Dichiarazione ipocrita?

Spettabile redazione,
dopo aver letto l’articolo «Fede e opere» (Missioni Consolata, gennaio 2000), ho anche voluto conoscere il giudizio dei protestanti.
Ecco: per loro la giustificazione, ricevuta senza meriti umani, è il nocciolo centrale, non un dogma tra altri. Sicché, sul loro versante, hanno ogni ragione per un concetto limpido, espresso chiaramente.
Invece, nella Dichiarazione congiunta dei cattolici e luterani dell’ottobre scorso, fu firmato un consenso che non significa «accordo». Si accusa il testo di ambiguità. Conclusione (loro): persiste inconciliabilità con la posizione cattolica e con un cattolico che continui a chiamarsi tale (cfr. Il consenso cattolico-luterano sulla dottrina della giustificazione, a cura di F. Ferrario e P. Ricca).
Io sono un po’ d’accordo.
Pertanto l’unico piano di unificazione, anche con i luterani, resta la carità. Questa sì al 100%.

«Al di sopra di tutto ci sia la carità – scrive san Paolo -, perché solo la carità ci tiene perfettamente uniti» (Col 3, 14).
Tuttavia la Dichiarazione congiunta ha il suo valore. Altrimenti, firmandola, sia i cattolici sia i luterani sarebbero stati ipocriti.

Mario Rizzonelli




Fuori i nomi!

Spettabile redazione,
mi riferisco all’editoriale «Lillipuziani, gettate le reti!» (gennaio 2000). Sui cibi transgenici, la deforestazione, ecc. si sono levate voci cristiane e laiche: tutte denunciano, segnalano pericoli. Ma gli interessi del grande capitale non sono raggiunti da tali parole, e gli attacchi all’Uomo, allo Spirito e alla Natura continuano.
Allora io dico: se avete avuto il coraggio di denunciare la piaga, fate ancora un passo avanti. E cioè:
– chi ha mostrato in tivù i bambini sfruttati, che cuciono i palloni di calcio, indichi anche gli acquirenti italiani: così, sapendo chi sfrutta i bambini, la gente non comprerà più quei palloni e combatterà gli sfruttatori;
– chi ha mostrato lo scempio di alberi in Amazzonia dica chi lo permette, chi acquista il legname prezioso abbattuto: così che si possa contrastare chi sta dietro all’operazione;
– la Cina o altri paesi usano gas dannosi per l’ozono che ci protegge? Si denuncino i loro governi e gli affaristi che trafficano con la Cina.
Tiriamo in ballo anche il governo del nostro paese, se necessario. Questo se ne frega della denuncia? Allora non votiamo più il partito o i partiti che lo sostengono. Gli affaristi continuano a fregarsene? Bene, non comperiamo più i loro prodotti.
Alla gente interessa poco che la Cina non rispetti molto i diritti umani; invece interessa molto che non diminuisca lo spessore dell’ozono. È ora di essere pratici o, meglio, coerenti con gli scopi della vostra sacrosanta campagna; tanto più che, se volete, sapete bene chi toccare.

Esiste un libro con nomi di imprese e persone coinvolte in abuso di potere, sfruttamento di minori, inquinamento dell’ambiente, vendita di armi, frode, corruzione…
Il libro è: Guida al consumo critico (a cura del Centro nuovo modello di sviluppo), Emi, Bologna 1996.

Marco Grandona




Popoli in girotondo

Caro direttore,
la copertina di Missioni Consolata di dicembre è molto bella, diversa dalle altre. Forse esprime un cambiamento di prospettiva per la missione e l’interazione con altre culture.
La comunicazione, come processo al di dentro di una cultura, sembra divenire la logica di produzione della cultura stessa, che diventa qualcosa di programmabile. I canali multimediali producono sia informazione sia apprendimento…
Giuseppe Guardiani
Torre San Patrizio (AP)

La copertina è un disegno di padre Angelo Riboli per un asilo di Nairobi (Kenya). Noi l’abbiamo intitolato «popoli in girotondo». Un sogno in cui crediamo.

Giuseppe Guardiani




Troppa grazie Stefano!

Caro direttore,
congratulazioni a lei e collaboratori per la magnifica Missioni Consolata. Siete uno splendido messaggio di attenzione e carità verso i nostri fratelli più sfortunati materialmente; però, grazie anche alle vostre informazioni, appaiono ricchi spiritualmente.
Stefano Roder
Musile di Piave (TV)

La lettera precedente ci accusava di apologia di omicidio. Questa invece…

Stefano Roder




Facciamo apologia di omicidio?

Egregio direttore,
su Missioni Consolata di dicembre è apparso un articolo sulle «donazioni» di organi. L’articolo pecca di grave superficialità, perché non affronta con serietà il problema dell’accertamento della morte del «donatore» e appare redatto sull’onda di un acritico e disinformato entusiasmo. Non si fa neppure menzione dell’alternativa civile e possibile allo scempio dei corpi umani, cioè del ricorso ad organi artificiali (meccanici o coltivati in provetta) o ad organi di animali geneticamente mutati!
La testimonianza dei signori Green merita rispetto, perché sofferta o in buona fede; ma avevano essi il diritto naturale di disporre della vita del loro figlio, di anticipae quasi sicuramente la morte?
L’affermazione del vescovo Karl Lehmann è viziata anch’essa da infantile entusiasmo, causato da un’insana e ben orchestrata propaganda di parte (interessata e come!), e denuncia mancanza di seria informazione.
Che poi i corpi costituiscano un bene comune della società è un’enormità di stampo marxista, inconciliabile con la fede religiosa. Viviamo, purtroppo, in un paese sedicente democratico, che ripudia la pena di morte per i colpevoli e condanna, senza processo, alla pena capitale milioni e milioni di innocenti. Basta pensare agli aborti, alle mostruose manipolazioni genetiche, alla soppressione in massa di embrioni, all’eutanasia strisciante, alla predazione di organi sopprimendo i moribondi!
La prego, signor direttore, di volere aprire un serio dibattito sulla grave questione, perché non si serve la verità ospitando un solo punto di vista, che si traduce in opera di indottrinamento e propaganda di bassa lega.
La ringrazio per la pubblicazione della mia lettera, anche se con qualche mutilazione, specialmente nella parte legale. Ben più grave è aver scritto «così lo sono altri donatori di organi», anziché «così i donatori di organi sono vivi», che violenta il mio testo cambiandone il significato. Refuso o volontà di ridimensionare la denuncia?
Seguo la rivista da una vita: ho sempre apprezzato le vostre iniziative e condiviso le vostre posizioni, anche se, da ultimo, un po’ troppo estremiste… Ma di fronte all’apologia dell’omicidio, sia pure mascherato solidaristicamente, rimango inorridito! Beati i moribondi del terzo mondo che non vivono nell’incubo dell’espianto!

