Il sequestro

Roraima / Brasile, 6 gennaio 2004. Latifondisti (fazendeiros) e risicoltori, con l’appoggio di indios, sequestrano tre missionari della Consolata a Surumú, a 220 km dalla capitale Boa Vista, e li detengono in ostaggio. Un fatto inedito a Roraima. Il giorno 8 i missionari vengono rilasciati. Ma la vicenda resta gravissima, e non solo perché sono stati vilipesi tre religiosi: un brasiliano, un colombiano e uno spagnolo.
Con il fattaccio, gli autori:
– hanno depredato una missione cattolica;
– hanno assalito l’annesso Centro di formazione indigena, sequestrando persino alcuni allievi;
– hanno attaccato a Boa Vista due istituzioni nazionali: la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) e l’Incra (Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria);
– hanno bloccato le vie di accesso a Boa Vista e le autostrade 174 e 401, che collegano rispettivamente al Venezuela e alla Guyana inglese;
– hanno impedito l’accesso di generi alimentari…
La ragione? Esprimere un secco no al governo federale per l’omologazione dell’area indigena Raposa/Serra do Sol, prevista per la fine di gennaio, dopo estenuanti pressioni durate un trentennio. Intanto, nel 1998, il ministro della giustizia firmava il decreto di demarcazione dell’area.
Il territorio, di 16.500 kmq, è abitato dagli indigeni Macuxi, Wapichana Ingarikò, Patamoma e Taurepang. Complessivamente 15.000 persone.
Ma c’è di più nei fatti del 6 gennaio. Sotto la punta di un iceberg, si cela il disegno perverso di conservare il territorio di Roraima nell’anarchia ed impunità.
Noi, al contrario, riteniamo che la legalità non solo sia possibile, ma soprattutto doverosa. Lo affermiamo confortati dalle seguenti esperienze positive.
– 1997, giugno-luglio. Le comunità indigene, dell’area ovest della Raposa/Serra do Sol, insorgono pacificamente, pressando il governo federale di Brasilia affinché allontani dal territorio i cercatori d’oro e diamanti (garimpeiros). Questi tuttavia, sostenuti da vasti settori della comunità dei bianchi, sostengono che l’intervento delle forze del governo federale avrebbe scatenato la guerra civile. Alla fine, di fronte alla polizia federale, i garimpeiros (benché armati) si arrendono senza colpo ferire.
– 1998. I garimpeiros occupano illegalmente l’area est della Raposa/Serra do Sol, e gli indios incalzano la Funai affinché allontani gli invasori. Costoro, ancora una volta, minacciano il caos sociale. Ma il 31 gennaio intervengono le forze federali, accompagnate da indigeni. E tutto si risolve nella tranquillità. La stessa società roraimense, pur ostile agli indios, non reagisce.
Dunque, l’ordine è garantito dal governo federale, mentre quello di Roraima è inetto e fomenta le invasioni nel territorio indigeno.
Dopo i fatti del 6 gennaio, il governo federale deve ristabilire l’«ordine», come vuole anche la bandiera nazionale del Brasile. Non farlo significherebbe avallare anarchia e impunità, su cui contano le autorità corrotte di Roraima.

Dal gennaio 2003 a Roraima è in corso la Campagna internazionale «Nos existimos», che vede i popoli indigeni, i contadini poveri e gli emarginati della città alleati contro l’impunità. La Campagna, promossa dalla diocesi di Roraima, missionari della Consolata, Centro indigeno, Centrale unica dei lavoratori, Centro dei diritti umani, ecc., rivendica pure l’omologazione in area continua della Raposa/Serra do Sol: omologazione che il presidente Luis Inazio Lula da Silva dovrebbe presto sottoscrivere.
Ci auguriamo che il presidente di una grande nazione democratica, come il Brasile, non si lasci intimorire da un pugno di facinorosi.
Nos Existimos,
Italia

Benedetto Bellesi




Un unico grido: noi esistiamo

Roraima / Brasile:
campagna internazionale Nós existimos
indios, agricoltori ed emarginati della città
uniti per la vita contro la violenza e l’impunità

È la prima volta che indigeni,
agricoltori ed esclusi della città
si uniscono insieme nella solidarietà, per cercare la soluzione
ai problemi che devono affrontare…
«Presidente Lula, vogliamo aiutarti
a vincere la battaglia per il rispetto
dei diritti umani.
Facci credere che ne vale la pena…».

Silvia Zaccaria e Silvano Sabatini




Introduzione – Noi ci siamo e contiamo

N egli ultimi 25 anni, per i lettori di «Missioni Consolata», lo stato di Roraima (Brasile) è divenuto quasi un sinonimo di «campagne». Tutte a favore degli indios. Ricordiamo le principali.
p La campagna per gli indios Yanomami del 1979-80. Promossa dai missionari della Consolata, si svolse soprattutto in Italia. Dal nostro paese partirono circa 700.000 lettere e/o cartoline, con oltre un milione di firme, che sollecitavano il presidente della repubblica del Brasile a creare il parco per gli indios Yanomami. Dopo altee vicende, l’obiettivo fu raggiunto nel 1991, allorché il parco fu demarcato e omologato.
p La campagna indios/Roraima, realizzata nel 1988-89 ancora dai missionari della Consolata (a livello europeo), si proponeva la raccolta di firme, da presentare al segretario dell’Onu, per il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni dello stato; le firme consegnate furono circa 400.000. Inoltre la campagna lanciò il progetto una mucca per l’indio in favore dei Macuxi, Wapichana, ecc., che si concretizzò in 10.000 capi di bestiame (oggi 42.000).
p Ma la caserma no! È la campagna del 2001: si opponeva ad un insediamento militare nel villaggio macuxi di Uiramutã. Purtroppo la caserma fu costruita. Ma gli indios non si sono demoralizzati: incoraggiati anche da oltre 17 mila firme raccolte in Italia (in un solo mese), hanno pressato il presidente Lula per l’omologazione in area continua della regione «Raposa Serra do Sol». Il 28 novembre 2003 Lula ha assicurato che l’area sarà omologata, ma «senza fretta». Tuttavia, il 19 dicembre, c’è stata una doccia fredda: la Commissione «relazioni estere e difesa nazionale» della Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge, che consente la costruzione di nuove caserme nelle aree indigene di Roraima. Un passo avanti e due indietro?
p Nós existimos è la campagna in corso, ma con tre novità rispetto alle precedenti. La prima: la campagna è nata e cornordinata in Brasile da realtà locali (diocesi di Roraima, missionari e missionarie della Consolata, Consiglio indigenista missionario, Consiglio indigeno di Roraima, ecc.). Seconda novità: la campagna è «globale», perché investe non solo i popoli indigeni, ma anche i piccoli contadini e i lavoratori emarginati della città; insomma tutti i poveri. La terza novità è, a nostro parere, sorprendente: è una campagna che sta diventando «movimento». Un movimento che continuerà anche quando la campagna chiuderà i battenti.

P er anni abbiamo sentito i popoli indigeni di Roraima affermare: «Vogliamo vivere!». È stato un grido di fronte ad una costante minaccia di morte.
Oggi tutti i poveri dello stato ostentano con giusto orgoglio il fatto di esistere. «Nós existimos e… resistiamo. L’unione di indigeni, lavoratori rurali ed emarginati della città è un segno di cambiamento» dichiarano con forza gli interessati.
E in altre parole: «Noi ci siamo, eccome! Ma soprattutto contiamo. E vogliamo contare sempre di più nella vita del nostro paese».

Francesco Beardi




Una svolta per mutare la storia

Poveri sono gli indigeni,
ma anche i piccoli contadini
e gli emarginati della città.
Tutti bisognosi di terra e lavoro,
di riconoscimento dei loro sacrosanti diritti,
di fronte a politici che, invece, privilegiano
la «Brancocell» (industria della cellulosa
con capitale svizzero-canadese)
o la giapponese «Mitsubishi».
I «piccoli» si arrenderanno ai «grandi»?
«L’unione fa la forza» recita un adagio.
Vale anche per le formiche.

Nelle mire della globalizzazione
Roraima (Brasile) per gli indigeni Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona e Taurepang, che abitano questa terra da tempi immemorabili, è la «madre dei venti», la montagna sacra da cui il dio Macunaima fece sgorgare tutti i fiumi che danno vita e alimento. Per i non-indios, che arrivano dal sertão (le zone desertiche dell’interno), Roraima è il «Nuovo Eldorado», uno spazio vergine da colonizzare e occupare, dove trovare acqua e sostentamento per i propri figli. Inoltre, per latifondisti, forze armate e multinazionali, è terra di conquista, l’ultima frontiera da sfruttare, da integrare al resto del paese e «globalizzare».
Secondo Flamarion Portela, attuale governatore dello stato più settentrionale del Brasile, il Roraima rappresenta una fonte ancora non sfruttata di opportunità per tutti, migranti ed imprenditori, soprattutto stranieri.
Con un linguaggio da spot pubblicitario, Portela ritrae Roraima come il luogo dove «il sole splende due ore in più che in qualsiasi altra regione del Brasile; per tale motivo il metabolismo delle piante si accelera e permette, nel caso della soia, di guadagnare circa 19 giorni, tra semina e raccolto, rispetto al centro-ovest e al sud». Ancora, trovandosi nell’emisfero nord, lo stato è capace di produrre soia quando il sud si trova in piena stagione delle piogge, permettendo così una produzione continua.
Soia, parola magica in Brasile, da quando il colosso sudamericano è diventato il primo esportatore al mondo. Soia in parte transgenica, allorché il governo del presidente Luis Ignacio Lula Da Silva (detto Lula) ha varato, soprattutto per le pressioni di Blairo Maggi, governatore dello stato del Mato Grosso (grande imprenditore di soia) e della multinazionale americana Cargill, una misura provvisoria che ne prevede la liberalizzazione in Brasile e l’esportazione.
L’inaspettata (e sofferta) decisione del «compagno» Lula ha scioccato la ministra dell’Ambiente, Marina Silva. Secondo alcuni giornali, Silva in lacrime avrebbe reagito alla notizia così: «Sono costretta ad ingoiare il transgenico, però, se mettono le mani sulle terre indigene, mi dimetto».
A parte il transgenico, Silva non deve avere gradito nemmeno i suoi nuovi compagni di partito, tra cui in primis il governatore di Roraima Flamarion Portela, grande fan del transgenico e degli investimenti di capitale internazionale.
È il caso della Brancocell, industria della cellulosa a capitale svizzero-canadese, che produrrà carta digitale ricavata da 150.000 ettari di acacia mangiun, in mano (anche questi) ad uno svizzero. La produzione, prevista per il 2006, dovrebbe generare 6.000 posti di lavoro ed investimenti per circa 300 milioni di dollari.
Il progetto della Brancocell prevede l’acquisto, da parte dello stato di Roraima (e dei suoi contribuenti), di energia elettrica dal Venezuela, da destinarsi al funzionamento della fabbrica, con acacie capaci di produrre carta di ottima qualità.
Secondo i politici locali, l’industria cambierà profondamente la fisionomia economica di Roraima. Con un investimento di 300 milioni di dollari, l’impresa ha dichiarato che produrrà, nel 2004, 800 tonnellate di carta al giorno; questa sarà esportata verso il mercato europeo ed americano per un fatturato di 120 milioni di dollari. Grazie a ciò, il Pil di Roraima dovrebbe salire del 17%. «Saremo un polo di attrazione per altri investimenti nello stato» ha affermato il direttore della Brancocell.
Il prossimo gruppo ad approdare in Roraima (questa volta per la coltivazione di soia nel lavrado) sarà, con molta probabilità, la giapponese Mitsubishi, con la quale l’ex governatore Neudo Campos aveva avuto frequenti contatti. Secondo Portela, la realizzazione di tale impresa dipende dal trasferimento di terre dall’Incra (Istituto nazionale per la riforma agraria) allo stato di Roraima.
Infine sette grandi produttori di riso (tra cui Luiz Afonso Faccio di Riso Acostumado, considerato il primo nello stato) espandono senza limiti le proprie coltivazioni, fino ad invadere le aree indigene.
Così si incoraggiano monocolture estremamente dispendiose per la produttività del suolo e si danno incentivi fiscali per investimenti stranieri, con possibilità limitate di assorbire manodopera locale, ma con beneficio dei pochissimi todos poderosos di sempre.
Invece, per la popolazione roraimense, non si realizza nello stato alcun programma di sostegno all’agricoltura familiare e di tutela e assistenza dei piccoli agricoltori. Questi migrano senza posa in Roraima, in cerca di un pezzo di terra da coltivare e di una vita più degna.
La terra promessa
Da circa 30 anni il Roraima è invaso da ondate di migranti provenienti da tutto il Brasile, specialmente dal Maranhão, lo stato più povero del nord-est. Gli effetti di tale invasione (circa 1.000 persone al mese) sono preoccupanti.
Secondo l’ex presidente della repubblica, Feando Henrique Cardoso, l’Amazzonia rappresenta tuttora la valvola di sfogo delle tensioni sociali presenti in altre regioni, come dimostra la localizzazione nello stato di Roraima della maggioranza dei lotti di terra distribuiti nell’ambito della riforma agraria da lui proposta.
In verità queste migrazioni forzate evitano oggi, come 40 anni fa, il varo di una vera riforma agraria che elimini, una volta per tutte, lo scandalo del latifondo.
Fino a qualche tempo fa era facile trovare maranhensi al lavoro, come tante piccole formiche, nei garimpos (miniere all’aperto) di Serra Pelada, nello stato del Pará, o nella terra yanomami. Adesso sono loro i migranti per eccellenza del Brasile. Secondo l’Istituto brasiliano di geografia (Ibge), negli anni ’90 circa 700.000 persone hanno abbandonato il Maranhão. La mancanza di incentivi governativi all’agricoltura familiare e il dilagare del latifondo hanno spinto i contadini a lasciare le campagne, trasformandosi in potenziali portatori di conflitti sociali, una volta giunti a destinazione.
Molti agricoltori sono stati cornoptati, con false promesse, nelle stesse terre d’origine e attratti verso il Roraima con l’unico scopo di aumentare i «serbatorni» elettorali del governo locale, e poi abbandonati al proprio destino in insediamenti improvvisati in mezzo alla foresta.
Delle 15.000 famiglie stanziate dal governo Cardoso, 11.000 hanno già abbandonato i lotti che erano stati loro assegnati e sono andate ad allargare le favelas della periferia di Boa Vista. I municipi più distanti dalla capitale si svuotano, determinando una forte concentrazione urbana.
Le ragioni di questo esodo rurale vanno ricercate nella mancanza di assistenza, sostegno e incentivi economici per le comunità stanziate nei lotti; per quanto riguarda il sud dello stato, nelle pressioni dei grileiros (invasori illegali di terre dell’Unione, destinate a progetti di riforma agraria), che minacciano ed espropriano le famiglie, determinando la riconcentrazione della terra nelle mani di pochi.
Verso il
«nuovo eldorado»
Dunque, mentre nel nord-est prosperava l’industria della siccità, nel Roraima emergeva quella dell’immigrato.
Scopo ultimo era quello di riempire un territorio disabitato (siamo nei primi anni ‘80), attirando migranti, principalmente dal sertão nordestino verso il «Nuovo Eldorado» e creare così serbatorni elettorali per i coroneis, appartenenti a grandi famiglie di proprietari terrieri che, trasferitisi in Roraima dal nord-est, avevano creato una nuova élite politica, conservatrice, corrotta e fortemente anti-indigena.
Nel 1991, quando Roraima si trasformava da «territorio» in «stato», la popolazione passava dai 70.000 abitanti del 1980 a 217.000. Così i politici locali disponevano di un elettorato stabile attraverso la costante importazione di miserabili, soprattutto contadini senza terra, posseiros e garimpeiros del nord-est. Intanto questo si spopola, mentre il latifondo avanza.
Da qualche tempo, tale tattica è utilizzata anche nel Roraima. I beneficiari dei lotti di terra nei municipi dell’interno, abbandonati al loro destino, senza incentivi e la minima assistenza sanitaria, lasciano le terre concesse e raggiungono la famiglia rimasta in città, nei quartieri periferici, che per questo motivo crescono a vista d’occhio.
I lavoratori rurali sono stati trasferiti in Roraima con la promessa di denaro facile, terra fertile e appoggio alla produzione.
I lavoratori urbani (ex operatori rurali costretti ad abbandonare lotti e garimpos) e gli indios (che hanno lasciato le loro malocas per vivere in città) sono vittime dell’esclusione sociale; subiscono la violenza della polizia (risultato dell’impunità), le conseguenze dello squilibrio causato dal sovraffollamento nelle città, la disoccupazione, la fame, la mancanza di opportunità e di una politica seria per i migranti.
Molti di loro hanno paura di parlare e si trincerano, pertanto, in una umiliante omertà.
Però… da oltre un anno tutte le sfere tradizionalmente escluse dalla società roraimense (popoli indigeni, piccoli agricoltori ed emarginati urbani) si sono unite nella campagna Nós existimos (Noi esistiamo), per tentare di invertire il quadro di ingiustizia sociale e di costanti violazioni dei diritti umani, combattendo l’impunità di cui godono i criminali e la corruzione che prolifera in ogni sfera della società.
Lo scandalo «cavallette»

