Ho visto meraviglie

Dopo aver predicato gli esercizi spirituali
a un gruppo di missionari di Reggio Emilia,
padre Alex, missionario della Consolata,
ne approfitta per visitare e raccontare
le loro attività.

«Sei fortunato ragazzo!» dico a un giovanotto, portatore di handicap e privo dell’uso di braccia e gambe, mentre viene imboccato da una volontaria di Reggio Terzo Mondo (Rtm). «La fortunata sono io» risponde Alessia Antonelli, 33 anni, arrivata in Madagascar per dirigere un progetto di sicurezza alimentare ad Ampasimanjeva. Per il momento sta studiando il malgascio nella «Casa della carità» di Fianarantsoa, 400 km a sud di Antananarivo, capitale del Madagascar.
Sono le sette di mattina. I disabili, puliti e rivestiti da suor Maddalena Razafiarisoa, coadiuvata da tre giovani consorelle malgasce e un paio di novizi, sono quasi tutti a tavola per la colazione: un abbondante piatto di riso e una tazza di latte. Altri ospiti, impossibilitati a nutrirsi da soli, sono imboccati dalle suore e personale locale.
«È il primo miracolo del vangelo dell’amore – spiega don Giovanni Caselli, da 8 anni in Madagascar, responsabile del ramo maschile delle Case della carità -. I malgasci accudiscono i portatori di handicap come fratelli o sorelle; prima venivano relegati in un angolo della casa ed erano gli ultimi a essere serviti».
Le Case della carità furono fondate, insieme a due famiglie religiose, da don Mario Prandi (1919-1989), per accogliere i disabili della diocesi di Reggio Emilia. Ben presto tale istituzione si estese in altre parti d’Italia e del mondo. Nel 1967, 3 suore, 3 preti e 5 religiosi laici delle Case della carità, inviati in nome e con il sostegno della diocesi di Reggio, aprirono la prima missione nel Madagascar. Per affiancare le loro attività, don Prandi dava vita a Reggio Terzo Mondo, organismo non governativo di volontari laici.
«Dopo 38 anni – spiega don Giovanni – in Madagascar ci sono 11 Case della carità, con 30-35 disabili ognuna, un ospedale con oltre 100 letti, un centro di preghiera, due case di formazione per vocazioni maschili e femminili, scuole e dispensari in varie parrocchie. Inoltre, le Case della carità contano 60 suore, 4 preti e 3 fratelli laici di origine malgascia. Una fioritura prodigiosa».

Nei 400 km tra Antananarivo a Fianarantsoa, di meraviglie ne vedo molte altre. La strada si snoda su un altopiano oscillante tra 1.000-1.300 metri di altitudine, correndo lentamente lungo una serie infinita di crinali, vallette e terrazze disseminate di risaie, colline di laterite rosso sangue, da cui il Madagascar deriva il soprannome di «isola rossa».
Ad Antsirabe, una cittadina di 100 mila abitanti a 160 km dalla capitale, gli ospiti della Casa della carità ci accolgono con grida di gioia, anche perché riportiamo a casa suor Lucia, di ritorno dagli esercizi spirituali.
Suor Lucia Ghini fa parte del primo drappello inviato nel Madagascar: a 80 anni suonati, insieme a tre suore malgasce, dirige la Casa della carità con l’entusiasmo che aveva nel 1967.
Incontro July, una ragazza focomelica, che parla benissimo italiano: è stata per alcuni anni ospite di una famiglia di Sassuolo, che le aveva procurato le protesi. Toata a casa, però, non le ha più usate: dice che si sente meglio senza. I suoi moncherini non misurano più di 15 centimetri; eppure, mentre parla, continua a tagliare il radicchio con tutta naturalezza. Le chiedo di darmi il suo nome: prende carta e penna e scrive il proprio nome, insieme all’indirizzo dei benefattori in Italia.
Un’altra missionaria della vecchia guardia la incontro ad Ambositra: è suor Margherita Brandizzo. A 76 anni è ancora superiora della comunità e continua il ritmo di vita come 38 anni fa: sveglia alle 4,55 ogni mattino; levata e pulizia degli ospiti, insieme alle suore malgasce, alle aspiranti e agli aspiranti, per essere pronti alla messa delle 6,30.
Da questo incontro mattutino e da altri appuntamenti giornalieri, dice, le viene la capacità di riconoscere Gesù in persona nei disabili fisici e mentali e servirli con amore.
È soprattutto dal suo esempio che altre 58 ragazze malgasce hanno fatto la sua stessa scelta di consacrarsi al servizio dei fratelli e sorelle, dentro e fuori del paese. Tra italiani e malgasci, sono oltre un centinaio i membri delle congregazioni delle Case della carità e da vari anni hanno aperto altre missioni in Brasile, Rwanda e India.
Non lontano dalla Casa della carità sorge il Foyer, un complesso ambulatoriale diretto dal laico reggiano Luciano Lanzoni, dove vengono curati circa 5 mila pazienti: lebbrosi, tubercolosi, handicappati fisici e mentali.
Come ai tempi di Gesù «gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti». «Ai disabili fisici sono applicate protesi di vario tipo e tornano a camminare – racconta Luciano -; ai lebbrosi, grazie alle cure tempestive e costanti, viene restituita una nuova vita nella società; i tubercolosi sono trattenuti per tre mesi e rimandati a casa completamente guariti. Per gli handicappati mentali la cosa è più complessa; tuttavia, sono molti quelli che vengono recuperati, perché la loro malattia deriva spesso dall’estrema miseria in cui sono costretti a vivere».
D opo un buon caffè di arabica, coltivata sul posto, riprende il viaggio verso sud-est. La Land Rover è strapiena di scatoloni di medicine. Alcuni devono essere lasciati per far posto a Massimo, laico del Rtm, suor Maria Goretti, suora malgascia, e sottoscritto.
È alla guida don Gino Bolognesi, prete fidei donum della diocesi di Reggio Emilia, da 10 anni responsabile della comunità e delle opere di Ampasimanjeva, aiutante del parroco malgascio nel lavoro pastorale, professore di sacra scrittura nel seminario teologico della capitale.
Dall’altopiano scendiamo gradualmente verso la costa, attraverso una foresta dalla vegetazione spettacolare e primitiva, intramezzata da qualche coltivazione di riso. Dopo un centinaio di chilometri, caracolliamo su colline verdi, punteggiate di palme e bananeti, disseminate di piccoli villaggi con le case in legno e tetti di foglie di palma.
La vegetazione riesplode in prossimità dell’Oceano Indiano. Costeggiamo un fiume popolato da coccodrilli, unici animali selvatici della fauna africana presente nell’isola, insieme ai lemuri, una specie di scimmie tipiche del Madagascar.
Dopo oltre 7 ore di viaggio, entriamo nel complesso ospedaliero di Ampasimanjeva. A cena la comunità, internazionale ed eterogenea, è al completo: don Gino e quattro suore locali, il dottor Martin, primario malgascio, Matteo e Massimo, volontari del Rtm. Ma la mia attenzione è tutta per Giorgio Predieri, 56 anni, dal 1972 missionario ad Ampasimanjeva. È lui il fondatore dell’ospedale, vero fiore all’occhiello della missione reggiana: con oltre 100 posti letto e il servizio giornaliero a circa 200 malati estei, è l’unica struttura sanitaria di una regione grande come l’Emilia.
Oltre all’ospedale, lo stesso missionario ha provveduto a tutte le costruzioni della parrocchia, come scuole, chiese e dispensari; e continua ad amministrare il complesso sanitario, avendo alle sue dipendenze 50 persone locali, tra le quali 4 dottori. Per il suo indefesso lavoro, ha ricevuto il premio dell’organizzazione Cuore Amico di Brescia come «laico dell’anno 2002», una specie di mini Nobel per la missione.
Dopo cena, mentre il dottor Martin lava i piatti e Massimo, Matteo e il sottoscritto li asciughiamo, vedo un biberon messo in acqua bollente per la sterilizzazione. Domando a suor Mariane Rahuntanirina se c’è qualche altro ospite.
«Certo – risponde -. È Patrice Rafanomezantzoa (dono profumato), un gemello abbandonato da sua madre che ha partorito all’ospedale. Purtroppo l’abbandono dei gemelli più deboli è un costume ancora in voga. Grazie a Dio, però, riusciamo a salvarli: li alleviamo e poi cerchiamo chi li adotta».
La suora lo prende in braccio e me lo mostra: sembra più piccolo della mano della religiosa; pesa un chilo e mezzo, ma sta bene e sopravvivrà.
«Dono Profumato», un nome simpatico per esprimere un’altra meraviglia del vangelo, che sconfigge superstizioni e tradizioni culturali che puzzano di morte.

La mattina faccio un giro in ospedale e scopro altre novità. In una zona del complesso vedo varie costruzioni modeste e domando chi vi abita. «Vi sono i malati di tubercolosi – spiega la dottoressa Isabelle Hortense Ranaivo -. Li alloggiamo qui per almeno tre mesi, cioè, per tutto il tempo necessario alla cura completa della malattia. Restando a casa, ogni cura sarebbe inutile, per l’incostanza nel prendere le medicine, oltre al rischio di propagare la malattia».
Mi informo a lungo sulle malattie più frequenti della zona. «La tubercolosi è in aumento, insieme ad altre infezioni respiratorie – spiega la dottoressa -. L’Aids non sembra ancora diffusa; ma non abbiamo mezzi sufficienti per fare tutti gli esami necessari per diagnosticarla. Tuttavia, la malattia più diffusa è la malaria. Per ora colpisce in forme curabili, ma per i bambini è spesso mortale e produce molta gente anemica. Molto frequente è pure la drepanocitosi, una malattia genetica per cui si nasce con i globuli rossi a forma di banana anziché rotondi. Il morbo lascia poche speranze di vita; chi sopravvive la trasmette ai propri figli.
Verminosi e infezioni tifoidee, soprattutto, sono all’ordine del giorno per mancanza di igiene e per l’acqua altamente inquinata. Mancando i servizi igienici, le piogge convogliano tutto nei fiumi e risaie, da cui viene attinta l’acqua per usi domestici. I bambini sono le vittime più colpite da tale situazione di miseria sociale e ambientale».
«L’aborto è praticato?» domando timidamente. «Ci sono alcuni casi; ma le gravidanze indesiderate sono rare: il bambino è sempre ritenuto un dono di Dio».
A ccanto alla Casa della carità sorge la sede dei volontari di Reggio Terzo Mondo. Massimo Ambrosini, trentenne, da un paio d’anni segue un progetto di sicurezza alimentare, che prevede la costruzione di 8 dighe in terra battuta per la raccolta e distribuzione dell’acqua per la coltivazione del riso.
La prima diga (50 metri di lunghezza, 15 metri di base e 3,5 di altezza) è già stata completata nel giro di tre mesi, impiegando una ventina di operai, muniti di pale e carriole, senza alcun mezzo meccanico. L’opera è completata da due pozzi scavati a mano.
Un altro laico del Rtm è il trentunenne Matteo Caprotti, che da tre anni segue un progetto per il contenimento della filariosi (elefantiasi). «Questa malattia – spiega – è causata dall’elevato numero di punture di zanzare, fino a depositare nel sangue una tale quantità di microfilaria da invadere e ingorgare il sistema linfatico, facendo ingrossare alcune membra, le gambe soprattutto. Si calcola che il 50% della popolazione della zona ne sia affetto, anche se non tutti ne mostrano le conseguenze più appariscenti. Il nostro progetto segue circa 170 mila persone».
Generalmente l’impegno di questi volontari dura tre anni; eppure si rivela preziosissimo per sostenere ed estendere l’attività dei missionari e missionarie delle Case della carità, che alla missione dedicano tutta la vita. Anch’essi compiono meraviglie di vario genere.
Simona Puttini, per esempio, cornordina un progetto di aiuti alimentari (World Food Programme). Buona parte di tali aiuti provvedono il pranzo a migliaia di alunni delle scuole nella periferia della capitale malgascia. Oltre al settore scolastico, il programma raggiunge bambini denutriti, portatori di handicap, carcerati, malati di tubercolosi in 45 centri nella capitale e nelle zone rurali.
Da due anni Andrea Guerrini ed Elisa Alberti gestiscono un programma di sviluppo dell’artigianato. Oltre a promuovere corsi di formazione per gli artisti e procurare loro strumenti e materiali per sviluppare i loro talenti, li aiutano nella gestione e commercializzazione dei prodotti. È nata così la Fiavotana, associazione di 181 artisti, divisi in 14 gruppi, che affrontano con disinvoltura le sfide del mercato.
Goffredo Sacchetti cornordina un progetto di promozione agricola e artigianato a 220 chilometri a ovest di Antananarivo. Controparte locale del progetto sono i gesuiti, che hanno un Centro di formazione agricola e scuola professionale.
«Il futuro del Madagascar è all’ovest – afferma il volontario -. Qui il terreno non è ancora sfruttato ed è ricco di acqua. Noi formiamo giovani all’agricoltura e al rispetto dell’ambiente; insegniamo nuove tecniche di allevamento, a gestire i loro prodotti e diamo gli strumenti agricoli per cominciare a sviluppare il terreno messo a disposizione dallo stato. Dopo 25 anni di lavoro sulla stessa terra, i coltivatori ne diventano proprietari».
Il progetto dura tre anni, ma Goffredo, 46 anni, dal 1989 con Rtm, non vuole sentire parlare di ritorno in Italia. «Anzi – conclude -, vorrei fare appello ai giovani italiani, perché vengano a dare una mano allo sviluppo di questo paese; è una vera fortuna: si riceve molto più di quanto si possa dare».

Alex Moreschi




ECONOMIA / AMBIENTE La cattiva globalizzazione (3)

IL MONDO STA BENE
(gli unici colpevoli sono gli ambientalisti)


A questa sconcertante conclusione arriva un libro,

che vuole colpire… l’immaginazione di lettori impreparati o prevenuti.
Ma la realtà è un’altra, come altri lavori dimostrano.

Ci siamo sbagliati tutti. Non è il caso di preoccuparsi per il pianeta, l’ambiente ed i suoi abitanti. La situazione è sotto controllo e le tesi sul pessimo stato della terra sono false, perché frutto di organizzazioni ambientaliste (da Greenpeace al Wwf, passando per il Worldwatch Institute) il cui unico scopo è di arricchirsi o di fare propaganda.
Questa è la tesi sostenuta in Le bugie degli ambientalisti. I falsi allarmismi dei movimenti ecologisti, un libro di Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari, giornalisti del quotidiano Avvenire. I due autori non si limitano ad indicare i «colpevoli» (gli ambientalisti), ma riscrivono in toto l’intera tematica ambientale. Eccone qualche esempio.
Le risorse non sono limitate. «Le risorse – scrivono Cascioli e Gaspari (pag. 49) – sono andate sempre aumentando e diversificandosi (…). Due secoli fa nessuno conosceva il petrolio, ma anche averlo non serve a granché se non si ha a disposizione la tecnologia per estrarlo, raffinarlo e distribuirlo. Discorso analogo si può fare per l’acqua». Quale la conclusione dei due autori? «Il concetto di risorsa non è definito dalla natura, ma dalla creatività e dalla tecnologia umana».
Che dire del biossido di carbonio (CO2), il principale tra i gas serra? «La CO2 – si legge a pagina 82 – in realtà è un fertilizzante naturale tra i più efficaci».
Secondo Cascioli e Gaspari, la deforestazione non è un problema: «Contrariamente a quanto si vorrebbe far credere, non esiste una mancanza di alberi nel mondo, anzi, l’area della terra coperta dalle foreste è cresciuta negli ultimi 50 anni» (pag. 88). E continuano: «Storie terrificanti vengono narrate sulla deforestazione in Brasile» (pag. 95). Ancora: «Pochi sanno che negli Usa, in Canada, in Svezia e in tanti altri paesi produttori di legname, si piantano più alberi di quelli che si tagliano».
L’energia nucleare? Secondo Cascioli e Gaspari, «gli ambientalisti si sono sempre opposti ferocemente all’energia nucleare, la fonte energetica più pulita e sicura che si conosca» (pag. 140).
Il riscaldamento globale e il protocollo di Kyoto? I due autori sostengono l’eccezionalità del primo (pag. 84) e l’inutilità del secondo (pag. 86). Parlando dei dubbi della Russia (che alla fine ha però ratificato Kyoto), i due autori concludono: «Chi sarà così folle da sacrificare la propria economia e una parte dell’occupazione per un risultato così misero?». Una conclusione che, in un sol colpo, spazza i dubbi, sottoscrive gli egoismi nazionali e cestina un accordo che, pur nella sua inadeguatezza (è blando rispetto all’entità dei problemi), rappresenta un fatto storico.
Grave è anche l’irrisione dei comportamenti individuali, che con tanta fatica si cerca di far diventare consuetudine tra i cittadini. Gli autori parlano di «ritornello ascoltato molte volte»: «Non si deve più andare in automobile, bisogna tornare alla bicicletta, si deve mangiare meno carne, e via di questo passo» (pag. 59). Neppure il riciclaggio viene risparmiato dai due autori: «Un crescente numero di esperti mette in dubbio l’efficacia del riciclaggio per i suoi costi esorbitanti rispetto ai benefici che ne derivano» (pag. 141).

