Non dimenticare i malati cronici

L’Organizzazione mondiale della sanità propone un nuovo obiettivo: ridurre la mortalità per malattie croniche, causa di morte in paesi ricchi e poveri.

Malattie cardiovascolari, ictus cerebrale, cancro, diabete, patologie che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisce responsabili di un’epidemia globale, per la quale non vi sono confini fra Nord e Sud del mondo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono infatti diffuse anche nei paesi poveri, con il loro carico di morte e disabilità, ostacolo alla vita e allo sviluppo economico di famiglie e stati.

IL NONO OBIETTIVO
Le malattie croniche, secondo un rapporto pubblicato dall’Oms all’inizio di ottobre del 2005, sono responsabili della morte prematura di 17 milioni di persone ogni anno. L’80% di questi decessi si verifica nei paesi a basso e medio reddito, dove fra l’altro le persone (sia donne sia uomini) si ammalano in età più giovane, con conseguenze maggiori sul lavoro e l’economia: il 41% di morti per malattie croniche in Sudafrica e il 35% in India hanno un’età fra i 35 e i 64 anni.
I dati presentati dall’Oms sono stati ricavati da 9 paesi (Brasile, Canada, Cina, Gran Bretagna, India, Nigeria, Pakistan, Russia, Tanzania), molti dei quali non considerabili ad alto reddito, ed è stimato anche l’impatto economico: le perdite collegate a queste morti premature e ai malati cronici dal 2005 al 2015 sarebbero intorno ai 558 miliardi di dollari in Cina, 236 in India e 303 in Russia.
L’Oms quindi, a 5 anni dalla dichiarazione degli Obiettivi di sviluppo del millennio, ha proposto di aggiungee uno nuovo, da ottenere entro il 2015: ridurre ogni anno del 2% il numero di morti per malattie croniche. Il raggiungimento di questa meta salverà la vita a 36 milioni di persone, metà delle quali non ancora settantenni.
L’Oms afferma anche che le conoscenze per arrivare al risultato sono a portata di mano: la strada della prevenzione e del trattamento è possibile perché le conoscenze scientifiche attualmente disponibili mettono a disposizione soluzioni efficaci e accessibili. Nel rapporto sono foiti anche consigli pratici sulla strada da seguire per ridurre la mortalità e migliorare la vita di milioni di persone: ogni paese, indipendentemente dal suo livello di risorse, ha la possibilità di ottenere miglioramenti significativi nella prevenzione e nel controllo delle malattie croniche.

RIDURRE IL RISCHIO
La maggior parte delle malattie croniche è causata da pochi fattori di rischio, conosciuti e prevenibili, su cui intervenire per bloccare questa epidemia «globale». I più importanti sono: una dieta poco sana, la mancanza di attività fisica e l’uso di tabacco, accanto anche a ipertensione e alta concentrazione di zuccheri e di colesterolo nel sangue.
L’Oms riporta come circa l’80% delle malattie cardiache, ictus cerebrale e diabete a insorgenza precoce e il 40% dei cancri possano essere prevenuti attraverso una dieta sana, un’attività fisica regolare ed evitando i prodotti del tabacco. È proprio sulla prevenzione che l’Oms chiama a raccolta gli sforzi delle nazioni: bastano alcune iniziative semplici ed economiche per arrivare a rapidi risultati.
Tutti sono coinvolti: governi, industria privata, società civile e comunità. Catherine le Galès-Camus, assistente alla direzione del settore dell’Oms che si occupa di malattie non trasmissibili e salute mentale (Noncommunicable Diseases and Mental Health), ha sottolineato che si conoscono i passi da fare di fronte a un numero crescente di persone che muoiono e soffrono molto a lungo per malattie croniche, ed è necessario agire, subito.

I NUMERI DELL’ASIA
Considerando solo i paesi del Sud-Est dell’Asia, questo nuovo obiettivo del millennio salverebbe otto milioni di vite nel decennio a venire. In questa parte del mondo, infatti, oltre la metà delle cause di morte rientra fra le patologie croniche e, secondo le previsioni, da qui al 2015 uccideranno 89 milioni di persone, di cui 60 nella sola India.
Ricerche pubblicate sulla rivista medica Lancet, che all’argomento ha dedicato una serie di articoli, riportano come in India le malattie croniche siano responsabili di oltre la metà dei decessi: le malattie cardiovascolari e il diabete sono diffuse in particolare nei centri urbani e il tabacco è la causa di una grande fetta di tutti i tumori. Nel paese, il consumo di tabacco, sia fumato sia da masticare, è comune soprattutto fra le persone povere e nelle regioni rurali; ancora, fattori di rischio quali l’ipertensione e i livelli alti di grassi nel sangue non vengono adeguatamente riconosciuti e trattati.
In Cina, i morti per malattie croniche raggiungono addirittura l’80% del totale e i maggiori protagonisti sono le patologie cardiovascolari e i cancri. I fattori di rischio sono diffusi: sono oltre 300 milioni gli uomini che fumano sigarette e 160 milioni gli ipertesi, la maggioranza dei quali senza terapia. Si pensa poi che sul suolo cinese sia prossima un’epidemia di obesità: nelle grandi città, oltre 2 bambini su dieci fra i 7 e i 17 anni sono già sovrappeso od obesi.
L’obesità, presente anche in paesi poveri, è il fattore di rischio maggiore per le malattie croniche e si stima sia collegata a due milioni e mezzo di morti ogni anno.

NON SI PUO’ ASPETTARE
Il carico di morte e malattia di queste patologie appare in salita. Gli Obiettivi di sviluppo del millennio stabiliti nel 2000 si sono occupati esplicitamente di tematiche sanitarie in tre settori: ridurre la mortalità infantile, migliorare la salute matea e ridue la mortalità, prevenire la diffusione di malattie infettive, come Hiv/Aids, malaria e altre.
Ora l’attenzione viene portata anche sulle malattie croniche, che sempre su Lancet, in un editoriale di accompagnamento alla serie di articoli dedicati al tema, vengono definite come una «epidemia dimenticata», nonostante rappresentino una consistente percentuale delle patologie che minacciano la salute dell’uomo.
Sempre l’editoriale, riporta infatti come, secondo le previsioni del 2005, il 30% dei morti previsti nel mondo sarebbero appannaggio di malattie cardiovascolari, il 13% di cancro, il 7% di malattie respiratorie croniche e il 2% di diabete. Se non si inizia subito a fare qualcosa, viene sottolineato sulla rivista, si rischia di perdere il guadagno ottenuto dagli interventi sulle malattie infettive, perché queste patologie prevenibili travolgeranno, ancora una volta, le persone meno in grado di proteggersi.
Non ci sono dunque scuse, secondo il mondo medico, per continuare a permettere che le malattie croniche uccidano milioni di persone ogni anno, quando ci sono a disposizione le conoscenze scientifiche per impedirlo.

Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




L’innocenza violentata

Questa è un’intervista «forte»: gli argomenti sono da brividi. Di più, sono dei pugni allo stomaco. Ma fanno pensare a un dramma sul quale è delittuoso chiudere gli occhi. Come ci dice don Fortunato Di Noto, la «strage degli innocenti» non ammette coscienze dormienti.

Lisa chiede alla maestra: «Chi è il pedofilo?». «Il pedofilo – risponde l’insegnante – è un uomo che sembra buono, un uomo che fa finta di essere un vostro amico, perché si mostra affettuoso e perché non vi fa sentire soli, ma che poi vi chiede di fare giochi strani insieme a lui». Entusiasta come tutti i bambini, Lisa replica: «Ma è bello giocare!». Paziente, la maestra riprende a spiegare: «Certamente. Quello dei pedofili, però, non è un gioco, è un modo diverso di cercarvi, di incontrarvi, di accarezzarvi, di toccarvi, di stare insieme, anche quando voi non volete, anche quando a voi non piace, è qualcosa che dopo tempo vi fa stare male. Il pedofilo non vuole che raccontate a nessuno cosa fate insieme e dice che deve essere un segreto».
Questo dialogo tra Lisa e la maestra è riportato in uno splendido libretto dal titolo Raccontarsi. Mamma, papà, maestra: cos’è la pedofilia?.
È una pubblicazione di «Meter», l’associazione fondata e diretta da don Fortunato Di Noto, il sacerdote conosciuto come «il prete anti-pedofilia». Con il padre siciliano, parroco ad Avola, cittadina della provincia di Siracusa, abbiamo lungamente conversato, proprio in coincidenza con un periodo che vede la pedofilia sulle pagine dei giornali e nei discorsi della gente comune.

NUMERI INCREDIBILI

Don Di Noto, potrebbe dare delle stime in merito al fenomeno degli abusi sui minori?
«La difficoltà è avere stime che rispecchino concretamente la realtà dell’abuso (inteso in senso lato); per non citare i bambini scomparsi, trafficati, venduti, “i bambini fantasma” (quelli nati ma che non hanno una identità anagrafica); i bambini del lavoro minorile; i bambini soldato o quelli vittime del traffico di organi. Questa condizione ci inquieta, ci vergogna, ci indigna ma soprattutto ci deve impegnare.
Comunque, se dovessimo definire la condizione dell’infanzia e della adolescenza in Italia e nel mondo attraverso i numeri, allora potremmo dire che “la strage degli innocenti continua”, un vero e proprio “rosario della sofferenza e del dolore”, un “olocausto silenzioso”, così silenzioso che imbavagliamo le grida assordanti di bambini e bambine che interpellano le nostre coscienze dormienti.
Se guardiamo – ad esempio – al dossier di Fides e al rapporto Unicef, possiamo scoprire numeri da brivido:
• 860 milioni di bambini nel mondo hanno un futuro drammatico con 211milioni di “bambini operai”; alla radice di molte forme di sfruttamento c’è il fatto che nei più poveri tra i paesi in via di sviluppo oltre 50 milioni di bambini non vengono nemmeno registrati alla nascita;
• in Asia, l’ultimo rapporto Unicef parla di 24 milioni di piccoli “clandestini” nella loro stessa terra, e per l’Africa subsahariana si sale a 28 milioni di nascite non registrate;
• ogni 9 ore un bambino di strada muore di fame, di stenti, di freddo: sono 120 milioni i bambini di strada, incontrati tra le fogne di Bucarest o ai margini delle strade del Brasile, o nella vasta distesa della terra Russa, o iraniana e irakena;
• sono almeno 300 mila i “piccoli soldati”;
• 11milioni di bambini muoiono di fame prima di aver compiuto 5 anni;
• il traffico di esseri umani è un problema su scala mondiale che coinvolge ogni anno almeno 1.200.000 minori al di sotto dei 18 anni;
• 4 milioni di bambine vengono comprate e vendute per matrimoni, prostituzione e schiavitù;
• 2 milioni di bambine hanno gli organi genitali mutilati;
• in Asia i due terzi dei bambini che non ricevono un’educazione sono bambine e la conseguenza è che poi saranno donne analfabete: oggi oltre 600 milioni;
• nella nostra civile Italia, circa 20 mila sono i baby accattoni di cui 8.000 solo nel Lazio, come ha messo in luce l’inchiesta parlamentare italiana presentata nella Giornata dell’infanzia.
E con numeri e statistiche potremmo continuare all’infinito».

IL RUOLO DI INTERNET:
BUSINESS E PERVERSIONI IN VETRINA

A parte il Sud Est asiatico, dove il fenomeno del mercato del sesso è particolarmente sviluppato, in Europa com’è la situazione?
«Non credo che il Sud Est asiatico abbia il primato del mercato del sesso. Ci sono anche la Russia, l’Ucraina, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Romania, la Moldavia; le strade delle nostre grandi città europee sono piene di minori indotti alla prostituzione. L’uomo ridotto a merce. E il concetto di merce racchiude, evidentemente, anche la scadenza, il deperimento. Merce scaduta che deve essere sempre sostituita: i bambini sono il prodotto nuovo di questa nuova, strategica, lucrosa forma di schiavitù. Merce in Europa e nel mondo che si può acquistare nelle grandi vetrine virtuali di internet, esposta come prodotto da megastore, ipermercati del sesso per tutti i tipi di perversione umana. Non dimenticherò mai, da un ultimo viaggio in un paese dell’est europeo, la proposta di acquisto che mi fecero di una bambina di meno di 10 anni!».

Le cause prime della situazione nascono dalla miseria?
«Ovviamente. Lo sfruttamento dell’infanzia ha le sue radici nell’estrema povertà, nell’ingiustizia sociale e nelle condizioni disumane in cui versano le famiglie, famiglie frantumate e “impazzite” per la fame e la totale precarietà di vita e di sussistenza primaria. I bambini sono spesso considerati come una possibile fonte di reddito supplementare per una famiglia: questa concezione incentiva lo sfruttamento sessuale e la pedofilia».

Lei ha accennato alle «vetrine» di internet. È indubbio che il mondo sia stato rivoluzionato dall’avvento di questo strumento. Ma è altrettanto vero che esso ha fatto da moltiplicatore di alcune problematiche, tra queste proprio lo sfruttamento dei minori. È così, padre?
«Inteet ha una sua valenza positiva per la comunicazione, ma permette di “accedere” con grande facilità a questo enorme mercato di sfruttamento sessuale sui minori (oltre che sugli adulti)».

Quanti minori, all’anno, diventano vittime dei pedofili?
«È vittima del pedofilo chi non è amato da nessuno. Possiamo stimare che ogni anno circa 2 milioni di bambini nel mondo sono adescati e indotti ad avere rapporti sessuali con adulti. Minori tra 0 (zero anni!) e 12 anni, è questa l’età preferita dai pedofili. Ma la stima è sempre per difetto e non rispecchia la realtà».

E quale sarebbe questa realtà?
«Dall’attento monitoraggio e dallo studio sociale dell’associazione Meter riguardo la pedofilia online risulta che milioni di pedofoto circolano ogni anno su internet; si stima che 700 mila filmini pedopoo siano stati prodotti negli ultimi 12 anni; 2 milioni di bambini sono coinvolti ogni anno, nel mondo, per produzione di materiale pedofilo; l’età varia da pochi mesi a 12 anni (uno studio di Max Taylor su 50 mila foto ha stabilito che l’età media è tra i 4 e gli 11 anni) (1); 70% sono di razza bianca; 20% (asiatici e africani); 10% (paesi arabi e mediorientali); il 78% femmine e il 22% maschi. Il data base dell’Interpol ha raccolto già 300 mila volti di bambini tratti dal materiale sequestrato nelle operazioni di polizia in Europa, soltanto poche centinaia sono stati individuati.
Il Rapporto 2005 dell’Associazione Meter offre un’ulteriore lettura sociale del fenomeno da cui emergono alcuni dati nuovi ed impressionanti:
• aumento di pedofili a viso aperto che abusano di bambini; anche di donne pedofile;
• l‘infantofilia – in gergo, bambini con il pannolino – che si riferisce alla preferenza di bambini in tenerissima età (da pochi giorni a 2 anni);
• aumento di bambini seviziati (in alcuni casi rapporti necrofili);
• violenze a bambini disabili;
• calendari e riviste edite e bollettini settimanali della comunità pedofila;
• aumento dei blog come canali di promozione e contatti pedofili.
Dall’attività di monitoraggio e segnalazione di siti pedofili e pedopoografici per l’anno 2005 risultano n. 9.044 segnalazioni di siti pedofili e pedopoografici. Nel dettaglio sono 3.672 i siti formalmente denunciati al compartimento della Polizia postale e delle comunicazioni di Catania (di cui 21 con riferimenti italiani e in particolare 4 community pedofile, con iscrizione obbligatoria e password segreta), che hanno coinvolto 17 regioni italiane e circa 1.000 indagati tra l’Italia e i paesi esteri (anche medio-orientali, arabi e africani).
Altri 5.342 sono i siti segnalati alle polizie europee e inteazionali (Fbi, Interpol, polizia spagnola, portoghese, australiana, gendarmeria francese…).
Le nazioni dove sono allocati i siti sono, per ordine d’importanza: Usa, Russia, Brasile, Spagna, Australia, Francia, Polonia, Iran, Iraq, Giappone, Italia, Germania, Inghilterra, Rep. Ceca, Romania, Nigeria, Israele».