È di qualche tempo fa la denuncia della grande truffa conosciuta come «lo scandalo delle cavallette».
La truffa fu architettata dalle massime autorità politiche, amministrative e giudiziarie del Roraima, con la partecipazione di vari signorotti dei municipi più isolati, ai danni delle casse dello stato. Alcune persone (le «cavallette» appunto) entravano in rapporto, grazie a procure, con funzionari veri o fantasma (ne sarebbero stati identificati circa 5.500), inseriti nelle liste di pagamento dello stato, per ritirare in loro vece il salario, che poi avrebbero ripassato al loro «padrone» per avere protezione, una percentuale in denaro e una posizione nel caso di vittoria elettorale.
Le «cavallette», in verità, sono anch’esse delle vittime: persone molto semplici, semi-analfabete, sfruttate da vari politici artefici della truffa, che rimangono con più del 95% dei salari «mangiati» dalle loro «cavallette».
Maria Ivanilde Arruda era una di loro. All’inizio del 2002 aveva chiesto aiuto ad un deputato statale. Per ottenere l’appoggio richiesto, si era dovuta recare presso un notaio, accompagnata dagli assessori del deputato, e aveva firmato una procura a loro nome. Alla fine del mese questi ritiravano il salario di Ivanilde, di 300 euro, lasciandole appena tra i 30 e 60 euro.
L’operazione «cavallette» avrebbe sviato finora 100 milioni di euro dalle casse dello stato. Tra i principali imputati dello scandalo c’è l’attuale governatore, Flamarion Portela, che rischia di perdere l’incarico per impeachment. Gli subentrerebbe Ottomar Pinto, il brigadiere già due volte governatore del Roraima e noto nemico dei popoli indigeni.
Un’alleanza per cambiare la storia
L’alleanza dei tre segmenti, tradizionalmente esclusi dalle politiche economico-sociali dello stato di Roraima, fu ufficializzata al 3° Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel gennaio 2003. Tuttavia le sue basi furono gettate attraverso alcuni incontri fra le stesse realtà realizzati nel corso dei mesi precedenti.
Ora gli incontri hanno cadenza fissa (ogni due mesi) e prevedono una rotazione fra le tre realtà ospitanti (indigena, rurale e urbana), nonché uno scambio di esperienze attraverso la visita e la permanenza (di durata variabile) di membri di un gruppo presso la realtà dell’altro.
Il primo incontro ufficiale fra le tre entità fu realizzato alla fine di marzo 2003 nella maloca di Maturuca, in area indigena macuxi.
Qui emergeva subito una novità nei rapporti tra indios e non-indios: la sorpresa e poi la coscienza, da parte dei primi, di avere degli alleati all’interno del loro stesso stato. Fino a quel momento, infatti, i popoli indigeni pensavano che i loro alleati fossero solo gente estea: singoli cittadini e/o organizzazioni straniere di difesa dei diritti umani.
Fino a quel momento, gli indios avevano considerato la società roraimense e tutto il popolo locale fortemente anti-indigeni. Di fronte alla scoperta della solidarietà nei loro confronti da parte di un gruppo abbastanza consistente di non-indios, interno a quella stessa società, gli indios si scusarono con i loro nuovi alleati: «Ci scusiamo per aver parlato male dei bianchi. Ma noi non parliamo male di voi presenti. Parliamo male dei bianchi che hanno interessi nelle aree indigene, che invadono la nostra terra, che ci maltrattano e ci uccidono». Infatti l’incontro avveniva appena due mesi dopo l’assassinio del macuxi Aldo da Mota.
Nel gennaio 2003 Aldo fu brutalmente giustiziato dai jagunços della fazenda Retiro, appartenente al politico Chico das Chagas (conosciuto come Chico Trippa), che nascosero il cadavere in una fossa. Dopo una settimana, gli indios della regione, attirati da avvoltorni, ritrovarono il corpo in uno stato di avanzata decomposizione.
Visto che l’Istituto medico legale di Boa Vista affermava che Aldo era morto per causa «naturale indeterminata», il Consiglio indigeno di Roraima (Cir) e la Fondazione nazionale dell’indio (Funai), non convinti dell’autopsia, mandarono il corpo a Brasilia, dove i periti dell’Istituto di medicina legale indicarono che Aldo era stato assassinato con un colpo di pistola, mentre era con le braccia alzate. I presunti colpevoli dell’esecuzione, arrestati e poi rilasciati senza essere identificati, sono ancora a piede libero.
Aldo è uno dei 24 indigeni uccisi nei primi mesi del governo Lula. Solo in un paio di casi gli esecutori sono stati arrestati, mentre i mandanti sono tutti in libertà.
La percezione della nascita di un qualcosa assolutamente nuovo nei rapporti tra indios e non-indios, nel Roraima, fu avvertita anche da Paulo, leader degli agricoltori presente a Maturuca: «Esco da questo incontro con la consapevolezza che esiste un movimento ben organizzato in Roraima. E questo è il movimento indigeno, che ha molto da insegnare ai non-indios. La stampa e una parte dell’opinione pubblica roraimense ritraggono sovente gli indios come inetti, indolenti e incapaci; ora che li abbiamo conosciuti da vicino sappiamo che non è così; anzi, abbiamo capito che possiamo imparare molto da loro».
Gli indios, a loro volta, affermavano di avere molto da imparare dai non-indios.
Altri importanti incontri
A quello di Maturuca fece seguito, nell’aprile 2003, un secondo incontro nell’area rurale dell’Apiaù, che rafforzava ulteriormente la solidarietà creatasi nella prima assemblea. La solidarietà tra indios e contadini si basa su una rivendicazione comune: il diritto alla terra e ad una vita dignitosa, attraverso opportuni progetti di sviluppo economico sostenibile.
Le relazioni con i lavoratori urbani sono, invece, di natura diversa, in quanto le loro rivendicazioni vertono più che altro sulla ricerca di un impiego e la lotta alla corruzione.
Il terzo incontro si tenne a Boa Vista in maggio. I temi di discussione furono: l’installazione della fabbrica di cellulosa della Brancocell, attraverso lo sfruttamento di 150.000 ettari di piantagioni di acacia; i costi in termini di impatto ambientale ed economico per la popolazione; l’iscrizione al Partito dei lavoratori (PT) del governatore Flamarion Portela, sul quale pesano le denunce di partecipazione allo «scandalo delle cavallette». L’incontro terminava con una marcia contro la corruzione per le strade della città.
Il quarto incontro avvenne in settembre nel municipio di Rorainopolis, una cittadina attraversata dalla strada Br-174 che lega Manaus a Boa Vista, al quale parteciparono 21 leader indigeni, 21 agricoltori e 21 rappresentanti dei lavoratori urbani.
L’incontro verté sul bisogno di raggiungere, sulla base del dialogo e dell’ascolto dei problemi di ciascuna realtà, una convivenza armoniosa e di costruire una proposta comune, con nuove strategie di azione finalizzate ad una maggiore partecipazione alle politiche statali, ma anche federali.
Attraverso tale partecipazione, è necessario realizzare un graduale mutamento nell’inclusione dei settori esclusi, nel rispetto dei diritti umani dei popoli indigeni e nei diritti al lavoro degli agricoltori e del proletariato urbano e, infine, nella «moralizzazione» degli apparati amministrativi, giudiziari e politici dello stato, di fronte ad una situazione di corruzione estesa a tutti i livelli, e di impunità tanto radicata da apparire come la regola per l’intera società.
Nell’incontro di Rorainopolis i tre gruppi poterono verificare con i loro occhi, nei politici dello stato, la totale indifferenza al benessere della popolazione: una città costruita senza alcun progetto e costituita per il 90% da famiglie immigrate dal nord-est; alcune opere incompiute, per le quali il governo aveva stanziato più di 1.300.000 euro, nonché un sistema di fognature inoperante, a causa della mancanza di allacciamenti alle abitazioni (per cui fu speso inutilmente oltre 1 milione di euro) e, infine, attrezzature per l’ospedale, costate più di 300.000 euro, non funzionanti.
Quello di Rorainopolis, comunque, non è un caso isolato: i municipi dell’interno abbondano di opere pubbliche-fantasma.
Rompere il monopolio
Dai vari incontri, da quello di Maturuca a quello di Rorainopolis, i partecipanti uscirono con la consapevolezza di aver combattuto, fino a quel momento, una guerra voluta da poteri a loro opposti.
Era una vera e propria guerra tra poveri, orchestrata secondo il principio divide et impera, dove le parti in lizza, ignare l’una dei problemi e ragioni dell’altra, nonché dei possibili punti di incontro, si affrontavano alla cieca, spinte dal sospetto reciproco inculcato soprattutto attraverso la propaganda dei mezzi di informazione, completamente nelle mani del potere locale.
Gli incontri, quindi, si sono proposti e si propongono di ridurre la distanza e la tradizionale contrapposizione fra le tre componenti, e di giungere all’elaborazione di proposte comuni.
Particolarmente interessante e rivoluzionaria è l’idea della creazione di una banca di solidarietà: un’agenzia finanziaria che, a partire da un fondo comune, possa appoggiare delle iniziative nell’area della produzione; ad esempio la coltivazione di riso, alternativa a quella dei sette grandi produttori dello stato. Nascerebbe un sistema in cui indios e agricoltori potrebbero commercializzare liberamente i prodotti tra loro e, inoltre, venderli all’esterno senza che i primi siano più costretti a comprarli dal latifondista, che ha invaso le loro terre, e senza che i secondi siano costretti a lavorare per i loro tradizionali sfruttatori.
È necessario generare una domanda estea che incoraggi la produzione indigena e degli agricoltori familiari, rompendo così il monopolio che li soffoca, e creare una rete alternativa di commercializzazione dei prodotti. Le proposte mirano a liberare gruppi potenzialmente produttivi dalle strutture di potere da cui dipendono e dalle false promesse da cui troppo spesso sono allettati.
Avere creato una sinergia tra indios, lavoratori rurali e urbani significa, come ha dichiarato nel corso di un incontro un agricoltore, cambiare la storia di Roraima.
Significa che indios e non-indios decidono di abbandonare le loro armi tradizionali (frecce e fucili) e la reciproca diffidenza, per combattere finalmente contro il loro vero nemico: i todos poderosos, i potenti di sempre, e la loro cultura di sfruttamento, violenza e ingiustizia. Il tutto garantita dall’impunità.