Per fortuna, ci sono altri libri attraverso i quali informarsi. Quelli editi dalla Emi, per esempio. Oppure un ottimo libro scientifico, Energia oggi e domani. Prospettive, sfide, speranze, firmato da Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani.
La saggezza politica, scrivono (pag. 144) i due studiosi con riferimento al libro di Cascioli e Gaspari, «non è certo stimolata dalla pubblicazione di libri che spargono un facile ottimismo sulla salute del pianeta e sull’andamento delle risorse della Terra. Pur essendo certamente vero che bisogna rifuggire un dogmatico quanto vuoto catastrofismo ambientalista, risulta privo di fondamento scientifico affermare che le foreste mondiali godono di ottima salute, la popolazione mondiale può tranquillamente aumentare a dismisura, l’inquinamento atmosferico non è un problema rilevante e il surriscaldamento del pianeta è solo una “teoria”. Ad un occhio sufficientemente esperto, l’inconsistenza scientifica di coloro che spargono queste “verità” è evidente anche perché essi basano le loro affermazioni su una bibliografia fatta per lo più di articoli di quotidiani e non di letteratura scientifica accreditata».
Paolo Moiola

Paolo Moiola




Salvador de Bahia… e la fame continua

Nella capitale dello stato di Bahia si scontrano il lusso più sfacciato e la miseria
dei bassifondi; in periferia i complessi petrolchimici sfruttano i poveri indifesi; nell’interno della regione, i latifondisti sono in lotta con i senza terra… In mezzo la solidarietà di laici
e missionari, impegnati accanto agli emarginati, per aiutarli a difendere la propria dignità.

In un viaggio nello stato brasiliano di Bahia, alla ricerca di progetti sociali e di persone impegnate nella solidarietà, mi sono fermato a Salvador, la capitale di Bahia, poi a Monte Gordo, un piccolo centro situato sul litorale, a 50 km dalla capitale, e infine a Esplanada, una cittadina che dista circa 100 km dalla costa, praticamente alle porte del grande Sertão.
Mentre nei quartieri degradati di Salvador operano insieme laici e religiosi, negli altri due luoghi lavorano due missionari marchigiani, padre Luis (don Luigi Carrescia) e frei Chico (frate Francesco Carloni). Il primo, dopo 10 anni di servizio in un’altra città, Camaçari, si è definitivamente stanziato a Monte Gordo; l’altro, ormai da 30 anni in Brasile, porta avanti la presenza dei cappuccini, giunti in questo pezzo di Bahia all’inizio del secolo scorso.

SALVADOR BRILLA

Rita lavora come assistente sociale nella casa di donna Conceição, zia Conça per gli amici, una simpatica bahiana che 12 anni fa si è messa in testa di fondare un’associazione controcorrente. All’ingresso c’è un’insegna sulla quale si legge: «Preconcetti no. Solidarietà sì». La casa accoglie bambini orfani, a rischio di emarginazione, perché almeno uno dei loro genitori è morto di Aids e per tale motivo gli altri asili non li accettano.
Zia Conça invece se li prende tranquillamente con sé. Qui i bambini possono giocare, iniziare a esercitarsi con l’alfabeto portoghese e con la matematica, mangiano tre volte al giorno, fanno il bagno e sono seguiti quotidianamente da un’infermiera.
Alla porta di zia Conça bussano anche altri abitanti del quartiere, per chiedere un pasto, un consiglio, un aiuto scolastico per il figlio o per un controllo medico. I sieropositivi sono molti, condannati dall’indifferenza a un triste destino.
Ciononostante, oggi è un giorno speciale: c’è da festeggiare il compleanno di un gruppo di persone. Potrebbe essere l’ultimo e per questo diventa importante stare insieme.
Rita e le altre ragazze della casa di zia Conça hanno preparato un dolce enorme al cioccolato con le fragole e tante caraffe di succhi di frutta. Poi verso le quattro del pomeriggio gli adulti arrivano all’asilo a riprendersi i bambini. Nessuno di loro ha un lavoro fisso, sono tutti specializzati nell’arte dell’arrangiarsi. Vivono di piccoli traffici, di prostituzione, di lavoretti per rimanere a galla nel mare dell’esclusione sociale che taglia in due la città: da un lato i centri commerciali e finanziari e dall’altro le catapecchie.
Se si percorre l’Avenida Antonio Carlos Magalhães, il boss di Bahia, ci si specchia davanti alle porte scorrevoli delle banche, degli alberghi inteazionali o degli specchietti delle auto di lusso, parcheggiate davanti ai palazzi, con il custode che annaffia le piantine della reception; poi all’improvviso, superato un terrapieno, giù nello sprofondo che non si vede mai, pulsa una favela, un altro mondo.
Qui la sanità non arriva; la polizia ci entra solo per dare la caccia a qualche ladro di polli; la scuola non funziona, l’amministrazione pubblica si dimentica volentieri di registrare i nuovi nati: può capitare che un bimbo cresca senza che nessuno lo sappia, vivendo per strada, al di fuori di qualsiasi regola civile.
I meninos de rua, con la velocità di un proiettile, diventano grandi, bruciano tutto e sono consapevoli di andare incontro a una parabola drammatica, fatta di malattie e di violenza: te lo raccontano con il sorriso.
Una volta alla settimana zia Conça li carica su due pulmini e li porta a fare una gita al mare o in qualche parco dove mangiano una grossa salsiccia in umido, fanno la doccia e si divertono in pace, senza masticare il grigio del marciapiede.
I fondi per aiutarli ad abbandonare la strada sono scarsissimi, così si fa quel che si può. In questa lotta contro le ingiustizie, in mancanza di un appoggio governativo, a tappare i buchi sono impegnate sia le suore terziarie francescane, un gruppetto di religiose indiane che, con i finanziamenti del progetto di adozione a distanza Agata-Smeralda, offrono istruzione ai tanti semianalfabeti e un po’ di medicine, sia le parrocchie di periferia che attraverso la pastorale denunciano e poi tentano di risolvere i casi di denutrizione, di droga e alcolismo, di sfruttamento sessuale e di emarginazione.
A ridosso delle elezioni si fa vivo qualche politico, che regala caramelle e distribuisce scarpe e protesi dentarie in cambio del voto.
E non solo: ovviamente fa anche molte promesse. Per esempio, di concedere i regolari documenti catastali a tutte le famiglie che hanno una specie di abitazione ma non sono ancora registrati. Poi succede che, una volta eletto, ci mette un minuto a dimenticare tutto.
Intanto però la favela aumenta con nuovi arrivi dalle campagne di sbandati in cerca di miglior sorte e un’altra ragazzina partorisce il primo di una lunga serie di bocche da sfamare. E come la fame anche la notte continua.
Quando scende il buio da lontano la favela arroccata su una collinetta sembra un presepe di cartapesta, avvolto in un vestito rigato di polvere dorata. Ma la distanza inganna. Fuori da quel tremolio di lampadine, intorno ai semafori, sotto i grattacieli, i fari delle macchine illuminano il numero da giocoliere di un ragazzino che, con il viso dipinto di bianco, fa ruotare tre bastoni infuocati, dando vita a un malabaris e al tintinnio di due spiccioli di elemosina sotto gli uffici delle multinazionali.
Davanti al porto, si accendono le luci sulla Bahia de todos los santos e la mano di un turista dirige i riflettori sul lungomare, dove i viados aspettano chi li porti via. Una signora frigge una manciata di fagioli nell’olio di dendê e l’odore dolciastro che ne viene fuori si spalma sulla città, come una crema su un corpo addormentato e infilzato da aghi, le cui capocchie emettono flebili luccichii.
Rita va a letto sorridente; domani lo sciopero degli autobus è stato cancellato.

I PESCI DI MONTE GORDO

Qui a Monte Gordo, periferia estrema di Camaçari, centro industriale famoso per il petrolchimico, padre Luis si è trasferito un anno e mezzo fa, assumendo la guida della giovane parrocchia di São Bento (San Benedetto) che conta circa 18 piccole chiese, molto distanti tra loro e per questo c’è sempre da correre, con la valigetta delle ostie e del vino sempre a portata di mano.
In una chiesa ricavata in un garage, con l’acqua piovana che inonda la grondaia malconcia, attorno a un povero altare circondato dai bambini seduti sull’erba o su fragili panche, dentro una casa consacrata, con le pareti celesti, in mezzo alla foresta… si trova sempre il calore di un abbraccio e di un sorriso.
Manca però per tutti un lavoro stabile, ben retribuito e protetto dai sindacati, e soprattutto un’istruzione adeguata. La scuola sta chiudendo: il tuo di notte è terminato e una scia di scolari si riversa nelle stradine verso casa.
Anche la ragazza della lotteria popolare chiude i battenti. Ogni giorno i brasiliani tentano la fortuna giocandosi i numeri che potrebbero cambiare la vita. Lei per oggi ha finito, riporta nello sgabuzzino di un negoziante amico il banchetto e la sedia. Prima però condivide con un viaggiatore di passaggio un po’ di pastel, spuntini di pasta ripieni di carne, aspettando i numeri che usciranno domani.
E nel domani di questa giovane missione c’è anche il progetto di padre Luis di finanziare una scuola matea attraverso una fondazione, denominata Emaus, che si occupi di produrre e commercializzare pesci e farina di funghi, ottima per rafforzare le magre merende degli studenti.
Le vasche per la pescicultura sono già in funzione; il borbottio dei motori si confonde con l’aria ovattata di Monte Gordo, interrotta, ogni tanto, dal verso di un uccello o da qualche canzone per una festa che sta per iniziare.

FAGIOLI MAGICI A ESPLANADA

Il soggetto più attivo nella lotta per la giustizia sociale nelle campagne e per una più equa redistribuzione delle risorse è il Movimento Sem Terra, sorto negli anni ’70.
Nel 1989, quando alcune grandi aziende s’impossessarono senza permesso dei terreni del convento dei cappuccini, frei Chico si rivolse al Movimento per pianificare la riconquista del maltolto. Innanzitutto raccolse in gruppi organizzati tutte quelle famiglie avvezze a vivere ai margini della città o in condizioni di semischiavitù come manodopera dei signori della terra; dopodiché li convinse che era giusto esercitare un’azione di forza, guidando così l’invasione dei terreni illegalmente sottratti alla parrocchia.
I latifondisti reagirono con violenza. Fu chiamata la polizia, che disperse le famiglie: donne, uomini e bambini trovarono rifugio nelle case dei cappuccini e delle suore francescane. Nonostante quell’intimidazione frei Chico non si scoraggiò nella missione di unire e coscientizzare gli sfruttati, e, attraverso il metodo dell’invasione e della trattativa con le grandi aziende, è riuscito negli anni a creare 12 insediamenti e 2 accampamenti.
Gli insediamenti sono comunità agricole ben strutturate: le case sono di mattoni, le scuole primarie funzionano, i giovani hanno a disposizione piccoli spazi per danzare la capoeira; mentre negli accampamenti, di più recente costituzione, le case sono ancora a livello di baracche e le persone aspettano di vedere la loro situazione regolarizzata.
Come a Nova Esplanada dove ancora mancano luce e acqua, tuttavia asilo e scuola elementare sono aperti, una piccola struttura celeste in mezzo all’assolata spianata e alle buste nere che svolazzano incastrate tra i pezzi di legno che formano le casupole.
Qui una volta comandava un’azienda spagnola, che approfittò degli incentivi di un governo assai sprecone per prendere possesso del terreno e poi tenerlo inutilizzato, preda del bestiame di allevatori furbastri. Invece ora chi ci abita coltiva verdura, legumi, miglio, frutta e soprattutto vive una vita degna e non più brutale come prima, in mezzo alla strada o alle dipendenze di latifondisti senza scrupoli.
Certo la tanto sospirata riforma agraria che metterebbe fine a secolari ingiustizie non è stata ancora approvata; nel frattempo molte famiglie possono comunque dirsi felici.
L’attuale governo Lula afferma di volerla realizzare; ma l’ufficio preposto alla sua attuazione è sempre in sciopero, perché privato di molti mezzi; in più, i ben noti poteri forti stanno nell’ombra a sabotare e fare pressioni: insomma la consueta palude della politica.
A frei Chico poco importa, lui va avanti lo stesso. Ormai conosce a memoria tutte le buche che deve schivare sulle strade che collegano il convento alle varie chiesette sparse per tutto il territorio della parrocchia e che possono stare anche a 120 chilometri di distanza.
È quasi l’ora del tramonto. Nel cielo si liquefà un colore misto di arancione, viola e blu scuro. Ai lati del cammino accidentato scorre un oleodotto che sembra un serpente e, immobili, come se spuntassero da sotto terra, le perforatrici, figure fredde intagliate nell’oscurità.
La zona di Esplanada è ricca di petrolio e, a causa della presenza dell’oro nero, arrivano nei forzieri del comune fiumi di banconote. Per questo davanti alla casa del sindaco staziona una guardia armata e diventa così importante vincere le elezioni, nelle quali votano persino i morti. Frei Chico, durante la messa in un piccolo insediamento, scende dall’altare e si avvicina all’assemblea, ricordando che vendere il proprio voto è sbagliato.
Qui è facile venire a fare proselitismi in cerca di consensi elettorali. La gente è sempre vissuta nell’ignoranza dei propri diritti e ha sofferto molto, quindi è abituata a chinare la testa. Sono persone il cui mondo termina alla fine della vanga e poi ritorna su per l’impugnatura di legno, perché c’è da pensare al lavoro nei campi del giorno dopo: uomini e donne che hanno lottato per quel poco che possiedono e che devono mantenere quotidianamente con il sudore della fronte.
Finita la messa, i fedeli offrono a frei Chico delle pannocchie di mais abbrustolite e delle cosce di pollo. Poi egli saluta tutti e, lentamente, dentro il suo corpo esile, toglie il disturbo.
Sulla via del ritorno fa un colpo di clackson a una contadina con il bambino in braccio, vestita di bianco e gli orecchini della bisnonna, viso che sa di Africa e di magia, la regina nera dei fagiolini del sertão.

Paolo Brunacci




Hanno fame e… si nascondono

Salvador de Bahia: dalle palafitte a Nuova Primavera

Si respira la vera miseria tra le palafitte di Novos Alagados, alla periferia di Salvador de Bahia, nella parrocchia di São Blás, dove dal 1991 lavorano i missionari della Consolata.
Da generazioni, i ricchi latifondisti si sono preoccupati di occupare tutta la terra disponibile, senza lasciae neppure un centimetro alla povera gente. Così, l’impossibilità di occupare uno spazio sulla terraferma ha indotto i più poveri a piantare qualche palo sulla riva del mare e a sistemarsi in misere capanne, formando il popolo delle palafitte. «Il mare non è di nessuno – dicono da queste parti -. Anzi, è di Dio».
Qui la fame è di casa. Questa, assieme a tante altre calamità, è la malattia più brutta. Di fronte a realtà simili, Teresa di Calcutta aveva detto che «non è stato Dio a creare la miseria: l’abbiamo creata noi!».
La globalizzazione, nel suo aspetto più deteriore e devastante, continua a rendere i ricchi sempre più ricchi, mentre la «massa sobrante», come dicono in Brasile, quella parte di umanità senza diritti e né difese è destinata a scomparire dall’avanzata del cosiddetto «progresso», che premia i forti e schiaccia come un rullo compressore i deboli. Fra questi, i bambini sono quelli che pagano il prezzo più alto.
La povertà-miseria non attrae, non piace a nessuno, non ha alcuna popolarità. I poveri sono un incubo per tanta gente. Anche per alcuni che leggono spesso: «Beati i poveri…».
E ppure, un gruppo di giovani, accompagnati da padre Francesco Giuliani, che li aveva preparati per un anno intero, sono venuti fin qua, tra i più poveri, dove senti puzza di fogna, perché è tutta a cielo aperto, per vivere un’esperienza di frateità.
Era l’agosto del 2001: quando mari e monti invitavano alle vacanze, 17 giovani, provenienti da varie regioni d’Italia, hanno vissuto un mese tra i Novos Alagados. La gente delle palafitte ha sentito il calore umano di questi giovani, la loro presenza ristoratrice, come una bibita in piena calura estiva.
Erano partiti da Cesena portando con loro una parola d’ordine: inserirsi con occhi d’amore e di fede in mezzo ai poveri. Ho visto nascere tante amicizie. Ho visto giovani dottoresse curare ferite e diagnosticare malattie, fra i calcinacci di un salone in rovina e nelle palafitte, a cui arrivavano per mezzo di traballanti passerelle di legno.
Alcuni di loro, in seguito, sono tornati per incontrarsi di nuovo con le famiglie amiche. Altri sognano di tornare. Quasi tutti si stanno dando da fare in Italia, per raccogliere aiuti e dare una mano alle mamme che soffrono la fame.

È davvero brutta la fame! A Napoli dicono: «Chi è sazio non crede a chi è digiuno».
Ho sempre presente un episodio sintomatico: un’animatrice del «Progetto Famiglie di Novos Alagados» mi dice:
– Padre, Luciana picchia sempre le sue bambine: va a vedere cosa succede.
Vado e chiedo a Luciana:
– Perché picchi le tue bambine?
– Piangono sempre e mi scoccia sentirle.
– Ma perché piangono?
– Hanno fame e io non ho nulla da dare loro.
– Ma perché non me l’hai detto? Tu sei animatrice, perché non parli?
– Ho vergogna…
Ancora una volta ho capito che i poveri si nascondono e preferiscono soffrire in silenzio.
N el 2003 è venuto un altro gruppo di giovani. Erano partiti da Torino, accompagnati da padre Antonio Rovelli. Hanno svolto un lavoro di presenza amica, visitando le famiglie più povere e costruendo una biblioteca per i giovani che vogliono entrare all’università, ma non hanno i mezzi per comprare i libri su cui studiare.
Poi, con l’aiuto di tanti benefattori, abbiamo creato un centro di accoglienza: Kilombo do Kioió. I kilombo erano piccole repubbliche di schiavi che fuggivano e si mettevano insieme per creare spazi di libertà. Kioió è una pianta medicinale che abbiamo trovato nel giardino della casa che abbiamo comprato per tale iniziativa.
In questa sede si svolgono le attività del «Progetto famiglie Novos Alagados». Il nostro Kilombo aiuta 450 famiglie a fare un cammino di liberazione, attraverso il lavoro e la preghiera. È un’esperienza di crescita sociale e religiosa per uscire dalla morsa della fame e dell’abbandono.

