L’uomo protegga il pianeta

Il 20% della popolazione del Nord del mondo consuma l’86% delle risorse mondiali. Questo squilibrio non è una novità: non è la prima volta che viene sottolineato. Ma il legame fra uomo e ambiente, fra sfruttamento delle risorse e degrado degli ecosistemi naturali è oggetto di uno degli obiettivi del millennio, che getta un ponte fra la consapevolezza della situazione e l’assoluta necessità di passare all’azione.
I paesi ricchi hanno una bella responsabilità sulle spalle. Ai numeri appena citati si può aggiungere che il Nord del mondo è responsabile della produzione del 95% dei rifiuti tossici, nonché del 65% dei gas che contribuiscono all’effetto serra e all’aumento della temperatura della terra: un italiano, per fare un esempio, produce in media 455 chili di rifiuti ogni anno. Cambiare il corso delle cose, prima di tutto, richiede all’umanità intera la conoscenza del danno che sta arrecando all’ambiente, e quindi al suo stesso presente e futuro.

Regno vegetale e animale
Una prima meta è quindi far sì che ogni paese integri nella propria politica programmi di tutela dell’ambiente e di sfruttamento equilibrato delle risorse naturali che il pianeta offre. Basti pensare che, nel campo della pesca, il 70% delle riserve è sfruttato completamente o ipersfruttato, o ancora che il degrado del suolo coinvolge quasi 2 miliardi di ettari di terra, con ripercussioni sulla vita di un miliardo di persone.
Ancora, la superficie terrestre ricoperta da foreste sta riducendosi sempre più, nonostante gli alberi contribuiscano al sostentamento di 1,2 miliardi di soggetti che vivono in miseria e al 90% della biodiversità terrestre.
Se la perdita di parte del patrimonio in foreste appare inevitabile per lo sviluppo economico, vi è spesso una loro distruzione ingiustificata dal punto di vista sia economico sia ambientale. Ne è un esempio la denuncia di novembre 2005 di Global Witness, organizzazione ambientalista, su quanto accade in Myanmar: nello stato birmano del Kachin, al confine con la Cina, migliaia di operai stanno distruggendo una delle foreste più rigogliose e ad alta biodiversità al mondo; ogni 7 minuti 15 tonnellate di legname attraversano illegalmente il confine tra Myanmar e Cina, quantità cui si aggiunge quella che passa la frontiera legalmente.
In altri casi, accanto al taglio indiscriminato degli alberi, si aggiunge la capacità distruttiva del fuoco, come nello stato amazzonico dell’Acre (Brasile), dove gli incendi hanno imperversato per settimane nell’autunno del 2005.
Benché le foreste rappresentino una delle maggiori ricchezze dell’ecosistema, sono bastati 10 anni (fra il 1990 e il 2000), perché la superficie da loro ricoperta venisse ridotta di 940 mila chilometri quadrati, un’area grande quanto il Venezuela. Il motivo? La conversione del territorio boschivo in terreno agricolo o destinato ad altri usi.
Vi sono tuttavia alcuni segnali positivi: oltre il 13% del suolo terrestre, pari a 19 milioni di kmq, è area protetta, con un aumento di superficie del 15% dal 1994; minore fortuna ha invece il patrimonio marino, di cui al momento risulta protetto soltanto l’1%.
La responsabilità dell’uomo è grave anche sulla perdita della biodiversità, frutto di milioni di anni di evoluzione, accelerata di 50-100 volte rispetto a quanto accadrebbe in assenza del genere umano. A dicembre 2005, un gruppo di ricercatori della Alliance for Zero Extinction ha lanciato un allarme in proposito, segnalando ben 794 specie animali e vegetali a rischio di estinzione, se non verranno protette.

Calore e gas
Un altro punto cruciale nel rapporto fra uomo e ambiente è l’aumento della temperatura terrestre, cui le attività umane hanno contribuito. E a patire maggiormente il cambio climatico sono i paesi poveri, più dipendenti dal clima per le loro attività lavorative (agricoltura e pesca), oltre che con minori possibilità di contrastare tali cambi climatici.
Negli ultimi decenni, poi, l’utilizzo di combustibili fossili ha aumentato la produzione di anidride carbonica, che contribuisce all’innalzamento della temperatura. Ogni persona produce annualmente 6-7 milioni di tonnellate di CO2: 2 milioni di tonnellate sono assorbiti dall’oceano, 1,5-2,5 milioni dalle piante, il resto è rilasciato nell’atmosfera.
L’altra faccia della questione, con ricadute immediate sull’uomo, è rappresentata dall’utilizzo dei combustibili solidi (legno, sterco, carbone) nei paesi poveri. Il loro utilizzo domestico, ad es. per cucinare, provoca inquinamento degli ambienti chiusi, responsabile di oltre 1,6 milioni di morti, soprattutto bambini e donne. Nelle abitazioni si diffonderebbero i prodotti nocivi di combustione: per l’Organizzazione mondiale della sanità, il fumo causato dall’uso di combustibili solidi in casa è una delle quattro cause principali di morte e malattia nei paesi in via di sviluppo.
La rivista medica The Lancet ha riportato che l’esposizione per tutto il giorno delle donne a stufe e fornelli quadruplica loro il rischio di sviluppare malattie polmonari croniche ostruttive, con progressiva difficoltà nella respirazione; inoltre, pur essendo necessarie ancora ricerche, sono stati segnalati collegamenti anche tra inquinamento domestico e basso peso dei bambini alla nascita, mortalità infantile, cataratta e cancro.

Acqua disponibile
e sicura
Dimezzare entro il 2015 il numero di persone prive di accesso ad acqua sicura e di un sistema fognario che garantisca livelli igienici di base è il secondo traguardo delineato dal settimo obiettivo del millennio. La necessità di acqua pulita è sottolineata dalla diffusione di malattie e morte ove essa manca: nel 1990 la diarrea ha causato 3 milioni di morti, di cui l’85% bambini. Fra il 1990 e il 2002 circa 400 milioni di persone hanno ottenuto l’accesso all’acqua pulita, ma oltre un miliardo è ancora in attesa dell’acqua potabile, di cui il 42% nell’Africa subsahariana e il 22% nell’Asia dell’Est e nel Pacifico. Le situazioni peggiori si rilevano nelle zone rurali dell’Africa e nelle periferie povere delle città.
I progressi sul versante delle misure igieniche sono poi ancora più lenti: 2,6 miliardi di persone non hanno servizi fognari e sanitari adeguati; se le cose proseguono come è stato fra il 1990 e il 2002, questa cifra scenderà soltanto a 2,4 miliardi nel 2015. Le conseguenze della mancanza di acqua pulita e di fognature sono un numero di bambini uccisi dalla diarrea negli anni ‘90 superiore ai morti in tutti i conflitti armati dalla seconda guerra mondiale.
L’acqua è un bene prezioso, tanto da essere definita «oro blu» e diventare causa di conflitti fra popolazioni: eppure spesso è sprecata da chi ne ha in abbondanza. Se ne sono accorti anche alcuni bambini messicani, che proprio perché vivono costantemente con la paura, un giorno, di non avere più accesso al prezioso liquido, combattono contro gli sprechi. Hanno creato un gruppo chiamato Guardianes del Agua, per sensibilizzare la popolazione e stimolare un utilizzo razionale dell’oro blu. I guardiani dell’acqua, più di 5 mila bambini, si preoccupano di preservare questa risorsa naturale, cercando anche di favorire la formazione di una coscienza sociale su questo problema.

I quartieri poveri
La vita nei bassifondi è l’ultimo tema toccato dal settimo obiettivo. La rapida urbanizzazione dei paesi poveri ha portato circa un miliardo di persone a vivere nelle periferie degradate delle città, rappresentandone un terzo della popolazione totale. Fra il 1990 e il 2001 vi è stato un aumento del 28% degli abitanti dei bassifondi, pari a circa 200 milioni di persone arrivate nelle periferie povere, dove le condizioni di vita aumentano il rischio di malattia, morte e disgrazie.
Il 94% di loro si trova nei paesi poveri, ovvero in quelle regioni dove si è assistito a una rapida crescita della popolazione urbana senza un aumento delle possibilità di accoglienza da parte delle città stesse: ne conseguono scenari di povertà e privazioni fisiche e ambientali. Senza un intervento significativo per migliorare l’accesso all’acqua, il sistema fognario e l’alloggio, nei prossimi 15 anni, il numero di persone che vive in queste drammatiche condizioni potrebbe salire a un miliardo e mezzo.

Valeria Confalonieri




La pandemia in cifre

Alla fine di novembre 2005 è stato reso pubblico il rapporto del programma congiunto delle Nazioni Unite per Hiv/Aids (Unaids o Onusida): ne riportiamo l’introduzione e alcune statistiche, che rivelano la drammaticità della situazione in tutto il mondo.

Da quando fu scoperta, nel 1982, la Sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids) ha ucciso più di 25 milioni di persone. È diventata una delle più distruttive epidemie che la storia abbia mai registrato. Nonostante sia migliorato in varie regioni del mondo l’accesso ai trattamenti e cure antiretrovirali, cresce ogni anno il numero delle vittime della pandemia.
Secondo il rapporto Unaids (Programma congiunto delle Nazioni Unite per l’Hiv/Aids), aggiornato al mese di dicembre 2005, il numero totale di persone che vivono col virus dell’Hiv ha raggiunto il livello più alto: circa 40,3 milioni; quasi 5 milioni sono state le nuove infezioni nel 2005 e 3,1 milioni i morti a causa dell’Aids durante il 2005.
Circa la distribuzione geografica, il continente africano mantiene il triste primato: circa 25,8 milioni di persone con l’Hiv nell’Africa subsahariana e 510 mila nell’Africa del Nord e nel Medio Oriente.
Circa 7,4 milioni di persone infette sono nell’Asia meridionale e sud orientale. Segue l’America Latina con circa 1,8 milioni di persone e 300 mila nella regione caraibica. In America del Nord le persone affette dal virus sono circa 1,2 milioni; nell’Europa Orientale e nell’Asia Centrale circa 1,6 milioni di casi e nell’Europa Occidentale 720 mila.
Negli ultimi due anni il numero di persone che vivono con l’Hiv è cresciuto in tutte le regioni, eccetto nei Caraibi, dove non si sono registrati aumenti rispetto al 2003, ma che restano ugualmente la seconda regione più infettata al mondo.
L’Africa subsahariana rimane la più colpita dal virus: 25,8 milioni, un milione in più del 2003. In questa regione sono i due terzi di tutte le persone che vivono con l’Hiv e il 77% di tutte le donne con Hiv; nel 2005 sono morti circa 2,4 milioni di persone a causa del virus o malattie ad esso connesse e altri 3,2 milioni sono state infettate da tale epidemia.
Dal 2003 le persone colpite da Hiv sono aumentate di un quarto, raggiungendo l’1,6 milioni e il numero dei morti è raddoppiato (62 mila) nell’Europa Orientale e in Asia Centrale; mentre nell’Asia Orientale l’aumento è stato di un quinto nello stesso periodo.
Continua ad aumentare, soprattutto, la proporzione delle donne colpite dal virus: 17,5 milioni; un milione in più rispetto al 2003; 13,5 milioni di esse vivono nell’Africa subsahariana. L’impatto si allarga pure nel Sud-Est Asiatico (quasi 2 milioni di donne con Hiv) e nell’Est Europa e Asia Centrale.
Lo stesso rapporto sottolinea l’intensificarsi dell’epidemia nell’Africa australe: il livello di infezione tra le donne pregnanti raggiunge il 20% (e oltre) in sei paesi (Botswana, Lesotho, Namibia, Sudafrica, Swaziland e Zimbabwe). In due di essi (Botswana e Swaziland) i livelli di infezione sono attorno al 30%. Allarmante è pure la crescita dei livelli di infezione in Mozambico. Segni incoraggianti sul declino nazionale dell’Hiv si registrano in Zimbabwe, anche se l’infezione delle pregnanti rimane a livelli alti (21% nel 2004).
In Africa Orientale la diminuzione dell’infezione tra le donne incinte è iniziata verso la metà degli anni ‘90 ed ora è evidente anche in varie zone urbane del Kenya, dove i livelli di infezione sono in diminuzione, dovuto probabilmente a cambiamenti di comportamento. Ma rimangono casi eccezionali; altrove nell’Africa Orientale (come in quella Occidentale e Centrale), i livelli di infezione rimangono stabili da vari anni.
Per quanto riguarda l’Asia e l’Oceania, l’epidemia è in espansione, specialmente in Cina, Papua Nuova Guinea e Vietnam. Ci sono pure segni allarmanti che altri paesi asiatici (inclusi Pakistan e Indonesia) siano sull’orlo di serie epidemie. Tali epidemie trovano il maggiore impulso da una combinazione di iniezioni endovenose di droghe e il commercio sessuale. Solo una manciata di paesi stanno facendo seri sforzi per introdurre programmi che mettono a fuoco questi comportamenti rischiosi.
La stessa cosa vale anche per l’Europa dell’Est e l’Asia Centrale, dove il numero di persone con Hiv è cresciuto nel 2005, e nell’America Latina, soprattutto tra le donne che vivono in situazione di povertà.
Tuttavia, negli ultimi due anni, l’accesso al trattamento antiretrovirale è notevolmente migliorato. Non è più solo nei ricchi paesi del Nord America e dell’Europa Occidentale che le persone bisognose di tali cure hanno una ragionevole possibilità di ottenerle; ma l’estensione del trattamento antiretrovirale ha raggiunto l’80% in paesi come Argentina, Brasile, Cile e Cuba. Ma nonostante tali progressi, la situazione è molto differente nei paesi poveri dell’America Latina e Caraibi, in Est Europa, nella maggior parte dell’Asia e praticamente in tutta l’Africa subsahariana.
Tuttavia, più di un milione di persone, nei paesi con medio e basso reddito, ora vive meglio e più a lungo, perché sotto cura antiretrovirale. Grazie a tali trattamenti iniziati alla fine del 2003, sono state evitate 250-350 mila morti nel 2005.

