Tre parole magiche


Uno degli studiosi più attenti della vita del beato Giuseppe Allamano, del suo tempo e ambiente, è stato senza dubbio padre Igino Tubaldo. A cent’anni dalla sua nascita, lo ricordiamo con gratitudine, soprattutto per la voluminosa biografia in quattro tomi e altri innumerevoli scritti che ci ha lasciato. Cosciente di quanto sia prezioso l’epistolario per una persona, poiché in esso ognuno esprime al meglio i sentimenti più intimi, padre Tubaldo ha voluto scandagliare con molta attenzione le 1.256 lettere scritte dall’Allamano. Al termine del suo lavoro ci ha svelato che tre brevi parole sono quelle che meglio hanno espresso il cuore del nostro padre verso i suoi figli missionari e missionarie.

La prima parola è «coraggio». Questa espressione poteva significare: avanti, stai tranquillo, stai di buon umore, non preoccuparti. La usa 397 volte nelle sue lettere, soprattutto scrivendo ai suoi figli e figlie nelle lontane missioni dell’Africa. La frequenza di questa parola esprimeva quanto lui quotidianamente coglieva, pregando la «sua» Madonna Consolata. Riconosceva quanto arduo e difficile fosse il compito di aprire una nuova strada all’evangelizzazione e voleva dire loro tutto il suo amore di padre e la protezione materna della Consolata. Un esempio: «Coraggio, dunque. Ti ripeto: coraggio e pensa che io ti amo, anche perché con i voti perpetui sei mio figlio perpetuo. Scrivimi spesso».

La seconda parola è «caro/a», utilizzata 330 volte. Per lui non era un semplice e formale aggettivo con cui aprire le sue lettere. Voleva subito trasmettere con tale espressione la sua vicinanza, condivisione e tutto il suo amore nei riguardi dei suoi figli e figlie. Lui, sempre misurato, con questo termine manifestava tutta la sua carica affettiva, umana e spirituale. E i suoi missionari lo sapevano bene e contraccambiavano con altrettanto affett. Ma questo termine non lo utilizzava solo con i missionari e missionarie: non sono rare le espressioni come: «Cara Consolata», «Cari africani», «Cari defunti», «Caro vicerettore».

La terza parola è «ti benedico» e ricorre, nel suo epistolario, 470 volte. Essa rifletteva non solo il suo dovere di sacerdote, ma anche l’atteggiamento di un «patriarca biblico» che sentiva la sua responsabilità su questo suo «popolo missionario». Scriveva a padre Angelo Dal Canton e a fratel Anselmo Jantet, ritornati dalla loro prigionia in Etiopia nel dicembre 1915: «Tutte le sere senza eccezione vi mandai la mia speciale benedizione con due segni di croce». Dopo la morte dello studente Baldi Eugenio (+14/06/1917) in guerra, scriveva ai missionari: «Nella sua ultima lettera dal fronte mi diceva: “Non so se al giungerle questa mia sarò ancora vivo; in ginocchio le domando la sua santa benedizione”. L’ebbe in tutti i giorni e più volte al giorno». Così anche alle suore missionarie: «La mia benedizione a tutte e a ciascuna».

Tre parole, tre perle, che rivelano il cuore di un fondatore e padre.

padre Piero Trabucco

Periferia di Bonaventura, Colombia


Fiducia nella divina Provvidenza

Padre Lawrence Ssimbwa, missionario della Consolata ugandese, da vari anni lavora in Colombia fra gli afroamericani della costa nella diocesi di Bonaventura, in una realtà di periferia caratterizzata da grande povertà e abbandono dove l’opera di evangelizzazione ha bisogno di appoggiarsi a una profonda fiducia nella Provvidenza.

Tutto nelle mani di Dio

Chiamiamo Divina Provvidenza la preoccupazione di Dio per tutta la creazione o i suoi interventi per mezzo dei quali le creature sono guidate al loro fine. Tutto ciò che Dio ha creato lo conserva e lo governa attraverso la sua Provvidenza.

La fiducia nella Divina Provvidenza è molto evidente nella spiritualità del beato Giuseppe Allamano. Non si può parlare di lui senza metterlo in relazione con essa. Era un esempio di fiducia totale nella Provvidenza perché metteva tutto nelle mani di Dio. Esortava spesso i suoi figli, missionari e missionarie a confidare totalmente del Signore.

Secondo il beato Allamano «fiducia» è sapere che Dio accompagna sempre i piani quotidiani degli esseri umani, e che la vita non dipende solo dai loro sforzi, dalle capacità intellettuali, dalle ricchezze acquisite. Tutto, in larga misura, dipende dalla cura amorevole di Dio che manda la pioggia sui giusti e sui malvagi (Matteo 5,45), per cui noi, come discepoli missionari di Gesù Cristo, lasciamo tutto nelle mani del Signore senza paura.

«Non fondiamo la nostra confidenza nei mezzi umani che sono in noi: talento, forze e virtù ecc., o che sono negli altri. Facciamo sempre quello che possiamo da parte nostra, poi lasciamo tutto nelle mani del Signore, senza timore. Egli lascia mai l’opera a metà» (Così vi voglio, p. 139).

La missione: luogo della Divina Provvidenza

La missione appartiene sempre a Dio e è il suo principale protagonista. Durante tutta la sua vita, Giuseppe Allamano ha chiarito che la missione è la magnifica opera di Dio e dipende interamente dalla sua Divina Provvidenza. I discepoli missionari del Signore sono semplicemente dei collaboratori che agiscono secondo la sua santa volontà.

Lui, come padre e fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata doveva preoccuparsi della loro formazione, ma anche del sostegno materiale dei due istituti in patria e nei luoghi di missione. Tuttavia, non ha mai perso il sonno a causa di questa grande responsabilità perché aveva piena fiducia nella Divina Provvidenza.

Ha detto: «Io non dubito della Provvidenza. Senza questa fiducia ci sarebbe da perdere la testa. Alle volte accade che si arriva a sera e non c’è denaro per una fattura che scade. Ebbene il giorno dopo i denari arrivano e si salda il debito. Vi assicuro che non ho mai lasciato di dormire tranquillamente per questo fastidio» (Così vi voglio, p. 140).

La Consolata è la vera fondatrice

E come riponeva tutta la sua fiducia nel Signore, Giuseppe Allamano confidava anche nella potente intercessione della Consolata. Affermava che Maria Consolata era la vera fondatrice dei due istituti e che lui era semplicemente uno strumento messo da Dio per concretizzare quest’opera. Fondato su questa convinzione attribuiva un po’ tutto all’opera del Signore per intercessione della Consolata.

In innumerevoli occasioni ha parlato dell’amore materno della Consolata per l’istituto: «Sì, noi siamo figli di questa nostra madre tenerissima, che ci ama come pupilla degli occhi suoi, che ideò il nostro istituto, lo sostenne in tutti questi anni materialmente e spiritualmente ed è sempre pronta a tutte le nostre necessità. La vera fondatrice è la Madonna» (Così vi voglio, p. 216).

Come ogni madre si prende cura dei suoi figli e delle sue figlie, così anche la Consolata ha sostenuto gli istituti fondati dal beato Giuseppe Allamano. Ha detto: «Tutto quello che si è fatto è opera della SS.ma Consolata. Ella ha fatto per questo istituto dei miracoli quotidiani: ha fatto parlare le pietre, piovere denari. Nei momenti dolorosi la Madonna intervenne in modo straordinario e questo senza parlare delle grazie concesseci lungo l’anno, anche di ordine temporale, come il pane quotidiano. Sì, anche per questo lascio l’incarico alla Madonna» (Così vi voglio, p. 216).

Il fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata riponeva grande fiducia nell’intercessione materna di Maria Consolata, tanto da affidare tutto alle sue cure. Era convinto che non avrebbe mai smesso di intercedere per i suoi missionari che annunciavano il Vangelo del suo Figlio Gesù, nostro salvatore. Animato da questa fiducia, in diverse occasioni ha detto: «Per le spese dell’istituto non ho mai perso il sonno e l’appetito. Dico alla SS.ma Consolata: pensaci tu!, se fai bella figura sei tu!» (Così vi voglio, p. 217).

Conclusione

Questa è la grande esortazione del beato Giuseppe Allamano ai suoi figli. Con essa ci aiuta a capire che la missione è opera di Dio e dipende interamente da lui. Sta a noi continuare a lavorare, ma con questa incorruttibile sicurezza. La Provvidenza di Dio non ci delude. «Vorrei proprio che i nostri istituti in genere e tutti voi in particolare aveste sempre questa grande fiducia in Dio» (Così vi voglio, p. 141).

padre Lawrence Ssimbwa

Padre Lawrence in visita a una famiglia


Carlo Acutis e Giuseppe Allamano

I missionari e le missionarie della Consolata, ogni anno scelgono un patrono speciale da invocare nella loro preghiera. Quest’anno hanno scelto il beato Carlo Acutis, adolescente morto nel 2006 e beatificato da papa Francesco nel 2020. La sua vita, le sue virtù e i suoi amori evidenziano vari aspetti in comune con la vita e la santità del beato Allamano.

Un giovane di oggi

Il motivo che ci ha indotto a scegliere il beato Carlo Acutis come nostro patrono per l’anno 2023 è stata la sua vita semplice e profonda, l’amore appassionato per l’eucaristia, la frequentazione assidua della Parola, il rapporto intimo e delicatissimo con Maria, l’attualità della sua persona e della sua esperienza, l’approccio fruttuoso e maturo al mondo della comunicazione come dimensione da abitare e nella quale seminare il Vangelo.

Fin da piccolo Carlo manifesta una grande curiosità sul mondo che lo circonda, sul mistero della vita e specialmente riguardo le questioni di tipo religioso. La sua curiosità si accompagna a un’intelligenza viva e propositiva. Carlo si appassiona al mondo del computer, lo studia, legge libri di ingegneria informatica e, quando riesce a carpire i segreti della rete, utilizza la sua conoscenza per aiutare i suoi amici, specialmente i più deboli.

Innamorato dell’eucaristia

All’età di sette anni riceve la prima comunione. Da allora, secondo il racconto della mamma, «non mancò mai alla messa quotidiana e alla recita del santo rosario». È fortemente innamorato dell’eucaristia, tanto da divenirne un vero apostolo, non solo presso i suoi amici, i suoi coetanei e i più piccoli, quando ne diventa catechista, ma anche verso la sua comunità, manifestando una delicata sensibilità cristiana che diventa una delle più affascinanti caratteristiche della sua vita. L’adolescente Carlo Acutis con parole molto significative, amava ripetere, come fosse uno slogan: «L’eucaristia è la mia autostrada per il Cielo».

L’infinito come meta

Purtroppo, la storia terrena del giovane Carlo non dura a lungo. Ai primi di ottobre del 2006 si sente male. Inizialmente si pensa a una semplice febbre o influenza, ma il persistere dei sintomi e le successive analisi mediche portano a una diagnosi infausta: leucemia di tipo M3, incurabile.

Carlo viene ricoverato nell’Ospedale San
Gerardo di Monza. Nei giorni del suo ricovero, nonostante i forti dolori che lo affliggono, Carlo non si lamenta mai, anzi, alle infermiere che gli chiedono come sta, egli sempre risponde: «Bene, qui c’è gente che sta peggio di me». Conscio della sua prossima fine, fa la sua ultima offerta: «Offro al Signore le sofferenze che dovrò patire per il papa e per la Chiesa, per non dover andare in Purgatorio e per poter andare direttamente in Paradiso».

Carlo ama ripetere: «La nostra meta deve essere l’infinito, non il finito. L’infinito è la nostra patria. Da sempre siamo attesi in Cielo», e spesso dice anche: «Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie». Per marciare verso questa meta e non «morire come una fotocopia», Carlo dice che la nostra bussola deve essere la Parola di Dio, con cui dobbiamo confrontarci costantemente.

I suoi funerali sono una scoperta per gli stessi genitori: vi partecipano persone di ogni ceto sociale, soprattutto poveri, immigrati, bisognosi, ammalati, che raccontano un Carlo inedito. Egli è descritto come un giovane che si avvicinava a loro, li aiutava, li faceva sentire amati, ma il tutto nel nascondimento, senza farsi vedere neppure da sua madre. È un atteggiamento tipico dei santi. Chi ama Gesù nascosto nell’eucaristia non può non amarlo sofferente nell’umanità.

Sacramentini

La figura di Carlo Acutis non è legata a miracoli straordinari o atti di romanzesco eroismo. Egli è stato un giovane come tanti altri, tuttavia, nella sua normale giovinezza, ha saputo cogliere qualcosa che la maggior parte dei suoi coetanei ignorano del tutto: il potere e la grazia dell’eucaristia.

Nell’esperienza di Carlo ci sembra di ritrovare alcuni aspetti che il nostro beato fondatore ha vissuto e trasmesso ai suoi figli e figlie. L’Allamano ci esortava ad essere «sacramentini», ad avere un grande amore per l’eucarestia e a celebrarla con devozione e dignità, a identificarci con il Cristo nel suo mistero pasquale.

La recita giornaliera del santo rosario è per Carlo espressione di delicato amore per la santa Madre di Gesù, di cui il nostro fondatore era innamorato, presentandocela come nostra madre tenerissima, la Consolata.

I social al servizio del Vangelo

La passione di Carlo per il mondo della comunicazione è un altro aspetto che, quali missionari e missionarie, ci interpella da vicino. Siamo consapevoli del valore della comunicazione per la nostra famiglia religiosa, che ha come fine specifico l’annuncio del Vangelo ai non cristiani, e di come il mondo digitale possa offrire una grande opportunità di annuncio. In nostro padre fondatore fu un sacerdote convinto dell’importanza della comunicazione e fu aperto e attento ai mezzi del suo tempo. Non c’è dubbio che l’Allamano stimasse e sostenesse con convinzione il giornalismo cattolico.

Papa Francesco, nei suoi messaggi annuali in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, evidenzia in più modi l’importanza della rete come mezzo attraverso il quale il messaggio cristiano può raggiungere nuove frontiere: «Anche grazie alla rete il messaggio cristiano può viaggiare “fino ai confini della terra” (At 1, 8). Aprire le porte delle chiese significa anche aprirle nell’ambiente digitale, sia perché la gente entri, in qualunque condizione di vita essa si trovi, sia perché il Vangelo possa varcare le soglie del tempio e uscire incontro a tutti».

Chiediamo a Carlo di esserci vicino nel nostro cammino missionario e di intercedere presso Dio affinché gli occhi della nostra mente e del nostro cuore si aprano a riconoscere le vie della missione oggi.

padre Stefano Camerlengo e suor Simona Brambilla

 

 




Malaria: meglio, ma non basta


Il 25 aprile è la giornata mondiale della malaria, malattia che, nei primi due mesi del 2023, ha già provocato la morte di circa 65mila persone. La pandemia da Covid-19 ha peggiorato le cose ma, anche dopo il ritorno dei servizi sanitari alla normalità, il mondo rischia di mancare l’obiettivo che si era dato per il 2030: ridurre i casi di malaria dagli attuali 60 a 6 ogni mille persone a rischio.

Secondo l’ultimo rapporto sulla malaria dell’Organizzazione mondiale della sanità, i decessi causati da questa malattia nel mondo non sono aumentati nell’ultimo anno considerato (2021): sono anzi diminuiti a circa 619mila, contro i 624mila del 2020@.

Il risultato non era scontato, perché la pandemia da Covid-19 ha determinato fra il 2020 e il 2021 l’interruzione di servizi di diagnosi, cura e prevenzione contro l’infezione, facendo tornare i decessi ai livelli del 2012, e interrompendo così un ventennio di decremento quasi ininterrotto che aveva visto il suo dato migliore nel 2018, anno in cui morirono per questa malattia poco meno di 567mila persone.

I casi di malaria, si legge ancora nel rapporto, sono continuati ad aumentare tra il 2020 e il 2021, anche se a un ritmo molto più lento rispetto al 2019-2020 e si sono attestati a circa 247 milioni nel 2021, rispetto ai 245 milioni nel 2020 e ai 232 milioni nel 2019.

Quasi la metà delle infezioni sono avvenute in soli quattro paesi: Nigeria (26,6%), Repubblica democratica del Congo (12,3%), Uganda (5,1%) e Mozambico (4,1%). Sempre quattro paesi hanno avuto poco più della metà delle morti per malaria a livello globale: ogni cento decessi, 31 sono avvenuti in Nigeria, 13 in Congo Rd, 4 in Tanzania e altrettanti in Niger.

Dei decessi globali fra i bambini di età inferiore ai 5 anni, 2 su 5 sono avvenuti in Nigeria.

A causare la malaria è un parassita trasmesso attraverso la puntura di zanzare del genere Anopheles (vedi box sul fondo). Un motivo di preoccupazione che il rapporto Oms segnala è la diffusione anche in Africa, negli ultimi dieci anni, della Anopheles stephensi, zanzara capace di adattarsi e diffondersi nei contesti urbani. Originaria dell’Asia meridionale e della penisola arabica, è in grado di trasmettere sia i parassiti P. falciparum che P. vivax e ed è resistente a molti degli insetticidi utilizzati nella prevenzione della malaria.

da www.paginemediche.it

Covid e cambiamento climatico

Secondo il rapporto dell’Oms, le interruzioni dei servizi essenziali contro la malaria durante la pandemia di Covid-19 hanno riguardato soprattutto la distribuzione delle zanzariere trattate con insetticida e il numero di diagnosi e di trattamenti della malattia.