L a caratteristica dei poveri è di nascondersi. Sanno di non aver diritto a nulla e non poter esigere. Sanno che nessuno li vuole, di non essere ben visti neppure in chiesa, per cui non ci vanno. Parlano adagio e a voce bassa per non farsi sentire. Quando li avvicini, ti guardano con sospetto, perché hanno paura che tolga loro anche quel poco che hanno e fuggono.
Il nostro lavoro è di «andare a caccia» di queste famiglie che fuggono e scompaiono tra i meandri della favela.
Purtroppo, ci sono tanti altri che, senza avee bisogno, vengono a chiedere, o meglio, a esigere aiuto.
È difficile stare in mezzo a loro. Bisogna avere una forte carica interiore, che viene solo dall’alto. Tante le scuse per fuggire: non ho tempo, non ce la faccio, mi stancano, c’è pericolo di assalti, bisogna essere prudenti…

S ono tanti i volti della povertà: dalla mancanza di cibo e di socializzazione, alla paura di vaccinare i figli, per timore che vengano avvelenati, dalla difficoltà di trovare un lavoro, alla fila chilometrica per una visita medica…
Qualcosa tuttavia sta cambiando: da due anni a questa parte si costruiscono delle casette sulla terra ferma, che vengono consegnate a chi vive sulle palafitte.
Il progetto è finanziato anche dal Ministero degli esteri italiano. Il settore dove sorgono queste casette si chiama «Nuova Primavera» e fa ben sperare per il futuro. Brutto, però, è anche vedere gente che riceve la casa e la vende per tornare alle palafitte. Questa è ancora una forma di povertà che si chiama «ignoranza».
Le famiglie che ora abitano nella Nuova Primavera hanno cambiato aspetto. Anche se continua la disoccupazione, la paura degli assalti e manca ancora il necessario per vivere.
Una signora, mamma di tre bambini, diceva: «Adesso non ho più paura di vedere i miei figli cadere nell’acqua inquinata e morire avvelenati. Ora mi sento più sicura quando metto i piedi a terra».
Pietro Parcelli

Pietro Parcelli




DOSSIER GIOVANIDa nord a sud

Abbiamo dedicato questo primo dossier del 2005 ai giovani. Avevamo dei dubbi, perché gran parte dei nostri lettori sono di età adulta o avanzata. Poi però ci siamo accorti che i giovani sono oggi una categoria senza precisi confini anagrafici: molti vivono in famiglia oltre i 30 anni, quasi sempre perché il loro lavoro (quando c’è) è precario e mal pagato.
In questo dossier, è bene precisarlo con chiarezza, si parla di giovani occidentali, per i quali i bisogni primari sono, più o meno, quasi sempre soddisfatti. In altre parole, va sottolineato che i giovani del Nord del mondo non hanno le stesse problematiche di quelli del Sud. Per questi ultimi, il problema non è il cellulare di ultima generazione, il brano musicale appena uscito, il videogioco più recente, l’ultimo modello di pantaloni a vita bassa o di scarpe da ginnastica firmate.
Al Sud del mondo la vita colpisce più duro, molto più duro. L’istruzione, ad esempio, è per moltissimi un diritto teorico più che reale. Troppi giovani sono costretti ad iniziare a lavorare in età scolare per aiutare la famiglia a sopravvivere: è la piaga, mai rimarginata, del lavoro minorile, che si riscontra nella maggioranza dei paesi del Sud (dal Bangladesh all’Indonesia al Nicaragua). Senza dimenticare i giovanissimi che si ritrovano con un mitra o una pistola in mano: si pensi ai bambini-soldato (in Sierra Leone come in Colombia) o a quelli organizzati in bande (come le maras in Salvador). O, ancora, a quelli che vivono per le strade, sniffando colla e vivendo di espedienti: dai meninos de rua del Brasile ai gamines della Colombia.
Per le ragazze, poi, l’esistenza è ancora più segnata, siano esse africane, latinoamericane, indiane o filippine: da piccole (a partire dai 4 anni) debbono accudire i fratellini o aiutare la mamma o lavorare (rischiando la schiavitù o l’abuso sessuale: si pensi alle ragazze restavec di Haiti) nelle case dei ricchi; appena diventano donne (dai 13-14 anni), si ritrovano incinte e perdono di colpo quel po’ di spensieratezza che forse era loro rimasta. Giovani sfortunate, certo, ma meno di quelle che finiscono nei bordelli della Thailandia, della Cambogia o delle Filippine, tanto per fare qualche nome.

Ecco, se i giovani del Nord conoscessero meglio i problemi che affliggono i loro coetanei del Sud, forse il mondo sarebbe un luogo migliore e tutti starebbero meglio. Invece, ciò non avviene e non avviene per vari motivi. Ad esempio, perché la scuola non ha tempo da dedicare ad approfondire tematiche politicamente compromettenti e, di conseguenza, pericolose; perché la Tv (che è strumento degli adulti) offre programmi come Il grande fratello (programma globalizzato, in quanto diffuso in molti paesi occidentali) o L’isola dei famosi e gli stessi telegiornali dedicano un tempo francamente imbarazzante al gossip (fatti, misfatti e scempiaggini dei personaggi dello spettacolo).
A fronte di questa dequalificata offerta informativa del mondo adulto, non dobbiamo stupirci, come racconta Maurizio Pagliassotti nel suo articolo, se il professore di religione che chiede ai suoi alunni cosa sappiano del Darfur (la regione del Sudan dove è in corso una guerra di sterminio) si sente rispondere: «Dar… che? Ah! Carrefour!». Carrefour è – per chi non lo ricordasse – la multinazionale francese dei supermercati. Un’ulteriore dimostrazione di quanto il virus del consumo abbia contaminato tutto, tanto che i depliants pubblicitari sono più letti dei quotidiani, i quali – tra l’altro – sono, per più della metà dei giovani, uno strumento informativo inutilizzato. È altrettanto vero che, al giorno d’oggi, i ragazzi (occidentali) hanno a disposizione uno sterminato ventaglio di mezzi di comunicazione (da internet alle televisioni satellitari), ma ciò non ha impedito una diffusa ignoranza. Per citare Ignacio Ramonet: «Per lungo tempo rara e costosa, l’informazione, insieme all’aria e all’acqua, è ormai l’elemento più abbondante del pianeta. Sempre meno costosa via via che il suo gettito aumenta, ma – proprio come l’aria e l’acqua – sempre più inquinata e contaminata».

Nonostante i presunti effetti benefici della globalizzazione, Nord e Sud del mondo rimangono molto distanti (o, meglio, ancora più distanti), come distanti sono i problemi dei loro giovani. Eppure, nessuno può negare che anche in Occidente il cosiddetto «disagio giovanile», ancorché diverso, esista e sia importante perché va ad incidere sulla qualità della vita e sul futuro da costruire.
«Il tempo della gioventù si è dilatato, quello della società si è velocizzato, quello del lavoro si è allontanato» così ha ben sintetizzato la situazione Marco Bertone, pedagogista, il cui articolo apre il dossier. Ha ragione, infine, il nostro biblista Paolo Farinella, quando esorta i ragazzi a «conoscere, conoscere, conoscere… perché troppi padroni sono in agguato».

Paolo Moiola




BOLIVIA – incontro con il presidente Carlos Mesa: «Se i popoli tornano proprietari»

INCONTRO CON IL PRESIDENTE CARLOS MESA

A chi appartengono le risorse naturali? In Argentina, hanno venduto tutto
ai tempi di Menem. In Venezuela, se lo stato non fosse il padrone delle risorse petrolifere, non si sa cosa sarebbe successo. In Bolivia, le rivolte popolari hanno mandato a casa un presidente che voleva svendere le ricchezze del paese, calpestando i diritti dei legittimi proprietari. Il sostituto, Carlos Mesa Gisbert, sta cercando di arginare l’arroganza e la voracità delle multinazionali petrolifere. Ma non è facile. Lo abbiamo incontrato a La Paz, capitale del paese latinoamericano.

LA PAZ – Nell’accogliente Plaza Pedro Domingo Murillo si trova tutto: la cattedrale metropolitana, il Congresso, il palazzo presidenziale. L’appuntamento è in quest’ultimo, per mezzogiorno. Alto ed elegante, il presidente boliviano Carlos Mesa ci accoglie nel suo studio con puntualità svizzera.
Pare una persona gentile e disponibile, forse memore di essere stato un giornalista televisivo e quindi abituato ai rituali delle interviste (1).

Presidente Mesa, dal 18 ottobre 2003 lei è alla guida della Bolivia. Perché ha accettato? Non ha timore di rimanere travolto dai tanti problemi di questo paese?
«Ho accettato perché mi ritengo una persona che ha preso un reale impegno verso il paese. Sono consapevole che essere presidente della Bolivia è un compito gravoso, perché si è continuamente sottoposti a pressioni enormi, ricatti, minacce. E poi ci sono una serie di domande che si sono storicamente accumulate e rispondere a queste è realmente molto difficile. Allora – lei mi chiede – perché ho accettato la candidatura alla presidenza? Perché ho pensato che, dopo il governo di Sánchez De Lozada, potevo contribuire a ridare prestigio a questa carica, aiutato dal fatto che io non ho mai fatto politica».

Lei non ha mai fatto politica… Infatti, non ha un partito politico alle spalle, né una chiara maggioranza parlamentare che lo sostenga…
«Questo è un dato di fatto. D’altra parte, il paese ha assistito alla crisi dei partiti politici, soprattutto per quanto riguarda la loro credibilità. Quindi, era impossibile affidarsi ad essi, in particolare nella prima fase. Certamente, sul lungo periodo un governo senza partiti non riesce ad avere un orizzonte davanti a sé. L’importante è analizzare con chiarezza le cose».

In Italia si è parlato molto della Bolivia nei mesi passati a causa del problema del gas. Potrebbe spiegarci, in poche parole, i termini della questione?
«La Bolivia è un produttore molto importante di gas. La capitalizzazione (2), iniziata nel 1994, ha permesso di aumentare enormemente la quantità prodotta. C’è quindi un grande orizzonte economico di esportazione e trasformazione del gas. Quali sono i problemi? Primo una difficoltà storica iniziale, dovuta alla rivendicazione della Bolivia di avere un proprio accesso al mare. Al momento l’esportazione avviene attraverso un porto cileno senza sovranità e questa è una questione che metterò in agenda. In secondo luogo, la maggioranza del popolo boliviano non vorrebbe vendere il gas al Cile, finché questo paese non darà una risposta favorevole alla questione di un nostro sbocco al mare. Questo fatto crea problemi per l’esportazione di gas verso il Messico e verso gli Stati Uniti. Più facile è esportare gas in Argentina e in Brasile, al quale già lo vendiamo.
Oltre a parlare di esportazioni, dobbiamo iniziare a beneficiare direttamente del nostro gas, utilizzandolo come fonte energetica domestica e sostituendo le macchine a benzina con macchine a gas. Tutto ciò significa incentivare una trasformazione e industrializzazione del gas in loco».

Concretamente, cosa sta facendo il suo governo?
«Stiamo studiando una nuova legge degli idrocarburi che aumenti le imposte delle imprese transnazionali in modo che la Bolivia possa beneficiare di maggiori entrate. Ripeto: è necessaria una nuova politica energetica globale per il nostro paese. Questo significa che vogliamo esportare il gas, ma anche industrializzarlo e darlo ai boliviani come fonte energetica».

Si può frenare l’invadenza e l’arroganza delle imprese petrolifere? Non è facile credo, no?
«Non è facile, perché le industrie petrolifere hanno firmato dei contratti quando vigeva la legge che noi ci stiamo apprestando a cambiare e ora pretendono che noi rispettiamo quegli impegni».

Quali sono i fondamenti sui quali volete costruire la nuova legge per gli idrocarburi?
«Quello che noi vorremmo è un sistema di imposte più giusto. Questo passa anche attraverso la sicurezza e la stabilità politica della Bolivia. Se non riusciamo a raggiungere un equilibrio, non sarà facile dimostrare alle imprese transnazionali che i contratti precedenti non erano giusti né per i boliviani, né per loro.
Stiamo presentando le nostre proposte di modifica sia alle compagnie petrolifere che al parlamento. Lavoriamo su una proposta di legge, che vuole combinare una garanzia di sicurezza per chi investe (le imprese) e un ritorno economico per il nostro paese. È una contrattazione aperta».

Le province dove si estrae il gas vogliono contare di più. Esiste un pericolo separatista in Bolivia o sono invenzioni?
«Non credo che siano tutte fantasie, ma non credo neppure che esista un vero progetto separatista. Credo invece che ci sia una forte domanda di autonomia di quei dipartimenti in modo che possano amministrare le proprie risorse, gestire le proprie politiche senza con questo rompere con lo stato boliviano. Insomma, la logica non è separatista, ma c’è un’esigenza molto forte di autonomia».

Lei non nega il problema dell’accesso al mare e la storica controversia con il Cile. È possibile risolvere questo problema? Esiste una soluzione concretamente fattibile?
«Certo che esiste una soluzione! Ed è anche molto più semplice di quello che si vuole far credere. Prima però si deve far capire al mondo che il problema esiste ed è reale. La Bolivia ha posto questo problema a livello internazionale, poiché il Cile sostiene che la questione non esiste e non ci sono rivendicazioni pendenti. Invece è un dato di fatto storico che ci siano rivendicazioni pendenti e che esista un problema di sovranità. Esiste d’altra parte la nostra volontà di arrivare a un negoziato con il Cile ed anche con il Perù, perché la Bolivia crede che debba aver un accesso libero, diretto e sovrano all’Oceano Pacifico.
D’altra parte, noi non stiamo chiedendo di avere indietro tutti i 400 Km di costa che abbiamo perso nel 1879. Semplicemente vogliamo avere un porto dal quale poter esportare i nostri idrocarburi, qualora ce ne fosse bisogno. Il tema, pertanto, si riduce ad una piccola porzione del territorio cileno. Tra l’altro, in base agli accordi del 1955, su questo tema anche il Perù ha qualcosa da dire. In conclusione, la Bolivia è disposta a dialogare e ritiene anzi che la sua pretesa attuale sia molto più modesta di quella che invece fu la reale perdita storica».

Lei gode di un buon appoggio popolare. Ora però deve affrontare una situazione economica grave, con un deficit pubblico che è quasi al 9%. Come si può risolvere questo problema senza colpire nuovamente i più poveri?
«Noi abbiamo proposto una redistribuzione della tassazione il cui obiettivo è proprio quello di non toccare i più poveri e colpire invece il settore delle transazioni finanziarie, delle banche e degli istituti di credito. In Bolivia, l’accesso alla finanza è ristretto alla classe media e a quella alta. La gente povera non ha accesso al sistema finanziario e quindi non può venire colpita in nessun modo da queste misure.
Insomma, tutte le nostre misure economiche evidenziano una forte attenzione nei confronti della popolazione più povera. Quanto al nostro deficit, contiamo anche sull’appoggio internazionale per riuscire a colmarlo».

Continuiamo a parlare di povertà, presidente Mesa. La Bolivia è un paese potenzialmente ricco, ma nelle classifiche inteazionali è immediatamente dopo Haiti nell’elenco dei paesi più poveri. Esiste una soluzione a breve?
«Una precisazione: quando si usano le statistiche, è meglio avere dati aggioati. I suoi sono un po’ vecchi, dottor Moiola. Adesso siamo davanti al Nicaragua, all’Honduras e alla pari con il Guatemala: non che questo sia un motivo di vanto, ma è giusto essere precisi.
Dunque, come implementare una politica di lotta alla povertà? Innanzitutto con il dialogo nazionale a partire dalla base, dal livello dei municipi, sviluppando il dialogo sociale. Perché la soluzione non venga solamente dal governo, ma sia il frutto della proposta di un’intera società. Il tema che è strettamente legato a questo è quello di riuscire a ridurre il peso del deficit dovuto al debito estero».

Può darci un esempio di lotta concreta alla povertà?
«Per esempio, stiamo lavorando all’implementazione del “Servizio unico materno-infantile” (Sumi), con il quale si vuole garantire alla madre e ai bambini un’assistenza minima per i primi 5 anni di vita. Stiamo lavorando a strategie di lotta alla povertà nelle aree rurali, che è il punto veramente critico. Oltre ai nostri investimenti abbiamo l’aiuto della cooperazione internazionale, che è molto importante ed apprezzabile, ma che, d’altra parte, genera una certa dipendenza. Per questo cerchiamo di orientare i loro investimenti sull’obiettivo di fomentare la produzione, perché crediamo che l’aumento della produttività possa essere una soluzione al problema».

Da anni, in tutto il mondo, si assiste ad un processo di privatizzazione portato avanti secondo i rigidi dettami del neoliberismo. Anche la Bolivia ha seguito questa strada per molti settori produttivi. Com’è andata, presidente Mesa?
«Innanzitutto bisogna precisare che la Bolivia non ha lavorato nelle privatizzazioni sulla stessa linea del Perù o dell’Argentina. Il nostro è stato piuttosto un processo di “capitalizzazione”.
In secondo luogo, il lavoro è stato fatto su 5 grandi imprese nazionali (petrolio, energia elettrica, telecomunicazioni, ferrovie, trasporto aereo) con esiti molto diversi. Nel settore aereo, è stato un disastro e siamo arrivati sull’orlo del fallimento. Nel settore delle ferrovie, il risultato è stato buono dal punto di vista economico, soprattutto per la ferrovia dell’oriente, mentre è stato negativo sotto l’aspetto dell’offerta, in quanto alcune linee sono state chiuse e quindi la gente è stata privata del servizio di trasporto, come accaduto per la ferrovia di Potosì. Bisogna quindi ricalibrare un po’ le priorità, perché in questo settore non c’è solo un aspetto economico da considerare, ma anche un aspetto sociale. Infine, nel settore delle telecomunicazioni, la capitalizzazione è stata addirittura spettacolare: la Bolivia è cresciuta in modo impressionante in questo settore. Basti un dato: avevamo circa 300.000 linee telefoniche, adesso ne abbiamo 1,7 milioni».