Silvia Zaccaria




Perché camminare non basta

L’intervistato è il cornordinatore
della campagna «Nós existimos» a Roraima,
il quale fa il punto della situazione.
Si sofferma sugli incontri fra indios, agricoltori
ed emarginati della città:
a Maturuca, Apiaú, Boa Vista e Rorainopolis.
La volontà di non demordere di fronte a potenti
e prepotenti si accompagna alla speranza
nella solidarietà degli amici italiani,
che appoggiano la campagna.

Da Rorainopolis quattro proposte

Signor Vasconcelos, ci descriva l’ultimo incontro fra indios e non-indios avvenuto nella cittadina di Rorainopolis nel settembre scorso.

All’incontro, nel sud dello stato di Roraima, hanno partecipato 21 leader indigeni, 21 agricoltori e 21 rappresentanti dei lavoratori emarginati delle città. Sono stati accolti dalla comunità locale, da famiglie che li hanno ospitati e si sono dimostrate interessate.
L’incontro ha affrontato la necessità di formulare una proposta che unisse indios, agricoltori e lavoratori emarginati delle città alla ricerca di una maggiore dignità fra loro. In tale senso, tutti gli incontri di «interscambio» che si realizzano sono molto interessanti. Sono incontri di solidarietà, cui partecipano le tre componenti dello stato di Roraima, e fanno parte della strategia della campagna Nós Existimos.
Noi non vogliamo che la diocesi di Roraima ci presenti qualcosa di già preconfezionato, ma, a partire dal dialogo e dall’ascolto reciproco, vogliamo raggiungere una convivenza armoniosa tra indios, lavoratori rurali ed emarginati delle città, e costruire quindi nuove strategie e alternative di lotta.

Cosa si è detto a Rorainopolis delle situazioni «non normali»?

I precedenti tre incontri, nel primo semestre del 2003, sono stati di pura conoscenza; nell’ultimo invece, di Rorainopolis, abbiamo cercato di essere dinamici e concreti. La campagna si propone di interagire meglio fra i tre gruppi e di offrire prospettive alternative.
Rorainopolis è un caso lampante di disattenzione dello stato verso la popolazione. Vi sono opere pubbliche incompiute, che sono già costate al governo federale 1.330.000 euro. E noi le abbiamo esaminate.

Può portare qualche esempio?

Il sistema fognario non è finito: si sono già spesi circa 660.000 euro, e tuttora mancano gli allacciamenti alle abitazioni. La stessa cosa è successa ad un ospedale: le installazioni sono costate 330.000 euro, ma l’opera non funziona e per mancanza di personale e perché è stata costruita in forma inadeguata: non si può neppure installare una apparecchiatura per raggi X o altri strumenti.
Un’altra opera incompiuta è la casa per la produzione di farina di manioca, realizzata con l’intervento di un deputato. Inaugurata oltre due anni fa, non funziona, perché nessuno si è preoccupato di produrre la manioca con cui ottenere la farina. Si è costruita una casa abbastanza esuberante, ma non è utilizzabile.
Poi abbiamo visitato un mercato comunitario (anch’esso non terminato, che non risponde alle aspettative della comunità), un campo sportivo, una palestra all’aperto costata 33.000 euro, di cui esiste solamente la struttura metallica… In totale abbiamo visto sette opere che non rispondono agli obiettivi per i quali erano stati stanziati i soldi.
L’esperienza di visitare opere pubbliche (e quindi di interagire con la realtà locale) è stata molto elogiata. Le persone si rendono conto che non possono più accettare una situazione imposta, ma debbono cercare nuove strade, che richiedono riflessione e dibattito.

È vero che qualcuno voleva impedirvi di fotografare le opere visitate?
È vero. Un giovane wapichana stava filmando le fognature non finite ed è stato fermato dalla polizia. Poi è arrivato il gruppo dei partecipanti all’incontro (60 persone), e la polizia non ha più potuto impedire le riprese.
Io, come giornalista, non ero lì, perché impegnato in una riunione con la Cut (Centrale unica dei lavoratori). Mi trovavo con 11 sindacalisti, che hanno un’esperienza maggiore dei contadini sul come affrontare la polizia. Quando sono arrivato, ho cercato di forzare un po’ la situazione. Gli indios hanno commentato l’episodio dicendo che, se fossero stati in territorio indigeno, avrebbero sequestrato i poliziotti; però, essendo in territorio bianco, hanno rispettato l’azione dei leader bianchi.
Questa dichiarazione è bella: dimostra che, se i bianchi avessero deciso di affrontare la polizia, gli indios si sarebbero schierati dalla loro parte. Un’esperienza molto interessante.

Quali sono stati i tratti salienti dell’incontro di Rorainopolis?
Oltre alla visita delle opere pubbliche non finite, importante è stato stabilire rapporti di solidarietà con la popolazione.
Nell’incontro di Maturuca si è creata una forte solidarietà tra agricoltori e indios, perché le lotte sono simili: per esempio la lotta per il diritto alla terra. Con gli emarginati urbani i rapporti sono diversi, perché la città ha una realtà più complessa, e le lotte vertono soprattutto sulla ricerca di un impiego e contro la corruzione. L’incontro in area Apiaú ha segnato la vita di quella comunità. Il terzo incontro, a Boa Vista, è terminato con una marcia per le strade contro la corruzione.
Nel quarto incontro, a Rorainopolis, abbiamo fatto un’altra marcia; e, poiché la città è più piccola, ha avuto un impatto maggiore rispetto a Boa Vista. Molte persone si sono aggregate, sebbene non avessero partecipato agli incontri anteriori. Abbiamo dimostrato che la gente non è soddisfatta.
È stata una marcia contro la corruzione, ma anche a favore degli indios della Raposa Serra do Sol, dell’agricoltura familiare, degli incentivi agricoli, della creazione di nuovi impieghi. Siamo passati, marciando, davanti alle opere incompiute, ed è stato un momento di formazione per la popolazione locale. Si è proposta l’analisi della realtà. Questo non è ben visto da chi ha il potere.
Dopo la marcia, l’incontro è continuato. È stata importante la discussione per trovare proposte concrete di azione.

Quali sono state le proposte emerse?
Le proposte possono essere divise in quattro aree.
1. Necessità di informazione.
Nelle zone rurali arriva solo la radio del governo, internet non esiste, non c’è tivù (esiste solo in città). Si avverte l’urgenza di scambiare informazioni che portino ad una conoscenza migliore. Se indios, agricoltori e lavoratori delle città non si sono uniti prima, ciò è dovuto in parte alla non conoscenza delle problematiche di ciascuno. Esiste fra loro contrapposizione, favorita dal governo locale, che gli incontri si propongono di ridurre. Al riguardo, è importante fare un giornale popolare.
2. Formazione e interazione.
Gli enti che hanno lanciato la campagna Nós existimos offrono già una formazione ai loro dirigenti. I leader indigeni si incontrano sovente; gli agricoltori, attraverso la Cut la Pastorale della terra, realizzano diversi programmi; in città la Cut ha un costante processo di formazione. Però manca l’interazione tra queste realtà: ecco ciò che proponiamo. La formazione di ogni settore è importante, così pure la socializzazione. Noi non proponiamo programmi alternativi, ma all’interno di quelli già esistenti consigliamo una metodologia, affinché ogni gruppo non discuta solo di se stesso, ma interagisca con tutti. Questo è il lavoro che stiamo iniziando. Per ora sono coinvolte 60 persone. Noi vogliamo interagire con tutti quelli che già si occupano di indios, agricoltori, emarginati delle città. Con le strutture già esistenti, possiamo coinvolgere circa 3 mila persone.
3. Una banca di solidarietà.
Si tratta di organizzare un’agenzia finanziaria che sostenga, a partire dai fondi (limitati) esistenti, iniziative nel campo della produzione economica. L’idea è nuova, audace e rivoluzionaria. L’obiettivo ha bisogno di studio; il dibattito è incentrato sul come liberare le persone dalle strutture di potere da cui dipendono, dalle false promesse elettorali.
4. Commercializzazione dei prodotti.
L’efficacia di Nós existimos passa, anche, per l’autonomia economica. Esistono oggi in Brasile i mediatori, che speculano e guadagnano su ciò che noi produciamo. La ricerca di un commercio di giustizia è affascinante. Bisogna fare in modo che indios e agricoltori possano commercializzare tra loro i prodotti, perché l’indio non deve comprare riso dal latifondista (che ha invaso le sue terre) e l’agricoltore non può smettere di coltivare riso o fagioli solo perché i latifondisti già lo fanno. Occorre generare una domanda che rompa la struttura di monopolio, che soffoca la popolazione. Bisogna costruire un interscambio tale che tutti possano guadagnare.
I politici corrotti approfittano della situazione: ad esempio, nel settore dei trasporti, dove i contadini sono alla mercé dei politici; se gli agricoltori non sono d’accordo con loro, non hanno la possibilità di commercializzare i prodotti, perché viene loro negato il trasporto.
L’idea è di creare una commercializzazione giusta dei prodotti, per arrivare all’autonomia economica e politica. Si possono organizzare delle cornoperative che trasportino direttamente le merci in città.

Questi obiettivi, dall’inizio della campagna ad oggi, sono cresciuti? Esiste maggiore presa di coscienza?
Un agricoltore, leader sindacale, durante l’ultimo incontro ha detto: «Dobbiamo essere prudenti, perché il nostro progetto è audace, e non dobbiamo commettere sbagli nell’esecuzione. Il governo locale, sebbene corrotto, può attaccarci con i suoi avvocati, perché rompere la dipendenza economico-politica e costruire una sinergia tra indios, agricoltori ed emarginati delle città significa cambiare la storia di Roraima». Questo intervento è stato appoggiato da tutti.
Noi abbiamo la coscienza che la campagna destruttura il potere locale. Esiste la consapevolezza della necessità di costruire una proposta economico-politica alternativa, ma non possiamo risolvere la situazione da un momento all’altro.

Altre osservazioni sull’incontro di Rorainopolis?
Rorainopolis è una città costruita senza alcun progetto; più del 90% della gente è immigrata o di famiglie immigrate: lavora, è onesta, lotta. Ma è senza protezione. Vive in una condizione di miseria e sfruttamento estremo; proviene già dalla povertà del nord-est brasiliano, alla ricerca di una terra promessa, perché qui c’è acqua e terra fertile. È uscita da una vita di fame e siccità, e oggi incomincia a capire che vuol dire essere cittadini. Non si accontenta più delle «briciole» dei politici. Con un po’ di organizzazione, sta prendendo coscienza dei propri diritti.
Gli incontri ad Apiaú, maturuca e Boa Vista
Parliamo anche degli altri incontri, come quello dell’Apiaú (aprile 2003).
Nel 1999 alcuni agricoltori dell’Apiaú parteciparono ad un incontro di animatori pastorali a São Luis de Anauá. Uno di loro, nel 1953, abitava dove esisteva una maloca indigena. Lo feci notare. Egli mi aggredì: «È tutto falso. Non ci sono mai stati indios in quest’area». Risposi: «Vuoi che ti mostri centinaia di fotografie che attestano il contrario?». Rispose urlando: «Voi, preti, siete solidali solo con gli indios…».
L’incontro dell’Apiaú ha fatto capire che cosa si può fare in futuro. La proposta di incontrarci a Rorainopolis è venuta proprio dall’Apiaú. Qui prevale il mondo agricolo; non è molto diverso dagli altri mondi, ma ha la sua peculiarità. Apiaú è più vicina a Boa Vista, ha avuto un processo di colonizzazione recente, una organizzazione più forte dei lavoratori. Apiaú è vicina agli indios yanomami (con terre strappate a loro), c’è più consapevolezza di abitare vicino ad un’area indigena.
Nell’Apiaù si sfrutta il legname, ma, diversamente da Rorainopolis, non ci sono segherie. Rorainopolis è esplosa demograficamente negli ultimi 6-7 anni, da quando è divenuta municipio. È città piccola, ma con un grande caos sociale: droga, avventurieri, violenza, assassini, prostituzione femminile e infantile…
L’incontro di Rorainopolis, rispetto a quello dell’Apiaú, è stato più intenso. Il confronto con la realtà è stato maggiore. Abbiamo capito come l’organizzazione popolare possa cambiare i cammini della storia.

