LETTERAPremiato il vescovo Mongiano

Il 6 aprile 2004 Aldo Mongiano, vescovo emerito di Roraima (Brasile) e missionario della Consolata, fu premiato dal governo brasiliano con la medaglia del «merito indigenista». Il premio fu ritirato a Brasilia da mons. Franco Masserdotti, presidente del Consiglio indigenista missionario del Brasile (organo della Conferenza episcopale), che lo consegnò all’interessato a Torino l’8 maggio scorso (nella foto).
Oltre a vari missionari e missionarie della Consolata, era presente pure qualche esponente della Campagna internazionale «Nós existimos» (in favore degli indios, contadini poveri ed emarginati urbani di Roraima).

Il vescovo Mongiano, dopo aver ringraziato mons. Masserdotti, ha dichiarato: «Questa onorificenza viene consegnata a chi fu vescovo di Roraima; ma in realtà riguarda non tanto una persona, quanto tutti gli indios e i missionari di Roraima. I missionari non si aspettano onorificenze dai popoli che servono; essi lavorano mossi solo da carità evangelica. Tuttavia questa medaglia ci rallegra per due motivi.
L’onorificenza è concessa dalla Funai (Fondazione nazionale dell’indio), che per lunghi anni ha avversato la chiesa di Roraima. Però, grazie a Dio, da qualche tempo ne riconosce il valore, fino a premiare quelli che prima aveva osteggiato.
Il secondo motivo di gioia è legato ai popoli indigeni. Essi stanno vincendo non la battaglia per la difesa dei loro diritti sulla terra dove sono nati, ma hanno già acquisito una coscienza e forza morale, ispirate dalla fede cristiana, che costituiscono una delle vittorie più belle che si poteva sperare.
I missionari sapevano quanto, nella storia del Brasile, si diceva degli indios: questi, di fronte alle invasioni dei dominatori venuti da lontano, si sarebbero piegati o sopraffatti dalla forza o allettati (questo è umiliante) da futili regali materiali.
Invece gli indios, a partire dagli anni ’70, hanno capito il messaggio evangelico, la grandezza della loro vocazione umana e cristiana, il significato di libertà e dignità, nonché l’importanza di vivere i valori della loro cultura. Così hanno deciso di impegnarsi, con sforzo, sacrificio e rischio, per cambiare la loro situazione. L’hanno fatto senza violenza, offrendo a tutto il Brasile un esempio di coraggio e fermezza cristiana. Hanno saputo organizzarsi e mobilitarsi per difendere, pacificamente, i loro diritti sanciti dalla Costituzione brasiliana, ma mai rispettati.
Gli indios, soprattutto, meritano questa medaglia.
Una sola cosa mi rammarica: se i popoli indigeni sono cambiati positivamente, non sono cambiati, invece, alcuni settori ostianti della società di Roraima…».

Redazione




TOGOLa spesa dello stregone

In Africa occidentale le religioni tradizionali sono molto radicate. La cosmogonia è complessa e cambia per ogni etnia.
Divinità, curatori, oracoli e oggetti sacri di ogni tipo
mostrano una grande ricchezza e varietà di queste tradizioni.
Da profani, visitiamo un centro di vendita, rinomato in tutta la regione.

CCapitale ordinata e pulita, Lomé si apre come un ventaglio sul golfo di Guinea. La sua bellezza è nel litorale, le lunghe spiagge di sabbia chiara, punteggiate di palme. Il mercato centrale è colorato di frutta e vestiti della gente; le vie sono invase da banchetti di venditori di ogni genere, che indossano cappelli di paglia per ripararsi dal sole. Le auto cercano di passare in mezzo alla folla brulicante.
Prendiamo una delle grandi vie asfaltate che, a raggiera, portano fuori città. Cerchiamo il quartiere d’Akodessewa, verso nord-est. La strada taglia in due una laguna: il panorama è particolarmente bello. La gente è gentile e cerca di spiegarci come raggiungere la nostra meta.
Arriviamo al grande mercato di quartiere, ma non è quello che stiamo cercando. Un giovane ci si avvicina, incuriosito dagli stranieri. Ha un viso pulito, parla tranquillo in un francese stentato. Gli spieghiamo cosa stiamo cercando: «Il mercato dei fétiches, è qui?».

Stregoni africani

I féticheurs, coloro che utilizzano i fétiches, in una traduzione approssimativa, si potrebbero chiamare «stregoni». Mezzi medici e mezzi maghi, in Africa sono coloro che detengono l’arte dell’uso delle erbe, ma anche dei talismani, delle cure tradizionali e della capacità di parlare con gli spiriti. Alcuni sono più indovini, altri più curatori. È tramite loro che si tramanda la spiritualità degli antenati: in pratica i sacerdoti animisti.
Foiscono su richiesta i gris-gris, amuleti personalizzati, che hanno molteplici scopi: allontanano i malefici o esaltano le forze (nei diversi campi) di chi li possiede.
I fétiches (feticci) sono oggetti sacri che proteggono case o villaggi e comunicano direttamente con le divinità ancestrali, o meglio: ne sono la rappresentazione fisica. In questa regione ogni etnia (ce ne sono centinaia) ha il suo pantheon di spiriti, il proprio animale totem, i geni protettori e tutte hanno una sorprendente varietà di feticci.
Ci era stato detto che proprio a Lomé esiste una specie di supermercato degli stregoni, dove un «iniziato» può trovare tutti gli strumenti del mestiere, tutto ciò di cui ha bisogno per poter praticare.
Moise, il nostro nuovo amico, annuisce: «È qui vicino. Posso accompagnarvi io». Cammina lentamente, per la strada polverosa. Supera il grande mercato ed entra in profondità nel quartiere. Ad un tratto si apre un piccolo spiazzo, sul quale sono allineate file di bancarelle. Da lontano sembra un qualsiasi mercatino locale, ma appena ci avviciniamo notiamo che la mercanzia esposta non annovera pomodori e cipolle.
Vediamo file di gusci di tartarughe, con l’animale essiccato al suo interno, uccelli di tante specie diverse, anche loro imbalsamati, montagne di teschi bianchi che riflettono il sole…
Prima di riuscire ad avvicinarci, ecco che un ometto ci viene incontro e confabula con Moise. «Questo è il mercato dei fétiches di Akodessewa – annuncia solennemente dopo averci salutati -; qui è consuetudine, per gli stranieri, avere una guida». Naturalmente acconsentiamo: non bisogna mai andare contro le abitudini africane. E così siamo al secondo accompagnatore.

Supermercato dell’impossibile

Il signor Calixte Ganyehesson ci guida alla visita di questo mercato incredibile e talvolta raccapricciante. I banchetti, uno in fila all’altro sono colmi di teschi di scimmie, coa di animali vari, ratti squartati e sapientemente essiccati, rane e pesci gatto che hanno subìto una sorte simile. Ciuffi di peli e piume sono un po’ ovunque. Ma i pezzi più ricercati sono una grossa zampa di ippopotamo, con pelle e tutto il resto, quella di un elefante; un’intera testa di cavallo, teste di giaguaro con le fauci aperte. In un banchetto sono sovrapposte, con estremo ordine, decine di teste di coccodrillo di diversa dimensione.
«Tutte queste cose – spiega Calixte – sono materiali e ingredienti molto importanti per i curatori tradizionali e i féticheurs delle nostre parti. Solo qui si riesce a trovare tanta varietà. Ci sono pezzi, come quel teschio di elefante (e indica un ammasso di grosse ossa) che arrivano direttamente dalla Nigeria».
Andiamo avanti. I banchetti di grezze assi di legno qui li chiamano «stand» e portano delle insegne, dipinte a mano, con scritte del tipo: «Guedenon Christian, guérisseur en médicine traditionnelle, stand n. 11» (guaritore in medicina tradizionale). O ancora: «Herboriste – guérisseur, docteur en médicine traditionnelle»; oppure: «Terapeute traditionnel». Tutti accompagnati dal numero di stand, di telefono ed eventualmente di cellulare.
Tecnologia e tradizione convivono alla perfezione, come spesso accade oggi in Africa. Un po’ inquietante l’insegna con la scritta: «Membre de sciences occultes des forces vodous africaines»; in realtà, ci sembra preparata apposta per i turisti stranieri.

Dal Benin al mondo

Calixte ci spiega che tutti i venditori-curatori di questo mercato sono di origine beninese. Il Benin, paese confinante, è la culla di alcuni riti africani molto importanti, classificati come vudù ed esportati anche nelle Americhe, attraverso la tratta degli schiavi. Riti originari di queste zone e con molti tratti comuni oggi sono praticati in Brasile, Cuba, Haiti e altre isole dei Caraibi. Differenti riti vudù sono originari della Nigeria.
In un angolo vediamo alcuni scatoloni pieni di materiale appena arrivato e ancora da sistemare: pipistrelli secchi, camaleonti e uccelli di varia dimensione.
Il nostro accompagnatore ci mostra delle statuette di legno, alcune addobbate con piccole conchiglie cauris (pronuncia corì), un tempo moneta in tutta l’Africa occidentale e oggi strumento importante di veggenti e guaritori. Gettate a terra con un certo rito, esse permettono all’indovino esperto di leggere il futuro del cliente che gli sta davanti. Ce ne sono in gran quantità in tutti i mercati di questa regione.
«Sono semplici statue, non sono fétiches, ma potrebbero diventarlo con un rito» precisa Calixte. Sono anche esposte e ben allineate sculture in legno di organi maschili: «Servono per riti e cure contro l’impotenza» spiega il nostro accompagnatore.
In effetti, in questo supermercato dei curatori tradizionali, ogni pezzo, per quanto strano o truculento possa sembrare a un osservatore straniero (soprattutto se animalista), ha un significato e un utilizzo ben preciso. Il buon tradi-terapeuta o stregone, sa in che occasione dovrà usare il guscio di tartaruga, il dente di coccodrillo o la pelle di camaleonte.

Un amuleto per…

Per un non africano è difficile credere ad alcune pratiche di questi popoli. Eppure qui possono risultare molto importanti e molto «presenti» nello spirito della gente. Alcune persone sono iniziate, altre consultano il guaritore quando hanno piccoli o grandi problemi; altre ancora dicono e pensano di non crederci, ma in fondo quasi tutti ne sono influenzati.
Il nostro accompagnatore vuole farci vedere qualcosa di più. Ci porta in una baracca ai margini del mercato. «Qui – sostiene – se volete potete incontrare un féticheur. Si tratta del figlio di un grande, che ha ereditato alcuni poteri».
Entriamo nella piccola capanna fatta di bastoni di legno. È buio. Venendo da un ambiente con il sole splendente, le pupille dei nostri occhi impiegano qualche minuto prima di allargarsi. Finalmente riusciamo a vedere: davanti a noi, nell’angusto stanzino, compaiono statue di diverse dimensioni, alcune a due teste, altre con una sigaretta in bocca, altre immerse nella cenere o con piume che fuoriescono da orifizi. Il tutto ricoperto di una polvere che fa sembrare le cose più vecchie, in un’atmosfera misteriosa e mistica. Ci troviamo di fronte a un gruppo di veri fétiches.
Il giovane stregone ci propone degli amuleti. Degli oggetti che ci possono servire nella nostra vita quotidiana, ma che devono essere «benedetti» da lui, alla presenza dei fétiches. Un nocciolo di karité da mettere sotto il cuscino la notte serve per aumentare la memoria; una minuscola statuetta per avere un buon viaggio; un sacchettino di erbe da appendere al collo per essere protetti dal male; un altro oggetto per avere fortuna con il proprio amato.
Ogni gris-gris, posto in un guscio di tartaruga vuoto, subisce un rituale di fronte a un feticcio e con la partecipazione del destinatario. Ma attenzione, una volta a casa gli amuleti devono essere accuditi.
Il tutto, a noi scettici, sembra una sceneggiata per turisti. Di fatto è una procedura semplificata di quello che normalmente si fa con chi crede a questo tipo di riti. Il momento è comunque carico di solennità e capiamo che siamo in un contesto reale. Solo noi, stranieri a questa cultura, siamo l’unica cosa fuori posto. Anche questa è l’Africa e non deve essere banalizzata. •