Nel 2020, nei 46 paesi nei quali erano state pianificate campagne di distribuzione, i sistemi sanitari nazionali e i loro partner sono riusciti a distribuire solo poco più di 200 milioni di reti protettive contro i 270 milioni previsti.
In Congo Rd, Eritrea e India, la percentuale non ha raggiunto il 60%; in Kenya non ha superato il 2%, mentre Costa d’Avorio e eSwatini non hanno effettuato alcuna distribuzione.

Nel 2021, i paesi che avevano in programma tali distribuzioni erano 43 e le zanzariere da distribuire 171 milioni. Ne sono state distribuite 128 milioni, cioè solo tre quarti: otto paesi non hanno raggiunto il 60% (Benin, Eritrea, Indonesia, Nigeria, Isole Salomone, Thailandia, Uganda e Vanuatu) e sette paesi (Botswana, Repubblica Centrafricana, Ciad, Haiti, India, Pakistan e Sierra Leone) non hanno distribuito nessuna delle zanzariere previste.

Quanto alle mancate diagnosi, se nel 2018 e 2019 i test effettuati nei paesi dove la malaria è endemica erano stati rispettivamente 392 e 450 milioni, nel 2020 sono diminuiti a 398 milioni e nel 2021 si sono fermanti a 435.

Il calo registrato nel 2020, precisa il rapporto, è stato dovuto principalmente al minor numero di test effettuati nella regione africana (10,5 milioni in meno) e nella regione del sud est asiatico (38 milioni in meno, di cui 37 milioni in India).

Un altro elemento di preoccupazione, rileva il rapporto, è l’effetto potenziale del cambiamento climatico sulla diffusione della malattia. «Nonostante le incertezze su come inciderà sulla malaria, è certo che il cambiamento climatico avrà un effetto sulla distribuzione geografica e sull’intensità e stagionalità delle malattie trasportate da un vettore», come appunto le zanzare.

Lo scorso febbraio, il New York Times riportava uno studio realizzato dagli studiosi del «Centro per le scienze della salute globale e della sicurezza» dell’Università di Georgetown, negli Stati Uniti, secondo il quale «nel secolo scorso le zanzare che trasmettono la malaria nell’Africa subsahariana si sono spostate ad altitudini più elevate di circa 6,5 metri all’anno e si sono allontanate dall’Equatore di 4,7 chilometri all’anno»@.

Un ecologo dell’università della California a Los Angeles, intervistato nell’articolo, ha sottolineato l’importanza di raccogliere dati per capire esattamente come e quanto velocemente le zanzare e altri animali portatori di malattie si stiano muovendo nel mondo. Ci si aspetta che i climi più caldi siano vantaggiosi per le zanzare perché esse, così come i parassiti che trasportano si riproducono più velocemente a temperature più elevate.

© Yofre Morales – disinfestazione contro malaria

Malaria e anemia, la banca del sangue di Dianra

La malaria porta con sé diverse complicanze, che sono più gravi nei bambini e neonati, nelle donne incinte e nelle persone anziane. Fra queste c’è l’ipoglicemia, una riduzione patologica dei livelli di glucosio nel sangue, che dà sintomi come sudorazione, tremori, debolezza e, quando è grave, anche confusione, convulsioni e coma@.

C’è poi l’anemia che si manifesta perché il parassita invade i globuli rossi per riprodursi e ne provoca la distruzione. Nei casi di anemia grave, spiega il dottor Stéphane Gnanago – medico del centro di salute Joseph Allamano gestito dai Missionari della Consolata a Dianra, in Costa d’Avorio – la distruzione dei globuli rossi determina un ridotto «apporto di ossigeno agli organi e ai muscoli e può portare a insufficienza respiratoria, collasso cardiocircolatorio e arresto cardiaco». In contesti come quello di Dianra, uno dei motivi dell’aggravarsi degli effetti della malaria, come l’anemia, è la reazione tardiva da parte dei pazienti: «Le famiglie portano i bambini al centro di salute solo all’ultimo minuto», spiega il dottor Gnanago, «dopo aver tentato di curarli con rimedi tradizionali. E quando arrivano qui, i bambini sono già in condizioni gravi».

Il programma nazionale di lotta alla malaria in Costa d’Avorio, commenta padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata responsabile del centro di salute di Dianra, fornisce test e trattamenti per la malaria in modo gratuito. Ma se i pazienti aspettano troppo prima di andare al centro, le terapie di base non sono più sufficienti. Per questo, continua padre Matteo, «avere a disposizione le sacche di sangue e poter effettuare trasfusioni ci permette di salvare vite: delle 579 sacche di sangue di cui il nostro centro ha potuto disporre nel 2022, solo 9 sono state usate per le donne ricoverate in maternità mentre 570 sono andate ai pazienti del dispensario. Di queste, 556 sono state usate per curare bambini in anemia severa: un’enormità».

© AfMC / Dianrà, Costa D’Avorio

Neisu, ordinaria emergenza

Nel 2021 l’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Repubblica democratica del Congo, ha effettuato 2.778 test per la malaria, una media di oltre 7 al giorno. La malattia è risultata la prima voce fra le patologie diagnosticate sia in consultazione esterna – 2.482 casi su 4.885 pazienti, il 50,8% dei pazienti visitati – che in medicina interna: 220 pazienti ricoverati su 1.139, il 19%, dati 2021.

In pediatria, la malaria grave e la malaria grave anemica sono di gran lunga la principale causa di ricovero, con, rispettivamente, 732 casi (il 34%) e 520 (24%) su 2.155 bambini ospedalizzati. Su 30 bambini deceduti in pediatria nel 2021, per due la causa è stata la malaria grave e per 15 la malaria anemica grave. Circa tre donne su dieci fra quelle accolte in maternità avevano la malaria.

«L’ospedale», spiega il responsabile Ivo Lazzaroni, missionario laico della Consolata, «è integrato nella sanità pubblica congolese dal 2007, e aderisce ai programmi di prevenzione del sistema sanitario nazionale.

Ogni mese, i 12 infermieri titolari degli altrettanti centri di salute sul territorio vanno a Isiro, capoluogo della provincia dell’Alto Uélé, consegnano i dati sulla malaria e sulle altre patologie monitorate ai funzionari della zona di salute (zone de santé, in francese, articolazione territoriale del Ssn congolese, ndr) e ricevono zanzariere e farmaci (ad esempio il Coartem, a base di artemisina) da portare a Neisu per l’ospedale e i centri».

Le zanzariere sono destinate alle donne incinte, che le ricevono nel corso delle formazioni loro offerte durante le consultazioni prenatali, in cui le ostetriche spiegano alle donne che questi oggetti «non devono venire regalati ai bambini per farci le reti delle porte di calcio», scherza Ivo, «ma sono fondamentali per la loro salute».

E queste formazioni purtroppo non bastano: «Anche noi – spiega Ivo – siamo alle prese, come Matteo, con famiglie che vengono molto tardi a portare i bambini in anemia severa. Purtroppo non abbiamo l’autorizzazione dalla zone de santé a fare le trasfusioni direttamente nei centri e posti periferici, quindi le donne devono portare il bambino all’ospedale. Ma le distanze sono grandi: il nostro centre de santé più lontano è a oltre 60 chilometri dall’ospedale e non è facile per queste madri trovare un passaggio in moto per venire di corsa. Per questo accade a volte che il bambino muoia nel tragitto o poco dopo l’arrivo in ospedale».

Ikonda, restare comunque in guardia

«Qui nella regione di Njombe la malaria non è endemica», spiega padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, in Tanzania. «I pochi pazienti che abbiamo affetti da questa malattia vengono dalle zone calde, soprattutto da Mbeya e Morogoro. L’anno scorso abbiamo fatto il test a 4.660 pazienti e solo 134 sono risultati positivi», meno del 3%. «Ora che ci troviamo nella stagione delle piogge», continua padre Marco, «solo il mese scorso abbiamo avuto 14 casi: è una malattia molto legata a fattori climatici».

Non essendo Njombe una regione endemica, spesso il problema viene sottovalutato: «Si pensa prima ad altre malattie, poi, se la febbre non passa, si considera anche l’ipotesi di malaria. A volte invece non ci si fida dei test e, in presenza di sintomi compatibili vengono somministrate le terapie. Di recente abbiamo avuto un paziente con una patologia polmonare proveniente da questa regione. All’inizio non si è pensato alla malaria, poi invece è risultato positivo. Ora è guarito».

© AfMC – prelievo di sangue per test malaria al Catrimani, Roraima, Brasile

Aumento dei casi in Amazzonia

La malaria è fra le malattie protagoniste anche del peggioramento delle condizioni di vita del popolo indigeno yanomami, che vive nell’Amazzonia brasiliana e con il quale i Missionari della Consolata lavorano da metà degli anni Sessanta. Durante un’intervista con un’emittente televisiva brasiliana@ padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata che lavora nella missione di Catrimani, nella Terra indigena yanomami da quindici anni, ha ricordato che «nel 2022 si sono registrati 21mila casi di malaria fra gli indigeni yanomami, e l’anno prima erano circa 20mila. Ma nel 2013-2014 i casi erano duemila: sono decuplicati. E alla malaria vanno aggiunte le malattie respiratorie e gastrointestinali».

Fattori responsabili di questa emergenza sanitaria, così definita lo scorso 20 gennaio dal nuovo governo basiliano guidato da
Inacio Lula da Silva, sono l’invasione delle terre indigene da parte dei cercatori d’oro e la corruzione, che ha distratto le risorse finanziarie destinate ai servizi sanitari per le terre indigene: entrambi fenomeni favoriti dal disinteresse e dall’aperta ostilità del governo di Jair Bolsonaro nei confronti delle comunità originarie dell’Amazzonia brasiliana.

Chiara Giovetti

© AfMC / Trasfusioni di sangue a bambini affetti da conseguenze della malaria


Che cos’è la malaria e come la affrontiamo

La malaria è una malattia umana febbrile acuta causata dal parassita Plasmodium che viene trasmesso attraverso le punture delle zanzare femmine infette del genere Anopheles. Due delle cinque specie di plasmodi responsabili della malaria sono particolarmente pericolose: Plasmodium falciparum, il parassita che causa più morti e anche il più diffuso nel continente africano, e Plasmodium vivax, la specie dominante nella maggior parte dei paesi al di fuori dell’Africa subsahariana.

I primi sintomi – febbre, mal di testa e brividi – di solito compaiono da 10 a 15 giorni dopo la puntura infetta; possono essere lievi e per questo difficili da riconoscere. Senza trattamento, la malaria da P. falciparum può progredire in malattia grave o perfino causare la morte entro 24 ore.

La diagnosi avviene con l’individuazione al microscopio dei parassiti nel sangue del paziente (la cosiddetta goccia spessa) oppure, ove il microscopio non sia disponibile, attraverso test antigenici rapidi, che individuano appunto un antigene, cioè una sostanza estranea al nostro organismo – in questo caso una specifica proteina – prodotta dal parassita nel nostro sangue.

La prevenzione avviene attraverso la profilassi comportamentale, che mira a evitare il contatto con la zanzara vettore del parassita e che si basa sull’utilizzo di zanzariere trattate con insetticida e di insetticidi da spruzzare negli ambienti. C’è poi la profilassi con farmaci antimalarici, che prevede l’assunzione di un ciclo completo di questi farmaci nei momenti di maggiore esposizione al rischio di contrarre la malattia, che si sia o meno già infetti.

Infine, dall’ottobre 2021, l’Oms ha anche raccomandato l’uso del vaccino contro la malaria Rts, S/AS01 per i bambini nelle aree con trasmissione da moderata ad alta della malaria da P. falciparum. La prima parte della sperimentazione di fase 3 (2009-2014) del vaccino ha mostrato una diminuzione di oltre la metà dei casi di malaria nel primo anno dopo la vaccinazione e una riduzione del 40% nei 4 anni successivi. Nella seconda parte della sperimentazione di fase 3 (2017-2020) i partecipanti hanno ricevuto il vaccino appena prima del picco della stagione della malaria: la sua efficacia nel prevenire la malattia è stata intorno al 75%.

Il miglior trattamento disponibile indicato dall’Oms, in particolare per la malaria da P. falciparum, è la terapia combinata a base di artemisinina (Act). Altri principi attivi usati sono la clorochina, la meflochina e numerosi altri di cui l’Oms tiene una lista aggiornata nella quale indica anche quali sono consigliati nelle diverse regioni del mondo.

I motivi di preoccupazione relativi alla malaria – resistenze delle zanzare agli insetticidi e del parassita ai principi attivi nelle terapie, mutazioni genetiche nel parassita che inficiano l’affidabilità dei test e la diffusione delle zanzare Anopheles in zone in cui non erano presenti – sono monitorati dall’Oms e consultabili nella «mappa delle minacce»@.

Chi.Gio.

Fonte: Oms

 

 




Otto miliardi


Questa è la soglia superata dalla popolazione mondiale lo scorso novembre. Un dato che va interpretato visto che nei paesi occidentali il numero si sta contraendo, mentre in quelli africani sta aumentando. Con importanti ricadute a tutti i livelli.

Non si conosce se si sia trattato di un nastro rosa o celeste, né su quale porta sia stato appeso, ma le Nazioni Unite sostengono che il 18 novembre 2022, da qualche parte nel mondo, c’è stata una nuova nascita che ha portato la popolazione globale oltre la soglia degli otto miliardi.

La popolazione cresce quando le nascite superano le morti, ma questo risultato può essere ottenuto attraverso una varietà di combinazioni che condizionano fortemente l’età media dei cittadini. Ad esempio, dove l’alto tasso di natalità convive con un alto tasso di mortalità degli adulti, la crescita della popolazione è caratterizzata da un’età media bassa: la popolazione è più giovane (come accade in gran parte dei paesi africani). Se, al contrario, la crescita è caratterizzata da una bassa natalità che si accompagna a una mortalità altrettanto bassa degli adulti, è probabile una prevalenza di popolazione adulta e anziana (come accade, ad esempio, in Italia).

Queste differenze si fanno sentire sul piano economico perché l’età condiziona la capacità di lavoro e, quindi, di produzione.

Storia della popolazione

Nel mondo, la popolazione ha cominciato a crescere in maniera significativa nel 1800 a partire dall’Europa.

Oltre a un’alta natalità (una media di 4 figli per donna feconda), varie altre ragioni hanno contribuito al fenomeno: una migliore alimentazione, città più pulite grazie alla costruzione di sistemi fognari più moderni, scoperte mediche e farmaceutiche che hanno iniziato a limitare la mortalità infantile e adulta. Si calcola che, fra il 1800 e il 1850, la popolazione europea sia passata da 187 a 266 milioni di abitanti, un aumento del 42% che ha fatto parlare di rivoluzione demografica. La crescita demografica, però, non è stata accompagnata da un’uguale crescita di posti di lavoro. Di conseguenza, sono stati tantissimi coloro che hanno scelto di cercare miglior fortuna all’estero. In totale, si stima che, fra il 1800 e il 1930, i migranti europei siano stati 60 milioni, soprattutto verso le Americhe e l’Oceania.

Intorno al 1910 la popolazione europea o di origine europea (includendo Stati Uniti, Canada, Oceania e anche paesi latino-americani di forte immigrazione, come l’Argentina) rappresentava più di un terzo di quella mondiale (contro il 20 per cento di un secolo prima), e cresceva più rapidamente di quella del resto del mondo. Ma poi la corsa è rallentata e, pur con un breve sussulto negli anni Sessanta (conosciuto come «baby boom»), il numero di nascite per donne feconde (tasso di fertilità) è sceso sotto il due: un livello cioè che porta la popolazione a contrarsi.

Nel frattempo, la popolazione stava cominciando a crescere nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo: pratiche come la bollitura dell’acqua, le vaccinazioni e le disinfestazioni con il Ddt nelle regioni malariche, riducevano la mortalità, mentre la natalità rimaneva a livelli sostenuti. Basti dire che nel 1950, in Rwanda, Kenya, Filippine, la media di figli per donna fertile era superiore a sette, mentre in Cina e India era attorno a sei. Fatto sta che, fra il 1950 e il 1987, la popolazione mondiale è raddoppiata passando da 2,5 a 5 miliardi di individui. Un raddoppio in 37 anni non si era mai visto nella storia dell’umanità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Eberhard Grossgasteiger – Unsplash.

Il caso Cina

Dopo il 1987 la popolazione mondiale ha continuato a crescere, ma non allo stesso ritmo perché il tasso di natalità si è ridotto quasi ovunque. A ogni latitudine, ma per ragioni diverse: dove per il diverso ruolo sociale conquistato dalle donne; dove per la maggiore istruzione che ha permesso a esse di avere un maggiore controllo del proprio corpo; dove per la promozione massiccia di anticoncezionali; dove, ad esempio in India, per l’istituzione di premi per tutti coloro che accettavano di sottoporsi a sterilizzazione; dove per il divieto alle coppie di oltrepassare un determinato numero di figli.