Il trapianto d’organi solleva, certamente, inquietanti problemi morali e giuridici. Non intendiamo addentrarci nella questione. Altri lo fanno con maggiore competenza.
Missioni Consolata ha affrontato la donazione di organi sottolineando il possibile aspetto di solidarietà. Anche La Civiltà Cattolica (18 settembre 1999) si è espressa in questi termini, riportando il pensiero del vescovo Lehmann, nonché di papa Pio XII. Oggi il criterio della «morte cerebrale» è ritenuto valido anche dalla pontificia Accademia delle scienze.
Non crediamo di avere cambiato il significato della lettera di Carlo Barbieri. Se interveniamo sui testi, è per renderli più concisi e comprensibili.
Il «beati i moribondi del terzo mondo» ci suona stranissimo. In Africa si muore certo di vecchiaia, ma anche di fame, razzie, stragi, bombardamenti… come in nessun altro continente. Costoro sono morti beatamente?

Carlo Barbieri




Destinazione Bucarest

Ion è un ragazzo rumeno che, a vent’anni, decide di raggiungere la sorella a Torino per trovare lavoro e contribuire al mantenimento dei genitori anziani e malati. Ion non delinque, non commette alcun reato. È, come tanti, un irregolare che lavora sodo: 12 ore al giorno con un contratto «part-time».
Accade che Ion presenti domanda di regolarizzazione e che debba attendere un intero anno (dal febbraio 1999 al febbraio 2000) per ricevere una risposta. Intanto, il datore di lavoro si stufa di attendere le lungaggini della burocrazia e non si presenta alla convocazione della «Direzione provinciale del lavoro», che deve effettuare gli accertamenti sulla consistenza patrimoniale della ditta.
Ion non si dà per vinto. Trova un altro datore di lavoro disposto ad assumerlo e si presenta allo sportello adibito alle procedure di regolarizzazione, per la firma del nuovo contratto. Ma la burocrazia non accetta variazioni del contratto di lavoro e, pertanto, la sua richiesta viene respinta. A causa di ciò, contro Ion torna ad essere valido un vecchio decreto di espulsione per irregolarità del soggiorno (dunque, per un illecito solo amministrativo) e il giovane rumeno, dovendo essere espulso, viene rinchiuso nel recinto del «Centro di permanenza temporanea» di Torino.
Il giorno successivo egli racconta al giudice la sua paradossale vicenda. Il magistrato si rende conto che forse Ion potrebbe utilmente ricorrere contro il rifiuto del permesso di soggiorno e, pur convalidando il trattenimento nel Centro, dispone di procrastinare l’esecuzione dell’espulsione in attesa della decisione sul ricorso.
Nonostante il provvedimento di rinvio, incredibilmente, il mattino successivo Ion viene imbarcato alla Malpensa: destinazione Bucarest. A seguito delle rimostranze del suo avvocato, mentre si sta dando esecuzione all’espulsione, arriva la rettifica del giudice. Purtroppo, opposta a quella sperata: sì, Ion può essere espulso!
Cosa abbia indotto il magistrato ad ingranare la retromarcia in meno di 24 ore non è dato sapere. Certo, è curiosa la coincidenza temporale tra la disapplicazione di un ordine del giudice e il repentino mutamento di opinione dello stesso!

Questa piccola storia è solo un esempio, fra tanti, di come la sorte della vita del cittadino straniero in Italia sia posta nelle mani delle forze dell’ordine senza che sia possibile alcun effettivo controllo da parte dell’autorità giudiziaria. La vicenda raccontata dimostra come il confine tra regolarità ed irregolarità sia assai labile: mentre è difficile diventare regolari da clandestini, può essere molto facile il percorso inverso. E l’espulsione potrà sempre essere un’alternativa, non voluta ma possibile, anche per gli extracomunitari «buoni», quelli che lavorano e non mettono a repentaglio la sicurezza dei nostri quartieri.
Per questo, la soglia di attenzione per l’effettività delle garanzie e dei diritti di tutti non deve scendere fino all’accettazione della separatezza, della mancanza di trasparenza, controllo e informazione, ove la discrezionalità può diventare arbitrio senza che nessuno se ne accorga, tranne chi lo subisce.
Guido Savio
Avvocato dell’«Associazione
studi giuridici sull’immigrazione», Torino

Guido Savio




Il gran signore

Cioè fratel Modesto Zeni,missionario della Consolata.
Nato a Cavedago (TN) nel 1921e morto a Torino
il 6 novembre 1999.Ha trascorso oltre 50 anni
in Tanzania.Lo chiamavano anche «il moro».

Un aggiustatutto

Che fratel Modesto Zeni sia stato un veterano d’Africa, con alle spalle oltre 50 anni di Tanzania, è noto probabilmente a tanti addetti ai lavori della missione.
Pochissimi, invece, sanno che tra le sue molteplici attività missionarie (muratore, meccanico, idraulico, elettricista, capomastro di conventi e cattedrali, distributore di viveri e materiale edilizio, benzinaio, fabbro, aggiustatutto…) fratel Modesto sia stato anche un esperto ed appassionato arbitro di calcio, anzi il maestro e capo degli arbitri nella città di Iringa.
Al termine di ogni santo giorno dell’anno, egli dedicava qualche ora di tempo al calcio e all’arbitraggio. Oltre a tenere d’occhio lo svolgimento delle partite e controllare dalla panchina il comportamento degli arbitri e dei giocatori, fratel Modesto doveva pure, come giudice supremo, dirimere tutte le beghe calcistiche, assolvendo o condannando con relative squalifiche, sospensioni e multe.
Ciononostante Modesto era l’uomo più amato nel mondo calcistico di Iringa.
E un suo rientro in l’Italia, per ragioni di salute, aveva lasciato il vuoto. Quasi uno smarrimento generale. Ma il fatto risale ad una decina di anni or sono.