(Tradotto e adattato da: Unaids/Who Aids epidemic update: december 2005).

Unaids/Who Aids epidemic update




Senza paura di sbagliare

Di fronte al dilagare del virus Hiv in America Latina, chiesa e istituti di vita consacrata si sono mobilitati in due direzioni: combattere la discriminazione
e promuovere una rete di solidarietà.
Occorre aumentare la collaborazione con la società civile, senza perdere la specificità profetica, e mettere al primo posto la salvaguardia della vita…

Dal 1999 appartengo a una comunità dell’ordine dei cappuccini, che si dedica alla prevenzione e assistenza a persone che convivono con l’Hiv e lavoro nella pastorale dell’Aids.
Concepisco questo impegno come parte della mia vocazione francescana-cappuccina. Vocazione che si estrinseca a partire dalla fede e per questo la vivo come missione e non solo come filantropia.

La realtà dell’Aids nell’America Latina

Per capire la dinamica dell’epidemia in America Latina, occorre tener presente che essa è il continente dei contrasti sociali. Il Brasile, per esempio, è la 9ª potenza economica mondiale, ma occupa la 69ª posizione nella classifica degli indicatori sociali. Ciò significa che ci sono pochi ricchi e molti poveri e che la forbice si allarga di giorno in giorno: «I ricchi diventano sempre più ricchi, a spese dei poveri, che diventano sempre più poveri».
Ma la povertà non è limitata all’accesso alla ricchezza: essa si traduce in mancanza di casa, cibo, educazione, informazione, lavoro. La povertà diventa un vettore di incremento dell’epidemia.
I paesi con il più alto numero di sieropositivi sono Argentina, Brasile e Colombia; quelli con il più alto tasso di infezioni sono Belize, Guatemala e Honduras, con un tasso di incidenza dell’1%. I Caraibi sono la seconda regione del pianeta per tasso di infezione, con tassi di incidenza pari a 5,6 in Haiti e 2,3 nella Repubblica Dominicana. I paesi con le migliori coperture per le terapie antiretrovirali sono Brasile, Argentina, Cile e Messico.

Vincere la paura

La realtà in cui si dibatte il continente latinoamericano, con l’esperienza in essi maturata, mi spinge a proporre due prospettive: vincere la paura e costruire solidarietà.
Alla comparsa di un’epidemia segue, normalmente, la ricerca dei responsabili e delle spiegazioni della sua origine. Il primo atteggiamento è stato quello di attribuire a Dio la causa di tale malattia, come punizione esemplare contro i perversi.
Poi, quando si è capito che questa attribuzione non conveniva a Dio, si sono cercati tra gli esseri umani i responsabili della piaga. Facilmente sono stati trovati: omosessuali, tossicodipendenti, professionisti del sesso. Negli Stati Uniti si parla di quattro «H»: (h)emofilici, (h)omossessuali, haitiani e (h)eroino-dipendenti.
Oggi dobbiamo vincere la paura del virus, considerare che tutti siamo vulnerabili. Viviamo in un mondo con Aids. Viviamo in una chiesa con Hiv. Non tutti siamo sieropositivi per l’Hiv, ma tutti siamo coinvolti in questa realtà che ci tocca direttamente. Dobbiamo vincere la paura, poiché la paura non vince il virus.
Bisogna vincere anche la paura delle persone che vivono con l’Hiv. Rompere il «fare» discriminatorio e trattarle come esseri umani. Superare l’idea che tali soggetti sono malati perché colpevoli. In un certo senso, si tratta di «neutralizzare» la malattia, cioè, smitizzare, «smoralizzare», comprendere le persone con l’Hiv come si comprende una persona ipertesa o diabetica.
Vincere la paura attraverso l’informazione, la consapevolezza, la sensibilizzazione. Secondo Paulo Freire, grande pedagogo e educatore brasiliano, «nessuno educa nessuno, ma tutti si educano vicendevolmente». Nessuno si confronta con l’Hiv come un problema che lo riguarda, che lo tocca, se non trova qualcuno che lo provochi con forza a tale riguardo. Ossia, qualcuno che faccia riflettere sui valori, credenze, affettività, visioni dell’uomo e del mondo, che stabilisca un rapporto faccia a faccia, in grado di comprendere l’umanità che abita in ognuno di noi.
Evidentemente ciò non si fa con grandi campagne televisive, anche se questo non è del tutto inutile.

Costruire solidarietà

In America Latina è in corso un grande movimento di solidarietà verso le persone che vivono con l’Hiv. Sono molte le istituzioni e iniziative promosse da congregazioni religiose per offrire servizi, accoglienza e cure ai sieropositivi. Grande attenzione al problema esiste in tutta la chiesa in generale. In Brasile, per esempio, essa è molto attiva attraverso la «pastorale dell’Aids», in collaborazione con varie organizzazioni della società civile, rispondendo alle istanze del governo nella lotta all’Aids.
Si moltiplicano le iniziative da parte della gerarchia ecclesiastica, delle conferenze episcopali per incentivare questa solidarietà. Il 1º dicembre 2005, la Conferenza episcopale latinoamericana (Celam) ha pubblicato un documento intitolato: La Chiesa latinoamericana di fronte all’epidemia di Aids.
Si moltiplicano incontri, convegni, seminari per dibattere il problema. Nel luglio 2005 abbiamo organizzato il 1° Simposio latinoamericano e dei Caraibi per approfondire l’azione della chiesa cattolica nel mondo dell’Aids. Vi hanno partecipato un vescovo, religiosi, religiose e laici di 14 paesi dell’America Latina e Caraibi, oltre a una delegazione di Timor Est.
Il percorso fatto fino a oggi ci spinge a guardare avanti, affrontando altre sfide e prospettive; prima di tutto quella di rafforzare la rete latinoamericana di lotta all’Aids. Questa rete si sta allargando, con lo scopo di animare, articolare, stimolare la partecipazione di tutti i cristiani nell’affrontare l’epidemia e nel dare visibilità alle risposte ecclesiali in questo campo.
Altra sfida consiste nel disseminare il lavoro di cooperazione con la società civile e lo stato. In Brasile è in atto un’esperienza molto promettente: è il lavoro articolato tra il Ministero della Sanità e la Pastorale dell’Aids, dipartimento ecclesiale creato dalla Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) nel 2001. Non si tratta di sostituire il governo, tanto meno di ripetere l’azione delle istituzioni pubbliche, ma di un lavoro complementare, in cui la chiesa contribuisce al controllo dell’epidemia a partire dalla sua visione, dalla sua spiritualità, dai suoi valori. Nonostante alcuni dissensi rispetto ad alcune pratiche del Ministero della Sanità, crediamo di poter dare il nostro contributo, a partire dalla nostra specificità.

SFIDA CONTINUA

La sfida più grande è il lavoro di controllo dell’Aids, in cui la chiesa deve avere un coinvolgimento sempre maggiore. Credo che la chiesa e la vita consacrata, con la sua dimensione profetica, possano contribuire in modo significativo e fare la differenza nella lotta contro l’Aids. L’impegno concreto permetterà di superare il pregiudizio corrente, secondo cui la chiesa ostacola il lavoro di prevenzione all’Aids.
È necessario abbandonare l’atteggiamento fiscalista, controllore; bisogna annunciare, piuttosto che esigere. Credo fermamente che il nostro primo obiettivo sia prendersi cura della vita. Dobbiamo salvare la vita anche di coloro che non sono in grado di osservare gli ideali che annunciamo. Sotto questo aspetto la dimensione profetica della vita consacrata può offrire un valido contributo.
La chiesa deve credere in ciò che la capacità umana può raggiungere. Non dobbiamo avere paura di sbagliare. Un sacerdote eudista colombiano, che ha imparato il cammino della prevenzione all’Aids vivendo accanto a professionisti del sesso, mi ha insegnato che è più produttivo chiedere perdono, anziché chiedere il permesso.
Nonostante tutto, la chiesa è un’istituzione che gode di credibilità e accettazione per l’impegno che svolge in questo campo: possiede strutture, risorse umane, mezzi di comunicazioni, disponibilità di volontari, capacità di contattare spontaneamente le persone. Nessun governo ha la possibilità di arrivare dove può giungere la chiesa, quando organizza un servizio specifico per affrontare i problemi dell’Hiv/Aids, mediante la pastorale dell’Aids.
Ciò vale anche a livello mondiale, contribuendo a raggiungere gli obiettivi del Millennio, che sintetizzerei in un’unica sfida: universalizzare la prevenzione, il trattamento e l’assistenza. Prevenzione intesa come intervento faccia a faccia, nella metodologia alla pari, rispettando la cultura, il processo di ogni persona.
Universalizzare il trattamento significa globalizzare l’accesso agli antiretrovirali e altri medicinali necessari alla cura delle infezioni secondarie. Una buona adesione al trattamento ripercuote, infatti, nella qualità della prevenzione, con la riduzione di ri-infezioni e contaminazioni.
L’assistenza include analisi, controllo medico, lotta alla povertà, reinserimento sociale, rispetto dei diritti e costruzione del senso di cittadinanza.
Che la forza dello Spirito Santo non ci lasci soccombere nella paura, ma ci aiuti nella costruzione solidale che preserva la vita e fa sorgere i segni del regno.

José Beardi




TANTI ELOGI…

Ho ricevuto la rivista: complimenti! È molto ben fatta e le foto ben scelte.
Io sto portando in giro la mia mostra fotografica e il documentario sui ragazzi di strada di Kenya, Congo, India, Perù e Brasile. Magari riuscirò a portarla anche a Torino, chissà…
Un saluto!