Il partner di Entel, la compagnia boliviana, è Telecom Italia, giusto?
«Sì, proprio Telecom Italia. È stato realmente un risultato straordinario, considerando che si è arrivati alla copertura telefonica anche di piccoli paesi dell’area rurale. All’inizio c’è stata una salita dei prezzi, ma adesso stanno scendendo e si sta aprendo anche alla concorrenza. Per quello che riguarda l’elettricità ci sono state luci ed ombre: ci sono imprese che hanno funzionato bene, altre meno. Nel caso degli idrocarburi, l’aspetto positivo è stato di moltiplicare per 10 la quantità di petrolio estratto, ma in quanto alle entrate per lo stato la capitalizzazione non ha reso per niente. Stiamo investigando per capire cosa non abbia funzionato».

Se ho ben capito, la strada della «capitalizzazione», scelta dalla Bolivia, è uno strumento neoliberista che, al contrario delle privatizzazioni, ha funzionato. È così?
«In generale, direi che ha funzionato. Anche se, a voler essere precisi, non possiamo definirlo uno strumento neoliberalista in senso stretto. Un altro aspetto positivo è il capitale che lo stato ha incassato. Con esso abbiamo potuto costituire un fondo di assistenza per tutte le persone maggiori di 65 anni, che in base ad esso hanno diritto ad una rendita annuale» (3).

A parte la capitalizzazione, lei che cosa ne pensa della filosofia neoliberista?
«Il neoliberismo nel suo concetto ortodosso ha fallito. Questo lo si può vedere in tutta l’America Latina e la Bolivia ne è un esempio ulteriore. Siamo nel 2004 e sono 18 anni che stiamo chiedendo sacrifici ai boliviani: la gente non crede più a questo modello economico. Si tratta allora di reinserire lo stato nel ruolo di gestore dell’economia. Non solo nel senso di favorire una maggiore produttività, ma anche per lottare contro la povertà e sviluppare l’educazione».

Presidente, ci dica qualcosa sulle relazioni inteazionali della Bolivia, in particolare con gli Stati Uniti e con l’Europa.
«La relazione con gli Stati Uniti è molto importante per la Bolivia, come del resto per tutti i paesi latinoamericani dal momento che siamo nella loro area di influenza. Per gli Stati Uniti è fondamentale il tema dello sradicamento delle piantagioni di coca. Questo è un tema certamente importante, ma per noi è una problematica che ha costi economici e sociali molto elevati, perché sono molte le famiglie boliviane la cui sopravvivenza quotidiana è legata alla produzione della coca (4). Gli Stati Uniti ci appoggiano nell’aspetto economico, creando un forte legame di dipendenza, ma la problematica della coca è molto più complessa.
Per quanto riguarda l’Unione europea e l’Europa in generale dobbiamo invece approfondire i nostri legami e riuscire ad instaurare relazioni più stabili, anche per riequilibrare le nostre relazioni inteazionali».

Toiamo alla politica intea, presidente. Come sono i suoi rapporti con il gruppo di Evo Morales (Mas) e Felipe Quispe (Mip)?
«Sono due relazioni assolutamente distinte dal punto di vista politico. Felipe Quispe è una persona che rappresenta un gruppo di persone molto preciso ed identificabile che proviene dall’area dell’altopiano, ha posizioni molto radicali e poco flessibili. Credo che il massimalismo sia la sua logica e, pertanto, non vedo come si possa negoziare con lui in un contesto democratico.
Evo Morales è una persona diversa. Ha una prospettiva elettorale molto ampia, vuole arrivare al governo e per questo si è inserito all’interno di un dibattito democratico. Negli ultimi mesi, ha contribuito alla gestione del governo, con un atteggiamento razionale e ragionevole. Ultimamente, in verità, mi sembra stia prendendo posizioni molto critiche rispetto alla nuova legge sugli idrocarburi. È cioè molto vicino a posizioni simili alla nazionalizzazione, creando una serie di problemi nelle relazioni inteazionali, con la cooperazione, con la stessa industria petrolifera con cui ci sono contratti firmati. In tutto questo Morales ha però mantenuto una posizione legittima, all’interno di un dibattito democratico».

Lei sembra una persona ottimista. Significa che pensa di arrivare alla fine del suo mandato presidenziale, prevista per il 6 agosto del 2007?
«Questo è quello che mi propongo. Si deve vedere, se il popolo boliviano continuerà ad appoggiare un governo che ha cercato di gestire le cose in maniera trasparente. Sicuramente affronteremo momenti difficili e la tensione sociale potrebbe aumentare un po’. Credo che il popolo però capisca che non si può chiedere tutto a un governo nato da una crisi così grave».

BOX 1

MA ALLA FINE CHI HA VINTO?

Le multinazionali petrolifere? Il governo Mesa? I boliviani?
Il risultato è incerto e la partita non è finita.

Nel referendum del 18 luglio, le 5 domande erano ambigue ed alcune di esse troppo lunghe. Comunque, circa il 60 per cento degli aventi diritto (2,7 milioni di boliviani su 4,5) è andato ad esprimere la propria preferenza e la maggioranza di essi ha optato per i «sì».
Dopo la consultazione popolare, si è iniziato a discutere il progetto di nuova legge per gli idrocarburi, progetto presentato dal governo del presidente Mesa. Ma trovare un accordo sarà un’impresa, perché sono troppe le volontà contrapposte.
Ci sono, in primo luogo, le 20 imprese petrolifere presenti nel paese. Attualmente, in Bolivia il costo di produzione è uno dei più bassi tra quelli sostenuti dalle 200 maggiori imprese petrolifere che operano in diverse regioni del mondo. Questo vantaggio si traduce in profitti enormi per le compagnie. Le quali, di conseguenza, non sembrano intenzionate a ridiscutere i contratti (un’ottantina) che hanno sottoscritto prima del referendum, ovvero in base alla legge n. 1689 del 1996. In altri termini, qualsiasi cambiamento dello status quo sarà osteggiato dalle petroleras, come le chiamano i boliviani.
Ci sono poi le diverse posizioni degli 8 partiti rappresentati nel Congresso boliviano. Intanto, il referendum ha diviso il paese, soprattutto a sinistra, considerando che la principale organizzazione sindacale (la Central obrera boliviana, Cob) e il Movimiento indigena pachakuti di Felipe Quispe hanno sostenuto il boicottaggio del referendum. Infine, ci sono le pressioni degli organismi inteazionali, con in prima fila il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

Allora la domanda è questa: è cambiato (o potrà cambiare) qualcosa con il referendum del 18 luglio? Lo abbiamo chiesto a due esperti, entrambi molto stimati, ma con posizioni opposte sull’argomento. Secondo Francesco Zaratti, italiano da 31 anni in Bolivia, professore universitario ed ascoltato delegato presidenziale, «il referendum è stato positivo dal punto di vista della democrazia e della stabilità del governo, ma un po’ sterile per quanto riguarda i risultati tecnici e politici».
Molto critico è, invece, Osvaldo Calle Quiñonez, giornalista, specialista in tematiche economiche: «Il referendum del 18 luglio è stato uno dei peggiori processi di consultazione popolare mai organizzati. Tutti i 5 quesiti erano formulati in modo tale che era impossibile rispondere “no”. Ciò è stato possibile perché l’elaborazione delle domande è stata fatta da una équipe che si è basata sulle inchieste commissionate e pagate dalle petroleras, con la Total in testa. Per questo io sostengo che le imprese petrolifere sono il vero vincitore del referendum. Il presidente Mesa è stato il loro strumento ed Evo Morales, pur con qualche reticenza, si è adeguato». Osvaldo Calle ha anche denunciato la pratica delle imprese petrolifere di «comprare la benevolenza» degli esperti governativi (attraverso contratti di consulenza) e dei mezzi di informazione boliviani (attraverso la pubblicità).
Quale sarà l’immediato futuro per la Bolivia? Il professor Zaratti ha in testa un cammino preciso: «Dopo aver varato la nuova legge sugli idrocarburi, eleggeremo un’assemblea costituente che avrà il compito di riformare lo stato. Nel frattempo, con l’aiuto del gas, speriamo di stabilizzare l’economia e di modeizzare lo stato». Intanto, lo scorso 29 settembre il ministro degli esteri del Cile ha destituito il console generale a La Paz, Emilio Ruiz-Tagle, colpevole di essersi espresso a favore della richiesta boliviana di uno sbocco al mare in territorio cileno. Meglio vanno i rapporti con Buenos Aires: il 14 ottobre i presidenti dei due paesi si sono incontrati a Sucre per sottoscrivere un forte incremento delle esportazioni del gas boliviano verso l’Argentina.

Per ora la Bolivia presenta queste cifre: secondo posto, in America Latina (dietro il Venezuela), in fatto di riserve di gas, ma il 70 per cento dei suoi 8,2 milioni di abitanti continua a vivere in povertà o nell’indigenza. Come conferma anche l’ultima classifica Onu sull’indice di sviluppo umano, che colloca il paese latinoamericano al 114.mo posto (su 177 paesi considerati). Il 23 settembre, durante l’assemblea dell’Onu, il presidente Mesa non ha esitato a criticare l’ortodossia neoliberista e a parlare della necessità di combinare le forze del libero mercato con quelle dello stato regolatore. Speriamo sia di parola.


Pa.Mo.

Paolo Moiola




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (quarta puntata)

VENEZUELA 2004 (quarta puntata)

Abbiamo visitato tre quartieri popolari (molto popolari) di Caracas:  La Dolorita, 23 de Enero, El Manicomio. Le persone incontrate ci hanno parlato di miserie umane (disoccupazione, violenza, droga, omicidi), ma anche di speranza in un futuro diverso.

«POVERI DI DENARO,
MA RICCHI DI CUORE E DI MENTE»

Nessuno nega i problemi, ma è bello vedere negli occhi il luccichio della speranza.

Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città. Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città.
«Ci abitano migliaia di persone», ci spiega Ramón Castillo, mentre su una vecchia auto raggiungiamo il cuore del «23 de Enero», un quartiere (qui si dice parroquia, a sua volta divisa in barrios e sectores) che conta circa 300 mila abitanti.

Il «23 di Gennaio» gode di una gran brutta reputazione. Anche per questo la gente che vi abita si è organizzata. Sono nati vari organismi di autogestione: le cornoperative di consumo e di trasporto, i periodici comunitari, i comitati di autodifesa, i gruppi sportivi e culturali, le comunità dei condomini (juntas de condominio), le associazioni dei vicini (asociaciones o asambleas de vecinos).

UN PRESENTE
DI DISOCCUPAZIONE

Con Ricardo, Cesar e Ramón saliamo ai piani alti di un condominio. La gente ci accoglie con una cortesia che non ha nulla di formale. Ci mettiamo a parlare su un balcone, dal quale si vede bene quanto il «23 di Gennaio» si estenda su questo cerro (collina) della capitale.

Chiediamo come funzionino le associazioni di vicini. «Sono organizzazioni – risponde Ramón – nate per risolvere i problemi di una comunità: l’acqua che non arriva, la strada da sistemare, il lavoro che non c’è. Il problema della disoccupazione è gravissimo. Il governo ha fatto qualche sforzo, ma il capitale privato non vuole contribuire a creare un nuovo Venezuela. Questa mancanza di lavoro colpisce soprattutto i giovani che, per questo, diventano facile preda di chi promette loro rapidi guadagni».

Ramón si riferisce alla piaga del narcotraffico che, pur se meno rispetto ad un recente passato, continua a fare vittime.

«Le organizzazioni di vicini cercano di fare in modo che la vita e la sicurezza delle persone estranee alle attività illegali siano garantite. Anche per questo favoriscono le attività di svago, culturali e sportive. Oggi, per esempio, c’è una festa…».
Con la mano ci indica il luogo, dove si sta svolgendo una festa con musica e partite di pallavolo e baseball. Lasciamo il condominio e ci incamminiamo verso la festa.

UN PASSATO
DI VIOLENZA E DROGA

Al centro sportivo incontriamo Alexis Pinto Valera, uno dei responsabili del Frente de resistencia popular Tupamaro.

«Ma – ci interrompe – sono anche membro dell’Asociación Civil Amigos de los Niños de Monte Piedad, un’organizzazione che come recita il nome si occupa di bambini. Noi pensiamo che ci siano delle attività che portano a migliorare lo spazio dove si abita. Ad esempio, il lavoro culturale, sportivo ed educativo con i membri più piccoli della nostra comunità».
Chiediamo perché il «23 di Gennaio» sia noto soprattutto per i problemi di droga.

«È vero – ammette Alexis -: negli anni ’90 abbiamo avuto una forte presenza del narcotraffico all’interno della nostra zona. Ma è qualcosa che ci hanno portato da fuori, per distrarre un po’ i gruppi sociali che si stavano consolidando. Guarda caso, il consumo e la vendita di droga iniziarono sotto il governo di Carlos André Perez.

Prima arrivò la marijuana, poi cocaina ed eroina; in questo momento c’è il crack, basuko o la piedra, droghe che uccidono soprattutto tra i giovani».
Molte persone del «23 di Gennaio» sono cadute in questo giro perverso. Tra queste anche Martin, fratello del nostro interlocutore, ucciso dai narcotrafficanti.
«Nel periodo peggiore – racconta – nel bloque dove abito su 150 appartamenti almeno 40 avevano un consumatore di droga. Questa situazione creava un ambiente di grande insicurezza ed aggressività con furti, sequestri, rapine all’interno della nostra comunità.
In molti luoghi c’era anche il cobro de peaje, cioè un gruppo di giovani bloccavano l’accesso e tu dovevi pagare per passare di lì.

Spesso la violenza non era soltanto per la strada, ma anche in casa. C’erano famiglie con gravi problemi, perché avevano 2 o 3 consumatori di droga; altre che avevano avuto i figli uccisi da armi da fuoco in scontri tra bande».

Com’è oggi la situazione?, chiediamo. «Ora siamo riusciti a minimizzare il fenomeno. Siamo riusciti a sanare molte zone, a volte scontrandoci noi stessi con i venditori di droga».

Che tipo di scontri? «A volte scontri armati… Questi trafficanti, avendo molto denaro, hanno la possibilità di pagarsi guardaspalle, sistemi di comunicazione sofisticati. Ma con il coinvolgimento della comunità siamo riusciti a respingerli e adesso possiamo dire che li controlliamo».

MAYLIN,
UNA STORIA ESEMPLARE

Lasciamo la festa, per dirigerci a piedi verso una zona residenziale diversa. I condomini lasciano il posto ad abitazioni con due o tre piani. Le strade si restringono fino a farsi vicoli. Seduti attorno ad un tavolino, alcuni uomini giocano a domino.

I nostri accompagnatori salutano tutti quelli che incrociamo. Ed ogni volta fanno le presentazioni. «Salite, salite a bere una birra» ci dicono alcuni giovani da un balcone. Una scala estea ci porta al primo piano. L’interno è essenziale: al posto delle porte ci sono tende, i mobili sono ridotti al minimo, ma i locali sono puliti e dignitosi.

Maylin è una bella ragazza di 25 anni, caagione caffelatte, capelli neri raccolti a coda di cavallo. E una grinta invidiabile.
«La nuova situazione politica – ci spiega sorridente – ha permesso alle donne di prendere coscienza e partecipare di più alle decisioni della comunità. Oggi abbiamo realmente maggiori opportunità. Io ho una figlia e questo mi spinge ancora di più a partecipare.
Le donne oggi svolgono un ruolo molto importante: sono uscite dal guscio nel quale erano relegate, costrette a pulire la casa e avere cura dell’uomo. Ora ci siamo rese conto che possiamo partecipare, a fianco degli uomini, a qualsiasi lotta. Credo che ci siano molte donne che la pensano come me».

Maylin parla con un entusiasmo contagioso. Sembra scortese farle domande critiche. Per esempio, su questi organismi di autogestione che affronterebbero di petto qualsiasi problema.

«Sì, è vero. Ci organizziamo di fronte a qualsiasi problema. Se c’è qualcuno che vende droga, che causa comunque un turbamento nella comunità, noi ci riuniamo e convochiamo la persona che sta commettendo lo sbaglio e cerchiamo di farla recedere dall’errore. Se non collabora, allora ricorriamo all’azione legale. Siamo molto forti come cittadini, come famiglie che si impegnano nella comunità; se non ci piace qualcosa che sta succedendo, interveniamo, anche per il bene dei nostri figli. Non abbiamo ancora dovuto ricorrere alle vie legali: la soluzione l’abbiamo sempre trovata come comunità».
Comunità, una parola ripetuta continuamente in questo quartiere e dai chavisti in generale.

«Che cosa vogliamo? Qualcosa di pulito: una repubblica che permetta la partecipazione di tutti i venezuelani, senza discriminazioni. E, comunque, vogliamo garantire un futuro ai nostri figli, pulendo tutto quello che per anni i politici avevano sporcato».

«FINALMENTE,
ORA TOCCA A NOI»

I cambiamenti non sono mai facili, soprattutto quando sono bruschi e non graduali. Com’è successo in Venezuela, con la «rivoluzione bolivariana» di Hugo Chávez. Che ha portato il paese sull’orlo della guerra civile.

«Perché stupirsi? – si chiede Maylin -. Non per tutti è facile accettare che ci troviamo in un processo di transizione, nel quale ci sono molti cambiamenti che talvolta non piacciono ad una classe sociale e sono, invece, bene accolti da un’altra. Però il paese aveva bisogno di cambiare».

L’opposizione dice che il presidente Hugo Chávez è un dittatore e che i suoi seguaci vogliono eliminare i nemici…
«La mia percezione è che quelli dell’opposizione hanno paura di confrontarsi con una massa tanto grande di persone. Noi siamo poveri economicamente, ma di cuore e di mente siamo molto ricchi e questo fa paura, anche alla Coordinatrice Democratica che sta sobillando odio per giustificare le proprie azioni.

La verità è che noi abbiamo dovuto sopportare sacrifici per molti anni; durante i governi passati abbiamo dovuto rinunciare finanche al nostro pane quotidiano. Oggi rivendichiamo partecipazione ed uguaglianza. Io dico all’opposizione: voi avete sempre avuto tutto, permetteteci di avere anche noi qualcosa.
Noi non cerchiamo di dividere il paese. Al contrario, vogliamo più unione. Tutti debbono essere partecipi dei sacrifici e tutti dovranno essere beneficiari dei risultati».