In Italia, vi è differenza, a livello di stime, tra i minori vittime della pedofilia in ambito familiare e coloro che sono venduti e sfruttati dalle organizzazioni criminali etniche?
«I minori stranieri non accompagnati censiti (provenienti soprattutto da Romania, Albania, Marocco, come emerso durante il Convegno Internazionale “Contro ogni schiavitù” del 4 novembre 2005) sarebbero 20.000. Mentre ci sarebbero circa 7.000 minori stranieri sfruttati e a quanto pare resi schiavi dalle organizzazioni criminali.
Le Nazioni Unite dichiarano che milioni di esseri umani ogni anno sono vittime della tratta e il 30% sono bambini e bambine. Non ci sono dati certi della tratta e lo sfruttamento dalle organizzazioni nei paesi di origine (2). In questa direzione, in Europa sono state condotte diverse operazioni di repressione nei riguardi di organizzazioni che sfruttavano minori producendo materiale pedopoografico e rivendendo il prodotto (video, foto e in alcuni casi anche bambini) sull’asse tra Russia-Europa, Italia-Svizzera-Brasile, e oggi anche Africa-Europa-Paesi dell’Est».

In Italia, si dice che il 90% degli abusi avviene in famiglia. Lei concorda con questa affermazione, oppure il minore può essere vittima di persone estranee con la stessa probabilità?
«Non concordo affatto nella percentuale (90%) degli abusi in famiglia; un dato fuorviante della realtà stando ai dati in nostro possesso. Bisogna parlare di “ambito familiare”, intra ed extra. I dati ufficiali concordano nel dire che gli abusi sessuali, pur avvenendo nell’ambito familiare nel 30% dei casi, sono compiuti da conoscenti o partner occasionali, o da conviventi non stabili. Solo nel 19% circa (comunque non poco) le offese e i reati sono compiuti dal padre, dal nonno, dal cugino. Non dimentichiamo, anche se in percentuale minima, ma crescente, il 4-7% delle violenze o della detenzione di materiale pedopoografico è compiuto da donne.
Secondo i dati del Dac (Direzione anticrimine centrale della polizia), nella prima metà del 2005 le segnalazioni di reati sessuali nei confronti dei minori sono state 410 (407 delle quali risolte). Sul totale di 410, 334 segnalazioni hanno riguardato violenze sessuali, 45 atti sessuali con minorenni, 17 violenze sessuali di gruppo e 14 di corruzione di minorenne. Le bambine sono le più colpite. Nel 77,4% dei casi sono loro le vittime degli abusi, fin da piccolissime – dichiarano ancora i dati del Dac – a conferma di quanto detto precedentemente in merito alla produzione di materiale pedopoografico. La fascia di età più colpita è quella compresa tra 0 e 10 anni. Sul totale di 471 vittime di abusi sessuali sotto i 18 anni, 165 (il 35%) aveva da 0 a 10 anni, 164 (il 34,8%) tra gli 11 e i 14 anni il resto (142) tra i 15 e i 17 anni. Vittime italiane e straniere».

PEDOFILI ED
ORGANIZZAZIONI CRIMINALI

Toiamo alla domanda di partenza, chi sono i pedofili?
«Chi compie abuso sessuale nell’82,4% dei casi conosce la vittima. Il pedofilo infatti non desidera una relazione occasionale, ma duratura e continuativa; vuole riempire il vuoto d’amore del bambino, condizionandolo con i ricatti, le minacce e i sensi di colpa. Un fenomeno che vive nel sommerso e di forti coperture culturali, sociali e di normalizzazione».

Dietro al singolo pedofilo si nascondono organizzazioni criminali…
«Partiamo da un concreto esempio di proposta di vendita di prodotto finito pedofilo. Una denuncia di Meter riguardava un sito internet (costantemente aggiornato) chiamato Pedoland (la terra dei pedofili). La home-page iniziale dichiara: “Vendiamo soltanto materiale esclusivo – 800 immagini ‘hard core’ con adolescenti di 7-14 anni e in più 250 ore di video domestici di bambini poo, video di violenze e di giovanottini seducenti”.
Il costo dell’abbonamento mensile è di 10 dollari, l’abbonamento, all’atto della denuncia, era già stato accordato a 3.550 utenti, con un incremento nell’ultimo mese dell’88% degli utenti. Il guadagno in un solo mese era di 33.550 euro (65 milioni delle vecchie lire, che moltiplicati per 12 mesi equivalgono a circa 800 milioni). E questo per un solo portale, definibile di “pedo-businnes”.
Concretamente ciò evidenzia che la pedocriminalità, negli ultimi anni, si è strategicamente strutturata con diramazioni che potremmo così sintetizzare: al primo livello c’è una sorta di “cupola pedocriminale” che organizza, decide, investe per il procacciamento di bambini; al secondo, c’è invece una rete “intra ed extra familiare” (pedofilia artigianale) per la produzione e vendita al migliore offerente del materiale privato. In questo vasto contesto, esistono i “pedo-free” (i liberi procacciatori di materiale da offrire ai pedofili online) e per finire il “pedo-businnes” (piccole organizzazioni criminali composte da 3-10 persone) che sfruttano, producono e vendono prodotto».

Pedo-business, pedo-free, pedofilia artigianale: padre, è proprio un incredibile catalogo dell’orrore…
«Che debbo dirvi… Alla vasta comunità pedofila (criminale) appartengono una varietà di soggetti per preferenza di bambini (età, contesto sociale e razza) e altri per scelte o orientamenti di perversione: pseudo normali; benpensanti; acculturati e snob; amanti estatici; cultori bellezza infantile; amanti biancheria intima di bambini; amanti orge tra bambini; amanti della pornografia su bambini disabili; amanti dei piedi e gambe dei bambini; foto neonati e feticisti; sadici; necrofili… Ma ci sono anche gli stupidi occasionali (la maggior parte degli indagati online) che alimentano un mercato trasversale e criminale a danno dei bambini».

Utenti ignobili, ma pur sempre utenti. Come arrivare a chi tira le fila del business?
«È arrivato il momento di investire in risorse e uomini affinché si risalga alla fonte ovvero rintracciare i “produttori”, gli “smistatori”, gli “schiavisti” a livello transnazionale.
Una visione generale consentirebbe di seguire le tracce del denaro, e quindi verosimilmente i dirigenti, la “cupola” di questo “mercato”, che non è solo nel mondo virtuale. Pedopoografi che non sono pedofili, e sfruttatori che lucrano con i clienti che cercano “merce e carne bambina”».

Sembra incredibile, ma esistono anche organizzazioni di pedofilia… «culturale». Che sono?
«La pedofilia culturale è invece il tentativo di singole e “congreghe” (meglio definirle lobby) che propongono la normalizzazione del fenomeno dichiarando la liceità della pedofilia come orientamento, stato, categoria della scelta individuale, consapevole e determinata di un uomo o donna.
I pedofili si presentano come “amici e benefattori dei bambini”, dato che, secondo le loro convinzioni, i bambini consensualmente desiderano vivere relazioni affettive e sessuali con i “boylover” (gli amanti dei bambini). Una crescita, negli ultimi 10 anni che ha raggiunto una presenza massiccia e di potere di opinione che mette in difficoltà la più acuta delle menti razionali e anche del buon senso».

Insomma, la pedofilia culturale, pur poco conosciuta dall’opinione pubblica, è subdola e molto pericolosa. Lei ritiene che i pedofili che ne sostengono i contenuti siano diventati, nel corso degli ultimi anni, sempre più abili a proporre la relazione adulto-minore ad un bambino? Potrebbe fare qualche esempio?
«La lobby pedofila culturale ha adottato la strategia della “promozione dei loro diritti e della loro naturale tendenza di attrazione e affettiva e sessuale nei confronti dei bambini” come l’ultimo tassello della rivoluzione sessuale, come l’ultimo tabù da sconfiggere: “perché i bambini hanno il diritto a vivere la propria sessualità e possono decidere di viverla con chi vogliono”. Il corsivo è tratto dai siti di promozione e difesa della pedofilia.
E per fare tutto questo le strategie propagandistiche sono innumerevoli e subdole. Un libro prodotto dalle organizzazioni pedofile, intitolato Pedophilies, rivolgendosi ai genitori dice: “Cari genitori, se vi accorgete che vostro figlio ha una relazione con un pedofilo, prima di denunciare, chiedete se a vostro figlio o figlia gli è piaciuto”. Il sovvertimento e la provocazione raggiunge livelli “culturalmente e strategicamente elaborati” per sovvertire il concetto di “consenso” da parte dei minori. Evidentemente è bene che qualcuno dica, se ne ha il coraggio, se una relazione di un pedofilo con una bambina di 10 giorni (E non è una provocazione da parte mia) o anche di 5,6,7 anni ha la ragione della consapevolezza e della volontà da parte dei minori.
Una inedita analisi di un “portale madre” BL (boylovers), per dare concreti elementi, ha contato ben 1.071 portali suddivisi in n. 391 siti specificamente indirizzati alla pedocultura con riferimenti espliciti al pedosoft (amanti del nudo infantile) e n. 146 indirizzati alle “risorse di rete” (newsgroups, community, siti personali) per scambio informazioni e localizzazioni di situazioni “piacevolmente pedofile”, il restante sono una collezione di links che parlano di bambini (movie, letteratura, arte).
In sintesi le lobby pedofile promuovono:
• un senso di orgoglio;
• il sesso non è dannoso ai bambini;
• la campagna contro i pedofili deriva dalla preoccupazione dei genitori di perdere potere sui figli;
• i pedofili assicurano benessere e la crescita dei bambini; non bisogna criminalizzare un orientamento, una inclinazione, una preferenza sessuale, uno stato, una categoria; numerosi sono gli appelli alle istituzioni, ai governi, con la proposta di verosimili candidature alle elezioni politiche (anche se per provocazione).
La presenza di siti di “rivendicazione sociale del diritto dei pedofili” ha raggiunto livelli estremamente raffinati (non esiste nazione che non ha un gruppo di sostenitori della liceità della pedofilia e dei rapporti tra adulti e minori), una vera e propria rete di lobby stratificata e organizzata anche economicamente. Rivendicazioni che sono sfociate anche in comportamenti criminosi e bracci armati come la “Brigata pretoriana del Fronte di liberazione dei pedofili”, che aveva in progetto la eliminazione fisica degli oppositori della pedofilia, quali sacerdoti, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine».

E rispetto al turismo sessuale che cosa ci dice, padre?
«Dopo la tragedia dello tsunami, si leggeva tra le agenzie di stampa che i fruitori del turismo sessuale dichiaravano che “dopo lo tsunami non ci resta che la bella terra del Brasile”».

Questo significa che si fa poco per contrastarlo?
«Il turismo sessuale è un turismo da vergogna e certamente si fa ancora poco, molto poco per debellarlo con determinazione e forza. Nonostante innovative leggi contro il turismo sessuale è un fenomeno conosciuto, studiato, analizzato nei minimi dettagli, ma non contrastato alla radice. Il turismo sessuale è alimentato dalla povertà e dalla condizione sociale disastrata di milioni di uomini che non hanno “pane, carne e cibo”, così le bambine e i bambini di quelle nazioni diventano “carne fresca da assimilare e mangiare”. Chi fa turismo sessuale esprime tutta la miseria e la malvagità degli uomini; il turista sessuale è il non senso della vita.
Il turismo sessuale è la più becera risorsa economica per un paese povero. Un fenomeno che purtroppo cresce a dismisura: in alcune aree del mondo sta assumendo caratteristiche di massa. Un fenomeno difficilmente circoscrivibile per la sua continua trasformazione e perché dietro ad esso si concentrano enormi interessi economici».

Don Di Noto, lei crede che esistano forti interessi, e di che tipo, alla base della rete mondiale che alimenta il mercato dei minori e il loro sfruttamento?
«L’interesse più grande è, se posso dirlo in questi termini, il relativismo applicato all’uomo, considerato cosa e non persona. È un terrorismo culturale di involuzione della specie. È il più forte che domina sul piccolo e debole. È una cultura della violenza, del potere e del dominio, con una sola regia “il lupo” (non me ne voglia questo splendido animale) che mangia e divora».

Al di là delle metafore, si tratta sempre di domanda ed offerta…
«Il sistema economico ha delle regole: quando la domanda chiede al mercato di offrire la carne innocente dei bambini e l’offerta arriva, è il segnale di una umanità che ha un grosso bubbone e numerosi virus invasivi che distruggono la visione antropologica cui si dovrebbe guardare: quella di un’umanità legata alla conquista del bene per tutti, nessuno escluso».

La nostra società è sempre più dominata dalla cultura mercantilista, in cui l’avere conta più dell’essere, il profitto personale più del bene collettivo. Secondo lei, questo modo di pensare e vivere quanto è responsabile di fronte all’infanzia sfruttata?
«Totalmente responsabile. I numeri dell’infanzia abusata, violata, sfruttata, dimenticata dimostrano e confermano che della vita dei bambini non si può, non si deve fare mercato. I bambini e l’uomo in generale non è in vendita al migliore offerente».

CHIESA E PRETI PEDOFILI:
FERITE PROFONDE

Che cosa ne pensa degli scandali di pedofilia nell’ambito della chiesa cattolica, in particolare negli Stati Uniti?
«Vicende dolorose, ferite profonde che generano dolore e invocano misericordia da Dio per la chiesa e la società intera. Le parole di Giovanni Paolo II racchiudono il mio pensiero e pertanto la determinazione a continuare l’impegno per l’infanzia nella chiesa e nel mondo. Mi dispiace soltanto per l’anticlericalismo che ha generato nelle persone; un accanimento che non rende merito e giusto onore ai sacerdoti che svolgono in grazia e santità il loro ministero.
“In questo momento […] – scriveva Giovanni Paolo II -, in quanto sacerdoti, noi siamo personalmente scossi nel profondo dai peccati di alcuni nostri fratelli che hanno tradito la grazia ricevuta con l’Ordinazione, cedendo anche alle peggiori manifestazioni del mysterium iniquitatis che opera nel mondo. Sorgono così scandali gravi, con la conseguenza di gettare una pesante ombra di sospetto su tutti gli altri benemeriti sacerdoti, che svolgono il loro ministero con onestà e coerenza, e talora con eroica carità. Mentre la chiesa esprime la propria sollecitudine per le vittime e si sforza di rispondere secondo verità e giustizia ad ogni penosa situazione, noi tutti – coscienti dell’umana debolezza, ma fidando nella potenza sanatrice della grazia divina – siamo chiamati ad abbracciare il mysterium Crucis e ad impegnarci ulteriormente nella ricerca della santità"».