Roma

Massimiliano Troiani




La salute non può essere un businessLavorare in un Dipartimento di salute mentale

I «matti» non sono più quelli di una volta. Nelle strutture arrivano disoccupati, poveri, extracomunitari, drogati. Anche la società non è più la stessa: l’1 per cento della popolazione mondiale è affetta da schizofrenia; circa il 15-20 per cento da depressione; una percentuale ancora più alta da ansia. Lavorare sulla salute mentale è sempre più difficile. Ma un principio dovrebbe rimanere saldo ed immutabile: la salute non può essere un campo dove cercare il profitto.

La giornata lavorativa sta terminando, nel fatiscente caseggiato adibito ad ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano. Da sotto si sente salire per le scale l’odore del cibo preparato al centro diuo.
I due infermieri rimasti guardano lo psichiatra seduto di fronte, i gomiti appoggiati sulla scrivania e le mani a reggere la testa appesantita da una interminabile serie di colloqui.
Una delle infermiere e lo psichiatra responsabile del centro diuo si conoscono da venti anni, da quando, giovani e carichi di entusiasmo, si erano trovati a lavorare insieme, in quello stesso quartiere della periferia torinese così cambiato negli anni.
Quando capita che i due si incontrino con un po’ di tempo a disposizione per parlarsi, succede talvolta che si mettano a parlare dei bei tempi andati, quando c’erano più risorse, più energie, quando la psichiatria era un argomento di primaria importanza e quando tutto era migliore.
Anche i «matti» non sono più quelli di una volta. Ormai negli ambulatori arriva di tutto e i bisogni sono sempre più complessi: disoccupazione, povertà, extracomunitari, e poi quanti pazienti usano anche droghe assortite, una volta non era tutto così incasinato.
Morena e Ugo non sono poi così vecchi, una cinquantina d’anni lo psichiatra, 43 l’infermiera e sono ancora innamorati del loro mestiere, certo non delle condizioni in cui si trovano ad operare.
Quando nel 1985 hanno iniziato a lavorare insieme, l’équipe era composta da 3 medici a tempo pieno, una psicologa, un assistente sociale (e per un certo periodo addirittura due), 6 infermieri a tempo pieno ed i casi attivi erano circa 300, quasi tutti di chiara pertinenza psichiatrica, per i quali attivare le risorse di personale ed economiche (sussidi, una tantum, borse lavoro, soggiorni) a disposizione.
Un bel mix tra i 2 vecchi infermieri che avevano vissuto da protagonisti la fase propedeutica alla chiusura dei manicomi con la famosa legge 180 (conosciuta come legge Basaglia) e il resto del personale, tutto alle prime esperienze, amalgamati dalla responsabile che, pur ancora giovane, aveva lavorato anch’essa in manicomio, permettevano all’équipe di sentirsi parte di un progetto forte, con una salda base ideologica e con valori morali ed etici che permettevano di esprimersi in un’atmosfera di creatività, ma anche di efficienza.
Sarebbe ora interessante vedere come si è trasformata quell’équipe: al momento un medico a tempo pieno che sta scoppiando per il carico lavorativo, un medico che si occupa anche di ricerca e quindi dedica metà tempo all’attività clinica con i pazienti, e un terzo medico che al momento non c’è perché in gravidanza e comunque per quel terzo posto negli ultimi anni si sono avvicendati, per motivi diversi, ma costituendo un dato che comunque dovrebbe far riflettere, 5 medici e un sesto sta arrivando.
Da un anno è finalmente tornata l’assistente sociale, figura professionale che per un paio d’anni era mancata, mentre gli infermieri sono quattro più una a 15 ore. La figura dello psicologo è presente: una. Insomma, un’équipe assolutamente indebolita, mentre il carico lavorativo, ovvero il numero dei pazienti in cura che necessitano di visite regolari e abbastanza ravvicinate, è aumentato di molto, diciamo almeno del 30% in questi 20 anni.
Per non parlare di quello che succede nei tui in ospedale, quando dal pronto soccorso si viene chiamati per affrontare situazioni di marginalità di gran lunga superiori alle reali competenze cliniche.
Dunque, cos’è la psichiatria oggi? Come funziona un Dipartimento di salute mentale? Proviamo a raccontarlo.
EVOLUZIONE
O INVOLUZIONE?

Credo che ormai non esistano più dubbi sui danni che sta causando il modello neoliberista. Questa non è la sede per soffermarci, ma sicuramente una serie di contraccolpi li respiriamo anche nell’ambito del nostro lavoro di operatori della salute mentale.
Il neoliberismo promuove il «Dio-mercato» e riduce tutto a merce, come tale monetizzabile. Persino l’acqua si vuole privatizzare (1).
Che c’entra questa storia con la psichiatria? C’entra: basta considerare la salute mentale come un terreno di profitto.
Dunque, l’oggetto di cui si occupa la psichiatria, ovvero la salute mentale, rappresenta un fenomeno complesso articolato su almeno tre livelli: quello biologico, quello sociale e quello psicologico.
Negli anni, a seconda della cultura dominante, si è enfatizzato un aspetto piuttosto che un altro: fino alla seconda metà degli anni Sessanta, per esempio, l’aspetto primario era quello del controllo sociale e gli ospedali psichiatrici, i manicomi, ben assolvevano questo compito.
Le forti spinte di rinnovamento sociale veicolate dal movimento dell’ormai mitico Sessantotto fecero sì che in quegli anni l’accento fosse posto prevalentemente sul ruolo della società come «fabbrica della follia» (2).
Le caratteristiche insite nel movimento di demanicomializzazione, l’atmosfera di libertà e impegno che si respiravano funzionarono da collante e diedero una forte identità agli operatori della salute mentale: lavorare in psichiatria significava sentirsi protagonisti di un cambiamento epocale che ridava dignità e soggettività al malato psichiatrico, essere per la creatività, l’impegno e la solidarietà contro i vecchi modelli di reclusione, violenza, negazione dei diritti (3).
Un forte senso di appartenenza caratterizzava gli operatori di quegli anni, con la sensazione che quello che si faceva non era solo un lavoro, ma un impegno sociale fondamentale per determinare i futuri orientamenti del nostro stile di vita. D’altro canto la psichiatria era un argomento «a la page» e lo status di operatore in questo campo era fonte di riconoscimento e interesse.
Ricordo quelli che sono stati i miei veri maestri, i vecchi infermieri, come li chiamavamo, che ci raccontavano gli orrori dei manicomi e ci mostravano più con l’esempio che con le parole il senso del lavorare con la persona che si affidava a noi.
Scivolo su questo terreno infido, dove rischio di diventare retorico perché è un ideale che sento di aver ereditato da loro, come se mi avessero dato il testimone dei loro sogni di rinnovamento e delle loro lotte. Ecco perché mi permetto di ricordare Pino, che era stato il protagonista della rivolta contro la violenza medica (4), ma anche Augusto, Meo, Carlo e poi mi fermo scusandomi con quelli che non cito, ma l’elenco sarebbe troppo lungo.

GLI ANNI NOVANTA: L’«IO» SOSTITUISCE IL «NOI»

Poi gli anni Novanta, quelli della stasi: i protagonisti della chiusura dei manicomi vanno in pensione, portandosi dietro i loro ideali e lasciandoci con un po’ di idee sulla necessità dell’approccio integrato, che tenga conto di tutti e tre gli aspetti citati in precedenza.
Intanto la società cambia, le multinazionali diventano sempre più padrone della scena politica. Banca mondiale, Fondo monetario internazionale (Fmi) e Organizzazione mondiale del commercio (Omc) esasperano la logica del profitto. promuovono la figura del vincente, ci colonizzano l’immaginario e ci convincono che la scienza e le operazioni finanziarie in borsa ci porteranno alla felicità.
Si impone il pensiero unico: mangiamo allo stesso modo (magari Mc Donald’s), vestiamo allo stesso modo, pensiamo (o non pensiamo) allo stesso modo, compriamo di tutto e di più e promuoviamo la competizione.
L’«io» si sostituisce al «noi», il tessuto sociale si scolla, la solidarietà si perde o al massimo viene promossa dalle banche (quelle stesse che danno un grande aiuto alla devastazione del pianeta, ad esempio finanziando gli oleodotti in Amazzonia o i fabbricanti di armi).
Allora, se tutto è merce, perché non può esserlo anche la salute?, pensano le multinazionali del farmaco, che iniziano a difendere con i denti i cosiddetti «brevetti».
Difenderli, perché in India, in Thailandia, in Brasile e in altri paesi del Sud si producono farmaci a basso prezzo (circa 10 volte in meno del prezzo praticato dalle multinazionali), nonostante le molecole chimiche appartengano alle ditte, tutte rigorosamente nordamericane ed europee, che le hanno scoperte e che non vogliono vedere ridotti i propri guadagni.
Assoldati i migliori avvocati, le multinazionali attaccano: «Come vi permettete di produrre senza la nostra autorizzazione i farmaci che noi abbiamo scoperto e per di più a venderli sottocosto?».
Certo, la concorrenza è – stando ai canoni del mercato neoliberista – «sleale», ma permette che almeno 8 milioni di persone l’anno possano accedere a cure altrimenti troppo costose, salvandosi la vita per malattie che in Occidente ormai non sono più causa di morte.
«Ma noi usiamo i soldi per fare ricerca», ribattono le multinazionali, salvo poi scoprire che degli incassi megamiliardari solo una piccola parte viene reinvestita in ricerca, diciamo il 20%, mentre il resto è puro profitto.
Tra l’altro, della quota spesa per la ricerca la parte maggiore è investita per malattie tipiche delle società ricche: diabete, obesità e via discorrendo.
A proposito di obesità (5), che razza di società è la nostra, che spacciamo per portatrice di valori contro il rischio di un «meticciato» catastrofico (come ha sentenziato il presidente Pera, la seconda carica dello stato italiano) e che riesce a produrre obesi e bulimici quando un miliardo di persone vivono con un dollaro al giorno e muoiono di fame?

PSICOFARMACI: UTILI (CON MOLTI «SE» E MOLTI «MA»)

Stabilito che la salute può rappresentare un business, anche la salute mentale può esserlo.
In fondo, l’1% della popolazione mondiale è ammalata di schizofrenia, circa il 10-15% di depressione e poi c’è sempre l’ansia che è un bel terreno di lavoro.
Si tratta solo di trovare la strada giusta, per esempio favorire la ricerca delle neuroscienze, in fondo questo è un campo ancora poco esplorato e conosciuto.
Una volta analizzati fino alle più piccole sfumature i recettori cerebrali, potremo preparare psicofarmaci sempre più sofisticati, che differiscono tra loro per cose minime.
Così per ogni classe vai con la fantasia: per gli inibitori della serotonina che bene funzionano nella depressione ecco un gran numero di molecole, ognuna poi prodotta da più case farmaceutiche e così tra Seropram, Sereupin, Seroxat, Fluoxeren, Prozac, Maveral, Fevarin, il cittadino si perde. Attenzione, non che questi farmaci non funzionino. Anzi, sono una grande scoperta.
Dov’è il trucco, allora? A più livelli, direi: da un lato creare una medicalizzazione eccessiva dei problemi, dall’altro una fiducia totale e acritica nel progresso delle neuroscienze. Ma – si può obiettare – c’è la preparazione dei medici e la deontologia? Vero, però consideriamo due aspetti.
Da un lato come si svolge il lavoro dei medici (6), condizionati da una ricerca finanziata dalle multinazionali e da un aggioamento gestito soprattutto dagli informatori farmaceutici (7). Dall’altro, guardo alle scuole di specialità, dove i futuri psichiatri vengono prevalentemente abituati a ragionare in termini di sintomi e in cui – mi si permetta di esagerare – le emozioni rischiano di essere considerate «tempeste chimiche».
Manca solo un passaggio, ormai ed è quello di riprendere il concetto neoliberista del vincente, della fiducia nella scienza, un modello di mondo dove è bandito il dolore, dove non si parla della morte come di un aspetto della vita, ma – al contrario – dove la si esorcizza cercando di restare eterni giovani trapiantandosi i capelli, facendosi spianare le rughe, livellare l’addome, rimodellare il seno, le labbra, il naso e via discorrendo. E se per caso c’è un incidente di percorso allora via con la soluzione magica del farmaco!
Ma negare la morte significa promuovere un mondo falso, negare la sofferenza significa negare la compassione, la solidarietà, la dimensione spirituale, il diritto per tutti di reclamare i diritti negati.
Intendiamoci: non nego l’utilità dei vari psicofarmaci (si veda la tabella), che io stesso uso e anche con buoni risultati. Quello che mi spaventa è l’uso improprio delle categorie diagnostiche non tanto da parte degli psichiatri, che al massimo si adeguano, ma dalla «costruzione collettiva» nella mente delle persone comuni. In tal modo, si arriva a confondere il dolore con la malattia, a scindere la sofferenza dal neurotrasmettitore chimico in difetto, a isolare la malattia del singolo dalla crisi della società in cui ci muoviamo e della quale siamo impregnati.
E allora si ricorre in maniera sempre più massiccia agli psicofarmaci, che, tra l’altro, hanno costi sempre più elevati, non giustificati dai miglioramenti, peraltro inoppugnabili (non tanto in termini di efficacia, quanto in termini di minori effetti collaterali).