Marco Bello




Padre Pio e mondo militare…

Quando la vita ecclesiale scade a certi livelli (denunciati dai preziosi articoli di Missioni Consolata «Quelle pesantissime stellette» e «Comandi, don Mariano»), la colpa è anche della scarsa vigilanza dei cristiani comuni, non solo della gerarchia.
Sono convinto che, se negli Usa, in Italia, Argentina, Brasile, El Salvador… i cappellani militari han combinato ciò che han combinato, è anche perché molti cristiani NON sapevano neppure che esistessero; o, se lo sapevano, NON controllavano la compatibilità delle loro teologie (l’Ordinariato militare è una diocesi a sé con seminari propri) con il vangelo di Cristo e la tradizione della chiesa.
Come devoto di Padre Pio, sono rimasto disgustato quando, leggendo Il Cursore (periodico religioso dei militari italiani), mi sono imbattuto nell’articolo «Soldato Forgione». Qui il santo di Pietrelcina è proposto come grande amico del mondo militare, legato a un concetto di patria che, sostanzialmente, coincide con quello dei Mani, Bagnasco, Ruini, Baget Bozzo…
Il vero Padre Pio, invece, servì l’Italia non quando indossò l’uniforme, ma quando la depose e quando, dopo 16 mesi di massacrante andirivieni tra caserma, convento e ospedale militare (le autorità militari volevano che diventasse soldato), poté finalmente annunciare: «Sono superlativamente lieto della grazia divina che Gesù mi ha accordato col liberarmi della milizia completamente. Fra giorni mi si firmerà il foglio di via, e così potrò lasciare, con animo soddisfatissimo, Napoli, facendo voto di non ritornarci mai più».
A chi dubitasse su quanto ho detto, suggerisco di leggere Padre Pio, Un Santo in mezzo a noi (supplemento di Famiglia Cristiana, 37/1999); in particolare le pagine 38-48.
Francesco Rondina
Fano (PS)
P. S. «Qualche ora dopo il suo arrivo – scrive Gennaro Preziuso, riferendosi al traumatico impatto avuto dal Santo con l’ambiente della caserma Sales – con le lacrime agli occhi, fece la triste esperienza di sostituire il saio tanto amato con una goffa divisa militare. Nel deporre “l’abito di San Francesco”, lo baciò con trasporto…
Si guardò ed ebbe la sensazione di essere capitato in un “manicomio”. Tutti avevano fretta. Gli ordini dei superiori erano preceduti e seguiti da parolacce, che ferivano la sua sensibilità e il suo pudore.
I rimproveri determinavano ilarità e degradavano la dignità degli uomini che li ricevevano. Il turpiloquio, i discorsi spesso licenziosi erano intercalati da orribili bestemmie.
La carità pareva che nessuno sapesse cosa fosse. Imperava solo l’egoismo. La riservatezza aveva ceduto il posto alla volgarità e alle oscenità.
Padre Pio provò nausea e disgusto…».

Francesco Rondina




GLI OGM (1)”Metti un gene nelle fragole”

Piante resistenti a climi avversi, prodotti che non marciscono, frutti senza semi, miglioramenti qualitativi e quantitativi… i risultati dell’ingegneria genetica sembrano entusiasmanti, ma i lati oscuri della medaglia sono tanti, a cominciare dagli impatti sulla salute umana e sull’ambiente. Per questo scienziati
ed organizzazioni inteazionali chiedono l’adozione di un «principio di precauzione», che però pare soccombere davanti alle regole del profitto dettate dalle multinazionali e dai loro potenti sponsors. (Prima parte)

Miglioramento genetico delle piante, sviluppo agricolo sostenibile, salvaguardia delle risorse naturali, contributo significativo a soddisfare la crescente domanda mondiale di derrate alimentari, miglioramento della qualità, della sicurezza e del valore nutrizionale degli alimenti (1): questi gli scopi della biotecnologia applicata al settore agricolo-alimentare secondo i fautori degli Organismi geneticamente modificati (Ogm o Gmo, dall’inglese Genetic modified organisms); miti da sfatare, al contrario, per gli oppositori.
Su quali termini, concetti e fatti si basa il dibattito sugli Organismi geneticamente modificati? La controversia coinvolge esclusivamente conoscenze scientifiche, oppure è strettamente connessa anche ad aspetti economici e commerciali non sufficientemente dichiarati? La complessità dell’argomento è un limite oppure un’opportunità utilizzata come pretesto per un’informazione parziale, o addirittura assente, nei confronti del cittadino- consumatore?

COSA SONO GLI OGM
Il termine «biotecnologia» deriva dalla congiunzione di biologia, intesa come studio degli esseri viventi e delle leggi che li governano, e tecnologia, intesa come studio dei processi e delle apparecchiature necessarie a produrre determinati beni e servizi.
Con biotecnologia si indica qualsiasi processo produttivo che preveda l’utilizzo di agenti biologici, cellule, o loro prodotti. Le sue origini sono molto antiche: basti pensare alle tecnologie fermentative applicate nella produzione di alimenti (ad esempio, del vino e della birra) e alle tecniche di selezione e reincrocio utilizzate in agricoltura e zootecnia. Solo negli ultimi decenni l’aumento delle conoscenze scientifiche e il progresso tecnologico hanno fatto intravedere nuovi orizzonti sperimentali e applicativi, in particolare nel campo della medicina, del disinquinamento ambientale e dell’agricoltura. Tecniche di ingegneria genetica quali la ricombinazione del Dna, la fusione di cellule animali e vegetali, l’introduzione diretta di Dna in una cellula, costituiscono le basi delle biotecnologie avanzate.
Gli organismi transgenici o, più propriamente, gli Organismi geneticamente modificati sono appunto gli animali, i vegetali, i miceti, i lieviti e i batteri nel cui genoma viene incorporato artificialmente un gene estraneo, chiamato transgene.
In campo agricolo, lo scopo è quello di inserire, nel Dna della pianta che si vuole modificare, uno o più caratteri (geni) che conferiscano alla pianta modificata le caratteristiche desiderate. Tali geni possono essere ottenuti da altre piante, da microrganismi oppure anche da animali: le tecniche di ingegneria genetica rendono cioè possibili incroci che sono impossibili in natura. Ne è un esempio la nota introduzione di geni di pesci (passera di mare) nelle fragole per aumentae la conservabilità, in base all’assunto che il gene che consente al pesce di sopravvivere in acque ghiacciate conserverebbe le fragole.
Un Ogm è «un organismo il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto si verifica in natura mediante incrocio o ricombinazione genetica naturale» (D.Lgs. 3.3.93, n.92). Se l’organismo transgenico è fertile, il gene estraneo potrà essere trasmesso alle successive generazioni, dando origine ad una «linea di organismi geneticamente modificati».
Attualmente sul mercato sono presenti soprattutto varietà Ogm di mais, soia, colza, pomodoro, cotone, patata, zucca e tabacco. Le principali modificazioni genetiche già in commercio o in fase di sperimentazione riguardano la resistenza agli erbicidi e ai parassiti, il controllo della fioritura della pianta, la produzione di frutti senza semi, la resistenza a stress (al freddo, alla siccità, alla salinità del terreno, ecc.), la ritardata marcescenza.
Le ragioni addotte per la diffusione degli Ogm in agricoltura sono essenzialmente due:
• aumenterebbero la produzione del raccolto, contribuendo così alla sicurezza alimentare;
• ridurrebbero l’uso delle sostanze chimiche, contribuendo così alla protezione ambientale.

L’INVASIONE SILENZIOSA
Secondo il rapporto del Servizio internazionale per l’acquisizione delle applicazioni agrobiotecnologiche (Isaaa), le coltivazioni di piante geneticamente modificate (Gm) aumentano in tutto il mondo, con una superficie complessiva pari a 67,7 milioni di ettari e con una crescita, nel 2003, pari al 15% rispetto al 2002. Aumentano le colture Gm anche in Europa, in particolare in Romania, Bulgaria, Spagna.
Gli agricoltori che nel 2003 hanno utilizzato sementi geneticamente modificate sono diventati 7 milioni, un milione in più rispetto al 2002, e la maggior parte di essi (l’85%) vive in paesi in via di sviluppo; proprio in questi paesi si trova quasi un terzo della superficie mondiale coltivata con piante Gm, rispetto al 25% circa registrato nel 2002. Brasile e Sudafrica si sono aggiunti ai principali coltivatori di prodotti agricoli gm, ossia Stati Uniti, Argentina, Canada e Cina. Gli altri 4 paesi che coltivano superfici geneticamente modificate superiori ai 50.000 ettari sono Australia, India, Romania e Uruguay.
Nei paesi dell’Unione europea, invece, dopo una rapida crescita e raggiunto il massimo nel 1997, i rilasci di Ogm si stanno rapidamente contraendo. Le sperimentazioni sono state infatti scoraggiate dalla moratoria e dalla regolamentazione imposte su scala europea, e hanno subito un declino rilevante soprattutto in Francia e in Italia, i due paesi nei quali si erano più concentrate (rispettivamente il 29% e il 16% del totale europeo). Le diverse specie interessate, più di 70, riguardano principalmente le colture industriali quali mais, colza, barbabietola e patata (2).
Essendo una tecnologia coperta da brevetto, gli Ogm sono monopolizzati da un numero estremamente ridotto di multinazionali. La maggior parte del mercato delle sementi e dei prodotti fitosanitari è controllato da tre colossi: la Monsanto (gruppo Pharmacia), la Syngenta (già Novartis), e Aventis (creato dalla Hoechst e dalla Rhone-Poulenc e acquisito dalla Bayer nell’ottobre 2001 (3).

ALLERGIE ED ALTRI
IMPATTI SULLA SALUTE

Il dibattito affrontato dai media sugli Ogm riguarda soprattutto i possibili effetti sulla salute dei consumatori. I sostenitori degli alimenti Gm dichiarano che l’introduzione di cibi manipolati nella nostra dieta non possa causare rischi di nuove allergie. Come esempio, viene spesso citata l’introduzione del gene di banana nel pomodoro.
Secondo l’associazione Greenpeace, da sempre contraria all’applicazione delle biotecnologie in agricoltura, i biotecnologi omettono di precisare che l’esempio riportato considera cibi consumati abitualmente. «L’ingegneria genetica, però, riguarda spesso geni, e dunque proteine, che non fanno parte del consumo alimentare tradizionale: i rischi non sono prevedibili se il gene “trapiantato”, ad esempio nel grano, con cui facciamo pane, pasta ecc., proviene da uno scorpione o da una petunia o da altri organismi finora mai utilizzati nell’alimentazione».
La società Pioneer, prima compagnia mondiale nella produzione di semi, ha prodotto una soia più ricca di metionina (amminoacido essenziale che il nostro organismo non sa produrre) grazie ad un gene proveniente dalla noce brasiliana nota per la sua forte potenzialità allergenica (cioè molte persone sono allergiche a questo alimento). Test indiretti di laboratorio, finalizzati proprio a valutare la possibile insorgenza di nuove allergie, avevano dato tutti esito negativo. Un test allergologico ha invece dimostrato che persone allergiche alla noce brasiliana, ma non alla soia normale, erano allergiche anche alla soia manipolata della Pioneer, la cui commercializzazione è stata bloccata in extremis. Il problema è che la maggior parte degli Organismi geneticamente modificati può essere sottoposta solo a test di tipo indiretto, la cui affidabilità è messa in discussione.
Inoltre, negli Ogm viene inserito un gene resistente agli antibiotici, definito «marcatore», che permette di identificare le cellule in cui è riuscito il «trapianto» dei geni; successivamente esso non svolge più alcuna funzione, ma la sua eliminazione sarebbe troppo costosa e difficile.
Ecco perché c’è chi teme che la resistenza agli antibiotici possa trasferirsi all’uomo, rendendo inefficaci gli antibiotici comunemente assunti. Anche se il problema sembra superabile con nuove tecnologie che non prevedono l’utilizzo di geni marcatori, non ci si può non chiedere come mai, nonostante una tale eventualità, sia stata consentita la commercializzazione di tali prodotti. L’impatto sulla salute, tuttavia, non è il solo aspetto preoccupante che riguarda la diffusione degli Ogm.