Quest’ultima pratica è stata assunta in particolare in Cina nel 1980 quando Deng Xiaoping ha proibito alle coppie di avere più di un figlio. Chi trasgrediva la regola rischiava di perdere il posto di lavoro e di pagare multe esorbitanti. Si poteva addirittura arrivare all’assurdo che il secondo o il terzo figlio non potesse essere registrato all’anagrafe condannando i malcapitati a non avere nessun riconoscimento sociale.

Nel 2015 la regola del figlio unico è stata tolta tornando a quella di due figli che era in vigore durante gli anni Settanta. Poi, nel maggio 2021, è stato addirittura introdotto il permesso di avere fino a tre figli. Troppo tardi. Nel 2022 la popolazione cinese è calata di circa 850mila persone. Secondo le Nazioni Unite, se dovesse persistere la tendenza alla perdita di popolazione, la Cina passerebbe dagli attuali 1,4 miliardi di abitanti a 1,2 nel 2050 e scenderebbe sotto il miliardo entro il 2075. Stando così le cose, già nel corso di questo 2023, l’India dovrebbe sorpassare Pechino come nazione più popolosa del pianeta. Nel frattempo, la Cina è diventato il paese con il più alto numero di anziani: nel 2019 le persone oltre sessanta anni erano 254 milioni; nel 2040  si prevede che saranno 402, il 28% dell’intera popolazione. Con gravi ripercussioni per il sistema economico: la riduzione del numero di persone in età lavorativa potrebbe provocare un calo della produzione, un aumento del costo del lavoro e una crescita vertiginosa della spesa sanitaria e sociale per l’assistenza ai più anziani.

Il caso africano

A livello mondiale il tasso medio di fertilità è di 2,4 figli per donna fertile, appena sopra il 2,1, detto «tasso di conservazione», perché considerato il livello minimo utile a impedire alla popolazione di contrarsi. Ma moltissime nazioni sono ormai sotto questa soglia. In Italia, ad esempio, siamo a 1,24, in Spagna a 1,23, in Corea del Sud addirittura a 0,85. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione di 61 nazioni si ridurrà di almeno l’1% fra il 2022 e il 2050.

Gli unici paesi in controtendenza sono quelli più poveri, soprattutto dell’Africa, continente con un tasso medio di fertilità di 4,3, lo stesso che avevamo in Europa nel 1800.

Secondo i dati della Banca mondiale, relativi al 2020, il primato spetta al Niger con 6,9 nascite per donna fertile. Seguono la Somalia con 6,4, la Repubblica Democratica del Congo con 6,2, il Mali con 6, l’Angola con 5,4, la Nigeria con 5,3. In conclusione, l’Africa subsahariana è l’area del mondo con il più alto tasso di crescita demografica, tanto da aspettarsi un raddoppio entro il 2040, passando da 1,1 a 2,1 miliardi di persone.

Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a raggiungere 10,4 miliardi nel 2100, poi dovrebbe stabilizzarsi o addirittura diminuire. Ma continuare a trattare il tema della popolazione mondiale come un tutt’uno non ci dà il vero quadro della situazione. In effetti in tema di popolazione il mondo va diviso in tre fasce: quella a rapida crescita demografica, quella a modesta crescita, quella a crescita zero o negativa. Ognuna di esse presenta i propri problemi e le proprie specificità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Sam Chen – Pixabay.

Paesi in denatalità

Nel 2021 si sono contati una quarantina di paesi con crescita negativa, guidati dalla Lituania che ha subito una riduzione demografica dell’1,19%. Fra essi compare anche l’Italia che nel 2021 ha avuto un calo complessivo di residenti dello 0,3% rispetto al 2020. Già nel 2008 il Parlamento europeo aveva lanciato grida di allarme precisando che la denatalità avrebbe voluto dire invecchiamento della popolazione, meno persone al lavoro e quindi meno soldi per sanità e previdenza sociale a causa delle minori entrate fiscali.

Nel 2021 gli over 65 in Italia erano 13,9 milioni e rappresentavano il 23,5% della popolazione totale. Nel 2050 la loro quota è attesa al 34,9%, e c’è chi trema pensando alle difficoltà che ci attendono. Una popolazione di vecchi non può badare a se stessa: senza un’adeguata base di giovani disposta a farsene carico è destinata a soccombere sotto il peso degli enormi bisogni economici, sociali, sanitari, assistenziali.

Nella situazione opposta si trova l’Africa con tre quarti della popolazione al di sotto dei 35 anni, 900 milioni di individui. Quasi metà di loro, 35% dei residenti, è in età da lavoro collocandosi fra i 15 e i 35 anni. E, tuttavia, un terzo dei giovani africani è disoccupato e un altro terzo sottoccupato. Solo il 17% ha un lavoro salariato regolare, ed è lontana la prospettiva che questa quota possa crescere. Ogni anno in Africa il mercato del lavoro vede l’ingresso di 10-12 milioni di nuovi giovani, ma l’offerta di nuovi posti non supera i 3 milioni. Di questo passo, avverte la Banca per lo sviluppo africano, nel 2025 i giovani africani senza alcuna prospettiva di lavoro saranno 263 milioni. Situazione destinata ad aggravarsi considerato che, nel 2050, le persone fra i 15 e i 35 anni in Africa sono attese a 850 milioni. In conclusione, l’unica prospettiva di vita per molti giovani africani è la migrazione, principalmente dalle campagne verso le città e dai paesi africani a più bassa capacità produttiva verso quelli a maggiore capacità produttiva. Già oggi 19 milioni di africani si trovano in un paese del continente diverso da quello di nascita. Ma altri 17 milioni si trovano in continenti diversi dall’Africa.

Il ruolo delle migrazioni

Considerato che il mondo è formato da aree con una penuria di giovani e altre con un eccesso,  sarebbe interesse di tutti un riequilibrio attraverso una maggiore libertà di movimento delle persone. I paesi che stanno invecchiando potrebbero ringiovanirsi e i paesi con molti giovani potrebbero migliorare la propria economia tramite le rimesse degli emigranti. Ma in Europa, e in particolare in Italia, solo pochi hanno messo a fuoco che questa è la strada da battere. Fra essi Tito Boeri che, da presidente dell’Inps, non ha perso occasione per ricordarci il ruolo insostituibile dei migranti: senza i due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che pagano le tasse e versano i contributi, il sistema previdenziale italiano non ce la farebbe. Chi invece sembra non averlo capito è la politica che pure avrebbe il compito di individuare i problemi e trovare le soluzioni. Il fatto è che i fenomeni si mettono in moto da soli, e quando la politica li intercetta, spesso succede che invece di gestirli in un’ottica di bene comune li cavalca per fini elettorali. Paradossi della democrazia.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

Siamo in otto miliardi. Foto di Humberto Chavez – Unsplash.

 

 




Dove l’amore vince le paure


Thomas Song e Rosa Kang, una coppia con due figli, nuore e nipoti, sono missionari laici della Consolata. Da giugno 2018 a gennaio 2022 sono stati  in Tanzania, nella «Faraja house» a Mgongo, vicino a Iringa. In queste pagine condividono il loro cammino.

La prima a sentire la chiamata alla missione alla missione nel 2016 sono stata io, Rosa, e quando l’ho condivisa con Thomas, mio marito, lui l’ha fatta sua. Dopo aver parlato della nostra chiamata con i missionari della Consolata a Yeokgok-dong, questi ci hanno accompagnato passo dopo passo in un processo di discernimento.
Come membri di un gruppo di sostegno dei Missionari della Consolata in Corea, avevamo già partecipato a due viaggi nelle missioni dell’istituto. Il primo era stato in Kenya nel 2004, in un tempo in cui le opportunità di viaggiare in Africa erano poche per noi. Allora eravamo molto ansiosi di vedere le bellezze naturali di quel continente, ma erano stati i grandi occhi dei bambini, il suono del loro canto e i poveri pannolini appesi a stendere che avevano catturato nostro sguardo molto più delle bellezze della natura. Ci eravamo allora resi conto che Dio è vivo e opera nelle attività dei missionari che stanno con amore con la popolazione locale.

Sul volo di ritorno, ci eravamo detti che dovevamo tornare, ma non è stato possibile farlo subito a causa dei fardelli della vita quotidiana.

Dopo molti anni, nel 2016, avevamo partecipato a un altro viaggio, questa volta in Mozambico. Era la nostra seconda volta in Africa, quindi, non ci aspettavamo di vedere nulla di speciale, ma io ero sicura che ci doveva essere un motivo per cui Dio ci aveva chiamati a vivere quello che per noi era un pellegrinaggio.

Ciò che il Signore ci aveva mostrato nel percorso erano stati bellissimi bambini pieni di giocosità e ritmo, capaci esprimere gioia con tutto il corpo, vestiti con abiti semplici e ricchi di colori, che quando stabilivano un contatti con gli occhi, contagiavano di gioia con i loro sorrisi.

Cosa ancora più importante: avevamo visto missionari che vivevano con quei popoli, non solo sacerdoti, ma anche laici.

Tuttavia, ci eravamo sentiti molto a disagio, ad esempio, per il fatto di non poter fare la doccia ogni giorno, visto che camminavamo in luoghi molto polverosi.

Conoscendo i miei limiti, ossessionata dall’igiene e dalla pulizia, avevo pensato che non sarei mai stata in grado di andare a vivere in un posto del genere, nonostante ci fossimo sentiti profondamente commossi dalla vita dei missionari e dalla loro fiducia in Dio.

Pochi giorni dopo il rientro dal pellegrinaggio, ero in chiesa per la messa. Tornata al mio posto dopo aver ricevuto l’Eucaristia, ho sentito la presenza di Gesù che mi diceva chiaramente: «Va’». In quel momento, il mio cuore si è riempito di gioia, gratitudine ed emozione indescrivibile, e le lacrime sono scese abbondanti. «Ah, questo è quello che vuoi da me. Alla fine, è per questa missione che mi hai chiamata vicino, mi hai insegnato, mi hai guidata, nutrita e addestrata». Ogni evento e ogni storia della mia vita mi sono apparsi  collegati in quel momento e tutto è diventato chiaro e luminoso come se si fosse messo in ordine in un istante.

Dopo la preghiera di ringraziamento, il giorno dopo, ne ho parlato con Thomas. Lui, pur stupito, ha risposto: «Sarò con te». Ci siamo quindi consultati con i padri della Consolata per capire se fosse davvero la parola dello Spirito Santo quella che ci chiamava. Dopo alcuni mesi di discernimento, la Consolata Corea ha deciso di inviarci in Tanzania, in Africa.

Missionari della Consolata in Corea con Thomas e Rosa

Processo di invio

Così dall’inizio del 2017 abbiamo cominciato la nostra formazione per diventare laici missionari, studiando anche lo swahili con l’aiuto di due missionari africani. Siamo andati in Tanzania per sei settimane per migliorare la preparazione. Dopo di che, abbiamo interrotto tutte le nostre attività in Corea.

A quel punto, cosciente di aver vissuto fino a quel momento una vita piacevole, pulita, confortevole, e sostanzialmente soddisfacente e buona dal punto di vista religioso e relazionale, sono andata un po’ in crisi e mi sono chiesta se ce l’avrei fatta a vivere in un posto sconosciuto che faceva prevedere una vita scomoda e difficile. Durante la messa di quel giorno, mentre guardavo la statua della Madonna Consolata accanto all’altare, mi sono venute in mente le parole: «Verrò con te» e «non sei sola». Era confortante e rassicurante sapere che la Madre del cielo ci sarebbe stata sempre accanto.

Nel maggio 2018, nella parrocchia di Seopangyo nella diocesi di Suwon, c’è stata la messa della consegna del crocifisso e del mandato missionario. Durante la celebrazione, il superiore regionale dell’Asia, il superiore regionale del Tanzania hanno firmato con noi un contratto di servizio per tre anni. Siamo partiti forti della nostra fiducia nell’amore di Dio e della Madonna.

Coro, bambini della santa infanzia e Rosa

Il sogno…

Avevamo un sogno nel cuore quando siamo stati mandati in missione: quello di vivere un buon rapporto con ogni persona che avremmo incontrato per testimoniare a tutti che nessuno è insignificante, ma che ognuno di noi è prezioso agli occhi di Dio che ci ama come figli e figlie.

Con questo sogno nel cuore, all’inizio, siamo stati a Dar Es Salaam nel centro di Bunju per circa quattro mesi, studiando la lingua, cercando di conoscere la cultura locale, ottenendo la patente di guida e il permesso di soggiorno.

Finita la preparazione siamo stati mandati alla Faraja house di Mgongo, non lontano da Iringa, la decima città del Tanzania. Mgongo è stato il nostro campo di missione, un centro pulsante di attività: asilo nido, casa per bambini abbandonati (la Faraja house – casa della Consolazione), scuola tecnica professionale, centro sanitario, officine e laboratori, falegnameria, stalle e campi per le coltivazioni. È un grande centro che si estende su quasi 200 ettari, con più di 30 dipendenti e circa 70 bambini nella scuola materna, 80 studenti nella scuola tecnica e 12 insegnanti.

Rosa stende il bucato nella sua stanza in un giorno di pioggia

… e la realtà

La gioia della partenza, però, è stata di breve durata e, all’inizio, vivere in un luogo in cui la lingua e l’ambiente di vita erano del tutto sconosciuti è stata una grande sfida per noi.

C’erano i topi che apparivano improvvisamente in cucina o in ufficio (mi facevano venire la pelle d’oca). Poi centinaia di insetti sciamavano sul pavimento della camera da letto, mentre altri si arrampicavano sul muro lasciando una traccia nera.

Il giorno in cui ho visto gli scarafaggi vagare nei cassetti della cucina, ho perso l’appetito. La lavatrice si rompeva spesso, quindi dovevo lavare biancheria, coperte e lenzuola tutto a mano. Poi ogni giorno mangiavamo sempre lo stesso cibo. Non ce la facevamo più: Thomas ha perso dieci chili e io sei.

Ci sono stati momenti molto duri con la tentazione di mollare tutto e tornare a casa. Ogni volta correvamo davanti all’Eucaristia con pianti e lamenti. Lì ritrovavamo la forza di andare avanti. Un giorno, mentre eravamo nella casa regionale di Iringa e non volevamo tornare alla Faraja, ci siamo seduti davanti al santissimo Sacramento nella cappella. Non era nemmeno il tempo della Quaresima, ma mi è venuto in mente l’inno «Con tanti dolori», e abbiamo cominciato a cantare. Era come incontrare Gesù nel Getsemani, pregare con Lui e condividere con Lui il calice. Lo sentivamo condividere le nostre fatiche.

Improvvisamente abbiamo visto come se Gesù si fosse alzato e messo in strada. «Vedere», questo ci ha dato la forza di portare la croce. «Sì, Gesù sta aprendo la strada. Questo non è un viaggio che stiamo facendo per divertimento o per piacere alla nostra volontà, ma siamo stati inviati. Dobbiamo quindi rispondere alla nostra missione».

Thomas con studenti

Il conforto dello Spirito Santo

Ci siamo resi conto che non c’era solo la croce da portare. C’erano cielo sereno e aria fresca, mango dolcissimi da mangiare, pasti pronti senza preoccuparsi del cucinare e della spesa, molti studenti e persone accoglienti che ci salutavano calorosamente. C’era il nostro essere insieme, noi due, che potevamo confrontarci tra noi in profondità. E, ovunque andavamo, amici amorevoli che facevano tifo e pregavano per noi, e amici preti e suore anziane che ci sostenevano, famiglie che ci portavano gli oggetti necessari o ce li inviavano dalla Corea, e una nipotina adorabile che voleva vederci e chiedeva quando saremmo tornati.

Anche il caloroso incoraggiamento di molti sacerdoti in Corea e degli anziani missionari che hanno vissuto a lungo in Tanzania ha aiutato molto.

Ciò che abbiamo capito è che non importa quanto uno sia peccatore, o quante ne combini nel suo cuore ogni giorno. Se quel peccatore piange e lotta, lo Spirito Santo, che dà profondo conforto e pace, lo ama ed è con lui.

Questo non è qualcosa che abbiamo capito o conosciuto con la nostra testa, ma una realtà che abbiamo sperimentato con tutto il nostro corpo e la nostra mente. Ringraziavamo lo Spirito Santo di Dio che è presente ogni giorno, e gli chiedevamo di usarci come strumenti di amore, di conforto e di pace.

Studenti e Rosa

Opere e giorni

Ho sentito dire: «I missionari non hanno libri di cucina», ed è vero. Il nostro desiderio era quello di non essere un peso e renderci utili.

La nostra presenza si inseriva in una realtà già avviata e all’inizio non è stato facile trovare lo spazio giusto per noi. Per questo abbiamo pregato molto e ci siamo confrontati con la comunità e sentito diverse opinioni. Siamo arrivati così a trovare il nostro spazio: Thomas è diventato il direttore generale del centro, gestendo la casa e la cassa, i registri contabili e le analisi finanziarie, le retribuzioni per i circa 30 dipendenti, la spesa per vari prodotti e il cibo necessario per il centro, la scuola e i vari laboratori. Io sono stata nominata vicepreside della scuola tecnica, e ho curato il sistema operativo accademico, come il calendario della scuola, l’orario, le riunioni degli insegnanti e la pianificazione e la gestione degli eventi del campus. In più ho cercato di migliorare l’ambiente di apprendimento con nuove attrezzature e materiali di formazione, con l’installazione della biblioteca e l’espansione dei laboratori informatici.

