkiv.
Dopo dodici direttori, oltre millequattrocento numeri e 60mila pagine, MC entra nel suo 125° anno di onorato servizio all’evangelizzazione nel nome della Consolata. Periodico fondato dal beato Giuseppe Allamano e da subito affidato alle mani capaci del canonico Giacomo Camisassa, nel gennaio 1899 esce «l’anno 1 – n. 1» de «La Consolata». Nasce dopo che, nel 1898, la città di Torino ha vissuto momenti di intensa religiosità mariana e mentre si prepara, per il 1904, alla «celebrazione dell’ottavo centenario del miracolo del cieco di Brianzone (sic invece di Briançon)» con il ritrovamento del quadro della Consolata. Con il periodico, infatti, l’Allamano vuole offrire ai torinesi e ai fedeli di tutto il Piemonte «studi, notizie e relazioni sulla divozione della Consolata fuori del suo santuario in Torino: in Piemonte specialmente, dove esistono santuari, cappelle, compagnie che dal suo nome si intitolano. Daremo notizie sulla divozione della Consolata nel resto d’Italia, in Francia, nell’Inghilterra e nelle Americhe, dove i nostri migranti portano questo tesoro di pietà e di speranza» (da La Consolata 1/1899).
Una rete mondiale che lotta contro la tratta di persone, Per un mondo senza tratta
Il traffico di esseri umani è un crimine grave, molto diffuso nel mondo, a tutte le latitudini. Nel 2009 diverse realtà in lotta contro questo flagello si sono unite dando vita a una rete globale. Pubblichiamo in questo dossier un’intervista esclusiva alla sua coordinatrice internazionale e riportiamo alcuni estratti dell’ultimo rapporto che presenta attività e risultati raggiunti dalla rete.
È un giovane vicariato posto in una regione amazzonica tanto affascinante quanto difficile. In queste pagine, mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza, il vescovo che lo guida, ne ricorda il decennale (2013-2023) della nascita.
Puerto Leguízamo. Ricordare è qualcosa di essenziale nella vita umana. La memoria è alla base della nostra identità e del rapporto con il mondo in cui viviamo. È la mappa dei nostri ricordi che ci dice chi siamo e dove siamo. Basta, infatti, un blackout della memoria per perdere la nozione di noi stessi, del mondo e del nostro posto in esso, come succede a volte alle persone anziane.
Questo febbraio celebriamo i dieci anni (febbraio 2013 – febbraio 2023) di vita e storia del vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. E, quando parliamo di celebrare, ci riferiamo a quel «ri-cordare» che, etimologicamente, significa riportare al cuore il sognato, il vissuto, ciò che abbiamo raccolto («cor-cordis», cuore, il muscolo che dagli antichi era ritenuto sede della memoria). Anche se pare ridondante ripassare attraverso il cuore ciò che dal cuore è uscito e ciò che è stato fatto mettendoci il cuore, è così che possiamo contemplare ciò che abbiamo vissuto in questi dieci anni di storia, sfide e opportunità.
Frei Gabriel è un giovane francescano della metropoli paulista. Con i suoi confratelli distribuisce pasti ad affamati e senzatetto che ogni giorno, a centinaia, fanno la fila davanti al suo convento.
San Paolo. «Questa città è estenuante. È più facile rubare che chiedere l’elemosina», dice un senzatetto a un altro, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto alla richiesta di una moneta.
Ci sono quarantamila senza tetto nella città di San Paolo del Brasile, la metropoli più grande d’America. Il suo centro storico è un posto dove nessuno ti raccomanda di andare.
Praça da Sé, il piazzale che si estende di fronte alla cattedrale neogotica, è il luogo di ritrovo di centinaia di senzatetto (população em situação de rua). In gran parte uomini, vivono accampati in tende o piccole baracche, avvolti nelle coperte grigie, tutte uguali, distribuite dal comune, chiedono l’elemosina, vendono oggetti recuperati chissà dove, giacciono stesi senza sensi sotto gli effetti del crack. Cenciosi, a volte, si accalcano attorno a un predicatore che declama versetti della Bibbia e alza la voce quando nomina «il diavolo, il male!».
Quattro giorni di convegni, aperitivi missionari, mostre, laboratori, spettacoli. Cento ospiti, centoventi testimonianze, duecento volontari, trentamila partecipanti. Grandi quantità legate a grande qualità e profondità nell’affrontare temi cruciali. Per la vita della Chiesa e della società.
Arriviamo alle colonne di San Lorenzo, a Milano, nel pomeriggio di giovedì 29 settembre.
Sta per iniziare uno dei molti eventi in programma in questa piazza fino a domenica 2 ottobre nella cornice del secondo Festival della Missione. Il cielo è incerto se chiudersi o lasciare il campo a un sole intenso e caldo.
Qui c’è il cuore della movida milanese e, allo stesso tempo, il cuore storico della chiesa Ambrosiana. La basilica sorta tra il IV e il V secolo, infatti, è tra le più antiche della città, e oggi si trova in un contesto di vie molto affollate non distanti dal Duomo, disseminate di bar, locali e negozi.
Sul sagrato, nello spazio suggestivo tra la facciata della chiesa e le antiche colonne, è allestito un palco con megaschermo. L’immagine proiettata è quella di un gomitolo composto da fili di diversi colori dal quale ne esce uno rosso a comporre la parola «missione». È il logo del Festival: un globo terrestre che non presenta confini ma i colori intrecciati dell’umanità. Il tema dell’intero evento è «Vivere perdono»: un gioco di parole nel quale il dono è, allo sesso tempo, causa e fine del vivere.
Nel tempo del pericolo nucleare, i decisori politici e l’opinione pubblica sono prigionieri della logica binaria che non vede alternative alla violenza per rispondere alla violenza (e «vincere»). È necessario rimettere al centro i principi e i saperi della resistenza nonviolenta. Prima che sia tardi.
Di questi tempi bisognerebbe rileggere il libro I sonnambuli dello storico Christopher Clark che descrive tutti coloro che avevano le leve del potere e dell’informazione nel 1914 come sonnambuli, apparentemente vigili, ma incapaci, in realtà, di rendersi conto che stavano conducendo il mondo nel baratro di quella «grande guerra» che papa Benedetto XV avrebbe definito «l’inutile strage».
Tutto è iniziato con la rivolta delle donne contro l’obbligo del velo. Poi, sono arrivati i mondiali di calcio con le proteste (più caute) dei calciatori. Il clero sciita al potere ha risposto con la repressione e la violenza. Basterà per fermare un popolo stanco della dittatura teocratica?
Nella prima partita dei mondiali di calcio in Qatar, quando la nazionale iraniana e la nazionale britannica sono entrate in campo, il primo pensiero è andato a come si sarebbero comportati i giocatori dell’Iran.
A cantare subito l’inno, lunedì 21 novembre, sono stati gli inglesi. Per la prima volta, hanno intonato a un mondiale «God save the king». Quando lo speaker dello stadio di Doha ha annunciato l’inno iraniano, sono partite le note. Ma, in solidarietà con le proteste, nessuno degli undici calciatori ha cantato i suoi versi:
Dopo i disordini del 2021, gli insistenti appelli al dialogo lanciati da tutte le Chiese del paese sembravano aver aperto vie di speranza.In realtà, nuovi episodi di violenza ai primi di ottobre 2022, segnalano una situazione che sta degenerando, come scrive il vescovo in questo testo indirizzato alla sua gente, ma anche a tutti noi.