Quando ha iniziato ad occuparsi di questo fenomeno? C’è stato un motivo particolare che ha influito sulla sua scelta?
«Quindici anni fa, all’inizio del mio ministero sacerdotale, raccolsi i primi racconti di abusi di bambini. La passione per le nuove forme di tecnologia (internet) nel 1989 mi permisero di imbattermi per la prima volta in immagini pedopoografiche. Durante una meditazione di un passo dell’Esodo in cui si dice che “Dio vide la sofferenza del suo popolo e se ne prese cura”, ebbi l’intuizione, parafrasando il contenuto di quella straordinaria parola di Dio: anch’io “vedevo” le immagini e sentivo i racconti e il dolore dei bambini, per cui dovevo prendermene cura. E così feci, e continuo a fare con Meter. Non salverò tutti i bambini del mondo, ma so che qualcuno lo salverò. È già accaduto e vorrei che accadesse sempre e di frequente».

La «strage degli innocenti», ordinata a Betlemme da Erode, è un episodio biblico narrato nel vangelo secondo Matteo. Prendendo il governatore della Giudea a modello negativo, secondo lei Erode sta vincendo?
«Erode non vincerà mai. Erode sarà schiacciato dagli stessi bambini».

La sua è una certezza o una speranza?
«La mia vuole essere una profezia carica di speranza».

Nicoletta Bressan e Paolo Moiola




Perù. Contro i terroristi, contro l’ingiustizia

L’epoca di Sendero Luminoso è durata 20 anni; l’ingiustizia e la povertà fanno da sempre la storia del paese latinoamericano.
Gastón Garatea Yori, prete di Lima, lotta per riparare ai danni del terrorismo e per dare una vita dignitosa alla popolazione peruviana che ancora vive nella povertà.

Lima. In Perù è molto conosciuto perché presidente della Mesa de concertación para la lucha contra la pobreza, organismo contro la povertà istituito nel gennaio 2001. Padre Gastón Garatea Yori mi accoglie nel suo ufficio al 1155 di Avenida Benavides, a Miraflores, un distretto della capitale peruviana. Barba e capelli bianchi, padre Garatea, 66 anni, ha l’aspetto di una persona tranquilla e semplice. Sul tavolo del suo ufficio sono impilati i 9 volumi dell’Informe final, il rapporto finale della Comisión de la verdad y reconciliación, la commissione istituita per indagare su 20 anni (dal 1980 al 2000) di terrorismo e guerra civile in Perù. Padre Garatea è uno dei 12 membri di quella commissione, che nel paese tanto ha fatto discutere.

La guerra civile in Perù:
69.280 vittime

Presidente della Tavola nazionale per la lotta alla povertà, membro della Commissione per la verità e la riconciliazione: lei è una persona importante, padre…
«Non tanto – si scheisce -. Non credo. Lei mi conosce soltanto perché fa il giornalista».

Il rapporto finale della Commissione per la verità e la riconciliazione è stato presentato il 28 agosto 2003, dopo due anni di lavoro. Qual è il suo giudizio?
«Era stato previsto che questo lavoro sarebbe durato 6 o 7 anni, mentre poi è stato concluso in due. Abbiamo indagato il fenomeno del terrorismo in Perù e i motivi che lo hanno determinato. Abbiamo fornito una interpretazione storica. Siamo quindi arrivati a tutti i punti importanti, i punti chiave, e questo è giusto sottolinearlo.
Io credo che la Commissione per la verità sia stata una delle più grandi iniziative intraprese in Perù».

E che ci dice sulle persone che l’hanno composta?
«Un eccellente gruppo, costituito da persone molto competenti. Sì, non ho dubbi al riguardo: persone valide, indipendenti, disinteressate, votate alla sola ricerca della verità, persone animate da un grande spirito di gruppo. Avevamo molte diversità (di provenienza, radici ideologiche, professione), siamo però riusciti a lavorare in gruppo, con grande spirito comunitario».

Il vostro rapporto parla di 69.280 vittime.
«… ma forse sono di più. Significa circa due milioni di persone coinvolte».

Le vittime furono in grande maggioranza poveri, molti parlavano “quechua” ed erano semianalfabeti…
«Quando le persone morivano sulla sierra, il potere centrale e la gente continuavano la propria vita come se nulla fosse successo. Quando l’ondata di terrorismo giunse a Lima, allora sì che le cose vennero prese sul serio».

Il gruppo di “Sendero Luminoso” è stato ritenuto responsabile del 54% di quelle vittime. Su quali basi ideologiche si formò Sendero?
«Ebbe un fondamento comunista-marxista-leninista-maoista che si proponeva di aiutare il popolo peruviano. Ma fu un’esperienza fallimentare: si cercò di imporre un regime totalitario basato sulla dittatura del proletariato. Questa dittatura avrebbe dovuto essere conseguita alla maniera di Mao: attraverso una rivoluzione che doveva partire dalle campagne per arrivare in città. Per questo si cominciò con una sensibilizzazione dei contadini. Io credo che questo lavoro non venne fatto a dovere. Si iniziò, ma non fu tanto incisivo quanto fu forte la violenza e la violenza, una volta innescata, non si riuscì più a fermarla. E, come succede spesso, i movimenti che usano la violenza non hanno più tempo per pensare».

Il “Movimiento revolucionario Tupac Amaru”, meglio noto con l’acronimo Mrta, è stato ritenuto responsabile soltanto dell’1,5 per cento delle vittime. In che differirono da Sendero?
«L’Mrta ebbe una grande risonanza per l’assalto all’ambasciata del Giappone (dicembre 1996-aprile 1997), ma non ebbe mai la stessa forza di Sendero, né la stessa organizzazione. Nell’Mrta c’era più consapevolezza politica; assaltavano banche e a volte uccidevano, ma non si potevano paragonare alla forza distruttiva di Sendero».

Il rapporto della Commissione è molto duro anche nei riguardi delle forze armate e della polizia. Come reagì lo stato all’inizio della guerra sporca?
«Lo stato reagì in modo sbagliato, perché non capì l’impatto politico. Pensò piuttosto che si trattasse di delinquenti comuni e agì di conseguenza».

Alla guida del paese ci furono presidenti diversi…
«All’inizio ci fu Feando Belaunde (1980-1985), seguì Alan García (1985-1990) e infine Alberto Fujimori. La guerra ebbe varie tappe. Il biennio più duro fu tra il1983 e l’84. Lo stato non capiva chi stava affrontando e tutto quello che si faceva era uccidere e questo fu un gran errore. Quando Alan García diventò presidente affermò che il terrorismo andava combattuto con lo sviluppo e questa avrebbe potuto essere una buona tattica, molto interessante. Cominciarono a diminuire gli attentati. Però nel giugno 1986 ci fu una rivolta in tre carceri di Lima (Lurigancho, El Fronton e Santa Barbara). Il governo ordinò l’intervento delle forze armate e ci fu una mattanza di prigionieri. Così arrivammo all’anno ’89 con un altro picco di violenza. Poi iniziarono a venire alla luce molti fatti: la corruzione nell’esercito, i legami tra Sendero e il narcotraffico, le infiltrazioni nei corpi dello stato…».

Poi, nel 1990, arrivò Alberto Fujimori e con lui Vladimiro Montesinos…
«Fujimori si rese conto che il terrorismo era la cosa più tragica e si buttò in questa guerra terribile avvalendosi dell’intelligence. Assestò duri colpi al terrorismo, ma allo stesso tempo diffuse la corruzione che arrivò ai massimi livelli. Vladimiro Montesinos, capo dei servizi segreti, aveva in pugno Fujimori e Fujimori accettava tutto».

Anche esecuzioni, sparizioni, torture, stupri. Anche i tribunali militari e i giudici “sin rostro”, senza volto perché erano incappucciati…
«I tribunali militari emettevano giudizi sommari e i giudici senza volto definivano sentenze ancora prima di iniziare i processi. I militari non erano giudici, non avevano una preparazione in tema di giustizia. Insomma, il sistema non permetteva l’esercizio di una giustizia giusta».

Il capo di Sendero, Abimael Guzmán Reinoso, detto Presidente Gonzalo, è incarcerato dal settembre 1992. Lei lo ha mai incontrato?
«Sì, nella base navale, dove è rinchiusa la cupola delle due organizzazioni. Ci sono anche Feliciano, Miguel Rincón Rincón, Victor Polay Campos».

Come fu l’incontro con lui?
«Un incontro istituzionale. Si sarebbe potuto credere più impressionante, ma lui è un filosofo. Certo un filosofo di secondo piano, ha elaborato una concezione molto chiusa, ermetica. In questo senso, non discute con l’altro: racconta, ma non si mette in discussione, non si lascia interrogare, come sarebbe proprio del filosofo che vive l’angustia delle domande. Guzmán ritiene invece di avere i suoi concetti ben chiari, di tenere il pensiero saldamente nelle sue mani».

Quanti anni ha ora?
«Una settantina. Non è molto vecchio ma è malandato di salute, perché ha sulle spalle tanti anni di carcere duro. Inizialmente aveva il diritto di uscire dalla cella solo mezz’ora al giorno e c’erano anche dei giorni in cui non poteva uscire. È stato condannato ad un anno di isolamento totale che poi sono diventati quattro anni. C’è da meravigliarsi che non sia ancora più provato da questo regime carcerario molto duro. Non è un uomo denutrito, è ben vestito, è lucido, segue bene la conversazione. L’ho trovato realista, è consapevole che morirà in carcere. Non si fa illusioni».

Prova compassione nei confronti di quest’uomo su cui gravano responsabilità tanto pesanti?
«Certo, si prova pena, perché è un essere umano, ma è una pena relativa se si pensa alle cose che ha fatto».

Il governo di Toledo ha ostacolato il vostro lavoro?
«All’inizio c’è stata molta gente che era contro la Commissione per la verità; ci trattavano come tendenziosi, ci fu gente che espresse giudizi gratuiti, alcuni addirittura ci insultarono. Da parte del governo non siamo stati sottoposti ad alcun tipo di pressione. Altri invece sì, ci hanno tenuti sotto pressione, anche indagando sul passato di uno o di un altro membro della Commissione, cercando di metterci in cattiva luce».

Il partito aprista (Apra,”Alleanza popolare rivoluzionaria americana”) era al governo negli anni duri della guerra. Come ha guardato al vostro lavoro?
«L’Apra ci ha seguito molto. Temeva che attaccassimo la sua dirigenza, ma noi non avevamo nulla contro il partito, anche se è certo che abbia agito molto male in varie circostanze. Contro l’Apra avevamo argomenti etici, politici, sociali, ma nulla di penale».

Dopo due anni di lavoro nella Commissione, cosa sente dentro di sé?
«Molte cose. Non siamo gli stessi di quando abbiamo iniziato: quello che abbiamo visto e sentito; le lacrime e la pena di vedere questo paese dissanguarsi. Tutti noi siamo stati colpiti. Io sono diventato diabetico».

Uno degli imperativi della Commissione dice: “Un país que olvida su historia está condenado a repetirla”, un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla. Bello, ma la verità è stata raggiunta?
«Sì».

Solo la verità? E la giustizia?
«In un qualche modo anche la giustizia. La maggior parte dei senderisti è stata imprigionata e questa è già giustizia. Ci sono state detenzioni di militari ma all’appello ne mancano. Manca infine tutto quello che riguarda le riparazioni, tanto collettive quanto individuali».

Le riparazioni alle vittime non si sono viste. Ma anche le richieste di “cambi istituzionali” in vari ambiti (politici, giudiziari, educativi) sono rimaste lettera morta. Che ne pensa, padre?
«Io credo sia un errore grandissimo, un grandissimo errore politico. La Commissione chiedeva cambiamenti strutturali, riforme dello stato, un nuovo ordinamento. Invece i politici stanno insistendo con lo stesso sistema del passato. Per questo sono da ritenersi responsabili della povertà, del sottosviluppo, della schiavitù di molti peruviani. Spiace parlare così, perché uno ama il proprio paese e la propria gente, ma questo è ciò che sta accadendo».

È preoccupato?
«C’è timore. Io personalmente ho molta paura che una cosa simile a quella sofferta per 20 anni torni a fare la propria apparizione. Non dico che sarà domani, non dico che sarà per i motivi politici del passato, ma potrebbe succedere. Le tensioni potrebbero provenire dal settore minerario o contadino o anche da settori commerciali. C’è un’esigenza di libertà e di giustizia che sale dai settori poveri, ma è un’esigenza che non ha trovato ascolto nello stato».

Un paese
con 15 milioni di poveri

I settori poveri della società peruviana lei li conosce bene in qualità di presidente della “Tavola di concertazione per la lotta contro la povertà”. In primis, la Tavola è un’ organizzazione governativa?
«Non proprio: è un ibrido tra lo stato e la società civile. Qui lo stato è abituato a comandare, ma la società civile ha le sue istanze. Noi abbiamo cercato di iniziare una collaborazione: piani congiunti per lo sviluppo, affinché le persone possano dire la loro e possano segnalare le proprie priorità. Ad esempio, il poter mangiare: le grandi opere non sono importanti come la sopravvivenza. Questo è un lavoro lungo, ma è una grande scuola di partecipazione e di gestione del bene comune. I frutti, prima o poi si raccoglieranno».

Ma cosa significa essere povero oggi in Perù?
«Cominciamo col dire che la povertà non è una condizione solo economica. Il povero è quello che non ha opportunità e non ha opportunità perché è escluso dalla società, una società che ha obiettivi che non sono per i poveri. Sono per gente altra: un’altra razza, un’altra cultura, un’altra lingua, un altro modo di vestire, un altro colore della pelle, un’altra statura…».

Scusi un attimo… lei intende statura fisica?
«Certo, la statura degli indigeni si abbassa, mentre quella degli altri cresce. È impressionante vero?».

Impressionante.
«Sono due paesi mescolati con un’invasione della capitale da parte della provincia. Questo fenomeno ebbe inizio negli anni ‘40, aumentò negli anni ‘50-’60 fino ad arrivare alla presa di Lima negli anni ‘80, Lima fu veramente occupata dal resto del Perù. Le famiglie di Lima sono uscite dal centro della città per fuggire dall’invasione della provincia».

Dalla provincia… Si tratta, dunque, soprattutto di popolazione indigena?
«Indigena che parla quechua. Il dipartimento del Perù dove si parla più quechua è quello di Lima. Questa massa di poveri che giunge nella capitale arriva nelle peggiori condizioni, e con un bassissimo livello di istruzione».

La scuola pubblica è così scadente?
«Le scuole pubbliche, nella maggior parte dei casi, sono molto malandate. Per le buone scuole bisogna pagare. E così avviene per le università: molti possono accedervi, ma le migliori sono quelle private, che tengono corsi a pagamento. Ci sono buoni corsi anche in università pubbliche (alla San Marcos, ad esempio), ma vi sono università di provincia, cui tutti possono accedere, che non si dovrebbero neanche chiamare università. È un problema reale, perché già qui avviene una separazione: tra chi ha opportunità e chi non le ha. Così, se si deve assumere un funzionario, gli si chiede da quale università proviene e quindi non tutti hanno le stesse possibilità. Dobbiamo fare ancora molta strada, per poter offrire un’educazione di buona qualità a tutti i peruviani. E la stessa cosa vale per la sanità».

Quanti sono ora i poveri in Perù?
«Quindici milioni».

E in percentuale?
«Quasi il 60% e di questi il 25% si trova in una condizione di estrema povertà, cioè non ha i mezzi necessari per la sopravvivenza. Sono persone in continuo pericolo, senza difese organiche, persone che muoiono per una malattia che ad un altro causerebbe solo un malessere».

Anche a Lima ce ne sono?
«Anche a Lima ci sono persone in condizione di estrema povertà, ma non tanto come in altre zone. Nel dipartimento di Huancavelica i poveri sono praticamente la totalità. A Cajamarca, terra di miniere di oro, il 48% dei bambini si trova in condizioni di denutrizione cronica…».