Nella seconda metà dell’anno ho preso lezioni sull’imprenditorialità e, così, ho insegnato agli studenti che avevano difficoltà a trovare lavoro le conoscenze di cui avevano bisogno per avviare un’attività in proprio.

Ma la cosa più importante è stata andare in giro con un sorriso ogni mattina all’inizio delle lezioni, visitare i ragazzi ogni sera durante lo studio individuale, salutare tutti con affetto e offrire vicinanza materna ai bambini feriti o malati.

La maggior parte degli insegnanti e del personale era giovane, sui trent’anni, quindi ci sembrano figli e figlie. Era anche importante per noi prenderci cura di loro e delle loro famiglie, ascoltare le loro lamentele e aiutare con tutte le possibili soluzioni.

Regalo di addio del coro

Oltre il Covid-19

La crisi del coronavirus ha creato ancora più sfide per noi e ci ha fatto diventare più vicini al Signore per superare le nostre paure, visto che era diventato più difficile avere conversazioni normali con i nostri studenti, il personale e i cristiani locali. Però abbiamo anche sperimentato la grande vicinanza spirituale e materiale di tante persone tramite le donazioni di amici e conoscenti coreani, il sostegno della famiglia missionaria della Consolata, gli aiuti dalla nostra parrocchia di Gochon che si sono trasformati in pneumatici per il trattore, cibo per bambini, scrivanie e sgabelli, laboratori informatici, biblioteche e libri, stipendi dei dipendenti, attrezzature e borse di studio per i bambini poveri.

Mentre ci muovevamo passo dopo passo e vedevamo compiersi miracolosamente le cose che noi, carenti e deboli, non avremmo mai potuto immaginare fossero compiute, ho capito di nuovo: «Questa è davvero l’opera dello Spirito Santo». Ciò che è gratificante più di qualsiasi altra cosa è condividere amore e amicizia con coloro che ti circondano. Quando il nostro contratto è scaduto e molti, sia missionari della Consolata, che  gente della diocesi e persone del nostro centro, ci hanno invitato a rinnovare il contratto, siamo stati così grati da pensare che probabilmente non eravamo andati così male.

I nostri bellissimi studenti stanno facendo il tifo per una partita amichevole con una scuola vicina

Apostoli della grazia

Guardando indietro, sentiamo davvero che la Consolata ci è stata vicina come una madre e che lo Spirito Santo, come un pastore con il suo bastone, ci ha guidato passo dopo passo per sentieri inediti. Come missionari abbiamo avuto la grazia di vedere e sentire lo Spirito Santo all’opera in noi per farci diventare un canale di amore e grazia tra il popolo della lontana Corea e quello del Tanzania. Ci è stata data la grazia di diventare un piccolo mattone di un edificio.

Per gli aspiranti missionari

La montagna dietro casa nostra è ripida all’inizio, quindi quando sali ti senti mancare il respiro. Allora ti viene la tentazione di fermarti e tornare indietro, ma se tieni duro e raggiungi il crinale, scopri che si apre un sentiero e puoi continuare a salire senza difficoltà. Così è stato con la nostra vita in missione.

Ci siamo anche sentiti un po’ come Pietro quando ha camminato sull’acqua. Inizi guardando a Gesù, ma una volta che ci sei entrato nell’acqua il rischio è di affondare e perdere la gioia e la gratitudine, circondato come sei da problemi difficili. Per non affondare ulteriormente nell’acqua, devi smettere di essere centrato sul tuo ego e stabilire un nuovo contatto visivo con Gesù. Pertanto, la sfida più importante per i missionari è quella di non contare solo sulle proprie forze, ma lasciare tutto allo Spirito Santo, rimanere in Lui e vivere come Lui ci guida. Quando viviamo così, crediamo che Dio è un Padre che ci ama molto e fa di tutto per far crescere i semi e raccogliere frutti. Grazie.

Thomas Song e Rosa Kang*

* Coppia coreana di missionari laici della Consolata. Hanno due figli, con nuore e nipoti. Dopo aver studiato economia aziendale, Thomas ha lavorato a lungo e ora si occupa di promozione dell’economia sociale, mentre Rosa ha studiato fisica e scienze dell’educazione. Ha insegnato alle superiori e all’università.




Maschere e campanacci


In Barbagia, Sardegna, antichi riti rivelano il legame tra sacro e profano, e svelano i retroscena della cristianizzazione dell’isola.

Nel 594 papa Gregorio Magno scriveva a un certo Ospitone, riconosciuto «dux barbaricinorum», capo dei barbaricini (abitanti della Barbagia). Un documento importante che ci racconta come, nel cuore della Sardegna, ai tempi si praticassero ancora antichi culti legati alla natura, probabilmente di origine nuragica. Il Papa chiedeva a Ospitone di usare la sua «posizione» per convertire il popolo al cattolicesimo.

La Barbagia prima di essere un luogo fisico è una forma mentis. Per questo i suoi confini geografici sono discutibili, tanto che al di fuori del territorio comunemente riconosciuto come barbaricino ci sono paesi che si considerano legati ai suoi usi e costumi.

La Barbagia occupa un vasto territorio che si estende sui versanti del Gennargentu, un massiccio montuoso che sorge proprio al centro dell’isola. Il nome Barbagia, derivante dalla stessa radice di «barbaro», è legato al fatto che in questi luoghi si rifugiarono i sardi che resistettero alle conquiste dei cartaginesi e dei romani.

Un paesaggio vario: dalle rocce di granito ai pascoli montani sino al mare, la Barbagia si divide a sua volta in diverse Barbagie, ciascuna con usanze proprie che la caratterizzano.

Il dux barbaricino Ospitone accettò dunque di operare la conversione al cristianesimo del suo popolo, ma in una modalità rispettosa degli usi e costumi già esistenti purché non fossero in contrasto con il messaggio cristiano.

I missionari seguivano al riguardo una direttiva molto saggia che papa Gregorio aveva dato già agli evangelizzatori dell’Inghilterra, ovvero quella di non distruggere gli edifici sacri pagani, ma trasformarli in luoghi di culto cristiani, conciliando così la nuova fede con le vecchie tradizioni religiose, cui gli abitanti della Barbagia erano ancora legati. Si ebbe così un incontro tra  vecchio e nuovo, un’integrazione tra cristianesimo e paganesimo, che tutt’ora si rivela agli occhi di chi capita in questi luoghi nel periodo che va da gennaio a febbraio. Nei secoli, infatti, benché il processo di evangelizzazione abbia portato la Sardegna a diventare cattolica, non si sono spenti riti e credenze tradizionali.

I fuochi di Sant’Antonio

Tre giri intorno al fuoco, il santo portato in processione, i chierichetti, le donne devote che reggono le candele votive e il sacerdote ad aprire la fila.

La processione avanza lenta e solenne dalla piccola chiesa dedicata a Sant’Antonio, fino al grande fuoco che arde nel mezzo della piazza di Ottana, che la separa dalla cattedrale di San Nicola, maestosa e bellissima. È un momento di festa per tutto il paese, ma fino a quando il prete non raggiunge il fuoco per la benedizione, il silenzio e il rispetto per il rito sacro che si sta celebrando non viene interrotto.

I fedeli seguono attentamente questo rituale: l’acqua santa che lambisce il grande falò, un fuoco alto e potente, il cui calore colpisce i volti e, se non si presta attenzione, può diventare pericoloso, e colora di un arancio-rossastro le figure che gli si muovono attorno.

Dalle finestre delle case, grandi e piccini si affacciano per godersi lo spettacolo ancestrale. La processione torna verso la chiesa di Sant’Antonio dove il santo verrà deposto. La funzione terminerà con il dono a tutti i fedeli del pane votivo preparato dalle donne del paese nei giorni precedenti e benedetto dal prete.Già si sentono in lontananza i campanacci delle maschere. In Barbagia, infatti, con i fuochi di Sant’Antonio Abate (17 gennaio) inizia ufficialmente il carnevale barbaricino.

Il rito del falò è legato al «Santo del fuoco» perché, secondo la leggenda, questi sarebbe sceso negli inferi per rubare un tizzone ardente con il quale diffondere il fuoco per riscaldare la Terra.

In questa occasione, in tutta la Sardegna, fanno la prima uscita le maschere del carnevale che ballano fra i grandi fuochi accesi nei rioni o sui sagrati delle chiese, bevendo un bicchiere di vino e assaggiando dolci tipici preparati in onore del santo.

Le maschere di Ottana

Ogni paese ha la propria maschera e qui a Ottana ci sono i boes (bue) e merdules (padrone): incarnazioni dell’eterna lotta fra istinto e ragione, fra essere umano e animale, il bue viene inseguito, frustato e catturato dal merdule. I boes indossano sul volto una maschera chiamata in sardo «caratza» che ha le fattezze di un bue, mentre i merdules indossano pelli di pecora e campanacci che possono arrivare a pesare sino a 30 o 40 kg e maschere dalle fattezze umane.

Durante la sfilata, i merdules – propriamente i guardiani dei buoi – cercano di comandare e ammansire i boes.

Un’altra figura segue queste maschere: è «sa filonzana», un personaggio femminile, seppur interpretato da un uomo perché  le donne non si mascherano. È un’anziana zoppa e gobba, indossa un fazzoletto nero sul capo e una maschera di legno di pero selvatico, albero considerato sacro.

Intenta a filare la lana come le tre Parche della mitologia greca, coloro che tessevano il filo della vita di ogni persona.

Sa filonzana rappresenta una figura che se non rispettata e temuta per evitare sventura. In un mondo legato al capriccio delle stagioni e a forze naturali, la benevolenza delle divinità gioca un ruolo fondamentale.

La donna regge tra le mani un fuso e, attorno a esso, un filo che continua a girare e a filare e una forbice, con la quale mima il gesto del taglio.

Essa chiude la processione, restando dietro ai boes e ai merdules. Quando taglia il filo, i boes cadono a terra rialzandosi dopo pochi minuti, a simboleggiare il ciclo della vita.

Mamoiada

Se a Ottana troviamo buoi e guardiani, spostandoci a Mamoiada osserviamo intorno ai fuochi in onore di Sant’Antonio, delle maschere molto diverse: quelle dei mamuthones, forse le più note della Sardegna.

I fuochi, qui, sono sparsi per tutto il paese. Ogni rione ha il proprio e i mamuthones, insieme agli issohadores, dovranno raggiungerli tutti per danzare intorno a essi.

Le origini di queste maschere e del rito a esse connesso si mescolano alla leggenda. Secondo l’archeologo dell’Accademia delle belle arti di Sassari, Marcello Madau, i mamuthones sfilavano già dal XIX secolo. Secondo altri studiosi, però, l’origine di queste maschere risalirebbe all’epoca nuragica (prima del 238 a.C.), quando rappresentavano un rito propiziatorio per favorire il raccolto nei campi, e di protezione e venerazione della natura.

Potrebbe però esserci addirittura un’origine legata ai riti dionisiaci per l’avvicendarsi delle stagioni, o una processione arcaica in onore di un dio dalle sembianze di un bue.

Altri ancora invece ipotizzano che possano rappresentare la vittoria dei pastori sardi sugli invasori saraceni fatti prigionieri e condotti in corteo per le strade.

In ogni caso, per un mondo dedito alla pastorizia e attento ai ritmi naturali, celebrare la nuova stagione con danze e riti propiziatori è qualcosa che ha a che fare con la vita e la sopravvivenza. Si danza, si prega, si canta, si accendono fuochi perché, dopo i mesi di gelo, i campi possano tornare a nuova vita.

Maschere parlanti

Se le maschere hanno origini antiche, bisogna pure che qualcuno si occupi di continuare a realizzarle per portarne avanti la tradizione.

Incontriamo Gian Paolo Marras che con il suo laboratorio «Animas de Sardinia» mescola tradizione e innovazione.

Mentre lavora con mani sapienti il legno di pero che formerà le maschere dei boes e dei merdules, racconta di come – imparando il mestiere dal padre – abbia presto capito che tutto ciò che serve sta nelle mani.

Le proporzioni fra naso, occhi e bocca, infatti, si misurano così, utilizzando il palmo.

Gian Paolo, oltre a essere un artigiano esperto, è un innovatore: ha escogitato un sistema con Qr code che, riportato sul cartellino di ogni maschera, contiene la narrazione vocale del significato della maschera stessa e dell’antico rituale del carnevale: «È necessario che le persone, acquistando una maschera, ne comprendano il valore profondo, la ritualità a essa collegata. Non si tratta solo di oggetti belli da possedere ma di veri e propri simboli di ciò che per noi sardi è la nostra cultura, da sempre legata, connessa e attenta alla natura».

Campanacci d’artista

Restiamo in Barbagia, ma arriviamo a Tonara (Nuoro), uno dei borghi più alti dell’isola, a Sud Ovest del parco del Gennargentu. Qui incontriamo Ignazio Floris e i suoi due figli, Marco e Salvatore.  La loro azienda produce i meravigliosi campanacci che adornano le maschere. Pur essendo a gestione familiare, oggi si avvale di un apprendista che, diversamente dalla tradizione, non fa parte della famiglia, Luca.

Qui si fanno campane dalla mattina alla sera. I Floris, infatti, sono iscritti alla camera di commercio come «forgiatori di campane».

Marco ci spiega che, in Italia, sono forse gli ultimi a dedicarsi interamente a questa arte. In molte altre fucine, infatti, vengono realizzate non solo campane, ma anche altri oggetti.

Nella forgia di Ignazio Floris, il fuoco è dedicato esclusivamente ai campanacci, in sardo tonarese «sonaggios»: ce n’è di tutte le dimensioni e ciò che conta, ciò che davvero è impressionante, è che ognuno di essi è unico. Ignazio ci racconta di aver imparato il mestiere dal padre e che per diventare forgiatori di campane è necessario soprattutto un buon orecchio.

Sì, perché se per realizzare le maschere «si ha tutto nelle mani», come dice Gian Paolo Marras, forgiare i campanacci dipende dalla capacità di ascolto.

Ogni campanaccio ha un suo suono, e deve essere così perché il pastore, grazie a quel suono unico e particolare, potrà riconoscere i propri animali al pascolo e rintracciarli in caso di difficoltà, pericolo, o più semplicemente per comprendere dove il gregge si stia muovendo.

I campanacci Floris hanno segnato la vita di generazioni e generazioni di pastori sardi: a fine Ottocento la bottega era già attiva. Campanacci indossati dalle pecore e, durante i giorni del carnevale, prestati alle maschere.

Se oggi è possibile acquistarne per adornare la propria maschera, in passato i pastori si limitavano a «spogliare» dei campanacci i propri animali e indossarli per celebrare Sant’Antonio e i riti connessi.

Dall’animale all’uomo e viceversa: in Sardegna il rapporto con la natura è davvero trascendente in ogni sua espressione.

Pane e «prioresse»

Durante i giorni dedicati al santo, è tradizione che nessuno resti digiuno. Nei giorni precedenti, le famiglie si prodigano nella preparazione di pane e dolci tipici che verranno poi offerti a tutti coloro i quali prenderanno parte ai festeggiamenti. Il pane che viene preparato è portato in chiesa proprio il 16 gennaio e qui viene benedetto dal prete. Alla fine della celebrazione, il pane verrà distribuito non solo fra coloro i quali hanno partecipato alla messa, ma a chiunque ne chieda, maschere comprese.

Si pensa che mangiarne nutra corpo e anima e possa esaudire una grazia.

Spezzare il pane insieme, dividere il pasto, condividere il poco fra molti: azioni che hanno a che fare con il cristianesimo, certo, ma anche e soprattutto con un profondo senso di umanità che qui, nel cuore della Sardegna, in Barbagia, si esprime in una grande ospitalità.

Lontano dal preconcetto che vuole la Barbagia come un luogo impenetrabile e forse anche pericoloso (basti pensare al periodo del banditismo e a tutto ciò che lo circonda storicamente), l’interno della Sardegna rapisce il cuore con un’ospitalità rara e preziosa, come quella della signora Maria Antonia, da oltre trent’anni «prioressa di S. Antonio Abate», insieme a Pina, Lidia e Anna.

Ogni giorno Maria Antonia e le altre prioresse, si occupano della chiesa e della cattedrale, aprendole per le celebrazioni, tenendole in ordine e prodigandosi perché il 16 gennaio tutto sia pronto per la grande festa.

Nonostante i tanti doveri, però, trovano il tempo di invitare chiunque passi dalla chiesa a bere un caffè e assaggiare un dolce, perché in Barbagia, che sia Sant’Antonio o un giorno qualunque, nessuno deve sentirsi abbandonato. Lontano dalle coste, lontano anche dal periodo estivo che vede un picco di turismo concentrato sulle meravigliose spiagge di questa isola, c’è un cuore antico vivo e pulsante, un territorio aperto e ospitale da conoscere in ogni momento dell’anno.