Arrivederci presto

La sera prima che fratel Modesto se ne andasse, i suoi fans e, soprattutto, il collegio arbitrale gli si strinsero attorno per una festicciola di saluto, affettuosa e sincera.
Dopo poche portate, qualche birra e coca-cola… ma tanti e commossi «grazie!», «buon viaggio!» e «arrivederci presto!», la serata si concluse con la seguente e originale preghiera d’ispirazione biblica:
O Dio,
Padre onnipotente ed eterno,
tu che ti sei posto
come una colonna di fuoco
affinché la tua nazione eletta, Israele, non fosse attaccata
dagli egiziani;
tu che, con la mano santissima,
hai diviso il Mar Rosso
per far passare il tuo popolo
sull’asciutto;
tu che, con grande potenza
hai salvato la vita del tuo amato
figlio Gesù, facendolo sfuggire
dalle mani di Erode,
noi ti preghiamo, Padre buono:
assisti il nostro fratello
Modesto Zeni
nel suo lungo viaggio;
mandagli tanti angeli,
affinché gli stiano vicini in questo viaggio di andata e ritorno
senza lasciarlo mai.
E tu, Signore nostro Gesù Cristo, che dopo la risurrezione
ti sei accompagnato con i discepoli nel cammino verso Emmaus
e discutevi con loro
senza che ti conoscessero,
ti preghiamo:
sii accanto al nostro fratello Modesto Zeni lungo la strada
che porta in Italia,
parla con lui e proteggilo sempre,
finché ritoerà ancora fra noi.
Amen!
Così pregarono gli «arbitrini», i calciatori semiscalzi e tanti tifosi di Modesto, sinceramente preoccupati della sua eia ombelicale.

Il moro

Fratel Modesto superò bene l’intervento chirurgico e ritoò a «fischiare» sui campi da foot ball.
Non solo, ma riprese in mano anche la bolla, la saldatrice, la chiave inglese… per riparare Land Rover e Toyota, costruire asili, scuole, ospedali. Ma, nella festa solenne dell’inaugurazione di tutte le «sue» chiese, Modesto non appariva mai. Si eclissava. Il microfono, il palco e l’applauso lo infastidivano un po’. Non lo diceva a parole, bensì con un timido sorriso. Anche in chiesa si inginocchiava all’ultimo posto…
Il 5 novembre scorso lo incontrai a letto, a Torino, e gli mormorai: «Ciao, bwana mkubwa!» (gran signore). Dagli occhi semichiusi sgorgarono poche lacrime. Al che, commosso anch’io, mormorai: «Sei davvero un gran signore!»… Poco dopo moriva di tumore.
Anche senza la salma, in Tanzania iniziò subito il kilio (pianto pubblico). Un kilio con tanta gente, accorato, di affetto e riconoscenza per un missionario, detto anche «il moro». Al di là del colore marcatamente scuro della sua pelle, fratel Modesto Zeni è stato soprattutto uno di «loro».

a cura di un “tifoso”




Metropoli e personaggi – Naipaul

Un caleidoscopio di «intoccabili» e «maharaja», atei e credenti, conservatori e progressisti, indù, musulmani, sikh, cristiani.
E non solo.

«Per me l’India è un paese
difficile.
Non è, né può essere la mia
patria, eppure non riesco
a respingerla, né a esserle
indifferente; non posso
visitarla semplicemente
da turista.
Le sono al tempo stesso
troppo vicino
e troppo lontano».

Così scrive Vidiadhur S. Naipaul nel suo saggio «India: una civiltà ferita», frutto del viaggio nel paese tra agosto 1975 e ottobre 1976. Ancora più traumatica fu la visita nel 1962, da cui scaturì «Un’area di tenebra».
Nel 1989 Naipaul, ormai scrittore affermato a livello internazionale, rivisitò l’India con l’occhio reso più acuto dall’esperienza e incontrò figure emblematiche nei contesti più disparati di un paese velato ancora da un’aura di mistero.
«India», frutto di questo nuovo viaggio, è una serie di mirabili affreschi in cui i personaggi, intervistati dallo scrittore con profondità psicologica, sono immersi in uno scenario che presenta i mutamenti avvenuti negli ultimi 30 anni e cattura eventi culturali ancora vivi, malgrado il peso dei secoli, nella vita quotidiana degli indiani.

«Bombay… C’erano ora su entrambi i lati della strada file di edifici di cemento, ammuffiti ai piani alti dal clima (troppo sole, troppa pioggia, troppa calura) e sudici ai piani bassi, come se assorbissero la sporcizia della brulicante umanità che si muoveva a livello del marciapiede, come se quell’umano sudiciume procedesse verso l’alto, superando una dopo l’altra le linee di marea fino a raggiungere i piani ammuffiti…
La chiesa nominata dall’autista era la celebre cattedrale della Goa dov’è sepolto san Francesco Saverio. La cattedrale e gli altri edifici portoghesi della città vecchia, un po’ rientrati rispetto al fiume Mandovi, hanno un effetto sconcertante in questa coice: così lontani dall’Europa… in quella luce così abbacinante, con le spiagge bianche che ricordano più le isole deserte del Nuovo Mondo… che villaggi e cittadine sovraffollate della vecchia India, con il suo passato intricato…».
nn In una Bombay cosmopolita e caotica Naipaul è colpito da una «coda lunga un paio di chilometri», formata dai dalit (intoccabili), decorosamente vestiti «per rendere omaggio al loro santo da lungo tempo sepolto, a quel dottor Ambedkar che nella fotografia indossava una cravatta all’europea».
Intervista Namdeo, poeta dalit e fondatore nel 1974 delle Dalit Panther, che afferma: «C’era un’epoca in cui eravamo trattati come animali. Adesso viviamo come esseri umani. E tutto grazie ad Ambedkar».
Sempre a Bombay, metropoli di opportunità e disperazione, lo scrittore incontra un giovane pujari, cresciuto in un ashram, fedele esecutore di riti complessi secondo la tradizione indù, e il ventinovenne Papu, agente di borsa di successo e fedele seguace di Giano: perciò vegetariano e impegnato la domenica mattina come volontario nella bidonville di Dharewi.
Anwar, giovane musulmano, è invece attendibile testimone delle continue violenze tra indù e musulmani.