Alcuni di noi non hanno mai dimenticato la violenza sperimentata in eSwatini nel giugno 2021@. Nel mio caso perché non ero riuscito a raggiungere casa a Manzini dopo un incontro a Mbabane con il primo ministro in carica. I blocchi istituiti lungo la strada dai giovani mi avevano costretto a cercare un posto alternativo dove dormire. Avevamo trascorso quella notte ascoltando una sparatoria nelle vicinanze. La mattina seguente ci eravamo svegliati trovando pneumatici e veicoli bruciati e pietre sulla strada.
Le domande naturali che ci poniamo sono: a che punto siamo, un anno e mezzo dopo? Che cosa è stato fatto da allora?
Sotto il titolo «Euntes in mundum universum» (andate in tutto il mondo), si è svolto, dal 16 al 18 novembre 2022, presso la Pontificia università Urbaniana, il Convegno internazionale di studi per celebrare il IV centenario della «Sacra congregatio de Propaganda Fide» (22 giugno 1622-2022).
Nata nel XVII secolo in pieno contesto coloniale, Propaganda Fide (lett. «propagazione della fede», ndr) ha posto al centro della Chiesa l’azione missionaria che ha portato al rifiuto della colonizzazione e del razzismo ad essa correlato, e ha scelto il rispetto delle culture e delle lingue di tutti i popoli.
È stato un percorso segnato inizialmente dalla missione in stile coloniale, per giungere a quella interculturale. Un percorso che è passato dal conflitto e scontro al dialogo nell’incontro con le diverse culture del mondo.
Tutti i relatori del convegno, provenienti da nove nazioni dei cinque continenti, nelle cinque sessioni di lavoro hanno sottolineato l’importanza di «Propaganda Fide» e della sua missione evangelizzatrice nella Chiesa.
Sia lodato Gesù Cristo.
Carissimi fratelli e sorelle, consentitemi, sotto il suono della sirena, che invita a nascondersi nel rifugio anitaereo, di esprimere a voi e alle vostre famiglie la mia più profonda gratitudine e una preghiera di riconoscenza per il vostro cuore aperto, per il vostro sostegno e la vostra solidarietà verso il popolo ucraino, che sta attraversando ore difficili, a causa della guerra e delle manifestazioni di odio umano da parte della federazione russa.
Da Isiro con amore
Dal Nord del Congo vi giunga il mio saluto e il mio grazie per il vostro cuore missionario! Grazie per la vostra generosità verso i nostri piccoli e differenti progetti che realizziamo con il vostro sostegno. La mia salute è abbastanza buona, tolta qualche malarietta che ogni tanto arriva, ma ci si cura e tutto passa.
Sono ora nella parrocchia di Samana, a Isiro, capitale dell’Alto Uélé. La vita, malgrado le diverse difficoltà, è sana e bella e i nostri laici (mamme, papà, giovani, ragazzi) sono molto impegnati. La domenica celebriamo due messe e stiamo pensando d’ingrandire la chiesa perché c’è sempre molta più gente fuori che dentro. Sogniamo anche la costruzione di una scuola, lasciando che le attuali aule diventino sale parrocchiali, visto il crescere di tante attività.
Un grande amico: padre Franco Bertolo
Il 16 ottobre 2022 è morto, improvvisamente, a Torino, nella Casa Madre dei Missionari della Consolata, padre Franco Bertolo, legato a me da profonda e lunghissima amicizia. Pur nel profondo dolore, voglio ricordarne alcuni momenti.
Ben&Jerry’s, azienda Usa di successo, non vuole più vendere i propri gelati nei territori palestinesi occupati da Israele. Ne è nato un intricato conflitto politico e legale. È possibile tenere insieme ricerca del profitto e principi etici?
Nella storia del capitalismo, di dispute fra imprese se ne sono viste tante, ma che una filiale portasse in tribunale la propria capogruppo, questo no, non era mai capitato. È quanto è successo negli Stati Uniti per una vicenda che riguarda addirittura il conflitto israelo-palestinese. Il dilemma è se vendere o non vendere nei territori occupati da Israele. Non riuscendo a trovare un accordo sul piano politico, le due parti stanno cercando di spuntarla tramite sofisticate battaglie legali. Mentre scriviamo, il contenzioso è ancora in corso, ma qualunque sarà il suo esito vale la pena raccontarlo per i molteplici aspetti che solleva.
Abramo viene chiamato l’amico di Dio (Gc 2,23), perché esempio di relazione ideale con il Signore. È considerato tale da ebrei, cristiani e islamici.
C’è chi dice, probabilmente senza allontanarsi dal vero, che non sia mai davvero esistito e che la figura di Abramo sia un’«invenzione», basata su antiche tradizioni riguardanti qualche personaggio lontano nella storia, per porre, all’inizio della Genesi, un’introduzione alle vicende di Giacobbe allo scopo di indicare da subito l’atteggiamento giusto nel rapporto con Dio.
Noi qui, però, non vogliamo fare i lettori super critici e saccenti, ma lasciarci coinvolgere dal racconto, come desiderava chi ha scritto questi testi.
La 27ª Conferenza delle parti di Sharm el-Sheikh si è conclusa con un accordo per compensare i paesi del Sud del mondo, i meno responsabili delle emissioni, per i danni che il cambiamento climatico sta causando nei loro territori.
Ma sulla mitigazione non si è andati oltre la Cop26 di Glasgow, che era stata troppo debole sull’eliminazione dei combustibili fossili.
Una sintesi efficace di questa Cop27 l’ha tracciata Manuel Pulgar-Vidal, che aveva presieduto l’edizione 2014 del vertice, la Cop20, e ora è il responsabile del clima per il World wide fund for nature, Wwf (già World wildlife fund): «L’accordo su perdite e danni è un passo avanti», ha detto Pulgar-Vidal al New York Times, ma il fondo di compensazione che l’accordo crea «rischia di diventare un “fondo per la fine del mondo” se i paesi non si muovono più veloci per ridurre drasticamente le emissioni. Non possiamo permetterci un altro vertice sul clima come questo»@.
Come cooperavamo cinquant’anni fa
Negli anni Settanta la rivista Missioni Consolata aveva una rubrica che si chiamava «Appelli dal fronte», attraverso la quale presentava ai benefattori una realtà in missione e chiedeva il loro sostegno per risolvere un problema.
Cinquant’anni fa, nel gennaio del 1973, «Appelli dal fronte» era dedicata a Materi, villaggio nella centrale regione del Meru, ai piedi del monte Kenya. Padre Maggiorino Botta chiedeva ai suoi benefattori di aiutarlo a comprare una pompa, il motore, le tubature e i serbatoi per pompare l’acqua dal fiume Mutunga visto che nella zona, «arida e torrida», non c’era alcuna sorgente. Costo dell’iniziativa: due milioni di lire.
A partire dal documento firmato nel febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb, un libro che segue le recenti tappe del dialogo tra le due più diffuse religioni al mondo, ricco di sfide difficili, ma belle.
Anche nel nostro tempo segnato da secolarizzazione e pluralismo, le religioni hanno un ruolo importante per la costruzione di un rapporto pacifico tra le culture.
Un segno di questo è la rilevanza assunta dal Documento di Abu Dhabi, poche pagine firmate da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar, il 4 febbraio 2019, nell’ottavo centenario dell’incontro di san Francesco d’Assisi con il sultano d’Egitto.
Visitando recentemente i locali utilizzati da san Giovanni Bosco a Valdocco (Torino) all’inizio dell’opera salesiana, mi sono interrogato sull’impronta che il santo educatore dei giovani può aver lasciato sul nostro Giuseppe Allamano che trascorse ben quattro anni nell’Oratorio salesiano (1862-1866). Erano gli anni della giovinezza dell’Allamano, il quale, infatti, per tutta la vita avrebbe ricordato il tempo trascorso vicino a don Bosco.