I GENI COME
VITI E BULLONI

Se i fautori degli ogm sostengono che da sempre l’uomo ha modificato le piante, i critici ribattono che non tutte le modifiche sono equivalenti dal punto di vista ecologico e non tutte hanno impatti analoghi. I biotecnologi hanno dato infatti origine a nuovi organismi nati dall’ibridazione di specie diverse, che mai si sarebbero incrociati in natura.
«L’assunto è che una caratteristica possa essere trasferita da una specie all’altra semplicemente spostando un gene. In realtà, spostando geni da una specie all’altra produrremo effetti imprevedibili», dichiara Brian Goodwin, uno dei maggiori teorici della biologia. Mentre i sostenitori dell’ingegneria genetica dichiarano che questa tecnica è più precisa e prevedibile rispetto ai metodi tradizionali di ibridazione, la nota fisica indiana Vandana Shiva, insieme ad altri scienziati più cauti sull’argomento, pone l’accento sul fatto che «indipendentemente da come il transgene viene introdotto, c’è una totale impossibilità di prevedere quale sarà l’esatta collocazione del gene nel cromosoma», e continua affermando che «il luogo comune secondo cui l’ingegneria genetica è precisa e prevedibile è falso. Di fatto, non si tratta di vera ingegneria». Inoltre sottolinea come la selezione tradizionale non prevede affatto il trasferimento di geni da batteri e animali alle piante, ma incrocia «il riso con il riso e il grano con il grano».
Anche se molti scienziati iniziano a vedere i geni non più come semplici viti e bulloni di una macchina, che possono essere spostati o riordinati a piacere, proprio questa visione è invece la base fondante delle nuove biotecnologie, della nuova industria delle scienze della vita e del nuovo commercio genetico.

IL PRINCIPIO
DI PRECAUZIONE

Come ricorda il biologo Giuseppe Barbiero dell’Università di Torino, la comparsa degli ogm ha accelerato significativamente il processo di selezione naturale, in quanto si svolge in un periodo di tempo molto ridotto e in condizioni del tutto differenti rispetto alla selezione artificiale utilizzata tradizionalmente in agricoltura e zootecnia. La comunità scientifica sembra oggi riconoscere che è necessario approfondire le conoscenze prima di commercializzare gli Ogm, per evitare una sorta di esperimento globale su scala planetaria. Non sono pochi, infatti, gli esperti che ritengono insufficienti le attuali conoscenze scientifiche sull’argomento.
Ci troviamo cioè in «condizioni di ignoranza», di fronte a fenomeni complessi e non prevedibili come quelli biologici, in presenza del rischio reale di commettere errori gravi da cui non si può tornare indietro e, soprattutto, in una situazione in cui nessuno sa come eventualmente correggere gli errori: in questo contesto dovrebbe valere il «principio di precauzione», ossia un approccio prudente al problema (4). Per questa ragione l’etichettatura dei prodotti agrobiotecnologici, il rispetto dei protocolli di sicurezza, l’adozione di particolari cautele finalizzate a non compromettere l’equilibrio ecologico danneggiando la biodiversità sono alcune delle misure che dovrebbero essere considerate sempre necessarie, in quanto, in caso di errore, è più facile risalire alle cause e porvi rimedio in tempi ragionevoli. «Tuttavia – continua Barbiero – anche il rispetto più rigoroso dei protocolli di sicurezza non ci garantisce contro il rischio intrinseco delle nuove biotecnologie, dovuto esclusivamente alla nostra ignoranza riguardo la fisiologia del genoma. Siamo allora di fronte a un nodo ineludibile: la comunità scientifica deve dare segni di disponibilità e rimettere in discussione l’intera filiera che dalla ricerca porta alla commercializzazione dei prodotti delle nuove biotecnologie».
La necessità di adottare il principio di precauzione non è evidente solo alla luce delle possibili conseguenze sulla salute umana, ma anche dei potenziali, e in alcuni casi già effettivi, impatti sull’ambiente.

AGRICOLTURA BIOLOGICA O
RIVOLUZIONE «GENETICA»?

In molti sostengono che l’incremento dei raccolti registrato negli ultimi 50 anni, con la cosiddetta «rivoluzione verde», non sia dovuta ad una migliore gestione delle risorse locali, bensì all’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti, all’allevamento industriale di animali, e ad altre pratiche di agricoltura intensiva che hanno generato importanti conseguenze per l’uomo e per l’ambiente.
Oggi, le stesse aziende che si sono procurate una pessima fama con l’utilizzo di sostanze chimiche nelle produzioni agroalimentari, stanno proponendo una nuova «soluzione»: la cosiddetta «rivoluzione genetica», ossia l’utilizzo di semi modificati geneticamente, che ridurrebbe la dipendenza dai dannosi pesticidi di loro stessa produzione.
La maggior parte degli Ogm viene prodotta con caratteristiche che li rendano resistenti agli erbicidi; anziché comportare una diminuzione dell’uso degli erbicidi stessi, alcune stime dimostrano che ciò implica invece un aumento dell’utilizzo di tali sostanze.
Secondo Greenpeace, «che il meccanismo serva a far vendere più erbicidi lo prova il fatto che negli Usa le sementi transgeniche vengono vendute con un contratto, nel quale si stabilisce che gli agricoltori che utilizzano erbicidi che non siano della ditta produttrice della semente manipolata, possono essere perseguiti legalmente. Lo stesso contratto vieta agli agricoltori di conservare i semi provenienti dal raccolto per riseminarli l’anno successivo».
Ad esempio, la soia manipolata della Monsanto resiste a dosi massicce di Roundup, un erbicida prodotto dalla Monsanto stessa. In generale, una coltivazione di piante Gm di questo tipo può essere trattata con l’erbicida a dosi tali da uccidere le piante infestanti: sopravviverà soltanto la pianta Gm che è resistente. «Che poi – puntualizza Greenpeace – essa possa contenere dosi più o meno elevate di veleni chimici, è un fatto che non preoccupa l’industria chimica».
Tra gli «effetti collaterali», secondo i critici, anche lo sviluppo sia delle cosiddette «super-erbacce», in grado di invadere le altre specie presenti e causa di un ulteriore utilizzo degli erbicidi stessi, sia di «insetti super-infestanti».
L’utilizzo di prodotti chimici si estenderà inoltre in aree del mondo in cui attualmente non si fa uso di tali sostanze.
Alcune piante sono modificate geneticamente, invece, per produrre da sole i propri pesticidi: ciò provocherebbe fenomeni di resistenza a tali sostanze col conseguente aumento del loro utilizzo. Senza contare che l’inserimento di una tossina in una pianta rischierebbe di aumentare la tossicità della stessa e la sua diffusione nell’ecosistema.
«Ad oggi – continua Greenpeace – ciò che l’ingegneria genetica ci nega è la scelta delle tecniche genuine dell’agricoltura sostenibile sviluppate dalla modea agricoltura biologica. Ingegneria genetica e agricoltura biologica sono incompatibili».

IL BIO-INQUINAMENTO
L’agricoltura si caratterizza per la complessità di saperi, tecniche e coltivazioni evoluti con le caratteristiche dei territori e delle popolazioni che li abitano: si è così sviluppata una moltitudine di sistemi agrari complessi e diversificati, da cui si sono sviluppate specifiche culture alimentari e gastronomiche.
Questa diversità è oggi a rischio: come evidenzia Greenpeace, la dispersione nell’aria del polline, il trasferimento dei transgeni dalle colture Gm alle erbe spontanee, la dormienza dei semi che li può portare a germinare a distanza di qualche stagione, l’alterazione dei microrganismi del suolo, possono rappresentare un pericoloso mezzo di dispersione degli Ogm e di inquinamento genetico. Una volta rilasciato in natura, un nuovo organismo creato dall’ingegneria genetica potrebbe essere in grado di interagire con altre forme di vita, riprodursi, trasferire le sue caratteristiche e mutare in risposta alle sollecitazioni ambientali. Addirittura «è possibile che colture trasformate per produrre farmaci o altri composti di interesse industriale possano fecondare piante destinate all’alimentazione umana, con l’inevitabile risultato di trovare nuove sostanze chimiche nella catena alimentare umana» (5).
A tutt’oggi non è infatti possibile prevedere le conseguenze dell’immissione di Ogm in un ecosistema. L’elemento preoccupante è che il materiale genetico possa trasferirsi da un organismo all’altro al di fuori del controllo umano. Ad esempio, è stato verificato che i geni «trapiantati» possono velocemente passare dalla colza Gm a piante affini, infestanti e non. Ricerche condotte in Germania hanno mostrato che il gene per la resistenza al glufosinato può trasferirsi, mediante il polline, in piante distanti 200 metri e dati più recenti indicano che l’inquinamento genetico può avvenire anche a distanze maggiori. La commercializzazione di mosche, zanzare e vermi, ingegnerizzati in laboratorio per diversi scopi, porterebbe ad una loro rapida diffusione nell’ambiente.
L’evidenza ha dimostrato l’alta frequenza ed entità delle contaminazioni non solo in campo aperto, ma anche nelle fasi di stoccaggio e trasporto. «Le attuali strategie di contenimento genetico non possono funzionare in modo affidabile in campo aperto. Possiamo ragionevolmente attenderci che gli agricoltori ripuliscano meticolosamente i propri macchinari agricoli, tanto da rimuovere tutti i semi geneticamente modificati?» (6).
«Poiché il bioinquinamento si verifica quando gli Ogm non sono confinati in ambiente chiuso, gli scettici degli Ogm vorrebbero sospendere i test sul campo e le coltivazioni Gm, non le medicine ottenute tra le mura di un laboratorio», chiarisce Vandana Shiva (7).
(Fine prima parte – continua)

BOX 1 Le iniziative anti OGM di regioni e comuni

• Il 13 ottobre 2003, in seguito alla semina illegale di mais Ogm nel comune di Sant’Elpidio a Mare (AP), la regione Marche ha avviato le operazioni di smaltimento dell’intero raccolto.
• Nell’aprile del 2003, il Tar del Lazio ha respinto il ricorso delle multinazionali di produttori e importatori di Ogm che chiedevano di sospendere la circolare del ministero delle politiche agricole e forestali che vietava la produzione e commercializzazione di sementi, soia e mais che anche accidentalmente contenessero Ogm.
• La regione Friuli ha proposto nel giugno 2002 la creazione di una macro-regione europea «Ogm-free».
• Nel luglio 2003 la regione Piemonte ha disposto la distruzione di 381 ettari di mais geneticamente modificato con un’ordinanza del presidente. Respinto il ricorso al Tar della multinazionale Pioneer, la regione ha provveduto al rimborso degli agricoltori coinvolti nella vicenda.
• La regione Campania ha approvato una legge (n. 15 del 24 novembre 2001) per la quale «i prodotti contenenti organismi geneticamente modificati non devono essere somministrati nelle attività di ristorazione collettiva riguardanti le forme scolastiche e prescolastiche, negli ospedali e nei luoghi di cura della regione Campania appartenenti alle Aziende sanitarie locali e alle Aziende ospedaliere, ai comuni, alle province, alla regione, agli altri enti pubblici ed ai soggetti privati convenzionati».
• La regione Veneto con la legge regionale n. 6 del 1° marzo 2002 «tutela la salute quale fondamentale diritto dell’individuo e promuove tutte le azioni necessarie a prevenire i possibili rischi alla salute umana derivanti dal consumo di alimenti contenenti organismi geneticamente modificati (Ogm) o prodotti derivati da Ogm».
• La regione Liguria con legge regionale n. 13 del 19 marzo 2002 impone il «divieto di introduzione di organismi geneticamente modificati sia vegetali che animali, in particolare in agricoltura e allevamento, compresi gli allevamenti ittici e le attività di trasformazione dei prodotti».
• La regione Basilicata ha emanato una legge (n. 18 del 20 maggio 2002) in cui è fatto divieto di coltivazione in pieno campo di piante transgeniche.
• La regione Abruzzo ha disposto con la legge regionale n. 6 del 16 marzo 2001 che il principio di precauzione sia applicato «nelle decisioni che riguardano l’uso per qualunque fine di organismi geneticamente modificati o di prodotti da essi derivati».

Intanto, dall’agosto del 1999, sono state 445 le amministrazioni italiane che hanno deliberato contro l’introduzione di ogm sul proprio territorio. Dal primo comune dichiaratosi «anti-transgenico», Bubbio, in provincia di Asti, all’ultimo in ordine di tempo, Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi.
Per poter piantare il cartello con il logo di «Comune Ogm Free» le amministrazioni devono prima deliberare il loro impegno a tenere lontani dal proprio territorio gli organismi geneticamente modificati, impedendo le coltivazioni e le sperimentazioni agricole.