Di miniere si sta discutendo molto in Perù in questi anni…
«Nel dipartimento di Puno c’è una miniera dove lavorano i bambini. In un’altra, altissima, la gente non è neppure attrezzata, non avendo scarpe adatte per camminare sul ghiaccio. E poi è un disastro dal punto di vista morale: la metà delle case sono postriboli e l’altra metà sono discoteche. Non c’è speranza di vita e non c’è gusto per la vita.
Nessuno dà importanza alla vita del povero e loro sono abituati a questo. La gente lavora, si ammala, invecchia in fretta e muore ancora giovane. Costa molto convincersi che pure i poveri hanno i loro diritti. Alcuni iniziano a rendersene conto, ma le grandi strutture no, e men che meno le compagnie minerarie. Non può essere che nei luoghi dei giacimenti minerari vi sia estrema povertà e nel contempo grandi ricchezze».

L’attività mineraria è importante per il paese?
«In Perù, l’agricoltura è sviluppata sulla zona costiera, ma se abbiamo il 10% coltivato è già molto, il resto è deserto; la nostra sierra invece produce soltanto patate. Abbiamo miniere, quelle sì: oggi il 53% delle entrate del paese proviene dalle risorse minerarie. Quelle d’oro sono le terze per importanza nel mondo. C’è una quantità d’oro che nemmeno i padroni sapevano di possedere».

Le miniere stanno in terre indigene…
«Il problema minerario è innanzitutto un problema indigeno. D’altra parte, la questione indigena non è stata compresa per secoli ed ora inizia ad esplodere. Dopo 500 anni, bisogna tentare di riparare le ingiustizie. Sarà molto difficile, ma bisogna provarci».

Qual è la percentuale di popolazione indigena in Perù, più o meno?
«La metà, un po’ meno che in Bolivia. È gente che nasce povera ed è condannata a morire povera, perché lo sviluppo non arriva fino alle zone in cui vivono».

Le popolazioni indigene della Bolivia e dell’Ecuador, stanche di subire ingiustizie, fanno sentire la loro voce in maniera sempre più forte e chiara…
«Bolivia, Ecuador e Perù sono i tre paesi dell’ insurrezione indigena. Adesso bisogna fare molta attenzione, affinché ci sia sì una liberazione dall’ oppressione della povertà, ma una liberazione incruenta guidata dalla giustizia».

L’oppressione della povertà
e l’economia neoliberista

Padre, lei parla di “liberazione dall’oppressione della povertà”. Il sistema economico neoliberista che domina attualmente il mondo moltiplica ingiustizie e diseguaglianze. La liberazione inizia dalla fine del neoliberismo?
«Il neoliberismo cerca di fare in modo che la gente consumi sempre di più. Io penso che dentro un sistema siffatto non ci siano possibilità di riscatto per i poveri. Purtroppo, è un sistema che ha invaso tutto il mondo, persino la Cina. Ma il trattamento dei lavoratori è pessimo tanto per i peruviani quanto per i cinesi».

Questo sistema economico morirà?
«Io credo che nessuno lo possa salvare e che per questo morirà».

Ma morirà senza lottare?
«No, cercherà di salvarsi, ma credo che non abbia futuro perché l’esigenza della maggioranza è molto forte. Io penso che la coscienza di diritti umani uguali per tutti è cresciuta molto. Come pure è cresciuta la consapevolezza che l’economia non può essere l’aspetto fondamentale della vita. A chi dice che l’economia deve dirigere tutto, io rispondo che è il sociale che deve dirigere l’economia e il sociale deve essere guidato da uno spirito umanitario».

Il credo neoliberista è stato esportato nel mondo dagli Stati Uniti. Come prete cattolico, cosa pensa di Bush, un presidente che ricorda spesso il suo essere cristiano…
«Bush è il rappresentante di un cristianesimo fondamentalista. Non è un uomo di riflessione cristiana, non ha una visione del mondo basata su veri principi del vangelo. Io quel cristianesimo non lo accetterò mai, perché credo che il cristianesimo vero sia mettersi nell’ottica di Gesù di Nazareth e cioè nell’ottica dei poveri per creare un mondo migliore, di uguaglianza e giustizia. Questo non è il mondo a cui pensa Bush».

Lui dice di agire per la libertà…
«Questa è una menzogna. Bisogna dirlo con molta chiarezza: è una menzogna. Penso però che occorra distinguere Bush dal popolo nordamericano, anche se io rimprovero ai nordamericani di averlo rieletto, questo sì. Possono essersi sbagliati una volta, ma due volte è molto. Comunque, penso che quel popolo abbia bontà e generosità come tutti i popoli del mondo. Che poi i nordamericani siano neoliberisti è un’altra cosa: è il sistema ad essere tale ed è un sistema che si sta deteriorando. Gli Stati Uniti sono un popolo senza giovani, tanto che non hanno persone per rimpiazzare gli attuali funzionari dello stato. Per questo nazionalizzano i latinoamericani che si recano là, almeno i più efficienti tra loro. Offrono buoni stipendi ed essi si fermano. Così si sta trasformando la società nordamericana: non sono più alti e biondi, ma bruni, parlano castigliano, hanno sangue latino».

Questa mi pare una buona cosa sia per l’America Latina che per il mondo!
«Non posso dirlo, perché non so se questi latinoamericani che diventano nordamericani manterranno la loro testa diversa o la cambieranno. Il neoliberismo è molto insinuante.
Ed il gusto di essere grandi e potenti… ubriaca».

“Ubriaca”… è interessante la sua affermazione…
«La cosa più terribile del mondo è il potere del denaro. Se si può guadagnare, meglio, ma ci sono dei limiti… Su questi temi l’Europa si sa destreggiare meglio perché l’Europa sa riflettere».

Ma l’Europa è divisa e Bush è contento che lo sia.
«Certo che è contento! Ma l’Europa ha gente che pensa, ha filosofi, ha grandi pensatori, è innegabile. La cultura europea è più profonda di quella nordamericana».

Secondo lei, è giusto pensare che l’America Latina si andrà a poco a poco unendo perché sente di avere radici comuni, perché capisce che unendosi può diventare più forte? È così o è soltanto un sogno?
«Credo che sia un sogno, perché le divisioni sono molto grandi. Sebbene i cileni vadano a Buenos Aires e gli argentini alla spiaggia di Viña del Mar, questo non significa nulla. Tra Colombia e Venezuela, dove peraltro vivono molti colombiani, succede lo stesso. Tra Cile e Bolivia c‘è una barriera storica importante e così pure tra Perù e Cile. Abbiamo cioè divisioni molto profonde e molto sostenute dagli Stati Uniti: agli Usa conviene un continente diviso».

D’accordo. Ma, secondo lei, i popoli indigeni del continente latinoamericano non potrebbero costituire l’elemento coagulante?
«I popoli indigeni sono numericamente consistenti in Perù, Bolivia ed Ecuador. Poi ci sono alcune popolazioni in zone marginali: in Argentina, in Brasile, in Cile (i mapuche). L’Argentina è una provincia italiana: basta guardare l’elenco del telefono. Buenos Aires è una città europea. Non ha nulla a che vedere con le radici indigene: è una città di gente immigrata, e così, sotto alcuni aspetti, anche Santiago del Cile. L’America bianca non è l’America Latina. L’altra America, quella scura di pelle, è differente».

Toledo: il razzismo (bianco)
contro un indio (di fabbrica)

Padre, il presidente uscente, Alejandro Toledo, è un indio!
«Un indio de fábrica».

Cosa significa?
«Toledo ha studiato negli Stati Uniti e sotto molti aspetti è un nordamericano dipinto da indio. Non ha una cultura tanto ispanica come quella che abbiamo qui a Lima. Lui ha una cultura più pratica, come i nordamericani».

Nel 2001 Toledo iniziò con molte aspettative da parte della maggioranza dei peruviani, che oggi, dopo 5 anni di governo, si dicono molto delusi di lui. Qual è il suo giudizio?
«Toledo ha fatto cose molto buone. Ha messo ordine all’economia. Ha migliorato le finanze del paese e dato impulso alla crescita: 4-5% su base annuale è molto.
La povertà è diminuita, anche se non come avremmo voluto, ma è diminuita. In provincia i posti di lavoro sono aumentati più che a Lima e questo è importante. Ci sono più medici, più maestri; che ci siano ancora molti problemi è certo, ma questo non significa che non stiamo progredendo.
Il presidente ha invece combinato disastri nel trattamento della cosa pubblica; ha maneggiato molte cose come se fossero una sua proprietà personale; ha utilizzato male il potere.
È stato detto che Toledo avrebbe dovuto cambiare due cose attorno a sé: partito e famiglia».

Include anche la moglie, Eliane Karp?
«Anche la moglie. La moglie non ha avuto il carisma che sarebbe stato necessario; non ha trattato bene il popolo peruviano. Lei dice: non sono latina, non ho alcuna caratteristica simile alla vostra, provengo da un’altra cultura, ho un’altra mentalità e continuo a conservare questa mentalità. È stata poco diplomatica ed è stata poco amata dal paese e questo ha avuto un riflesso negativo su Toledo. Toledo con un’altra moglie avrebbe potuto essere più amato».

E sulla corruzione che dice?
«Il tema della corruzione è un tema molto vasto e importante per il paese. Toledo non ha saputo combatterla. Non è aumentata, ma non è diminuita come invece stava diminuendo negli otto mesi di governo di Paniagua. Non si è andati avanti come si sarebbe dovuto».

Toledo è stato un presidente, un «indio de fábrica» come dice lei, che i mezzi di comunicazione peruviani hanno sempre pesantemente criticato. Secondo lei, hanno esagerato?
«Sono stati sicuramente troppo cattivi. Gli hanno trovato tutti i difetti possibili e non hanno sufficientemente sottolineato le buone qualità del suo governo. Non va dimenticato che i media peruviani sono stati molto compromessi con il fujimorismo, una mentalità questa che ha influenzato il loro giudizio. Infine, i padroni dei mezzi di comunicazione non hanno perdonato che Toledo, un indio, sia diventato presidente della repubblica».

Razzismo?
«Sì».

Razzismo bianco?
«Certo. Questo è un grosso problema, anche se non si può generalizzare. All’inizio sembrava una bella storia: la vicenda di un indio della sierra che aveva studiato negli Stati Uniti, che aveva avuto molte soddisfazioni professionali e che infine era tornato in Perù per mettersi al servizio del paese… Invece poi come è stato visto? Come un uomo che si è messo dove non avrebbe dovuto mettersi: queste sono cose che succedono in un paese razzista».

Razzismo o meno, Toledo è stato al centro di numerosi scandali personali…
«Ha sicuramente sbagliato tante cose. Ma io credo che il suo governo non sia stato tanto cattivo come si dice. Per sintetizzare, direi che è stato un governo buono, con molte cose negative».

Tra García, Flores e Humala

Dopo Toledo, è possibile che torni ad essere presidente Alan García?
«L’Apra è il principale partito peruviano, dal momento che tutti gli altri sono piccoli schieramenti. Alan García è un uomo molto abile, ma in questo momento non so se potrà essere il prossimo presidente del Perù».

Se non lui, chi allora?
«Paniagua sarebbe la scelta migliore, ma Paniagua non è un politico agguerrito, non è uno che si fa largo parlando male degli altri, è un simbolo di onestà».

E Ollanta Humala? Lo scrittore Mario Vargas Llosa ne ha scritto malissimo. Lei che pensa al riguardo?
«Il mio modo di vedere è diverso da quello di Vargas Llosa. La mia critica verso Ollanta Humala parte dal fatto che lui è un uomo con tutte le caratteristiche tipiche dei militari che si mettono in politica: autoritarismo, poca capacità di ascolto, interpretazione militaresca di ogni cosa».

Padre Garatea, per concludere, tenti una previsione , faccia un nome…
«Io ho paura che la destra torni a prendere il potere: la loro rappresentante, la signora Lourdes Flores, è una candidata molto forte. Però, nella politica peruviana tutto può succedere. Non è mai successo, nella nostra storia recente, che siamo stati capaci di annunciare il vincitore in anticipo».

(fine 2.a puntata – continua)

Paolo Moiola




A proposito di soia

Mi congratulo per il bel servizio su Roraima (M.C. 12/2005). Un complimento particolare a Silvia Zaccaria. Poche ore dopo aver letto l’articolo, ho visto e ascoltato Silvia su Rai3, nella rubrica Geo & Geo (21 dicembre 2005).
Silvia e la conduttrice hanno ricordato le figure di Chico Mendes, di cui ricorreva il 17° anniversario della morte, e di suor Dorothy Stang, la missionaria statunitense trucidata il 23/1/05 dai sicari legati al giro dei grandi latifondisti e allevatori di bestiame, che non tolleravano il suo impegno per lo sviluppo sostenibile. Alla fine della trasmissione hanno parlato del ruolo che le piantagioni di soia giocano nella scomparsa della foresta amazzonica.
È appunto sulla soia che volevo rivolgervi alcune domande.
1 – Ci si può definire «innamorati del Brasile», «solidali con i popoli dell’America Latina», «favorevoli a una politica di equità sociale nel rispetto degli ecosistemi», se si continua ad accettare dal mercato beni prodotti nel più totale dispregio dei diritti e doveri dell’uomo e delle leggi della natura? È sincera la condanna del neoliberismo e della sua arroganza, quando manca la determinazione a ribellarsi ai nuovi capricci e alla moda consumistica dell’ultima ora, quale è appunto la moda della soia?
2 – Non era già abbastanza alta la febbre dell’oro e altri metalli più o meno «preziosi»? Non era abbastanza la foresta sacrificata per far posto al caffè, cacao, canna da zucchero, tabacco, banana, ananas? C’era proprio bisogno di sacrificarne altra per far diventare il Brasile primo produttore mondiale di un legume che, rispetto a tanti altri, non è né più buono, né più sano, né più nutriente?
3 – Può la dietetica fare a pugni con l’etica? Il boom della soia (compresa quella geneticamente modificata) in Brasile e Argentina non è anche la conseguenza della superficialità, della frivolezza dei consumatori occidentali e comunque convertiti allo stile di vita occidentale?
Non è una vergogna che a queste persone importi così poco sapere che per produrre la «bistecca» di soia che trovano al ristorante o al supermercato, è stata rasa al suolo una foresta, è stato irrimediabilmente inquinato un lago, pregiudicato il futuro di una comunità indigena e tanti uomini, donne e bambini sono stati uccisi o ridotti in schiavitù?
Non è una vergogna consumare soia brasiliana e argentina, quando è arcinoto che delle famose proprietà «ipocolesterolemizzanti, ipoglicemizzanti, antiossidanti…» possedute dalla soia sono dotati anche altri legumi che crescono benissimo nei paesi del vecchio mondo e potrebbero essere prodotti in quantità molto maggiori (ceci, fagioli, lenticchie, piselli…), senza alcun bisogno di abbattere foreste pluviali, sradicare popolazioni indigene, prosciugare bacini naturali (o creare bacini artificiali che sommergono migliaia di chilometri quadrati di vegetazione), di costruire speciali vie di comunicazione transcontinentale, di avvalersi delle subdole tecniche dell’ingegneria genetica caldeggiate da Monsanto e C.?