OLTRE I PREGIUDIZI E GLI STEREOTIPI

Piccola riflessione: e se in psichiatria invece di parlare solo di guarigione imparassimo a parlare di qualità della vita?
Lo psichiatra allora non è più il professionista della sofferenza, così come la sofferenza non è più una malattia di cui quasi vergognarsi, ma un bagaglio della grande valigia della vita. Allora un altro concetto è importante: quello di evitare le categorie, le generalizzazioni.
In quest’ottica non esistono più gli schizofrenici e gli psichiatri, i depressi e gli infermieri, i disturbi di personalità e gli psicologi, ma persone diverse che fanno la medesima professione o che hanno la stessa malattia.
In questo modo, possiamo meglio realizzare la soggettività di ciascuno, premessa importante per poter continuare ad esistere agli occhi degli altri in quanto individui con la nostra unicità fatta di biologia, di costituzione, di temperamento, ma anche di incontri, di esperienze e storie che nessun altro ha uguali alle nostre.
Così parleremo di persone che esercitano la professione di medici o di infermieri, così come parleremo di persone ammalate di schizofrenia o di depressione e questo ci permetterà di evitare generalizzazioni che sono alla base dei pregiudizi e degli stereotipi: «gli schizofrenici sono violenti e imprevedibili», «gli psichiatri sono eccentrici e particolari». Modalità per impedire il reale incontro con l’altro che è la grande magia della vita, anche quando la generalizzazione è in positivo tipo: «i matti hanno un’intelligenza e una sensibilità eccezionali» o «gli psichiatri sono studiosi e profondi».
Scopriremo così che esistono psichiatri simpatici e altri antipatici, schizofrenici intelligenti e no, infermieri spiritosi ed infermieri noiosi, matti generosi ed altri gretti.
Allo stesso modo occorre riflettere insieme sullo stato di salute del mondo in cui viviamo, con le sue devastazioni ambientali,i cibi adulterati, l’aumento della povertà, la crisi industriale, i conflitti etnici e religiosi, le guerre preventive perché, come diceva il psicoanalista James Hillman nel suo libro dal titolo provocatorio «Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio» (8), non si può non far entrare nella stanza della terapia quello che succede fuori, se no si rischia di promuovere una cultura solipsistica, di ripiegamento su se stessi che è già il grande dramma della nostra società occidentale così impregnata di narcisismo e quindi di perdita di contatto con il proprio sé più intimo e con la dimensione empatica verso l’altro.
Evitiamo anche, per quanto possibile, di chiuderci nelle nostre specificità, impariamo a promuovere la cultura della mescolanza e della curiosità per le differenze degli altri, insieme al rispetto nel piacere della reciprocità.
Bisogna poter procedere nella direzione della condivisione consapevole, insieme alla scoperta che, come con amici abbiamo ripetuto in quella meravigliosa esperienza che è stato, nel 2002, il primo forum piemontese itinerante della salute mentale: «La psichiatria non è solo il luogo tetro della sofferenza e della solitudine, ma anche il luogo dove recuperare solidarietà, senso d’appartenenza e capacità di provare piacere!».
Non a caso il sottotitolo del forum, più come augurio che come provocazione, recitava «Divertirsi insieme è terapeutico!».
L’operatore della salute, lo psichiatra in particolare secondo le rigide gerarchie del sogno fasullo del neoliberismo, non è quindi il dispensatore di formule scientifiche o di ricette che allontanano il dolore con una pastiglia (meglio se costosa) quanto piuttosto un compagno di strada nella costruzione di percorsi individuali e collettivi. Per andare dove? Verso il migliore dei mondi possibili, quello dove le differenze siano ricchezze e non ostacoli e dove, come recitano gli indigeni dell’Ezln messicano per bocca del loro portavoce, il subcomandante Marcos, si possa «camminare al passo degli ultimi», dove «si cammini domandando» per arricchirsi nel confronto e non irrigidirsi sulle proprie convinzioni e dove si eserciti il «comandare obbedendo», perché chi ha una posizione di potere deve obbedire ai bisogni di chi sta sotto e lo ha eletto come portavoce.
È un’utopia quella di un mondo che contenga tutti i mondi, come affermano gli amici zapatisti?
Bisogna essere dei «visionari pratici», come dice Alberto Oliveira, il giovane psicologo che nel «Borda», il gigantesco e fatiscente manicomio maschile di Buenos Aires, è riuscito ad aprire una radio che ormai trasmette su scala nazionale in tutta l’Argentina e che ha succursali in America Latina, ma anche in Europa, (compresa l’esperienza di «Radio 180», a Mantova).
In questo periodo di crisi dello stato del benessere (welfare state) e di congiuntura internazionale (di cui l’immigrazione, la disoccupazione e la perdita del tessuto sociale rappresentano alcuni degli epifenomeni), le istituzioni sociali sempre più hanno dovuto prendersi cura di ciò che la base sociale non riesce ad affrontare.
Allora, se lo stato del benessere, «costruito» per rispondere a bisogni primari, è da sempre costretto ad occuparsi di ogni cosa, non viene difficile immaginare come in tempo di crisi, il pronto soccorso di un ospedale pubblico possa diventare il contenitore di tutti i disperati e gli emarginati, portando problematiche extra-cliniche che funzionano da ulteriori stressors su di un personale già al limite del collasso.
Ecco, perché non è pensabile che l’équipe del pronto soccorso, soprattutto il personale infermieristico, non abbia uno spazio continuativo e regolare dove provare a metabolizzare i vissuti e le difficoltà, reali e simboliche: intendo uno spazio di supervisione psicologica.
Dal momento che non esistono le competenze umanitarie, che sono doti e bagaglio personale che non s’imparano sui libri, ma nei banchi di scuola della vita, ritengo che la professionalità dello psichiatra in queste situazioni consista nella capacità di orizzontarsi nel groviglio emozionale, lavorando, come si dice in linguaggio tecnico, sul «controtransfert».
Nel carico di angoscia io devo capire quale emozioni passano per la testa della persona che ho di fronte, perché solo così posso capie i bisogni e la risposta ad essi.
Per fare questa operazione io devo però discriminare tra ciò che appartiene a me e ciò che appartiene all’altro: se percepisco rabbia, è legata al mio modo di sentire o è veramente quello che mi passa l’altro? E ancora: è una rabbia destata dal comportamento della persona di fronte a me che evoca miei problemi o è rabbia che appartiene davvero a lei?
Per esemplificare, se io sento di avere un problema con la sottomissione e l’incapacità di farmi le mie ragioni, una persona con gli stessi meccanismi, mi scatenerà una rabbia e un fastidio incredibili, perché funziona da specchio per qualcosa di mio che non voglio accettare, anzi che nego con forza.
Se io invece fossi in grado di accettarmi per quello che sono, o se per lo meno sapessi il mio modo di funzionare in senso psichico, potrei confrontarmi con un problema analogo portato da un’altra persona senza scaricare su di lei la rabbia e l’odio per quella parte buia di me che non accetto al punto di non vederla neppure.
Pertanto, la capacità di analizzare il mosaico emozionale attribuendo a ciascuno la sua parte (per quanto possibile, non stiamo parlando di operazioni puramente tecniche, c’è sempre la contaminazione del nostro essere umani) permette una partecipazione «ripulita», ma empatica al dolore delle persone che chiedono aiuto alle mie specifiche competenze.
Ovviamente l’aspetto tecnico è comunque secondario a quello umano: il dolore è un luogo di assoluta solitudine, al quale potersi avvicinare con il dovuto rispetto, ma senza la paura paralizzante.

L’ANSIA DI VIVERE
(E DI POSSEDERE)

Il nostro stile di vita è purtroppo sempre più centrato sull’affermazione e sull’efficientismo, illudendoci che fama e ricchezza ci possano evitare la malattia, il dolore e la morte.
L’ansia di vivere e di possedere ci rendono sempre più fragili di fronte al nostro e altrui dolore. Questo materialismo che non voglio etichettare (dategli la connotazione che preferite) ci ha tolto la capacità di assumerci il peso del dolore degli altri: per non vedere il fallimento del sogno di onnipotenza imposto dal nostro modello di vita cerchiamo subito una soluzione tecnica.
Allora possiamo illuderci di chiamare lo specialista, lo psichiatra in questo caso, che con il suo sapere rimetta le cose a posto, tutto sotto controllo, perpetuando un modello di fuga dalla nostra condizione di uomini, per farci diventare quello che è il nostro ruolo.
Allora non ci saranno più uomini e donne spaventati o arrabbiati o estroversi o solitari o generosi o avidi, ma avremo invece medici capaci o incapaci, manager di ghiaccio o falliti, studenti primi della classe o incapaci e l’imperativo sarà sempre e solo «essere all’altezza, sempre e comunque, costi quel che costi».
E allora anche il confronto con il dolore dell’altro sarà insopportabile o perché dovremo dimostrare di essere all’altezza di gestire senza farci coinvolgere, con la generosità fredda di un Rambo, oppure perché rischieremo di entrare in contatto con la nostra piccola, fragile umanità.
Il nostro bagaglio professionale ci può e deve aiutare, quello che importa è sentirsi uomo tra gli uomini, sentirsi in «compassione», nel senso di patire insieme, ma insieme trovare la forza per accettare la nostra fragilità e l’angoscia di morte che ne deriva.
Possiamo evocare la pietas cristiana o citare Madre Teresa di Calcutta o ricordare un personaggio più laico come Che Guevara nella lettera ai figli («occorre che sappiate sentire la sofferenza di ogni uomo come se fosse la vostra»). Certo è che dobbiamo ritrovare un senso nella nostra civiltà, altrimenti arriveremo all’aberrazione di pensare che lo psichiatra è lo «specialista della sofferenza».