Lo stile educativo di don Bosco si basava fondamentalmente su tre capisaldi: «Ragione, religione, amorevolezza». Per «ragione» egli intendeva la formazione umana e civile dei giovani, tesa a prepararli ad affrontare il futuro come cittadini responsabili. «Religione» significava formazione religiosa, senza forzature, impartita con nozioni di catechesi e soprattutto con l’esempio di vita dei formatori. L’«amorevolezza» era da lui considerata l’elemento caratteristico che doveva accompagnare ogni aspetto della formazione dei giovani. Vicinanza e accompagnamento paterno e affabile nei riguardi dei giovani – asseriva – servono più di ogni altra componente formativa.
Il futuro del fotogiornalismo
Les Rencontres d’Arles, in Provenza, e il Cortona on The Move, in Toscana, sono sicuramente fra i festival di fotografia più importanti sul panorama internazionale. Ogni anno aprono i battenti a luglio e propongono mostre e incontri legati alla fotografia che si protraggono fino a ottobre.
Entrambe le cittadine durante gli eventi vengono letteralmente invase da autori, editori, photo-editor e appassionati di fotografia che possono incontrarsi e scoprire progetti e storie appassionanti.
Durante entrambi i festival c’è stata una particolare attenzione al reportage. Tutte le mostre sono state curate meravigliosamente e in generale il livello di tutti gli autori è altissimo, nel reportage vogliamo segnalare alcuni lavori che hanno maggiormente colpito la nostra attenzione.
L’italiano Gabriele Galimberti ospite con il suo «Ameriguns» al Cortona on The Move ha colpito e spiazzato con i suoi ritratti scattati da New York a Honolulu a orgogliosi possessori di armi da fuoco che non hanno lesinato quando si è trattato di mostrare la loro collezione. Una piaga aperta, quella della armi da fuoco negli Stati Uniti, che in un reportage d’autore come quello di Gabriele trova una grande espressione.
C’è poi Lucas Foglia, anche lui ospite a Cortona, fotografo National Geographic, che con il suo progetto tutt’ora in corso, «Constant Bloom» ha voluto mostrare la migrazione umana paragonandola alla migrazione delle farfalle. Un lavoro delicato per pensare a come, da sempre, i popoli si muovano varcando confini, umani e naturali.
E ad Arles trova posto un’impressionante mostra sulla fotografa di guerra (ma non solo) Lee Miller, autrice della famosa fotografia che ritrae la Miller stessa nella vasca da bagno di Hitler nei giorni immediatamente successivi alla caduta del regime. Un contemporaneo, Alexander Chekmenev , invece ci porta con ritratti meravigliosi e tremendi direttamente al cuore del conflitto Ucraina e Russia. Una fotografa del passato e uno del presente ci raccontano di come la guerra ci riguardi da sempre, e seppur con volti e storie diverse, sia in fondo sempre lo stesso ingiustificato massacro.
Lavori straordinari, autori contemporanei e del passato che ci mostrano come l’arte e l’estetica possano contribuire a rendere grande una storia. Arles e Cortona diventano cuore pulsante di una fotografia che – seppure da sola non può cambiare il mondo – si propone almeno lo scopo di aiutare a comprenderlo.
A novembre è stata poi la volta di Paris Photo Fair. Giunta ormai alla sua ventiquattresima edizione, è la più grande fiera di fotografia in Europa che ha uno sguardo aperto su tutto il mondo. La fiera, che ha come motto la celebrazione della cultura dell’inclusione, ha saputo ancora una volta e, come sempre, accompagnare esperti, professionisti del settore della fotografia e dell’editoria o semplici amatori, alla scoperta di un intero mondo dalle molteplici capacità espressive.
Larga attenzione è stata dedicata ai temi sociali, includendo di fatto il reportage fra le materie di cui si può e si deve parlare, celebrando anche la narrazione dei destini umani come arte.
Una speciale menzione al lavoro di Laia Abril, «On Rape»: la fotografa e artista si è concentrata sulla violenza sulle donne partendo da una serie di ritratti concettuali che accompagnano il visitatore in un percorso emozionante e doloroso ma necessario. L’artista vuole così sottolineare quale aspetto tremendo possa assumere la misoginia invitando a non distogliere lo sguardo ma anzi a farsi anche noi, tutti, testimoni di ciò che ancora oggi accade nel mondo.
La fotografia dunque resta ancora un mezzo potente di incontro, di testimonianza, di denuncia e da Cortona a Parigi, passando per Arles, si mostra viva e potente come non mai.
Valentina Tamborra
A Gesù Bambino
Caro Gesù Bambino,
quando sei nato c’era la «pax romana». Che fosse pace lo dicevano i dominatori del tempo e i loro lacchè, ovviamente. In realtà la maggioranza delle persone viveva sotto una servitù diffusa, drogata da «panem et circenses». Se nascessi oggi, troveresti invece la «pax atomica», «garantita» da oltre 13mila testate nucleari. Una vera follia, visto che se ne esplodessero anche solo 600, ogni forma di vita sarebbe estinta per sempre su tutta la terra. Nessuno, per ora, sembra davvero intenzionato a lanciare la prima. E speriamo non lo sia mai.
Intanto, però, tutte le altre guerre «normali» continuano e prosperano. In questo 2022 se ne contano ben 59 in giro per il mondo. Sono in aumento e fanno la felicità dei mercanti di armi che hanno visto le spese militari mondiali superare i due bilioni di dollari e hanno buone speranze che crescano ancora. C’è poi anche il mercato gemello, quello delle «armi piccole» nelle mani dei privati, che inonda, ad esempio, il Messico, fiorisce negli Stati Uniti al ritmo di stragi di civili, e avvelena le relazioni etniche nell’Africa subsahariana. Risultato? Oltre cento milioni di profughi nel mondo «a causa di persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che compromettono gravemente l’ordine pubblico», come informa il report del giugno di quest’anno dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. Tra essi ci sono milioni di ucraini, siriani, venezuelani, etiopi, sudanesi e poi afghani, birmani, somali, eritrei, nigeriani, congolesi, maliani… una lista senza fine. A questi devi aggiungere i profughi e migranti a causa dei cambiamenti climatici (almeno venti milioni ogni anno).
Caro Gesù, i tuoi genitori sono potuti scappare abbastanza facilmente in Egitto, dove sono rimasti fino a quando il tuo persecutore è morto. Fossero fuggiti oggi da uno dei tanti Erodi del mondo, probabilmente sarebbero, con te in braccio, su un camion che percorre le piste nascoste del deserto, oppure su uno dei barconi che cerca di attraversare il Mediterraneo, per essere, se va bene, raccolto da una delle navi delle Ong che poi rimangono al largo senza accesso a un porto sicuro per motivazioni pretestuose (navi pirata), propagandistiche (favoriscono l’invasione) e disumane (donne e bambini ignorati). E saresti tra i fortunati, visto il gran numero di barconi che, invece, affondano nel «mare nostro» con tutti i loro occupanti, o quelli che sono respinti verso il «porto sicuro» della Libia, dove i trafficanti non hanno scrupoli a pestare, uccidere, ricattare, violentare, torturare, con l’Europa che finanzia e tace.