«L a gente ora aveva più soldi a disposizione: si vedeva chiaramente anche dalla campagna del Kaataka, lungo la strada a sud di Goa. La povertà indiana non era scomparsa, c’erano ancora mucchi d’immondizia, le case e i vicoli dall’aspetto cadente, ma i campi di canna da zucchero, di cotone e di altri prodotti agricoli avevano un’aria lussureggiante e ben tenuta; nei villaggi le case erano spesso pulite, con i muri intonacati e i tetti di tegole rosse. Non c’era traccia dell’indigenza che avevo visto 26 anni prima dall’autobus lento che si fermava ad ogni passo; non più quegli scheletri ambulanti dagli sguardi allucinati. La rivoluzione agricola lì era una realtà, la disponibilità di cibo era visibile…».
nn Invitato a colazione da Prakash, ministro del governo del Kaataka, lo scrittore osserva la lunga fila di gente in attesa di udienza e favori, perché «i ministri sono gli odiei maharaja» e godono di molti privilegi concessi a chi «detiene il potere». «I maharaja avevano perso il titolo nel 1956, ma disponevano ancora di un appannaggio reale».

«A Bangalore hanno la sede istituzioni scientifiche di ogni disciplina. Le strade, fiancheggiate dagli alberi della città-giardino dei maharaja, sono ormai invase dai rumori, dalla puzza e dai gas di scarico dei veicoli a tre ruote e delle automobili. Certo non è più la città in cui passeggiare piacevolmente…».
nn A Bangalore Naipaul apprende dal giornalista scientifico Deviah la storia di Ayappa, il cui tempio attira folle di pellegrini; incontra il dottor Srinivasan, presidente della Commissione indiana per l’energia atomica, e altri due scienziati, i cui antenati erano «sacerdoti», che lo erudiscono sulla complessa storia di quelle regioni e lo inducono a commentare: «Da quell’incontro (tra il sapere difficile dei sacerdoti, l’attenzione a compiere con precisione rituali complessi, il silenzio che accompagnava taluni riti e la nuova educazione) era nata una nuova generazione di scienziati».

«Non ero mai riuscito ad adattarmi a Madras, per quanto fosse una città ospitale e piena di movimento. Le piramidi scolpite delle torri del tempio, le palme, i bramini a torso nudo in mezzo alle antiche colonne di pietra, la cisterna d’acqua di Mylapore con i suoi gradini tutt’intorno, enorme e bellissima, sembravano cose viste nelle vecchie stampe europee…».
nn Visitando Madras Naipaul afferma: «Ci voleva tempo a capire che era avvenuto un rovesciamento di poteri, che i bramini erano sulla difensiva, pur essendo ancora musicisti e danzatori, cuochi e sacerdoti dei templi».
È quanto emerge dalle interviste a Veeramani, guida dal 1973 del Movimento progressista dravidico. In quell’anno era morto il fondatore Periyar, ateo e razionalista. Il Movimento aveva vinto per la prima volta le elezioni nel 1967 e ha continuato a vincere, anche se è anti-braminico e non abbraccia tutte le caste, ma solo quelle medie. Alla gente di infimo livello il Movimento non offre alcuna protezione.

«Per anni e anni si diceva che Calcutta stava morendo. Le città… non muoiono solo quando vengono abbandonate. Forse le città muoiono quando perdono i piaceri che sono loro propri: gli stimoli visivi, la sensazione più acuta delle possibilità umane, e diventano semplicemente luoghi con troppe persone, e le persone soffrono… Nel 1946 ci furono i massacri tra indù e musulmani. Segnarono l’inizio della fine per la città. L’anno dopo, l’India era indipendente, ma divisa. Anche il Bengala fu diviso. Un numero enorme di profughi indù arrivò a Calcutta e vi si accampò e Calcutta, cui mancava anche solo un centesimo della capacità di recupero dell’Europa, non si riprese mai».
nn A Calcutta Naipaul raccoglie le testimonianze di due superstiti del Partito comunista indiano, nato nel 1969: Dipanjan, docente di scienze in un college, si era appassionato alla causa dei braccianti, ma intraprese azioni violente e fu imprigionato; Debu, importante dirigente di una grossa società, si unì al Partito, ma fu testimone di vicende cruente e devastatrici.
Commenta Naipaul: «Dalla compassione immediata e l’umiliazione per i poveri e il proprio paese al suicidio culturale e economico, a nuove coercizioni e violazioni, a una causa insomma molto lontana dalla fame dei contadini».
Il padre di Chidananda Das Gupta, altro interlocutore di Naipaul, aveva speso la sua vita come predicatore-bramino, la cui fede «unisce l’essenza dell’insegnamento upanishadico con alcuni elementi cristiani… Credeva nel diritto delle donne all’educazione, negli ideali democratici e nell’abolizione del sistema di casta».

L’ultimo bastione dell’India musulmana è Lakhnau, capitale dello stato dell’Uttar Pradesh. Naipaul vi incontra Amir, raja di Mahmudabad. Il padre era stato membro della Lega musulmana tra gli anni ’30-40 e, nel 1945, aveva offerto il figlio di soli 2 anni all’imam, per servire la fede sciita.
Con l’indipendenza di India e Pakistan nel 1947, Amir iniziò una vita di peregrinazioni. La guerra indo-pakistana del 1965 permise al governo indiano di confiscare tutte le proprietà del genitore e l’atroce conflitto indo-pakistano per il Bangladesh del 1971 lo condusse, due anni dopo, alla tomba; fu sepolto nel tempio di Mashhad nell’Iran orientale.

La famiglia di Vishwa Nath, settantenne editore di Woman’s Era, viveva a Delhi da 400 anni. Dal 1931, anno della marcia del sale di Gandhi, l’editore ha sempre indossato il khadi, il tessuto di cotone filato a mano, affermando: «Gandhi ha fatto di noi una nazione. Eravamo come topi e fece di noi degli uomini».
«Il tempio d’oro sorge ad Amristar, lo stagno del nettare, perché si dice che lì vi fosse uno stagno noto al primo guru. La doratura, riflessa tutt’intorno al lago artificiale, produce un effetto magico» scrive Naipaul, che è riuscito ad intervistare alcuni stretti collaboratori di Bhindranwale, famoso capo sikh, che nel tempio trovò la morte dopo un attacco delle forze governative.
Iniziato per alleviare le «sofferenze del popolo», perché i sikh vedono «Dio come un liberatore», il movimento si trasformò in un covo di terroristi. Il giornalista Dalip commenta: «Bhindranwale arrivò al tempio d’oro il 20 luglio 1982. Ne uscì morto il 6 giugno 1984. Ha danneggiato i sikh come di più non si poteva… Ha danneggiato il Punjab e l’India».
Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




L’opinione – I popoli sono come le nuvole

Vidiadhur S. Naipaul

Nato a Trinidad (Piccole Antille) nel 1932,
è uno dei massimi scrittori viventi.
Il 19 giugno scorso ha ricevuto
il premio internazionale Grinzane Cavour
“Una vita per la letteratura”.
Dotato di un inglese raffinato,
Vidiadhur S. Naipaul ha scritto romanzi e saggi, frutto di una ricerca rigorosa
e una forte tensione morale.
Lo scrittore, che non sopporta la superficialità dei giornalisti, ha risposto ad alcune domande durante una conferenza-stampa.