E in area indigena? Cosa c’è stato di importante nell’incontro di Maturuca di marzo-aprile?
L’incontro di Maturuca è stato il primo, ed è emersa la novità di Nós existimos. La sorpresa di capire, da parte degli indios, di avere degli alleati. I popoli indigeni, nel corso di questi anni, pensavano che i loro alleati fossero solo fuori dello stato di Roraima: cittadini stranieri e organizzazioni in difesa dei diritti umani. Gli indios hanno sempre considerato il popolo di Roraima anti-indigeno. A Maturuca gli indios hanno anche chiesto scusa per avere parlato male dei bianchi.
Gli indios hanno un grande rispetto per la chiesa, ma anche per la Cut. Si sono interessati per capire che cos’è il sindacato, la Commissione pastorale della terra, il Centro di difesa dei diritti umani e le altre organizzazioni della campagna. Paolo, leader degli agricoltori, dopo l’incontro di Maturuca, ha detto: «Ho la consapevolezza che esiste un movimento bene organizzato in Roraima. È il movimento indigeno, che ha tanto da insegnare ai non indios». E gli indios hanno risposto che hanno molto da imparare dai bianchi.

Nell’incontro di Boa Vista (1-2 maggio), con i lavoratori urbani, quali novità sono emerse?
C’erano 124 persone, mentre se ne aspettavano 60. Il tema principale è stato la corruzione nel pubblico impiego. Il problema grosso per i lavoratori urbani è il lavoro, per gli indios la terra e per gli agricoltori ancora la terra con una agricoltura familiare sostenibile.
Si è discusso dell’installazione di una fabbrica di cellulosa a Boa Vista e sul suo impatto ambientale. Una fabbrica che, secondo dati governativi, dovrebbe generare 634 posti di lavoro che lo stato presenta come la salvezza di Roraima. Ma la fabbrica causa un grande inquinamento; 634 posti di lavoro sono insignificanti, ma il governo li presenta come il toccasana e offre incentivi fiscali per favorire l’azienda. Noi consumatori pagheremo l’impatto ambientale, ma anche il costo in dollari dell’energia importata dal Venezuela, necessaria alla fabbrica. Una fabbrica, proprietà di un gruppo svizzero-canadese, che produrrà cellulosa su 150.000 ettari di acacia mangium. Ecco l’impatto ambientale disastroso.
Si è discusso pure del governatore di Roraima che ha aderito al Partito dei lavoratori. Il governatore, su cui pesano denunce di corruzione, è stato invitato ad entrare nel partito del presidente Lula, quando tutti sanno che Lula appoggia il movimento sociale della sinistra. È un problema inquietante.
la campagna diventa «movimento»
Parliamo della Cut, delle caratteristiche e prospettive di questo grande sindacato.
La Cut è entrata subito in Nós existimos. Quando abbiamo lanciato la campagna nel Forum mondiale sociale di Porto Alegre, per esempio, l’abbiamo fatto nella sede dei sindacalisti della Cut.
C’è stata una reazione violenta del governo di Roraima contro la Cut, la quale voleva realizzare il proprio congresso nell’area indigena Raposa Serra do Sol. C’è stata la reazione dura di alcuni leader della Cut, legati al governo di Roraima, i quali sono intervenuti contro la realizzazione del congresso.

Chi sono questi sindacalisti della Cut legati al governo?
C’è il sindacato della scuola, dei lavoratori rurali e alcuni segmenti del sindacalismo pubblico; c’è un deputato del Partito dei lavoratori di Roraima, che ha subìto l’influsso del governo locale ed è intervenuto perché la Cut abbandoni la campagna. L’opposizione dura del governo è avvenuta allorché la Cut ha deciso di riunirsi in area indigena, invitando persino alcuni indios.

Non è rivoluzionario ciò che è successo?
La partecipazione della Cut è fondamentale per la campagna, perché è un’istituzione molto rappresentativa. La Cut di Roraima è molto giovane e piccola; però la sua alleanza con il mondo indigeno è molto importante; se si alleasse con il governo di Roraima, sarebbe un disastro per tutti noi. È necessaria una proposta politica che coinvolga la Cut, il cui gruppo dirigente è ottimo. Ma ha bisogno di autonomia.
È un processo nuovo anche per i sindacalisti, che prima non conoscevano gli indios; la campagna permette l’integrazione tra sindacato e indigeni. La direzione della Cut, per tutto il 2004, non si lascerà comprare e farà gli interessi dei lavoratori. Crediamo che questa Cut sarà solidale con tutti.

Dagli incontri è emersa anche un’«azione estea» al Brasile, che potrebbe avere una finalità economica ricercando aiuti all’estero. Come giudica, per la campagna, l’aiuto finanziario esterno?
Gli amici stranieri sono preoccupati non solo per la nostra situazione economica, ma sono anche coinvolti nelle loro realtà con azioni politiche. Dobbiamo interagire di più con chi appoggia la campagna. Siamo giunti alla proposta di incontrare, qui a Roraima, i nostri alleati per chiarire cosa noi possiamo loro offrire e cosa essi possono darci. Siamo coscienti del lavoro che ci aspetta, a partire dagli scambi culturali e politici tra le varie entità della campagna.
È importante chiarire che noi siamo un piccolo gruppo di persone. C’è una sola persona che lavora a tempo pieno nella campagna. Io ne sono il cornordinatore, ma lavoro anche come giornalista nel Consiglio indigeno di Roraima. È difficile avere altri professionisti.
Ho incontrato una ragazza, di origine palestinese; le ho proposto di lavorare con noi, visto che sta finendo il corso universitario di giornalismo. Si è detta interessata, ma due giorni dopo ha dichiarato che non è possibile. Sicuramente c’è stata la pressione dei genitori, perché qui è pericoloso lavorare con gli indios e nella campagna.

Non pensa che il progetto economico, come l’avete elaborato, vi costringa a impegnarvi oltre le vostre possibilità?
Il progetto economico è nato dopo molta riflessione. Siamo in difficoltà per mancanza di professionisti (avvocati, giornalisti) che assumano il lavoro. Se li inviate dall’Italia, noi li accettiamo!

Senza professionisti, la campagna è ancora possibile a Roraima?
Mah, potrebbe esserlo! Noi facciamo tutto il possibile, ma siamo al limite. Stiamo affrontando necessità estreme. La speranza è di trovare persone che programmino, proprio per uscire dalla logica dell’urgenza. Noi non siamo il potere politico, però abbiamo quello della giustizia, della verità, della conoscenza, della lotta. Affrontare il potere politico è difficile, ma è anche entusiasmante.
Però, senza un’équipe di lavoro, ci sarà un momento di stallo. Allora diremo: l’idea è buona, ma non possiamo realizzarla.

Intanto però lavorate nella campagna.
Gli indios lottano per l’affermazione dei loro diritti, così gli agricoltori e gli emarginati delle città.
Noi, della campagna, nelle quattro domeniche di ottobre, abbiamo organizzato marce di protesta contro l’impunità e la corruzione, contro la centrale idroelettrica di Cotingo, perché in area indigena. Il nostro lavoro ha creato così numerose aspettative; a tal punto che, invece di una campagna, dovremmo parlare di un movimento permanente «Nós existimos». Come fare?
Le proposte che abbiamo presentato hanno ottenuto molti consensi; siamo stati invitati, per esempio, ad una conferenza sull’ambiente organizzata dall’università. Siamo invitati a numerose iniziative promosse a Roraima dal governo federale; però non sempre abbiamo la possibilità di presenza.
Ciò vuol dire che, invece di organizzare la festa per l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol, forse finiremo per organizzare il funerale di… André!
Recuperare il tempo perduto
André, lo so, tu sei un cornordinatore senza cornordinati. (Ndr: improvvisamente l’intervistatore ricorre al «tu», abbandonando il «lei»).
Mi auguro che tu abbia anche persone da cornordinare. I nostri gruppi in Italia capiranno che i loro aiuti sono essenziali perché possiate continuare la campagna.
Noi porteremo avanti il nostro progetto con o senza appoggi finanziari estei. Parlo del progetto ideale della campagna. È un cambiamento strutturale, e abbiamo una responsabilità enorme.
Noi vorremo fare, in un anno o poco più, il cammino perso nei 10 anni precedenti. Dal 1991, quando Roraima diventò stato, i politici hanno rubato il denaro del popolo. Ora dobbiamo rifare uno stato, recuperando 10 anni. C’è anche una pesante eredità storica di circa 300 anni, quando arrivarono i primi colonizzatori a Roraima con la convinzione che l’indio dovesse essere sempre schiavo. Dobbiamo convincere i «bianchi comuni» che sono stati sfruttati, come lo sono stati gli indios, e che devono organizzarsi, come hanno fatto gli indios.
E capire che gli indios non sono esseri inferiori o incapaci.
Abbiamo bisogno di correre contro il tempo.

Tu puoi correre, André, perché hai solo 27 anni.
Lei, padre Silvano, è più vecchio e, quindi, conosce meglio le fasi difficili della crescita: agricoltori in aree indigene, strade aperte in terre degli indios, loro stermini intenzionali, come ha documentato nel suo libro «Massacre» (Ndr: traduzione italiana «Sangue nell’Amazzonia»).
Io sono di un’altra generazione. Negli anni ‘80 ero ragazzino, ma ho visto che l’élite di Roraima si è appropriata di tutte le ricchezze, dimenticando i cittadini.

Il vostro è un lavoro ottimo. Potete contare sul nostro appoggio, non solo economico. Faremo in modo che non sia il ricco che dà al povero, ma uno sforzo di solidarietà.
Noi desideriamo proprio questo. Chi lavora con lei in Italia è preoccupato per l’ingiustizia presente anche da voi, così come noi lo siamo qui. È così che nasce la consapevolezza di aiutarci tra fratelli…
Grazie, padre Silvano, di averci dato ascolto.

La redazione ringrazia vivamente
Roberto Giacone e Paolo Guglielminetti,
che hanno sbobinato e tradotto dal portoghese l’intervista.

a cura di Silvano Sabatini




I sogni di Lodovico

Una colonia di lebbrosi
è diventata una comunità viva e autosufficiente
per opera di padre Lodovico Crimella, deceduto 10 anni fa.
I suoi ideali e progetti sono stati ereditati
da un prete diocesano locale, che continua
a tradurli in realtà.

«L a civiltà non è né il numero, né la forza, né il denaro. La civiltà è il desiderio paziente, appassionato che vi siano sulla terra meno ingiustizie, meno dolori, meno sventure», tuonava Raoul Follereau, l’apostolo dei malati di lebbra, nato 100 anni fa in Francia (Névers, 17 agosto 1903).
Tra i tanti seguaci di Follereau, padre Lodovico Crimella, missionario della Consolata, nato nel 1937 a Valmadrera e tornato alla casa del Padre il 4 dicembre 1994, ha lasciato un’importante e originale eredità sulle sponde del Lago do Aleixo (Brasile).
Padre Joaquim Hudson, il ventinovenne sacerdote dell’Amazzonia, attualmente cornordinatore della comunità del Lago do Aleixo, racconta: «Conobbi padre Lodovico nel 1987, quando avevo 13 anni: quasi per caso, accompagnai mia sorella alla comunità del Lago do Aleixo, perché vi portava due conoscenti, marito e moglie, malati di lebbra con deformità visibili.
La comunità Onze de Maio era l’unica in tutta l’Amazzonia che poteva offrire ospitalità a persone con quella sofferenza. Mi parve di arrivare in paradiso. Padre Lodovico ci accolse bene e fui molto impressionato per quanto erano riusciti a realizzare in un ambiente che, pochi anni prima, era considerato un ghetto. Di tanto in tanto con mia sorella andavo a trovare quelle persone, che morirono due anni dopo serene e con dignità – sottolinea con convinzione padre Hudson -. Solo a 17 anni entrai nel seminario di Manaus, interessandomi sempre ai più poveri ed emarginati delle favelas.
Nel 1994, quando avevo ormai 20 anni, appresi della morte di padre Crimella, che fu ricordato nella preghiera in tutte le parrocchie di Manaus, e di come un suo confratello, padre Josè Maria Fumagalli, diventato monaco benedettino, si fosse impegnato di seguire la comunità per un anno.
Padre Fumagalli si fermò per ben quattro anni, ma poi, nel 1998, dovette far ritorno al suo convento. In quel periodo stavo terminando il seminario e tutti i giorni pregavo con il vescovo di Manaus, mons. Louis Suarez Vieira. Ogni mattina durante la preghiera il vescovo chiedeva: “C’è qualcuno che desidera prendersi la responsabilità della comunità del Lago do Aleixo?”. Nessuno voleva andarci: è una parrocchia di 40 mila persone, divisa in 12 comunità, con ancora 1.550 hanseniani disabili o in cura.
Una mattina, pensando a quanto aveva fatto padre Crimella, mi ritrovai a dire: “Ci vado io”. E così, nel 1999, appena ordinato sacerdote, iniziai il mio servizio al Lago do Aleixo, nella stessa casa dove tanti anni prima avevo incontrato padre Lodovico, che ricordo tutti i giorni nella santa messa».
Ma che cosa ha fatto padre Lodovico, che nel 1993 fu insignito del premio Raoul Follereau dall’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau (Aifo)? Avevo conosciuto quest’intrepido missionario della Consolata nel 1992 e, ascoltando la sua storia, mi ero ben presto convinto che i progetti sviluppati con la comunità hanseniana del Lago do Aleixo erano in perfetta sintonia con l’etica dello sviluppo e rispondevano all’ideale di civiltà, sollecitato da Raoul Follereau.