Urbino

Stefania De Tigris




Quando disobbedire

Continua il viaggio alla scoperta della pace e della non violenza nelle più grandi religioni del mondo. Per il cristianesimo, tra le innumerevoli figure più rappresentative, abbiamo scelto don Lorenzo Milani. Profeta controcorrente, di fronte alle violenze che si commettono in guerra, pronunciò una frase rivoluzionaria: «L’obbedienza ormai non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni». Incompreso e osteggiato in vita, a quasi 40 anni dalla scomparsa, la sua voce è più attuale che mai

Da secoli, millenni, Dio è strattonato (quasi avesse braccia da tirare) di qua e di là per avallare questa o quella guerra fratricida.
Per questo abominio inventato dall’avidità e dall’aggressività umane si sono trovate sempre giustificazioni «nobili», fino ad arrivare alla manipolazione semantica odiea: «guerra preventiva», «guerra umanitaria», «guerra tecnologica», peace keeping che camuffa il war keeping, «intervento chirurgico», e così via. L’ipocrisia si spreca e il sangue scorre a fiumi.
«Beati i miti, perché erediteranno la terra… Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Il Sermone della montagna di Gesù, riportato in Matteo 5, 1-12, non lascia spazio a interpretazioni: tra le beatitudini non si trova alcuna esaltazione della violenza o della guerra.
Ma c’è chi, di queste, ha fatto un mestiere: soldati, mercenari, body-guards, contractors della sicurezza privata in paesi con situazioni belliche, terroristi al soldo di quella o quell’altra organizzazione. E i cappellani militari.

N el febbraio del 1965 fece scalpore la lettera scritta da un prete, don Lorenzo Milani (Firenze 1923-1967), quasi integralista nel suo costante e continuo riferirsi all’insegnamento del suo Maestro:
«Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi, però, avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.
E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente, anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre, se le giustificherete alla luce del vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se sono uomini che per le loro idee pagano di persona.
Certo, ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.
Non voglio in questa lettera riferirmi al vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.
Art. 11: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli… Art. 52: La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.
Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri, dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che, obbedendo, resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile?
Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?
Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta a volta detto la verità in faccia ai vostri “superiori“, sfidando la prigione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla…
Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l’ha fatto. Più maturo, condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?
Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi, secondo l’esempio e il comandamento del Signore, è “estraneo al comandamento cristiano dell’amore” allora non sapete di che Spirito siete! Che lingua parlate? Come potremo intendervi, se usate le parole senza pesarle? Se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!
Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di giustizia, libertà, verità.
Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, la verità e l’errore, la morte di un aggressore e quella della sua vittima.
Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano»2.

Q uanto siano al di là del tempo cronologico e sempre attuali le parole e le azioni del priore di Barbiana, questa lettera lo dimostra in modo piuttosto evidente. Alcuni passaggi, in particolare, ci possono far riflettere sulla presenza dei nostri militari in Iraq, dove svolgono azioni di guerra (come ha rivelato il video girato dalla troupe di Rai News 24 a Nassiriya e recentemente mandato in onda), in palese violazione dell’art.11 della nostra Costituzione. E, a meno di non voler credere che lo «scontro di civiltà», costruito a tavolino dalle multinazionali del petrolio e della guerra, abbia esteso i confini dell’Italia fino al Medio Oriente, in un discutibile concetto di «patria globalizzata»: qui l’amor patrio e la sicurezza nazionale c’entrano per nulla.
Come un tempo, la Patria è una nozione che allarga e restringe i propri confini: nel primo caso, quando si tratta di dar giustificazioni etico-politiche a guerre inique e lesive del diritto altrui; nel secondo, quando rifiuta di accogliere popolazioni devastate da queste stesse guerre o dalla povertà creata da uno «stile di vita» che non si vuole mettere in discussione.

Don Milani e la pace

Una pace che affonda solide radici in quei vangeli che Lorenzo, rampollo di una famiglia di ebrei laici, borghesi e coltissimi, ha imparato ad amare fino a scegliere la strada della conversione (era stato battezzato a 10 anni, per risparmiargli le discriminazioni razziali fasciste), del sacerdozio e della dedizione agli ultimi.
Ce ne parla il professor Bruno Becchi, storico e presidente del Centro di Studi milaniani di Vicchio Mugello, nonché autore del saggio Lassù a Barbiana, ieri e oggi 3.
«A don Lorenzo erano particolarmente cari alcuni temi, da lui ritenuti di importanza fondamentale, e che si possono sintetizzare in tre sostantivi: la chiesa, la scuola, la pace. Si tratta di tre grandi questioni che hanno un minimo comune denominatore: l’uomo con le sue prospettive di vita presente e futura.
La riflessione sul tema della pace si concentra soprattutto nell’ultimo segmento della breve esistenza del priore di Barbiana. Al riguardo c’è subito da sottolineare un aspetto che nell’immediato non può non apparire singolare: don Milani usa pochissimo il termine “pace” e praticamente mai l’espressione “educazione alla pace”. Il vocabolo “educazione” ha nel suo etimo il significato di “aiutare l’individuo a crescere intellettualmente e moralmente” E se per “morale” noi intendiamo il presupposto che presiede al comportamento dell’uomo in relazione al concetto di bene e di male, è chiaro che di fronte al dilemma “guerra-pace” un’educazione degna di essere considerata tale non potrà che indurre a scegliere la seconda delle due opzioni. “Educare alla pace” è dunque una sorta di ripetizione, una tautologia, usando un termine del lessico filosofico.
Un altro aspetto da sottolineare, parlando di don Milani e la pace, è che questa non assuma mai in lui il carattere di un concetto astratto, bensì quello di un fine da perseguire. Pertanto lavorare per la pace significa per il priore di Barbiana adoperarsi per individuare gli strumenti, affinché si possano creare le condizioni per un mondo senza conflitti. E ciò partendo dalla piena consapevolezza – per utilizzare le parole di don Milani – che le guerre sono il frutto non solo degli ordini di qualche ufficiale paranoico, ma anche dell’obbedienza di chi quegli ordini accetta passivamente».

In un brano della Lettera ai giudici si legge: «A Norimberga e a Gerusalemme sono stati condannati uomini che avevano obbedito. L’umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c’è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Buona parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell’una né nell’altra non sono che un’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’obbedienza cieca». È un passaggio forte…
«Sì, è un passaggio forte, ma di importanza fondamentale. Infatti la Risposta ai cappellani militari e la Lettera ai giudici – i due scritti in cui più organicamente don Milani affronta il problema della pace – sono documenti non tanto sull’obiezione di coscienza, quanto sull’obbedienza e sulla responsabilità individuale. Io non posso uccidere una persona perché me l’ha ordinato qualcuno, sia esso anche un superiore, e pensare al tempo stesso di sottrarmi al peso della responsabilità.
Ci sono studi importanti sul rapporto tra obbedienza e responsabilità: penso al Fromm di Fuga dalla libertà o alla Arendt de La banalità del male, per citare due nomi fra gli studiosi più significativi che si sono occupati del tema.
Ma torniamo a don Milani, per dire che il richiamo costante al primato della coscienza e al principio della responsabilità individuale assume in lui uno spiccato valore pacifista. Prima di compiere qualunque atto di rilevanza morale l’individuo deve sempre interrogare la propria coscienza e, nel caso di un credente, tener conto della legge di Dio. Ma affinché il richiamo alla responsabilità individuale e alla coscienza non finisca per rimanere un’indicazione puramente astratta, la persona deve essere in grado di rispondere in concreto a tale richiamo. In termini milaniani, l’individuo deve essere sovrano nelle proprie scelte. Ed ecco il ruolo fondamentale rivestito dalla scuola, quale strumento privilegiato – per i poveri, esclusivo – di educazione. È infatti soprattutto grazie ad essa che si potrà sviluppare nell’individuo la capacità di compiere scelte consapevoli.
Pertanto di fronte al binomio “guerra-pace” una persona, cosciente del potenziale di sofferenza e morte di cui la prima dispone, non potrà che optare per il secondo corno del dilemma. Riuscire ad emancipare uomini e donne dalla condizione di sudditi e farli diventare realmente sovrani significa fare di loro dei convinti assertori di un mondo di pace».
Attualmente siamo in un contesto di guerre inteazionali, definite umanitarie, di civiltà. È chiaro che non possiamo chiedere a don Lorenzo, morto nel 1967, che cosa pensi del conflitto in Iraq, ma qualche insegnamento possiamo desumerlo. Anche oggi ci sono i cappellani militari, e lo stesso Bush, che si definisce cristiano, ha dichiarato che questa guerra è nel nome di Dio…
«Premesso che non sarebbe storicamente corretto “far prendere posizione” su un problema specifico e attuale a una persona morta ormai quasi 40 anni fa, quindi in un contesto assai diverso, non possiamo non ricordare che don Milani sul problema della responsabilità in un contesto di guerra è stato di una chiarezza indiscutibile. Ha scritto nella Lettera ai giudici che chiunque contribuisca in qualche modo a un atto di guerra non potrà chiamarsi fuori rispetto alle responsabilità. A maggior ragione “il cristiano non potrà partecipare [ad un conflitto] nemmeno come cuciniere” perché anche in questo modo se ne farebbe promotore. Ma anche allargando il campo all’intero mondo cattolico, come non ricordare il capitolo 5° della costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano ii, significativamente intitolato “La promozione della pace e la comunità dei popoli”, o l’enciclica Pacem in terris di Giovanni xxiii. Questa, a mio avviso, mostra due importanti elementi: a) si rivolge non solo ai cristiani, ma “a tutti gli uomini di buona volontà”; b) afferma che “non esistono guerre giuste”. Non c’è dubbio che le tesi presenti nei documenti conciliari e in quello giovanneo siano ancor oggi di grande attualità».

Dunque, sembra di capire che, se i cattolici vogliono attenersi alle direttive emanate dalle encicliche papali, non possono che scegliere la pace e ripudiare la guerra.
«Certo. Storicamente dovremmo ricordare anche la definizione della prima guerra mondiale come “inutile strage” fatta da papa Benedetto xv. L’incompatibilità netta tra guerra e messaggio evangelico, ancor prima che nei documenti ecclesiastici, è presente ovviamente nelle scritture bibliche, sia vetero che neotestamentarie. Ma don Milani non si limita a questo, sostanzia le sue posizioni sul tema della pace anche di una componente civile, facendo esplicito riferimento naturalmente all’art. 11 della Costituzione italiana».

Sulla base di quanto fin qui sostenuto, verrebbe da aggiungere che l’Italia si trova in guerra contro l’Iraq nonostante la Costituzione lo vieti e, da paese che in più occasioni ha rivendicato le proprie radici cristiane, nonostante gli insegnamenti di Cristo e le encicliche papali.
«Direi di sì. Don Milani si spinse fino a proporre un nuovo e originale concetto di patria, in contrapposizione a quello storicamente consolidato, la cui difesa o velleità di espansione sono state fonte di inenarrabili sequele di lutti e sofferenze. Un concetto di natura trasversale, che pone confini tra diseredati e oppressi da una parte e privilegiati e oppressori dall’altra. Altro che principio di “esportazione della democrazia”».

Molti attualmente avvertono una sorta di involuzione rispetto ai decenni passati: gli stessi concetti di «patria» e di «eroe» sono stati rispolverati ad uso e consumo dei sostenitori delle «guerre umanitarie». Lei cosa ne pensa?
«Credo che si sia ritornati a un’idea di patria assai anacronistica rispetto alla visione di don Milani che, a 40 anni di distanza, mostra ancora tutta la sua lungimiranza».

Chi sono ora, secondo lei, gli eredi ideali di don Milani?
«Anche a questo riguardo, sarei molto cauto ad attribuire eredi a don Milani. Egli mi appare una figura che fuoriesce da qualunque catalogazione in ambiti più o meno ristretti. Molti sono coloro che, tra uomini di chiesa, di scuola, del mondo del lavoro, della società in genere, attraverso la lettura dei suoi scritti e lo studio del suo pensiero e della sua opera, hanno ricevuto qualcosa in eredità da don Lorenzo. A prescindere da “questioni di successione” o meno, se, proprio le devo fare qualche nome tra coloro che oggi si distinguono in molti campi che sono stati di interesse di don Milani, mi vengono in mente, così su due piedi, padre Alex Zanotelli, monsignor Luigi Bettazzi e il mio carissimo amico don Renzo Rossi, per 30 anni missionario nelle favelas del Brasile nel periodo della dittatura militare. In effetti, a guardarmi intorno, oggi, mi sembra di non vedee molte di persone carismatiche ed esemplari nel campo della politica o in quello sociale, spirituale o culturale in genere. Il panorama mi appare assai sconfortante, soprattutto ora che sono rimasto “orfano” del prof. Giorgio Spini, un maestro di storia, di fede, di vita. Parlando di panorama sconfortante, però, mi rendo conto di fare un torto a tutte quelle persone (sacerdoti, medici, insegnanti, gente comune), che in mezzo a inenarrabili difficoltà e grandissimi rischi hanno scelto di dedicarsi completamente agli altri in qualche landa sperduta del nostro pianeta. Persone alle quali, invece, va tutta la mia ammirazione».

Angela Lano




L’uomo protegga il pianeta

Il 20% della popolazione del Nord del mondo consuma l’86% delle risorse mondiali. Questo squilibrio non è una novità: non è la prima volta che viene sottolineato. Ma il legame fra uomo e ambiente, fra sfruttamento delle risorse e degrado degli ecosistemi naturali è oggetto di uno degli obiettivi del millennio, che getta un ponte fra la consapevolezza della situazione e l’assoluta necessità di passare all’azione.
I paesi ricchi hanno una bella responsabilità sulle spalle. Ai numeri appena citati si può aggiungere che il Nord del mondo è responsabile della produzione del 95% dei rifiuti tossici, nonché del 65% dei gas che contribuiscono all’effetto serra e all’aumento della temperatura della terra: un italiano, per fare un esempio, produce in media 455 chili di rifiuti ogni anno. Cambiare il corso delle cose, prima di tutto, richiede all’umanità intera la conoscenza del danno che sta arrecando all’ambiente, e quindi al suo stesso presente e futuro.

Regno vegetale e animale
Una prima meta è quindi far sì che ogni paese integri nella propria politica programmi di tutela dell’ambiente e di sfruttamento equilibrato delle risorse naturali che il pianeta offre. Basti pensare che, nel campo della pesca, il 70% delle riserve è sfruttato completamente o ipersfruttato, o ancora che il degrado del suolo coinvolge quasi 2 miliardi di ettari di terra, con ripercussioni sulla vita di un miliardo di persone.
Ancora, la superficie terrestre ricoperta da foreste sta riducendosi sempre più, nonostante gli alberi contribuiscano al sostentamento di 1,2 miliardi di soggetti che vivono in miseria e al 90% della biodiversità terrestre.
Se la perdita di parte del patrimonio in foreste appare inevitabile per lo sviluppo economico, vi è spesso una loro distruzione ingiustificata dal punto di vista sia economico sia ambientale. Ne è un esempio la denuncia di novembre 2005 di Global Witness, organizzazione ambientalista, su quanto accade in Myanmar: nello stato birmano del Kachin, al confine con la Cina, migliaia di operai stanno distruggendo una delle foreste più rigogliose e ad alta biodiversità al mondo; ogni 7 minuti 15 tonnellate di legname attraversano illegalmente il confine tra Myanmar e Cina, quantità cui si aggiunge quella che passa la frontiera legalmente.
In altri casi, accanto al taglio indiscriminato degli alberi, si aggiunge la capacità distruttiva del fuoco, come nello stato amazzonico dell’Acre (Brasile), dove gli incendi hanno imperversato per settimane nell’autunno del 2005.
Benché le foreste rappresentino una delle maggiori ricchezze dell’ecosistema, sono bastati 10 anni (fra il 1990 e il 2000), perché la superficie da loro ricoperta venisse ridotta di 940 mila chilometri quadrati, un’area grande quanto il Venezuela. Il motivo? La conversione del territorio boschivo in terreno agricolo o destinato ad altri usi.
Vi sono tuttavia alcuni segnali positivi: oltre il 13% del suolo terrestre, pari a 19 milioni di kmq, è area protetta, con un aumento di superficie del 15% dal 1994; minore fortuna ha invece il patrimonio marino, di cui al momento risulta protetto soltanto l’1%.
La responsabilità dell’uomo è grave anche sulla perdita della biodiversità, frutto di milioni di anni di evoluzione, accelerata di 50-100 volte rispetto a quanto accadrebbe in assenza del genere umano. A dicembre 2005, un gruppo di ricercatori della Alliance for Zero Extinction ha lanciato un allarme in proposito, segnalando ben 794 specie animali e vegetali a rischio di estinzione, se non verranno protette.