Come molte altre persone con cui abbiamo discusso, anche Maylin parla con una competenza giuridica inusuale.

Spiega: «È merito di questo governo che ci ha permesso di conoscere quali sono i nostri diritti e i nostri doveri. Molte volte dicevamo: ho diritto a… ma quali erano i nostri doveri come cittadino per poi avere dei diritti? Non lo sapevamo. L’abbiamo imparato ora, grazie alla costituzione bolivariana».

IL SOGNO DI UNA VITA

Ne ha parlato l’economista peruviano Heando de Soto, ci sta lavorando il Brasile di Lula; nel Venezuela di Hugo Chávez è già una realtà.

Si chiama «Ley especial de regularización de la tenencia de la tierra en los asentamientos urbanos populares»: è l’attribuzione legale della terra occupata abusivamente nelle sterminate periferie urbane. Anche molte case del «23 di Gennaio» rientrano nella casistica. Gli inquilini dell’abitazione in cui siamo ospiti (Maylin e la sua famiglia più altre due) hanno ottenuto i certificati di proprietà da pochi giorni.

Curiosi, chiediamo di poter vedere le carte dell’assegnazione. Maylin va a prenderle. Quando torna, ha la figlioletta in braccio e alcuni fogli in mano.
«Ecco, questo è il documento dell’assegnazione». La sua felicità non ha segreti: si manifesta in un sorriso totale e coinvolgente.

«Questo è un passo veramente importante per il nostro futuro. Mia nonna ci raccontava che, quando tirò su la casa, qui non c’era nulla. All’inizio la sua abitazione fu una baracca con 4 pareti e un tetto di lastre di zinco. Queste case non vengono mai edificate secondo un progetto prestabilito, ma si ingrandiscono a poco a poco.

Era una situazione molto precaria, dato che chiunque poteva reclamare quella terra, magari per farci passare una strada. Oggi, invece, abbiamo il nostro certificato di proprietà. Abbiamo fatto molti sacrifici per comperare mattone su mattone, adesso però possiamo dire: questo è mio, questo mi appartiene. Lo stato non sta regalando la terra; la vende, anche se la cifra che paghiamo è irrisoria, quasi simbolica».

Le procedure di assegnazione della terra richiedono una organizzazione comunitaria. Al «23 de Enero» (come in altri quartieri popolari) sono stati organizzati i «Comitati per la terra urbana». Ogni richiedente deve attestare da quanti anni vive sulla terra di cui chiede la proprietà.

Interviene anche Pedro Armando: «Mia madre e mia zia sono morte entrambe quando non avevano neppure 50 anni. Erano due grandi lavoratrici, ma non ebbero mai la possibilità di risparmiare qualcosa per noi. Oggi sarebbero molto felici di vedere che noi siamo diventati padroni della terra su cui avevano edificato la loro casa.
Non importa il valore in denaro di questa casa; per me ha un enorme valore sentimentale, perché io sono cresciuto come individuo dentro di essa. Sfortunatamente ci sono persone che non sono d’accordo con questo; chiaro che ognuno ha il proprio punto di vista, ma questo governo ci ha permesso di soddisfare il sogno di una vita».

«LA NOSTRA ARMA
È LA COSTITUZIONE»

Il Venezuela ha perso gran parte della propria classe media,
mentre grossi gruppi industriali agiscono come partiti politici.
La rinascita del paese passa
attraverso la nuova Costituzione bolivariana.

Caracas, «El Manicomio». Nonostante la scarsa illuminazione, sul muro di cinta la targa si legge ancora: «Scuola bolivariana Giovanni Battista Alberti».
La Giovanni Battista Alberti è una di quelle scuole che vennero chiuse lo scorso dicembre dal sindaco metropolitano Alfredo Peña, noto avversario del presidente Chávez. Ma la comunità del quartiere riuscì a riaprirla. «Ci siamo appellati all’articolo 102 della Costituzione, che dichiara l’educazione un diritto umano fondamentale e quindi intangibile come il diritto alla vita».

A parlare è Carlos Parra, già professore di matematica all’Università Simón Bolívar, oggi responsabile dell’Editorial Galac, una piccola ma quotatissima casa editrice. «Però – precisa subito -, tutto il tempo che mi resta lo dedico a promuovere il processo rivoluzionario, a farlo conoscere alla gente. Per esempio, nell’assemblea di questa sera dobbiamo informare la comunità di una serie di iniziative a livello urbano».

«POLAR» E «CISNEROS»:
DALLA BIRRA ALLA POLITICA

La riunione avviene nell’aula magna della scuola. Ci sono molte donne e qualche bambino che scorrazza attorno al palco. La serata è riempita con tanti discorsi dai toni pacati.

All’uscita assumiamo l’antipatico ruolo dei guastatori e facciamo notare ai nostri accompagnatori che forse non bastano delle riunioni con la gente per risolvere una situazione economica fattasi molto preoccupante.
«Il fatto è – ci spiega Carlos con una pazienza da insegnante – che, negli ultimi 25 anni, questo paese è stato distrutto. Ma, se noi riuscissimo a coinvolgere i milioni di venezuelani che hanno a cuore lo sviluppo, l’educazione, la qualità della vita, tutto il paese ne guadagnerebbe».

Le statistiche dicono che in Venezuela la classe alta si mantiene attorno al 5% della popolazione, mentre la percentuale della classe media è in continua regressione: tra il 1983 e il 1998 è passata dal 27% al 17%. Questo ha significato il contemporaneo aumento della massa dei poveri.

«Uno dei nostri obiettivi di politica economica – spiega Parra – è proprio l’accrescimento della classe media. Come ha detto il presidente Chávez: un paese con una importante classe media agevolerebbe la trasformazione di un modello economico che oggi è basato su una monoproduzione (di petrolio) ed è dominato da alcuni grandi gruppi monopolistici».
In Venezuela i gruppi industriali più potenti sono due: Polar e Cisneros. Il primo produce l’omonima birra (la più venduta del paese), nonché tutta una serie di prodotti alimentari, dal burro alla pasta. Il secondo produce un’altra birra, ma soprattutto è a capo di un impero televisivo (Venevision).

Questi gruppi hanno capeggiato gli scioperi degli scorsi mesi e poi il lungo (e costosissimo) stop a Pedevesa, l’industria petrolifera di stato. E non è tutto. Secondo il settimanale statunitense Newsweek, il magnate Gustavo Cisneros, amico dell’ex presidente George Bush, fu a capo del fallito golpe dell’11 aprile 2002.

LE «ARMI»
DEI CIRCOLI BOLIVARIANI

La scuola Giovanni Battista Alberti è stata riaperta grazie al locale Circolo bolivariano.
I circoli sono diffusi in tutti i quartieri popolari. La spiegazione che ne viene data è soprattutto di ordine pratico.

«I circoli bolivariani – ci spiega Rafael – sono associazioni di persone che volontariamente si incaricano di lavorare per la comunità, cercando di risolvee i problemi: dalla rete fognaria agli altri servizi urbani». Ma c’è anche una loro definizione più politica.
«Sono cellule molto importanti del processo rivoluzionario, che hanno la loro base ideologica nella costituzione, dato che questa promuove la democrazia partecipativa».

A proposito dei circoli, giornali e televisioni hanno scritto e detto di tutto: che sono organizzazioni sovversive, che nascondono armi, che i loro membri vanno alle manifestazioni dell’opposizione per creare disordini.

«Noi – ci spiega Rafael – siamo proprio il contrario di quello che dicono. Non solo non abbiamo armi, ma la maggioranza di noi non le sa neppure utilizzare. Per capire l’assurdità delle accuse è sufficiente visitare qualche circolo: chiunque si rende immediatamente conto che gli iscritti sono gente normalissima».
«La verità è molto semplice: la nostra sola arma è la Costituzione, l’arma più efficace che sia mai esistita in questo paese».

«È di questa che l’opposizione ha paura», chiosa Carlos, mentre saliamo sul suo vecchissimo fuoristrada.

«LA RIVOLUZIONE
NON PUO’ DIMENTICARE L’EDUCAZIONE»

Troppi giovani, riuniti in bande contrapposte, si perdono
in un’esistenza segnata dalla violenza.
Un gruppo di docenti reclama una scuola (pubblica) di qualità
come uscita da una vita senza futuro.

Caracas, «La Dolorita». Partiamo da Petare con un vecchio autobus stipato all’inverosimile. Il mezzo procede lentamente lungo la ripida strada. Quando raggiungiamo la destinazione, alla fermata delle corriere, nei pressi della piazza, sono ad attenderci alcune persone: Héctor, Omar, Julio, Cristian, Luis e Carmen, tutti membri del locale circolo bolivariano «Patria Buena».

A prima vista, La Dolorita si merita il proprio nome. Il quartiere appare dimesso, molto diverso da quelli visitati in precedenza. La maggioranza delle case sono incomplete; le strette vie che si inerpicano per la collina sono costellate da troppe immondizie.

La casa dove siamo ospiti sta in posizione panoramica. Dalla terrazza si vede La Dolorita con al centro due grandi edifici. «Sono – ci viene spiegato – la scuola elementare Jermán Ubaldo Lira e il liceo Mariscal». Ovvero l’oggetto della discussione di oggi.
Julio, Héctor, Carmen sono docenti, tutti preoccupati ed arrabbiati per la situazione in cui versa l’educazione scolastica in questo quartiere dimenticato. «Ma – precisano – La Dolorita non è altro che un esempio di quello che sta succedendo a livello nazionale».

BASTA CON
LA SCUOLA«MERCENARIA»

Seduti attorno al tavolino del soggiorno, Julio ci mostra la dettagliata denuncia presentata al ministero. «Una rivoluzione dovrebbe sempre avere nell’educazione uno dei pilastri portanti».

Precisa Carmen: «La nostra preoccupazione deriva dal fatto che la qualità dell’insegnamento è pessima e i nostri bambini partono già svantaggiati. La mancanza di qualità produce un altro grave problema, quello della bassa autostima: “Non riesco, non sono capace”. Occorrerebbe lavorare molto per infondere nei bimbi la consapevolezza che anch’essi possono raggiungere degli obiettivi».

Come quasi sempre accade, una cattiva scuola pubblica significa più spazio per la scuola privata.
«Alla Dolorita – precisa Carmen – esistono 12 scuole private dove la maggior parte dei docenti non sono neppure insegnanti. I bambini sono stipati in 50 in un’aula di 4 metri per 4 metri. Eppure si pagano 60 mila bolivares al mese».

Chiediamo ai nostri interlocutori che ci spieghino cos’è una scuola «bolivariana» e come mai non sia ancora decollata.
«La scuola bolivariana è un tipo di scuola che educa in modo integrale, che promuove la formazione del pensiero nell’ambito della nuova repubblica. È un cambiamento che investe tutto il processo educativo e riguarda anche vari aspetti pratici, come l’ampliamento dell’orario scolastico e la mensa (indispensabile in un paese dove la malnutrizione è molto diffusa).
Lo stato ha investito molto per creare le scuole bolivariane, ma non ha formato gli insegnanti che sono gli stessi di sempre».

Sull’esposto che ci è stato dato si parla delle due grandi scuole statali de La Dolorita, quelle che si vedono dalla casa.

«Il liceo Mariscal – spiega Julio – ha più di 1.500 iscritti, ma non funziona. C’è traffico di droga, di armi; c’è prostituzione. Ogni anno la percentuale di gravidanze tra le ragazzine è altissima, altissima la percentuale di abbandono scolastico per la cattiva conduzione. Quando poi questi giovani escono dalla scuola e provano ad entrare all’università, falliscono perché non sono preparati. Quelli che ce la fanno è perché sono entrati in qualche istituto specifico per colmare le lacune. Ma pochi si possono permettere di prepararsi privatamente, è ovvio.

Risultato? Nelle Università entra un ragazzo nostro ogni 20, tutti provenienti dalla classe media e alta».
Julio, Héctor e Carmen non sono, come si direbbe in Italia, insegnanti di ruolo. «È vero, non lavoriamo per lo stato. Nessuno di noi tre è laureato, ma abbiamo almeno 10 anni di esperienza nel campo dell’educazione elementare e media. E continuiamo a studiare per laurearci.

In ogni caso, siamo convinti che l’educazione debba rispondere agli interessi della comunità, mentre finora è avvenuto esattamente il contrario: l’educazione ha risposto a non si sa quale interesse o forse all’interesse di chi vuole che restiamo somari o al massimo buoni operai manovrabili. Per ora la scuola ha funzionato come ente mercenario della classe dominante. Dopo la vittoria della rivoluzione bolivariana, noi ci battiamo per una scuola che sia pubblica e di qualità».

IL VALORE DELLA VITA

Ci spiegano che ogni zona de La Dolorita ha la sua banda: ci sono 33 zone e quindi 33 bande. Una banda può essere costituita di 5, 10, 15 ragazzi che controllano la «loro» zona e la gente che vi abita.
Le lotte tra queste bande giovanili sono molto frequenti. Per il potere sul territorio o per il controllo del traffico di droga. A La Dolorita ogni settimana ci sono 5-6 morti a causa della delinquenza comune. Le armi di cui essa dispone sono superiori a quelle della (corrottissima) polizia.

«Ogni gruppo per potersi riunire nella propria strada deve essere armato, perché in qualsiasi momento può passare un gruppo antagonista. Nelle sparatorie che ne seguono vengono spesso colpite persone innocenti, come un bambino affacciato alla finestra della propria casa o una persona che si trova a passare».

Sapete di qualche morto questo fine settimana?, chiediamo. «Sì, uno di fronte alla chiesa, questa notte. Stava lì, quando è arrivato un tale che gli ha sparato. La settimana scorsa uno si è preso un colpo al petto e tre in faccia, ma non è morto. È stato un ragazzo di 13 anni che ha sparato ad uno di 19».

Obiettiamo: dunque, la rivoluzione bolivariana ha fallito nel campo della sicurezza…
«Ma la delinquenza comune è una conseguenza delle male politiche del passato. Quando poi, lo scorso aprile, ci fu il tentativo di golpe, molti delinquenti furono assoldati dall’opposizione per creare caos».
Purtroppo, di anno in anno l’insicurezza sembra peggiorare e questo è un dato di fatto che ci viene confermato.

«Io ricordo che vent’anni fa, quando ammazzavano una persona, poi per 3-4 mesi non succedeva più nulla. C’era un diverso impatto della morte sulla coscienza individuale. Oggi questi gruppi, se gli si uccide un compagno il venerdì, al sabato sono già riuniti all’angolo della via come se non fosse successo nulla. Non c’è più la paura della morte: il valore dell’esistenza si è perso».

Tutti sembrano condividere l’analisi. «Sta passando una cultura che non valorizza la vita, la quale vita vale pochissimo per una quantità di gente. C’è un problema di stima sociale molto serio. Te ne rendi conto anche quando cammini per strada, in mezzo all’immondizia».
«Noi pensiamo che questo modo di vivere si possa cambiare solo con l’educazione. Ovvero si esce da questa situazione nella misura in cui la gente viene educata, si appropria e si fa carico dei problemi. Per questo stiamo cercando di creare una presa di coscienza da parte delle persone, un coinvolgimento che stimoli il desiderio di migliorare quello che ci sta intorno».
Crisi sociale, crisi economica, crisi educativa: come pensate di uscie? Su questo punto i nostri ospiti rispondono compatti: «Noi investiamo molto sulla rivoluzione per dare soluzione a tutti questi problemi. Abbiamo grandi aspettative al riguardo».

«LA RIVOLUZIONE?
UNA TORCIA NEL BUIO»

Violenti, comunisti, castro-comunisti, addirittura terroristi: gli epiteti affibbiati ai seguaci di Chávez si sprecano.

«La nostra rivoluzione è senza armi; andiamo avanti utilizzando il pensiero di Bolivar e la costituzione bolivariana. Vinceremo anche se non possiamo contare sui mezzi di comunicazione di cui dispone l’opposizione. È come se Chávez avesse acceso una torcia sul buio del Venezuela. Io mi sento realmente rivoluzionario e voglio fare in modo che la rivoluzione prosperi. Siamo persone del popolo che vogliono vivere meglio e progredire assieme alla propria famiglia e al paese».

«Mi danno del comunista? Non sono mai stato un militante comunista, come credo non lo siano i miei compagni di lotta. Le nostre idee sono quelle di Simon Bolivar e di Gesù Cristo. Ma se Gesù Cristo è stato comunista, allora io accetto anche questo termine».
Interviene Carmen. «Come donna – dice – io penso che, nei limiti del possibile, dobbiamo cercare di fare una rivoluzione pacifica. Ho molta fiducia nel mio presidente ed approvo come ha agito fino a questo momento. Mio padre partecipò alla guerra civile in Spagna e quello che mi ha raccontato è orribile: non vorrei che succedesse lo stesso nel mio paese».
«Noi abbiamo molti valori e sono con questi valori che vogliamo affermare la nostra rivoluzione. Non vogliamo una guerra, ma se ci obbligano ad usare altri mezzi lo faremo. In questo processo ci stiamo giocando la vita e il futuro dei nostri figli.

(quarta ed ultima puntata; le precedenti sono state pubblicate in maggio, giugno e luglio-agosto)

Paolo Moiola




SAN PIETRO CLAVER Schiavo degli schiavi

Trecentocinquant’anni fa, I’8 settembre 1654, moriva a Cartagena de
Indias (Colombia) il gesuita spagnolo Pietro Claver, un santo che diede
la vita per il riscatto del popolo negro, umiliato e oppresso.

Escludendo il Brasile, in America Latina esistono all’incirca 15 milioni di afroamericani, concentrati in Haiti e presenti nelle zone calde dell’America di lingua spagnola. Si tratta di una minoranza razziale dimenticata ed emarginata anche dalla missione evangelizzatrice della chiesa.