Fonti: www.legambiente.com; www.comuniantitransgenici.org

BOX 2 la chiesa e gli OGM…

La chiesa deve prendere coraggio e restare coerente con la sua morale per dichiarare inaccettabili gli Ogm. Lo chiede padre Alex Zanotelli sull’ultimo numero della rivista Nigrizia. Zanotelli teme che il Vaticano possa cedere alle pressioni americane in questa materia e chiede ai teologi, ai missionari, agli episcopati del Terzo mondo di farsi sentire con decisione sull’argomento per evitare che la chiesa usi due pesi e due misure nella morale che riguarda la manipolazione della vita. «Già la scorsa estate – scrive padre Alex – sono rimasto di stucco nel leggere sulla Stampa l’intervista del card. Renato Martino, presidente del Pontificio consiglio per la giustizia e la pace, sulla possibilità di usare cibi geneticamente modificati per risolvere il problema della fame. In molti hanno reagito all’intervista – ordini religiosi e istituti missionari soprattutto. Anche per questo, credo, il cardinale ha convocato, il 10-11 novembre scorso, 67 esperti per avere più pareri sugli organismi geneticamente modificati. Il fatto è che gli esperti scelti erano quasi tutti favorevoli agli Ogm. Non a caso uno dei convocati, Dorine Stabinsky, americana, ha parlato di “squilibrio”».

Dello stesso parere due gesuiti che operano in Zambia, Peter Henriot e Roland Lesseps, i quali hanno rimarcato: «Gli Ogm non possono trovare riscontro nell’insegnamento della dottrina sociale della chiesa, perché non rispettano né i diritti umani né l’ordine della creazione». Netta anche la reazione dei missionari italiani (Conferenza degli istituti missionari d’Italia, Cimi). Si noti che alla conferenza in Vaticano non c’era nessun rappresentante degli episcopati del Sud del mondo. Mentre sappiamo che gli episcopati sudafricano, brasiliano, filippino e zambiano si sono espressi negativamente sugli Ogm.
Sulla questione, critico anche l’intervento di padre Giulio Albanese, comboniano, direttore dell’agenzia Misna. E anche l’opinione di don Albino Bizzotto (Beati i costruttori di pace), Lidia Menapace e Francesco Iannuzzelli (Peacelink) che, sulla questione Ogm, hanno inviato una lettera aperta a mons. Martino.

Fonti: Ettore Colombo, www.vita.it (08/01/2004); www.oneworld.net. (02/04/2004)

Silvia Battaglia




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (prima puntata)

Introduzione
VENEZUELA 2004
(e la maledizione del petrolio)

Sono molte le immagini che si sono
impresse nella mente durante il mio viaggio in Venezuela. Dire che il
paese è diviso in due parti antitetiche e contrapposte può sembrare
semplicistico, ma l’affermazione non si discosta troppo dalla realtà.
Ricordo le lacrime silenziose della ministra dell’ambiente, Ana Elisa
Osorio, medico, quando raccontava delle «amiche» che l’hanno ripudiata
perché lei è entrata nel governo dell’odiato Hugo Chávez Frias. Ricordo
la faccia triste dell’ex ministro della pianificazione, Jorge Giordani,
ingegnere laureato a Bologna, quando ci raccontava il comportamento dei
suoi vicini di casa: costoro ogni sera, per mesi, avevano inscenato
rumorose ed offensive proteste davanti ai cancelli della sua abitazione
perché lui e la sua famiglia se ne andassero dalla zona. Ricordo gli
occhi pieni di felicità di Maylin Rodriguez Beltran, giovane mamma del
barrio Sucre, a Caracas, quando ci mostrava l’atto di proprietà della
propria casa (già abusiva), appena ricevuto dal governo.

Ricordo
il racconto di padre Agostinho, missionario della Consolata: «Le
divisioni tra chavisti e anti-chavisti si manifestano anche nella mia
chiesa. Qualche tempo fa, una signora durante una messa ha chiesto agli
altri fedeli di pregare perché Chávez se ne vada. Davanti a questi
fatti io, prete, come debbo comportarmi?». Ricordo l’accorato
comunicato di un gruppo di suore favorevoli a Chávez (chiamato «hermano
Presidente»), che si concludeva così: «Noi gridiamo che vale la pena di
vivere in Venezuela: oggi, qui ed ora».

Il Venezuela è uno dei
maggiori esportatori mondiali di petrolio. In America Latina è il primo
produttore. La «Petróleos de Venezuela» (Pdvsa, detta Pedevesa nel
linguaggio corrente), la compagnia petrolifera di proprietà pubblica,
ha sempre generato enormi profitti, che però invece di arrivare nelle
casse dello stato in larga parte sono andati a gonfiare conti bancari
privati, in patria come all’estero. Forse per questo i dirigenti di
Pedevesa si sono apertamente schierati con la «Coordinadora
democratica» (l’eterogenea alleanza che raggruppa gli anti-chavisti).
Poco importerebbe se essi non fossero riusciti a bloccare per mesi
(attraverso uno sciopero, ma anche con autentici atti di sabotaggio) la
produzione di greggio, portando il paese ad un passo dalla bancarotta.
Difficile fare previsioni sul futuro del Venezuela. Il presidente
Chávez (ammesso che resista) indirà le elezioni nel prossimo agosto? Se
sì, i contendenti accetteranno il successivo responso delle ue? Un
eventuale ritorno dell’opposizione al governo, comporterà anche un
ritorno ad un modello economico dove l’80 per cento dei venezuelani è
costretto a vivere nella miseria?

Pa.Mo.


VOCI DA PIAZZA ALTAMIRA:
«NOI TORNEREMO»

Dicono
che il presidente Hugo Chávez Frias sia un dittatore, legato a Fidel
Castro e al comunismo internazionale. Ma non parlano da un carcere o
dall’esilio. I militari ribelli hanno il loro quartiere generale in un
albergo che si affaccia su piazza Altamira, luogo simbolo
dell’opposizione venezuelana, situato nella parte est di Caracas, il
quartiere delle classi ricche. Abbiamo incontrato uno dei comandanti
ammutinati, il generale Néstor Gonzáles Gonzáles. Ecco le sue risposte
e i suoi giudizi sulla situazione venezuelana e sul futuro.

Caracas.
Alle spalle della piazza si alza il monte Avila, che per la sua altezza
svolge una funzione di orientamento per chiunque non conosca Caracas.
La piazza si chiama Francia, ma è comunemente conosciuta come Altamira.
Costituisce il fulcro di Chacao, il municipio più ricco di Caracas,
dove ci sono le maggiori entrate fiscali, dove le strade sono ordinate
e dove il colore della pelle delle persone è tendenzialmente sul
bianco… Il sindaco di Chacao si chiama Leopoldo Lopez e, con il suo
movimento Primero justicia, è uno dei leader emergenti dell’opposizione
venezuelana.
La piazza Altamira è diventata famosa in tempi recenti.
Tutta circondata da palazzi modei e posta in leggera salita, negli
ultimi due anni essa si è trasformata in una sorta di santuario del
movimento che si oppone al presidente Hugo Chávez. In senso simbolico,
ma anche effettivo.
Sotto l’obelisco che sta al centro della
piazza è stato eretto una specie di altare con una grande statua della
Madonna e sotto di essa altre di dimensioni minori. Attoo grandi
casse acustiche, microfoni, un palco per le riprese televisive, un
orologio che scandisce ore e minuti trascorsi dall’inizio
dell’occupazione della piazza. E ancora striscioni contro Chávez
(«rinuncia subito ») e in favore del generale Martinez; cartelli con il
sito internet e il numero di conto corrente bancario dei «militari
democratici». Il tutto è infiocchettato da drappi gialli, azzurri,
rossi, i colori del Venezuela.
Stiamo per scattare qualche foto,
quando alcune persone si avvicinano per consigliarci di andare a
chiedere il permesso. «Il permesso?» chiediamo stupiti.
– È meglio. Potrebbero confondervi per spie chaviste.
– E a chi dovremmo chiedere questo permesso?
– Entrate nell’hotel.
L’hotel è il «Four Seasons», moderno e mai entrato in funzione. Da mesi
divenuto una sorta di quartier generale dell’opposizione e, in
particolare, degli ufficiali che hanno lasciato Chávez. Sono qui dallo
scorso 22 ottobre e con una buona dose di enfasi hanno dichiarato
piazza Altamira «territorio liberato». Alcune persone ci indirizzano
dal generale. Con un basco sulla testa rasata a zero e un giubbotto
antiproiettile che sbuca dalla giacca d’ordinanza carica di lustrini
militari, l’ufficiale non può passare inosservato neppure agli occhi di
persone totalmente estranee al mondo militare. Dimentichiamo subito il
motivo per cui siamo entrati. L’occasione è troppo ghiotta: chiediamo
di avere una breve intervista. Ci dice di aspettare un attimo. Ritorna
dopo pochi minuti, impettito come si conviene a un generale, stringendo
tra le mani il bastone del comando.
Generale, cominciamo con una breve autopresentazione.
«Sono Néstor Gonzáles Gonzáles, generale di brigata dell’esercito
venezuelano. Sono uscito dall’accademia militare nel 1974. Ho 28 anni e
mezzo di servizio attivo, più quattro anni all’accademia».
Dunque, lei ha quasi 33 anni di vita militare alle spalle. Con quali incarichi?
«Ho avuto incarichi di comando della truppa in tutta la mia carriera e sono
stato anche istruttore per tutte le armi. Sono stato comandante dei
reparti di artiglieria, vicecomandante del reggimento della guardia
d’onore durante i governi di Carlos Andrés Pérez (1989-1993) e di
Rafael Caldera (1994-1998) in una situazione sommamente critica. Questo
le da un’idea di quanto siamo democratici e del fatto che non siamo
golpisti. Sono stato secondo comandante della 31° brigata di fanteria;
direttore della scuola di artiglieria dell’esercito; comandante della
brigata cacciatori dell’esercito; comandante del teatro di operazione
numero 2.
Il mio ultimo incarico è come direttore del personale dell’esercito e comandante di tutte le scuole dell’esercito».
Un curriculum di tutto rispetto per un ufficiale. Ora, però, le chiediamo: che ci fa in questa piazza?
«Questa è una situazione che molte persone non capiscono. Bisogna sapere che
prima di arrivare a ciò sono state fatte tutte le denunce attraverso i
canali legali per far sì che il presidente rispettasse la costituzione».
In cosa Chávez non avrebbe rispettato la costituzione?
«Per esempio, il tradimento della patria con la consegna del territorio
venezuelano alla guerriglia colombiana. Ho manifestato pubblicamente e
attraverso tutti i canali ufficiali (dell’esercito, del ministro della
difesa e della presidenza della repubblica) il mio scontento e la mia
indisposizione ad accettare che la politica fosse introdotta
all’interno dei quadri dell’esercito. Sostenevo che questa
politicizzazione delle forze armate avrebbe portato a problemi di
divisione, di leadership e di operatività. Tutte queste mie
osservazioni non sono state prese in considerazione. Poi sono avvenuti
i fatti dell’11 aprile 2002 (vedere cronologia, ndr). Io ho fermato le
truppe e i tanks perché non uscissero per strada a massacrare il popolo
venezuelano, che chiedeva la rinuncia del presidente. L’intento di
Chávez era proprio quello di usare le truppe per sequestrare il popolo
venezuelano e imporre un progetto comunista di tipo totalitario,
diretto da Fidel Castro e dalla sinistra internazionale. Una volta che
è successo tutto questo, io ed altri ufficiali democratici abbiamo
ritenuto che non esistesse più uno stato di diritto all’interno del
nostro paese e siamo scesi in piazza Altamira a denunciare quello che
stava succedendo. Era il 22 ottobre 2002. Siamo ancora qui, perché lo
stato di diritto non è stato ripristinato e non esiste neppure un luogo
dove presentare le nostre denunce, dato che tutti i poteri dello stato
hanno un atteggiamento ostile nei nostri confronti.
Per tutto questo abbiamo deciso di ritirarci dall’esercito e venire in questa
piazza per denunciare all’opinione pubblica nazionale e internazionale
quello che sta facendo il presidente Hugo Chávez contro il popolo
venezuelano. Questa persona ha permesso a elementi stranieri di entrare
nel nostro paese per reprimere la rivolta popolare; ha distrutto tutte
le istituzioni e sfrutta la miseria per portare avanti un progetto di
sinistra con lo scopo di destabilizzare tutto il continente
latinoamericano e probabilmente la pace e la tranquillità del mondo».
Quante persone condividono la vostra ribellione?
«All’interno
del territorio liberato di piazza Altamira ci sono 126 militari. Ma non
tutti vivono qui. Alcuni vanno ai loro luoghi di residenza, altri
invece dormono sempre in case diverse per motivi di sicurezza. C’è
repressione contro di noi, contro le nostre famiglie».
Lei parla di repressione. Però, è molto originale che ci sia un gruppo di ufficiali
che si sono ammutinati e non riconoscono questo governo e che tuttavia
non vengono arrestati…
«In questo momento abbiamo 9 ufficiali
con ordini di cattura. Gli altri no. Nemmeno io, che continuo ad essere
militare attivo delle forze armate venezuelane. Siamo 4 generali. Gli
altri sono stati abbassati di grado senza nessuna giustificazione,
senza nessun diritto alla difesa, senza il processo che si deve seguire
in questi casi.
Abbiamo un generale detenuto nella sua residenza
per motivi politici, il generale Alfonso Martinez. Inoltre, a parte
noi, ci sono molti generali che sono a casa o senza incarichi o che si
sono ritirati dal servizio, che lavorano per ottenere l’abbandono della
presidenza da parte di Hugo Chávez».
Lei ovviamente sta parlando di un’uscita pacifica, giusto?
«Qualsiasi uscita! Perché quando si vende la patria, quando si tradisce un popolo
per imporre un regime alieno, che non si identifica con il benessere,
la tranquillità e la pace della gente, si deve arrivare alla libertà a
qualsiasi costo.
Abbiamo iniziato pacificamente, ma se dovremo
ricorrere ad altri metodi lo faremo. Dobbiamo recuperare la libertà di
una nazione e di un popolo che sta soffrendo. Purtroppo, la comunità
internazionale non ha inteso totalmente la nostra situazione».
Perché non avrebbe inteso la situazione? I media hanno parlato molto del Venezuela…
«Semplicemente perché il governo ha manipolato l’informazione. Con molto denaro ha
costruito una lobby internazionale a cui mostra continuamente una
costituzione che non rispetta. Hugo Chávez vuole dimostrare che è un
democratico, mentre in realtà è un dittatore che tenta di imporre un
regime comunista e fondamentalista».
Parliamo di numeri. Secondo lei, quanta gente sta con Chávez?
«Calcoliamo
che ha una popolarità “dura” tra il 12% e il 15%. Poi c’è un altro 15%
che, per così dire, è chavista light, molti anche all’interno delle
forze armate, perché sono pagati, corrotti. Chávez ha comprato la
dignità e la coscienza della maggior parte delle persone che lavorano
con lui, ma quando il denaro finirà queste lo lasceranno perché non si
identificano con lui».
Se solo il 30% della popolazione sta con
Chávez, questo significa che il presidente è stato abbandonato anche da
gran parte della gente povera…
«Molti pensano che gli abitanti
dei barrios poveri stiano dalla sua parte, ma non è così. Ad esempio,
durante il firmazo (raccolta di firme contro il presidente indetta
dall’opposizione, ndr), molta gente è scesa a Caracas per manifestare
la propria volontà di smettere di soffrire».
E le forze armate da che parte stanno?
«Chi
crede che le forze armate stiano con il presidente si sbaglia! Proprio
perché non è così, Chávez ha portato tanti stranieri sul territorio
venezuelano: gruppi della guerriglia colombiana pronti ad intervenire
con le armi; cubani mascherati da istruttori sportivi, ma ugualmente
armati. Poi, con la scusa di difendere la rivoluzione, ha armato anche
parte della popolazione».
Lei si riferisce ai cosiddetti circoli bolivariani?
«Certo!
Lui ha organizzato questi circoli perché sa che le forze armate non
stanno dalla sua parte, che hanno una posizione istituzionalista e che
un giorno si uniranno assieme al popolo per cacciarlo».
E cosa pensa della cornordinadora democratica?
«Un
elemento della politica di Hugo Chávez è cercare di dividere
l’opposizione. La cornordinadora democratica non è sfuggita a questo
tentativo. Così si sono create divisioni tra i politici che si
oppongono a Chávez per interessi personali, economici o di partito.
Queste persone vengono automaticamente messe da parte quando ci si
accorge che esse non si identificano con l’interesse generale del
popolo venezuelano».
E quali vie d’uscita propone la cornordinadora democratica?
«Chávez
disprezza qualsiasi opzione democratica e si burla costantemente di
ogni soluzione proposta dal popolo, perché se è vero che il presidente
gode ancora di un 25-30% di supporto popolare, è anche vero che ha un
70% di rifiuto che viene espresso regolarmente nelle strade di Caracas
e non solo in piazza Altamira.
Questo non era mai successo con
nessun presidente venezuelano, nemmeno con Caldera che arrivò ad avere
un 15% di popolarità, ma il restante 85% della popolazione rimaneva
indifferente e viveva la vita così come veniva. Tutto restava confinato
all’interno di un contesto democratico, senza creare in nessun momento
divisioni tra ricchi e poveri o tra bianchi e neri, come cerca di fare
in questo momento Chávez».
Generale Gonzáles, che cosa pensa per il futuro immediato?
«Il
futuro immediato impone al popolo venezuelano di continuare a scendere
in piazza per far capire alla comunità internazionale che la nostra
lotta è giusta. La pace, la libertà, la tranquillità e il futuro del
Venezuela significano molto non soltanto all’interno del continente
sudamericano, ma anche nel contesto occidentale e mondiale. Non può
essere che un gruppo minoritario sequestri la libertà e la tranquillità
di un paese. Pertanto dobbiamo continuare ad andare avanti. A qualsiasi
costo».