Vorrei dirti tante altre cose, ma una in particolare mi preme. Voglio ringraziarti perché ogni anno ci dai l’opportunità di celebrare la tua nascita e ricaricare così la nostra voglia di vita, di speranza, di giustizia, di pace. Se consideri anche solo questi ultimi tre anni, tra Covid, cambiamenti climatici e guerra, davvero la tentazione di mollare tutto è stata grande. E invece vieni tu presentandoti a noi nella fragilità di un bambino che ha bisogno di tutto. Non parli, non minacci, non incuti timore. Eppure, con i tuoi occhi arrivi dritto al cuore. Quando ci avviciniamo a te e, soprattutto, ci lasciamo guardare da te attraverso gli occhi, i volti, le storie di chi oggi è vittima di guerra, violenza, intolleranza e fanatismo, sfruttamento e tratta, non possiamo più barare con noi stessi. Il tuo sguardo ci scruta nell’intimo più profondo, là dove gli occhi della gente che ci sta attorno non arrivano. È un balsamo contro lo scoraggiamento e la rassegnazione, perché tu continui a dirci che non ti sei stufato di noi, che credi in noi, nell’umanità più vera che sta nel profondo di ogni uomo. Grazie, perché tu credi in noi più di noi stessi e più di quanto noi crediamo in te.
Nel 49° stato degli Usa – posto a ridosso del Circolo polare artico – il cambio climatico è molto più evidente che altrove. Come dimostra il rapido scioglimento dei ghiacciai con tutte le conseguenze che ciò comporta. Eppure, oggi si discute su come portare le trivellazioni petrolifere in altre aree dello stato. Aree ancora intonse e selvagge.
Seward (Kenai). È una fila di cippi in legno, ciascuno con segnato un anno: 1830, 1917, 1926, 1951, 2015… Distano qualche decina di metri l’uno dall’altro: più recente è l’anno, maggiore è la distanza tra un cippo e l’altro, una distanza che misura il regresso del ghiacciaio. I numeri parlano da soli. Tra il 1815 e il 2015, esso si è ritirato di 2,5 chilometri con una progressione costante: da 19,7 metri all’anno a 29,4 (2006-’10) a 44,5 (2011-’15). In questi ultimi anni poi, l’«eccezionale» (secondo la University of Alaska-Fairbanks) incremento delle temperature medie ha ulteriormente accelerato il ritmo dello scioglimento.
Quei cippi in legno sono come lapidi funerarie che rammentano, a chiunque voglia vedere, l’agonia di Exit, questo il nome del ghiacciaio, il più accessibile tra i 35 ospitati dall’altopiano di Harding, nel Kenai Fjords National Park, sulla penisola del Kenai, a Sud di Anchorage, la città più grande (290mila abitanti) dell’Alaska.
Il ritiro di Exit è impressionante, ma probabilmente il sentimento più forte è la tristezza di vedere una meraviglia della natura contrarsi, rattrappirsi come un corpo che invecchia. Exit è soltanto uno degli oltre 27mila ghiacciai (dato 2021) dell’Alaska, che, in totale, occupano circa il 5 per cento del suo territorio (costituito a Sud dalla taiga e a Nord dalla tundra).
Oggi l’Alaska – 49° stato ad aderire agli Usa (3 gennaio 1959), il più grande (quasi sei volte l’Italia) e il meno popolato (meno di 800mila abitanti) – è la rappresentazione plastica e tangibile dei mutamenti climatici.
L’Alaska sta sperimentando profonde alterazioni ambientali dovute a eventi meteorologici estremi e mutamenti nel clima storico. Le conseguenze – temperature più alte, perdite di ghiaccio marino, riduzione del manto nevoso, degradazione del permafrost, inondazioni, incendi, acque dell’oceano più calde e cambiamenti dell’ecosistema (sia marino che terrestre) – stanno producendo impatti sulla vita quotidiana degli abitanti dello stato.
L’innalzamento della temperatura varia notevolmente da regione a regione, con il riscaldamento nelle parti settentrionali e occidentali che è doppio rispetto al tasso riscontrato nell’Alaska Sudorientale. L’International Arctic Research Center (Iarc, Università di Fairbanks, 2019) ha, infatti, registrato temperature fino a 3,2 gradi Celsius più elevate nelle zone settentrionali, fino a 2,0 gradi Celsius nelle zone meridionali e fino a 1,1 gradi Celsius lungo le coste e negli arcipelaghi.
Se crescono più alberi
Le poche strade dell’Alaska hanno caratteristiche precise: dritte, lunghissime e praticamente senza traffico, si addentrano tra la taiga o la tundra. La taiga è l’ambiente tipico dell’Alaska meridionale. Più si procede verso il centro e verso Nord, più gli alberi si riducono in dimensioni (diventano piccoli e sottili) e numero, fino a scomparire del tutto, dando origine alla tundra. Tuttavia, negli ultimi anni, a causa dei mutamenti climatici, questa ha mostrato una crescita verde (greening, più piante) maggiore rispetto alla media nel lungo periodo. Un fenomeno evidenziato anche nei parchi nazionali dall’innalzamento della cosiddetta «linea degli alberi» (treeline). Come nel parco del Denali dove il passaggio dalla taiga alla tundra si distingue nitidamente. «Guardate – ci fa notare Laurie, una guida del parco -, oggi gli alberi crescono più in alto. Con conseguenze a catena, in primis sulla fauna».
Per ammirare il parco dall’alto e in particolare il Denali (per quasi un secolo chiamato Monte McKinley), per prominenza la terza montagna al mondo (6.138 metri), il piccolissimo aeroporto di Talkeetna è la base di partenza migliore. Fondata nel secondo decennio del Novecento, con circa mille abitanti ufficiali, la cittadina è, a conti fatti, una strada fiancheggiata da una fila di ristorantini e negozietti.
Entriamo al Village Arts and Crafts, uno dei piccoli empori aperti a beneficio dei turisti. Alla cassa c’è Ruth Cook, la proprietaria, una donna anziana e minuta. «Sono qui da tutta la mia vita – racconta con voce amichevole -, e ho visto tante cose cambiare. Sono cresciuti i turisti, i rifiuti e la mancanza di rispetto. E, soprattutto, i mutamenti causati dall’aumento delle temperature».
Anche se oggi il cielo è molto coperto e la pioggia incombente, i piccoli velivoli decollano da Telkeetna: volare sulla catena montuosa del Denali è un’esperienza imperdibile perché permette di ammirare lo spettacolo delle vette e dei ghiacciai. E, infatti, le aspettative sono ampiamente ripagate. Tuttavia, ai nostri occhi inesperti la visione dall’alto non consente di distinguere i segni della malattia climatica. Segni che invece appaiono evidenti in un’altra zona geografica.
Will Popoli non ha ancora vent’anni e studia geologia e storia all’Amherst College, nel Massachusetts. A McCarthy-Kennicott, all’interno del vastissimo parco nazionale Wrangell St. Elias, sta facendo esperienza come guida con l’agenzia St. Elias Alpine Guide.
Mentre, con i ramponi ai piedi, camminiamo sul Root Glacier, ci spiega le cose essenziali del ghiacciaio: i detriti morenici, la colorazione blu del ghiaccio e, soprattutto, la sua progressiva riduzione. «Sì, penso che in Alaska stia accelerando la velocità con cui i ghiacciai si stanno sciogliendo. Questo è un fatto molto preoccupante». Il Root è un affluente del Kennicott, il ghiacciaio principale. Le ricerche degli scienziati confermano che questo continua a ritirarsi ed espandere l’area coperta da detriti.
Dominio conservatore
Va riconosciuto che i 16 parchi nazionali dell’Alaska, a cui vanno aggiunti i National wildlife refuges (rifugi nazionali per animali selvatici), hanno finora rappresentato una diga contro gli interessi dei politici repubblicani e le mire dei signori del petrolio. Ma cosa pensano gli alaskani della situazione ambientale del loro stato?