Signor Naipaul, lei ha viaggiato anche in paesi islamici e ha scritto «Fra credenti». Pensa che ci sia una rinascita del mondo islamico, una rivoluzione modea?
Ho visitato, per esempio, l’Iran nel 1979-80. Gran parte del linguaggio dei fondamentalisti islamici pareva una mimica del linguaggio della rivoluzione marxista. Per questo i marxisti in Iran hanno avuto tanti guai. Si sono dati alla causa religiosa e ne sono stati consumati. Quella non era una rivoluzione religiosa, ma un’azione reazionaria in gran parte nelle mani di persone senza cultura. Dobbiamo essere molto cauti e non lasciarci sedurre dalle parole apparentemente civili.
So che alcuni studiosi degli Stati Uniti ritengono che il fondamentalismo abbia aspetti positivi: stanno soltanto proteggendo il loro lavoro. Abbiamo visto e, ancora oggi, vediamo tutta la faccia nefasta del fondamentalismo in Afghanistan.
L’Iran è una tirannia. Non dobbiamo, però, frapporci tra le rivoluzioni e ciò che la gente vuole. Gli iraniani hanno voluto questa rivoluzione «farsa». È giusto che l’abbiano e che ne paghino il prezzo.

Le migrazioni hanno sempre caratterizzato la storia? Che ne pensa?
Se si potesse vedere la storia, come su foto inviate da un satellite, si vedrebbero le popolazioni in movimento come le nuvole. Se potessimo andare ai tempi dell’antica Roma, vedremmo le invasioni dei teutoni nel sud della Francia, dove Cezanne ha dipinto i suoi quadri famosi. L’Andalusia, regione della Spagna, ha preso il suo nome dai vandali dell’Europa orientale (la parola «anda» deriva da «vandalo»), mentre i turchi per secoli si sono accampati presso le rovine delle città dell’antica Grecia. In quest’ottica anche gli spagnoli hanno poi invaso il Nuovo Mondo.
Questo genere di migrazioni non può, però, essere paragonato alle attuali migrazioni «economiche» a cui forse state pensando.

Ebbene, come giudica le odiee migrazioni «economiche»? Conflittuali o incontri di cultura?
L’odiea migrazione è permessa e persino incoraggiata dai governi con le loro politiche. I kosovari in Italia potrebbero essere definiti «i migranti della Nato». La Nato ha fatto grande pubblicità. Ne siete preoccupati?

Lei lo sarebbe?
Se fossi italiano credo proprio di sì.

Cosa pensa dei molti conflitti che lacerano il mondo, in India come nell’ex Jugoslavia? Sono causati da motivi tribali?
Abbiamo parlato di «movimenti storici». Non userei l’aggettivo «tribale», perché penso che lo si possa applicare solo, forse, a sparuti gruppi che vivono nell’Antartico… Nessuno può pensare ad un mondo tribale o incoraggiare il mondo ad esserlo!
Il conflitto dei Balcani non è soltanto etnico. Le popolazioni locali hanno vissuto per decenni senza libertà, senza istituzioni libere, senza leggi in cui riporre speranza, senza valide tradizioni. La storia insegna che un popolo si sente potente nella propria etnia (che poi si rivela una trappola), quando non ha fiducia nelle istituzioni. Alle nuove generazioni dell’ex Jugoslavia bisognerebbe insegnare la democrazia e, con questa, sviluppare la fiducia nelle istituzioni.
Non userei l’aggettivo «tribale» anche perché penso che ogni persona possa avere cinque, sei, sette… idee di se stessa.
Per esempio, guardate questa signora (indicava la sottoscritta, che mi ero presentata come collaboratrice di una rivista missionaria): è italiana, giornalista, scrive per un periodico impegnato, ha una sua cultura, avrà visitato paesi del sud del mondo, conosciuto culture diverse…

Nel suo romanzo «Alla curva del fiume», ambientato in Congo, il protagonista Samir è di origine indiana e appare come una persona onesta, mentre la figura del despota racchiude i tratti di numerose dittature. Ha voluto sottolineare alcune caratteristiche universali?
Quando scrivo non mi chiedo se il protagonista è onesto: scrivo e basta. Sarà il lettore o il critico a giudicare i diversi personaggi.
Nel presentare la figura del dittatore in Congo, avevo in mente Mobutu e ho cercato di descriverlo. Non so se Mobutu sia «universale». Se tale despota ne ricorda altri, non è mio compito dirlo. Nei romanzi cerco di raccontare situazioni reali in un determinato contesto e momento storico.

Che cosa pensa degli scrittori indiani come Narayan?
Narayan è un grande scrittore indiano di lingua inglese: oggi ha più di 90 anni. Però è uno scrittore spirituale, mistico e nega la realtà. Ha perso la moglie quando era molto giovane e questo ha condizionato la sua opera. Scrive nell’illusione, nega le osservazioni della realtà. Per lui la realtà è falsa.
Scrivere un romanzo significa, invece, affermare che il mondo è reale, significa illustrare la solidità del mondo. Attenti, dunque, agli scrittori che cercano di raccontare la complessa realtà indiana imitando Joyce, Marquez o Hemingway!

Quali scrittori apprezza o apprezzava da studente?
Sono uno scrittore, non un lettore. Da giovane leggevo decine di libri per volta. Di ogni testo scorrevo con attenzione 50-60 pagine, cercando di sentire la musica nella scrittura. Ho apprezzato molto Maupassant.