Calore e gas
Un altro punto cruciale nel rapporto fra uomo e ambiente è l’aumento della temperatura terrestre, cui le attività umane hanno contribuito. E a patire maggiormente il cambio climatico sono i paesi poveri, più dipendenti dal clima per le loro attività lavorative (agricoltura e pesca), oltre che con minori possibilità di contrastare tali cambi climatici.
Negli ultimi decenni, poi, l’utilizzo di combustibili fossili ha aumentato la produzione di anidride carbonica, che contribuisce all’innalzamento della temperatura. Ogni persona produce annualmente 6-7 milioni di tonnellate di CO2: 2 milioni di tonnellate sono assorbiti dall’oceano, 1,5-2,5 milioni dalle piante, il resto è rilasciato nell’atmosfera.
L’altra faccia della questione, con ricadute immediate sull’uomo, è rappresentata dall’utilizzo dei combustibili solidi (legno, sterco, carbone) nei paesi poveri. Il loro utilizzo domestico, ad es. per cucinare, provoca inquinamento degli ambienti chiusi, responsabile di oltre 1,6 milioni di morti, soprattutto bambini e donne. Nelle abitazioni si diffonderebbero i prodotti nocivi di combustione: per l’Organizzazione mondiale della sanità, il fumo causato dall’uso di combustibili solidi in casa è una delle quattro cause principali di morte e malattia nei paesi in via di sviluppo.
La rivista medica The Lancet ha riportato che l’esposizione per tutto il giorno delle donne a stufe e fornelli quadruplica loro il rischio di sviluppare malattie polmonari croniche ostruttive, con progressiva difficoltà nella respirazione; inoltre, pur essendo necessarie ancora ricerche, sono stati segnalati collegamenti anche tra inquinamento domestico e basso peso dei bambini alla nascita, mortalità infantile, cataratta e cancro.

Acqua disponibile
e sicura
Dimezzare entro il 2015 il numero di persone prive di accesso ad acqua sicura e di un sistema fognario che garantisca livelli igienici di base è il secondo traguardo delineato dal settimo obiettivo del millennio. La necessità di acqua pulita è sottolineata dalla diffusione di malattie e morte ove essa manca: nel 1990 la diarrea ha causato 3 milioni di morti, di cui l’85% bambini. Fra il 1990 e il 2002 circa 400 milioni di persone hanno ottenuto l’accesso all’acqua pulita, ma oltre un miliardo è ancora in attesa dell’acqua potabile, di cui il 42% nell’Africa subsahariana e il 22% nell’Asia dell’Est e nel Pacifico. Le situazioni peggiori si rilevano nelle zone rurali dell’Africa e nelle periferie povere delle città.
I progressi sul versante delle misure igieniche sono poi ancora più lenti: 2,6 miliardi di persone non hanno servizi fognari e sanitari adeguati; se le cose proseguono come è stato fra il 1990 e il 2002, questa cifra scenderà soltanto a 2,4 miliardi nel 2015. Le conseguenze della mancanza di acqua pulita e di fognature sono un numero di bambini uccisi dalla diarrea negli anni ‘90 superiore ai morti in tutti i conflitti armati dalla seconda guerra mondiale.
L’acqua è un bene prezioso, tanto da essere definita «oro blu» e diventare causa di conflitti fra popolazioni: eppure spesso è sprecata da chi ne ha in abbondanza. Se ne sono accorti anche alcuni bambini messicani, che proprio perché vivono costantemente con la paura, un giorno, di non avere più accesso al prezioso liquido, combattono contro gli sprechi. Hanno creato un gruppo chiamato Guardianes del Agua, per sensibilizzare la popolazione e stimolare un utilizzo razionale dell’oro blu. I guardiani dell’acqua, più di 5 mila bambini, si preoccupano di preservare questa risorsa naturale, cercando anche di favorire la formazione di una coscienza sociale su questo problema.

I quartieri poveri
La vita nei bassifondi è l’ultimo tema toccato dal settimo obiettivo. La rapida urbanizzazione dei paesi poveri ha portato circa un miliardo di persone a vivere nelle periferie degradate delle città, rappresentandone un terzo della popolazione totale. Fra il 1990 e il 2001 vi è stato un aumento del 28% degli abitanti dei bassifondi, pari a circa 200 milioni di persone arrivate nelle periferie povere, dove le condizioni di vita aumentano il rischio di malattia, morte e disgrazie.
Il 94% di loro si trova nei paesi poveri, ovvero in quelle regioni dove si è assistito a una rapida crescita della popolazione urbana senza un aumento delle possibilità di accoglienza da parte delle città stesse: ne conseguono scenari di povertà e privazioni fisiche e ambientali. Senza un intervento significativo per migliorare l’accesso all’acqua, il sistema fognario e l’alloggio, nei prossimi 15 anni, il numero di persone che vive in queste drammatiche condizioni potrebbe salire a un miliardo e mezzo.

Valeria Confalonieri




La pandemia in cifre

Alla fine di novembre 2005 è stato reso pubblico il rapporto del programma congiunto delle Nazioni Unite per Hiv/Aids (Unaids o Onusida): ne riportiamo l’introduzione e alcune statistiche, che rivelano la drammaticità della situazione in tutto il mondo.

Da quando fu scoperta, nel 1982, la Sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids) ha ucciso più di 25 milioni di persone. È diventata una delle più distruttive epidemie che la storia abbia mai registrato. Nonostante sia migliorato in varie regioni del mondo l’accesso ai trattamenti e cure antiretrovirali, cresce ogni anno il numero delle vittime della pandemia.
Secondo il rapporto Unaids (Programma congiunto delle Nazioni Unite per l’Hiv/Aids), aggiornato al mese di dicembre 2005, il numero totale di persone che vivono col virus dell’Hiv ha raggiunto il livello più alto: circa 40,3 milioni; quasi 5 milioni sono state le nuove infezioni nel 2005 e 3,1 milioni i morti a causa dell’Aids durante il 2005.
Circa la distribuzione geografica, il continente africano mantiene il triste primato: circa 25,8 milioni di persone con l’Hiv nell’Africa subsahariana e 510 mila nell’Africa del Nord e nel Medio Oriente.
Circa 7,4 milioni di persone infette sono nell’Asia meridionale e sud orientale. Segue l’America Latina con circa 1,8 milioni di persone e 300 mila nella regione caraibica. In America del Nord le persone affette dal virus sono circa 1,2 milioni; nell’Europa Orientale e nell’Asia Centrale circa 1,6 milioni di casi e nell’Europa Occidentale 720 mila.
Negli ultimi due anni il numero di persone che vivono con l’Hiv è cresciuto in tutte le regioni, eccetto nei Caraibi, dove non si sono registrati aumenti rispetto al 2003, ma che restano ugualmente la seconda regione più infettata al mondo.
L’Africa subsahariana rimane la più colpita dal virus: 25,8 milioni, un milione in più del 2003. In questa regione sono i due terzi di tutte le persone che vivono con l’Hiv e il 77% di tutte le donne con Hiv; nel 2005 sono morti circa 2,4 milioni di persone a causa del virus o malattie ad esso connesse e altri 3,2 milioni sono state infettate da tale epidemia.
Dal 2003 le persone colpite da Hiv sono aumentate di un quarto, raggiungendo l’1,6 milioni e il numero dei morti è raddoppiato (62 mila) nell’Europa Orientale e in Asia Centrale; mentre nell’Asia Orientale l’aumento è stato di un quinto nello stesso periodo.
Continua ad aumentare, soprattutto, la proporzione delle donne colpite dal virus: 17,5 milioni; un milione in più rispetto al 2003; 13,5 milioni di esse vivono nell’Africa subsahariana. L’impatto si allarga pure nel Sud-Est Asiatico (quasi 2 milioni di donne con Hiv) e nell’Est Europa e Asia Centrale.
Lo stesso rapporto sottolinea l’intensificarsi dell’epidemia nell’Africa australe: il livello di infezione tra le donne pregnanti raggiunge il 20% (e oltre) in sei paesi (Botswana, Lesotho, Namibia, Sudafrica, Swaziland e Zimbabwe). In due di essi (Botswana e Swaziland) i livelli di infezione sono attorno al 30%. Allarmante è pure la crescita dei livelli di infezione in Mozambico. Segni incoraggianti sul declino nazionale dell’Hiv si registrano in Zimbabwe, anche se l’infezione delle pregnanti rimane a livelli alti (21% nel 2004).
In Africa Orientale la diminuzione dell’infezione tra le donne incinte è iniziata verso la metà degli anni ‘90 ed ora è evidente anche in varie zone urbane del Kenya, dove i livelli di infezione sono in diminuzione, dovuto probabilmente a cambiamenti di comportamento. Ma rimangono casi eccezionali; altrove nell’Africa Orientale (come in quella Occidentale e Centrale), i livelli di infezione rimangono stabili da vari anni.
Per quanto riguarda l’Asia e l’Oceania, l’epidemia è in espansione, specialmente in Cina, Papua Nuova Guinea e Vietnam. Ci sono pure segni allarmanti che altri paesi asiatici (inclusi Pakistan e Indonesia) siano sull’orlo di serie epidemie. Tali epidemie trovano il maggiore impulso da una combinazione di iniezioni endovenose di droghe e il commercio sessuale. Solo una manciata di paesi stanno facendo seri sforzi per introdurre programmi che mettono a fuoco questi comportamenti rischiosi.
La stessa cosa vale anche per l’Europa dell’Est e l’Asia Centrale, dove il numero di persone con Hiv è cresciuto nel 2005, e nell’America Latina, soprattutto tra le donne che vivono in situazione di povertà.
Tuttavia, negli ultimi due anni, l’accesso al trattamento antiretrovirale è notevolmente migliorato. Non è più solo nei ricchi paesi del Nord America e dell’Europa Occidentale che le persone bisognose di tali cure hanno una ragionevole possibilità di ottenerle; ma l’estensione del trattamento antiretrovirale ha raggiunto l’80% in paesi come Argentina, Brasile, Cile e Cuba. Ma nonostante tali progressi, la situazione è molto differente nei paesi poveri dell’America Latina e Caraibi, in Est Europa, nella maggior parte dell’Asia e praticamente in tutta l’Africa subsahariana.
Tuttavia, più di un milione di persone, nei paesi con medio e basso reddito, ora vive meglio e più a lungo, perché sotto cura antiretrovirale. Grazie a tali trattamenti iniziati alla fine del 2003, sono state evitate 250-350 mila morti nel 2005.

(Tradotto e adattato da: Unaids/Who Aids epidemic update: december 2005).

Unaids/Who Aids epidemic update




Senza paura di sbagliare

Di fronte al dilagare del virus Hiv in America Latina, chiesa e istituti di vita consacrata si sono mobilitati in due direzioni: combattere la discriminazione
e promuovere una rete di solidarietà.
Occorre aumentare la collaborazione con la società civile, senza perdere la specificità profetica, e mettere al primo posto la salvaguardia della vita…

Dal 1999 appartengo a una comunità dell’ordine dei cappuccini, che si dedica alla prevenzione e assistenza a persone che convivono con l’Hiv e lavoro nella pastorale dell’Aids.
Concepisco questo impegno come parte della mia vocazione francescana-cappuccina. Vocazione che si estrinseca a partire dalla fede e per questo la vivo come missione e non solo come filantropia.

La realtà dell’Aids nell’America Latina

Per capire la dinamica dell’epidemia in America Latina, occorre tener presente che essa è il continente dei contrasti sociali. Il Brasile, per esempio, è la 9ª potenza economica mondiale, ma occupa la 69ª posizione nella classifica degli indicatori sociali. Ciò significa che ci sono pochi ricchi e molti poveri e che la forbice si allarga di giorno in giorno: «I ricchi diventano sempre più ricchi, a spese dei poveri, che diventano sempre più poveri».
Ma la povertà non è limitata all’accesso alla ricchezza: essa si traduce in mancanza di casa, cibo, educazione, informazione, lavoro. La povertà diventa un vettore di incremento dell’epidemia.
I paesi con il più alto numero di sieropositivi sono Argentina, Brasile e Colombia; quelli con il più alto tasso di infezioni sono Belize, Guatemala e Honduras, con un tasso di incidenza dell’1%. I Caraibi sono la seconda regione del pianeta per tasso di infezione, con tassi di incidenza pari a 5,6 in Haiti e 2,3 nella Repubblica Dominicana. I paesi con le migliori coperture per le terapie antiretrovirali sono Brasile, Argentina, Cile e Messico.

Vincere la paura

La realtà in cui si dibatte il continente latinoamericano, con l’esperienza in essi maturata, mi spinge a proporre due prospettive: vincere la paura e costruire solidarietà.
Alla comparsa di un’epidemia segue, normalmente, la ricerca dei responsabili e delle spiegazioni della sua origine. Il primo atteggiamento è stato quello di attribuire a Dio la causa di tale malattia, come punizione esemplare contro i perversi.
Poi, quando si è capito che questa attribuzione non conveniva a Dio, si sono cercati tra gli esseri umani i responsabili della piaga. Facilmente sono stati trovati: omosessuali, tossicodipendenti, professionisti del sesso. Negli Stati Uniti si parla di quattro «H»: (h)emofilici, (h)omossessuali, haitiani e (h)eroino-dipendenti.
Oggi dobbiamo vincere la paura del virus, considerare che tutti siamo vulnerabili. Viviamo in un mondo con Aids. Viviamo in una chiesa con Hiv. Non tutti siamo sieropositivi per l’Hiv, ma tutti siamo coinvolti in questa realtà che ci tocca direttamente. Dobbiamo vincere la paura, poiché la paura non vince il virus.
Bisogna vincere anche la paura delle persone che vivono con l’Hiv. Rompere il «fare» discriminatorio e trattarle come esseri umani. Superare l’idea che tali soggetti sono malati perché colpevoli. In un certo senso, si tratta di «neutralizzare» la malattia, cioè, smitizzare, «smoralizzare», comprendere le persone con l’Hiv come si comprende una persona ipertesa o diabetica.
Vincere la paura attraverso l’informazione, la consapevolezza, la sensibilizzazione. Secondo Paulo Freire, grande pedagogo e educatore brasiliano, «nessuno educa nessuno, ma tutti si educano vicendevolmente». Nessuno si confronta con l’Hiv come un problema che lo riguarda, che lo tocca, se non trova qualcuno che lo provochi con forza a tale riguardo. Ossia, qualcuno che faccia riflettere sui valori, credenze, affettività, visioni dell’uomo e del mondo, che stabilisca un rapporto faccia a faccia, in grado di comprendere l’umanità che abita in ognuno di noi.
Evidentemente ciò non si fa con grandi campagne televisive, anche se questo non è del tutto inutile.