Nelle conversazioni, la sensazione è che nessuno neghi gli effetti della crisi climatica, ma – allo stesso tempo – sono in molti a ritenere i mutamenti ambientali come un fenomeno naturale negando o sminuendo le responsabilità umane. Una constatazione questa che trova spiegazione (anche) nella storia dell’Alaska.
Già dal 1867 (anno in cui gli Usa l’acquistarono – a prezzo di saldo – dalla Russia zarista), la regione è stata terra di conquista del Gop (Grand old party), il partito conservatore statunitense che, per Dna, considera il cambio climatico alla stregua di una fake news. Come hanno dimostrato anche le elezioni locali (sia primarie che suppletive) dello scorso 16 agosto (e quelle di mid-term dell’8 novembre), dominate da esponenti repubblicani, eccezion fatta per la performance della democratica Mary Peltola, candidata di etnia Yup’ik, il maggiore tra i popoli indigeni dello stato (che, in totale, rappresentano il 21% della popolazione). La Peltola ha sconfitto addirittura Sarah Palin, l’ex governatrice (ed esponente del Tea Party) sostenuta da Trump.
Per ironia della sorte, le votazioni alaskane di agosto si sono tenute nello stesso giorno in cui un redivivo Joe Biden firmava la legge nota con l’acronimo di Ira (Inflation reduction act of 2022), un piano in cui sono previsti 369 miliardi di dollari di investimenti per l’energia e il contrasto ai cambiamenti climatici.
Andare oltre Prudhoe Bay?
La crisi climatica che ha investito l’Alaska è certificata da decine di studi scientifici, eppure oggi non si discute su come contrastare o, almeno, mitigare la contrazione dei ghiacciai. No, si discute di come portare le trivellazioni petrolifere nel Nord dello stato, al di fuori di Prudhoe Bay (davanti al Mar Glaciale Artico), il sito dove, da 45 anni, si estrae il petrolio dell’Alaska. Lo stato è il sesto produttore statunitense, ma la produzione è in costante declino dal 1990, arrivando oggi a 448mila barili al giorno contro i due milioni di un tempo (dati Eia, 2020).
L’espansione avverrebbe sia a Nord Ovest (nella National petroleum reserve-Alaska) che a Nord Est, nella ragione al confine con il Canada e nota come Arctic national wildlife refuge, paradiso ancora incontaminato dei caribou (renne selvatiche), ma anche di orsi (compresi quelli polari), volpi artiche, alci, buoi muschiati e lupi grigi. Dopo il permesso di esplorazione petrolifera nell’area concesso da Trump già nel dicembre 2017, il presidente Biden è riuscito – almeno per ora – a fermare il progetto (ordine esecutivo del 20 gennaio 2021).
Tuttavia, la partita non è certamente chiusa, soprattutto nella National petroleum reserve-Alaska, dove – sotto la superficie della tundra – sono state individuate vaste riserve d’idrocarburi.
Qui il progetto di trivellazione della ConocoPhillips – noto con il nome di Willow project – è stato approvato da Trump nel 2020, fermato dai tribunali nel 2021 e ancora in corso di valutazione da parte dell’amministrazione Biden da luglio 2022.
In agosto, i cartelloni elettorali di Lisa Murkowski, senatrice repubblicana dell’Alaska (considerata moderata e ben vista anche da alcuni avversari perché anti trumpiana), erano visibili anche nei posti più impensabili e disabitati dello stato.
La senatrice ha ottimi rapporti con l’industria petrolifera e, in particolare, proprio con la ConocoPhillips, il principale produttore (con ExxonMobil e Chevron che seguono a distanza) dell’Alaska, compagnia da cui lei ha ricevuto anche fondi per la propria campagna elettorale. Non stupisce, pertanto, che la Murkowski appoggi il Willow project. «Produrrà – scrive la senatrice – fino a 160mila barili di petrolio al giorno e creerà oltre duemila posti di lavoro ben pagati per gli abitanti dell’Alaska». Ben diversa è la posizione degli scienziati e della Wilderness society: Willow è una bomba al carbonio (carbon bomb) che aggiungerebbe più di 250 milioni di tonnellate di CO2 all’atmosfera nei prossimi 30 anni e probabilmente stimolerebbe la costruzione di strade, oleodotti e impianti di lavorazione.
Come prevedibile, il progetto è altamente divisivo tra gli stessi nativi. L’Arctic slope regional corporation (Asrc), società degli Iñupiat (creata nel 1972 in seguito all’Ancsa, la legge sulle terre), lo appoggia, mentre gli indigeni ambientalisti (per esempio, quelli riuniti nell’Alaska climate alliance) lo contrastano con forza. Ma si tratta di una lotta impari perché l’industria petrolifera è «la vacca sacra della politica dell’Alaska» (the sacred cow of Alaskan politics), secondo la definizione dell’Earth island institute di Berkeley.
Disastri ambientali e dollari
Lo si capisce anche a Valdez, tra le penisole, i fiordi e i «ghiacciai di marea» (quelli che terminano nell’acqua del mare) dello stretto Prince William.
Il suo piccolo porto ha un fascino particolare, con i pescherecci, i battelli turistici e gli uccelli in attesa dei resti del pesce che, appena sbarcato sulla banchina, viene subito tagliato e ripulito da addetti rapidissimi. Più lontana e defilata, confusa nella nebbia, c’è un’altra banchina, molto anonima. Alla fonda c’è una lunga nave cisterna e sulla terraferma, posti in posizione sopraelevata, dei grandi serbatoi circolari e un lungo serpente di tubi. È la stazione finale del Trans Alaska pipeline system (Taps), l’oleodotto che, dal 1977 e per 1.300 chilometri, attraversa l’Alaska da Nord a Sud.
Le sue tubazioni, innalzate a un metro dal terreno (per questioni di permafrost), affiancano la strada da Prudhoe Bay a Fairbanks (seconda città dello stato, situata a circa 200 chilometri dal Circolo polare artico) fino al terminal di Valdez. È da qui che, nel marzo del 1989, partì una superpetroliera della multinazionale Exxon che s’incagliò poco dopo riversando nel golfo dell’Alaska milioni di litri di petrolio, producendo uno dei peggiori ecocidi (morirono, tra l’altro, balene, lontre marine, salmoni, uccelli marini, aquile) della storia moderna, con l’inquinamento di duemila chilometri di costa e 28mila chilometri quadrati di oceano: a 33 anni da quel disastro non si è ancora tornati alla normalità.
Eppure, nonostante problemi e rischi ambientali, il petrolio e l’oleodotto che lo trasporta continuano a foraggiare gran parte del bilancio dell’Alaska e sono anche un persuasivo strumento politico, come ben sa Mike Dunleavy, il governatore repubblicano dello stato. Già a luglio, con la dovuta enfasi accentuata dalla vicinanza delle elezioni (poi vinte), Dunleavy aveva annunciato che, dal 20 settembre, a ogni residente alaskano sarebbe stata pagata la somma di 3.200 dollari come dividendo derivante dallo sfruttamento delle risorse petrolifere e minerarie dell’Alaska. In realtà, il Pfd (Permanent fund dividends) non costituisce una novità, considerato che viene distribuito ogni anno dal 1976 rappresentando per molte famiglie una fonte di reddito importante in uno stato con un costo della vita elevatissimo.
Trivelle versus ambiente
Alla fine, anche in Alaska, il dibattito è sempre lo stesso: una visione economicista e di corto respiro (lo sfruttamento delle risorse petrolifere) ma molto ben pubblicizzata, contro una visione dell’esistenza più complessiva e più preoccupata del futuro della «casa comune».