B ravo amministratore, dieci anni di esperienza nella diocesi di Roraima, padre Lodovico si ritrovò, nel 1980, ad ascoltare le sofferenze di 300 famiglie, con uno o due ammalati di lebbra, abbandonate in stato di povertà sulle sponde del Lago do Aleixo dopo la chiusura della Colonia per lebbrosi avvenuta nel 1978. Grande ammiratore di don Milani, padre Lodovico ascoltò e pregò per queste persone; poi con loro iniziò la grande avventura.
Nel novembre del 1981 si tennero moltissime assemblee. Tutti erano liberi di partecipare e offrire il loro contributo, dibattendo temi vitali per la comunità come: acqua potabile, lavoro, scuola, pesca, casa, assistenza medica. L’arcivescovo diede a quell’insieme di famiglie l’entità giuridica di «parrocchia» (anche se i cattolici si contavano sulla punta delle dita), con la condizione che padre Lodovico fungesse da orientatore. Fu democraticamente eletto un consiglio di sette persone che decise di sviluppare piccole attività cornoperative utili per la comunità: allevamento di polli e maiali, acqua potabile, pesca, coltivazione razionale del terreno, rivendita dei prodotti.
Nel 1992 la comunità del Lago do Aleixo contava 20 mila persone con circa 1.600 malati di lebbra in cura, seguiti dall’ospedale governativo. Il consiglio era ormai formato da ragazzi che avevano frequentato le scuole e ogni famiglia era impegnata in un progetto cornoperativo, che permetteva di guadagnarsi dignitosamente da vivere.
Padre Crimella puntò sempre all’autosufficienza di ogni attività; perciò non accettò mai grandi interventi che avrebbero ucciso lo spirito d’iniziativa della comunità, ma solo piccole somme, come capitale iniziale legato a progetti specifici, per aiutare il decollo della piccola società cornoperativa.
L’opuscolo CSELA em ação (Comunità sociale educativa del Lago do Aleixo in azione), pubblicato nel 2000, mostra chiaramente come tutte le attività iniziate dalla comunità insieme a padre Lodovico, continuate con padre Fumagalli ed ora cornordinate da padre Hudson si siano sviluppate o modificate, mantenendo lo spirito originale: sviluppo armonioso della comunità con partecipazione democratica e responsabilità di tutti.
La comunità conta ormai 40 mila persone (20% bambini fino a 12 anni, 35% adolescenti da 13 a 20 anni, 30% adulti e 15% oltre i 60). Circa 250 famiglie sono impegnate direttamente nelle cornoperative del Csela, altri lavorano a Manaus. I cattolici della parrocchia San Giovanni Battista, suddivisi in 12 comunità sono ormai 35 mila. Per malati ed ex-malati di lebbra si ha cura della prevenzione e riabilitazione sociale.

I nfatti, padre Hudson, prossimo alla laurea in psicologia, racconta: «Abbiamo iniziato corsi di nuoto per i bambini, perché purtroppo molti sono morti nel lago. L’esame medico per ammettere i bambini ai corsi è molto rigoroso: lo scorso anno abbiamo scoperto 6 casi di lebbra. Curati subito, i bambini guariscono in 6 mesi. Abbiamo ancora tanti casi di ex-malati di lebbra con deformità visibile, ma si cerca di inserirli in attività produttive. Ne è un esempio l’attività di calzoleria, ormai gestita da un ex-hanseniano, che userà il silicone per fabbricare calzari adatti ai piedi con ulcere degli ex-malati di lebbra».
Con gratitudine il sacerdote dell’Amazzonia ricorda l’importante presenza di quattro suore della Consolata, da anni impegnate nella comunità del Lago do Aleixo: «Sono ormai più di 10 anni che suor Giuditta si trova nella comunità e si occupa di bambini, mentre suor Severa è impegnata nella scuola, suor Teresa nella farmacia e suor Renata nel lavoro pastorale. Le suore sono, comunque, inserite in tutti i settori dove c’è bisogno e sono molto amate dalla gente. Due anni fa, quando sembrava dovessero ritirarsi, la gente fece una mezza rivoluzione».
Tanti amici continuano ad appoggiare il Csela, seguito con particolare affetto dagli «Amici del Lago do Aleixo», formato da fratelli e conoscenti di padre Lodovico, impegnati a sostenere piccoli progetti significativi cari a padre Crimella e vitali per la comunità. Memorabile è stato il 2000, anno del Giubileo, quando al Lago do Aleixo, accanto al cippo commemorativo in memoria di padre Lodovico, fu issata la campana proveniente da Valmadrera.
Nel settembre 2002 don Carlo Ellena, sacerdote Fidei donum della diocesi di Torino, con 25 anni di missione in Brasile, ha visitato per il gruppo Bakhita-Follereau di Torino la Comunità del Lago do Aleixo ed ha scritto: «Padre Joaquim Hudson, parroco della Comunità e praticante di psicologia presso l’ospedale dei lebbrosi, è un’ottima persona, con idee molto chiare e avanzate su come affrontare i problemi delle gente, degli ex malati di lebbra e le varie iniziative sociali, ereditate dai sacerdoti che lo hanno preceduto. Le attività stanno procedendo molto bene e con un chiaro indirizzo non patealistico, ma di promozione, mirando alla gestione autonoma delle attività. Alcune sono già indipendenti, altre lo stanno diventando, altre sono ancora in fase di sperimentazione…
In una parola mi pare che l’idea grande di padre Lodovico Crimella sia seguita ed anche perfezionata. Per giungere all’indipendenza si punta chiaramente alla produzione di rendita (si produce per vendere e autosostenersi)… Abbiamo visitato le varie attività, progetti e iniziative, che sono moltissime e sparse nelle varie comunità, ma gestite con lo stesso stile e filosofia. Ho incontrato gente simpatica, generosa e disponibile alla collaborazione… Sono realtà che lasciano il segno».

P adre Joaquim Hudson è fiducioso per il futuro, anche se ben cosciente della difficoltà, e ci confessa il suo sogno: «La cosa bella della comunità è che tante attività vanno avanti bene, abbiamo sviluppato tante cornoperative e moltissimo lo sport, che tiene i giovani impegnati e lontani dalla delinquenza dilagante nei quartieri periferici di Manaus. Abbiamo ben 35 squadre di calcio, di cui 5 formate da ragazze; ci sono corsi di ginnastica, anche per la terza età, di capoeira, di nuoto e di canottaggio.
Ma la mia preoccupazione maggiore è la scuola. Tutti, finalmente, terminano le elementari, ma è difficile farli proseguire: abbiamo una sola laureata in pedagogia proveniente dalla comunità. Con la nuova biblioteca e alcuni computer, speriamo di invogliare i giovani allo studio. Il mio sogno è di avere laureati provenienti da questa comunità, per formare qualificati gruppi dirigenti, capaci di orientare al meglio lo sviluppo di tutta la comunità e cancellare definitivamente lo stigma legato alla lebbra».
Il grande sogno di padre Lodovico è diventato il sogno di padre Hudson.

Silvana Bottignole




La sfida infinita

Per 5 secoli la chiesa latinoamericana ha ricevuto missionari da altrove; da 40 anni sta recuperando la sua coscienza missionaria: oggi invia i suoi evangelizzatori in altri continenti.
Tale maturazione è ancora in corso, con un cammino esemplare, come testimonia l’ultimo Congresso missionario.