Pare che il suo rapporto con i giornalisti sia terribile. Eppure non l’ho rilevato nei suoi scritti. Perché?
La mia irritazione non è causata dai giornalisti, ma dal loro bluff (inganno, boria). Personalmente non mi sognerei mai di diventare editore del Musical Express, perché non so nulla di musica. Ma purtroppo ci sono giornalisti che pretendono di intervistare uno scrittore senza aver letto almeno uno dei suoi libri o che scrivono copiando materiale d’archivio. Questi giornalisti sono un bluff, perché sciupano sia il proprio tempo che quello dello scrittore e commettono una frode nei confronti dei lettori, che non ricevono il servizio dovuto.
È un’occasione perduta per il giornalista, al quale chiedo: «Qual è il valore del tuo lavoro? Che rispetto hai di te stesso? Fai così settimana dopo settimana? Che cosa offri ai tuoi lettori? Come ti senti?».

P. S.
Non mi sognerei mai di fare domande ad uno scrittore senza aver letto almeno due dei suoi libri e aver deciso che vale la pena di intervistarlo.
Nel caso di Naipaul, avevo capito che è uno scrittore di valore, ma che non sarebbe stato facile incontrarlo.
Durante la conferenza-stampa, ho suggerito ad un collega di leggere «Una casa per il signor Biswas», in cui Naipaul è critico e ironico verso i giornalisti e direttori di giornali, oppure «Alla curva del fiume», in cui il protagonista è inorridito della superficialità con cui i giornalisti occidentali hanno descritto i massacri degli arabi lungo la costa dell’Africa orientale.
Naipaul ha apprezzato il mio suggerimento e ha commentato: «Vedo che lei si è preparata bene. Per quale rivista scrive?».
«Missioni Consolata» ho risposto.
S. B.

Silvana Bottignole




Beirut rivuole il paradiso

Il piccolo paese mediorientale è un laboratorio
religioso: cristiani, musulmani-sunniti
e musulmani-sciiti cercano una via di convivenza.
Ma i problemi non sono pochi. Dopo due guerre civili
(1958 e 1975), oggi il Libano patisce
una doppia occupazione (Siria e Israele) e ospita
mezzo milione di profughi palestinesi (musulmani).
Certamente la loro presenza ha contribuito
a rompere il fragile equilibrio del paese,
spostando l’ago della bilancia a favore
della componente islamica.
Per la «terra dei cedri» tornare alla prosperità
di un tempo è un sogno difficile da realizzare.

Francesca ha tanti amici in tutto il paese. Un paese piccolo e molto popoloso, il Libano, dove è facile incontrarsi, specialmente se si visitano i luoghi legati alla sua millenaria storia. Quando si incontrano, i libanesi si baciano tre volte, sulle guance, con affetto e simpatia. Possono essere drusi o armeni oppure maroniti, come lei. Ma per Francesca un amore ancora non c’è anche se sono passati già 13 anni da quella sera di pasqua, quando il suo ragazzo fu ucciso da un cecchino.
Si era nell’86 e i due giovani, che si erano conosciuti all’università, si erano dati appuntamento la sera, per uscire insieme. «Pensavo mi avesse fatto uno scherzo; per cui non volli cercarlo, per ripicca». Quando il mattino seguente la radio annunciò più volte la morte del ragazzo, Francesca ascoltava, ma non capiva. Sentiva ripetere quel nome «Samir, Samir…» e sua madre la guardava e non osava parlarle. «Era bello, intelligente, di buona famiglia, avevamo gli stessi interessi, gli stessi ideali». Per 7 anni Francesca non volle vivere, lavorava soltanto. Studiava e lavorava agli scavi archeologici, una sua passione. La vita continuava, ma la ferita era troppo grande. Molti giovani uomini sono caduti durante i 17 anni di guerra civile. Pare però che le ragazze libanesi siano molto richieste, come mogli, da europei e americani che ne apprezzano le doti.
Francesca mi accompagna in questo viaggio e mi ringrazia per aver avuto il coraggio di ritornare, a oltre 4 anni dalla mia prima visita. Le cose non stanno andando bene, come si sperava allora.

Al mio arrivo dall’Italia ho assistito al corteo festoso che attendeva l’arrivo in aeroporto da Tel Aviv, via Francoforte, di 5 ostaggi liberati dagli israeliani. Ieri un’auto-bomba, guidata da un «martire» hezbollah, ha ferito alcuni civili, mentre tentava di colpire una colonna israeliana.
Il fatto è avvenuto a pochi chilometri da Tiro, nel sud vicino al confine con Israele. Il sud è un altro mondo: la costa è verde di piantagioni e bananeti; la collina è ricoperta di ulivi. Entrando in città, vedo un manifesto con la bandiera a stelle e strisce, dove le stelle sono teschi e le strisce grondano sangue. Le scritte denunciano le responsabilità degli Stati Uniti nel dramma irrisolto del sud occupato; altri cartelli portano le immagini di capi sciiti con barba e turbante.
Tiro è Terra santa. Qui, secondo una tradizione, ricordano ancora i luoghi prediletti dalla Madonna per sostare in attesa del figlio, entrato in città a predicare. Visitiamo i resti grandiosi della città, che il mito dice patria di Europa, la bellissima amata da Giove. Settimio Severo, l’imperatore di Leptis, la volle abbellire, ma gran parte dei resti antichi di 6.000 anni giacciono sotto i nuovi palazzi, che non saranno mai demoliti. Li occupano le famiglie degli eroi della guerra, e dalle loro finestre si abbraccia il porto fenicio, l’ippodromo immenso, l’acquedotto e le vie lastricate col colonnato e la necropoli.
Sento che qualcosa ci lega profondamente a questa terra. Prima di arrivare a noi, la cultura d’Oriente si è fermata su queste rive, ha preso forma nella parola scritta, si è arricchita e si è irradiata in tutto il mondo. Il mare lambisce queste rovine malinconiche. Unici visitatori siamo noi, con una famiglia di libanesi di Montreal, per la prima volta a Tiro coi loro bambini. «In Canada si vive benissimo, ma vogliamo far conoscere il Libano ai ragazzi». Mi dice il padre. Forse non toeranno mai più. C’è tristezza nelle sue parole.
Ho incontrato libanesi nei luoghi più remoti, tutti impegnati negli affari. Gestiscono alberghi e imprese commerciali. La maggioranza è benestante, unita in associazioni che mantengono stretti legami con la madrepatria. Quasi tutte le famiglie libanesi all’estero hanno un figlio o un parente a Beirut.
Siamo nel Chouf, la valle dei drusi, a pochi chilometri da Beirut. Deir el Qamar era il sogno di Fakardino, l’emiro druso che fu profondamente influenzato dall’educazione cristiana e dai contatti con la cultura italiana.
Accanto a eleganti palazzi, una sinagoga (ebrei spagnoli giunsero qui nel ’700) e moschee di pietra dorata, c’è una chiesa del quinto secolo, Sayidet et-Tallè, dove incontro Frate Raimondo, un giovane maronita che ha scelto la famiglia francescana per aiutare i poveri. Indossa il saio e non teme di usarlo anche quando è a Tiro, la sua città nel sud occupato dagli israeliani. Parliamo dei problemi della popolazione, degli hezbollah che continuano a lottare per liberare la loro terra.
«In questo paese le fila delle lotte armate sono tenute in mani lontane, in paesi stranieri che fanno i loro interessi. Ma non è così anche in Italia?». Fuori stazionano guardie armate. Forse sono siriani anche questi giovani col mitra, che sorridono contenti di essere fotografati.
La storia del Libano è anche quella di personaggi carismatici e delle loro grandi famiglie. La storia dei drusi è affascinante, la loro fede misteriosa, esoterica. Il feudo della famiglia Jumblatt (nobili signori drusi, legatissimi alle vicende del paese) è molto esteso. I palazzi sono di un’eleganza raffinata, in stile arabo con influenze fiorentine. La storia di Kamal, che studiò dai padri lazzaristi e fu ucciso nel 1977 dagli uomini di Assad, è riassunta nel museo a lui dedicato; e ora suo figlio Walid Jumblatt è uno dei politici più in vista, in questo Libano pesantemente controllato dalla Siria.