«The last frontier», si legge sovente sulle targhe automobilistiche dell’Alaska. In verità, l’ultima frontiera territoriale è divenuta l’ultima frontiera climatica: luogo simbolico in cui i ghiacciai si sciolgono a un ritmo sempre più sostenuto, ma dove l’homo politicus prosegue con tracotanza su strade che, al di là delle circostanze attuali (guerra e tensioni internazionali), la natura e la storia hanno già bocciato.
Paolo Moiola
Da Jack London ad Alex
Autobus 142, ultima fermata
Jack London e Charlie Chaplin, ma anche il fumetto di zio Paperone. Personaggi diversi con storie diverse, ma con un elemento in comune: l’Alaska e la corsa all’oro che, a fine Ottocento, richiamò in quelle regioni almeno centomila cercatori. Il californiano Jack London aveva solo 21 anni quando – era il 1897 – sbarcò in Alaska per fare fortuna. Non trovò il prezioso metallo, ma trovò la fama scrivendo due piccole gemme della letteratura The call of the wild (Il richiamo della foresta) e White Fang (Zanna bianca).
L’attore e regista Charlie Chaplin in realtà non girò The gold rush (La febbre dell’oro) in Alaska, ma ricreò quei luoghi in maniera stupefacente considerando che correva l’anno 1925. Sia la versione muta del film che quella sonora (uscita nel 1942) sono considerati capolavori del cinema mondiale.
Nel 1947 arrivò anche zio Paperone (Uncle Scrooge), i cui ideatori fanno risalire la sua immensa fortuna all’oro trovato nel fiume Klondike, nella regione canadese dello Yukon, ai confini con l’Alaska.
Non cercava l’oro, ma una diversa esperienza di libertà il giovane Alex Supertramp (soprannome di Chris McCandless) che, nell’agosto del 1992, morì di fame e di stenti in un vecchio autobus – verniciato di bianco e verde e segnato con il numero 142 – abbandonato dal 1961 nelle foreste dell’Alaska, vicino al Denali National Park. La sua storia, tanto straordinaria quanto tragica, è stata raccontata in un libro (di Jon Krakauer) e poi in un film (di Sean Penn) dal titolo Into the wild. Il 19 giugno 2020 l’autobus 142 (conosciuto come «Magic bus») è stato trasportato all’Università dell’Alaska, a Fairbanks. Ultima fermata per una moderna icona di libertà.
Pa.Mo.
Non chiamateli Eschimesi
I popoli nativi
In Alaska, ci sono oltre centosettantamila indigeni (alaskan natives) divisi in una decina di gruppi principali. Il loro destino non è dissimile da quello dei popoli autoctoni di altre regioni del mondo: la difficile lotta per la terra e per preservare la propria cultura. Con un problema in più: la cooptazione nel sistema dei bianchi attraverso una legge del 1971.
Anchorage. Nel buio della stanza, i volti illuminati dei nativi risaltano sul grande schermo interattivo. Ognuno racconta la propria storia. Una storia incredibile, a lungo tenuta nascosta e ancora oggi poco conosciuta.
«Durante gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta – si legge -, i nativi del Nord dell’Alaska furono deliberatamente esposti a radiazioni senza esserne a conoscenza o senza il loro consenso. Gli esperimenti inclusero la somministrazione di pillole ad alta radioattività di iodio (I-131) per studiare come l’ambiente freddo influisse sulla ghiandola tiroidea. I rifiuti radioattivi furono bruciati vicino ai villaggi per testare come le radiazioni si diffondessero nell’Artico».
Gli esperimenti rientravano nell’ambito del «Project Chariot» della Commissione statunitense per l’energia atomica il cui obiettivo dichiarato era la creazione di una baia per costruire un porto a Point Hope, un piccolo e isolatissimo villaggio Iñupiaq, attraverso l’utilizzo di ordigni atomici.
L’installazione – chiamata «cold treatment» (trattamento a freddo) – si trova nello spazio Alaska Exhibition all’interno dell’Anchorage Museum, il moderno e interessantissimo museo della più grande città alaskana.
La vicenda del Project Chariot e quanto raccontato nella sala dedicata ai popoli nativi dell’Alaska (Smithsonian arctic studies center gallery) porta ad affermare che la storia dei nativi dell’Alaska è identica a quella di tanti altri popoli indigeni invasi, uccisi, conquistati o schiavizzati dai bianchi.
Cittadini di seconda classe
Il quattordicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che prevede la cittadinanza a chi nasca sul territorio nazionale, risale al 1868. Incredibilmente ne rimasero esclusi i nativi americani. Non avendo la cittadinanza statunitense, non potevano vantare diritti sulla terra, a tutto beneficio dei bianchi. Essi furono cittadini di seconda classe per ben 56 anni. Infatti, soltanto nel 1924 il Congresso emanò l’«Indian citizenship act» che concedeva la cittadinanza (e, quindi, il diritto di voto) anche a loro. Tuttavia, alcuni stati vietarono ai nativi di votare ancora per decenni. L’ultimo a conformarsi al dettato costituzionale fu il Maine nel 1954.
Per vedere posto un limite al processo di assimilazione e riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, i nativi dovettero però attendere fino al 1934, quando il presidente Roosevelt firmò l’«Indian reorganization act». Ancora più lunga fu l’attesa per la completa libertà religiosa che arrivò soltanto nel 1978 con l’«American indian religious freedom act».
I nativi dell’Alaska e l’Ancsa
Era comune riferirsi ai popoli nativi dell’Alaska e delle altre regioni artiche (Siberia, Nord del Canada e Groenlandia) con il termine di «Eschimesi» (Eskimo, in inglese). L’etimologia non è chiara, spaziando da «fabbricanti di racchette da neve» a «mangiatori di carne cruda» a «scomunicati» (perché non cristiani). Introdotto dai colonizzatori bianchi, il termine andrebbe evitato essendo considerato razzista e dispregiativo, oltre che generico, visto che si riferisce a etnie con tratti fisici e culturali (ad esempio, la lingua) diversi.
La riscossa indigena iniziò il 5 novembre 1912 quando undici nativi (del gruppo dei Tlingit) e una nativa fondarono la Fratellanza dei nativi dell’Alaska (Alaska native brotherhood, Anb), seguita nel 1914 dalla Sorellanza (Alaska native sisterhood, Ans).
Le due organizzazioni si prefiggevano la promozione della solidarietà tra le popolazioni autoctone, il raggiungimento della cittadinanza statunitense (ottenuta nel 1924), l’abolizione del pregiudizio razziale e il riconoscimento dei diritti economici attraverso l’attribuzione dei titoli sulla terra e sulle risorse minerarie, nonché la difesa del salmone, loro alimento essenziale.
Dopo l’ammissione nell’unione statunitense come 49° stato, avvenuta il 3 gennaio 1959, l’Alaska divenne ancora di più terra di conquista.
Nel 1966, Willie Hensley, un Iñupiaq nato poche decine di chilometri sotto il Circolo polare artico, fondò la Federazione dei nativi dell’Alaska (Alaska federation of natives, Afn) allo scopo di difendere le terre indigene.
La questione fondiaria divenne esplosiva nel 1968, quando la Atlantic-Richfield Company (Arco, oggi Bp Amoco) scoprì ingenti riserve di petrolio a Prudhoe Bay, sulla costa artica dello stato, e, successivamente, propose la costruzione fino al porto di Valdez di un oleodotto (il Trans Alaska pipeline, Tap), che transitava su territori indigeni.