«È arrivato il tempo per l’America Latina di intensificare i servizi mutui tra le chiese particolari, era scritto nel documento di Puebla 25 anni fa. Che cosa è stato fatto in tutto questo tempo?» ha domandato appassionatamente il cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa (Honduras), ai partecipanti del secondo Congresso americano missionario (Cam2/Comla7). «Il nostro continente contiene il 50 per cento dei cattolici mondiali, ma non ha il 50 per cento dei missionari del mondo» ha continuato il porporato.
Per quasi 500 anni l’America Latina si è considerata «terra di missione» passiva, cioè dipendente, in fatto di personale, mezzi e idee, dalle chiese europee e, più recentemente, da quelle nordamericane.
Pur avendo ancora bisogno di essere alimentata dall’estero, essa sta diventando sempre più una «chiesa missionaria attiva», evangelizzando i gruppi umani che ancora non credono a Cristo e inviando missionari al di là delle proprie frontiere, «dando della sua povertà».
DALLA CRISTIANIZZAZIONE
ALL’EVANGELIZZAZIONE
Per secoli la sfida missionaria della chiesa in America Latina è stata quella d’insegnare alla gente a praticare le espressioni religiose secondo i modelli della cultura dominante: formare buoni cristiani con l’appartenenza alla chiesa, imparando la dottrina, osservando i comandamenti, ricevendo i sacramenti e partecipando alle devozioni cattoliche.
Più che di evangelizzazione, si è trattato di un processo di cristianizzazione, in cui le culture indigene non avevano alcuna importanza (non solo in America Latina) nell’espressione della vita cristiana. I missionari ritenevano quella occidentale come l’unica via, o la più adeguata, per esprimere il vangelo.
Ma il 35% degli abitanti del continente (amerindi, afroamericani e minoranze asiatiche) non sono affatto «latini» nelle loro radici culturali; metà della popolazione è costituita da mestizos, con un grande miscuglio anche sotto l’aspetto etnico e culturale.
Tuttavia, la cristianizzazione ha fatto sì che il cristianesimo non fosse sentito in America come una religione straniera; anzi, la predicazione del vangelo è sempre stata accettata e desiderata. Ma ne è nata una chiesa introversa, occupata a conservare la fede delle sue comunità e la propria influenza sulla società, senza alcuna preoccupazione di comunicare il vangelo ai non cristiani in Asia e Africa. Tale era la mentalità alla vigilia del Concilio Vaticano ii.
Quanto il Concilio definì missioni «le iniziative dei divulgatori del vangelo in mezzo ai popoli e gruppi umani che ancora non credono in Cristo» (Ad Gentes 6), una sessantina di vescovi brasiliani suggerì una differente formulazione: sono missioni «le attività dirette a tutte le creature, particolarmente ai popoli e gruppi umani che ancora non credono in Cristo».
L’aggiunta dell’avverbio non passò, per non annacquare il concetto di missione; in compenso fu aggiunta questa nota: «È evidente che in questa nozione dell’attività missionaria sono incluse obiettivamente anche le parti dell’America Latina, in cui non c’è né gerarchia propria, né maturità di vita cristiana né sufficiente predicazione del vangelo» (AG 6, nota 15).
Con questa nota l’America Latina continuava a ritenersi «terra di missione» in senso passivo e geografico, in quanto vari gruppi umani si presumevano già cristianizzati, ma ancora ignoranti o indifferenti circa la fede cristiana.
Ma a partire dalla seconda metà del secolo xx nella chiesa latinoamericana si è fatta strada la coscienza dell’evangelizzazione in senso specifico, come annuncio del vangelo ai gruppi umani più emarginati, per renderli capaci di un incontro personale col Cristo vivente, attraverso una vera conversione e la sequela.
RINNOVAMENTO DAL BASSO
Cominciò negli anni ’50. Vari missionari impegnati nei paesi delle Ande (Bolivia, Perù, Ecuador) e Centroamerica (Messico e Guatemala), dove si concentra il 90% dei popoli indigeni, sentirono l’urgenza di una nuova evangelizzazione. A tale scopo formarono catechisti e animatori responsabili di annunciare il vangelo nella propria lingua, guidare il culto e la vita ecclesiale delle proprie comunità; soprattutto, studiarono le esperienze religiose ed espressioni culturali dei vari gruppi etnici, le confrontarono con le sacre scritture e le valorizzarono per esprimere la fede cristiana in termini comprensibili ai membri delle singole culture e farla rivivere secondo la loro identità.
Nasceva così la missiologia latinoamericana, le cui radici non sono nelle facoltà teologiche, ma nelle sfide di base dell’apostolato locale.
A risvegliare la coscienza missionaria della chiesa latinoamericana ha contribuito, soprattutto, il rinnovamento della teologia cattolica, operato dal Vaticano ii. Nel 1966, il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) prese sul serio l’affermazione conciliare che l’intera chiesa è missionaria «per sua natura», che ogni battezzato è responsabile dell’annuncio del vangelo ai non cristiani (Ad Gentes 2). Per animare le singole conferenze episcopali, il Celam diede vita al Departamento de missiones (Demis).
Questo si mise subito al lavoro: in due incontri (nel 1967 in Ecuador e nel 1968 in Colombia) cominciò a identificare le situazioni specifiche missionarie, a stabilire le priorità e tracciare le linee guida della nuova evangelizzione. Fu coniato il termine «situazioni missionarie», riferite ai gruppi umani da evangelizzare, non perché vivono in giurisdizioni ufficialmente designate come «territori di missione», ma perché le loro culture non hanno ancora incontrato la forza vivificante del vangelo.
Erano gli anni in cui si stava affermando la teologia della liberazione: essa si interessava anche degli indigeni, ma quasi esclusivamente sotto l’aspetto socio-economico, dando poca importanza a quello culturale. Perfino la seconda Conferenza del Celam, tenuta a Medellín nel 1968, pur riconoscendo l’esistenza dei popoli indigeni, li considerò come gruppi socialmente emarginati, non come popoli la cui identità culturale sfidava la chiesa nell’attività missionaria specifica.
Ma poiché il 90% degli indigeni era concentrato in soli 5 paesi; le altre 17 conferenze episcopali prestarono poco interesse al lavoro del Demis, considerato come un dipartimento del Celam per gli affari indios o di antropologia.
Anzi, la proposta di mons. Samuel Ruiz, vescovo del Chiapas (Messico), presidente del Demis dal 1969 al 1974, di formare chiese diversificate tra i popoli indigeni fu considerata irrealistica, un’esagerazione, se non una minaccia.
Ironia della sorte, gli orientamenti teologici e pastorali del vescovo messicano, sono diventati dottrina ufficiale della chiesa, da quando Paolo vi, in Evangelii nuntiandi (1975), parla di «evangelizzazione delle culture».
LA GRANDE SVOLTA
Dal 1975, grazie all’Evangelii nuntiandi, vescovi e teologi latinoamericani cominciarono a prendere sul serio la relazione tra vangelo e cultura. La terza Assemblea generale del Celam (Puebla 1979) segnò una svolta di 360 gradi nella coscienza e azione missionaria: i vescovi riconobbero l’esistenza di «situazioni missionarie» non solo tra gli indigeni, ma anche tra gli afroamericani (30% della popolazione del continente), a lungo ignorati dall’apostolato della chiesa ed ora considerati «i più poveri dei poveri», una «situazione missionaria permanente».
Se fino a Puebla erano stati i missionari a promuovere la valorizzazione teologica delle culture tradizionali, da quel momento saranno i pensatori indigeni e afroamericani ad approfondire tale argomento, nella ricerca di una teologia propria: si cominciò a parlare di «teologia india» e «teologia afroamericana».
CONGRESSI MISSIONARI
Il cambiamento più profondo aperto da Puebla è il senso di urgenza impresso alla chiesa latinoamericana ad accogliere la sfida dell’evangelizzazione dei popoli fuori delle proprie frontiere, in Africa e Asia, «dando dalla propria povertà» (DP 368) di personale e mezzi.
A svegliare e forgiare questo nuovo spirito missionario furono, negli ultimi 25 anni, i congressi missionari. Già prima di Puebla, le Pontificie opere missionarie (Pom) ne avevano organizzati alcuni a livello nazionale; a quello messicano, tenuto a Torreón nel 1977, parteciparono vari delegati dei paesi latinoamericani e furono presi impegni sull’animazione missionaria e vocazioni missionarie a livello continentale. Così nacque il Comla (Congresso missionario latinoamericano), sigla ufficiale ratificata nel secondo convegno, tenuto a Tlaxcala (Messico) nel 1983. Come segno di comunione e partecipazione all’evangelizzazione del mondo, fu richiesto alle diocesi più ricche di personale di inviare i loro sacerdoti alle chiese più bisognose.
Il terzo Comla, tenuto a Bogotá nel 1987, ribadì la responsabilità missionaria delle chiese diocesane. Il quarto, celebrato a Lima nel 1991, mobilitò la chiesa latinoamericana nell’invio di missionari ad gentes, come atto fondamentale della propria fede. Il quinto Comla, nel 1995 a Belo Horizonte (Brasile), mise in risalto i problemi dell’inculturazione e la vocazione missionaria degli afroamericani.
Sulle orme del Sinodo dei vescovi d’America (1997), che «considerò il continente come una realtà unica», missionari provenienti dal Canada alla Terra del Fuoco parteciparono al sesto Comla, tenuto nel 1999 a Paraná (Argentina), che diventò il primo Congresso americano missionario (Cam1).
PONTE TRA NORD E SUD

Il Cam2-Comla7 si è tenuto nella capitale del Guatemala dal 25 al 30 novembre 2003. La scelta di questo paese è estremamente significativa: il Centroamerica è cuore del continente, un ponte che unisce nord e sud e ha il compito di favorire la comunione e la solidarietà effettiva tra tutti i popoli americani.
In un’atmosfera quasi pentecostale, dinamica, entusiasta e ricchezza di simboli, hanno partecipato oltre 3.000 congressisti: 8 cardinali, 113 vescovi, 800 tra sacerdoti, religiosi e religiose, diaconi e pellegrini provenienti dalle regioni delle Americhe.
Partendo dal motto «Chiesa in America, la tua vita è missione», nelle conferenze e riflessioni di gruppo sono stati dibattuti temi legati alla missione: spiritualità e nuovi cammini di animazione e formazione delle chiese locali e comunità parrocchiali, inculturazione e dialogo interreligioso, le attuali sfide della migrazione e globalizzazione.
«La missione a partire dalla piccolezza, povertà e martirio» è stato certamente il tema chiave di tutto il congresso, sviluppato e approfondito nelle sue radici evangeliche. Il Guatemala ne era una icona vivente: paese piccolo, povero e, soprattutto, insanguinato dalla persecuzione e uccisione di migliaia di martiri, catechisti e semplici fedeli, oltre a preti, religiosi e religiose, per culminare con l’assassinio di mons. Juan José Girardi (1998).
Un applauso commosso ha accolto la proposta di avviare il processo di beatificazione di 103 martiri guatemaltechi, la cui documentazione storica è foita nella ricerca che è costata la vita a mons. Girardi.
Suggestiva è stata pure la liturgia della giornata dedicata alla «missione e martirio». In una preghiera in rito tradizionale maya, un gruppo di donne sono entrate in chiesa danzando e portando con sé pane, acqua delle sorgenti delle loro montagne, il fuoco, l’incenso, la bibbia tradotta nella loro lingua, le foto dei martiri e le loro reliquie. Hanno pregato per le tante vedove provate dalla violenza, ma anche per la vita che continua a nascere. Per intercessione di tutti i loro martiri, hanno rivolto la preghiera a Dio Padre/Madre, creatore e formatore.
La preghiera ha richiamato, ancora una volta, l’attenzione sulla possibilità di «evangelizzare» i riti tradizionali e «inculturare» il messaggio evangelico nel contesto culturale maya e di altre etnie.
VERSO IL FUTURO
I temi trattati sono stati ripresi e sintetizzati nel messaggio finale, inviato alle chiese del continente, intitolato: «Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e sentito». Senza cedere all’enfasi retorica, il documento vuole «parlare» alla chiesa universale e al mondo intero, con la consapevolezza del contributo originale che le chiese d’America possono dare proprio a partire dalla loro povertà e martirio.
Nel messaggio viene riaffermata «l’unità fondamentale» di tutti i popoli del continente, che deriva «dalla comunione nella stessa fede, stessa speranza e stessa carità»; un’unità che neppure le frontiere esistenti tra i diversi paesi e le barriere rappresentate dalle differenti lingue e culture possono ostacolare.
Il documento offre pure indicazioni per il cammino futuro. La più concreta è certamente la decisione di aprire nell’America Centrale, entro il 2005, un «Centro per la formazione e animazione dei missionari ad gentes», in cui sono coinvolti tutti gli episcopati della regione.
Il tema della «piccolezza, povertà e martirio» è una ennesima occasione per sottolineare la dignità di quelle popolazioni americane che, nonostante l’emarginazione economica e sociale, sono immensamente ricche, perché possiedono la fede.
Non poteva mancare nel testo un riferimento esplicito alla presenza al Congresso degli indigeni del Guatemala, che hanno suscitato profonda impressione in tutta l’assemblea. «Con la loro preghiera – dice il messaggio – gli indigeni ci portano a contemplare Dio nella creazione, a confidargli dolore e sofferenza, a conservare la speranza, anche quando l’orizzonte sembra completamente buio, a scoprire la sua presenza provvidenziale nelle cose e nei gesti più semplici, a ringraziarlo». Di fronte alla fede degli indigeni, prosegue il testo, si rafforza in tutti la convinzione che «il regno di Dio nasce nei cuori dalla piccolezza, povertà e martirio».
Naturalmente, viene ribadito l’invito alla missione ad gentes: «Dobbiamo condividere ciò che di più bello abbiamo ricevuto nel giorno del battesimo: il dono della fede». In tale prospettiva entrano anche il problema degli immigrati e il fermo impegno delle chiese d’origine ad accompagnarli e delle chiese di destinazione ad accoglierli con maggior calore.
Uomini e donne del Centroamerica, come i primi cristiani fuggiti da Gerusalemme a causa della persecuzione, arrivando nel nord del continente «armati della loro fede profonda e del loro immenso amore alla chiesa», possono ricordare a quanti vivono nell’abbondanza i valori autentici del vangelo.
L’ultimo punto riprende il titolo del messaggio. «Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e sentito», ossia l’incontro con Cristo risorto. Da qui un lungo elenco di richiami a fare della missione la propria vita: dai bambini, che sono «la primavera missionaria della chiesa»; ai giovani, perché dedichino la loro vita a Cristo; ai cristiani, chiamati ad essere missionari in virtù del battesimo; ai consacrati, chiamati alla sequela radicale di Cristo; ai presbiteri, perché siano disponibili ad essere inviati in ogni parte della terra, in virtù dell’ordinazione; ai vescovi, perché vivano a fondo la natura missionaria del loro ministero.

Benedetto Bellesi




Carissimo Mario

Lettera a padre MARIO BIANCHI viale dei teologi e missionari ciità di Dio

ti scrivo dopo la tua morte.

Stranamente ti dò del «tu», cosa che non ho mai fatto prima… Ecco alcune riflessioni sulla tua figura, basate su ricordi personali nell’arco dei tuoi ultimi 24 anni. I lettori valuteranno la validità o meno del mio scritto.

Nel 1969-1975,

quale superiore generale dell’Istituto Missioni Consolata (imc), numerosi giovani confratelli ti ritenevano un po’ conservatore, eletto per frenare le iniziative che uscivano dal solco tradizionale dell’Istituto. Pareva tu volessi comprimere le aperture iniziate o tollerate dal predecessore, padre Domenico Fiorina.

Non dico che tu non stimassi padre Fiorina: tutt’altro. Ma eri fermo nei tuoi principi, decidevi. Così hai accettato (sia pure a malincuore) l’uscita dall’Istituto di parecchi missionari, soprattutto in Brasile. La tua preoccupazione era quella di salvare l’imc, e pensavi di farlo basandoti sulla tradizione della Chiesa.

Come professore di teologia dogmatica, prendevi con serietà il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ma ragionavi: il Concilio non ha promulgato dogmi; la dottrina è la stessa. Quindi gli appelli del Concilio a cambiare e adattarsi al mondo d’oggi non erano vincolanti.

Volevi evitare pratiche rischiose, che potevano snaturare il fine dell’IMC; volevi scongiurare comportamenti secolarizzanti. Tuttavia accettavi la critica e il dialogo. Quando un missionario commentava per iscritto le tue circolari, non solo eri pronto ad ascoltare, ma eri anche riconoscente. Al termine ribadivi le posizioni che ritenevi giuste.
Delegavi responsabilità concrete al vicesuperiore generale, ai consiglieri e ai superiori delle circoscrizioni in Africa, nelle Americhe e in Europa. (Allora non eravamo ancora in Asia).

Rieletto superiore

per altri sei anni (1975-1981), la tua posizione è rimasta la stessa. Tuttavia hai avuto un vicegenerale che dialogava con i missionari fuori dei «parametri normali» dell’IMC. Il vice si è sforzato di trattare bene gli esclaustrati giustificati e non giustificati. Tu ne hai visitati alcuni nel loro posto di lavoro, informandoti sulle loro attività.