LA SFIDA NERA

La situazione dei neri è stata abbordata ufficialmente per la prima volta nella Conferenza di Puebla (1979), facendovi riferimento due volte nel documento finale. Qualcosa, da allora, si è mosso a loro vantaggio; ma sono normalmente così dimenticati, da poter essere considerati come i più poveri tra i poveri americani.
Segundo Galilea, sacerdote cileno, profondo conoscitore dei problemi sudamericani, espone le ragioni di questa dimenticanza, dicendo che la razza negra non è considerata come «autonoma», ma «avventizia». E continua: «I popoli autonomi sarebbero i discendenti degli immigrati bianchi e degli indigeni… Per questo motivo si fa maggiormente sentire la consapevolezza della realtà indigena (anche nella chiesa) che non quella dei neri. Inoltre, i neri sono assenti nelle regioni più fredde; in quelle calde sono sparsi qua e là, senza formare chiaramente una unità culturale come gli indigeni».
Questa situazione (sempre secondo Galilea), avrebbe «avvelenato l’evangelizzazione della gente di colore presente fra noi, perché ha preteso di fare dei cristiani neri dall’anima bianca. Perciò, è evidente che gli afro-americani hanno perso le loro radici e identità: non formano più un popolo. Sono soltanto una minoranza etnica, priva di proprie radici culturali in America».
Questa situazione ha i suoi riflessi sulla missione. Infatti, sono pochi i sacerdoti e le religiose tra i neri ispano-americani. Fa eccezione Haiti, con la sua popolazione costituita in massa da razza morena.
E proprio qui sta la sfida, ammonisce ancora il sacerdote cileno: «Se la chiesa non è sensibile alle minoranze razziali e sociali, al settore dei poveri tra i poveri, come potrà essere più sensibile alle nuove sfide della povertà, dell’ingiustizia e dei diritti di tutti gli emarginati di questa nostra America tanto oppressa? Di più: se l’evangelizzazione non cerca di incarnare il messaggio, la catechesi, la liturgia, i ministeri, la vita consacrata in seno alle minoranze, come potrà in futuro evangelizzare “la cultura e le culture” che emergono dai rapidi cambiamenti sociali del continente, come richiede Puebla e, adesso, buona parte delle gerarchie? Le minoranze, infatti, sono il banco di prova e il luogo di elaborazione della missione».
La sfida che ci viene dal mondo dei neri riveste un certo carattere di riparazione. Nella storia della conquista e della prima evangelizzazione dell’America Latina, i missionari hanno lottato per i diritti degli indios, ma, salvo eccezioni, non hanno inspiegabilmente opposto resistenza all’importazione degli schiavi africani, né hanno difeso con identica energia la loro dignità.
Nella chiesa cattolica, a partire dal 1978, alcuni religiosi, tra i quali i missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti e anche laici hanno cercato di aiutare la chiesa ad affrontare la «sfida dei neri». Mettono in discussione l’ideologia che, per troppo tempo, ha privilegiato la razza bianca, essi cercano di far sì che l’afroamericano abbia più spazio nella chiesa e possa essere un cristiano nero. Inoltre viene sottolineato come l’afroamericano sia chiamato ad arricchire qualitativamente il cattolicesimo.
La prassi di illuminazione cristiana poggia su basi umane specifiche, dando il maggior spazio alla grazia. È, dunque, imprescindibile mettere al centro l’uomo «nero», così come egli si presenta, e riconoscere in lui un autentico soggetto capace di inculturazione cristiana.

CTTA’ EROICA E SCHHIAVISTA

Cartagena de Indias, denominata «città eroica» per la strenua difesa della sua indipendenza dal dominio spagnolo nel secolo xvii, dichiarata dall’Unesco «patrimonio culturale dell’umanità» per la sua storia e monumenti, chiamata «perla del Caribe» per le sue bellezze naturali, è stata per oltre due secoli la piazza di mercato degli schiavi africani.
Fondata nel 1533, favorita dalla posizione geografica, Cartagena divenne presto uno dei centri più ricchi dell’America spagnola. Il suo porto era il principale centro di smistamento di merci e di schiavi dalla Colombia al Venezuela, al Messico, all’Ecuador e Perú.
Il clima era pessimo per i venti freddi d’inverno e il caldo estenuante d’estate. Eppure, l’abbondanza dei giacimenti d’oro e d’argento della zona, attirava i mercanti europei assetati di ricchezze e onori.
Particolarmente intenso era però il traffico degli schiavi provenienti dall’Africa, assai redditizio per i trafficanti nonché per gli acquirenti. Perché la merce umana si potesse trovare sui mercati dell’America, si era creata una rete di organizzazioni che spingevano i tentacoli fino al centro dell’Africa.
Dai porti della Tripolitania, Marocco, Guinea, Congo, Angola, dove attraccavano le navi in attesa del carico, i negrieri si spingevano nel retroterra a intercettare «la merce». Quando il negriero riteneva di avee a sufficienza, intruppava le sue vittime, convogliandole in lunghe carovane verso i mercati del litorale, dove i bianchi attendevano. Costoro, finita la compera, cercavano d’imbarcare quanto prima gli schiavi acquistati.
Una terza parte di quelli che sbarcava in America moriva nei primi mesi dell’arrivo.
Così Alfonso Sandoval descriveva il loro arrivo a Cartagena: «Giungono alle nostre spiagge e sembrano piuttosto scheletri che uomini; vengono condotti a un gran piazzale o cortile, che si riempie immediatamente di gente, condottavi parte dall’ingordigia, parte dalla curiosità, parte dalla compassione. Tra questi, vi sono i padri della Compagnia di Gesù, che vengono per soccorrere e confortare o battezzare quelli che stanno per morire».
Tra di loro, spicca la carità eroica di Pietro Claver.

IL CONSOLATORE

Pietro Claver non era l’uomo delle denunce e recriminazioni, ma della consolazione mediante il servizio personale, tacito ed efficace testimone contro le ingiustizie del potere imperante.
La sua opera tra gli schiavi del porto di Cartagena raccolse sempre un consenso unanime, anche se si astenne dalle teorizzazioni dottrinali sul problema della schiavitù e dalle denunce dinnanzi alle autorità. Ebbe un’unica preoccupazione: la quotidiana attenzione e servizio agli africani schiavizzati. Era questa la sua vocazione: liberare con la carità, affidando ad altri il servizio della difesa giuridica.
Fra i difensori dei neri contemporanei del Claver, si distinse in Colombia padre Alfonso de Sandoval. Anche due cappuccini di Cuba, José de Jaca ed Epifanio Moirans, sostennero che la schiavitù africana era ingiusta: «I negri non si rendono liberi ricevendo il battesimo, lo sono già prima, per diritto naturale. Quindi, non esiste solo l’obbligo di restituire loro la libertà; bensì, in forza della giustizia, si deve pagare loro ciò che hanno perso durante la schiavitù, il lavoro e i danni subiti…».
Ma il Consiglio di Spagna protestò, dicendo che senza la schiavitù, le Americhe sarebbero state condannate alla rovina totale. I due furono scomunicati e richiamati in patria. Purtroppo, lo sforzo fu per allora vano. In Colombia la schiavitù fu abolita soltanto nel 1830 dal presidente e liberatore Simón Bolivar.
In quel misero contesto, Pietro Claver rappresentò lo sguardo misericordioso di Dio sulla povera umanità schiava. Si era autodenominato «schiavo degli schiavi negri, per sempre»; e mantenne la promessa.
Era il 15 aprile del 1610, quando Claver s’imbarcava per raggiungere Cartagena de Indias. Aveva 30 anni ed era nato a Verdú (Lerida). Figlio di lavoratori, seguì gli studi secondo i criteri dell’epoca. Nel 1602, entrò nella Compagnia di Gesù e fece due anni di noviziato a Terragona.
Ebbe la fortuna di stringere amicizia con Alfonso Rodríguez, uomo di Dio, insignito di doni straordinari. L’anziano portinaio, con parole profetiche e sguardo luminoso, fissando l’amico, gli ripeteva: «Sì, Pedro, tu andrai nelle Indie e là farai grandi cose per le anime… Io lo so!».
E vi approdò alla fine di aprile del 1610. Durante la traversata, poté rendersi conto in che cosa consistesse la cosiddetta «febbre» degli spagnoli verso il Nuovo Mondo. Vi affluivano naviganti e mercanti, soldati e avventurieri, banditi e missionari, chi con avidità smodata e chi, come i missionari, con speranza apostolica.
Nel 1605, i gesuiti avevano aperto un centro in Cartagena, impegnandosi con fervore nei ministeri richiesti dai cittadini. Tra essi lavorava padre Sandoval, impegnato nel dramma della schiavitù, autore di varie opere e di una «Carta maxima portugaliensum» in cui erano segnalati i porti (a volte camuffati come in Cartagena) nei quali si effettuava la tratta dei negri e che veniva definita «la mappa dell’ignominia». Sandoval era anche un apostolo, che si recava personalmente dagli schiavi per aiutarli.
Quando conobbe Pietro Claver, capì che la sua opera aveva trovato un degno erede. Claver faceva le sue prime esperienze come discepolo di quell’impareggiabile maestro e completava i suoi studi a Santafé de Bogotá e Tunja. Nel 1617, Sandoval partì per il Perú e il Claver, già sacerdote, da quel momento rimase solo a svolgere quel compito.
Era l’epoca d’oro della tratta verso Cartagena; si calcola, infatti, che nel suo porto vi sbarcò più di un milione di schiavi negri, introdotti in America in sostituzione dei nativi indios per lavorare nelle miniere e in mille lavori pesanti, dove la debole struttura dell’indigeno non resisteva.

LA PAURA DEL SIGNORE

Dal galeone che avanza sul Mare dei Caraibi si può vedere il Picco della Poppa, baluardo-santuario della città di Cartagena. Lo scalo si trovava vicino all’entrata principale, all’interno della baia. Il veliero si accosta al grosso muro del forte e getta le ancore un po’ staccato dalla banchina. Il capitano fa sapere che non si può sbarcare, perché tutta l’armata è malata e manda a chiamare padre Claver, dicendo: «Stavolta non le mancherà il lavoro».
Ma non è necessario chiamarlo; egli è già in cammino, con volontari e interpreti. Appena spunta l’alba, il santo è alla finestra scrutando il mare, pronto ad accorrere prima che i rudi mercanti assalgano la nave.
Il giorno prima, ha assicurato il premio di nove messe a chi gli annunci l’arrivo; premio caro al governatore e a vari ufficiali del porto, i quali fanno a gara per conquistarselo. C’è poi un ragazzo che fa la sentinella, così bravo e lesto che non si lascia mai cogliere alla sprovvista.
Ecco allora che il Claver si presenta con il denaro, i vestiti e le vettovaglie raccolte nel solito giro per la città presso i suoi numerosi ammiratori e benefattori. Egli li anima con buona grazia, ripetendo: «Ho bisogno di cose buone; è arrivata una falange di negri».
Prima che compaiano i medici, gli agenti, gli scaricatori, il santo è sul ponte e, appena un marinaio apre la botola della stiva, s’infila e scompare nell’orrido sepolcro. Centinaia di occhi languenti e abbarbagliati da quell’improvviso sprazzo di luce cercano di fissarsi su quell’ombra che si profila contro il boccaporto. Il primo approccio tra il gesuita e gli schiavi è di dolcezza. Si tratta di vincere il terrore, l’umiliazione, che arriva anche a eliminare, nella traduzione del Credo, la parola «Signore», affinché i poveri schiavi, con la loro mentalità già spaventata, non concludessero: «Dunque anche Lui ci tratterà come cani!».
Ecco che ora, nella nave-prigione, scendono sei o sette interpreti africani, amici del gesuita, vestiti di bianco che salutano i nuovi venuti nella loro lingua e fanno loro coraggio. Il padre passa tra le file, sorridendo; fa una carezza a questo, allenta i ceppi a un altro; si interessa con particolare affetto dei bambini; stende il suo mantello su un ammalato che trema, regala a tutti qualcosa: un biscotto, un’arancia, una mela, un sorso di liquore. Uomo di consolazione, li conquista con il linguaggio della carità.

Il mantello multiuso

Nelle tetre baracche dove attendono la loro sorte, gli schiavi vengono collocati in un certo ordine, prima di essere esposti al mercato e distribuiti nei campi di lavoro.
Claver non li abbandona: continua a visitarli per stringere amicizia e istruirli nella fede. Segue un buon metodo, dettato dall’esperienza: aveva imparato la lingua dell’Angola per potersi intendere direttamente con la maggior parte di quelli che arrivavano; per gli altri, si serve di interpreti.
Su una scheda prende nota dei dati di ciascuno per conoscerli meglio e non perdee le tracce. Visita con assiduità gli ammalati. A uno di questi, abbandonato nella capanna, porterà tutti i giorni cibo e cure ininterrottamente per 15 anni.
In tutti i casi penosi che si verificano in città e nelle piantagioni, interviene per infondere animo, correggere e, qualora sia necessario, redarguire i padroni per la loro crudeltà.
I suoi ammiratori sono unanimi nell’affermare che, per 40 anni, egli visse con le sue inesauribili bisacce, il rozzo bastone e il vecchio mantello «multiuso». A una persona che gli domandava, verso la fine della vita, quanti schiavi avesse battezzato, rispose che certamente erano stati non meno di 300 mila.
In effetti, tutti gli schiavi arrivati a Cartagena durante quei 40 anni (giungeva una dozzina di navi all’anno, con un carico medio di 700 schiavi ciascuna), l’avevano visto, o ascoltato i suoi insegnamenti e, se preparati, avevano ricevuto il battesimo prima di partire per altre direzioni.
Gli ultimi anni della vita di Pietro Claver furono penosi: le forze diminuivano, specialmente dopo l’epidemia del 1650, che lo colpì e paralizzò, impedendogli qualsiasi movimento per quattro anni; tempo che egli trascorse confinato in una piccola cella, dimenticato da tutti, con cure scarse e assistito malamente da uno schiavo nero. Muore all’alba dell’8 settembre 1654. Canonizzato nel 1888, nel 1896 viene dichiarato patrono universale delle missioni fra i negri da Leone XIII.

Box 1

L’IMBARCO

Il negriero Degrandpré così descrive la notte della partenza di una nave di schiavi: «La cabina del capitano è sopra la stiva e il pavimento non è di grosso spessore. Più volte egli è svegliato dal rumore e dai gemiti. Gli sventurati si vedevano sul punto di lasciare per sempre la patria. L’incertezza dell’avvenire incuteva loro sgomento di morte, poiché erano persuasi di vivere i loro ultimi istanti e si aspettavano di venire uccisi e mangiati l’indomani».
Assicura il negriero che i loro singhiozzi e canti di dolore spesso turbavano la sua anima… E padre Sandoval, missionario in Cartagena, spiegava: «Gli uomini stessi che li conducono, m’hanno assicurato che quegli esseri miserabili sono legati a sei a sei per mezzo di cerchi al collo, e a due a due con le catene ai piedi, in modo tale che sono ridotti all’immobilità. Essi vengono rinchiusi sotto il ponte, in luogo dove non penetra luce alcuna: uno spagnolo non potrebbe affacciarsi senza svenire, tanto è il puzzo, la strettezza e la miseria del loro ricovero». Gli uomini sono nudi; alle donne si concede uno straccio.

Box 2

«Un laccio» tra due culture

Esprimo la mia profonda ammirazione per questo esemplare religioso della Compagnia di Gesù, insigne colombiano nato in Spagna, di cui il mio predecessore Leone xiii disse: «Dopo il Cristo, è l’uomo che più mi ha impressionato nella storia».
Il suo messaggio ed esempio conservano un’attualità universale che distingue il vero seguace di Cristo. Si è fatto «schiavo degli schiavi negri per sempre»; per loro consacrò le sue migliori energie, per la difesa dei loro diritti come persone e come figli di Dio consumò l’esistenza e, in una prova eroica d’amore al fratello, consegnò la sua vita.
Ma Pietro Claver non limitò l’orizzonte della sua opera agli schiavi, lo estese con prodigiosa vitalità a tutti i gruppi etnici o religiosi che soffrivano l’emarginazione; prigionieri, stranieri, poveri e oppressi, schiavi al lavoro in costruzioni, miniere e fattorie ricevettero la sua visita, conforto e consolazione.
In un ambiente duro e difficile, in cui i diritti umani erano violentati senza scrupoli, alzò coraggiosamente la voce contro i dominatori, dicendo loro che quegli esseri oppressi erano uguali ai loro oppressori nella dignità, nella loro anima e vocazione trascendente.
Con profondo senso pedagogico, trasmise all’emarginato la coscienza della sua dignità, gli fece apprezzare il valore della sua persona e del destino al quale Dio, padre di tutti, lo chiamava. Così spezzò le barriere della disperazione, seminò la speranza, si adoperò per trasformare una realtà ingiusta, senza predicare vie di violenza fisica o di odio; così venne creando un laccio d’unione tra due razze e due culture…
Egli è l’uomo dell’offerta totale di sé, in una vocazione sacerdotale per gli altri. Di fronte alle necessità pressanti che scopre intorno a sé, egli non si risparmia, ma si offre interamente a tutti per tentare di alleviarli e liberarli dall’oppressione e per dare loro la dimensione completa della loro esistenza.
Vedendo i risultati stupendi conseguiti, con frutti che solo un amore illimitato e saldamente fondato in Dio è capace di raggiungere, ci accorgiamo che siamo di fronte a una vita feconda, degna di essere imitata. Vi propongo dunque questo esempio di uomo e di religioso sacerdote, affinché serva di modello a coloro che non si accontentano di piccoli ideali e vogliono realizzarsi in una generosa consegna agli altri.

Giovanni Paolo II

Brunalda Bonardo




LETTERA Indios yanomami strumentalizzati?