Una soluzione fu trovata con la legge sulla risoluzione dei reclami dei nativi dell’Alaska (Alaska native claims settlement act, Ancsa), firmata da Richard Nixon il 18 dicembre 1971. «Una pietra miliare nella storia dell’Alaska e nel modo in cui il nostro governo tratta i nativi», commentò il presidente. Per essi la legge stabilì un’assegnazione di terre (44 milioni di acri, pari a circa il 13 per cento dell’intero territorio), una compensazione monetaria (quasi un miliardo di dollari) e un’organizzazione dei nativi in società a scopo di lucro (corporations, 12 più una nata in seguito) e villaggi (200) attraverso cui gestire le terre da loro occupate e i profitti derivanti dallo sfruttamento delle risorse minerarie (petrolio, in primis). L’impatto dell’Ancsa sulle popolazioni autoctone fu enorme dando loro potere e influenza, ma non fu privo di conseguenze negative su stili di vita e cultura.
Chi sono, quanti sono
Stando agli ultimi dati (U.S. Census bureau, 2020), oggi in Alaska si contano 172.712 indigeni, pari al 21,86 per cento della popolazione, la percentuale più alta tra gli stati americani.
Secondo l’Alaska federation of natives (Afn), si distinguono una decina di gruppi principali distribuiti in specifiche regioni del paese: Iñupiaq e Yup’ik di San Lorenzo (Alaska Nordoccidentale, Mare di Bering e isola di San Lorenzo); Yup’ik e Cup’ik (Alaska Sud occidentale); Athabascan e Dena’ina (Alaska interna); Alutiiq (o Sugpiaq; nel Kenai, Kodiak, Prince William Sound) e Aleut (o Unangax, sulle isole Aleutine); Eyak, Tlingit, Haida, Tsimshian (Alaska Sud orientale). Per consistenza i gruppi maggiori sono gli Yup’ik (34mila), gli Iñupiaq (20.800) e i Tlingit (14mila).
Le comunità native più isolate, quelle non raggiungibili via strada (chiamate «bush communities»), vivono ancora oggi della pesca (salmone e halibut, soprattutto) e della caccia di animali selvatici (renne-caribou e alci-moose, in primis).
Mary Peltola: «I am pro fish»
Per i popoli indigeni dell’Alaska una buona notizia è arrivata lo scorso agosto (e ribadita l’8 novembre nelle elezioni di mid term) con l’entrata di una loro rappresentante nel Congresso degli Stati Uniti. Lei – Mary Peltola, democratica di etnia Yup’ik – è la prima nativa alaskana eletta deputata a Washington.
Nata a Bethel, sul fiume Kuskokwim, cinquanta anni fa, la donna è un avvocato e una politica specializzata nella difesa della pesca in Alaska. Tanto che, sul suo sito, lei dichiara: «I am pro fish» (Sono a favore del pesce) e «Fighting for our fish is critical to preserving our Alaska way of life» (Lottare per il nostro pesce è fondamentale per preservare il nostro stile di vita alaskano). Non sono affermazioni esagerate. In effetti, la pesca – quella del salmone, in particolare – è un’attività vitale per le popolazioni autoctone. La stessa Peltola racconta di aver iniziato a pescare con il padre all’età di sei anni.
Oggi la pesca è un’attività in grave rischio, soprattutto la pesca del salmone, il pesce più pregiato e richiesto. Nella loro migrazione fiume-oceano-fiume, i salmoni tornano indietro in numero sempre minore. Tra le possibili cause vengono annoverati i cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani e i troppi pescherecci stranieri. Per i molti nativi che ancora vivono di questa attività il problema è diventato una questione di sopravvivenza.
Paolo Moiola
Strumenti di assimilazione
I nativi e la trappola del petrolio
«Appartenevo – ha raccontato Willie Hensley, Iñupiaq, tra i fondatori dell’Alaska federation of natives – a quella generazione che stava ancora cacciando e pescando e vivendo in tende di zolle e usando i cani per muoversi. C’erano pochissimi soldi allora e abbiamo dovuto lottare davvero. Ricordo di avere avuto molti denti marci fino alle gengive e nessuno che si prendesse cura di essi. Abbiamo davvero lavorato sodo. Era una vita normale; era solo una vita dura. Semplicemente non avevamo reti di sicurezza».
Oggi, per i nativi dell’Alaska le «reti di sicurezza» ci sono, ma anche altre cose sono cambiate e non per il meglio. Dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi, nel 1971 la legge del Congresso statunitense, nota con l’acronimo di Ancsa (Alaska native claims settlement act), ha in gran parte eliminato le rivendicazioni sulla terra da parte dei popoli indigeni a favore della creazione di società a loro affidate (Alaska native regional corporations e Alaska native village corporations). Queste società – create sulla base di zone geografiche ed etnicamente connotate – sono nate come entità private orientate al profitto.
Tra le 13 società regionali, le principali sono la Arctic slope regional corporation degli Iñupiat, la Nana regional corporation, anch’essa con azionisti Iñupiat, la Aleut corporation degli Unaganx, la Doyon corporation degli Athabasca, la Calista corporation degli indigeni Yup’ik, Cup’ik e Athabasca. Sui siti web di queste compagnie sono magnificati i benefici arrivati alle popolazioni locali, ma non tutti sono d’accordo.
Già negli anni Settanta, anche prima della costruzione della Trans Alaska pipeline, Eben Hopson (1922-1980), leader iñupiaq e politico democratico, aveva avvertito dei pericoli insiti nel denaro derivante dal petrolio. In un suo discorso pubblico, affermò: «La politica dell’Artico non è più la politica delle persone, ma è la politica del petrolio». E aggiunse: «La politica del boom petrolifero crea dipendenza».
In questi anni sono aumentati i nativi preoccupati per uno sviluppo fondato su petrolio e gas, sviluppo che implica inevitabili impatti ambientali (e culturali) in uno stato già colpito duramente dagli effetti del cambiamento climatico. Vanno menzionati, per esempio, il Native movement, l’Alaska climate alliance, l’Alaska native oil and gas working group.
Questi gruppi si oppongono ai nuovi progetti petroliferi e propongono di puntare sulle energie rinnovabili diversificando l’economia dello stato. Tuttavia, al cospetto delle società dei nativi e delle compagnie petrolifere, la loro voce è ancora un sussurro. Almeno per il momento.
Pa.Mo.
Cacciatori di pellicce e missionari
Religione e chiese in Alaska
I primi non indigeni s’insediarono in Alaska all’inizio del 1700. Dopo di loro, arrivarono anche i missionari, prima gli ortodossi russi, poi gli anglicani e i cattolici.
Hope (Kenai). A lato della strada forestale, ad alcuni chilometri da Hope, villaggio che in inverno non raggiunge i cento abitanti, c’è una chiesetta in legno. Al momento non è aperta, ma le evidenze esteriori dimostrano che è funzionante. A parte quelle di Anchorage, Fairbanks e Jeneau – le tre principali città dello stato – la maggior parte delle chiese (di tutte le confessioni) dell’Alaska sono strutture isolate, solitarie, in apparenza abbandonate.
Questo non significa che in questo territorio la religione non sia una presenza importante. Al contrario, anche qui l’offerta religiosa – se così possiamo chiamarla – è molto ampia, anche se relativamente recente.
Fino alla fine del 1600, la regione era abitata esclusivamente da popoli indigeni, stimati attorno alle 80-100mila persone che seguivano religioni sciamaniche. Fu all’inizio del 1700 che, dalla confinante Russia, arrivarono i primi esploratori, cacciatori e commercianti attratti dal business delle pellicce. Il più famoso fu Grigory Shelekhov, che nel 1784 massacrò centinaia di indigeni dell’arcipelago di Kodiak, salvo poi chiedere all’imperatrice Caterina di Russia l’invio di missionari ortodossi. La prima missione fu fondata nel settembre del 1794 sull’isola di Kodiak dal monaco Herman (Germano d’Alaska) che subito e fino alla sua morte (nel 1837) si distinse nella difesa della popolazione indigena, schiavizzata dai mercanti russi.