Volevi persone decise a lavorare «dentro» l’IMC. Altrimenti, dovevano decidere diversamente… Però, di fronte ad un missionario che ha lasciato l’Istituto per incardinarsi in una diocesi, hai scritto: «Il problema reale con lui (ma anche con altri) è forse un altro: quello di misurare il tempo necessario ad ogni individuo per maturare la decisione se restare o no nell’Istituto… In tale situazione può accadere che i superiori chiedano all’individuo di decidere prima che egli sia pronto a farlo. È un problema di discernimento non facile; e si può sbagliare, senza volerlo. Penso che, se si sbaglia, per l’individuo resta sempre aperta la porta per rientrare nell’Istituto. Tale porta è aperta anche per il padre…».

Come superiore generale
hai avuto contatti con altri omologhi di varie congregazioni. Hai parlato, per esempio, con i padri Pedro Arrupe e Theo Van Asten, superiori dei Gesuiti e Padri Bianchi. Con loro hai trattato il problema del Mozambico durante la lotta anticoloniale nei primi anni ’70. Tu non eri molto entusiasta dei missionari che, in blocco, abbandonavano il paese per protesta contro i vescovi portoghesi, che appoggiavano troppo il governo coloniale. Tuttavia hai rispettato la decisione dei missionari, esprimendo loro solidarietà.

Ai missionari della Consolata hai concesso piena libertà di lasciare o restare in Mozambico. Esortavi chi rimaneva ad essere difensore della causa dei nativi. Hai maturato questo atteggiamento dietro consiglio e informazione dell’allora superiore dei missionari nel paese.

Un missionario della Consolata, mozambicano, fuggì dal suo paese per raggiungere il Fronte di liberazione del Mozambico. E, anche se viveva con i ribelli, l’hai sempre considerato dell’IMC. Perché? Penso due motivi: primo, quella persona si trovava in una zona con la presenza di missionari della Consolata; secondo, il superiore dell’IMC in Tanzania aveva rapporti regolari con lui. Quindi, anche se era con i ribelli, manteneva contatti con l’Istituto.

Dopo 12 anni

al comando-servizio dell’IMC, hai operato a Roma presso le pontificie Opere missionarie (1987-1995).
Passando per la capitale mi piaceva ricordarti alcuni episodi, quando eri generale. Eri anche contento di discutere sulla tua tesi di laurea in teologia, sostenuta all’università Angelicum di Roma. Il tema elaborato fu «il sacerdozio dei fedeli nella teologia di san Tommaso di Aquino».

Una volta ti chiesi: «Quale esperto sul sacerdozio dei fedeli secondo san Tommaso, cosa pensi di quanto dice il Vaticano II al riguardo?». La risposta fu: «Poiché il Vaticano II non ha definito dogmi, il pensiero equilibrato di san Tommaso è anche discutibile».
Per questa posizione ti ritengo un pensatore lucido ed onesto. Ma ti era difficile accettare i cambiamenti nella traditio christiana con il sottofondo aristotelico-tomista. Oggi, nella Città di Dio, non so come vedi le cose… Intanto sta a noi risolvere i problemi fino alla nostra morte.

Nel 1997, sempre a Roma,

mi hai pregato di sostituirti nel celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata. Tornato a casa, mi hai domandato:

– Cosa hai detto ai fedeli?

– In cinque minuti ho detto che sono mozambicano e che sono missionario della Consolata. Educato dai missionari della Consolata sin da bambino, sono felice di celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata.

Ricorderò sempre il tuo sorriso e le parole: «Oggi sei più maturo, hai superato il “sessantotto”, ti sei convertito».

L’ultimo nostro incontro
avvenne nella casa-madre di Torino (novembre 2002). A pranzo e cena ti facevo ridere con i miei «spropositi». Ma tu capivi che scherzavo.

Una volta dissi: Giovanni XXIII, dopo la prima sessione del Concilio, ha saputo dai medici di avere una malattia che lo avrebbe presto portato alla morte, se non si fosse sottoposto a cure speciali. E ti domandai:
– Perché papa Giovanni ha risposto ai medici che preferiva la morte e dissolversi in Cristo?

– Papa Giovanni era un uomo di fede: credeva nella vita dopo la morte…

Subito ti incalzai:
– Tanti parlano di fede, ma hanno una grande paura di morire; ci tengono a questa vita e ai posti che occupano e si fanno prolungare la vita con numerosi farmaci.

– Sì, è vero…
– Allora significa che costoro non hanno fede?
Sorridesti… Padre Mario, perché non mi dicesti chiaramente: «Il tuo pensiero potrebbe offendere personaggi a cui si deve venerazione»?…

Perché questa lettera? Per farti conoscere, affinché molti si sentano motivati ad essere onesti e decisi nella vita. Tu sei stato così. E meriti rispetto, ammirazione.

Nato a Coriano (FO) il 30 luglio 1925, Mario Bianchi entrò nell’Istituto Missioni Consolata (IMC) nel 1947, proveniente dal seminario di Rimini. Sacerdote, si laureò in teologia all’Angelicum di Roma. Per 13 anni professore di dogmatica nel seminario teologico IMC di Torino, fu pure direttore della rivista Missioni Consolata.

Destinato al Kenya nel 1966, nel 1969 fu eletto superiore generale dell’Istituto. Rieletto per un secondo mandato, terminò il servizio nel 1981. Poi fu superiore della Delegazione centrale e, nel 1987-1995, segretario generale della Pontificia Unione Missionaria del clero (Roma). Trascorse gli ultimi anni della vita a Torino, nella casa-madre, impegnato nell’animazione missionaria. L’11 agosto 2003 fu chiamato alla casa del Padre a 78 anni, di cui 55 di sacerdozio.

Il suo testamento

Ringrazio il Signore di avermi chiamato ad essere sacerdote,
religioso e missionario nell’Istituto della Consolata.
Egli ha disposto che avessi la responsabilità della direzione
dell’Istituto in un periodo non facile della sua storia.
Chiedo perdono a Dio e ai confratelli per ciò che non ho fatto
o avessi fatto non bene nello svolgimento del mio servizio.
Prego il Signore di donarmi la perseveranza nella vocazione
missionaria, per la quale non Lo ringrazierò mai abbastanza;
e mi raccomando con fiducia e umiltà alla misericordia di Dio
e alle preghiere dei confratelli.
La Consolata, che mi volle nella famiglia dei suoi missionari,
mi ottenga dal Signore la corona dell’apostolato
per le preghiere del Padre Fondatore e di coloro
che, fedeli alla vocazione missionaria e religiosa,
hanno già terminato il servizio alla Chiesa
e si sono ricongiunti al padre della nostra famiglia.

p. Mario Bianchi (Roma, 12 luglio 1981)

D i fronte ad un mondo che si caratterizza per sfiducia, insoddisfazione e negatività, padre Mario Bianchi ha cercato di essere per tutti, ma soprattutto per i confratelli, un missionario che parlava della tenerezza di Dio padre, una tenerezza che conforta, che dà gioia e speranza.
Sentiva, in questo modo, di essere un vero missionario della Consolata.
p. Piero Trabucco

padre Felipe Couto




Lettere sul Venezuela

La contrastante valutazione di un reportage di Missioni Consolata<

Scrivo in riferimento a «Chávez ti amo, Chávez ti odio» di Missioni Consolata, giugno 2003. Conosco a fondo la situazione del Venezuela e sono rimasta costeata nel leggere le incredibili semplificazioni operate dall’articolo su una tragica situazione. Non entro nella questione politica e prescindo dal prendere posizione pro o contro Chávez, anche perché l’articolista non affronta il vero problema, ma afferma cose aleatorie o si basa su aneddoti banali per trae conclusioni generali.

È anche un articolo (e lo scrivo con dolore immenso) fuorviante e superficiale, che fomenta classismo e razzismo, finora totalmente assenti in Venezuela.
Leggo: «I bianchi sono circa il 21% della popolazione». Quali bianchi? I «bianchi» vengono fuori a caso da qualunque famiglia, perché dai medesimi genitori nascono figli di ogni gradazione della pelle. Chi sposa un venezuelano/a non sa di quale colore saranno i figli: indios, neri, moreni, bianchi e anche gialli… È il regno di Cristo, signor direttore, dove ogni differenza è raccolta, amalgamata e amata!

La mia amica Gladys ha una bambina «pura italiana castagnina» e un maschietto «nero come un tizzone»; i genitori non sono italiani, né bianchi, né moreni, ma solo un po’ abbronzati. Altro esempio: un amico moreno ha un fratello come lui e tre sorelle (due bianche e una morena). Dunque come potrebbe esistere una «categoria» di bianchi?

Trovo scritto ancora: «I “bianchi” vivono nelle grandi città. I “bianchi” sono i principali leaders dell’opposizione. I “bianchi” hanno in mano i canali televisivi…». Direttore, guardi le foto nella stessa rivista: due collaboratori di Chávez sono bianchi e persino biondi… Non è questa una campagna razzista contro i «bianchi», che crea antagonismo tra fratelli di colore diverso su una base completamente inesistente? E questo su una rivista missionaria cattolica. C’è da morire di crepacuore! Il termine «negrito», lungi dall’essere ingiurioso, è meraviglioso: è il vocabolo della tenerezza e designa l’essere più caro, negretto o «blanquito» che sia.

L’articolo dà gran rilievo anche a qualcosa che è solo un elemento culturale, cioè lo «schiarire la pelle»: il «blanqueo» è la preparazione alle nozze delle indie guajiros da tempo immemorabile… Gli aztechi aspettavano un «dio biondo», e si commossero quando apparvero i «diavoli» spagnoli di Cortés; uno, il più malvagio, era biondissimo…

Anche un italiano basso vorrebbe essere 1 metro e 80; anche un’italiana bruttina si duole e vorrebbe essere una miss. Certe aspirazioni alla bellezza sono universali. Non è così? Un giovanotto, innamorato di una «morenita», non la lascerebbe per nessuna «blanquita» al mondo. Perciò l’aneddoto della donna afro (che si vanta di essere meno nera dell’altra), generalizzato per descrivere una situazione politico-sociale, mi sembra assurdo.

L’abbandono di bimbi… Certo, se la situazione degrada sempre più, i problemi diventeranno abnormi. Fino a poco tempo fa i bambini crescevano in famiglie allargate; i nati prima del matrimonio erano allevati dalla nonna. Il popolo venezuelano (prima di questo disastro) era stupendo e profondamente religioso.
Vorrei, direttore, che lei esaminasse spassionatamente il tutto e prendesse i provvedimenti del caso.

Il Signore le sia largo di grazie.

Maria Ricci – Roma

Sono un italiano in Venezuela da 34 anni, dove arrivai come professore universitario di matematica. Nel paese, tra varie esperienze, ho avuto il privilegio di essere tra i fondatori dell’università « Simón Bolivar», sin dall’inizio una delle migliori del continente.

Ricordo com’era difficile nella nostra università vedere un nero. La maggioranza dei professori erano stranieri, europei per lo più; anche la maggioranza degli studenti erano discendenti di europei. In un paese dove i meticci sono l’80 per cento, gli studenti della «Simón Bolivar» probabilmente non arrivavano al 20%.

Era uno degli aspetti (per dirlo con il titolo di un libro del 1991 di una docente dell’Università Centrale di Venezuela) del «razzismo occulto di una società non razzista». La professoressa era nera, ovviamente, perché – come mi diceva qualche mese fa un’amica nera – «si deve essere neri per capire che significa essere neri».

Direttore, perché le faccio questo discorso? Per congratularmi con la sua rivista, che ha pubblicato gli articoli di Paolo Moiola sulla situazione del Venezuela.
In termini astratti ciò che sta avvenendo nel paese è la punta dell’iceberg di un fenomeno tipicamente latinoamericano: il continente si sta scrollando di dosso cinque secoli di colonialismo, durante i quali una minoranza di bianchi facevano il buono e il cattivo tempo, e la grande maggioranza di meticci potevano soltanto dire «signorsì». Non parlo di Cile, Argentina e Uruguay, dove gli indigeni furono sterminati o completamente ignorati. Parlo di paesi come Venezuela e Brasile, con un altissimo coefficiente di meticcità; parlo dei paesi andini, che sono ancora al tempo della «colonia», come 500 anni fa. Sarà questo il tema di un mio prossimo libro.

Tra le mie attività (lasciai l’università oltre 20 anni fa, stanco di essere un «bocciatore» al servizio della classe dominante), sono anche editore e scrittore. Il dovere di una persona, impegnata in un paese che l’ha ospitata con amore, è quello di contribuire alla costruzione del suo futuro. Per questo ho fondato una casa editrice, che ha pubblicato una trentina di libri: tutti contribuiscono a costruire il futuro del Venezuela.