(Fine 1a. puntata)

BOX
SCHEDA VENEZUELA

Superficie: 915.000 Kmq (circa 3 volte l’Italia)
Popolazione: 23.706.000 (1999)
Gruppi etnici: meticci (67%), bianchi (21%), neri (10%), amerindi (2%)
Capitale: Caracas
Religione: cattolici (92,7%)
Tasso alfabetizzazione: 91%
Ordinamento politico: repubblica presidenziale guidata da Hugo Chávez Frias, il cui mandato scade nel 2006
Economia:
si fonda sull’industria estrattiva di petrolio e gas naturale (laguna
di Maracaibo, Golfo di Paria, ecc.); l’agricoltura (caffè, cacao, canna
da zucchero, tabacco) non copre le necessità intee
Lavoro: secondo alcune inchieste, il 53% della popolazione economicamente attiva ha un lavoro di tipo «informale»
Sotto
la soglia di povertà: le cifre non sono concordi; tuttavia, non si
sbaglia di molto dicendo che l’80% della popolazione vive in povertà,
il 50% in estrema povertà

Cronologia essenziale
DALL’ASCESA DI HUGO CHÁVEZ AL FEBBRAIO 2003

1989-2001, DAL CARCERE ALLA PRESIDENZA
27 FEBBRAIO 1989: SOLLEVAZIONE POPOLARE
A
Caracas esplode la protesta di vasti settori della popolazione. La
manifestazione si tramuta in insurrezione violenta con saccheggi e
devastazioni. La rivolta si estende anche in altre città del Venezuela.
Il presidente Carlos Andrés Pérez manda contro la folla l’esercito che
apre il fuoco. I morti sono migliaia.
4 FEBBRAIO 1992: SOLLEVAZIONE MILITARE
Il
tenente colonnello Hugo Chávez e altri quattro comandanti tentano un
golpe contro Carlos Andrés Pérez. La sollevazione fallisce.
MARZO 1994: FUORI DAL CARCERE
Il nuovo presidente Rafael Caldera libera Chávez.
1997: NASCE IL PARTITO DI CHÁVEZ
Chávez fonda il «Movimento V (Quinta) Repubblica», partito con il quale si candida alla presidenza del paese.
6 DICEMBRE 1998: VITTORIA
Chávez viene eletto presidente del Venezuela con il 56,49% dei voti.
2 FEBBRAIO 1999: GIURAMENTO
Al momento del giuramento, il neo-presidente afferma di prestare giuramento sopra una «costituzione moribonda».
APRILE – DICEMBRE 1999: NUOVA COSTITUZIONE
La
maggioranza dei venezuelani approva la proposta di convocare
un’assemblea costituente per redigere una nuova costituzione (25
aprile). Il raggruppamento di Chávez conquista 122 seggi su 131
all’interno della costituente (25 luglio). Il 15 dicembre un referendum
approva la nuova costituzione «bolivariana».
30 LUGLIO 2000: NUOVA VITTORIA DI CHÁVEZ
Chávez ottiene il 59% dei voti nelle elezioni indette in conformità alla nuova costituzione.
13 NOVEMBRE 2001: LE 49 LEGGI
Sulla
base di una deroga di legge (la cosiddetta «ley habilitante »), il
governo di Chávez approva per decreto 49 leggi di grande impatto
economico e sociale (sono comprese materie come la proprietà della
terra, l’imprenditorialità, la pesca). Le associazioni degli
imprenditori contestano le nuove norme.

2002, L’ANNO DEL GOLPE
5 MARZO 2002: ALLEANZA TRA OPPOSITORI
La
principale organizzazione imprenditoriale, «Fedecámaras», e la
corrottissima «Confederación de trabajadores de Venezuela» (Ctv) si
alleano per trovare un’uscita alla crisi del paese. Il governo non
viene neppure interpellato.
11 APRILE: LA RIVOLTA DEGLI «ANTI-CHAVISTI»
L’opposizione
convoca una marcia fino al palazzo presidenziale di Miraflores per
chiedere la rinuncia di Chávez. Ci sono scontri con i simpatizzanti del
presidente. Sul terreno rimangono almeno 12 morti e centinaia di
feriti.
12 APRILE: RINUNCIA DI CHÁVEZ?
Ore convulse. Viene
annunciato che il presidente è stato portato via da Caracas e che ha
rinunciato all’incarico. L’opposizione nomina l’imprenditore Pedro
Carmona, presidente di «Fedecámaras», capo di un governo di
transizione. Gli Stati Uniti dichiarano il proprio appoggio al golpe.
13 APRILE: LA RIVOLTA DEI «CHAVISTI»
Un
decreto del governo transitorio azzera l’Assemblea nazionale. Le strade
di Caracas iniziano a riempirsi di gente che reclama il ritorno del
presidente Chávez.
14 APRILE: IL RITORNO DI CHÁVEZ
La mattina
di domenica Hugo Chávez torna nel palazzo presidenziale di Miraflores.
Il golpe dell’opposizione è durato soltanto 48 ore.
22 OTTOBRE: I COMANDANTI DI PIAZZA ALTAMIRA
Quattordici
alti ufficiali dell’esercito venezuelano si ammutinano. Approntano il
loro «quartier generale» in piazza Altamira, (nella parte est di
Caracas), dichiarandola «territorio liberato».
28 OTTOBRE: MEDIAZIONE
Cesare
Gaviria, segretario generale dell’«Organizzazione degli stati
americani» (Oea), comincia una difficile mediazione tra governo ed
opposizione.
2 DICEMBRE: SCIOPERO GENERALE
L’opposizione,
guidata da «Fedecámaras» e dalla «Confederación de trabajadores de
Venezuela» (Ctv), e sostenuta dai principali mezzi di comunicazione,
proclama uno sciopero generale (paro civico nacional). Obiettivo
primario è la paralisi dell’industria petrolifera (Pdvsa), la
principale fonte di ricchezza del paese.

2003, CROLLANO LE ENTRATE DELLO STATO
15 GENNAIO 2003: GRUPPO DEI «PAESI AMICI»
A
Quito, in Ecuador, si costituisce il «gruppo dei paesi amici del
Venezuela». È formato da 6 stati: Brasile, Cile, Messico, Spagna,
Portogallo e Stati Uniti. L’idea, nata da una proposta del presidente
brasiliano Lula, inizialmente non prevedeva la presenza di Washington.
2 FEBBRAIO: TERMINA LO SCIOPERO
L’opposizione
decide di revocare lo sciopero che dura da 63 giorni. Ma la fermata del
settore petrolifero ha determinato un crollo verticale delle entrate
fiscali. Il governo riuscirà a sopravvivere anche con le casse vuote?

Paolo Moiola




Se la bistecca è politicamente scorretta

A proposito della campagna della Cafod «Flyng Cows», oggetto dell’ultima parte dell’editoriale di Missioni Consolata, maggio 2003 e della relativa vignetta, desidero fare alcune osservazioni.