Spettabile redazione,
vi ringraziamo del bellissimo lavoro di annuncio del vangelo che svolgete attraverso Missioni Consolata. È una rivista che ci interessa molto, perché i suoi temi sono coinvolgenti e missionari. Anche gli indios yanomami (Roraima/Brasile), fra i quali lavoriamo, gradiscono sfogliarla, anche per le foto colorate che pubblica.
In modo speciale vi ringraziamo del dossier di febbraio 2004 su Roraima, elaborato dall’équipe della Campagna Nós existimos. Richiamiamo la vostra attenzione sulle pagine 34-35 e, più precisamente, sul servizio fotografico.
Ci ha suscitato sorpresa e indignazione la foto di due bambini yanomami sopra una discarica nella città di Boa Vista. Può sembrare che quei bambini stiano fra i rifiuti chiedendo aiuto. Anche alcuni yanomami, che hanno visto la foto, non l’hanno gradita. Suggeriamo la rettifica, dato che la rivista difende la giustizia e la verità dei fatti.
Gli yanomami si rifiutano di essere usati per presentare i problemi degli altri popoli indigeni. Hanno l’impressione che, quando in Europa si parla di indios, automaticamente si usino fotografie relative a loro stessi.
Nella cultura yanomami il viso e le mani «sporchi di cibo» non sono segno di sporcizia, ma di abbondanza. È così che interpretiamo la foto di pagina 34: sono due bambini nutriti e sani. Per questo la foto ci sembra mal posta sulla discarica. Inoltre i bambini yanomami non vanno a Boa Vista da soli, ma accompagnati dai genitori per cure mediche.
Oggi la discarica di Boa Vista è chiusa. Pertanto la sua foto non ha senso, dal momento che il dossier tratta problemi attuali e non fatti superati (dopo pressioni inteazionali).
La rivista e i suoi sostenitori possono aiutarci a superare la strumentalizzazione degli yanomami che avviene all’estero? Essere indigeni non è solo avere le piume in testa o la faccia dipinta, ma è riconoscere le loro differenze e non generalizzare con le culture.
Come équipe missionaria, non possiamo lasciar passare inosservato questo equivoco che ci ha procurato disagio e preoccupazione. Con questo non dubitiamo delle buone intenzioni di Missioni Consolata. Ma quella foto dà adito a varie interpretazioni.
Come figli del beato Giuseppe Allamano siamo chiamati, noi e voi, a rispettare la dignità delle minoranze etniche, tra cui il popolo yanomami.
Con la speranza che la nostra richiesta sia tenuta in considerazione dalla rivista, vi mandiamo un forte abbraccio fraterno, caloroso e cordiale.

I padri
Laurindo e Gianfranco,
le suore Blanca Yolanda, José Iris e Noeli,
i laici missionari
Manuel e Paula
Boa Vista (Brasile)

Siamo grati all’équipe missionaria. Condividiamo pure i rilievi critici, specialmente quello di non strumentalizzare gli yanomami… esotici, belli, nudi. Ecco perché, nei nostri viaggi a Roraima, non abbiamo mai «curiosato» fra loro. Che dire, allora, delle foto sui bambini yanomami e la discarica?
1. L’accostamento (non la sovrapposizione) delle due immagini è un’opera grafica di «photoshop» e ha un significato ideale: ricorda l’auspicabile unione fra indios ed emarginati della città (nonché contadini poveri), per cui è stata lanciata la Campagna Nós existimos.
2. La discarica non esiste più, ma non mancano a Boa Vista luoghi di degrado, che coinvolgono tutti, indios compresi.
3. «Gli yanomami si rifiutano di essere usati per presentare i problemi degli altri popoli indigeni…». L’affermazione è grave. Gli yanomami non possono scordare che, nel 1992, l’omologazione della loro terra avvenne grazie alla solidarietà di milioni di italiani, sensibilizzati dai missionari della Consolata. Oggi sono gli indios macuxí, wapichana, ingarikò, taurepang… a lottare per lo stesso problema. E gli yanomami, che hanno già beneficiato del sostegno di tanti simpatizzanti, dovrebbero essere con loro! Se non lo sono, spetta ai missionari operare per una più larga intesa fra tutti i poveri, senza escludere nessuno.
Questo è lo spirito profetico di Nós existimos, richiesto con forza anche dal vescovo di Roraima, Apparecido Diaz, prematuramente scomparso il 29 maggio scorso.

aa.vv.




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (terza puntata)

Venezuela 2004 (seconda puntata)

«NOI, MINISTRI DI HUGO CHÁVEZ»

A Caracas abbiamo incontrato due ministri del governo: Ana Elisa Osorio, responsabile dell’ambiente, e Jorge Giordani, ministro della pianificazione.
Abbiamo parlato dei problemi dei loro dicasteri. Ma anche di quanto sia difficile essere ministri in un paese scosso da divisioni e lotte intestine.

1 / ANA ELISA OSORIO, MINISTRA DELL’AMBIENTE
“PETROLIO… MA ANCHE FORESTE E BIODIVERSITÀ”


Il petrolio ha portato nelle mani di pochi un’immensa ricchezza, lasciando a tutti gli altri soltanto enormi problemi ambientali. Oggi il Venezuela vuole salvaguardare le proprie ricchezze naturali (e con esse anche i popoli indigeni). Così, anche nella sua Costituzione si è stabilito che…


Caracas. Ana Elisa Osorio
Granado, ministro dell’ambiente
e delle risorse naturali,
ha i capelli corti e biondi. Laureata
in medicina, due figli, è nata a
Caracas, ma ha vissuto molti anni
nel sud del Venezuela. «Mi sento
più guyanese che caraqueña» dice di sé.
Ci accoglie nel suo spazioso ufficio
ministeriale, indossando un vestito
scargiante quanto il suo sorriso.

LE CINQUE DONNE
DEL GOVERNO CHÁVEZ

La dottoressa Osorio fa parte del
governo dal febbraio 1999, due
giorni dopo che Hugo Chávez divenne
presidente. Il primo incarico
fu come vice-ministro della salute
per un anno e mezzo. «Adesso – racconta
– sono due anni e mezzo che
sono ministra dell’ambiente».
Già, «ministra». «È una svolta
importante per il Venezuela – spiega
-, perché vi è una parificazione
dei generi. La stessa Costituzione
prevede per ogni termine sia la dicitura
maschile che quella femminile:
venezuelano/venezuelana, cittadino/
cittadina, magistrato/magistrata,
funzionario/funzionaria e
così via. All’inizio non è stato facile,
ma abbiamo insistito e adesso
non si sbagliano: dicono il ministro
e la ministra. Insomma, hanno imparato
ad usare la doppia terminologia».
Ma non è soltanto una questione
lessicale. Nel governo venezuelano
ci sono 16 dicasteri e ben 5 di essi
sono guidati da donne: ambiente e
risorse naturali, salute, scienza e tecnologia,
lavoro, comunicazione e
informazione. Un bel primato per
un paese che si dice essere maschilista…
«Detto questo – precisa però la
ministra -, non nego che il machismo
ancora esista in questo paese».

IL GENOMA
NELLA COSTITUZIONE

In Venezuela esiste il ministero
dell’ambiente più antico dell’America
Latina. Tuttavia, è con la nuova
Costituzione del 1999 che si fa
un grosso salto in avanti.
«Innanzitutto – ci spiega la dottoressa
Osorio – per la prima volta nella
sua storia il Venezuela ha una Costituzione
con un capitolo dedicato
all’ambiente. I temi dell’equilibrio
ecologico e dei beni ambientali sono
già nel preambolo della carta costituzionale.
Oltre a ciò, le tematiche
ambientali sono affrontate in
modo trasversale in tutta la Costituzione.
Si parla di acqua come bene
pubblico, di educazione ecologica,
di valutazione dell’impatto
ambientale, ma anche di genoma
degli esseri viventi…».
In Venezuela la natura è una grande
risorsa: le spiagge dei Caraibi, le
isole (sono 72), grandi fiumi come
l’Orinoco (il terzo dell’America Latina),
laghi, cascate, pianure, montagne e foreste tropicali. Insomma,
il paese possiede un potenziale turistico
di prim’ordine.
«L’abbiamo sfruttato poco. D’altra
parte, stiamo prendendo coscienza
che non si deve puntare ad
un turismo di massa spesso distruttore,
ma ad uno più compatibile
con l’ambiente. Così, oltre al turismo
a 5 stelle dell’Isla Margarita,
possiamo avere il turismo controllato
delle isole Los Roques, che sono
in un parco nazionale. Lì pratichiamo
l’ecoturismo, cercando lo
sviluppo locale, ma in un modo
compatibile con la natura».

IL PETROLIO:
RICCHEZZA O PROBLEMA?

«È vero – spiega la ministra – che
l’industria petrolifera è inquinante.
Ma da noi lo è stata soprattutto all’inizio
dello sfruttamento dei giacimenti,
mentre adesso la situazione
è sotto controllo. In ogni caso questo
ha significato che il paese ha accumulato
una serie di passivi ambientali,
i più eclatanti dei quali riguardano
il lago di Maracaibo».
Ad esempio, il suo fondo è coperto
di tubature. «Si parla – precisa
– di 14 mila chilometri di tubature
delle quali non sappiamo quante
siano attive e quante inattive. Ci sono
ovviamente continue filtrazioni
ed è una situazione che dura da 50
anni».

Altri problemi di perdite nell’ambiente
ci sono stati durante lo sciopero-
sabotaggio del settore petrolifero.
«Durante lo sciopero – racconta –
ci sono stati anche danneggiamenti
volontari agli impianti e alle strutture.
E poi l’irresponsabile abbandono
delle raffinerie da parte dei dirigenti,
senza prendere in considerazione
i protocolli di chiusura».

IN DIFESA DELL’ACQUA

Secondo la ministra, uno dei problemi
ambientali più seri riguarda
l’acqua, sia quella potabile che quella
di scarico. «Oggi – dice – abbiamo
una buona copertura di acqua potabile
nelle città, attorno al 90%,
mentre è più bassa nell’ambito rurale».
«Quanto alle acque di scarico, fino
al 1999 solo il 10% erano trattate
prima di essere riversate nel mare,
o in laghi e fiumi. Una percentuale
molto bassa, tale da compromettere
le future fonti di approvvigionamento.
Adesso stiamo trattando
il 15% delle acque di scarico,
ma stiamo facendo opere che ci
porteranno a trattare il 30% delle
acque entro il 2007. Avremo così triplicato
quello che la quarta repubblica
ha fatto in 40 anni».
Il Venezuela ha molte risorse idriche,
soprattutto nelle regioni
centrali e al Sud, ma presenta problemi
di approvvigionamento nelle
zone costiere e nella capitale.
«A Caracas – spiega – dobbiamo
far venire l’acqua da luoghi che distano
130 chilometri. Oltre a ciò, si
deve superare un dislivello importante
per raggiungere i 1.000 metri
d’altezza della capitale».
Un altro problema di Caracas sono
i rifiuti, che si accumulano soprattutto
attorno ai barrios più poveri.
«Per la prima volta – dice – abbiamo
fatto un piano nazionale per la
gestione dei rifiuti solidi e adesso
stiamo facendo piani regionali in accordo
con i municipi, perché questi
abbiano gli strumenti per operare
nelle condizioni adeguate».
«A breve e medio termine abbiamo
sviluppato un progetto con il
ministero della salute e quello dell’educazione,
per avviare un’educazione
al riciclaggio che purtroppo
da noi non esiste. Vogliamo iniziare
dai bambini, affinché apprendano
quella cultura del riciclaggio senza
la quale qualsiasi campagna è destinata
al fallimento».

DALL’AMAZZONIA
AL DELTA DELL’ORINOCO

Chiediamo se in Venezuela esista
un problema agricolo legato all’impoverimento
o alla perdita della terra
produttiva.

«Fortunatamente non abbiamo
ancora un problema di desertificazione,
ma la minaccia esiste. Per
questo, assieme al ministero dell’agricoltura
e della terra, cerchiamo
di diffondere una coscienza nell’uso
dei concimi chimici. Vogliamo
sviluppare un’agricoltura più sostenibile,
rompendo con i paradigmi
degli agronomi, o almeno di una
parte di essi. Adesso infatti stiamo
cambiando alcuni tecnici del ministero
perché, in conseguenza del lavoro
fatto in passato, ora ci sono fiumi
contaminati con pesticidi e problemi
di malattie croniche correlate
all’inquinamento».
In Venezuela ci sono ancora molte
foreste, soprattutto al Sud, nella
zona amazzonica. Dove purtroppo
si presenta la questione della deforestazione,
che la ministra non nega:
«Il problema esiste ed è dovuto
a quelle stesse attività illegali che
causano la deforestazione nella regione
amazzonica del Brasile. Ma –
sottolinea con orgoglio la ministra –
circa il 60% del nostro territorio è
tutelato: molto probabilmente siamo
il paese al mondo con più aree
protette, almeno in percentuale. Ci
sono parchi forestali, riserve di flora
e fauna, aree idriche. Di conseguenza,
abbiamo una buona fetta
del paese che è direttamente sotto
la tutela di questo ministero o degli
istituti ad esso sottoposti».
Chiediamo se sia l’Amazzonia la
zona con maggiore biodiversità.
«Siamo – spiega – nel gruppo dei 15
paesi con più diversità biologica:
questo ci dà una grossa potenzialità
per il futuro ed anche una grossa responsabilità».
Oltre all’Amazzonia, c’è il delta
dell’Orinoco: «È una zona bellissima.
Quando l’ho sorvolata sono rimasta
impressionata perché è ancora
incontaminato, anche lì c’è un livello
di bioversità importante, come
nelle zone dei Kariñas, dei Pemón e
di altre etnie».

POPOLI INDIGENI:
LA TERRA E NON SOLO

Nella «Costituzione della Repubblica
bolivariana del Venezuela» i
popoli indigeni hanno uno spazio
tutto per loro: 8 articoli nell’ambito
del titolo III, capitolo VIII, esattamente
prima degli articoli riguardanti
i «diritti ambientali».
«C’è – osserva la dottoressa Osorio
– una stretta relazione tra ambiente
e popoli indigeni. Perché
quando si proteggono i diritti degli
indigeni si protegge anche il loro
modo di vivere, strettamente legato
alla terra, che è madre, anzi pachamama».
La ministra si alza per indicarci su
una cartina del Venezuela dove sono
localizzate le etnie. «Ci sono circa
30 diversi gruppi indigeni, ma la
popolazione complessiva rimasta è
esigua: più o meno 500 mila persone. Oltre alla Costituzione, c’è la
legge di demarcazione del territorio
e delle comunità indigene, che riconosce
la protezione degli indigeni
e gli assegna la titolarità collettiva
della terra».

Facciamo notare che anche nel
confinante Brasile gli indigeni sono
nella Costituzione e anche lì si parla
da tempo della demarcazione delle
loro terre. Ma tra il dire e il fare
c’è, come sempre, molta distanza…
«Noi stiamo iniziando il processo
di demarcazione delle terre in 8 stati
e in ogni stato c’è una commissione
composta per metà da inviati statali
e per metà da indigeni. In Venezuela
esistono già delle
esperienze di autodemarcazione; adesso
le vogliamo legittimare».
Domandiamo alla ministra come
hanno reagito i latifondisti. «Per ora
il problema è stato minimo. In una
regione una comunità indigena
ha invaso alcuni terreni e i latifondisti
della zona hanno cercato la
mediazione statale: o il risarcimento
o la restituzione delle terre».
«Ho insistito con i miei collaboratori
affinché intensifichino gli
scambi con gli indigeni. Secondo
me, sono molto arricchenti, perché
essi hanno un rapporto particolare
con la natura, nonostante si siano
un po’ occidentalizzati».
L’articolo 186 della
Costituzione bolivariana
prevede che
nell’assemblea nazionale
(potere legislativo)
ci siano
3 deputati dei popoli
indigeni, tra
l’altro eletti non
secondo i sistemi
nazionali ma rispettando
le loro
tradizioni e costumi.
«Adesso – precisa
la ministra – ci sono
due uomini e una
donna. La donna,
che è la seconda vicepresidente
dell’assemblea
nazionale, è
molto rispettata. Ha
60 anni e si chiama
Noelí Pocaterra».

PIÙ FORTE DELL’OSTRACISMO
E DELL’INTOLLERANZA

Chiediamo se ci sono problemi
con i media. «Fortunatamente – risponde
la ministra -, noi non siamo
un ministero da prima pagina, salvo
casi eccezionali come quando ci
furono perdite di petrolio. È un
vantaggio perché si lavora meglio.
Io posso camminare in centro da
sola, anche se poi tutti ti fermano,
chiedono, domandano, ti raccontano
i loro problemi».
Dunque, insistiamo, non avete
mai avuto problemi seri, come altri
ministeri… «Quando c’è stato il colpo
di stato l’11 aprile, ci vennero tagliate
l’acqua e la luce e poi chiesero
al direttore della sicurezza se qui
c’erano armi. Egli disse che c’erano
delle vecchie pistole chiuse in una
cassaforte. La polizia le prese, le mise
in bella mostra su un tavolo e davanti
alla stampa disse che noi stavamo
armando i circoli bolivariani…».
Chiediamo alla ministra se si senta
ottimista per il futuro del paese.
«Sì – risponde con un sorriso -, sono
ottimista. Pur nella consapevolezza
che è difficile, perché non è facile
cambiare un sistema di potere
detenuto da gruppi che hanno a
lungo governato il paese per i loro
interessi e attraverso la corruzione».
Si dice – obiettiamo – che voi abbiate
il governo ma non il potere.
«Io so solo – risponde tranquilla -,
che siamo sul cammino giusto».
Ma non è facile essere ministri in
un governo tanto contrastato come
quello di Hugo Chávez. Neppure
Ana Elisa Osorio è stata risparmiata
dalla campagna di intolleranza.
Ricorda l’ostracismo ricevuto da
una parte dei suoi amici medici e da
alcuni componenti della sua stessa
famiglia. «Ma nulla – racconta – a
confronto di quanto ha patito Maria
Cristina Iglesias, ministra dell’ambiente.
In un noto club privato
un gruppo di persone cominciò a
battere le pentole (cacerolas) impedendole
di celebrare la festa di laurea
della figlia».