Costruire solidarietà

In America Latina è in corso un grande movimento di solidarietà verso le persone che vivono con l’Hiv. Sono molte le istituzioni e iniziative promosse da congregazioni religiose per offrire servizi, accoglienza e cure ai sieropositivi. Grande attenzione al problema esiste in tutta la chiesa in generale. In Brasile, per esempio, essa è molto attiva attraverso la «pastorale dell’Aids», in collaborazione con varie organizzazioni della società civile, rispondendo alle istanze del governo nella lotta all’Aids.
Si moltiplicano le iniziative da parte della gerarchia ecclesiastica, delle conferenze episcopali per incentivare questa solidarietà. Il 1º dicembre 2005, la Conferenza episcopale latinoamericana (Celam) ha pubblicato un documento intitolato: La Chiesa latinoamericana di fronte all’epidemia di Aids.
Si moltiplicano incontri, convegni, seminari per dibattere il problema. Nel luglio 2005 abbiamo organizzato il 1° Simposio latinoamericano e dei Caraibi per approfondire l’azione della chiesa cattolica nel mondo dell’Aids. Vi hanno partecipato un vescovo, religiosi, religiose e laici di 14 paesi dell’America Latina e Caraibi, oltre a una delegazione di Timor Est.
Il percorso fatto fino a oggi ci spinge a guardare avanti, affrontando altre sfide e prospettive; prima di tutto quella di rafforzare la rete latinoamericana di lotta all’Aids. Questa rete si sta allargando, con lo scopo di animare, articolare, stimolare la partecipazione di tutti i cristiani nell’affrontare l’epidemia e nel dare visibilità alle risposte ecclesiali in questo campo.
Altra sfida consiste nel disseminare il lavoro di cooperazione con la società civile e lo stato. In Brasile è in atto un’esperienza molto promettente: è il lavoro articolato tra il Ministero della Sanità e la Pastorale dell’Aids, dipartimento ecclesiale creato dalla Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) nel 2001. Non si tratta di sostituire il governo, tanto meno di ripetere l’azione delle istituzioni pubbliche, ma di un lavoro complementare, in cui la chiesa contribuisce al controllo dell’epidemia a partire dalla sua visione, dalla sua spiritualità, dai suoi valori. Nonostante alcuni dissensi rispetto ad alcune pratiche del Ministero della Sanità, crediamo di poter dare il nostro contributo, a partire dalla nostra specificità.

SFIDA CONTINUA

La sfida più grande è il lavoro di controllo dell’Aids, in cui la chiesa deve avere un coinvolgimento sempre maggiore. Credo che la chiesa e la vita consacrata, con la sua dimensione profetica, possano contribuire in modo significativo e fare la differenza nella lotta contro l’Aids. L’impegno concreto permetterà di superare il pregiudizio corrente, secondo cui la chiesa ostacola il lavoro di prevenzione all’Aids.
È necessario abbandonare l’atteggiamento fiscalista, controllore; bisogna annunciare, piuttosto che esigere. Credo fermamente che il nostro primo obiettivo sia prendersi cura della vita. Dobbiamo salvare la vita anche di coloro che non sono in grado di osservare gli ideali che annunciamo. Sotto questo aspetto la dimensione profetica della vita consacrata può offrire un valido contributo.
La chiesa deve credere in ciò che la capacità umana può raggiungere. Non dobbiamo avere paura di sbagliare. Un sacerdote eudista colombiano, che ha imparato il cammino della prevenzione all’Aids vivendo accanto a professionisti del sesso, mi ha insegnato che è più produttivo chiedere perdono, anziché chiedere il permesso.
Nonostante tutto, la chiesa è un’istituzione che gode di credibilità e accettazione per l’impegno che svolge in questo campo: possiede strutture, risorse umane, mezzi di comunicazioni, disponibilità di volontari, capacità di contattare spontaneamente le persone. Nessun governo ha la possibilità di arrivare dove può giungere la chiesa, quando organizza un servizio specifico per affrontare i problemi dell’Hiv/Aids, mediante la pastorale dell’Aids.
Ciò vale anche a livello mondiale, contribuendo a raggiungere gli obiettivi del Millennio, che sintetizzerei in un’unica sfida: universalizzare la prevenzione, il trattamento e l’assistenza. Prevenzione intesa come intervento faccia a faccia, nella metodologia alla pari, rispettando la cultura, il processo di ogni persona.
Universalizzare il trattamento significa globalizzare l’accesso agli antiretrovirali e altri medicinali necessari alla cura delle infezioni secondarie. Una buona adesione al trattamento ripercuote, infatti, nella qualità della prevenzione, con la riduzione di ri-infezioni e contaminazioni.
L’assistenza include analisi, controllo medico, lotta alla povertà, reinserimento sociale, rispetto dei diritti e costruzione del senso di cittadinanza.
Che la forza dello Spirito Santo non ci lasci soccombere nella paura, ma ci aiuti nella costruzione solidale che preserva la vita e fa sorgere i segni del regno.

José Beardi




TANTI ELOGI…

Ho ricevuto la rivista: complimenti! È molto ben fatta e le foto ben scelte.
Io sto portando in giro la mia mostra fotografica e il documentario sui ragazzi di strada di Kenya, Congo, India, Perù e Brasile. Magari riuscirò a portarla anche a Torino, chissà…
Un saluto!

Roma

Massimiliano Troiani




La salute non può essere un businessLavorare in un Dipartimento di salute mentale

I «matti» non sono più quelli di una volta. Nelle strutture arrivano disoccupati, poveri, extracomunitari, drogati. Anche la società non è più la stessa: l’1 per cento della popolazione mondiale è affetta da schizofrenia; circa il 15-20 per cento da depressione; una percentuale ancora più alta da ansia. Lavorare sulla salute mentale è sempre più difficile. Ma un principio dovrebbe rimanere saldo ed immutabile: la salute non può essere un campo dove cercare il profitto.

La giornata lavorativa sta terminando, nel fatiscente caseggiato adibito ad ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano. Da sotto si sente salire per le scale l’odore del cibo preparato al centro diuo.
I due infermieri rimasti guardano lo psichiatra seduto di fronte, i gomiti appoggiati sulla scrivania e le mani a reggere la testa appesantita da una interminabile serie di colloqui.
Una delle infermiere e lo psichiatra responsabile del centro diuo si conoscono da venti anni, da quando, giovani e carichi di entusiasmo, si erano trovati a lavorare insieme, in quello stesso quartiere della periferia torinese così cambiato negli anni.
Quando capita che i due si incontrino con un po’ di tempo a disposizione per parlarsi, succede talvolta che si mettano a parlare dei bei tempi andati, quando c’erano più risorse, più energie, quando la psichiatria era un argomento di primaria importanza e quando tutto era migliore.
Anche i «matti» non sono più quelli di una volta. Ormai negli ambulatori arriva di tutto e i bisogni sono sempre più complessi: disoccupazione, povertà, extracomunitari, e poi quanti pazienti usano anche droghe assortite, una volta non era tutto così incasinato.
Morena e Ugo non sono poi così vecchi, una cinquantina d’anni lo psichiatra, 43 l’infermiera e sono ancora innamorati del loro mestiere, certo non delle condizioni in cui si trovano ad operare.
Quando nel 1985 hanno iniziato a lavorare insieme, l’équipe era composta da 3 medici a tempo pieno, una psicologa, un assistente sociale (e per un certo periodo addirittura due), 6 infermieri a tempo pieno ed i casi attivi erano circa 300, quasi tutti di chiara pertinenza psichiatrica, per i quali attivare le risorse di personale ed economiche (sussidi, una tantum, borse lavoro, soggiorni) a disposizione.
Un bel mix tra i 2 vecchi infermieri che avevano vissuto da protagonisti la fase propedeutica alla chiusura dei manicomi con la famosa legge 180 (conosciuta come legge Basaglia) e il resto del personale, tutto alle prime esperienze, amalgamati dalla responsabile che, pur ancora giovane, aveva lavorato anch’essa in manicomio, permettevano all’équipe di sentirsi parte di un progetto forte, con una salda base ideologica e con valori morali ed etici che permettevano di esprimersi in un’atmosfera di creatività, ma anche di efficienza.
Sarebbe ora interessante vedere come si è trasformata quell’équipe: al momento un medico a tempo pieno che sta scoppiando per il carico lavorativo, un medico che si occupa anche di ricerca e quindi dedica metà tempo all’attività clinica con i pazienti, e un terzo medico che al momento non c’è perché in gravidanza e comunque per quel terzo posto negli ultimi anni si sono avvicendati, per motivi diversi, ma costituendo un dato che comunque dovrebbe far riflettere, 5 medici e un sesto sta arrivando.
Da un anno è finalmente tornata l’assistente sociale, figura professionale che per un paio d’anni era mancata, mentre gli infermieri sono quattro più una a 15 ore. La figura dello psicologo è presente: una. Insomma, un’équipe assolutamente indebolita, mentre il carico lavorativo, ovvero il numero dei pazienti in cura che necessitano di visite regolari e abbastanza ravvicinate, è aumentato di molto, diciamo almeno del 30% in questi 20 anni.
Per non parlare di quello che succede nei tui in ospedale, quando dal pronto soccorso si viene chiamati per affrontare situazioni di marginalità di gran lunga superiori alle reali competenze cliniche.
Dunque, cos’è la psichiatria oggi? Come funziona un Dipartimento di salute mentale? Proviamo a raccontarlo.
EVOLUZIONE
O INVOLUZIONE?

Credo che ormai non esistano più dubbi sui danni che sta causando il modello neoliberista. Questa non è la sede per soffermarci, ma sicuramente una serie di contraccolpi li respiriamo anche nell’ambito del nostro lavoro di operatori della salute mentale.
Il neoliberismo promuove il «Dio-mercato» e riduce tutto a merce, come tale monetizzabile. Persino l’acqua si vuole privatizzare (1).
Che c’entra questa storia con la psichiatria? C’entra: basta considerare la salute mentale come un terreno di profitto.
Dunque, l’oggetto di cui si occupa la psichiatria, ovvero la salute mentale, rappresenta un fenomeno complesso articolato su almeno tre livelli: quello biologico, quello sociale e quello psicologico.
Negli anni, a seconda della cultura dominante, si è enfatizzato un aspetto piuttosto che un altro: fino alla seconda metà degli anni Sessanta, per esempio, l’aspetto primario era quello del controllo sociale e gli ospedali psichiatrici, i manicomi, ben assolvevano questo compito.
Le forti spinte di rinnovamento sociale veicolate dal movimento dell’ormai mitico Sessantotto fecero sì che in quegli anni l’accento fosse posto prevalentemente sul ruolo della società come «fabbrica della follia» (2).
Le caratteristiche insite nel movimento di demanicomializzazione, l’atmosfera di libertà e impegno che si respiravano funzionarono da collante e diedero una forte identità agli operatori della salute mentale: lavorare in psichiatria significava sentirsi protagonisti di un cambiamento epocale che ridava dignità e soggettività al malato psichiatrico, essere per la creatività, l’impegno e la solidarietà contro i vecchi modelli di reclusione, violenza, negazione dei diritti (3).
Un forte senso di appartenenza caratterizzava gli operatori di quegli anni, con la sensazione che quello che si faceva non era solo un lavoro, ma un impegno sociale fondamentale per determinare i futuri orientamenti del nostro stile di vita. D’altro canto la psichiatria era un argomento «a la page» e lo status di operatore in questo campo era fonte di riconoscimento e interesse.
Ricordo quelli che sono stati i miei veri maestri, i vecchi infermieri, come li chiamavamo, che ci raccontavano gli orrori dei manicomi e ci mostravano più con l’esempio che con le parole il senso del lavorare con la persona che si affidava a noi.
Scivolo su questo terreno infido, dove rischio di diventare retorico perché è un ideale che sento di aver ereditato da loro, come se mi avessero dato il testimone dei loro sogni di rinnovamento e delle loro lotte. Ecco perché mi permetto di ricordare Pino, che era stato il protagonista della rivolta contro la violenza medica (4), ma anche Augusto, Meo, Carlo e poi mi fermo scusandomi con quelli che non cito, ma l’elenco sarebbe troppo lungo.

GLI ANNI NOVANTA: L’«IO» SOSTITUISCE IL «NOI»

Poi gli anni Novanta, quelli della stasi: i protagonisti della chiusura dei manicomi vanno in pensione, portandosi dietro i loro ideali e lasciandoci con un po’ di idee sulla necessità dell’approccio integrato, che tenga conto di tutti e tre gli aspetti citati in precedenza.
Intanto la società cambia, le multinazionali diventano sempre più padrone della scena politica. Banca mondiale, Fondo monetario internazionale (Fmi) e Organizzazione mondiale del commercio (Omc) esasperano la logica del profitto. promuovono la figura del vincente, ci colonizzano l’immaginario e ci convincono che la scienza e le operazioni finanziarie in borsa ci porteranno alla felicità.
Si impone il pensiero unico: mangiamo allo stesso modo (magari Mc Donald’s), vestiamo allo stesso modo, pensiamo (o non pensiamo) allo stesso modo, compriamo di tutto e di più e promuoviamo la competizione.
L’«io» si sostituisce al «noi», il tessuto sociale si scolla, la solidarietà si perde o al massimo viene promossa dalle banche (quelle stesse che danno un grande aiuto alla devastazione del pianeta, ad esempio finanziando gli oleodotti in Amazzonia o i fabbricanti di armi).
Allora, se tutto è merce, perché non può esserlo anche la salute?, pensano le multinazionali del farmaco, che iniziano a difendere con i denti i cosiddetti «brevetti».
Difenderli, perché in India, in Thailandia, in Brasile e in altri paesi del Sud si producono farmaci a basso prezzo (circa 10 volte in meno del prezzo praticato dalle multinazionali), nonostante le molecole chimiche appartengano alle ditte, tutte rigorosamente nordamericane ed europee, che le hanno scoperte e che non vogliono vedere ridotti i propri guadagni.
Assoldati i migliori avvocati, le multinazionali attaccano: «Come vi permettete di produrre senza la nostra autorizzazione i farmaci che noi abbiamo scoperto e per di più a venderli sottocosto?».
Certo, la concorrenza è – stando ai canoni del mercato neoliberista – «sleale», ma permette che almeno 8 milioni di persone l’anno possano accedere a cure altrimenti troppo costose, salvandosi la vita per malattie che in Occidente ormai non sono più causa di morte.
«Ma noi usiamo i soldi per fare ricerca», ribattono le multinazionali, salvo poi scoprire che degli incassi megamiliardari solo una piccola parte viene reinvestita in ricerca, diciamo il 20%, mentre il resto è puro profitto.
Tra l’altro, della quota spesa per la ricerca la parte maggiore è investita per malattie tipiche delle società ricche: diabete, obesità e via discorrendo.
A proposito di obesità (5), che razza di società è la nostra, che spacciamo per portatrice di valori contro il rischio di un «meticciato» catastrofico (come ha sentenziato il presidente Pera, la seconda carica dello stato italiano) e che riesce a produrre obesi e bulimici quando un miliardo di persone vivono con un dollaro al giorno e muoiono di fame?