Valentina Tamborra

Nota. Questo reportage è stato reso possibile grazie, anche a:




Congo RD: Chi ha orecchie per intendere


Nel gennaio scorso il papa si è recato nel paese martoriato da una guerra lunga e dimenticata. Ha denunciato sfruttamento e indifferenza. Il racconto di un testimone.

Dal 31 gennaio al 3 febbraio il Papa è stato in Repubblica democratica del Congo (per poi andare in Sud Sudan dal 3 al 5 febbraio, ndr), una visita a lungo preparata e desiderata, segnata da momenti di grande partecipazione e altri più raccolti di ascolto. Un evento atteso dalle autorità locali che per l’occasione hanno «tirato a lucido» (si fa per dire) le strade della capitale Kinshasa. Notiamo però che ad andarsene non sono stati solo i rifiuti, ma anche i poveri che affollano quotidianamente le vie del centro: venditori ambulanti, bambini di strada, homeless. «Nelle zone centrali della città non si può più entrare – ci ha raccontato don Maurizio Canclini -, il centro è presidiato dalla Guardia repubblicana, agenti in borghese e polizia».

Dopo l’arrivo all’aeroporto internazionale N’djili di Kinshasa, il Papa ha dedicato il primo incontro alle autorità nel bellissimo Palais de Nation, un luogo immerso nel verde sulle sponde del fiume Congo, dove l’ansa del fiume dà allo spazio una geometria dolce, mentre le luci di Brazzaville, sulla sponda di fronte, lo rendono un piccolo paradiso.

Qui il Papa ha presentato il Congo «come un Paese che è quasi un continente nel grande continente africano. Sembra che la terra intera respiri. Ma se la geografia di questo polmone verde è tanto ricca e variegata, la storia non è stata altrettanto generosa: tormentata dalla guerra, la Repubblica democratica del Congo continua a patire entro i suoi confini conflitti e migrazioni forzate, e a soffrire terribili forme di sfruttamento, indegne dell’uomo e del creato. Questo Paese immenso e pieno di vita, questo diaframma d’Africa, colpito dalla violenza come da un pugno nello stomaco, sembra da tempo senza respiro». La platea piena di generali ed ex (forse) signori della guerra vestiti in abiti civili restava in silenzio.

In attesa di papa Francesco nello Stadio dei Martiri a Kinshasa. (Photo by Tiziana FABI / AFP)

Colonialismo economico

Il Papa ha poi ripreso, «è tragico che questi luoghi, e più in generale il continente africano, soffrano ancora varie forme di sfruttamento. Dopo quello politico, si è scatenato infatti un “colonialismo economico”, altrettanto schiavizzante. Così questo Paese, ampiamente depredato, non riesce a beneficiare a sufficienza delle sue immense risorse: si è giunti al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti. Il veleno dell’avidità ha reso i suoi diamanti insanguinati. È un dramma davanti al quale il mondo economicamente più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca […]. Si faccia largo una diplomazia dell’uomo per l’uomo, dei popoli per i popoli, dove al centro non vi siano il controllo delle aree e delle risorse, le mire di espansione e l’aumento dei profitti, ma le opportunità di crescita della gente […]. Non possiamo abituarci al sangue che in questo paese scorre ormai da decenni, mietendo milioni di morti all’insaputa di tanti».

Racconta un dottore nato nella regione dell’Ituri (Nord Est) che «qui le persone sono ammazzate come le bestie, in Congo non c’è più da sperare, i volti della gente sono spenti, atterriti, non c’è più la felicità tipica dei villaggi africani, l’entusiasmo per l’ospite, la gioia dell’altro. L’abitudine qui è vedere morti sparsi per le strade».

Messa all’aeroporto

Secondo giorno: messa all’aeroporto di Ndolo. Migliaia di giovani erano già sulla pista da giorni, ma la maggior parte delle persone si è messa in movimento di notte per essere sicurea di arrivare prima delle sei del mattino, dopodiché i cancelli sono stati chiusi. Quando il Papa è arrivato alle nove erano un milione e mezzo che attendevano sotto un sole splendente e caldissimo.

Anche per questa messa, in prima fila c’erano molte autorità e candidati alla presidenza della Repubblica che, al momento dello scambio della pace, hanno ritirato la mano.

La celebrazione è stata una sintesi tra una celebrazione eucaristica, un concerto e un momento di orgoglio nazionale. L’organizzazione ha retto e tutto si è svolto in modo ordinato. Il Papa ha commentato il Vangelo del Risorto ricordando che quelle tre parole, «pace a voi», per noi sono «una consegna, più che un saluto», e sottolineando che le sorgenti della pace, le «fonti per continuare ad alimentarla sono il perdono, la comunità e la missione».

Francesco ha concluso pronunciando alcune parole in lingala: moto azalí na matoi ma koyoka (chi ha orecchie per intendere) e la folla ha risposto ayoka (intenda).

Testimonianze dal Kivu

Nel pomeriggio del primo febbraio, alla nunziatura, il Papa ha ascoltato testimonianze dal Kivu (Nord Est del Paese), forse il momento più toccante della visita.

Una di esse era la sedicenne di Eringeti, nel territorio di Beni: «Sono un agricoltore. Mio fratello maggiore è stato ucciso in circostanze che ancora oggi non conosciamo. Mio padre è stato ucciso in mia presenza, da dove ero nascosto ho visto in che modo lo hanno fatto a pezzi e come hanno portato via mia madre. Siamo rimasti orfani, io e le mie due sorelline. Mamma non è più tornata e non sappiamo cosa ne abbiano fatto. Di notte non riesco a dormire».

La giovanissima Léonie Matumaini ha mostrato un coltello uguale a quello che ha ucciso tutti i membri della sua famiglia in sua presenza.

Kambale Kakombi Fiston, di soli 13 anni, ha raccontato di essere stato rapito per 9 mesi.

Poi è stata la volta di una diciassettenne della zona di Goma ridotta in condizioni di schiavitù sessuale da un comandante per 19 mesi, finché con un’amica è riuscita a scappare: «Ma a quel punto ho scoperto di essere incinta. Ho avuto due bambine gemelle, non conosceranno mai il loro padre». Poi ha proseguito dicendo che «le persone sono state sfollate più volte, i bambini sono rimasti senza genitori, sono sfruttati nelle miniere o negli eserciti ribelli».

Anche un’altra donna di Bukavu ha raccontato di essere «stata tenuta come schiava sessuale. Ci hanno fatto mangiare la pasta di mais e la carne degli uomini uccisi».

Da Bunia (Ituri) un testimone ha raccontato: «Sono sopravvissuto a un attacco al campo di sfollati di Bule, nel villaggio di Bahema Badjere, nel territorio di Djugu, nella provincia di Ituri. Questo campo è conosciuto come “Plaine Savo”. L’attacco è avvenuto la notte del primo febbraio 2022 da parte di un gruppo armato che ha ucciso 63 persone, tra cui 24 donne e 17 bambini. Viviamo in campi profughi senza speranza di tornare a casa».

Francesco, visibilmente commosso, ha detto: «Davanti alla violenza disumana che avete visto con i vostri occhi e provato sulla vostra pelle. Si resta scioccati e non ci sono parole, c’è solo da piangere, in silenzio. Il mio cuore è oggi nell’Est di questo immenso Paese».

In quella regione, ha proseguito il Papa, «si intrecciano dinamiche etniche, territoriali e di gruppo; conflitti che hanno a che fare con la proprietà terriera, con l’assenza o la debolezza delle istituzioni, odi in cui si infiltra la blasfemia della violenza in nome di un falso dio. Ma è, soprattutto, la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione».

Il Papa ha poi ricordato l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, uccisi due anni fa nell’Est del paese: «Erano seminatori di speranza e il loro sacrificio non andrà perduto». Più che un secondo giorno di visita, un programma politico decennale.

Pope Francis (2nd R) blesses attendees as he meets with victims of the conflict in eastern Democratic Republic of Congo (DRC) at the Apostolic Nunciature in Kinshasa, DRC, on February 1, 2023. – Pope Francis arrived in the Democratic Republic of Congo on January 31, 2023, on the first leg of a six-day trip to Africa that will also include troubled South Sudan. (Photo by Tiziana FABI / AFP)

L’incontro con i giovani

Il terzo giorno, il Papa ha incontrato i giovani a cui ha ricordato l’esempio di Floribert Bwana Chui che, quando aveva «soli ventisei anni, venne ucciso a Goma per aver bloccato il passaggio di generi alimentari deteriorati che avrebbero danneggiato la salute della gente. Poteva lasciare andare, non lo avrebbero scoperto e ci avrebbe pure guadagnato».

In serata il Papa ha poi messo «le mani» nelle piaghe del Paese ascoltando le testimonianze di persone vulnerabili. Come i rappresentanti del gruppo Telema Ongenge: «Siamo portatori e portatrici di handicap. Molti di noi erano in ribellione aperta contro la società e pure contro Dio, soprattutto quando ci siamo resi conto che le nostre sofferenze potevano essere evitate, invece non hanno più rimedio e gridano nel deserto dell’impotenza e dell’indifferenza».

Anche Pierre Ngeleka Musangu, di 68 anni, ha raccontato che «da quando ne avevo quattro soffro di un handicap che poteva essere evitato. Per raddrizzare un piede storto dalla nascita, i miei genitori mi portarono all’ospedale di Luebo. Non c’erano medici così fui operato da un assistente, ma la situazione peggiorò perché l’intervento provocò un’infezione […] e ci fu anche la lesione di un nervo, che ha causato la deformazione di cui soffro ancora oggi. Nella mia vita ho incontrato decine di persone che soffrono, o addirittura sono morte, a causa di diagnosi sbagliate, oppure per l’assenza di medici, di medicine o di apparecchiature».

Tekadio Vangu Nolly, 40 anni, ha spiegato al Papa di aver contratto la lebbra quando aveva 21 anni: «iniziarono a venirmi delle macchie […] e mi sentivo sempre più debole, e per di più, poco a poco mi stavo anche trasformando in una persona che disturbava la tranquillità altrui. Piangevo e soffrivo, non solo nel corpo, ma soprattutto nel cuore […] la mia famiglia mi aveva ripudiato e, con la complicità di un guaritore, mi ero convinto di essere responsabile per quello che mi era capitato. Alcuni mi hanno accusato di essere uno stregone, ma come è possibile che uno stregone desideri il suo stesso male?».

Queste sono storie che, grazie a gruppi, associazioni, parrocchie, non sono finite nell’esclusione, perché vi sono anche «persone che non hanno girato la faccia dall’altra parte quando hanno attraversato la nostra strada».

Il Papa ha ripetuto: «Grazie per tutto quello che fate! In questo paese, dove c’è tanta violenza, che rimbomba come il tonfo fragoroso di un albero abbattuto, voi siete la foresta che cresce ogni giorno in silenzio e rende l’aria migliore, respirabile […]. Non mi avete fatto un elenco di problemi sociali, enumerato dati sulla povertà, ma mi avete fatto incontrare nomi e volti».

Poi, il Papa ha proseguito: «Mi sono chiesto: ma vale la pena impegnarsi di fronte a un oceano di bisogno in costante e drammatico aumento? Non è un darsi da fare vano, oltre che spesso sconfortante? Voi mi avete detto: ne vale la pena e c’è bisogno che soprattutto i giovani vedano questo. Volti che superano l’indifferenza guardando le persone negli occhi, mani che non imbracciano armi e non maneggiano soldi, ma si protendono verso chi sta a terra e lo rialzano alla sua dignità».

In tre giorni il Papa ha fatto il possibile. Purtroppo però le risorse e la classe dirigente continuano a essere una sfida per il Paese: nell’Assemblea nazionale (parlamento, ndr) sono presenti molti deputati condannati per corruzione e molti altri vengono da posizioni di comando in gruppi ribelli, gente in abiti civili, ma dalla mentalità incline all’uso della forza e della sopraffazione: «Schiacciare o comprare».

«A Kinshasa (e in Congo) la vita non è facile, ma – spiega il gesuita Olivier Mushamuka – abbiamo capito che se vogliamo fare una cosa la possiamo fare, siamo capaci». Alla fine, secondo alcuni commentatori, le parole del Papa «cadranno nel vuoto, i potenti sono impermeabili». Per altri «forse tra i grandi sarà così, ma per la gente il viaggio è stato importante e continuerà nel tempo a dare i suoi frutti».

Fabrizio Floris*

 *Laureato in economia, dottore di ricerca in sociologia, ha insegnato Antropologia economica presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Torino e Sociologia generale presso le Università di Milano e Betlemme. Tra le sue pubblicazioni: Periferie esistenziali. Da rispettare, superare, distruggere, Robin&Sons, 2018; Gino Filippini. Uomo per gli altri, Gabrielli, 2021 e Il traffico delle vite. La tratta, lo sfruttamento e le organizzazioni criminali, Franco Angeli, 2022.

 




Tamar, una palma nel deserto


Il Vangelo di Matteo si apre offrendo la genealogia di Gesù a partire da Abramo (Mt 1,1-16). Anche Luca ce ne dona una, che però è diversa (Lc 3,23-28) e parte da Adamo: questo significa che probabilmente nessuno dei due, quando scrive, ha certezza sui dati oggettivi e, in ogni caso, che la decisione di inserire certi nomi piuttosto che altri segue gli obiettivi che ciascuno dei due ha.

A questo punto ci incuriosisce ancora di più il fatto che Matteo decida di inserire nell’elenco maschile della genealogia ben quattro donne prima di Maria. La curiosità cresce quando ci rendiamo conto che tutte e quattro sono, in qualche modo, irregolari e offrono motivo di imbarazzo e scandalo. La prima di loro, forse, è quella più sconosciuta per noi, Tamar.

Il contesto

«Tamar» significa «palma». La sua storia è narrata nel capitolo 38 del libro della Genesi, quasi una parentesi nel racconto che, fin qui e da qui in poi, è incentrato sulle vicende di Giuseppe, penultimo e amatissimo figlio di Giacobbe.

È possibile che chi ha composto il libro volesse inserire una specie di pausa dopo la pagina nella quale si narra di Giuseppe che viene venduto dai fratelli a una carovana di madianiti (e da questi a Potifar, comandante delle guardie del faraone: Gen 37,36) e prima che la sua vicenda si sviluppi tra sogni e carriera.

Come in un film moderno, nel quale tra una vicenda e l’altra deve passare un po’ di tempo, il «regista» ci propone una divagazione con una vicenda secondaria, ma che ci conquista con la sua originalità.

La storia di Tamar, per quanto marginale, si inserisce molto armoniosamente nel contesto del racconto.

A questo punto del libro, Giacobbe ha dodici figli (vedi Gen 35,21-26), alcuni dei quali, tutti figli di Lia, si mettono d’accordo per venderne uno, il primo nato da Rachele, e fingere che sia morto sbranato da una bestia selvatica (Gen 36,31-33).

Da un atto divisivo, verrebbe da dire, nasce ulteriore divisione, perché un altro dei fratelli, Giuda, decide di lasciare la sua famiglia e andare a vivere da solo, sposando una donna del posto, una cananea (Gen 38,1-2), scelta che fino ad allora la sua famiglia aveva evitato e che susciterà molta irritazione nel padre. Dalla moglie, di nome Sua, nascono tre figli, Er, Onan e Sela. Al primo viene data in moglie Tamar, che resta però presto vedova (Gen 38,6-7).

Il levirato

Per capire ciò che segue dobbiamo ricordarci di una consuetudine degli ebrei, che era diventata una legge (cfr. Dt 25,5-10). Questa prevedeva che qualora un uomo fosse morto senza figli, sua moglie sarebbe dovuta essere data in sposa a un fratello, di modo che il primo figlio della nuova unione fosse ritenuto figlio del morto. Il motivo che sta alle spalle di questa legge, per noi strana, è che per il popolo ebraico la terra non apparteneva a chi la coltivava o viveva, ma a Dio che la concedeva in utilizzo agli ebrei, i quali non potevano quindi venderla o comprarla (ecco la radice di vicende come quella di Nabot, che non vuole cedere la propria vigna al re: 1 Re 21). Si tratta di leggi antiche che servivano a ricordarsi come sulla terra si fosse ospiti, e come nei suoi confronti si avesse la responsabilità di chi non è proprietario, ma amministratore.

La terra poteva, quindi, essere solo ereditata in una trasmissione da padre in figlio che serviva in ultima analisi a dire che ogni bene degli ebrei derivava in origine da Dio.

È anche questo il motivo per cui, in situazioni eccezionali in cui non ci fossero eredi maschi, ma solo femmine, la legislazione ebraica consentiva alle donne di ereditare e possedere, cosa che nelle società antiche era decisamente molto rara (Nm 27,1-7).

Non si sa quanto e fino a quando gli ebrei abbiano davvero rispettato questa regola, ma sappiamo che era nota e che serviva a spiegare alcuni passaggi di storie antiche. Agli antichi lettori della Genesi non ci sarebbe stato bisogno di spiegarla.

La discendenza di Er

Er, quindi, il primogenito di Giuda, rientra esattamente nel caso che abbiamo spiegato. Muore senza aver generato un figlio, e sua moglie, Tamar, che finora per noi è soltanto un nome (non ne conosciamo neppure l’origine), viene data in sposa al fratello più giovane, Onan, che si rifiuta di generare un figlio che poi non sarà suo, e muore a sua volta.