1. Condivido il giudizio negativo sul sussidio giornaliero medio di 2,20 euro agli allevatori europei per ogni capo di bestiame posseduto (non ha tutti i torti Noam Chomsky quando dice che «i paesi ricchi fanno i socialisti a casa loro e i capitalisti nei paesi poveri»). Ma aggiungo: se molti paesi in via di sviluppo sono nei guai (tanto che il numero degli affamati e assetati, anziché diminuire, aumenta) è perché anche i governi di queste nazioni hanno creato un sistema di concorrenza sleale, che favorisce spudoratamente certi allevatori e certi tipi di allevamento, penalizzandone altri.
Il caso più inquietante è forse quello del Brasile. Qui una delle principali cause del degrado economico, sociale e ambientale è stato proprio il sistema delle sovvenzioni che i governi locali hanno erogato a volontà, affinché le mucche avessero a disposizione tutto lo spazio possibile, senza star tanto a pensare alla qualità morale delle persone che beneficiavano di tali agevolazioni e al destino di coloro che avrebbero dovuto sloggiare per far posto ai bovini.
In altre parole: un qualunque latifondista, dimostrando di avere delle mucche, acquisiva il diritto di proprietà delle terre di cui diceva di aver bisogno, anche quelle dell’Amazzonia profonda, anche quelle abitate da «caboclos e indios» e sostanzialmente inadatte al pascolo.
I latifondisti approfittarono della situazione da par loro: misero a ferro e fuoco la foresta; fecero massacrare indios, caboclos, seringueiros dai loro sicari; provocarono alterazioni dell’ecosistema amazzonico che ebbero ripercussioni a livello planetario. Inoltre minacciarono, uccisero e straziarono alcuni missionari, che avevano «osato» suggerire un uso della terra più responsabile e più rispettoso dell’uomo e dell’ambiente. L’elenco è lungo: don Josimo de Moraes Tavares, suor Adelaide Molinari, padre Ezechiele Ramin, ecc. E non dimentichiamo il sacerdote modenese Francesco Cavazzuti, che la scarica di proiettili la ricevette in pieno volto e perse completamente la vista.
Verso la fine degli anni ’80, altri missionari, considerata anche la disarmante facilità con cui killers e mandanti riuscivano a farla franca con la giustizia, pensarono che l’unica strada praticabile fosse quella di dimostrare alle autorità che: anche gli indios avevano delle mandrie e, quindi, anch’essi avevano diritto ad un po’ di terra!
Partì così il famoso progetto «una mucca per l’indio». Non era il massimo, ma qualche vantaggio ad alcune comunità indigene lo portò, anche perché poté contare sull’entusiastica adesione del vescovo di Ravenna (poi cardinale) Ersilio Tonini, sull’appoggio di Famiglia Cristiana e sul beneplacito di Giovanni Paolo II, che sborsò il denaro necessario all’acquisto dei primi capi di bestiame.
Ciò però non ha significato la fine delle prepotenze, degli attentati e delle stragi. I latifondisti sono potenti, riescono a farsi ubbidire da tanti e l’Amazzonia hanno continuato a saccheggiarla, anche perché il governo e l’esercito li hanno lasciati fare. Li lascerà fare anche il presidente Lula? Sarebbe una beffa veramente atroce per il Brasile (e non solo).
Ndr Il progetto «una mucca per l’indio» fu ideato e lanciato a Roraima (Brasile) dai missionari della Consolata, per iniziativa di padre Giorgio Dal Ben. Il progetto ebbe una vasta eco in Europa, specialmente durante una Campagna promossa dai missionari della Consolata (1988-89), e si è rivelato vincente per gli indios macuxi, wapixana, ingarikó e taurepang di Roraima.

2. Nella stragrande maggioranza dei casi i latifondisti sono gente straniera, che opera per conto di grandi imprese multinazionali, o comunque persone che hanno legami scarsi o nulli con la vita, la cultura e le tradizioni delle comunità presenti nelle terre dove mettono in piedi i loro super-allevamenti.
È il caso di Edward Luttwak, famoso politologo-scrittore-imprenditore. In Bolivia è padrone di una tenuta di 118 kmq e si vanta di produrre una carne di qualità incomparabilmente superiore a quella prodotta dagli allevatori italiani. È il caso di tutti quei fazendeiros che, come Luttwak e più di Luttwak, hanno approfittato della «mucca pazza» per costruire i miti della «carne verde», della «bistecca politicamente corretta», del «bovino allevato nell’ambiente più sano e adatto alle sue esigenze»…
In realtà, rispetto agli anni in cui (anche in Italia) un po’ tutte le organizzazioni ecologiste e pacifiste invitavano a non consumare la carne dei fast food, perché ottenuta da bestie allevate con metodi criminali, incompatibili con le più elementari istanze etiche, è cambiato ben poco. Infatti in tutta l’America Latina, dal Messico al Brasile, dall’Honduras all’Argentina, allevare grandi mandrie su pascoli estesi equivale a distruggere le foreste, alterare il ciclo dell’acqua, affamare le persone, impoverire economie già fragilissime, sfruttare il lavoro minorile, ridurre in schiavitù individui, famiglie, villaggi che fino a non molto tempo fa godevano di condizioni di relativo benessere.
È esagerato dire che chi mangia questa carne, seguendo la moda del fast food, o magari perché ha simpatia per Luttwak e per le belle cose che dice in televisione sul grande impegno degli Stati Uniti in favore della libertà, della democrazia, della lotta contro il comunismo e il terrorismo… diventa corresponsabile di questi scempi?

3. Quando parliamo di allevamenti e di sovvenzioni agli allevamenti, non possiamo intendere solo quelli di bovini e degli altri animali terricoli. Oggi un contributo assai rilevante all’involuzione economica, al degrado ambientale, allo sfilacciamento di tutta quanta la rete delle relazioni familiari e sociali, viene anche dall’allevamento di animali acquatici, piccoli e apparentemente innocui.
Oltre alle giungle tropicali propriamente dette, vi sono anche i mangrovieti costieri: cioè formazioni forestali composte da specie arboree dotate di particolari radici che crescono verso l’alto (tale modalità di crescita si chiama «geotropismo negativo») e in grado, grazie appunto a queste radici, di tollerare l’acqua dell’alta marea e il sale. Ebbene, se i paesi del terzo mondo perdono tutto questo, è per l’incredibile espansione conosciuta dall’industria dei gamberi, che vengono allevati in enormi vasconi ottenuti a spese degli alberi di mangrovie, delle lagune naturali e delle comunità locali, per le quali la pesca costituisce l’unica vera fonte di sostentamento.
Già una quindicina d’anni fa, monsignor Enrico Bartolucci, vescovo di Esmeraldas (Ecuador occidentale), esprimeva profonda inquietudine di fronte ai soprusi perpetrati dai proprietari delle camaroneras (così in Ecuador vengono chiamati gli impianti per l’allevamento di crostacei). Qualche tempo dopo, nell’estate del 1995, grazie a un altro missionario, padre Enzo Amato, si venne a sapere che, sempre nel territorio di Esmeraldas, l’autorizzazione a disboscare altri 2.406 ettari era venuta addirittura dall’Istituto ecuadoriano di aree naturali e silvestri.
Della cosa si occupò anche la rubrica televisiva «Geo», che, tra l’altro, denunciò le inumane condizioni di lavoro imposte dai proprietari e l’aumentata vulnerabilità della costa disboscata dinanzi alle tempeste e ai furiosi venti oceanici.
Il problema però non riguarda solo l’Ecuador. Gli sfavillanti crostacei bianco-arancio, sotto varie sigle («insalata di mare», «polpa di granchio», ecc.), oano i banchi dei supermercati: anche quelli della Coop, che da sempre dice di essere dalla parte dell’uomo, dell’ambiente, della solidarietà, dei diritti, contro gli organismi geneticamente modificati, contro tutte le svolte autoritarie… Gli sfavillanti crostacei sono il risultato di assassinii, stragi, rapine ed altre nefandezze ai danni di piccole comunità di pescatori in Sudan, Bangladesh, India, Indonesia, Cina, Vietnam, Filippine, Thailandia, Messico, Brasile e nel già citato Ecuador.
Astenersi dall’acquisto di queste «squisitezze» dovrebbe essere avvertito come un dovere morale, così come lo sono le campagne di informazione sugli abusi della Nestlé, della Del Monte e degli altri colossi del settore agroalimentare. Inoltre si sappia che, come ha denunciato l’Organizzazione non governativa inglese Environmental Justice Foundation, nelle camaroneras si fa un uso sconsiderato di antibiotici proibiti, che non sono proprio l’ideale per chi è alla ricerca di cibo sano.

Giovanni De Tigris – Urbino (PU)

Giovanni de Tigris




Foto scandalose?

Spettabile redazione,
ho ricevuto il calendario 2004. Devo dire, però, che le immagini abbinate ai mesi di maggio e giugno mi hanno rattristato; pertanto non posso appenderlo in casa mia: la foto di giugno mi ricorda gli spettacoli mondani (in casa mia non c’è la televisione); la foto di maggio è un richiamo alla perversione sessuale che domina il mondo occidentale.
Perdonate la mia franchezza. Ma sentivo il dovere di esprimere il disagio che ho provato nello sfogliare il calendario.
Lettera firmata
Roveredo in Piano (PN)

Le immagini del «disagio» ritraggono una famiglia di indios yanomami (Brasile) al lavoro (sono «così» da circa 12 mila anni) e una danza cinese della dinastia Tang (del 700-800 d. C.).
Immagini scandalose? Non lo crediamo.

Lettera firmata




Cuba fucila i dirottatori

Egregio direttore,
la visita di Lula, presidente del Brasile, a Cuba marca in maniera netta il diverso approccio dei paesi latinoamericani dalle prese di posizione europee. Mi pare il caso di ripensarle: dal punto di vista dell’informazione, innanzitutto, sono state stravolte.
La fucilazione dei tre dirottatori è stata presentata come se Cuba avesse innalzato un nuovo muro di Berlino; invece ha punito, in base alle sue leggi, dei dirottatori la cui azione non violava solo le leggi, ma si poneva contro lo stato, inserendosi nella guerra che gli Stati Uniti conducono da quasi 50 anni. Scandalizzarci di quelle esecuzioni, non mi pare che abbiamo titolo.
C’è un crimine più vasto, la guerra, che abbiamo approvato in Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Afghanistan, ecc.
Chi inizia una guerra sa di condannare a morte migliaia di innocenti e, tuttavia, abbiamo ritenuto percorribile questa strada. Guerra di bombardamento, basata sulla supremazia di chi la scatena, coperta da motivazioni umanitarie, quando si sa che tutte le guerre sono fatte per motivi inconfessabili, con l’aggravante di creare ad arte situazioni di scontro e presunte violazioni dei diritti umani (vedi la falsa strage di Racak o del mercato in Bosnia-Erzegovina). Guerre per espandere il dominio e mantenere l’ingiusta ripartizione dei beni, che condanna alla fame e alla morte milioni di persone.
Toando ai fatti, si è dimenticato che gli Stati Uniti usano affondare le imbarcazioni sottratte a Cuba. Inoltre, pur esistendo una regolamentazione legale degli espatri, essi la violano con la concessione di un lavoro e casa.
Un tempo la sopravvivenza di Cuba fu assicurata dall’Unione Sovietica. Ora la Russia ha ritirato il presidio militare che aveva sull’isola, e gli Stati Uniti attaccano, a suon di bombe, ogni stato che ritengano di porre sotto tiro.
Dunque, il succo vero della nostra meraviglia mi sembra quello di inchinarci ai desideri della superpotenza e di preparare il terreno alle sue future guerre. In fatto di democrazia, dubito che abbiamo il diritto di giudicare quella degli altri; mi parrebbe giusto fare il punto su quella di casa nostra.
Non credo che l’atteggiamento assunto nei confronti di Cuba possa essere d’aiuto, affinché la democrazia si accresca in questo paese. La democrazia esige comprensione e rispetto, non scontro, tantomeno ingerenze estee e collusione con dei lupi rapaci.
Lo sviluppo della democrazia a Cuba presuppone il venir meno dell’assedio degli Stati Uniti, non un rafforzamento o l’attacco finale. Ignorando le ragioni di Cuba, abbiamo anche sacrificato gli interessi delle imprese italiane ed europee. Anche questo sembra una costante della politica italiana ed europea: i nostri veri interessi scompaiono di fronte a quelli degli Usa.