Nel 1799 Nikolaj Petrovič Rezanov e lo stesso Shelekhov fondarono la Compagnia russo americana (Rac), una compagnia commerciale partecipata da molti esponenti dell’impero russo, con sede nell’attuale Sitka. I nativi, esperti cacciatori, venivano arruolati con la forza. È per la loro difesa che si battè una parte importante della Chiesa ortodossa russa in Alaska.
Di essa va ricordata soprattutto la figura e l’opera di padre Ivan Veniaminov (in seguito, Innocenzo d’Alaska). Nato in Siberia nel 1797, arrivò in Alaska (prima in Analaska sulle isole Aleutine e poi nell’attuale Sitka) nel 1824 assieme alla famiglia, e vi rimase, con alcune interruzioni, fino al 1867, quando venne nominato metropolita di Mosca. Persona eclettica, primo vescovo ortodosso dell’Alaska, Veniaminov si distinse subito in quanto, al contrario dei colonizzatori, instaurò un rapporto paritetico con i popoli nativi (prima Aleuti, poi Tlingit), rispettandone tradizioni e lingua.
Politica coloniale e missionari
Dopo gli ortodossi russi, nell’Ottocento, dal confinante Yukon inglese (canadese dal 1869), arrivarono sparuti gruppi di missionari anglicani.
La situazione cambiò con la vendita – avvenuta con il trattato sottoscritto il 30 marzo 1867 (la Russia zarista si riteneva proprietaria di quei territori senza considerare i suoi veri abitanti) – dell’Alaska agli Stati Uniti.
I primi cattolici ad arrivare nella regione furono gli Oblati attorno al 1871, viaggiando sullo Yukon, il fiume artico divenuto scenario della corsa all’oro alla fine dell’Ottocento. Furono gli Oblati a fondare, nel 1879, la prima chiesa cattolica: Santa Rosa di Lima, sull’isola di Wrangell.
All’epoca del passaggio agli Stati Uniti, l’Alaska era abitata soprattutto dai popoli nativi. Come sempre accade durante i processi di colonizzazione, all’inizio l’idea guida fu quella dell’assimilazione: gli indigeni sarebbero dovuti diventare come i colonizzatori, abbandonando la propria cultura, incluse le credenze religiose.
Come affermava il rapporto annuale del Consiglio dei commissari indiani per il 1869, «Si ritiene che la religione del nostro benedetto Salvatore sia l’agente più efficace per la civiltà di qualsiasi popolo». Per lungo tempo ancora la politica coloniale degli Stati Uniti in Alaska si fondò sull’idea che gli indigeni dovessero «essere portati sotto l’influenza cristiana dai missionari».
L’Università dell’Alaska-Anchorage (Uaa) ha analizzato una foto del 1914 scattata alla scuola della St. Mary’s Mission ad Akulurak (delta dello Yukon-Kuskokwim, sul mare di Bering). In quella immagine si vede un gruppo di studenti nella sala mensa e, sulla parete dietro di loro, un poster con la scritta «Please, do not speak eskimo» (Per favore, non parlare eschimese).
Fu John Collier, commissario per gli affari indigeni dal 1933 al 1945, a iniziare a battersi per la libertà religiosa degli indiani d’America, mettendo in discussione i divieti locali e regionali alle cerimonie e alle pratiche tradizionali. Tuttavia, soltanto con l’American indian religious freedom act (Airfa) dell’agosto 1978, legge firmata dall’allora presidente Jimmy Carter, venne formalmente riconosciuta la piena libertà religiosa dei popoli indigeni. Nel firmare la legge, il presidente ammise che, a dispetto del primo emendamento della Costituzione Usa, «in passato, agenzie e dipartimenti governativi hanno occasionalmente negato ai nativi americani l’accesso a siti particolari e interferito con pratiche e costumi religiosi».
Le Chiese in Alaska, oggi
Le statistiche più affidabili sulle fedi religiose in Alaska risalgono a uno studio del Pew Research Center (The 2014 U.S. Religious landscape study). Secondo i ricercatori dell’istituto, i cristiani sarebbero il 62% della popolazione adulta. Questa percentuale si dividerebbe in: 22% di evangelici (cioè protestanti non tradizionali), 16% di cattolici, 12% di protestanti (storici), 5% di ortodossi (di cui 4% di ortodossi russi). La Chiesa cattolica dell’Alaska conta su due diocesi: quella di Anchorage-Juneau e quella di Fairbanks. Entrambe hanno uffici che si dedicano alle relazioni con i popoli indigeni dello stato.
Al riguardo, va ricordata l’esperienza di Stan Jaszek, missionario polacco arrivato in Alaska nel 2002. Padre Jaszek, appartenente alla diocesi di Fairbanks (la più estesa degli Stati Uniti), ha lavorato per 15 anni nei villaggi del delta dello Yukon-Kuskokwim, tra i Yup’ik, lo stesso popolo nativo cui appartiene anche Mary Peltola, prima indigena dell’Alaska eletta al Congresso Usa. «Il popolo Yup’ik è profondamente radicato nella natura, quindi comprende intuitivamente la connessione tra il mondo fisico e quello spirituale», ha spiegato padre Jaszek.
Paolo Moiola
Natale e Babbo Natale
La festa e il business
North Pole, agosto. Il nome di questa cittadina può trarre in inganno. In realtà, a dispetto di esso, il North Pole (Polo Nord) dista ancora 2.700 chilometri e il Circolo polare artico più o meno 200. La cittadina di North Pole – meno di tremila abitanti, a circa 20 chilometri da Fairbanks, seconda città dell’Alaska – ospita una base militare, ma è conosciuta soprattutto per la presenza della Santa Claus House, il negozio di Babbo Natale, fondato nel 1952.
La rivendita è in posizione commercialmente strategica, sorgendo accanto alla Richardson Highway. Colore bianco candido con geometrie rosse e, sui muri, tanti disegni di renne, slitte, Babbi Natale, folletti. Detto questo, la struttura esterna non ha nulla di memorabile: forse dipende dai 20 gradi di questo caldo agosto, forse il tutto si dovrebbe vedere con la neve. Entrando, però, il giudizio non cambia.
Alberi di Natale, addobbi per alberi di Natale, maglioni con le renne, pantaloni, cappellini, tazze dipinte, dolci in tema. È un tripudio dell’inutile, dell’eccessivo e del kitsch.
E tutto, o quasi, pare essere più per un pubblico di adulti che di bambini. Il sito internet del Santa Claus racconta delle sue lettere intestate e personalizzate spedite (a partire da 9,95 dollari) a bambini di tutto il mondo e delle migliaia di lettere ricevute da ogni dove (a cui però – viene precisato – «non è possibile rispondere»).
In un recinto poco distante dal negozio, a lato del grande parcheggio, ci sono anche le renne, quelle vere. Probabilmente non sono contente di essere lì, con una temperatura inusuale e non libere di «volare» come vuole la tradizione.
Nessuna ragione per non credere alla felicità natalizia in offerta speciale, ma che la Santa Claus House sia soltanto una redditizia trovata commerciale è ben più di un’impressione.
Pa.Mo.
Ha firmato questo dossier:
Paolo Moiola
Giornalista redazione MC; ha viaggiato in Alaska lo scorso agosto.
Fonti principali
Per la storia dei popoli nativi e dell’Alaska: Harry Ritter, Alaska’s History, West Margin Press, 2020; Steve J. Langdon, The Native People of Alaska, Greatland Graphics, Fairbanks 2022.