Nabil è un soldato druso, e lo si capisce dall’andatura e dalla stazza. Ora fa l’autista, ma al tempo della guerra ha combattuto, sui monti tra Aley, la sua città, e la valle della Bekaa, la valle dove, secondo la leggenda, Caino uccise Abele. Suo padre, che era nella polizia, morì a 50 anni d’infarto, lasciando una vedova con 9 figli. Una vedova saggia, che seppe crescere la numerosa prole nella cultura tradizionale.
I saggi, presso i drusi, sono coloro che hanno la conoscenza, gli unici a poter accedere ai testi sacri. Sin da bambini devono dimostrare di possedere una particolare sensibilità, e ricordare le vite vissute precedentemente. Allora vengono cresciuti dagli anziani, sulla base delle scritture, che comprendono, oltre al corano, anche i primi cinque libri della bibbia, il vangelo e le lettere degli apostoli. Sono loro che continueranno la tradizione, all’interno di una comunità che ha forte coesione e non può fare proseliti.
Il classico costume nero, con il lungo velo bianco per le donne e il copricapo per gli uomini, viene ormai indossato solo dagli anziani, che abitano queste montagne o alcune regioni del sud della Siria e in Israele. Le sorelle di Nabil sono tutte sposate e vivono in Canada e in Brasile.

Rientro tardi dalla messa in San Francesco, quando il traffico sempre intenso si è fermato: pare che nelle strade buie di Hamra vi sia il coprifuoco. Padre Jussuf, il parroco cappuccino che non porta il saio per non urtare la sensibilità degli abitanti del quartiere, tutti musulmani, mi ha fatto gli auguri. Poi mi ha raccomandato i poveri della parrocchia. Vedove o mogli di carcerati, tutte musulmane e molte anziane e sole, che possiamo «adottare» con offerte che consentano loro una vita dignitosa.
Salendo a piedi, tra le botteghe ancora chiuse per il ramadan, sento gli scoppi di petardi e sussulto. Non sono segni di festa, tra questi edifici ancora segnati dalla guerra, che le luci al neon e le facciate nuove non riescono a nascondere. Uno scoppio a poca distanza, sulla strada, con il fumo acre e passi nel buio che mi fanno sussultare. Col nodo alla gola rientro, passando veloce davanti al gigantesco portiere in tuba e giacca con le code. Un uomo imponente, con baffi neri girati all’insù, che sembra uscito da un circo equestre. Gli altri, i siriani della sicurezza o i poliziotti, che passeggiano tra ingresso e vie laterali, hanno il solito aspetto guardingo. Chissà a quale gruppo, a quale milizia appartengono. Al «Bristol» pare scendano personaggi importanti.
L’altra sera un tabellone annunciava la presenza dell’ambasciatore iraniano, per un convegno del partito Amal. Stasera invece vedo gruppi di libanesi eleganti, accompagnati da donne forse troppo truccate. Sostano nella hall, poi entrano nel salone dove ci sarà la festa. La musica è orientale, le luci sono basse e l’ambiente fumoso.
Troveremo il solito traffico intenso sulle arterie che ci portano a nord est. In Libano vi è una vettura ogni due abitanti e i servizi pubblici sono rari. Prima sostiamo in piazza dei martiri, davanti all’albero di natale coperto di palline rosse di luce. I contorni della chiesa armena, rimasta intatta, sono illuminati da file di lampade che la fanno sembrare più imponente. In fondo al piazzale vuoto scompaiono nel buio le moschee, ex antichissime chiese cristiane. Oltre, si intravedono le sagome delle nuove, lussuose costruzioni, ancora vuote, del progetto Solidère dell’ex primo ministro Hariri. Un quartiere nuovo e miliardario, tra le moschee e il nuovo porto turistico.
Superiamo la «linea verde», che tagliava la piazza e separava la zona musulmana da quella cristiana. Le insegne al neon, commerciali e natalizie, ci seguono lungo la direttrice che porta verso nord est. Superiamo Antelias, il quartiere armeno con la chiesa e la sede del catholicos, e attraversiamo Jounieh, tutta decorata di luci, presepi e slitte con le renne e i babbi natali. Lassù in cima al monte vigila la gigantesca statua della madonna di Harissa. Forse è troppo ostentata la potenza della chiesa, in questo paese oramai in gran parte islamico.
Con il loro carretto ricolmo, i venditori di fave aspettano clienti. Noi ci fermiamo presso la grotta dedicata a San Giorgio, per accendere un cero insieme ai devoti.