Siamo contro la pena di morte in qualsiasi paese. Sul regime di Cuba abbiamo espresso il nostro parere con l’editoriale di gennaio 2003: parere che ribadiamo.

Giuseppe Torre




CAPO VERDE – Baciate dal sole, sferzate dai venti

Una dozzina di isole, di cui solo nove abitate.
Non arrivano brutte notizie: non vi è televisione
e il telefono funziona male. Gente amabile e allegra,
povera, ma dignitosa, in lotta contro le carestie,
sostenuta dai cappuccini piemontesi.

I l volo dura quasi sei ore. Sorvoliamo il deserto tra Marocco e Mauritania, poi un largo tratto di oceano, prima di atterrare su un lembo di terra arida, scura e inospitale. Poco più di una piattaforma che consente di atterrare in mezzo all’oceano. E siamo a Sal, una delle 9 isole abitate dell’arcipelago di Capo Verde. L’aeroporto fu costruito dagli italiani durante il fascismo, quando gli aerei dovevano sostare per i rifoimenti di carburante, prima di raggiungere il Brasile.
I volontari che hanno viaggiato con me proseguono per l’isola di Fogo, dove devono montare la sala operatoria dell’ospedale del centro San Francesco dei cappuccini piemontesi. Siamo partiti con un piccolo bagaglio a mano, per lasciar posto alle attrezzature da trasportare.
Per molti di essi questo non è il primo viaggio a Fogo. Maria Teresa Monte, moglie di un medico di Buttigliera, è da anni impegnata nel cornordinare la raccolta di materiale e apparecchiature ospedaliere. Artigiani, medici, architetti, vengono a passare nella missione parte delle loro vacanze con grande entusiasmo.
TRA ELISEI A ANTIELISEI
I primi a raggiungere l’arcipelago di Capo Verde furono forse navigatori arabi. I portoghesi arrivarono qualche anno prima della scoperta dell’America, insieme a un genovese, Antonio da Noli. Situate nel cuore del mondo, nel crocevia fra Europa, Africa e Americhe, le isole divennero poi la base per i traffici col Nuovo Mondo, compreso il mercato degli schiavi africani.
Durante i secoli della conquista coloniale arrivarono olandesi e francesi, inglesi e italiani. Le isole si popolarono così di gente di diverse lingue e tradizioni.
Il vento ha sempre avuto un ruolo importante. Gli alisei, che soffiano per 6 mesi verso ovest, aiutavano i navigatori nella traversata. Per altri sei mesi riportavano in Europa le navi, sospingendole però verso una rotta più a nord. In inverno arriva anche l’harmattan, un forte vento sahariano, che rende aride e polverose le campagne.
Nei secoli scorsi vi sono stati terribili periodi di carestia, che provocavano la morte per inedia di un’alta percentuale di abitanti.
Oggi ci sono molti più capoverdiani all’estero che in patria; le loro rimesse contribuiscono in modo determinante al benessere delle isole. L’area di Boston (Usa) e i paesi europei sono i preferiti. Tra questi il Portogallo, che ha dovuto concedere l’indipendenza nel 1975, dopo secoli di dominio coloniale.
Capo Verde ora è una repubblica democratica indipendente, che ha migliorato le condizioni di vita dei suoi abitanti e ha stretti rapporti con la comunità internazionale.
I cappuccini arrivarono nel 1945 a Mindelo, città portuale dell’isola di São Vicente, al seguito dell’esercito inglese, che li aveva inteati dopo la conquista dell’Eritrea. Ritornati in Italia, avevano descritto ai superiori la situazione drammatica trovata nell’isola. Le carestie sono sempre state una costante nell’arcipelago; il cui clima estremamente arido non consente coltivazioni redditizie.
DAL SALE AL SURF
L’isola di Sal deve il suo nome all’unica risorsa: una salina dalle strutture abbandonate, nel centro di un cratere. Oggi, i suoi abitanti cercano di fare conoscere il loro mare e le spiagge a un turismo di sportivi. Gli amanti del surf vi trovano le condizioni ideali per praticarlo.
Il paesaggio è lunare, segnato da strade diritte e incroci con strade inesistenti. Qualche gruppo di nuovi edifici lungo la costa non migliora l’ambiente. Solo i colori vivaci delle vecchie case riescono a rompere una monotonia deprimente.
Un breve volo ci porta a Praia, capitale dell’arcipelago, situata sull’isola di Santiago. La sera scende improvvisa. Le luci e il traffico fanno apparire Praia vivace e attiva.
La mattina una bruma grigia pesa sull’orizzonte. Il nucleo di edifici coloniali è situato su uno sperone alto sul porto, dove arrugginiscono le carcasse di due navi abbandonate. Troverò colore e suoni nel mercato degli alimentari accanto alla cattedrale. La gente è bella e fiera, risultato di incroci tra arabi e africani, portoghesi e altri europei. La cultura è particolare, la musica sicuramente è la parte più interessante.
A Praia i cappuccini hanno un’amica, Tetè, cantante magnifica, che ama il nostro paese e si è anche esibita a Torino, al Piccolo Regio, per far conoscere le opere di padre Ottavio. La sera la trascorriamo nella sua casa in riva all’oceano, insieme ai tre figli e al marito, un dentista messicano conosciuto durante gli studi fatti a Cuba.
Dopo l’indipendenza (1975), Capo Verde è stata a lungo nell’orbita sovietica, con stretti rapporti di collaborazione con Cuba. I medici nelle isole sono in gran parte cubani.
ALL’OMBRA DEL VULCANO
Fogo, l’isola scelta da padre Ottavio Fasano per il centro socio sanitario di «San Francesco», è un vulcano tuttora in attività. L’ultima eruzione risale al 1996: gli abitanti dovettero essere evacuati.
Questo cappuccino, nato a Racconigi, entusiasta e testardo, dopo aver realizzato molte opere nell’arcipelago a favore della popolazione (asili, ristrutturazioni e costruzioni, cistee), con l’aiuto del torinese Mario Bollito, nel 1992 ha fondato Radio Nova, che trasmette tutti i giorni e copre tutte le isole, e un settimanale Terranova.
Convinto che anche i cappuccini dovessero entrare nel mondo dei media con professionalità e competenza, nel 1982 aveva fondato a Torino la Nova T, casa di produzione televisiva, che vende in tutto il mondo. Recentemente ha fatto scalpore il fatto che uno dei loro filmati sulle guerre dimenticate sia stato acquistato da una televisione araba.
Arriviamo sull’isola di Fogo mentre è in programma l’inaugurazione della centrale elettrica, che darà la luce a un villaggio. I generatori vengono dall’Italia, donati ai cappuccini. Arriviamo sul posto nell’oscurità totale. Due ministri di Capo Verde sono presenti, insieme al sindaco di São Felipe e a padre Ottavio, che da anni mantiene cordiali rapporti con il governo. Dopo lunghi discorsi, finalmente si effettua il collegamento: i lampioni si illuminano tra l’emozione generale.
Padre Ottavio ora sta per realizzare un sogno: dotare l’isola di una struttura medica modea e attrezzata anche per le urgenze chirurgiche. Il centro San Francesco sorge in una magnifica posizione sull’oceano, a poca distanza dal capoluogo dell’isola, São Felipe. Gli ambulatori, divisi per specialità e perfettamente attrezzati, sono già operativi. La piccola chiesa, al centro del complesso, e la foresteria devono ancora essere completati, ma la comunità è attiva e impegnata.
Tra i numerosi volontari incontro Attilio, impegnato tutto il giorno come dentista. Anacleto è neurologo psichiatra: ha girato il mondo ed è approdato qui, dove pare vi sia molto bisogno delle sue cure. Il dott. Durando è chirurgo alle Molinette di Torino, appassionato velista, da anni coinvolto nei progetti dei cappuccini. Questa è la quarta volta che trascorre le ferie lavorando al centro.
Iolanda è la veterana del gruppo: analista di laboratorio, da quando è andata in pensione, due anni fa, si è trasferita a Fogo. Oramai conosce tutta l’isola e, con il suo carattere espansivo, tiene i contatti tra il centro e la gente del posto.
Grazie all’appoggio dei cappuccini, alcuni giovani capoverdiani hanno trascorso un periodo di studio in Italia, presso l’istituto alberghiero di Mondovì, ospiti di famiglie piemontesi. Mentre i suoi compagni hanno trovato lavoro nei villaggi turistici di Sal, Edna è rimasta a São Felipe, per lavorare nel centro.
Padre Ottavio ha in mente un nuovo progetto: costruire sui terreni donati dalla comunità capoverdiana un complesso residenziale, da affittare ai turisti: il ricavato contribuirà a mantenere il Centro che, data la sua importanza, avrà bisogno di notevoli risorse.
Dobbiamo far conoscere l’incanto di queste isole, fortunatamente ancora lontane dal turismo di massa. I paesaggi qui possono provocare sensazioni forti, ma il sorriso e l’amabilità della gente rende il soggiorno piacevole.
Per chi ha la forza di affrontare tre ore di fatica, l’ascesa al vulcano è un’esperienza da non perdere. Una giovane guida ci indica i punti in cui è meglio passare, perché il sentirnero non è segnato. Guardando dal basso le pareti lisce del vulcano, non avrei creduto di poter arrivare fin sul ciglio del cratere, un sottile orlo di rocce che riesco a raggiungere aiutandomi a forza di braccia. Lo spettacolo è grandioso, con l’oceano ricoperto da una coltre di nubi.
L’ULTIMO LEBBROSO
Casa Betania è un complesso di case bianche, circondate da oleandri, costruito in epoca coloniale in un luogo isolato e suggestivo, a pochi passi dal mare. Era un lebbrosario; ora ospita l’ultimo lebbroso, un anziano che soffre molto, a causa di un arto incurabile, che dovrà essere amputato.
Suor Teodora, una delle tre suore francescane del centro di San Francesco, ha deciso di portarlo a Praia, dove sarà accudito. «Se potessi restare accanto a lui, non soffrirebbe così» mi confida la suorina dal sorriso dolcissimo.
Nell’arcipelago ci sono diverse congregazioni di suore, tutte capoverdiane. Teodora è nata a Fogo, dove ha studiato in una scuola cattolica. Quando a tredici anni espresse il desiderio di farsi suora, trovò l’opposizione dei genitori. I sette fratelli maggiori di lei erano già emigrati a Boston, dove avevano trovato lavoro. Suor Teodora aveva le idee molto chiare. Sarebbe rimasta nell’isola, per aiutare la sua gente.
Ora, a distanza di anni, i genitori sono molto contenti di averla vicina. L’estate ricevono le visite di figli e nipoti americani. Quasi tutti gli emigrati ritornano, dopo una vita di lavoro all’estero. Intanto restaurano le vecchie abitazioni o ne costruiscono di nuove, dove trascorrono le vacanze.
«MANDATEMI… TURISTI»
Tutta l’isola di Fogo è magnifica, dominata dal cono perfetto del suo vulcano. Le spiagge hanno la sabbia fine, lucente e nerissima. L’oceano fa paura, con le onde gigantesche e la risacca. Ma si possono trovare cale tranquille, tra le rocce vulcaniche.
Le strade sono belle, pavimentate con piccole tessere di pietra, un lavoro fatto durante l’epoca coloniale dalle maestranze locali. Nel capoluogo, il nucleo di case coloniali ha colori pastello e comprende un vivace mercato, la chiesa, un piccolo museo delle tradizioni, tenuto da una signora svizzera, che ha deciso di passarvi il resto dei suoi anni.
Padre Orfeo, battagliero e deciso, abita a Mosterios, villaggio sulla costa nord di Fogo. Un luogo isolato, povero, umido, con qualche casa sparsa, tra campi coltivati. Strane piante succulente ricoprono le rocce vulcaniche a strapiombo sullo stretto litorale.
Qui la vita è molto semplice: si sopravvive lavorando la poca terra, che sembra molto fertile. Orfeo alleva galline, cura un asilo e la chiesa, che avrebbe urgente bisogno di restauro. «Mandatemi turisti, non volontari – dice con gli occhi lampeggianti -. Qui devo far lavorare la gente, stimolare i giovani: abbiamo bisogno di denaro».
Con le offerte che riceve, Orfeo aiuta gli studenti più bravi a proseguire negli studi. Quando i ragazzi si inseriscono nel mondo del lavoro, restituiscono quanto hanno ricevuto; così vengono finanziati altri giovani.
Originario di Bassano del Grappa, Orfeo partì giovane missionario per l’Angola, colonia portoghese. Restano i ricordi della foresta dove si trovava la missione, un «paradiso» a 600 metri sul mare, circondata da miniere di rame e piantagioni di caffè.
Arrivato a Capo Verde 25 anni fa, dopo essere stato a São Vicente, Sal e São Nicolão, Orfeo ha trascorso a Mosterios gli ultimi 12 anni. Una sua frase mi rimarrà impressa. «Più si diventa vecchi, più la vita diventa bella». Tutte le mattine, 80 bimbi affollano la mensa dell’asilo, mangiano uova e carne di pollo. «La soia che mi mandano fa i vermi e la do ai maiali» precisa.
Poi si parla di turismo, ma quale? Forse quello consapevole, che cerca di scoprire le realtà dei paesi, non solo sfruttae le bellezze e il clima. Le isole non sono una meta facile, la natura pare ostile, forse più di quello che è in realtà. Sarà anche per via delle rocce vulcaniche, drammatiche nelle forme e nel colore. Ma per chi è alla ricerca di luoghi lontani da traffico, mondanità e rumori, questo è un posto giusto.