FERMARE LA DERIVA VERSO LA MEDICALIZZAZIONE

Se la legge 180 era stata resa possibile dai fermenti di quegli anni e dalle lotte politiche degli anni ’60-’70, inserendosi nel medesimo filone, è ora importante «contestualizzare» la situazione della psichiatria rispetto a quello che succede nel mondo (9).
Nell’ottica neoliberista, colpire i deboli non è un progetto, quanto la logica conseguenza di un modello che riduce a merce qualsiasi cosa.
Come insegnano gli amici boliviani, l’acqua non è una risorsa (termine che sottende la possibilità di mercificare) quanto un bene comune e come tale da condividere con solidarietà e nel rispetto di tutti.
Difendere la legge 180 (10) e la psichiatria pubblica significa, pertanto, difendere lo stato sociale, ma è anche importante capire come farlo per essere al passo dei tempi anche nelle lotte.
Quello che stiamo imparando dal movimento dei movimenti è la necessità di unirsi per «cambiare il mondo senza prendere il potere». Come farlo? Creando un mondo dove fare incontri per scambiare identità e per mescolarsi, contaminarsi e conoscersi, scambiare esperienze e opportunità tra diversi che siano uniti da due sole discriminanti ferree: «no» alla guerra e «no» all’esclusione creata dal modello neoliberista. Mentre il modello alternativo deve cercare di rispondere alla filosofia del «pensare globalmente, agire localmente».
Pertanto, pur tenendo conto delle differenze tra i vari dipartimenti di salute mentale, risulta chiara l’importanza di contrastare il pericoloso restringimento del concetto di cura sul versante medico-biologico, mentre il resto viene declassato a contorno.
Un recente studio di Emanuela Terzina, ricercatrice presso il dipartimento di epidemiologia clinica dell’Istituto Mario Negri ci dimostra come a livello predittivo la diagnosi conti relativamente poco sulla prognosi (5%), a confronto con la presenza di una rete sociale che incide per il 35% sull’andamento della malattia.
La ricerca scientifica, totalmente in mano alle multinazionali e all’università, deve spostare l’interesse sulla formazione, fermando la deriva verso la medicalizzazione.
La rivisitazione del paradigma di malattia in psichiatria deve ricordarci quanto avvenuto, per esempio, rispetto alla tubercolosi, ove le abitazioni insalubri sono state individuate come importanti tanto quanto l’agente patogeno.

IL MANICOMIO
È DENTRO DI NOI

Siamo partiti dal nostro ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano. Siamo passati ai danni prodotti dal neoliberismo su ogni aspetto della vita e dunque anche sulla salute, troppo spesso mercificata. Abbiamo parlato della trasformazione della psichiatria e sulla sua eccessiva medicalizzazione, a scapito del contesto, che invece è essenziale.
In una vita da cui è bandito il dolore, esorcizzata la morte, esaltata la filosofia del vincente, il manicomio è dentro di noi, nel nostro dividere il mondo in buoni e cattivi (11), in giusto e sbagliato, senza appelli, né legittimi dubbi.

Ugo Zamburru




TAV – inchiesta Un progetto da oggi al… 2018 (almeno) (1)

TAV- articolo 1

QUELLA FERROVIA «S’HA DA FARE»…

Una comunità lotta contro un’opera che distruggerà per sempre un’intera valle
e sconvolgerà la vita dei suoi abitanti. Un progetto dannoso (per la salute, l’ambiente, la vivibilità), inutile e costosissimo, eppure in tanti – anche tra i mezzi
d’informazione – lo sostengono.
Vincerà la volontà dei cittadini o l’arroganza del potere?

Il 31 ottobre 2005 verrà ricordato a lungo nella Valle di Susa come una storica giornata di lotta popolare in difesa del territorio e dei suoi abitanti. Alle 4 del mattino, come tanti Robin Hood, centinaia di valligiani con i loro sindaci si sono inerpicati tra i boschi del massiccio del Rocciamelone, nei pressi di Mompantero, per costruire barricate di sassi e tronchi ed impedire l’accesso ai terreni interessati dai lavori per la linea ad Alta velocità Torino-Lione, più nota come Tav.
Verso le 6, sono arrivate le forze dell’ordine, a centinaia, ma per ore sono state fermate dalla barriera umana creata da donne, bambini, giovani, vecchi partigiani, che cantavano "Bella ciao" e l’"Inno di Mameli". Una battaglia determinata ma pacifica tra le montagne della resistenza partigiana, a cui carabinieri e polizia, in tenuta antisommossa, protetti dagli scudi e dai caschi, ad un certo punto hanno risposto con le manganellate e le spinte. Qualcuno tra i manifestanti è anche finito all’ospedale, qualcun altro in caserma.
Quando, a sera, i "Robin Hood anti-Tav", ormai sicuri di aver vinto la prima battaglia, sono scesi dalle mulattiere, tra gli applausi e gli abbracci di chi era rimasto a valle, è arrivata la beffa: nuove forze dell’ordine hanno sostituito i colleghi ed occupato le postazioni. La delusione non ha però scalfito la determinazione della popolazione, che il giorno successivo, festa di Ognissanti, si è ritrovata a manifestare seguendo le regole delle resistenza pacifica nonviolenta. È stato un successo clamoroso di partecipazione, un momento appassionante, un’occasione per spiegare i perché di questa lotta ad oltranza.
Venaus, Val di Susa. Giugno 2005. Trentamila persone si sono ritrovate insieme per dire "no" alla ferrovia Torino-Lione. Dalla cittadina di Susa a Venaus, il lunghissimo corteo ha marciato per tre chilometri e mezzo nell’afa di una giornata di tarda primavera piemontese. Tante le famiglie con bambini piccoli nel passeggino o in bici, le associazioni ambientaliste, sindacali, culturali, i sacerdoti, i ragazzi, i sindaci della Valle, la Caritas provinciale.
Una risposta di massa, tranquilla, pacifica e molto determinata, a un progetto voluto da politici e gruppi industriali, che avrà, così sostengono scienziati, medici, economisti e amministratori locali, costi altissimi sia a livello economico sia di rischio ambientale e sanitario.
Una lotta coraggiosa, che va avanti da oltre quindici anni, ma che da un paio ha assunto una connotazione di "massa". Non un pugno di montanari anti-progresso e ignoranti, come sono stati definiti, ma un popolo consapevole, informato, che vuole vivere e continuare a far crescere i propri figli in una valle salubre, senza la paura di morire di mesotelioma pleurico causato dalle inalazioni delle invisibili fibre d’amianto, estratto dalle rocce perforate per i tunnel della Tav.
La grande novità e la ricchezza morale e culturale dell’opposizione all’Alta velocità valsusina è la creazione di un movimento trasversale alle ideologie politiche e ai partiti. Una democrazia partecipativa, dal "basso", dove tutti contano nello stesso modo, dove il dialogo e il confronto sono continui e le decisioni sono prese attraverso assemblee pubbliche.
I presidi, luoghi di vigilanza, discussione e incontro (trasformatisi, nei mesi, da "accampamenti" a vere e proprie casette, con cucine, frigoriferi, tavoli, ecc.), sono nati sulle aree interessate dai sondaggi: Borgone, Bruzolo, Venaus. Nei primi due sono previsti dei carotaggi per valutare l’impatto dell’opera sul terreno; a Venaus si tratta di un vero tunnel di servizio, lungo 9 km e largo 6 metri. Una truffa che, facendo passare per "sondaggio" geognostico quest’opera, ha potuto evitare l’esame della valutazione ambientale, ottenendo immediatamente il finanziamento europeo.
Il movimento ha dunque deciso di presidiare questi terreni, avvicendandosi nei tui, giorno e notte. Per tutta l’estate, centinaia e centinaia di persone si sono ritrovate a mangiare insieme – condividendo cibi e bevande -, a cantare, ballare, discutere, giocare, pregare. A Borgone, area che ospita il sito "Maometto", di notevole interesse archeologico, è stato costruito un altarino alla Madonna del Rocciamelone – da sempre la montagna sacra delle Valli di Susa – e in più occasioni sono stati organizzati momenti di preghiera multireligiosa.
L’aria di lotta civile pacifica, gandhiana nella forma e nei contenuti, che si respira, è entusiasmante per chiunque si avvicini: è un qualcosa di inconsueto, ormai, per il nostro paese, dove i più sono abituati ad accettare passivamente qualsiasi decisione (tranne quando si tratti di calcio!) che vada a detrimento del diritto, della qualità della vita e delle speranze future .
Televisioni, quotidiani, riviste ad alta tiratura e di "tendenza" stanno facendo opera di "disinformazione mediatica", rifiutando di evidenziare la voce di tecnici ed esperti che si oppongono al progetto, e quella degli abitanti. Sembra che in alcune redazioni, addirittura, transitino rappresentanti di partiti per suggerire le "dritte" ai giornalisti, a dire, cioè, cosa e come si deve rispondere.
Alla democrazia partecipativa, la politica ufficiale risponde con l’arroganza e con il muro dell’omertà. Come a sottolineare che le esigenze e le legittime richieste delle amministrazioni locali non sono da tenere in reale considerazione. Il "macro" che ancora una volta si scontra con il "micro". In Valle di Susa come nel Mugello, a Roma e Napoli come in Sicilia, in India come in Brasile.
"Non si può realizzare una grande infrastruttura come l’Alta velocità ferroviaria Torino-Lione ignorando il parere contrario di 40 enti locali e l’opposizione di tutta la popolazione locale – sottolineano al Wwf -. Così avviene in Piemonte come in Veneto e in Friuli, dove si vorrebbero aprire i cantieri per la realizzazione delle varie tratte della direttrice est-ovest del cosiddetto Corridoio 5 (con un costo stimato di circa 28 miliardi di euro)".
Il climatologo Luca Mercalli aggiunge: "Agli inizi del XXI secolo sarebbe più opportuno ragionare nei termini della "bassa velocità" e dell’"alta qualità". Il progetto dell’alta velocità ferroviaria necessita, infatti, di un consumo di materie prime, suolo, energia, sproporzionato rispetto al risparmio di pochi minuti sui tempi di percorrenza. Il vero progresso deve puntare sulle vie rinnovabili. È qui che scienza, economia e politica si devono alleare".
Nicoletta Dosio, insegnante di storia e rappresentante storica dei "comitati no Tav", sottolinea come l’opposizione popolare sia anche indirizzata contro un certo modello di sviluppo fondato sulla distruzione degli ambienti naturali e umani e su "grandi opere", inutili e nocive.
L’illusione della crescita infinita, dunque, che sfrutta le risorse naturali e umane, e che sta facendo soffocare di rifiuti, fumi, inquinamento, scarti industriali, il pianeta. E affama interi continenti. Reitera e amplia le ingiustizie sociali e politiche. E scatena rabbia e disperazione.Ma perché i valsusini si oppongono a questa "grande opera"? Perché temono gli effetti devastanti prodotti dalla movimentazione di rocce amiantifere, contenute in un grande massiccio geologico che si estende per diversi chilometri (e che unisce bassa Val Susa e Valli di Lanzo), le cui polveri, respirate (ed è impossibile non respirarle), provocano una forma tumorale che non dà scampo. "Sono determinata a far sì che i miei figli possano vivere in una valle non pericolosa – afferma Roberta, una giovane mamma di due bimbi piccoli -. Questa zona è già stata abbastanza devastata da autostrade e altre grandi strutture". "Le informazioni sanitarie che stanno circolando grazie a un documento firmato da 80 medici di base della Valsusa – le fa eco un’altra signora, Rossana, mentre spinge un passeggino -, sono davvero allarmanti: si parla di mesotelioma pleurico, che uccide in nove mesi, provocato dalle polveri di amianto, e di linfomi, causati dall’uranio. C’è poco da star tranquilli. Come mai i politici non sono interessati alla nostra salute e alla sopravvivenza in questi territori?".
Il 5 novembre una fiaccolata di 15 mila "sfaccendati" ha sfilato per le strade di Susa, in un silenzio composto e rispettoso, senza slogan e senza bandiere di partito. Sfaccendati, appunto, come sono stati definiti dal ministro Pietro Lunardi.
Lunardi, intervenendo a un convegno sull’Alta velocità nel mondo organizzato presso la Fiera Milano, aveva dichiarato: "Non ci impressionano le fiaccolate di gente che non sa come passare il tempo e che forse potrebbe investirlo in modo migliore". Il ministro (familiare degli azionisti di maggioranza della Rocksoil, importante società di geo-ingegneria per la progettazione di gallerie) non è stato l’unico a sparare bordate contro il popolo no-Tav: politici, imprenditori ed economisti si sono alternati in affermazioni dure sulla protesta popolare e l’opposizione all’Alta velocità.
In quegli stessi giorni di novembre vengono rinvenuti – come prevedibile! – un volantino inneggiante alle Br e un pacco bomba (confezionato per non dover esplodere) destinato ai Carabinieri. Quest’ultima notizia ha riempito spazi enormi su quotidiani e Tv, offuscando le attività di "resistenza civile passiva" delle popolazioni. Quale migliore pretesto che una bomba o il terrorismo per gettare ombre su un movimento distantissimo da vocazioni violente? In alcuni Tg, la lotta no-Tav è stata infatti astutamente accostata, attraverso commenti ed immagini, al pericolo del terrorismo e della sovversione. Un’operazione vergognosa, poco consona ad una democrazia.