Ci ricordiamo qui della questione che viene sottoposta a Gesù circa i sette fratelli che, proprio nel rispetto della legge del levirato, prendono in moglie uno dopo l’altro la stessa donna, salvo morire prima di avere generato dei figli (Mc 12,20-23; Mt 22,25-28; Lc 20,29-33).
Se succedesse oggi, ci sarebbero sicuramente delle malelingue che commenterebbero che quella donna porta davvero sfortuna, senza escludere che sia stata proprio lei a ucciderli, e che sarebbe meglio starne alla larga.

Questo è precisamente quello che pensa anche Giuda (Gen 38,11), il quale decide di violare la legge, che prescriverebbe di dare Tamar in sposa al suo terzogenito, rimandando la donna da suo padre (e di fatto disconoscendola come nuora) con la scusa che Sela è ancora troppo giovane.

Non dimentichiamoci che, in quella società arcaica, non erano presi in considerazione i diritti delle persone sole e delle donne. Si era tutelati e difesi finché si stava dentro al clan patriarcale, altrimenti ci si doveva fare giustizia e difendere da sé. Quando Giuda ha deciso di andare a vivere da solo, fuori dalla famiglia del padre, ha scelto di vivere come in un Far West.

Le donne, per parte loro, erano protette sì, ma anche asservite prima al padre e poi al marito. Fuori da quella protezione, non avevano garanzie. Il mancato rispetto della legge del levirato, quindi, significa anche lasciare Tamar senza protezione, senza assistenza, senza possibilità di un nuovo matrimonio e di concepire e partorire. Viene restituita al padre, come fosse un elettrodomestico guasto, fuori garanzia, rimandato al fornitore.

C’è la vaga promessa che poi, un giorno, quando Sela sarà cresciuto, Giuda andrà a richiamarla, ma il fatto stesso di rimandarla dal padre serve a disilluderla: quando, anni dopo, sarà il momento, Giuda probabilmente non si ricorderà del suo dovere, e anzi farà di tutto per dimenticarsene.

L’inganno benedetto

In effetti, gli anni passano, ma Sela resta senza moglie e soprattutto Tamar senza marito. Nel frattempo, diventa vedovo anche Giuda. Quando va lontano da casa per tosare le pecore, Tamar lo viene a sapere e decide di agire (Gen 38,12ss).

Confidando forse nella natura maschile, o conoscendo bene il suocero, dismette i vestiti da vedova, si agghinda in modo elegante e si va a sedere sulla strada all’ingresso di un paese che Giuda avrebbe dovuto attraversare. Il messaggio è chiaro, e Giuda non se lo perde: una donna sola, ferma sulla strada, vestita bene, è una prostituta. E Giuda ne approfitta subito. Anzi, preso dalla generosità o dall’astinenza, le promette addirittura in pagamento un capretto. Ovviamente, non ce l’ha con sé, quindi le lascia un pegno, da recuperare quando sarebbe giunto con quanto pattuito: questo pegno sono il proprio cordone e bastone, oggetti personali e riconoscibili.

Una volta tornato a casa, Giuda, che almeno sui debiti si mostra onesto, manda un servo a saldare i conti, ma a questi gli abitanti del posto dicono che lì non c’è mai stata nessuna prostituta. A questo punto Giuda, per non farsi ridere dietro da tutti, suggerisce allo schiavo di lasciare perdere: lui ha provato a pagarla, ma se lei non si fa trovare, pazienza.

Qualche tempo dopo vengono a dire a Giuda che sua nuora è rimasta incinta. E lui, che pareva averla dimenticata, forse pensa di avere l’occasione di liberarsene definitivamente: dal momento che non è sposata, quel figlio non può che essere frutto di un’unione illegittima, e quindi lei deve essere condannata a morte, a meno che il padre non riconosca il figlio e sani la situazione.

Mentre però viene portata al rogo, Tamar allestisce il colpo di scena: «Conosco il padre. È il proprietario di questo bastone e di questo cordone. O suocero, tu che sei legalmente responsabile di me, controlla se riesci a sapere di chi sono» (Gen 38,25). E qui Giuda si riscatta, ammettendo la propria colpa che, per quel mondo, non è tanto quella di essersi unito a una prostituta, quanto di non aver rispettato la legge del levirato: «Lei è più giusta di me», ammette nei confronti di una donna indifesa chi aveva deciso di vivere senza leggi.

Il racconto, per togliere ogni scandalo, aggiunge che Giuda, pur riconoscendo come suoi i figli gemelli che nasceranno, non tornerà a dormire con Tamar.

Una fede coraggiosa e creativa

Il racconto potrebbe a prima vista sembrarci uno dei tanti, un po’ scandalosi e vergognosi, che punteggiano l’Antico Testamento.

Il fatto che Matteo lo abbia ripreso, tuttavia, ce lo riporta alla memoria e può anche suscitarci qualche interrogativo.

Anche le altre donne citate dall’evangelista nella genealogia di Gesù presentano tutte dei comportamenti che, in sé, potremmo trovare decisamente discutibili:  Raab, prostituta di Gerico, Betsabea, moglie rubata da Davide a un suo soldato, e Rut, la più pura che organizza, però, un inganno ai danni del suo futuro marito. Tutte, con questi comportamenti non certo perfetti, compiono la volontà di Dio, spesso con creatività (è il minimo che si può dire dello stratagemma di Tamar). Parrebbe quasi che Matteo porti esempi per giustificare Maria: è vero, Gesù non è figlio di Giuseppe, ma questo non significa che l’intenzione divina non possa passare anche da questo aspetto apparentemente discutibile, così come spesso è accaduto nella storia della salvezza.

Dio guarda cuori e intenzioni, non i comportamenti esteriori, e spesso, se si guarda oltre le apparenze, sono soprattutto le donne a essere premiate.

Quanto a Tamar, si mostra fedele al marito defunto, al suo ricordo, al comando divino, senza fermarsi alla forma, alla lettera della legge. Lei era ben disponibile a offrire un figlio a Er, ma non le è stato concesso. In fondo, era solo una donna, non aveva autonomia legale. E invece si mette in attesa paziente, sfrutta l’occasione, sopporta il rischio della vergogna, dell’umiliazione, addirittura della morte, per non venire meno alla sua fedeltà.

Confida che il Dio di cui si fida non guardi innanzitutto all’applicazione rigorosa delle leggi, ma all’intenzione che le anima. Sa che il Padre nei cieli non la guarderà con riprovazione, ma con la tenerezza sorridente di chi vede i propri figli inventarsi soluzioni impensate. Confida che quel Dio non applica in modo disumano delle regole, ma vede e ama la vita.

Angelo Fracchia
(Camminatori 03-continua)




«Culture e missione»


A Torino la missione si fa comunicazione. I Missionari della Consolata inaugurano un polo culturale missionario che vuole essere un ponte tra le loro attività nei quattro continenti e la città, ma non solo. Un punto di incontro tra culture, religioni e territorio.

Questo mese è stato inaugurato il polo culturale dei Missionari della Consolata a Torino, in un’ala della Casa Madre. Il centro è stato chiamato Cultures and mission (Cam), culture e missione. Chiediamo il perché del nome a padre Ugo Pozzoli, coordinatore di Missioni Consolata onlus (Mco), che gestisce il polo. «Il nome Cultures and mission (Cam) è stato scelto perché rappresenta un ponte tra il passato il presente e il futuro. Come Centro di animazione missionaria, il Cam è stato un luogo che per circa 40 anni ha accompagnato i cammini di formazione e di animazione missionaria giovanile a Torino. Con il nuovo significato, la sigla rimane la stessa ma assume uno spirito più ampio che vuole raccontare la missione di oggi e di domani».

Ma di cosa si tratta esattamente?

Padre Ugo ci spiega: «Il nuovo Cam nasce con l’intento di essere un polo di cultura, informazione e comunicazione, un ponte fra i missionari, la loro storia, il loro lavoro in quattro continenti, e la città di Torino, il luogo dove siamo nati e siamo tuttora presenti a vari livelli. Vorremmo che fosse una vetrina che parli del mondo alla nostra città e che parli della nostra città al mondo. Credo infatti che in passato si sia messo troppo l’accento, parlando di cooperazione missionaria, su quanto potevamo “dare” a chi presumibilmente aveva meno. Con questo progetto vorremmo raccontare anche il tanto, sia quantitativamente che qualitativamente, che noi possiamo ricevere dagli altri».

E continua: «Con la gestione di questo progetto, Mco desidera creare un laboratorio in cui far convergere il mondo della comunicazione, che fa capo alla redazione della rivista Missioni Consolata, le attività di animazione e formazione con cui cerchiamo di sviluppare temi come quelli legati alla mondialità, all’intercultura, al dialogo e, ultima ma non ultima, la spiritualità, che anima la nostra missione e senza la quale non saremmo qui a continuare la nostra opera. Penso alle cose belle che si potranno creare mettendo in sintonia il Cam e il nostro centro di spiritualità alla Certosa di Pesio».

La genesi

«Sono diversi anni che parliamo di recuperare la memoria dell’istituto – ci dice padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata -. Ci sono i giovani missionari che arrivano, nuove storie, e si sta dimenticando il passato. Secondo noi un gruppo che dimentica il proprio passato, non può costruire il futuro». E continua: «L’idea è dunque di recuperare il materiale che abbiamo per presentare la memoria e raccontare la nostra missione agli altri. Oggi il racconto di qualcosa di vissuto vale di più delle prediche.

Ci siamo chiesti: fare un museo classico? No, un museo è un po’ conservare il passato, ma non basta. Qualcosa che serva per l’animazione missionaria. Non qualcosa da ammirare, ma un discorso che deve provocare, fare capire alcune realtà e spingere a domandarsi: io che cosa posso fare? Come posso collaborare? Come posso costruire missione nel mio oggi?». Così il superiore generale e i suoi consiglieri hanno pensato che fosse un bene valorizzare le collezioni etnografiche e naturalistiche e gli archivi (foto, video, manoscritti) che l’istituto ha accumulato in 121 anni di esistenza, per realizzare qualcosa.

«Lo chiamo polo, perché non è museo, non è centro culturale, ma vuole raccogliere tante persone che, cristiane e non, si ritrovino intorno ai valori dell’umanità, e si vogliano incontrare in uno spazio fisico dove raccontarsi, parlare, ascoltare, e conoscere altre storie.

Abbiamo la fortuna, come istituto, di essere internazionali e interculturali: di cose da raccontare ne abbiamo. Ma vogliamo anche ascoltare le storie del territorio».

Continua padre Stefano: «Usando tecniche moderne, i materiali che abbiamo, e mettendo a disposizione missionari con le loro storie, ci presentiamo alla gente, non per farci vedere, ma per raccontare questa memoria storica. Con l’idea di presentare il passato, raccontando il presente e pensando al futuro».

E anche: «La missione incontra il territorio. Non più “venite in Africa”, ma “la missione è qui”. Noi siamo disposti a incontrare tutti: cristiani, non cristiani. Raccontiamoci. Chi è alla ricerca per dare un senso alla propria vita. Venite, vediamo se riusciamo a collaborare. Questa è la novità».

Un’équipe missionaria

Il nucleo propulsore del nuovo Cam è un’équipe di tre missionari, costituita un anno fa, che curerà la gestione del polo missionario, in particolare nei suoi aspetti d’incontro con la gente. La costituiscono il kenyano John Nkinga e gli italiani Fabio Malesa e Piero Demaria.

Padre John, 36 anni, giovane ed esuberante, è l’esempio vivente del fatto che la missione oggi è anche in Italia. Lui, missionario africano a Torino, lavora con le comunità di migranti (cfr. MC marzo 2022). Ci dice sul polo: «Vogliamo fare capire alle persone e alla città di Torino che esiste una cultura missionaria, e che non è un fatto nostro. Ha origine da un fondatore, passa dai missionari per arrivare alla gente. Non ci fermiamo all’animazione e basta. Parliamo di “cultura missionaria”. Vogliamo farla conoscere. Vuol dire fare animazione in modo diverso, più moderno, più pensato sui bisogni e le aspettative delle persone che camminano con noi».

Padre Fabio, 50 anni, originario della Sardegna, ha lavorato dodici anni in Mozambico (cfr. MC marzo 2023): «Oggi, soprattutto dopo il covid, le persone, e i giovani in particolare, hanno bisogno di trovare un posto dove possano sentire che le relazioni umane vengono curate, si sviluppano. Sono rari i posti così, e la gente si trova molto sola. Avere un luogo dove, attraverso l’accoglienza, si sente accettata, magari nella propria diversità, è il primo passo per costruire qualcosa insieme».

Padre Piero, 44 anni cuneese (cfr. MC marzo 2019), ha le idee chiare sul ruolo dell’équipe missionaria: «Noi dobbiamo rendere vivo il polo culturale. Una prima dimensione è quella dell’accoglienza. Abbiamo il compito di accogliere i gruppi: giovani, scuole, famiglie, parrocchie, associazioni. Un’accoglienza che va preparata. Tutto inizia al piano terra, dove presentiamo chi siamo noi e cosa è l’istituto.

Al primo piano c’è il museo vero e proprio e al secondo piano diversi spazi per i laboratori che saranno pensati a seconda dei target. È al secondo piano che la nostra presenza sarà più importante. Faremo laboratori su diversi temi: maschere, musica, lingue, cartine geografiche. Il tutto pensato a seconda dei gruppi che vi partecipano».

Continua Piero: «Il nostro ruolo è dunque di fare incontrare chi arriva con la realtà della missione. Perché il polo vuole trasmettere questo. In seconda battuta, inviteremo le persone più interessate a partecipare, costruire una rete e collaborare.

Anche allo scopo di mettere in circolazione i temi che ci stanno più a cuore: l’incontro tra le culture, la diversità, l’accoglienza del diverso, l’ecologia. E costruire un mondo un po’ più vivibile e pacifico».

Parola chiave: incontro

John: «Direi che la parola chiave per il polo culturale è “incontro”. Vogliamo offrire uno spazio e del tempo per incontrarsi. Qualcosa che si faceva già con il Centro di animazione missionaria (anch’esso Cam, ndr), e si potrà nuovamente fare. Non è un museo o uno spazio espositivo, ma un luogo per incontrarsi. Dove la cultura incontra la missione, la migrazione incontra la cultura, e così via».

Fabio: «Inizialmente pensiamo anche di “andare all’incontro”, ovvero andare nelle scuole portando qualche pezzo di museo, per parlare del polo, farci conoscere. Fare in modo che la gente venga, e da lì aprire un ponte con la città, la popolazione e le istituzioni.

Il Cam sarà un posto dove, attraverso la testimonianza di tanti padri, di passaggio a Torino, o collegati a distanza dalle missioni, grazie alle moderne installazioni, si farà cultura missionaria. Alcuni contenuti, come video e foto, possono essere rinnovati nel tempo, garantendo così una maggiore interazione con le persone».

Piero: «Vogliamo incontrare il territorio. Siamo interessati a tutti, ma in particolare ai giovani e alle famiglie. Attraverso famiglie più sensibili, si possono fare arrivare anche altri. La visita al museo può essere un primo contatto, ma avremo molte altre attività, ad esempio quelle in collaborazione con il Centro missio nario diocesano, che organizza formazioni per chi parte in missione».

Il cuore creativo

Partiti dall’idea e da un’esigenza, per arrivare a un’installazione multimediale che adotta tecniche innovative, e a spazi gestiti da un’équipe missionaria, è stato necessario un grande lavoro di una squadra di professionisti della comunicazione.

La società Mediacor, con una vasta esperienza in allestimenti multimediali, già protagonista della fortunata esposizione temporanea «Mater Amazonia» in Vaticano, è stata incaricata dai Missionari della Consolata della progettazione e realizzazione degli spazi espositivi e di quelli d’incontro. Anima di Mediacor, composta da sette soci, sono Paolo Pellegrini e Simona Borello.

Simona ci racconta: «Lo abbiamo immaginato come un luogo d’incontro. Incontro tra le culture, incontro tra i missionari e la città, incontro tra le religioni.

È stato progettato sia per vedere l’incontro che i missionari hanno avuto, e hanno tutt’ora, con le altre culture, sia per favorire l’incontro tra le persone e la missione. L’esposizione permanente è la narrazione del primo aspetto, di cosa succede quando si arriva al cospetto di una cultura e poi si cerca di entrare in essa. Si concentra sui vari aspetti che ci sono nel viaggio: le persone, la natura, la lingua, il modo di fare e di operare.

Questo fattore è stato utilizzato anche per l’approccio architettonico con il potenziamento delle aree nelle quali è possibile fare incontri, conferenze, e con la valorizzazione di alcuni ambienti che erano depositi, trasformati in salette. E poi c’è la sala dei laboratori. Il percorso è pensato per avere come parte integrante incontri con i ragazzi delle scuole, degli oratori.

Il polo vuole essere un punto di riferimento per la città, per le iniziative dei missionari o per quelle che la Chiesa locale voglia fare qui».