PSICOFARMACI: UTILI (CON MOLTI «SE» E MOLTI «MA»)

Stabilito che la salute può rappresentare un business, anche la salute mentale può esserlo.
In fondo, l’1% della popolazione mondiale è ammalata di schizofrenia, circa il 10-15% di depressione e poi c’è sempre l’ansia che è un bel terreno di lavoro.
Si tratta solo di trovare la strada giusta, per esempio favorire la ricerca delle neuroscienze, in fondo questo è un campo ancora poco esplorato e conosciuto.
Una volta analizzati fino alle più piccole sfumature i recettori cerebrali, potremo preparare psicofarmaci sempre più sofisticati, che differiscono tra loro per cose minime.
Così per ogni classe vai con la fantasia: per gli inibitori della serotonina che bene funzionano nella depressione ecco un gran numero di molecole, ognuna poi prodotta da più case farmaceutiche e così tra Seropram, Sereupin, Seroxat, Fluoxeren, Prozac, Maveral, Fevarin, il cittadino si perde. Attenzione, non che questi farmaci non funzionino. Anzi, sono una grande scoperta.
Dov’è il trucco, allora? A più livelli, direi: da un lato creare una medicalizzazione eccessiva dei problemi, dall’altro una fiducia totale e acritica nel progresso delle neuroscienze. Ma – si può obiettare – c’è la preparazione dei medici e la deontologia? Vero, però consideriamo due aspetti.
Da un lato come si svolge il lavoro dei medici (6), condizionati da una ricerca finanziata dalle multinazionali e da un aggioamento gestito soprattutto dagli informatori farmaceutici (7). Dall’altro, guardo alle scuole di specialità, dove i futuri psichiatri vengono prevalentemente abituati a ragionare in termini di sintomi e in cui – mi si permetta di esagerare – le emozioni rischiano di essere considerate «tempeste chimiche».
Manca solo un passaggio, ormai ed è quello di riprendere il concetto neoliberista del vincente, della fiducia nella scienza, un modello di mondo dove è bandito il dolore, dove non si parla della morte come di un aspetto della vita, ma – al contrario – dove la si esorcizza cercando di restare eterni giovani trapiantandosi i capelli, facendosi spianare le rughe, livellare l’addome, rimodellare il seno, le labbra, il naso e via discorrendo. E se per caso c’è un incidente di percorso allora via con la soluzione magica del farmaco!
Ma negare la morte significa promuovere un mondo falso, negare la sofferenza significa negare la compassione, la solidarietà, la dimensione spirituale, il diritto per tutti di reclamare i diritti negati.
Intendiamoci: non nego l’utilità dei vari psicofarmaci (si veda la tabella), che io stesso uso e anche con buoni risultati. Quello che mi spaventa è l’uso improprio delle categorie diagnostiche non tanto da parte degli psichiatri, che al massimo si adeguano, ma dalla «costruzione collettiva» nella mente delle persone comuni. In tal modo, si arriva a confondere il dolore con la malattia, a scindere la sofferenza dal neurotrasmettitore chimico in difetto, a isolare la malattia del singolo dalla crisi della società in cui ci muoviamo e della quale siamo impregnati.
E allora si ricorre in maniera sempre più massiccia agli psicofarmaci, che, tra l’altro, hanno costi sempre più elevati, non giustificati dai miglioramenti, peraltro inoppugnabili (non tanto in termini di efficacia, quanto in termini di minori effetti collaterali).

OLTRE I PREGIUDIZI E GLI STEREOTIPI

Piccola riflessione: e se in psichiatria invece di parlare solo di guarigione imparassimo a parlare di qualità della vita?
Lo psichiatra allora non è più il professionista della sofferenza, così come la sofferenza non è più una malattia di cui quasi vergognarsi, ma un bagaglio della grande valigia della vita. Allora un altro concetto è importante: quello di evitare le categorie, le generalizzazioni.
In quest’ottica non esistono più gli schizofrenici e gli psichiatri, i depressi e gli infermieri, i disturbi di personalità e gli psicologi, ma persone diverse che fanno la medesima professione o che hanno la stessa malattia.
In questo modo, possiamo meglio realizzare la soggettività di ciascuno, premessa importante per poter continuare ad esistere agli occhi degli altri in quanto individui con la nostra unicità fatta di biologia, di costituzione, di temperamento, ma anche di incontri, di esperienze e storie che nessun altro ha uguali alle nostre.
Così parleremo di persone che esercitano la professione di medici o di infermieri, così come parleremo di persone ammalate di schizofrenia o di depressione e questo ci permetterà di evitare generalizzazioni che sono alla base dei pregiudizi e degli stereotipi: «gli schizofrenici sono violenti e imprevedibili», «gli psichiatri sono eccentrici e particolari». Modalità per impedire il reale incontro con l’altro che è la grande magia della vita, anche quando la generalizzazione è in positivo tipo: «i matti hanno un’intelligenza e una sensibilità eccezionali» o «gli psichiatri sono studiosi e profondi».
Scopriremo così che esistono psichiatri simpatici e altri antipatici, schizofrenici intelligenti e no, infermieri spiritosi ed infermieri noiosi, matti generosi ed altri gretti.
Allo stesso modo occorre riflettere insieme sullo stato di salute del mondo in cui viviamo, con le sue devastazioni ambientali,i cibi adulterati, l’aumento della povertà, la crisi industriale, i conflitti etnici e religiosi, le guerre preventive perché, come diceva il psicoanalista James Hillman nel suo libro dal titolo provocatorio «Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio» (8), non si può non far entrare nella stanza della terapia quello che succede fuori, se no si rischia di promuovere una cultura solipsistica, di ripiegamento su se stessi che è già il grande dramma della nostra società occidentale così impregnata di narcisismo e quindi di perdita di contatto con il proprio sé più intimo e con la dimensione empatica verso l’altro.
Evitiamo anche, per quanto possibile, di chiuderci nelle nostre specificità, impariamo a promuovere la cultura della mescolanza e della curiosità per le differenze degli altri, insieme al rispetto nel piacere della reciprocità.
Bisogna poter procedere nella direzione della condivisione consapevole, insieme alla scoperta che, come con amici abbiamo ripetuto in quella meravigliosa esperienza che è stato, nel 2002, il primo forum piemontese itinerante della salute mentale: «La psichiatria non è solo il luogo tetro della sofferenza e della solitudine, ma anche il luogo dove recuperare solidarietà, senso d’appartenenza e capacità di provare piacere!».
Non a caso il sottotitolo del forum, più come augurio che come provocazione, recitava «Divertirsi insieme è terapeutico!».
L’operatore della salute, lo psichiatra in particolare secondo le rigide gerarchie del sogno fasullo del neoliberismo, non è quindi il dispensatore di formule scientifiche o di ricette che allontanano il dolore con una pastiglia (meglio se costosa) quanto piuttosto un compagno di strada nella costruzione di percorsi individuali e collettivi. Per andare dove? Verso il migliore dei mondi possibili, quello dove le differenze siano ricchezze e non ostacoli e dove, come recitano gli indigeni dell’Ezln messicano per bocca del loro portavoce, il subcomandante Marcos, si possa «camminare al passo degli ultimi», dove «si cammini domandando» per arricchirsi nel confronto e non irrigidirsi sulle proprie convinzioni e dove si eserciti il «comandare obbedendo», perché chi ha una posizione di potere deve obbedire ai bisogni di chi sta sotto e lo ha eletto come portavoce.
È un’utopia quella di un mondo che contenga tutti i mondi, come affermano gli amici zapatisti?
Bisogna essere dei «visionari pratici», come dice Alberto Oliveira, il giovane psicologo che nel «Borda», il gigantesco e fatiscente manicomio maschile di Buenos Aires, è riuscito ad aprire una radio che ormai trasmette su scala nazionale in tutta l’Argentina e che ha succursali in America Latina, ma anche in Europa, (compresa l’esperienza di «Radio 180», a Mantova).
In questo periodo di crisi dello stato del benessere (welfare state) e di congiuntura internazionale (di cui l’immigrazione, la disoccupazione e la perdita del tessuto sociale rappresentano alcuni degli epifenomeni), le istituzioni sociali sempre più hanno dovuto prendersi cura di ciò che la base sociale non riesce ad affrontare.
Allora, se lo stato del benessere, «costruito» per rispondere a bisogni primari, è da sempre costretto ad occuparsi di ogni cosa, non viene difficile immaginare come in tempo di crisi, il pronto soccorso di un ospedale pubblico possa diventare il contenitore di tutti i disperati e gli emarginati, portando problematiche extra-cliniche che funzionano da ulteriori stressors su di un personale già al limite del collasso.
Ecco, perché non è pensabile che l’équipe del pronto soccorso, soprattutto il personale infermieristico, non abbia uno spazio continuativo e regolare dove provare a metabolizzare i vissuti e le difficoltà, reali e simboliche: intendo uno spazio di supervisione psicologica.
Dal momento che non esistono le competenze umanitarie, che sono doti e bagaglio personale che non s’imparano sui libri, ma nei banchi di scuola della vita, ritengo che la professionalità dello psichiatra in queste situazioni consista nella capacità di orizzontarsi nel groviglio emozionale, lavorando, come si dice in linguaggio tecnico, sul «controtransfert».
Nel carico di angoscia io devo capire quale emozioni passano per la testa della persona che ho di fronte, perché solo così posso capie i bisogni e la risposta ad essi.
Per fare questa operazione io devo però discriminare tra ciò che appartiene a me e ciò che appartiene all’altro: se percepisco rabbia, è legata al mio modo di sentire o è veramente quello che mi passa l’altro? E ancora: è una rabbia destata dal comportamento della persona di fronte a me che evoca miei problemi o è rabbia che appartiene davvero a lei?
Per esemplificare, se io sento di avere un problema con la sottomissione e l’incapacità di farmi le mie ragioni, una persona con gli stessi meccanismi, mi scatenerà una rabbia e un fastidio incredibili, perché funziona da specchio per qualcosa di mio che non voglio accettare, anzi che nego con forza.
Se io invece fossi in grado di accettarmi per quello che sono, o se per lo meno sapessi il mio modo di funzionare in senso psichico, potrei confrontarmi con un problema analogo portato da un’altra persona senza scaricare su di lei la rabbia e l’odio per quella parte buia di me che non accetto al punto di non vederla neppure.
Pertanto, la capacità di analizzare il mosaico emozionale attribuendo a ciascuno la sua parte (per quanto possibile, non stiamo parlando di operazioni puramente tecniche, c’è sempre la contaminazione del nostro essere umani) permette una partecipazione «ripulita», ma empatica al dolore delle persone che chiedono aiuto alle mie specifiche competenze.
Ovviamente l’aspetto tecnico è comunque secondario a quello umano: il dolore è un luogo di assoluta solitudine, al quale potersi avvicinare con il dovuto rispetto, ma senza la paura paralizzante.

L’ANSIA DI VIVERE
(E DI POSSEDERE)

Il nostro stile di vita è purtroppo sempre più centrato sull’affermazione e sull’efficientismo, illudendoci che fama e ricchezza ci possano evitare la malattia, il dolore e la morte.
L’ansia di vivere e di possedere ci rendono sempre più fragili di fronte al nostro e altrui dolore. Questo materialismo che non voglio etichettare (dategli la connotazione che preferite) ci ha tolto la capacità di assumerci il peso del dolore degli altri: per non vedere il fallimento del sogno di onnipotenza imposto dal nostro modello di vita cerchiamo subito una soluzione tecnica.
Allora possiamo illuderci di chiamare lo specialista, lo psichiatra in questo caso, che con il suo sapere rimetta le cose a posto, tutto sotto controllo, perpetuando un modello di fuga dalla nostra condizione di uomini, per farci diventare quello che è il nostro ruolo.
Allora non ci saranno più uomini e donne spaventati o arrabbiati o estroversi o solitari o generosi o avidi, ma avremo invece medici capaci o incapaci, manager di ghiaccio o falliti, studenti primi della classe o incapaci e l’imperativo sarà sempre e solo «essere all’altezza, sempre e comunque, costi quel che costi».
E allora anche il confronto con il dolore dell’altro sarà insopportabile o perché dovremo dimostrare di essere all’altezza di gestire senza farci coinvolgere, con la generosità fredda di un Rambo, oppure perché rischieremo di entrare in contatto con la nostra piccola, fragile umanità.
Il nostro bagaglio professionale ci può e deve aiutare, quello che importa è sentirsi uomo tra gli uomini, sentirsi in «compassione», nel senso di patire insieme, ma insieme trovare la forza per accettare la nostra fragilità e l’angoscia di morte che ne deriva.
Possiamo evocare la pietas cristiana o citare Madre Teresa di Calcutta o ricordare un personaggio più laico come Che Guevara nella lettera ai figli («occorre che sappiate sentire la sofferenza di ogni uomo come se fosse la vostra»). Certo è che dobbiamo ritrovare un senso nella nostra civiltà, altrimenti arriveremo all’aberrazione di pensare che lo psichiatra è lo «specialista della sofferenza».

FERMARE LA DERIVA VERSO LA MEDICALIZZAZIONE

Se la legge 180 era stata resa possibile dai fermenti di quegli anni e dalle lotte politiche degli anni ’60-’70, inserendosi nel medesimo filone, è ora importante «contestualizzare» la situazione della psichiatria rispetto a quello che succede nel mondo (9).
Nell’ottica neoliberista, colpire i deboli non è un progetto, quanto la logica conseguenza di un modello che riduce a merce qualsiasi cosa.
Come insegnano gli amici boliviani, l’acqua non è una risorsa (termine che sottende la possibilità di mercificare) quanto un bene comune e come tale da condividere con solidarietà e nel rispetto di tutti.
Difendere la legge 180 (10) e la psichiatria pubblica significa, pertanto, difendere lo stato sociale, ma è anche importante capire come farlo per essere al passo dei tempi anche nelle lotte.
Quello che stiamo imparando dal movimento dei movimenti è la necessità di unirsi per «cambiare il mondo senza prendere il potere». Come farlo? Creando un mondo dove fare incontri per scambiare identità e per mescolarsi, contaminarsi e conoscersi, scambiare esperienze e opportunità tra diversi che siano uniti da due sole discriminanti ferree: «no» alla guerra e «no» all’esclusione creata dal modello neoliberista. Mentre il modello alternativo deve cercare di rispondere alla filosofia del «pensare globalmente, agire localmente».
Pertanto, pur tenendo conto delle differenze tra i vari dipartimenti di salute mentale, risulta chiara l’importanza di contrastare il pericoloso restringimento del concetto di cura sul versante medico-biologico, mentre il resto viene declassato a contorno.
Un recente studio di Emanuela Terzina, ricercatrice presso il dipartimento di epidemiologia clinica dell’Istituto Mario Negri ci dimostra come a livello predittivo la diagnosi conti relativamente poco sulla prognosi (5%), a confronto con la presenza di una rete sociale che incide per il 35% sull’andamento della malattia.
La ricerca scientifica, totalmente in mano alle multinazionali e all’università, deve spostare l’interesse sulla formazione, fermando la deriva verso la medicalizzazione.
La rivisitazione del paradigma di malattia in psichiatria deve ricordarci quanto avvenuto, per esempio, rispetto alla tubercolosi, ove le abitazioni insalubri sono state individuate come importanti tanto quanto l’agente patogeno.

IL MANICOMIO
È DENTRO DI NOI

Siamo partiti dal nostro ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano. Siamo passati ai danni prodotti dal neoliberismo su ogni aspetto della vita e dunque anche sulla salute, troppo spesso mercificata. Abbiamo parlato della trasformazione della psichiatria e sulla sua eccessiva medicalizzazione, a scapito del contesto, che invece è essenziale.
In una vita da cui è bandito il dolore, esorcizzata la morte, esaltata la filosofia del vincente, il manicomio è dentro di noi, nel nostro dividere il mondo in buoni e cattivi (11), in giusto e sbagliato, senza appelli, né legittimi dubbi.

Ugo Zamburru