Angela Lano
(continua)

Angela Lano




TAV – inchiesta Riflessioni attorno al Creato

TAV – Dalla Cina all’India, dal Brasile alla Val di Susa

DIFENDERE IL TERRITORIO, DIFENDERE IL CREATO

Il Creato è sotto assedio della speculazione cieca e criminale
delle multinazionali e delle mafie locali. Ma la gente sta imparando a ribellarsi ai soprusi, come dimostra il popolo valsusino.

di Paola Rando (*)

 

Valsusini: popolo schivo, mite, pacifico. Per l’onorevole Martinat addirittura «razza in via di estinzione». Martinat, e gli altri, si devono però rassegnare a una evidenza: i valsusini sono «in via di espansione».

Non solo perché fanno ancora bambini (che cresceranno a «pane-e-notav», come già è successo per le attuali generazioni di 25/30enni) ma soprattutto perché in questa santa guerra al TAV stanno espandendo molte cose. La coscienza di sé, la rete dell’amicizia e della fratellanza, la consapevolezza di far parte di un popolo molto più grande: il popolo della Terra che, ovunque, resiste e si oppone ai mille tentativi di devastazione messi in atto dall’universale partito degli affari (altri Terrestri che, però, sembrano Alieni).

Magari i valsusini non lo sanno, ma in questa difesa della prole, della specie e del territorio sono in buona compagnia. Popoli abituati a subire, a chinare la testa di fronte a un nemico dotato dei super-poteri del denaro e dell’arroganza oggi si ribellano.

Nei villaggi cinesi, dove il terreno non è più coltivabile e l’acqua del fiume non più bevibile a causa dell’avvelenamento provocato dalla capitalizzazione e speculazione selvagge, i contadini resistono. Osano ribellarsi. Lo pagano con la prigione e, a volte, con la morte, Ma vanno avanti.

In India, una anziana donna coraggiosa, Krishnammal e il suo altrettanto coraggioso e infaticabile marito, Jagannatanh, sono in lotta contro le multinazionali dell’allevamento intensivo dei gamberetti, uno dei tanti effetti perversi della globalizzazione.

L’acqua delle vasche di «coltura», zeppa di antibiotici, viene regolarmente versata in mare. Lungo le coste, i pesci muoiono a causa di questo inquinamento chimico. I pescatori dovrebbero spingersi più al largo ma non possono permettersi barche adatte. In più, l’acqua avvelenata delle vasche penetra nelle falde acquifere e molte persone dei villaggi hanno seri problemi agli occhi e alla pelle.

Questa coppia di guerrieri non-violenti resiste. Ha girato l’India a piedi, quando si batteva per la terra ai contadini, un’altra delle loro epiche battaglie. Dice Krishnammal: «Abbiamo coperto molti distretti solo camminando e camminando. Questa è la tecnica, non puoi andare in macchina a chiedere la terra in dono. Ci vuole un po’ di sacrificio e un approccio di tipo spirituale. Questo era un movimento di natura divina e per poter sciogliere il cuore della gente dovevamo camminare come si cammina per andare in pellegrinaggio in un luogo sacro. Era un approccio spirituale al problema che partiva dal principio che la terra è un dono di Dio. Come il sole, l’acqua, l’aria». Recentemente lei e il marito sono stati nel magentino, altra zona in via di devastazione a causa della tratta ad Alta velocità Novara-Milano.

I valsusini non l’hanno saputo. Perché la rete vera, quella che terrà uniti tutti i «giusti« della terra, è ancora in costruzione. Ce ne sono solo alcuni tratti: la rete di Lilliput, di padre Zanotelli, i Comuni per la pace, i Social forum… Eppure, presto, sarà diverso. Dovrà essere diverso. La rete di internet, unica democrazia rimasta, ne sarà il supporto essenziale.

Novecento anni fa, una donna girava, a piedi o a dorso di mulo, per la Germania invitando a seguire le vie del Signore. L’ha fatto fino alla sua morte, a quasi 80 anni. Si chiamava Ildegarda di Bingen. Cento anni dopo, un piccolo uomo di Assisi, con un grande cuore e un grande carisma, girava a piedi il vecchio continente e arrivava fino nei Luoghi Santi. Senza mezzi di comunicazione se non il passa parola dei mercanti e dei pellegrini lungo le affollate vie del sale, della lana, e delle reliquie, dopo un anno aveva mille «frati e suore», dopo due anni…

È stato come un contagio. Un virus benefico che assaliva le anime non contaminate dalla sete di beni terreni. Francesco si trovò con un bel problema: «Il Signore mi diede dei frati, ma io non sapevo cosa fae». Oggi i francescani sono migliaia, in tutto il mondo, anche se la loro regola non è più quella austera e pura del fondatore.

Ma oggi, c’è un francescano, Luìs Flavio Cappio, vescovo di Barra, nel Brasile progressista di Lula. L’amatissimo Frei Luìs ha fatto un durissimo sciopero della fame contro un’opera colossale, lo spostamento di un intero fiume, il San Francisco. Un progetto da 1,7 miliardi di dollari, appaltato dal ministero dell’ambiente: una Grande opera che renderà più ricchi i ricchi latifondisti e porterà alla fame i già poveri contadini.

Frei Luìs è fratello dei valsusini. Lui difende i contadini, come Krishnammal difende i pescatori. E tutti difendono, in questo modo, il nostro bene più grande: il Creato.

 

Il Creato è sotto assedio della speculazione cieca e criminale delle multinazionali, delle mafie locali. Dal business dello smaltimento illegale di rifiuti tossici, da quello della deforestazione per l’allevamento intensivo di mucche e hamburger, dalla costruzione di opere faraoniche tanto devastanti quanto inutili.

E anche dal business dello smantellamento delle stesse. È recente la notizia che la pista olimpica di bob nella Alta Valle di Susa, sarà smantellata a fine Olimpiadi. I costi per la sua manutenzione sarebbero esorbitanti. Quello che non si dice, è che anche distruggerla sarà un business per la ditta che ne appalterà i lavori. Per realizzarla è stato sterminato (in pochi giorni) un immenso lariceto che Madre Natura aveva «costruito» in alcune centinaia d’anni. Sono state ricoperte dal catrame di un parcheggio alcune tombe celtiche.

La pista di bob verrà smantellata. Ma chi ci ridarà quei larici? Verranno riaperte le tombe chiuse nel nuovo sepolcro di asfalto?

Quegli antichi popoli avevano qualcosa di meraviglioso che noi abbiamo perduto: il contatto intimo, profondo, religioso, con la natura. La nostra Madre Terra che le «talpe» dell’ingegner Lunardi (ministro delle infrastrutture in Italia e trapanatore di montagne in Francia in modo da dribblare l’ostacolo del conflitto d’interessi) si apprestano a stuprare.

Come non ribellarsi? Il Creato che avremmo dovuto custodire. Il Creato fatto dalla voce/luce di Dio. Il Creato di cui siamo parte e che è parte di noi… massacrato.

La sua fine è la nostra. Forse i suoi distruttori sono davvero alieni. E i paladini che lo difendono, i soli veri terrestri. Le devastazioni di un pezzo di Creato operate dalla Torino-Lione non sono immaginabile: 15/20 anni di cantieri in funzione giorno e notte; cantieri a stretto contatto con i centri abitati; cantieri nelle montagne, nelle vigne, nei pascoli, nei boschi. Che non saranno più montagne, pascoli, boschi. Ma solo cantieri. In un inferno di rumore e polvere continui.

E il contatto con la natura, quello che i valsusini hanno ereditato dai loro antenati galli, liguri e celti, impedito. I valsusini vengono privati non solo del silenzio, del sonno, dell’aria da respirare (inquinata dalle fibre di amianto), dell’acqua (falde prosciugate dai tunnel) della terra da coltivare, ma anche della possibilità di vivere e contemplare la natura. Forse per qualcuno questo è un danno secondario, magari neanche ci hanno pensato. Eppure le Grandi opere devastanti privano l’uomo di un suo diritto fondamentale: il rapporto con il Creato.

 

C’è anche chi preferisce guardare le cime degli alberi mosse dal vento, piuttosto che la televisione. Preferisce seguire il volo di un gheppio piuttosto che una telenovela. Queste persone saranno rese orfane del piacere di contemplare. Gli si taglia quel filo sottile e invisibile che li tiene legati al Padre. Che li fa sentire figli amati. Circondati dalla bellezza che è riflesso del Principio. Questo è un danno che non ha compensazione.

Un danno gravissimo e irreversibile. Nelle città, l’inquinamento luminoso ci ha privati delle stelle. Nelle campagne, gli immensi cantieri ci toglieranno le stelle, il volo degli uccelli, il rumore dei ruscelli, le voci degli animali.

Staremo chiusi in casa (chi potrà fuggirà) a guardare la televisione. A guardare il Creato nei documentari. Non è un futuro da fantascienza. Succede domani. In val di Susa succede con la prima trivella.

E succede nell’assordante silenzio dei media. Perché un movimento popolare come quello dei valsusini, non-catalogabile, non-etichettabile politicamente, fa paura. I Resistenti della valle di Susa conoscono da anni la frustrazione di non riuscire a far arrivare la loro voce fuori dal territorio.

La Torino-Lione è fortemente voluta dalla destra e dalla sinistra. È una torta da 20 miliardi di euro. E le menzogne riportate dai mezzi d’informazione (disinformazione) sono continue. La «guerra» contro la Torino-Lione è una guerra anche contro la menzogna. Eppure la forza della verità è grande. Più grande degli affari.

 

In ogni specie animale, e persino vegetale, quando c’è in gioco la sopravvivenza, scattano meccanismi di auto-difesa. Ai valsusini è successo tutto questo, con in più un’altra bella sorpresa, la voglia di divertirsi un po’ alla faccia di chi gli vuole male.

E sono nate le «Truppe speciali Anti-TAV». In dotazione… scola-pasta di ogni tipo, senso dell’umorismo e ironia. Prima apparizione a Bruzolo, il giorno del previsto arrivo delle trivelle. E poi grande festa nottua, con falò, al presidio di Borgone. È bello far parte di questo popolo tranquillo. E guerriero.

 

(*) Paola Rando è nata in Val di Susa. Dopo 40 anni passati in diverse città, è tornata nel suo paese natale, Villar Focchiardo, dove vive con tre gatti.