Claudia Caramanti




BOLIVIA – “Che fatica essere boliviani”

Con l’Argentina e Venezuela, la Bolivia è nell’occhio del «ciclone latinoamericano»; ma con differenze sostanziali: per esempio, non ha un accesso al mare.
La povertà si tocca con mano. Povero anche democraticamente, specialmente se si vive sotto tutela. E si muta governo ad ogni batter di ciglio.

All’inizio del nuovo millennio le nazioni che possono essere definite «democrazie» sono 86 su 193. Se un sistema politico è democratico allorché garantisce partecipazione alle decisioni e pluralismo politico, la Bolivia è un paese che può e vuole definirsi tale. Ma ha sofferto a lungo (e ancora soffre) per tale conquista.
Della Bolivia ci ha parlato Mauro Bertero Gutiérrez (*), stimolato da alcune domande e considerazioni.
STORIA POLITICA TORMENTATA
«Con il presidente Heán Siles Zuazo, 20 anni fa – ricorda il dottor Bertero -, siamo tornati alla democrazia. In una lunga storia repubblicana, caratterizzata da frequenti golpe di stato (oltre 170 presidenti in circa 150 anni), la Bolivia ha subìto gravi perdite territoriali nelle guerre coi vicini. Nella guerra contro il Cile (1879) la perdita vitale dell’accesso al mare: il Litoral marítimo, ancora oggi rivendicato (per questo le relazioni diplomatiche tra Bolivia e Cile si limitano a rappresentanze consolari e non di ambasciata); nel 1904 la cessione al Brasile dell’Acre, ricco di caucciù; nel 1933 il Chaco nel conflitto con il Paraguay. Complessivamente i territori perduti ammontano a circa 1 milione di kmq».
La mancanza di una via diretta al mare ha segnato i destini della Bolivia sia in senso commerciale, sia limitando l’immigrazione, specie verso l’Europa. La Bolivia annovera una numerosa popolazione indigena, che supera il 57% degli abitanti.
Dottor Bertero, che cosa è successo nella struttura politica boliviana dal 1982 ad oggi?
«Per capire, bisogna risalire alla rivoluzione nazionale del 1952, paragonabile a quella del 1900 in Messico e a quella cubana alla fine degli anni ’50. La rivoluzione boliviana poggiava su tre pilastri: voto universale (prima del 1952 indigeni e donne non votavano: ndr), riforma agraria e nazionalizzazioni.
Sono seguiti 12 anni di governo rivoluzionario con il cambiamento della Costituzione nel 1964 e un colpo di stato».
«Nel 1969-70 si sono avuti vari governi, sino al colpo di stato che ha portato al potere il generale Juan José Torres, di sinistra, ma che ha governato pochi mesi, perché destituito dal colonnello Hugo Banzer Suárez. Questi ha stretto forti legami con gli Stati Uniti e ha instaurato una rigida dittatura, tentando di rilanciare lo sviluppo economico, a spese però delle masse popolari, sollevando un’ondata di agitazioni che ne hanno determinato l’isolamento del paese».
E dopo questo evento?
«Nel 1978 c’è stata la pressione statunitense di Jimmy Carter e, sino al 1982, si sono succeduti sei governi di transizione, in seguito ai quali è ritornata la democrazia con Heán Siles Zuazo, che sosteneva: È necessario che questa terra continui ad essere la terra di uomini liberi! Il suo governo ha tentato invano di varare misure anticrisi, suscitando il malcontento delle masse popolari; ha rinunciato al suo mandato un anno prima della scadenza, per consentire nuove elezioni e stabilizzare l’economia con un nuovo governo».
«Nel 1985 è tornato al potere Victor Paz Estenssoro, leader del Mnr, che ha affrontato con qualche successo il riordino della finanza statale; più difficile si è rivelata la lotta alla corruzione e narcotraffico, divenuto una piaga nazionale».
Fino al 1982 in Bolivia i partiti politici sono stati un segno di speranza, mentre oggi sono forse la sommatoria di tutti i mali. Fino al 1982 c’è stata la possibilità di costruire una vera democrazia; ma in questi ultimi anni la situazione è diventata cruciale a causa di una politica «tradizionalista», per molti versi mal gestita e ingannevole. Dal 1952 al 1985 la Bolivia è passata dal capitalismo di stato a un’economia neoliberista.
È così, dottor Bertero?
«Dissento da tale modello, perché l’unica cosa che si è fatta nel 1985 è stata la stabilizzazione economica, con un modello rispondente alla disciplina fiscale: limitare le uscite rispetto alle entrate. Oggi ci ripetiamo le stesse domande: qual è il mezzo migliore per generare più crescita economica? Come trovare una più razionale ed equa distribuzione delle entrate? Come proteggere l’economia nazionale nei cicli critici dell’economia mondiale?».
Oggi in Bolivia l’indice di povertà è del 70% (34% in città): 7 individui su 10 non si alimentano a sufficienza. Sorge spontanea la domanda:
si può essere così «conservatori», senza recare insulto alla dignità di un essere umano?
«Ciò dipende da una falsa democrazia, che è solo rappresentativa e non partecipativa. Bisogna cambiare. Occorre rimpiazzare un modello economico che, finora, ha creato opportunità solo per pochi e ha lasciato ai margini una grandissima parte della popolazione. La società civile non si accontenta di essere rappresentata; vuole partecipare attivamente a proposte e soluzioni, rigettando ogni intermediazione».
FUGA DEL PRESIDENTE

Nell’ottobre 2003 si è dimesso il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada. Aveva già governato dal 1993 al 1997, instaurando la capitalizzazione dello stato e facendo regredire tutto ciò che si era ottenuto dal 1952. Ritornato al potere nel 2002, non ha dato alcuna risposta positiva alle istanze del popolo, che chiedeva: Assemblea nazionale costituente, referendum sulla politica energetica di esportazione del gas (contro la legge sugli idrocarburi), l’annullamento della legge sul mercato della terra e la fine della libera contrattazione, la ridistribuzione della terra, il rispetto dei diritti sociali dei lavoratori e della proprietà comune originaria, la riattivazione dell’apparato produttivo nazionale, rigettando il libero commercio dell’Alca (Area di libero commercio delle Americhe), voluto dagli Stati Uniti.
Sanchez de Lozada è fuggito sottraendosi al giudizio-accusa di genocidio: 140 sono stati i morti durante le sommosse popolari di ottobre 2003. La gente è insorta in difesa della democrazia e delle risorse naturali del paese.
E commenta Bertero: «Noi crediamo molto nel governo, presieduto oggi da Carlos Mesa Gisbert, noto scrittore e profondo conoscitore della storia e cultura del paese. Egli è deciso a riportare l’ordine attraverso due strade: un referendum vincolante per l’Assemblea nazionale costituente e un governo senza partiti politici».
Poche risorse
molte necessità
Dottor Bertero, Washington non vede bene il nuovo presidente, e questo potrebbe far ritornare, come ai tempi della dittatura, la legge marziale. Cosa ne pensa?
«Certo, il governo di Washington ha avuto un ruolo nella crisi. Ma vi hanno contribuito anche alcuni nostri interventi, in quanto si prevedeva il rischio che a Sanchez de Lozada subentrasse Evo Morales, un leader dell’opposizione (rappresenta i coltivatori di coca nel Chapare, ndr). Secondo la Costituzione boliviana, se si dimette il presidente, gli subentra il vice presidente, evento che si è appunto verificato».
Il nuovo presidente ha riconosciuto la gravità della crisi, definendola strutturale, fonte di ribellioni, perché esclude i popoli indigeni. Sarà possibile riscrivere il contratto sociale e rifondare la nazione?
«La rifondazione è urgente. Carlos Mesa ha già dimostrato la sua sensibilità nella crisi politica che la Bolivia sta vivendo: per questo ha chiesto al Congresso di fare un governo senza partiti politici, riducendo la notevole pressione. Inoltre ha lanciato importanti messaggi, dimostrando di essere vincolato ad una società che domanda di partecipare alla vita democratica reale».
Ciò che preoccupa maggiormente Washington è l’Assemblea costituente, che potrebbe portare la Bolivia a una soluzione «alla venezuelana». È un timore fondato?
«Tutti i boliviani devono capire che bisogna favorire il cambio e non essere “conservatori”: non si può continuare a vivere in una democrazia basata sulla povertà. Abbiamo bisogno di cambiamenti strutturali: chi ha troppi privilegi deve rinunciarvi in parte, per una più equa ridistribuzione di beni e servizi».
Però, è impossibile un passo avanti, senza incidere nella politica latifondista in mano a poche famiglie? È possibile un’apertura in favore della collettività meno abbiente?
«Al riguardo c’è già un processo, iniziato qualche anno fa. Se un latifondista ha 100 mila ettari e li fa produrre, creando 2 mila impieghi, egli compie una funzione sociale ed economica. Invece preoccupa chi ha molte terre e non produce per il bene comune. Credo che sia possibile ridistribuire le risorse e, nel contempo, far capire alla gente che la terra bisogna lavorarla: con la riforma agraria del 1952, a ogni contadino si sono distribuite terre, ma non assistenza tecnica, credito agricolo… È indispensabile, per così dire, democratizzare lo sviluppo sia politico che economico».
Sarà possibile, con una democrazia più partecipata, la rifondazione istituzionale per un nuovo patto sociale?
«I partiti politici tradizionali vogliono che Carlos Mesa finisca il mandato nel 2007; capi dell’opposizione, invece, Evo Morales e Felipe Quispe, vogliono elezioni immediate, perché credono di vincerle. Mesa ha parlato di governo di transizione di almeno un anno. Ma i problemi non sono stati risolti con il cambio del presidente, a partire da quelli strutturali dell’intera economia».
Forse la Bolivia non sarà più la stessa, soprattutto per le troppe ferite subite in passato e di recente: lei è più ottimista?
«Il fallimento del processo rivoluzionario è dipeso dal non avere creato le condizioni per una identità nazionale: la vera sfida della Bolivia è «cominciare a essere Bolivia». Al nostro interno ci sono regioni che credono di avere la prevalenza sull’unità nazionale; per questo si teme la federazione. La sfida, quindi, è credere in uno stato in cui potersi identificare e che non può escludere lo sviluppo umano.
Personalmente sono ottimista: si può e si deve cambiare la pseudo democrazia in vera democrazia. Un cambiamento che deve avvenire attraverso l’istituzione di un governo capace di amministrare bene poche risorse per molte necessità. Ossia: privilegiare lo sviluppo umano e le necessità di chi ha meno». •

(*) Mauro Bertero Gutiérrez, 45 anni, boliviano di origine piemontese.
Dal 1985 al 1989 presidente della Banca Nazionale di Agricoltura e, dal 1989 al 1992, ministro dell’Agricoltura. Portavoce del presidente nel 1997 e poi ministro dell’Informazione. Oggi è segretario del partito «Azione democratica nazionalista». Si è laureato in Economia in Brasile e ha conseguito il «Ph.D.» in Scienze economiche alla Coell University di Ithaca, New York.

L’articolista ringrazia Domenico Bertero Gutiérrez, Console generale di Bolivia a Torino dal 1991, per avergli dato l’occasione di intervistare il fratello Mauro.

Eesto Bodini