Hanno riaperto il «Casino du Liban». Era un luogo mitico, pare, negli anni dorati di Beirut, prima della guerra. L’edificio ricostruito del casinò si affaccia ora su un promontorio verde di giardini, con vista sulla città e la baia. Abbiamo un tavolo riservato per la festa di mezzanotte: oggi è il 31 dicembre del 1999 e in tutte le capitali del mondo si preparano i festeggiamenti.
«Chi non ha vissuto a Beirut, prima della guerra, non sa cosa sia il paradiso sulla terra». Sembra esagerata questa affermazione della signora armena seduta con la figlia accanto al mio tavolo, nella sala martingala, al primo piano del casinò.
È una donna malinconica, dal lungo naso e dagli occhi neri e penetranti, che ricorda con rimpianto gli anni in cui la vita a Beirut era proprio bella. Vedova, la signora Zekunian è tornata a Beirut, dopo quindici anni di esilio forzato a Parigi. «Per nove anni, fino all’83, abbiamo resistito qui, sperando che la guerra sarebbe finita presto. Poi mio marito ha trasferito gli affari in Francia, dove mia figlia ha compiuto i suoi studi. Sono tornata ora, perché sono rimasta sola. Qui sono le mie radici, qui abitano i miei parenti e noi libanesi siamo molto legati alla famiglia».
Nel 1982 infatti i palestinesi ricchi avevano lasciato Beirut, Arafat si era trasferito in Tunisia, e i grandi capitali erano stati ritirati dalle banche libanesi. Il paese era entrato in crisi e la lira libanese aveva subìto una pesante svalutazione. La speranza ora sta nella figura carismatica e, pare, onesta del presidente Lahoud, il generale che liquidò Aoun.
La vita a Beirut non sarà mai più la stessa. La lunga guerra non ha solo devastato il paese, alterando col cemento della ricostruzione l’armonia delle città e del paesaggio mediterraneo; ne ha inquinato l’anima, seminando diffidenza, sfiducia e anche paura tra gente che aveva sempre convissuto bene, da secoli. Facendosi i propri affari e lasciandoli fare agli altri. Dall’oggi al domani, durante quegli anni, chi era amico poteva diventare nemico, e viceversa.
La mezzanotte arriva, ma non vi è un segno che lo indichi. Guardiamo l’orologio, mentre nel resto del mondo si festeggia con fuochi d’artificio, che forse qui fanno paura. Il profilo della città pare tranquillo, attraverso la vetrata, mentre il pianista indugia ancora nel suonare canzoni francesi di mezzo secolo fa. Al piano terreno hanno sospeso per poco i giochi e le slot machines per assistere a una rumorosa processione di suonatori che salgono e scendono dalle scalinate. Donne in abito lungo e giornielli vistosi sostano interdette dallo spettacolo. Hanno distribuito i cotillones, ma dopo pochi minuti nessuno è disposto a continuare di fingere divertimento. La musica ora è quella napoletana, per noi che abbiamo scelto questo luogo per entrare nel 2000.

UN GIGLIO IN MEZZO ALLE SPINE

Rappresentano la più numerosa tra le varie comunità cristiane presenti in Libano. Nel paese mediorientale vi sono, infatti, anche gruppi di assiri, caldei, siro-cattolici, siro-ortodossi, greco-cattolici, greco-ortodossi, latini, protestanti, armeni-gregoriani e armeni-cattolici.
Marone era un eremita che viveva in odore di santità presso il fiume Oronte, in Siria. Dal suo monastero partivano i missionari, suoi discepoli, tra i quali sono ricordati molti santi, per evangelizzare le genti pagane di lingua aramaica che abitavano i monti del Libano. Tra i cristiani di Siria, i seguaci di Marone furono i soli ad aderire alle decisioni del concilio di Calcedonia: Cristo è vero Dio e vero Uomo. Nel 628 essi accettarono il monotelismo, dottrina di compromesso tra monofisiti e calcedonesi, approvata dal papa. Ricevettero quindi i favori dagli imperatori cattolici, ma ebbero anche molti martiri, a causa di gruppi di monofisiti a loro avversi. Accerchiati dall’islam, con la sconfitta dei bizantini i maroniti furono tagliati fuori dalle vicende della chiesa di Roma. Costretti ad abbandonare il loro monastero, distrutto dagli arabi, si rifugiarono nella valle Qadisha, sul monte Libano, dove nel 939 si stabilì il patriarcato. La «valle santa», ricca di eremi e monasteri, è ancor oggi il loro centro spirituale. Furono di aiuto ai crociati, indicando la via migliore per raggiungere Gerusalemme, e vennero da loro ricordati come valorosi soldati. I crociati porteranno la testa di San Marone in Italia, e ora si trova nel duomo di Foligno.
Non esistono prove di una costante fedeltà a Roma dei maroniti, né di una loro eresia. Essi si considerano gli unici ad essere sempre stati cattolici, anche se in occidente li hanno a lungo considerati tra gli «uniati» (termine spregiativo, usato dagli ortodossi per i membri delle loro comunità tornati all’unione con Roma).
Con la partenza dei crociati, i maroniti subirono la vendetta dei mamelucchi. Alcuni si rifugiarono a Cipro, altri rimasero arroccati nella loro valle, isolati ma fedeli a Roma. Leone X darà loro l’appellativo di «un giglio in mezzo alle spine». A quel tempo, ogni centro maronita aveva un preposto che governava a nome del vicerè di Tripoli, con dignità seconda solo al sacerdote. Sotto la dominazione ottomana viene incoraggiato l’insediamento di agricoltori maroniti nel sud. L’emiro druso Fakardino utilizzava governatori maroniti nei suoi domini e costruì conventi per i cappuccini. Fiorirono a quel tempo gli ordini religiosi e sorsero centri culturali e università, che, promuovendo studi e scambi culturali con l’Europa, furono cerniera tra la cultura d’Oriente e d’Occidente. Con la dinastia sunnita Chehab si ebbero numerose conversioni al cristianesimo. Questa relativa pace spinse i gruppi delle chiese uniate a trasferirsi in Libano: i melchiti nel 1725, gli armeni nel 1739, i siro-cattolici nel 1783. Il patriarca maronita era il solo capo religioso ad essere ricevuto alla corte ottomana come un capo di stato. Tuttavia, vi furono, a volte, persecuzioni e martiri che rifiutavano l’abiura. Nel 1860 il massacro operato dai drusi spinse molti maroniti ad emigrare nelle Americhe. Nel 1943 essi si vedono attribuire, col «patto nazionale», il seggio di presidente della repubblica. C.C.

Claudia Caramanti