Paola Rando




RORAIMA Reportage tra gioia e rabbia

TERRA AMARA


Finalmente, gli indios di Roraima

hanno potuto festeggiare l’«omologazione» di un pezzo di terra che, d’ora in poi, sarà loro. Ma non tutti si rassegnano alla… sconfitta, continuando ad esprimere,
con la violenza, il loro rancore…

Quella del 21-24 settembre 2005 è stata una grande festa nel territorio di Roraima (Brasile): dopo lunga attesa, la terra di «Raposa Serra do Sol» è stata «omologata», cioè consegnata definitivamente ai popoli indigeni, legittimi proprietari. La vigilia è stata preceduta da un evento funesto: due giorni prima i fazendeiros hanno appiccato il fuoco a quasi tutte le costruzioni della missione di Surumú.
Una delegazione di cinque persone, la senatrice Emanuela Baio, mons. Aldo Mongiano, padre Silvano Sabatini, fratel Carlo Zacquini e padre Giordano Rigamonti, in cammino verso Maturuca, decideva di fermarsi a Surumú per essere testimone degli effetti di tanta violenza.
La festa è stata grande ugualmente: le ceneri della missione hanno maggiormente stimolato la resistenza degli indigeni nella difesa dei loro diritti e la volontà di ricostruire il loro futuro.

Surumú, 20 settembre

Scuola, ospedale, casa delle suore, chiesa… tutto distrutto dalla violenza: quali sono le sue prime impressioni, senatrice?

Sgomento e dolore hanno accompagnato le quattro ore che abbiamo trascorso nella missione di Surumú. A distanza di giorni, ancora rabbrividisco quando penso alla violenza racchiusa in quelle macerie, allo scontro tra odio e amore. Di violenza, terrorismo e scontro si può parlare, perché questo è un male che accompagna l’uomo e che nella piccola e sperduta missione di Surumú, ha espresso il peggio di sé.
Tutto è cominciato al nostro arrivo a Boa Vista. Fratel Carlo ci ha accolti, immergendoci immediatamente nella triste realtà: «Qualche ora fa, hanno bruciato la nostra missione a Surumú». Poche parole per esprimere il dramma di un popolo: gli indios dello stato di Roraima, dimenticati dai più, poco conosciuti, ma forti della loro esistenza, cultura, tradizioni e capacità. Non saranno i fazendeiros, conniventi con alcuni «politici», a distruggere questa comunità (vedi riquadro). Ci hanno già provato, ma non sono riusciti. Nonostante lo sgomento e la rabbia che ho ritrovato tra i missionari, è riemerso immediato l’amore.
Il giorno seguente il nostro arrivo a Boa Vista, padre Mario Campos, parroco di Surumú, ci ha detto pure che i giovani vogliono continuare l’esperienza comunitaria della missione. Una scelta coraggiosa, che ha illuminato di speranza il paesaggio devastato dall’odio e che ha fatto in modo che condividessimo un momento di riflessione e preghiera con quei giovani. Questo mi ha convinta ancor di più sulla necessità di continuare a sostenere il loro coraggio, sia da parte degli italiani, come hanno già fatto con la campagna Nós existimos, sia da parte delle istituzioni, come la Commissione diritti umani del Senato della repubblica.
Girando fra le macerie della scuola, casa delle suore, ospedale e nello squallore dei pochi resti della chiesa, mi sono subito accorta che la mano potente e violenta di quegli uomini (quasi sicuramente ubriachi, a detta dei presenti) hanno colpito con un’intelligenza raffinata. Quella di Surumú non è solo una missione: è il centro pulsante di una nuova cultura. Lì vengono formati i nuovi leaders e istruiti gli indios, si trova la quintessenza della paziente e faticosa opera compiuta dai missionari della Consolata per più di 30 anni di impegno. Ma lì si trova anche un ambulatorio medico, importante per le prime cure delle comunità indie.
Nella povertà e desolazione di quel luogo risiede il futuro, ricco di speranza. Se nell’ambulatorio si percepisce la solidarietà umana e il riconoscimento di un diritto inalienabile dell’uomo, quale è quello alla salute, nei resti della chiesa si intravede la profonda ricerca spirituale, nella scuola la costruzione del presente: tre simboli che rappresentano per i giovani le rocce sulle quali costruire il futuro.

Calpestiamo le ceneri ancora calde sul pavimento; preghiamo con i leaders della comunità; padre Mario, il parroco, è in lacrime e a stento riesce a dare la parola a giovani che vogliono celebrare la vita: le emozioni sono stampate su tutti i volti dei presenti…

Sono sopravvissute solo le mura perimetrali della chiesa: il resto è polvere, ceneri. È un paesaggio surreale, ma brutalmente vero. Eppure abbiamo vissuto un momento di intensa spiritualità: i giovani della scuola, nel momento di preghiera, si sono disposti in cerchio, quasi a rappresentare il circolo dell’esistenza, e ognuno di loro ha gridato il proprio nome, affermando così una presenza che non è stata portata via dal vento dell’odio, ma che lì, in quel cerchio, formava la catena della vita: la forza dell’amore.
Hanno poi intonato canti e letto testi sacri, per suggellare il sentimento di perdono e la richiesta di aiuto: è stata una comunione di intenti e una grande lezione di vita. Nessuna recriminazione né minaccia di vendetta; nessuna spiegazione per cercare di capire… Ma hanno accettato quella sorte con la forza della speranza nella pace e nella prospettiva di un futuro migliore, senza dare spazio alla rassegnazione.
Con noi c’era anche il neo vescovo di Boa Vista, mons. Roque Paloschi, il quale ha individuato il percorso dove camminare come un fratello fra fratelli, una strada in cui i missionari sono i seminatori del regno, tra un popolo che soffre.

Maturuca, 21 settembre

Il capo Jacir De Souza ti prende sotto braccio e ti accompagna alla maloca centrale, accolta da una folla festante… Come ti sei sentita, tra un popolo orgoglioso del traguardo conquistato?

Il loro scortarci alla grande maloca con canti e balli, con una gioia incontenibile, mi ha fatto constatare la spontaneità di un’ospitalità non consueta. Per noi occidentali è semplice condividere la felicità di questo popolo; non lo è altrettanto capirla fino in fondo. Solo stando lì, sentendo il racconto di persone che per 30 anni hanno sopportato le angherie dei fazendeiros (retribuiti per il loro lavoro con bottiglie di alcornol), ci si può forse avvicinare, rispettare e apprezzare la loro dignità di popolo; mentre noi non siamo in grado di guardare al futuro, essi hanno la felicità dell’essenziale, invisibile agli occhi.

La Commissione diritti umani del Senato ha fatto un prezioso lavoro di appoggio alle rivendicazioni degli indigeni di Roraima per la riconquista della loro terra: quale è stato il tuo messaggio? Quale ipotesi di collaborazione per il futuro?
«Costruire una società nella quale i diritti di pochi si trasformino nel diritto di tutti» è la prima affermazione che ho pronunciato durante la festa di omologazione. È lo spirito che ha accompagnato i missionari e che ha mosso anche il nostro impegno alla Commissione diritti umani del Senato. La mia partecipazione rappresenta una tappa di un percorso. Le 44.000 firme consegnate al presidente Marcello Pera costituiscono il sostegno, la condivisione e il rafforzamento di una battaglia (vedi riquadro).
Come rappresentante del Parlamento italiano ho ringraziato gli indios di Roraima per il coraggio dimostrato, per la forza morale che ha consentito di superare barriere invalicabili, per la paziente attesa di vedere ripristinati i loro diritti umani e civili, senza mai ricorrere alla violenza, senza attimi di esitazione o demotivazione.
Quello che unisce le nostre nazioni è anche un altro sentimento: l’amore verso la propria terra. Il concetto di terra è ben definito, indica dei limiti e proprio in questi ritroviamo i nostri valori, che, nonostante gli usurpatori, le catastrofi naturali o l’allontanamento forzoso, non potranno essere stravolti. Dentro questo diritto naturale è riconosciuta la nostra esistenza, la disponibilità a essere amati per la nostra identità, essere accettati anche da chi, forse ancora oggi, non vuole riconoscere quel grande e unico popolo.
Nel momento in cui si ammette il diritto alla terra, si riconoscono anche diritti umani essenziali: alla vita, all’alimentazione, all’acqua potabile e, quindi, all’esistenza. L’impegno del Parlamento italiano continuerà, vigilando da lontano e da vicino e lavorando affinché questi diritti, che non sono ancora pienamente riconosciuti, siano suggellati anche dal Tribunale internazionale di giustizia.
Con i missionari e la comunità indigena lavoreremo anche per far crescere sempre più la conoscenza culturale di questo popolo. Brasile e Italia, insieme, possono contribuire, con la forza della frateità, a costruire un mondo migliore, fatto di tante diversità, ma realizzato con giustizia, libertà, pace e democrazia.

Boa Vista, 21 settembre (sera)

In città circolano voci su una spedizione punitiva nei tuoi confronti… con l’accusa di ingerenza, già sbandierata dai media nei giorni precedenti: hai avuto paura?

L’atteggiamento di intimidazione nei nostri confronti, a mezzo stampa, aveva già avuto un precedente, nell’agosto di questo anno, quando il senatore Pianetta, presidente della Commissione dei diritti umani, si era recato in visita a Roraima. Forse siamo stati fraintesi: il nostro intervenire non era finalizzato all’ingerenza, ma alla cooperazione con questo popolo e le istituzioni brasiliane.
Non nego che tali intimidazioni mi abbiano spaventata, però non potevano impedire la mia visita, in quanto ero profondamente convinta del valore del mio compito.
Non posso nemmeno negare il conforto morale datomi dai missionari della Consolata che, attraverso la disponibilità e l’autornironia per quanto stava accadendo, mi hanno dato la forza per non abbattermi e hanno fatto in modo che anche questa esperienza mi rimanesse impressa come positiva.

Brasilia, 22 settembre

Incontri con deputati e senatori dello stato federale del Brasile: quali sono i suggerimenti dati e ricevuti riguardo al futuro dei popoli indigeni di Roraima?

Fra Brasilia e lo stato di Roraima è come se ci fosse una dissociazione. Ciò che sembra possibile nelle aule del Parlamento federale è vissuto come difficile o impossibile a Maturuca e a Surumú. Le ragioni sono molte e non sta a noi giudicare le scelte politiche degli uni o degli altri. Credo sia importante capire, per individuare la via da percorrere, continuare il nostro aiuto e il sostegno internazionale a una causa non solo giusta, ma essenziale per il futuro dell’umanità.
Come ci ha detto il vescovo di Boa Vista: il diritto alla terra è un diritto inviolabile dell’uomo. Anche alcuni parlamentari federali lo affermano. Ci hanno ripetuto che questa è una competenza dello stato federale. Peccato che il governatore di Roraima, quando il presidente Lula, il 15 aprile 2005, ha firmato il decreto di omologazione, abbia dichiarato sette giorni di lutto per Roraima!
Il nostro compito in Brasile è quello di creare un ponte tra due sponde che hanno gli stessi obiettivi: se da una parte ci sono i parlamentari brasiliani impegnati per gli interessi del popolo indio, dall’altra compaiono missionari, associazioni e cittadini che ambiscono alla serenità e al benessere; le due sponde fronteggiano lo stesso fiume, ma non hanno lo stesso materiale per costruire un collegamento, le stesse parole per comunicare.
Stiamo seguendo questa prima delicata fase, ascoltando entrambe le motivazioni, traducendo gesti incompresi in un messaggio reciproco di solidarietà. La prima impressione è, infatti, quella che i fazendeiros non siano convinti a lasciare le terre, nonostante lo stato federale abbia assegnato loro altre proprietà.
I colleghi brasiliani ci hanno chiesto l’impegno a continuare a sostenerli dall’Italia; ma anche di non rinunciare a raggiungerli, evitando interferenze, e aiutando il processo di autodeterminazione del popolo.
Noi, invece, abbiamo chiesto di far sentire la loro presenza in quello stato del nord brasiliano. Ci hanno assicurato che non abbandoneranno il loro popolo: parola di brasiliani. Io, di certo, non lascerò questa esperienza come mero ricordo, ma per me sarà un obiettivo quotidiano: parola di italiana!