Gli occhi della signora Osorio si
fanno lucidi. L’emozione suscitata
dal racconto vince le difese erette
dal ruolo istituzionale.
«Questo lavoro – dice la ministra
ricomponendosi – mi piace perché
l’oggetto di nostra competenza è
molto bello e interessante. Qui ho
imparato molte cose. Insomma, per
me questo ministero è gratificante».
Ministra, lei ha due figli. Che dicono
di lei e del suo lavoro? «Sono
orgogliosi. Dicono che hanno una
mamma molto valida. Indipendentemente
da quanto tempo
io rimarrò ministra».

2 / JORGE GIORDANI, MINISTRO DELLA PIANIFICAZIONE
PER APPROSSIMARE LA REALTÀ ALL’UTOPIA

In un paese con l’80 per cento di popolazione povera,
la sfida è trovare un modello economico che permetta
di costruire una società in cui giustizia ed inclusione siano una priorità.

Caracas. Dalla grande vetrata
del soggiorno la panoramica
è di quelle che non si scordano.
Sul fondovalle si stagliano nel
cielo i grattacieli della capitale,
mentre tutt’attorno si apre una costellazione
di barrios.
«Non occorre essere sociologi per
capire che in questo paese ci sono
ancora le classi sociali, eh?», ci dice
con tono scherzoso Jorge Giordani,
ministro del governo Chávez e padrone
di casa.
Giordani è un distinto signore di
63 anni, alto e magro, con una barbetta
bianca e grandi occhiali da
professore. È il massimo responsabile
del ministero della pianificazione
e sviluppo dal 2 febbraio
1999, con una interruzione (dolorosa,
tanto che egli non vuole parlarne)
di circa un anno dopo il fallito
golpe dell’aprile 2002.

IL PROFESSORE
E IL COMANDANTE

Sciorinando un perfetto italiano,
il ministro racconta la storia della
sua famiglia. Il padre era nato a Sesto,
un paese vicino ad Imola. Poi
negli anni ’20, si era spostato a Bologna.
Infine, a causa del fascismo,
era uscito dall’Italia e si era rifugiato
in Francia. La sua avventura umana
era continuata in Spagna, come
combattente volontario nella
brigata Garibaldi. Qui aveva conosciuto
sua moglie e con lei, con la salita
al potere del generale Franco, si
erano spostati in Francia e poi a
Santo Domingo.

«Io – racconta il ministro – sono
nato nell’isola, ma non ho ricordi di
quel periodo perché prestissimo ci
trasferimmo a Caracas. In pratica,
non ho conosciuto altro paese se
non il Venezuela, finché non sono
andato in Italia a studiare all’Università
di Bologna, dove nel 1964 mi
sono laureato in ingegneria elettronica.
Quando sono tornato, ho cominciato
a lavorare. Prima alla compagnia
dei telefoni, poi come professore
all’Università centrale».
All’inizio degli anni ’90, con un
gruppo di colleghi, il professor
Giordani inizia a lavorare attorno
ad una proposta politico-economica
alternativa. Nel febbraio del
1992, il comandante Hugo Chávez
Frias prende parte ad una ribellione
contro il presidente Carlos Andrés
Pérez e viene incarcerato. Dalla
prigione chiede di incontrare il
gruppo di professori universitari
per fargli conoscere il contenuto
della loro proposta.
Racconta Giordani: «Io ho conosciuto
il presidente il 26 marzo
1993, quando con altre persone andai
nel luogo dove era detenuto.
Prima di uscire, Chávez si rivolse a
me per chiedermi se potevo diventare
il suo tutore nella tesi di laurea
che stava scrivendo. Da quel momento
iniziò il mio decennale rapporto
con lui».

PER USCIRE
DAL LABIRINTO

Dalla collaborazione tra Giordani
e il comandante Chávez esce
l’«Agenda alternativa bolivariana»,
una proposta politico-economica
per il paese.
Nel frattempo, il «Movimento
bolivariano rivoluzionario» fondato
da Chávez viene sostituito dal
«Movimento quinta repubblica»,
che si presenta alle elezioni del dicembre
1998 vincendole. Il 2 febbraio
1999 si insedia il governo di
Hugo Chávez.

«Chávez mi domandò – racconta
il ministro – se potevo continuare ad
aiutarlo e così mi affidò il ministero
della pianificazione e sviluppo».
Al dicastero Giordani può iniziare
ad applicare il piano a lungo studiato,
«per – come dice – far uscire
il paese dal labirinto».
Il ministro distende davanti a noi,
sul tavolo del soggiorno, una grande
mappa a colori che porta il titolo
di Líneas generales del Plan de desarrollo
económico y social de la Nación
2001-2007. È quel «Piano
pluriennale di sviluppo economico
e sociale», di cui va tanto fiero: «Il
lavoro di una vita», dice con voce
pacata.

PETROLIO AVVELENATO
(E SOVVERSIVO)

In Venezuela pianificazione e sviluppo
non possono coniugarsi senza
il petrolio, di cui il paese è uno
dei massimi produttori ed esportatori
al mondo.

L’«oro nero» viene scoperto alla
fine dell’Ottocento, ma lo sfruttamento
commerciale vero e proprio
ha inizio nel 1914. Da allora la sua
importanza è un crescendo continuo
fino a surclassare tutte le altre
produzioni, ad iniziare da quelle agricole.
Nel 1976 il comparto petrolifero
viene nazionalizzato e affidato ad una
compagnia pubblica denominata
Petróleos de Venezuela s.a. (Pdvsa,
Pedevesa nel linguaggio comune),
che ben presto si tramuta in
una riserva di caccia per un ristretto
gruppo di politici e privilegiati.
Diventa «uno stato nello stato», con
una capacità finanziaria straordinaria
e senza controlli pubblici.
«La politica di Pedevesa – spiega
il ministro – era quella di produrre
il più possibile, indipendentemente
dalle quote fissate dall’Opec. Noi
abbiamo cambiato registro. Quando
siamo arrivati, nel 1999, il prezzo
del petrolio era un po’ sotto ai 10
dollari al barile. Oggi, il petrolio venezuelano
viaggia attorno ai 24-27
dollari al barile».

Ma, si chiede Giordani, quanti
anni durerà ancora la rendita petrolifera?
Forse 20, forse 30, forse
anche 40 anni.

«Il modello basato sul petrolio –
spiega il ministro – è in crisi già da
tempo. In Venezuela abbiamo avuto
questa specie di latte materno
che è il petrolio. Ma i suoi benefici
non sono mai stati per tutti, essendo
sempre stati distribuiti in modo
clientelare: ai commercianti, ai banchieri,
agli imprenditori, escludendo
l’80 per cento della popolazione
venezuelana».

L’interesse del governo Chávez
per la compagnia petrolifera pubblica
non piace. Per difendere la posizione
acquisita il folto gruppo dirigente
di Pedevesa si schiera allora
a fianco dell’opposizione. Nel novembre
2002 si producevano in Venezuela
3 milioni e 383 mila barili
di petrolio al giorno. A causa dello
sciopero del settore nel gennaio
2003 la produzione crolla a 272 mila
barili, fino quasi ad azzerarsi nelle
settimane successive.
Considerando che il petrolio genera
circa la metà delle entrate statali
e l’80-90% delle divise estere, le
conseguenze della protesta sono facilmente
immaginabili.

Giordani non usa mezzi termini:
«L’azione attuata da Pedevesa non
ha precedenti nella storia. Un sabotaggio
pianificato che mirava ad una
destabilizzazione politica. I dirigenti
si sono trasformati in agenti
politici al soldo dell’opposizione.
Ma non è andata come previsto. In
4 anni di governo noi non siamo
mai potuti entrare in Pedevesa. Era
un buco nero al cui interno non si
sapeva cosa succedesse».
«Con le contromisure prese in seguito
al loro sabotaggio, ora finalmente
si intravvede uno spiraglio di
luce, come Diogene con la lanterna».
Obiettiamo che quello di Pedevesa
sarà anche stato un autogol, ma
la perdita per il paese è stata enorme.
«Loro cercavano di fare un
goal, senza considerare l’altra squadra.
Pensavano: qui non c’è nessuno,
vinciamo facile. In tre giorni siamo
al potere. È stato il secondo fiasco:
prima il fallimento del colpo di
stato, poi quello del sabotaggio».
«Hanno perso due round, ma
verrà il terzo. È una catena. Questo
match durerà 15-20 round, come
quelli combattuti da Primo Caera.
Siamo solo all’inizio».
Allora ci toccherà venire qui
un’altra volta? «Più di una – risponde
con un sorriso -. Questo è un
processo a lunga scadenza, come avevamo
previsto. Per fortuna, loro
non sono ancora organizzati a livello
nazionale, non hanno una squadra,
ma possono recuperare».
«Loro» per il ministro Giordani
sono le famiglie che costituiscono la
ristretta oligarchia venezuelana. Si
calcola che in 40 anni essa abbia accumulato
circa 120 miliardi di dollari
all’estero, cioè 5-6 volte il debito
estero del Venezuela.
«E non è stata – precisa Giordani
– un’accumulazione legale. È stato
un trasferimento illegale di risorse
pubbliche in mani private. Denaro
sottratto alla collettività venezuelana».
«Bisogna sempre ricordare che ci
troviamo davanti ad un grande potere
economico. Queste persone
hanno investito enormi quantità di
denaro negli Stati Uniti e in Europa.
Hanno quindi una grande capacità
di azione e di influenza».
Il golpe e il boicotaggio interno
sono stati colpi pesantissimi per le
casse dello stato… «Sono stati – conferma
Giordani – due missili contro
il Venezuela. Ma abbiamo potuto
resistere perché avevamo accumulato
delle riserve finanziarie che
hanno tamponato le falle. Certo,
però, non avremmo la possibilità di
sopportare un altro colpo che costi
più di 4-5 miliardi di dollari».
Ministro, sta dicendo che non è finita?
«Credo che stiano preparando
qualcos’altro. Hanno grandi disponibilità
e una grande perseveranza.
Per questo dico che abbiamo
combattuto (e vinto) solo due
round».

SE L’ECONOMIA
PRECEDE LA SOCIETÀ

Cos’è il Venezuela oggi? «Questa
– risponde – è una bella domanda.
Ora siamo in un processo di transizione,
una vera transizione gramsciana,
nel senso che il vecchio non
è ancora morto e il nuovo non è ancora
nato».

Se abbiamo ben compreso, il vecchio
è dato da un sistema dove l’economia
precede la società. «Il vecchio – continua Giordani – è una politica
economica di esclusione, che
tiene ai margini e in condizioni di
povertà l’80% della popolazione
venezuelana».

Quello che «la rivoluzione bolivariana» propone è un modello
produttivo intermedio che non si
basi solo sul petrolio, ma si articoli
su diversi settori; un modello che
promuova una crescita endogena,
ma valida anche a livello latino-americano.
«L’obiettivo – spiega il ministro –
è un modello di sviluppo economico
per i prossimi decenni che porti
alla creazione di una società di giustizia
ed inclusione. Il contrario di
quella società escludente avuta fino
ad oggi».

Facciamo notare che un progetto
tanto ambizioso non si instaurerà in
poco tempo. «È vero – ammette
Giordani -: ci vorrà almeno una generazione.
Ma almeno noi abbiamo
già stabilito le regole formali, scritte
nella nostra Costituzione».
Recita l’articolo 299 della carta
costituzionale: «Lo stato, congiuntamente
con l’iniziativa privata,
promuoverà lo sviluppo armonico
dell’economia nazionale».

L’OTTIMISMO
DELLA VOLONTÀ E…

Chiediamo al ministro se, dopo
tutti i drammatici eventi degli ultimi
due anni, riesca a vedere sviluppi
positivi per il paese.
«La prima cosa positiva è che la
gente sta imparando ad organizzarsi:
questa è un’assicurazione sulla
vita per le prossime generazioni.
Occorre una solida organizzazione
popolare che difenda gli interessi
della gente. Occorre creare una
consapevolezza diffusa. Di questa
presa di coscienza si vede per ora
appena un germe, una timida nascita.
Ci vorranno almeno 20 anni,
prima che sia una conquista generalizzata…».
Nel frattempo, obiettiamo, in Venezuela
la vita continua con problemi
quotidiani di non poco conto…
«Ma – risponde il ministro – in
questo paese ci sono ancora molte
possibilità. Prima del petrolio, c’è la
gente: 24 milioni di abitanti. C’è lo
spazio fisico: il Venezuela è uno dei
pochi paesi al mondo dove la natura
ci ha dato il primario, il secondario,
il terziario, qui sono rappresentate
tutte le ere geologiche. Forse la
mano di Dio ha creato questa combinazione
di natura, ma allo stesso
tempo di miseria. In altre parole, le
risorse ci sono, la capacità anche.
Come ho spiegato prima, il problema
è trovare un modello economico
fattibile e adeguato per costruire
una società più giusta».
Forse il ministro Giordani è troppo
ottimista. C’è molta, forse troppa
utopia nel suo discorso.
Risponde con la tranquillità serafica
di uno studioso di lungo corso:
«Cito ancora il vostro grande Antonio
Gramsci, che diceva: bisogna agire
con l’ottimismo della volontà e
il pessimismo della ragione. Quella
che tocchiamo quotidianamente è
la realtà, ma i nostri sogni devono
esserci sempre perché la meta ultima
è l’utopia».

«Come – continua Giordani – cercare
di approssimare la realtà all’utopia:
questo è il sogno, l’obiettivo
della pianificazione che deve sì avere
i piedi nella realtà, ma con una
veduta strategica 100 anni più avanti».
«Se ti concentri sulle difficoltà del
momento perdi la visione generale
dei problemi, la prospettiva ampia.
In una parola, l’orizzonte».
Già, l’orizzonte. Ricordiamo al
ministro le lacrime silenziose della
dottoressa Osorio quando raccontava
dei problemi personali avuti in
quanto ministra nel governo Chávez.
«Non mi stupisco – dice Giordani
-. È successo anche a me. Durante
lo sciopero, ogni sera arrivavano
i vicini di tutta una vita (sono 32 anni
che abito in questa casa) a gridare
“Fuori assassino!”. Battevano le
pentole contro il cancello ed esponevano
cartelli di insulti. Ora io mi
chiedo: quale sarà il prossimo passo?
L’eliminazione fisica dell’avversario?
Se non c’è rispetto, come può
esserci convivenza?».

(FINE 3a. PUNTATA – CONTINUA)

Suore combattive…

ESISTIAMO!

Sì, esistiamo! Noi suore nella chiesa del popolo di Dio. Sempre si parla di vescovi
e sacerdoti per riferirsi alla chiesa, ma noi suore siamo la presenza di Gesù,
chiamate a costruire il suo progetto di fratellanza tra il popolo.
Viviamo nello stato di Sucre (1). Formiamo una comunità di comunità, diverse tra
loro, con differenti lavori e distinti luoghi. Siamo unite dall’amore per il popolo sucrense,
assieme al quale viviamo da molti anni, alcune da 30, altre da 25, altre ancora
da 15. Possiamo dire che siamo già terra della sua terra.

Siamo figlie dell’Oriente, da dove spunta ogni mattina il sole; anche per questo viviamo
ponendo attenzione alle luci che nascono nelle nostre realtà quotidiane.
Riconosciamo, appoggiamo e ammiriamo il progetto bolivariano capeggiato dal
fratello presidente Hugo Chávez Frias, che offre al popolo partecipazione e protagonismo
assieme alla coscienza di creare la storia che sogniamo.

Come chiesa e come sorelle noi ci sentiamo identificate con il progetto e ci dispiace
quando alcuni vescovi e sacerdoti bloccano e sminuiscono il momento storico
che stiamo vivendo (2). Non ci sentiamo rappresentate da essi.
Noi esistiamo! Per questo desideriamo eleggere i delegati della chiesa per i tavoli
di dialogo, come hanno deciso di fare il governo e l’opposizione. Desideriamo altresì
che i dialoghi di pace si tengano in uno scenario diverso da Caracas, troppo
segnata dalle rivalità. Suggeriamo la Guayana, come terra del futuro e come luogo
vitale che può aiutare a sboccare le nostre visioni e prospettive indirizzandoci ad
un dialogo tra eguali.

Dai nostri piccoli villaggi, dai nostri quartieri di periferia, stiamo creando tra la
gente piccoli spazi dove è possibile vivere in modo diverso, come vicini ed eguali.
Lavoriamo in comunità cristiane, gruppi di donne, cornoperative, piccoli centri comunitari
di educazione popolare, e sentiamo che oggi tutti stanno sperimentando
una nuova vitalità.

Sì, esistiamo! Con speranza. Appoggiamo il progetto bolivariano e desideriamo
dargli energia e tempo perché fiorisca. È troppo chiedere che l’opposizione ci dia
tempo per costruire e crescere? Il popolo non ha forse aspettato molti anni per diventare
protagonista della storia?

Esistiamo assieme al popolo degli esclusi e ci organizziamo per manifestare la nostra
visione della vita, per godere, amare e sentirci compagne e compagni. Ascoltando
ogni settimana «Aló Presidente» (3), si rinnovano le nostre energie solidali
per continuare con amore e temperamento, le avventure della vita quotidiana.
Capiamo che questo momento storico è pieno di chiaroscuri, ma noi vogliamo rischiare,
sostenute da una speranza invisibile che ci dice: «Chi ci separerà dall’amore?
» (Rom 8,35).

Per tutto questo crediamo, affermiamo e gridiamo che esistiamo! E che vale la pena
di vivere in Venezuela: oggi, qui ed ora (4).

LE COMUNITÀ DI SUORE DI MERITO (ARAYA), SAN LORENZO (MONTES),
QUEBADRA DE LA NIÑA (PARIA), TUNAPUY (PARIA), EL PEÑON (CUMANÁ)

(1) Lo stato di Sucre si trova nella regione est del Venezuela, di fronte al Mar dei Caraibi.

(2) Durante il golpe dell’aprile 2002.

(3) È la trasmissione domenicale che ha come protagonista il presidente Chávez.

(4) Questa è la traduzione integrale del documento originale datato 16 novembre 2002.

Paolo Moiola