Simona non nasconde una certa soddisfazione per la realizzazione dell’opera e ci racconta le differenze con esperienza precedenti di Mediacor: «La cosa interessante è che si tratta di un polo culturale, per cui non c’è soltanto il discorso espositivo che abbiamo già gestito in altri casi. Qui c’era il desiderio di disegnare un luogo che poi potesse essere vivo e polifunzionale, e ospitare anche altre attività.

Un’altra differenza: visto che i missionari sono una realtà viva cui si aggiungono sempre cose nuove, alcuni spazi sono stati pensati per essere rinnovati periodicamente. Ad esempio l’ingresso dove ci sono i progetti in evidenza, o la parte di approfondimenti.

Un altro aspetto è il tentativo di far dialogare la tecnologia non solo la narrazione, ma anche con gli oggetti etnografici».

La parte d’installazione museale presenta un percorso che può essere gestito in modo completamente automatico, e condurre il visitatore o il gruppo nella visita.

C’è stata, inoltre, un’attenzione particolare alla inclusività, con l’ausilio di alcuni strumenti che utilizzano il linguaggio della comunicazione aumentata, per permettere anche ai bambini con disturbi specifici di apprendimento di beneficiare della visita. Anche la disabilità fisica è tenuta in conto, con un’architettura ad accesso totale.

Un gemello in Kenya

Padre Stefano Camerlengo ci rivela una notizia: «Un polo culturale missionario lo stiamo sognando anche a Nairobi, dove l’istituto ha cominciato la sua missione e dove ha una lunga storia. Inizia a Torino, continua in Kenya e poi va in tutto il mondo. Se oggi si vogliono capire meglio i Missionari della Consolata non basta andare a Torino, bisogna anche andare a Nairobi».

Padre Ugo conclude: «Il Cam ha rappresentato un investimento notevole, giustificato dalla volontà di valorizzare le nostre radici, dimostrando a noi stessi, e a chi collabora con noi, che, sebbene abbiano oltre 120 anni di storia, sono tuttora vive e generano missione, raccontano il Vangelo, sostengono l’umanità nelle sue stanchezze e nelle sue ferite. Speriamo che chi ci visiterà, chi accoglierà i nostri spunti e le nostre proposte, si lasci poi coinvolgere a partecipare, diventando un nostro sostenitore, tanto economicamente quanto magari mettendo a disposizione un po’ del suo tempo, collaborando in qualche attività del polo».

Marco Bello




Nicaragua. La triste fine del sogno sandinista


Nel paese centroamericano, gli abusi della coppia presidenziale Daniel Ortega-Rosario Murillo non conoscono fine. Gli oppositori sono in carcere o in esilio, mentre la Chiesa cattolica è sotto assedio.

Baffetti neri, indossava sempre una divisa militare e un paio di occhiali a goccia poggiati sul naso. Serio, determinato, di poche parole. Aveva portato alla vittoria il Fronte sandinista (Fsln) sconfiggendo il dittatore Anastasio Somoza e i suoi poderosi alleati, gli Stati Uniti di Ronald Reagan. Nel luglio del 1979, era entrato a Managua, capitale del paese, da trionfatore, accolto da una folla di nicaraguensi entusiasti, applaudito all’estero da schiere di ammiratori.

Managua, febbraio 2023.  Baffetti grigi, abiti civili, cappellino in testa. Circondato dai suoi collaboratori, parla con un tono di voce tranquillo e monocorde, ma usando il vocabolario tipico del nazionalismo più spinto: agenti stranieri, traditori, terroristi, mercenari al soldo dell’imperialismo. Gli epiteti sono riferiti ai 222 prigionieri politici da lui stesso improvvisamente rilasciati, messi su un volo charter e spediti negli Stati Uniti, ma non prima di essere stati spogliati della cittadinanza. Protagonista di questi eventi è Daniel Ortega Saavedra, un tempo mitico comandante sandinista, oggi presidente del Nicaragua o, secondo l’opinione più accreditata, dittatore senza se e senza ma.

Il presidente russo Putin durante la sua visita al Nicaragua di Ortega e Murillo l’11 luglio 2014. Lo scorso 23 febbraio 2023 il Nicaragua ha nuovamente votato a favore della Russia durante l’Assemblea delle Nazioni Unite. Foto Cesar Perez – Presidencia de Nicaragua – AFP.

Ortega-Murillo, coppia «regale»

Prima, dal 1979 al 1990, poi, dal 2007 a oggi, Daniel Ortega ha ormai raggiunto i 27 anni alla guida del paese centroamericano. Il suo passaggio da presidente ad autocrate (eufemismo per dittatore) è stato graduale, ma sistematico, con la progressiva neutralizzazione di ogni opposizione, in primis quella interna al movimento sandinista. Punto di svolta sono state le proteste di piazza (contro la riforma del sistema di sicurezza sociale, Inss) dell’aprile del 2018, concluse con un bilancio di (almeno) 350 morti. In quell’occasione, il governo ha giustificato la propria reazione accusando i manifestanti di terrorismo golpista che minacciava la stabilità del paese. Nelle elezioni del novembre 2021, Ortega è stato rieletto con il 75% dei voti, ma praticamente senza avversari, visto che i principali concorrenti erano stati incarcerati prima del voto (Cristiana Chamorro, Arturo Cruz, Félix Maradiaga, Juan Sebastián Chamorro, Miguel Mora, Medardo Mairena e Noel José Vidaurre Arguello) o avevano preferito lasciare il paese (María Asunción Moreno).

Dal 2019 il Nicaragua è sottoposto a sanzioni internazionali da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Anche per questo, si sono fatte sempre più strette le relazioni del paese con le due principali autocrazie mondiali: la Russia di Putin e la Cina di Xi (soprattutto dopo la rottura, nel dicembre 2021, delle relazioni tra Managua e Taiwan). Peraltro, entrambe le potenze sono coinvolte nel megaprogetto del canale del Nicaragua tra l’Atlantico e il Pacifico in futura concorrenza con l’unico canale ad oggi aperto, quello di Panama (di proprietà panamense, ma di fatto controllato dagli Stati Uniti). Le scelte di campo sono chiare. Il 23 febbraio Managua si è nuovamente schierata con Putin nella risoluzione delle Nazioni Unite contro l’aggressione della Russia all’Ucraina (unendosi – unico paese latinoamericano – a Bielorussia, Corea del Nord, Siria, Eritrea e Mali). Mentre una settimana dopo (2 marzo) è uscito un report delle Nazioni Unite che accusa il governo nicaraguense di gravi violazioni e abusi dei diritti umani (detenzioni arbitrarie, esecuzioni extragiudiziali, tortura, privazione arbitraria della nazionalità e del diritto di rimanere nel paese).

A queste alleanze internazionali Ortega ne affianca un’altra. Da molto tempo, al suo fianco siede la moglie Rosario Murillo, inizialmente come primera dama, dal 2017 anche con la carica ufficiale di vicepresidente, formando un controverso governo familiare che ricorda più le monarchie ereditarie che le istituzioni repubblicane.

Consolidano la dinastia Ortega-Murillo i nove figli della coppia. Tutti occupano posizioni importanti, ad eccezione di Zoilamérica, la primogenita di Murillo da anni in rotta con la famiglia. Laureano Ortega, il sesto figlio, già cantante d’opera, ha assunto il ruolo di «assessore» nel campo degli investimenti e della cooperazione internazionale, in particolare con la Cina, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con Taiwan. In quest’ottica, lo scorso 11 febbraio il giovane Ortega ha incontrato a Pechino Wang Yi, direttore della Commissione affari esteri (il diplomatico cinese di più alto grado).

Una foto storica: la trionfale entrata a Managua dei sandinisti, il 19 luglio 1979.

Senza esclusione di colpi

Da tempo, la Chiesa cattolica del Nicaragua è critica verso il governo di Ortega e Murillo e per questo è finita nel mirino della coppia presidenziale. Occorre però ricordare che all’inizio, subito dopo la caduta di Somoza (1979), una parte importante del cattolicesimo nicaraguense si schierò con i sandinisti tanto che alcuni sacerdoti (legati alla teologia della liberazione) entrarono in quel governo: Miguel D’Escoto, Edgard Parrales, Fernando Cardenal, Ernesto Cardenal. Famosa è rimasta la scena del 4 marzo 1983 nella quale Giovanni Paolo II, in visita al paese, con il dito alzato rimproverò pubblicamente padre Ernesto Cardenal, inginocchiato davanti a lui. Più recentemente, nel 2005, il cardinale Miguel Obando y Bravo celebrò le nozze religiose tra Ortega e Murillo.

Oggi i rapporti tra governo nicaraguense e Chiesa cattolica sono ai minimi storici. La coppia presidenziale accusa la Chiesa di appoggiare la rivolta iniziata nell’aprile 2018 e per questo ha iniziato una capillare persecuzione dei suoi rappresentanti. Eppure, a maggio 2018, cinque membri della Conferenza episcopale avevano fatto da mediatori negli incontri (mesa del diálogo nacional) tra il governo e la società civile. A quel tavolo di mediazione – ben presto rivelatosi fallimentare – sedeva anche monsignor Rolando Álvarez, vescovo di Matagalpa e amministratore apostolico della diocesi di Estelí, nonché critico instancabile del governo.  Nell’agosto 2022 i contrasti s’inaspriscono. A inizio mese, la polizia chiude le sette emittenti radio di proprietà della diocesi e pone agli arresti domiciliari il vescovo e i suoi collaboratori. La foto dell’arresto del prelato, con lui inginocchiato a terra e con le mani alzate davanti alla polizia di Ortega, fa il giro del mondo. Dopo quindici giorni, chiusi all’interno della curia di Matagalpa, il 19 agosto la polizia preleva i prigionieri e li conduce a Managua.

Il 9 febbraio arriva la mossa a sorpresa di Ortega con la liberazione e l’espulsione dei prigionieri politici, tra cui monsignor Álvarez. Questi però non smentisce la sua fama di oppositore intransigente: rifiuta la liberazione e l’espatrio. Il giorno seguente un Tribunale lo condanna a un totale di 26 anni di carcere.

Un primo piano di mons. Álvarez, il vescovo che, dopo aver rifiutato l’espulsione dal Nicaragua, è stato condannato a 26 anni di carcere. Foto Diocesis de Matagalpa.

Traditori della patria e paternalismo

L’offensiva repressiva del governo non si ferma però alla condanna del vescovo Álvarez. Il 15 febbraio un altro tribunale nicaraguense toglie la cittadinanza a 94 oppositori in esilio tra cui gli scrittori Sergio Ramírez e Gioconda Belli (entrambi sandinisti della prima ora) e il vescovo Silvio Báez. Tutti dichiarati «traditori della patria».

Secondo il magistrato di Managua, «gli imputati hanno compiuto e continuano a compiere atti criminali a danno della pace, della sovranità, dell’indipendenza e dell’autodeterminazione del popolo nicaraguense, incitando alla destabilizzazione del paese, promuovendo blocchi economici, commerciali e finanziari, il tutto a scapito della pace e del benessere della popolazione».

Oltre che nella Chiesa e nella società civile, il regime Ortega-Murillo ha individuato nelle organizzazioni non governative (Ong) un altro nemico. A fine 2022, su 7.227 Ong ufficiali ne erano state chiuse 3.106 (fonte «Expediente Nicaragua»), in teoria per mancanza di un’adeguata rendicontazione, in realtà per impedire un associazionismo considerato veicolo di critiche e per un avere un controllo ancora più stretto sulla popolazione. Molte Ong fornivano servizi essenziali per la salute, l’educazione e lo sviluppo.

Erano essenziali perché il Nicaragua rimane il terzo paese più povero delle Americhe (dopo Haiti e Honduras), nonostante la propaganda governativa. Per esempio, nel «Piano nazionale di lotta contro la povertà e per lo sviluppo umano 2022-2026» del luglio 2021 è scritto testualmente: «Il modello cristiano e solidale, con i valori cristiani e le pratiche di solidarietà che guidano la costruzione di circoli virtuosi di sviluppo umano con il recupero dei valori, la restituzione dei diritti e il rafforzamento delle capacità che ci hanno permesso di superare i circoli viziosi della povertà e del sottosviluppo». Questa sorta di «paternalismo cristiano» costituisce un mantra ad uso e consumo della coppia presidenziale.

Sentire (Multinoticias Canal 4, televisione di cui sono proprietari i figli Juan Carlos e Daniel Edmundo) o leggere (El 19) i discorsi della compañera Rosario lascia interdetti per la profusione di parole come amore, felicità, pace, dignità, libertà, sovranità, sempre «por gracias de Dios» (grazie a Dio).

Volenti o nolenti, il destino dei nicaraguensi – almeno al momento – rimane nelle mani di Daniel Ortega e Rosario Murillo, probabilmente la peggiore rappresentazione di quello che fu il sogno sandinista.

Paolo Moiola

Il vescovo Silvio Báez privato della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Fotogramma.


Come il potere cambia gli individui

Dall’empatia all’arroganza

La scrittrice Gioconda Belli privata della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Foto da Facebook.

L’esperienza di oggi e del passato dimostra che il potere cambia gli individui. Certamente non tutti alla stessa maniera, ma è difficile rimanere indenni dalla metamorfosi che il potere produce negli atteggiamenti e nei comportamenti delle persone. Nello Spirito delle leggi (1748), la sua opera più nota, Montesquieu (1689-1755), padre riconosciuto del principio della «separazione dei poteri», scrive: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti».

È quello che lo psicologo Dacher Keltner dell’Università della California di Berkeley ha chiamato il «paradosso del potere» (2016). Secondo i suoi studi, una volta raggiunto il potere il protagonista perde le qualità che sono state necessarie per conseguirlo. Questo significa che le persone di potere tendono ad avere meno comprensione dei punti di vista altrui, meno sensibilità, meno compassione verso le sofferenze degli altri ovvero – per dirla in breve – presentano un «deficit di empatia».

«Il deficit di empatia – scrive la psicologa Jennifer Delgado Suárez – non riguarda tutte le persone che hanno potere. C’è chi conserva la capacità di connettersi con gli altri e mettersi nei loro panni. Dopotutto, il potere non è una posizione, ma uno stato mentale. Un politico può sentirsi potente, così come un ufficiale delle forze di sicurezza dello Stato o un giudice, ma può sentirsi potente anche il proprietario di un’impresa o l’insegnante che esercita una certa autorità sui suoi studenti. Chi comprende la responsabilità che deriva dal potere e lo vede come uno stato transitorio che gli consente di aiutare gli altri e migliorare la propria vita, può preservare la propria empatia».

Lo scrittore Sergio Ramírez privato della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Fotogramma.

Al potere è anche collegata quella che viene chiamata la «sindrome dell’arroganza» (Hubris syndrome). «La sindrome di Hubris – scrive David Owen (Clinical Medicine, agosto 2008) – è indissolubilmente legata al potere: il potere è un prerequisito, e quando il potere passa la sindrome normalmente si risolve». È meno probabile che essa si manifesti nelle persone che sanno rimanere modeste, che rimangono aperte alle critiche o che sono dotate di senso dell’umorismo.

Sfortunatamente – lo insegna la storia e lo vediamo nella quotidianità – il potere corrompe e per alcuni diventa difficile o impossibile farne a meno. Spesso neppure la separazione dei poteri risulta sufficiente per arginare la deriva del potere. Sono necessari almeno altri due requisiti: una democrazia solida e una società istruita e dotata di spirito critico.

Pa.Mo.


SCHEDA PAESE

Superficie: 130.374 km²
(il paese più esteso dell’America centrale).

Popolazione: 6.702.379 (2022).

Capitale: Managua (un milione di abitanti).

Forma di governo: repubblica presidenziale (Daniel Ortega e Rosario Murillo).

Religioni: 44,9 per cento di cattolici, 39,8 di evangelici
(di varie denominazioni).

Economia: fondata sul settore agricolo che produce fagioli, sorgo e mais per il consumo interno, e caffè, carne bovina, zucchero di canna, banane, cotone e tabacco per le esportazioni; tra le attività minerarie, l’estrazione dell’oro riveste una sempre maggiore importanza.

Condizione socioeconomica: i dati sulla povertà non sono univoci variando dal 30 al 43 per cento della popolazione.

Sanzioni internazionali: a partire dalla repressione dell’aprile 2018, molti paesi (Stati Uniti e Unione europea in primis) hanno adottato sanzioni contro il regime Ortega-Murillo. L’ultima condanna delle Nazioni Unite è del 2 marzo 2023.


L’Università dei Gesuiti (Uca) e la rivista «Envío»

I vulcani non avvertono

L’Università centroamericana di Managua – generalmente conosciuta con l’acronimo di Uca – è la prima università privata nata in Centroamerica. È stata fondata il 23 luglio 1960 dalla Compagnia di Gesù.

Tra i numerosi meriti dell’ateneo dei Gesuiti c’è quello di essere stato l’editore della rivista Envío. Il primo numero del mensile uscì nel febbraio 1981, l’ultimo è del giugno 2021. Inizialmente, la rivista fu soprattutto uno strumento di «appoggio critico» alla rivoluzione nicaraguense e al pensiero sandinista. Dal 1990 – in concomitanza con la sconfitta elettorale del Fronte sandinista (Fsln) – si aprì all’America Latina e a molte altre tematiche (dall’ambiente ai popoli indigeni), fino a quando è esplosa la crisi del Nicaragua.