(di Emanuela Baio Dossi con Giordano Rigamonti)

Emanuela Baio Dossi




RORAIMA: la Campagna

La consegna delle firme

LA FORZA DI 44.000 FIRME

«In fretta, in fretta! Il presidente Pera vi sta aspettando!». Antonio Feandes, missionario della Consolata a Roraima (Brasile) e oggi consigliere generale dell’istituto, si asciuga emozionato il sudore; Carlo Maglietta, medico e presidente del «Comitato Roraima», si riannoda precipitosamente la cravatta; Silvia Zaccaria, antropologa, si aggiusta con la mano la chioma fluente; Vincenzo Gaeta, caporedattore di «Famiglia Cristiana», spegne il cellulare. E Francesco Beardi, cornordinatore nazionale di «Nós existimos», dichiara deciso: «Andiamo!». A Roma, il vistoso orologio di Palazzo Madama, sede dell’incontro con il presidente del Senato, segna le 12 e 13. È il 26 luglio 2005.

Marcello Pera accoglie sorridente e interessato i cinque delegati, accompagnati dal pensiero degli amici rimasti in anticamera: tutti attivisti nella campagna «Nós existimos» (Noi esistiamo) in favore dei popoli indigeni, piccoli contadini ed emarginati urbani di Roraima. Il quintetto illustra al presidente le sfide in una regione dove corruzione, violenza e impunità si intrecciano e regnano sovrane.
I missionari della Consolata operano a Roraima dal 1948. Dopo lunga riflessione, scelgono i popoli indigeni, cioè i più poveri dei poveri. A partire da tale opzione, essi passano dalle parole ai fatti, anche a livello internazionale. Lanciano alcune campagne.
– Ecco la campagna per gli Yanomami del 1979-80. Dall’Italia partono tantissime cartoline: sollecitano il presidente del Brasile a creare il «parco yanomami», perché la terra è essenziale per salvaguardare la cultura di un popolo indigeno. L’obiettivo verrà raggiunto nel 1991.
– Segue, nel 1988-89, la campagna «Indios Roraima», realizzata anche a livello europeo: moltissimi cittadini si appellano al Segretario generale delle Nazioni Unite, affinché siano tutelati i diritti dei popoli indigeni e sia salvaguardato l’ambiente amazzonico. La campagna include pure il progetto «Una mucca per l’indio», che si concreta in 10 mila capi di bestiame, oggi 42 mila.
– «Nós existimos» è l’ultima campagna. Lanciata nel Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel 2003; rispetto alle precedenti, si caratterizza per due novità. La prima: la campagna nasce ed è cornordinata in Brasile, da realtà locali (missionari della Consolata, Consiglio indigeno, ecc.); in Italia si raccolgono solo le «loro» proposte. La seconda novità: «Nós existimos» è globale; riguarda non solo i popoli indigeni, ma anche i piccoli contadini e gli emarginati della città. Insomma, tutti i poveri. E tutti scendono in campo, per la prima volta insieme, in una storica alleanza di oppressi. Queste le rivendicazioni di «Nós existimos»:
– omologazione-riconoscimento della terra indigena di Raposa Serra do Sol in un’area continua, allontanando gli invasori; controllo del territorio e rispetto delle culture ancestrali;
– approvazione del nuovo Statuto degli indios e sospensione del progetto (stralciato dallo Statuto) di estrazione mineraria in area indigena;
– no ad agevolazioni fiscali a latifondisti, coltivatori di riso, acacia mangium e soia; sì a investimenti per una politica agricola familiare e creazione di posti di lavoro in città;
– no alla produzione di «pasta base» per la cellulosa, onde scongiurare l’alto costo ambientale;
– sostegno a indios e non indios, in campagna e città, che vogliono salvaguardare l’ambiente e sviluppo sostenibile;
– lotta alla corruzione a ogni livello; in particolare, punire i responsabili di illegalità politiche;
– regolamentazione della presenza militare in terra indigena.

Q ueste rivendicazioni sono state sottoscritte anche da 44 mila italiani. Grazie alle firme, che padre Feandes e compagni consegnano al presidente del Senato, si è già ottenuto (indirettamente) un risultato positivo: il riconoscimento dell’area indigena «Raposa Serra do Sol» (17 mila kmq), avvenuto il 15 aprile scorso con il decreto del presidente brasiliano, Luis Inacio Lula da Silva. Una vittoria… dentro un cammino ancora irto di ostacoli.
All’incontro con Pera partecipa pure Enrico Pianetta, presidente della Commissione dei diritti umani del Senato, che in agosto consegnerà al presidente Lula le 44 mila firme. «Tante quante sono gli indigeni di Roraima: una firma per ogni indio» commenta con evidente simpatia la senatrice Emanuela Baio, anch’essa in sala.

Con la consegna delle firme, sulla campagna «Nós existimos» in Italia cala il sipario. Ma, «oltre il sipario», sul palco di Roraima, indios, piccoli contadini ed emarginati urbani recitano ancora a soggetto, rivendicando maggiore giustizia e libertà, in un contesto di sfacciata ricchezza e lacerante povertà. Ma sono incoraggiati da un nutrito «movimento» di forze religiose e sociali locali. È un’altra significativa vittoria…
Siamo grati ai 44 mila «attivisti» italiani. Attivisti: termine un po’ desueto, che è opportuno riscoprire nel suo significato migliore. «Non dobbiamo starcene come automi, senza iniziative proprie, per paura di sbagliare. Non lasciamoci rimorchiare. No, avanti! Camminiamo sempre, per farci santi e salvare tante anime!» (Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari della Consolata).

Francesco Beardi

Francesco Beardi




RORAIMA: la festa

L’antropologa

LA FESTA CONTINUA

Lo scandalo del finanziamento illecito ai partiti, che ha colpito il Partito dei lavoratori, nonché il suo leader, il presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva, si è ripercosso anche sullo stato di Roraima: le élites locali hanno ironizzato e accusato il presidente di sprecare il denaro pubblico nell’inviare un manipolo di poliziotti federali in quello stato, per garantire la sicurezza e il tranquillo svolgimento della festa per l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol. Così sono rimasti indifesi i villaggi di quell’area e alcuni dei suoi presidi più rappresentativi, come la missione di Surumú e il suo Centro di formazione e cultura indigena.
In questa latitanza del governo centrale, i gruppi tradizionalmente ostili ai popoli indigeni, tra cui anche molti indios corrotti dai politici locali, sono riusciti ad avere mano libera: appena 4 giorni prima dell’inizio della festa, 150 uomini incappucciati e armati hanno bruciato il Centro, la chiesa e l’ospedale. Dietro tali atti ci sono mandanti ed esecutori ben noti: il sindaco di Pacaraima (il maggior risicoltore della regione), Paulo César Quarteiro, di lontane origini italiane e il tuxawa (capo) del villaggio di Contão, Genivaldo Macuxi.
I media locali (giornali e Tv) hanno provveduto a coprire i mandanti e svelare gli esecutori materiali, che si sono assunti tutte le responsabilità. Al tempo stesso, però, hanno fatto di tutto per scagionarli: ripetendo fino alla noia la solita tiritera sull’«inteazionalizzazione» (che cioè, «chi difende i diritti degli indios sarebbero soltanto stranieri, interessati a impossessarsi delle loro terre») e rimproverando alla polizia militare locale di non intervenire contro gli stranieri e ad alcuni organi giuridici di garantire loro l’impunità.

I l tanto contestato manipolo di polizia federale (appena tre uomini, invece dei 150 attesi), sono arrivati all’inizio della festa, dopo la distruzione della missione di Surumú e l’incendio appiccato, il giorno successivo, al ponte sul fiume Urucurí, l’unico accesso via terra all’area indigena.
Questi fatti non hanno bloccato il normale svolgimento della festa; però ne hanno permesso la delegittimazione istituzionale. A parte la presenza di un consigliere personale di Lula, Cesar Alvarez, alla festa hanno partecipato unicamente dei «tecnici» dell’apparato governativo, come il presidente della Fondazione nazionale per gli indios e quello dell’Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria.
Si attendeva la presenza di almeno tre ministri: Marina Silva ministro dell’Ambiente, Miguel Rossetto dello Sviluppo agricolo e Marcio Thomaz Bastos della Giustizia, il quale aveva confermato da tempo la sua partecipazione. I timori per la sua incolumità (volantini distribuiti per tutta la città di Boa Vista con minacce di una manifestazione e altre azioni ai suoi danni e di rappresaglie nei confronti delle comunità indigene) hanno impedito a Bastos di recarsi alla festa dell’omologazione di cui egli è stato certamente il maggior artefice.
C’erano invece tanti stranieri, rappresentanti di organizzazioni non governative, che hanno fatto dire ai mezzi di comunicazione che «la festa è solo un’iniziativa degli indios e degli stranieri», fomentando ancora una volta la tesi dell’inteazionalizzazione dell’Amazzonia. «L’area unica – hanno ripetuto i media – è sostenuta da una minoranza indigena, dalla chiesa e dalle Ong, mentre la maggioranza degli indios vuole la demarcazione “in isole”, in quanto solo questa può garantire lo sviluppo delle comunità indigene e, soprattutto, dello stato di Roraima».
Certamente la regione del Basso Cotingo, che vede la presenza stabile dei grandi coltivatori di riso, fornisce spesso uomini, ma anche donne e giovani, alle azioni terroristiche condotte ai danni delle comunità che hanno sostenuto l’omologazione in area continua. Sembra, però, che questi individui si prestino a tali atti per tre motivi principali: ricevono compensi e vantaggi economici, sono ricattati, subiscono le pressioni della Missione evangelica dell’Amazzonia, da tempo presente nell’area (soprattutto nel villaggio di Contão) e da sempre contraria alla demarcazione in area continua.
Tuttavia, dietro coloro che a Roraima si oppongono al riconoscimento delle terre, dei diritti indigeni e alla riforma agraria, ci sono parlamentari locali che godono di notevole rappresentatività a Brasilia; essi vedono nella risicoltura e in altre attività intensive il futuro di Roraima, per cui non hanno nessun interesse alla regolarizzazione delle terre, perché ciò significherebbe un controllo più diretto sul loro uso, che non è mai esplicitamente dichiarato.
Ne deriva una situazione assurda: l’amministrazione locale di Roraima preferisce che non si realizzi il passaggio delle terre federali allo stato regionale e che, piuttosto, rimangano nell’indefinizione, consentendo così che tali terre cadano nelle mani dei grileiros (invasori illegali di terre federali), la mano lunga dei potentati locali, i quali, a loro volta, rappresentano gli emissari delle multinazionali che stanno davvero «inteazionalizzando» il Brasile.
Per esempio, nella regione domina pure un certo Walter Vogel, svizzero. Possiede 12 mila capi di bestiame, due agenzie immobiliari, diversi negozi, piantagioni di acacia mangium per migliaia di ettari, nonché il 40% delle terre coltivabili dello stato (escluse quelle indigene). Spesso i bianchi recriminano: «A Roraima c’è troppa terra per pochi indios»; ma non si sente dire: «Troppa terra per un solo bianco».

I ntanto la festa continua, sotto la guida del grande tuxawa Jacir de Souza Macuxi, che «è stato ricevuto a Brasilia come un capo di stato». Egli si sente erede di Makunaima, il leggendario capostipite di quei popoli indigeni che dalla notte dei tempi abitano quelle terre e le hanno difese con coraggio a prezzo del proprio sangue.
Jacir è commosso, mentre inaugura il monumento che rappresenta la mappa della regione Raposa Serra do Sol, realizzata da Barthó, un artista non-indio. Anche questo costituisce una significativa testimonianza, per dimostrare che la convivenza pacifica tra indios e non indios a Roraima e in tutto il Brasile è possibile e che il processo di riappropriazione delle terre da parte dei suoi più antichi abitanti, dopo 500 anni di soprusi, è ormai irreversibile.

Silvia Zaccaria

Silvia Zaccaria