Io ne ho scritti un paio: uno 10 anni fa, dal titolo «Riinventare il Venezuela – un progetto per il paese del prossimo secolo», ogni giorno più attuale. In questo libro parlo di «tre Venezuele», riducibili a due: la minoranza bianca-europea e la maggioranza meticcia. La discriminazione razziale è visibile anche a occhio nudo, perché i bianchi vivono su colinas e i meticci su cerros, i bianchi in edificios e i meticci in bloques; i bianchi formano urbanizaciones e i meticci barrios. La discriminazione appare anche dal linguaggio. E, in termini statistici, la correlazione tra classe sociale e colore della pelle è strettissima. La classe medio-alta non arriva al 15 per cento della popolazione, ed è bianca o color «latte macchiato». Ma, più si va giù, più il caffè diventa nero…

Hugo Chávez è il primo presidente del Venezuela di pelle scura. Negli ultimi 50 anni tutti i presidenti (ad eccezione di Carlos Andrés Pérez) sono stati bianchi di famiglia europea (italiana, spagnola, ecc.). Chávez è un presidente che viene dal basso: ha conosciuto la vita del barrio, sa cosa significa povertà. E ha deciso di dare un taglio al passato. Il fatto che l’opposizione sia tanto infiammata per deporlo dimostra che sta ottenendo dei successi.

Un fatto che dimostra la divisione razziale nel paese è stato il famigerato colpo di stato dell’11 aprile 2002. Nella marcia verso il palazzo presidenziale, con l’obiettivo di deporre il presidente, il 95 per cento dei dimostranti erano bianchi, europei o figli di europei. E quando due giorni dopo il presidente toò al potere, toò perché così decise il popolo meticcio. Ricordo quella notte, allorché ritoò al palazzo presidenziale: io ero uno dei pochissimi bianchi ad aspettarlo. Alcune persone mi guardavano con sospetto…

Direttore, le confesso che sovente mi vergogno di essere italiano ed essere confuso con la massa degli emigrati italiani, la maggioranza dei quali raggiunsero il Venezuela dopo la caduta del fascismo cercando un paese dove poter vivere secondo la loro ideologia fascista.

Quando, 34 anni fa, venni in Venezuela, mi bastò conoscere pochi italiani per prendere una decisione, poi sempre rispettata: non frequentare gli italiani, razzisti e fascisti, grandi lavoratori senza dubbio, ma sovente negativi nel rispetto della persona.

Benvenuta, allora, una rivista di ampia diffusione come Missioni Consolata, con un’egida non politica, che cerca di spiegare cosa sta avvenendo in Venezuela.

Giulio Santosuosso – Caracas

aa.vv.




AMERICA LATINA – Sarà il continente di Bush o Lula?

Crisi economica diffusa, povertà, violenza eppure le popolazioni latinoamericane
sono più vive che mai, pronte a raccogliere la speranza là dove sembra spuntare.
Ne abbiamo parlato con il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez,
con monsignor Jaime Henrique Chemello (già presidente della Conferenza episcopale
del Brasile) e con un giovane sacerdote.

IL TEOLOGO
GUSTAVO GUTIÉRREZ:
«Ma i giovani
statunitensi
mi dicono che…»

Lo scorso ottobre,
a Oviedo, il fondatore della «teologia
della liberazione»
ha ricevuto
il prestigioso
«Premio Principe
delle Asturie».
Padre Gutiérrez insegna anche
negli Stati Uniti, all’Università
di Notre Dame,
nello stato dell’Indiana.
Ci ha raccontato questa sua esperienza.

«Il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez è l’iniziatore della corrente spirituale innovatrice conosciuta come “teologia della liberazione”. La corrente propugna un’attenzione particolare al mondo degli esclusi, suggerendo che la “liberazione” sostenuta dal messaggio cristiano non è applicabile unicamente all’aspetto spirituale dell’essere umano, ma anche alle sue condizioni sociali e materiali. In quest’ottica, la proposta della teologia della liberazione non si limita a costruire una base teorica, ma al tempo stesso è una pratica che, specialmente nei paesi meno sviluppati, ha stimolato l’elevazione in dignità delle condizioni di vita di milioni di esseri umani».
Con questa motivazione la giuria del prestigioso «Premio Principe delle Asturie» ha assegnato a padre Gustavo Gutiérrez (1) il riconoscimento 2003 nella categoria della comunicazione e lettere umane. I premi, destinati ogni anno dal 1981 ad esponenti di 8 aree del sapere, sono considerati i Nobel dell’area ibero-latinoamericana.
Ad inizio anno, l’«Accademia delle Arti e delle Scienze» di Cambridge (Massachussets, Usa) aveva incluso il teologo peruviano tra i suoi membri onorari. Noi lo intervistammo per la prima volta alla fine del 1997, a Lima (2). Pochi mesi dopo, padre Gutiérrez sorprese tutti entrando, alla bella età di 70 anni, nell’Ordine dei domenicani.
Negli ultimi anni lei è vissuto più all’estero che in Perù, suo paese natale. Dove lavora ora, padre Gutiérrez?
«Dal 2001 sono negli Stati Uniti, dove insegno teologia. A Lima, però, continuo il mio lavoro pastorale in una parrocchia e le altre attività nel Centro Bartolomé de las Casas».

Padre, che cosa significa insegnare teologia negli Stati Uniti, cioè nel paese che ha riesumato il concetto di «guerra preventiva»?
«Gli Stati Uniti non sono un paese, ma un continente. È vero che gli americani sono favorevoli alla guerra, ma è altrettanto vero che molti altri sono contro, per esempio all’Università di Notre Dame, nell’Indiana, dove insegno».

Cos’è la guerra?
«È una minaccia. È un crimine. È la volontà di potere della più grande potenza del mondo. Non possiamo accettarlo né come uomini, né come cristiani. Dobbiamo lottare per la pace, ma una pace, come si dice nella bibbia, fondata sulla giustizia».

Che pensa del Perù di Alessandro Toledo?
«Se facciamo il paragone con il periodo della dittatura e della corruzione, adesso in Perù abbiamo un clima democratico, seppur con molte difficoltà economiche e politiche.
Non è facile la transizione da un regime corrotto come quello di Fujimori (che è ancora presente in molte istituzioni del Perù) e andare verso una democrazia; ma questo processo è in atto, seppure non in modo stabile e solido. Insomma, è già qualcosa».

Con tutto il rispetto per il Perù, tutti guardano al nuovo Brasile di Lula, sul quale pesano aspettative enormi. Ma la sfida dell’ex operaio e sindacalista è tremendamente difficile…
«In questo momento, Lula è una grande speranza non solo per il Brasile, ma per tutta l’America Latina. Certamente la sua non sarà un’impresa facile.
Noi abbiamo avuto in America Latina altri momenti di svolta: il Cile, il Nicaragua, la Bolivia. Ma oggi la sfida è più importante, perché il Brasile è un grande paese ed ha una dirigenza politica preparata. Agli amici brasiliani dobbiamo suggerire di essere non tanto prudenti (che non è la parola esatta), quanto maturi politicamente per andare bene. Credo che il programma di Lula sia molto buono, molto chiaro. Sono convinto che tutto questo sia veramente importante».
Sembra che nel mondo si stia creando una netta divisione tra paesi cristiani e paesi islamici. Secondo lei, questa è una scusa, oppure c’è una vera contrapposizione religiosa?
«In larga misura è un pretesto. A dire il vero, si potrebbe dire che la contrapposizione è tra paesi ricchi e potenti e paesi islamici poveri. La divisione religiosa non è la più importante, ma è facile per certe persone dei paesi ricchi parlare di una contrapposizione religiosa. Così rimangono oscure le vere ragioni del contrasto.
Questa tesi della contrapposizione tra civiltà occidentali e orientali non è poi così rilevante e forse interessa soltanto gli intellettuali. Credo che ci siano altri aspetti più importanti della civilizzazione. Dobbiamo fare altre analisi. Personalmente, sono contro i paesi ricchi per molti aspetti, ma non perché la mia civiltà sia differente dalla loro».

Toiamo al suo lavoro di professore negli Stati Uniti. Che cosa racconta ai suoi studenti dell’Università di Notre Dame?
«Parlo di spiritualità. Spiego la teologia della liberazione e l’opzione preferenziale per i poveri, trovando dei giovani molto aperti».

Quanti anni hanno i giovani a cui lei insegna?
«Attoo ai 25 anni, qualcuno un po’ meno, altri un po’ di più, ma tutti sono molto aperti».

Ma che cosa pensano del loro presidente George W. Bush, che considera la guerra uno strumento per risolvere i problemi inteazionali e per far prevalere gli interessi statunitensi?
«I miei studenti (ovviamente non posso parlare di tutti gli studenti) sono contro la guerra, assolutamente contro. Allo stesso tempo, il loro contesto è totalmente differente da quello dei latinoamericani, dei peruviani per esempio. È un altro mondo, ma trovo questa gente seria e molto aperta per lavorare».

Come sta la «teologia della liberazione» nel 2003, cioè 32 anni dopo la sua nascita?
«Sta bene. Lavoriamo molto. In questi ultimi anni ci stiamo dedicando anche ad altri aspetti e all’approfondimento di un’intuizione originale che, nei primi scritti, abbiamo chiamato “la complessità della libertà”. Significa prestare attenzione non soltanto agli aspetti economici delle realtà, ma anche a quelli culturali, razziali, di genere.
Un altro aspetto è la critica al pensiero unico neoliberista e il nostro punto di partenza è “l’opzione preferenziale per i poveri”, che ancora oggi costituisce il punto centrale della teologia della liberazione».

JAIME HENRIQUE CHEMELLO:
«La fame
e l’Amazzonia sono la priorità»

Fino allo scorso maggio, era presidente
della «Conferenza episcopale
del Brasile» (Cnbb), oggi è presidente della commissione che si occupa dell’Amazzonia. Vescovo molto noto, monsignor Chemello è comprensivo
con tutti,
ma non con la guerra
né con la politica degli Stati Uniti.

Nato nel municipio di São Marcos (Rio Grande do Sul) nel 1932, Jaime Henrique Chemello è vescovo dal 1969. Fino allo scorso maggio presidente della «Conferenza episcopale del Brasile» (Cnbb) (1), oggi monsignor Chemello è a capo della «Commissione episcopale per l’Amazzonia».
Come uomo e come vescovo, che pensa della guerra?
«Penso che la guerra sia proprio una cosa cattiva, deplorevole, tristissima. Il Santo padre ha già detto queste cose e ha pregato molto per la pace non solo in Iraq, ma anche in Palestina».

Il presidente Bush ha reintrodotto i concetti di guerra «preventiva» e di guerra «giusta» contro quelli che lui giudica essere nemici dell’umanità. È concepibile?/
«Non credo che possa esistere il concetto di guerra “giusta”.
La guerra non porta mai niente di buono. Perché essa è distruzione, soprattutto di vite umane».
Lei è un vescovo molto noto. Come vede il nuovo Brasile di Lula?
«Io lo vedo come tutto il popolo: con speranza, ma non sono sicuro che andrà sempre bene. Bisogna lavorare molto, collaborare, perché Lula da solo non può fare niente. Il popolo deve dare il suo appoggio, lottare perché l’idea è buona».
Lula potrebbe lavorare anche se avesse una parte della comunità internazionale, quella che detiene il capitale finanziario, contraria alle sue decisioni?
«Sarebbe molto difficile, ma Lula sta facendo di tutto per adattarsi alla situazione internazionale. Va in giro per il mondo per spiegare la sua posizione rispetto alla realtà. Molta gente lo ascolta perché ha una personalità molto forte».
È indubbio che il Brasile abbia moltissimi problemi. Volendone fare un elenco, lei che cosa metterebbe ai primi posti?
«La fame e poi anche il non poter lavorare, guadagnarsi la vita con dignità. Anche la violenza è una cosa tristissima. Il Brasile necessita quasi di tutto.
Anche per la Conferenza episcopale (2) la lotta per superare il problema della fame è prioritario. E poi c’è l’Amazzonia, che è una questione molto grande per noi e i suoi abitanti».
Che ci dice del «Movimento dei sem terra»?
«È un’organizzazione che ho già aiutato molto. È un movimento difficile perché affronta una lotta difficile. I contadini senza terra hanno lottato e sofferto molto e per questo bisogna capirli».
I rapporti della chiesa cattolica con le altre religioni del Brasile.
«Grazie a Dio abbiamo fatto molta strada, perché l’ecumenismo e il dialogo interreligioso per noi è molto importante».
Ma con chi esattamente avete dialogato?
«Dialoghiamo soprattutto con chi aderisce al “Consiglio nazionale delle chiese cristiane del Brasile” (Conic) (3), che raccoglie le chiese tradizionali. Con questo organismo facciamo anche iniziative sociali in comune».
In Brasile c’è un numero esagerato di sétte evangeliche. Rappresentano un problema? E, se sì, come lo si affronta?
«Già il termine sétte non ci piace. Non è che sia sbagliato, ma sottintende qualcosa di cattivo. Noi li chiamiamo “movimenti religiosi autonomi”. Comunque, il problema esiste e qualche volta è difficile. Ma, nonostante le difficoltà, bisogna lottare sempre».
Monsignore, cosa pensa dell’influenza che gli Stati Uniti hanno sull’America Latina in generale?
«Credo che adesso gli Stati Uniti stiano facendo una politica molto complessa, ma dalle reazioni dei popoli di tutto il mondo (non solo dell’America Latina) pare che questa loro politica non sia affatto giusta. Sono sempre di più i paesi contro gli Usa. Lo vedo di persona: in tutti i posti dove mi reco, c’è sempre una riserva contro la politica praticata da Washington».

Paolo Moiola