«Aprile 2018 – si legge nell’editoriale del numero di dicembre di quello stesso anno – sarà per sempre impresso nella coscienza nazionale. La sproporzionata risposta repressiva del regime contro le prime proteste cittadine fece esplodere il vulcano. Nessuno aveva presentimento, ma c’erano innumerevoli ragioni che annunciavano che sarebbe successo. Un decennio di sfrenato autoritarismo ha trasformato lo scoppio in un’insurrezione della coscienza nazionale. La gioventù universitaria l’ha iniziata, e la gioventù è stata seguita da gente, tanta gente, sempre più gente. Per anni c’erano morti e terrore nelle zone rurali ma Managua, León, Masaya, le città del Pacifico sembravano addormentate. Al risveglio, hanno sollevato l’intero paese. Com’è stato possibile? Non per una cospirazione dall’esterno, ma a causa della molta lava accumulata all’interno. I vulcani non avvertono.

Questa è una sintesi, un resoconto di quanto abbiamo scritto quest’anno alla vigilia dello scoppio e nelle giornate indimenticabili di resistenza civica e ribellione popolare vissute da aprile».

Infine, l’ultima svolta, raccontata così sul sito che oggi funge da archivio: «Nell’aprile 2018 ci siamo impegnati nell’insurrezione cittadina che chiedeva un Nicaragua libero. A giugno 2021, quando abbiamo compiuto 40 anni, abbiamo deciso di porre il punto finale a quest’esperienza informativa tanto preziosa».

Poche semplici righe che, pur senza entrare nei dettagli, sono sufficienti per spiegare l’eutanasia della storica rivista.

L’Università dei gesuiti riuscirà a resistere? La domanda è lecita visti gli ultimi sviluppi. Il 7 marzo il governo Ortega-Murillo ha, infatti, deciso la chiusura di due università: la Universidad Juan Pablo II (Managua e altre quattro città) e la Universidad cristiana autónoma de Nicaragua (León e altre cinque sedi). Allo stessso, tempo è stata costretta alla chiusura (formalmente per autoscioglimento) l’organizzazione della Caritas. In Nicaragua, la repressione non si ferma.

Pa.Mo. 

IL NICARAGUA SU MC

Paolo Moiola, Rosario e Daniel Ortega Spa, gennaio-febbraio 2017




Zarco riposa sulla Luna


Manuel Antonio Zarco era un «cacique» degli Emberá, uno dei sette popoli indigeni di Panama. Negli anni Sessanta la sua strada s’incrociò con quella degli astronauti della Nasa che si preparavano a sbarcare sulla Luna. Zarco è scomparso nel 2010, ma la sua storia – incredibile e poco conosciuta – è sopravvissuta.

Nella conquista umana dello spazio, l’esplorazione della Luna è una tappa fondamentale che passa dal programma statunitense Apollo 11 del 1969 fino ad Artemis, attualmente in corso.

Apollo fu il famoso programma spaziale dell’Ente nazionale per le attività spaziali e aeronautiche, più conosciuto per la sua sigla inglese Nasa. Il programma fu messo in opera dagli Stati Uniti negli anni Sessanta per vincere la corsa allo spazio contro l’Unione Sovietica, all’epoca della Guerra fredda. Quel programma fu la continuazione di Mercury, le missioni che vennero lanciate dalla Nasa per identificare la zona della Luna più idonea per un possibile atterraggio di una capsula con equipaggio a bordo: allunaggio che avvenne il 20 luglio 1969 e che consegnò alla storia la frase «Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande passo per l’umanità» .

Artemis è invece il nome scelto per la nuova sfida della Nasa che promette di riportare sulla Luna gli esseri umani nel 2024. Un progetto che ha già fatto il primo passo a fine 2022 con la missione spaziale Artemis 1, partita con il lancio del 16 novembre dal Kennedy space center (Merritt Island, Florida) e conclusa l’11 dicembre con l’ammaraggio della navicella Orion nell’Oceano Pacifico, al largo della costa settentrionale del Messico.

Artemis 1 ha fatto ben sperare e ha battuto molti record: il veicolo spaziale senza equipaggio ha, infatti, realizzato un viaggio di 25 giorni percorrendo 2.254 milioni di chilometri attorno alla luna. Orion ha sorvolato per due volte la superficie lunare arrivando ad una distanza di soli 130 km dalla stessa. Nel suo punto più lontano dalla Terra, la navicella si è trovata a quasi 435mila chilometri di distanza, circa mille volte superiore alla lunghezza dell’orbita che percorre la Stazione spaziale internazionale attorno al nostro pianeta.

Una sfida lunga più di 60 anni, quella della conquista della Luna, che ha visto successi e fallimenti, momenti di grandezza e di profondo sconforto e che probabilmente ci riserverà ancora molte sorprese.

Se la storia dei programmi spaziali è generalmente nota, c’è però una storia dentro la storia che pochi conoscono e che lega la missione Apollo 11 alle popolazioni indigene dell’America Latina.

Neil Armstrong, Edwin Aldrin e Michael Collins, gli astronauti dell’Apollo 11. Foto NASA.

Un cacique come istruttore

Una rara immagine dell’addestratore indigeno, Manuel Antonio Zarco, jaibaná del popolo Emberá. Foto ACP y Panamá Vieja Escuela.

Negli archivi della Nasa si trova il nome di un cacique (capo), un indigeno panamense leggendario per il suo popolo, legato a doppio filo ai nomi degli astronauti Neil Armstrong, Edwin Aldrin e Michael Collins. Si tratta del jaibaná (guida spirituale) del popolo indigeno Emberá, Manuel Antonio Zarco.

Per conoscere la sua storia dobbiamo viaggiare fino a Panama e entrare nella selva del paese centroamericano, il Darién. Il nostro nacque nel 1914 a Rio Chico (Darién panamense) all’interno di una comunità del popolo indigeno Emberá. Gli Emberá sono uno dei sette popoli indigeni della Repubblica di Panama (insieme agli Ngäbe, i Buglé, i Guna o Dule, i Wounaan, i Bri bri e i Naso Tjërdie – vedere riquadro a pag. 24, ndr) e sono come gli altri sei, custodi di una connessione ancestrale con gli elementi della natura, una conoscenza profonda che permette loro di vivere in armonia con l’ambiente selvaggio e, all’apparenza, ostile nel quale sono immersi.

La zona nella quale Manuel Antonio trascorse i primi anni di vita è ancora oggi impervia, coperta di selva e piena di insidie. In quel contesto l’adolescente Zarco apprese i segreti della caccia, della pesca, delle piante medicinali e della comunicazione con la Madre Terra.

La destrezza con arco e freccia, la sua profonda conoscenza di flora e fauna e il suo carisma, lo fecero diventare presto un punto di riferimento per tutta la comunità, che iniziò a trattarlo con rispetto vedendo in lui una guida.

Intorno al 1940, Zarco, già maturo e sperimentato con i suoi 26 anni, decise di trasferirsi con la sua famiglia a Gamboa, zona del Canale di Panama nella quale il lago artificiale Gatún si unisce al fiume Chagres. La sua idea era quella di ampliare le frontiere della sua comunità, trovando nuove aree nelle quali vivere e prosperare.

Lezione di sopravvivenza alla «Tropical survival school» di Panamá in una foto d’epoca. Foto Panama Canal Museum.


Storia del Canale e dell’enclave Usa

A quell’epoca era già operativo il Canale di Panama, colossale opera ingegneristica che taglia in due l’istmo di Panama consentendo il traffico marittimo di navi di grosse dimensioni (oggi conosciute come Panamax).

Il canale collega l’Oceano Atlantico con l’Oceano Pacifico arrivando a una lunghezza totale di 81,1 km, una profondità massima di 12 m e una larghezza che varia dai 240-300 m del lago Gatún e ai 90-150 m nel tratto del taglio della Culebra. Quello che è considerato una delle meraviglie del mondo moderno fu inaugurato al traffico marittimo il 15 di agosto del 1914.

All’epoca dell’arrivo di Manuel Antonio Zarco nell’area, il Canale era, dunque, già operativo da più di 20 anni. La zona del Canale divideva di fatto il paese centroamericano in due: in una fascia di territorio larga 16 km che costeggiava il Canale sui due lati, vivevano migliaia di statunitensi con le loro famiglie, in una vera e propria enclave Usa che funzionava con leggi e regole autonome. Un territorio al quale i panamensi non avevano accesso (se non con permessi speciali) e nel quale il tenore di vita era molto più alto che nel resto del Paese. Questa situazione derivava dalla firma del trattato Hay-Bunau Varilla del 18 novembre 1903 che di fatto cedeva una parte del territorio di Panama agli Stati Uniti per la realizzazione dei lavori prima e della manutenzione e gestione del Canale poi.

A difesa dei loro interessi gli statunitensi avevano dispiegato un contingente militare e la United States air force aveva stabilito una base aerea ad Albrook, nella zona del Canale.

La mappa evidenzia i territori indigeni (camarcas) di Panamá.

Una scuola molto speciale

Nella base aerea era presente anche la Tropical survival school (Scuola di sopravvivenza tropicale) che era stata trasferita lì dalla California. Alla guida della scuola era stato scelto H. Morgan Smith, antropologo che ben conosceva Panama e che aveva già collaborato per i suoi studi con Manuel Antonio Zarco negli anni Cinquanta.

Smith era stato diretto testimone delle capacità di adattamento di Zarco alla vita in foresta. Così gli chiese di diventare istruttore di tecniche di sopravvivenza nella selva per i soldati dell’esercito statunitense. In questo modo, Zarco cominciò a lavorare nella base aerea di Albrook in un momento particolarmente teso per le relazioni tra Usa e Panama.

Nel 1958, infatti, tra i panamensi stava emergendo un sentimento di rivalsa nei confronti dei privilegi di cui godevano da cinquant’anni i loro connazionali residenti nella zona del Canale, chiamati zonians perché isolati dal resto della popolazione e protetti dagli Usa.

In quell’anno ebbe luogo la dimostrazione chiamata Operación soberania (Operazione sovranità), durante la quale un gruppo di studenti universitari piantarono 75 bandiere panamensi nella zona del Canale. Il motto era el que siembra banderas, cosecha soberanía (chi semina bandiere, raccoglie sovranità).

L’anno successivo gli stessi studenti organizzarono quella che venne chiamata «Marcia patriottica», invitando i cittadini panamensi a entrare in modo pacifico nell’area sotto giurisdizione Usa. Il governatore della zona del Canale, che all’epoca era William Everett Potter, diede però l’ordine alla polizia di fermare i manifestanti e di impedire loro l’ingresso, scatenando tumulti e scontri che terminarono con un saldo di vari feriti.

Arrivano gli astronauti

Nel 1963, proprio mentre la situazione politica nell’istmo diventava ancora più incandescente (sarebbe sfociata nei fatti del 9 gennaio 1964, ricordato oggi come el día de los martires, «il giorno dei martiri»), arrivarono alla Scuola di sopravvivenza sedici astronauti del programma spaziale Apollo.

L’inizio delle missioni con destinazione la Luna erano imminenti, ma c’era un problema: non era possibile calcolare con precisione in quale punto della Terra sarebbe rientrato il modulo lunare e per questo bisognava che gli astronauti fossero pronti a ogni evenienza. Tra i sedici c’erano anche Armstrong, Aldrin e Collins, che per un mese seguirono gli insegnamenti di Zarco per capire come sopravvivere in mezzo a una giungla.

L’addestramento si realizzò nelle vicinanze della comunità Emberá Purú, lungo il rio Chagres (dove oggi vivono i discendenti di Manuel Antonio) e continuò fino alla frontiera con la Colombia, nella selva conosciuta come Darién gap.

Il cacique insegnò loro come procurarsi cibo e acqua, come evitare le trappole mortali della selva, come cacciare e come difendersi dai pericoli e ripararsi dalle intemperie. Oltre agli insegnamenti pratici però, Zarco spiegò agli astronauti che lassù, sulla Luna, secondo la tradizione del suo popolo, riposavano gli spiriti degli antenati Emberá.

Fu così che, nella selva panamense, la tecnologia più avanzata dell’epoca incontrò il sapere ancestrale indigeno, in un connubio al servizio di una missione spaziale che ha segnato la storia dell’umanità.

Dopo quella missione il jaibaná Manuel Antonio Zarco continuò a prestare il suo servizio, sia per l’esercito statunitense dal quale ricevette onorificenze, sia per la sua comunità, insediata sulle rive del fiume Chagres.

Per il suo popolo, lo spirito di Manuel Antonio Zarco, scomparso nel 2010, oggi riposa proprio là, su quella Luna che anche lui ha aiutato a toccare.

Diego Battistessa

Foto ricordo per istruttori e astronauti della Nasa (programmi Mercury e Gemini) alla «Tropical survival school», a Panamá, nel giugno del 1963. Foto Usaf-Nasa.


I sette popoli indigeni di Panama

Qui è nata «Abya yala»

Secondo i dati del censimento del 2010 (l’ultimo disponibile), a Panama sono 417.559 le persone che si riconoscono come indigene, un numero che corrispondeva per quell’anno a poco più del 12% della popolazione.  Parliamo di un gruppo molto eterogeneo che si diversifica in sette popoli indigeni: gli Emberà, i Ngäbe, i Buglé, i Guna (o Dule), i Wounaan, i Bri bri e i Naso Tjërdie. Per questi popoli ancestrali, dopo le due indipendenze (nel 1821 dalla Corona spagnola e nel 1903 dalla Colombia) di quella che oggi è la Repubblica di Panama è iniziato un lungo e lento processo di emancipazione e rivendicazione di diritti nel nuovo spazio geografico e amministrativo del giovane paese centroamericano. Un processo fatto di accordi, scontri e rivoluzioni che ha portato il movimento indigeno a ottenere un certo grado di autonomia. A oggi, infatti, esistono a Panama sei comarcas indigene (contee) le cui leggi costitutive contengono il riconoscimento della tradizionale struttura politico amministrativa di questi popoli, della loro autonomia, della loro identità e dei loro valori storico culturali, dentro il sistema dello stato panamense. Le sei comarcas indigene coprono attualmente un’area di 1,7 milioni di ettari e sono state create in epoche diverse: Guna Yala (1938), Emberá-Wounaan (1983), Guna Madungandi (1996), Ngäbe-Buglé (1997), Guna Wargandí (2000) e Naso Tjër Di Comarca (2020).

In questo processo di emancipazione e lotta per i diritti, una menzione speciale merita la rivoluzione Guna scoppiata tra febbraio e marzo 1925, che portò alla creazione dell’effimera Repubblica di Tule. La ribellione fu la risposta del popolo indigeno Guna alla forzata occidentalizzazione imposta dal governo centrale che cancellava così secoli di storia dei nativi. Dopo gli scontri si arrivò a un accordo e la comarca di Guna Yala fu la prima a essere creata.

Da sottolineare che proprio dalla lingua di questo popolo indigeno arriva «Abya Yala», termine ancestrale che sempre più viene utilizzato per riferirsi alle Americhe.

Di.Ba.

Squacio panoramico di Panama City, capitale dell’omonimo stato. Foto Pixabay.

Il Darién, dove la selva vince

Il Darién è una regione geografica del continente americano che ha resistito ai vari tentativi di conquista e antropizzazione. Stiamo parlando di una estesa e fitta selva, che divide il Sud di Panama dal Nord Ovest della Colombia (dipartimento del Chocó) e che storicamente ha ospitato le popolazioni indigene Emberá-Wounaan e Guna. Durante l’epoca della corona spagnola molti africani fuggiti dalla schiavitù (chiamate cimarrones) trovarono rifugio in questa selva, creando vere e proprie comunità autonome come quelle guidate da Baiano o da Felipillo, accrescendo il mito dell’impenetrabilità di questa zona di 5mila km² che separa il Sud America dal Centro America. In inglese ci si riferisce a questa zona come Darien gap, dove il termine «gap» (divario, vuoto) viene a significare l’impossibilità di continuare la costruzione della Panamericana, la famosa strada che collega i due estremi del continente americano. A Yaviza, ultimo villaggio nella parte panamense del Darién, il percorso della strada, infatti, s’interrompe per poi riprendere a Turbo in Colombia.

Un progetto viario mastodontico, di circa 18mila km e che attraversa 14 paesi da Nord a Sud del continente ma che, di fronte al Darién, ha dovuto arrendersi. Secondo altre interpretazioni, però, il vero motivo per cui la Panamericana s’interrompe è che gli Stati Uniti non hanno voluto che si facesse, perché avrebbe favorito il traffico di droga.

Oggi questa selva è famosa soprattutto per essere una delle rotte delle migrazioni che portano decine di migliaia di persone a rischiare la loro vita per raggiungere Panama dalla Colombia, e da lì proseguire verso Nord, verso l’«American dream»: solo nel 2022 si stima che siano passati dal Daríen gap circa 250 mila persone (130mila nel 2021).

Di.Ba.

PANAMA SU MC
Diego Battistessa, Dalla schiavitù al Cristo negro, aprile 2022

Squacio panoramico di Panama City, capitale dell’omonimo stato. Foto Pixabay.