Brasile: l’aquila sul tetto


Padre Pietro Parcelli ha lasciato il Brasile nel 2014 dopo lunghi anni di servizio missionario. Per gli amici la parola «lasciato» è un eufemismo, perché di fatto il suo cuore è ancora là, più precisamente a Salvador, capitale dello stato di Bahia, dove, nella zona di Novos Alagados, anni fa ha aiutato a nascere il progetto «Kilombo do kioiô». Qui condivide alcuni ricordi di un viaggio compiuto nell’agosto 2015.

Quella mattina del 5 agosto, appena entrato a Kilombo, sono rimasto colpito da un uccello grande e robusto che dal tetto osservava ogni cosa con occhio sicuro e senza timore. Ho subito pensato che fosse un uccello rapace proveniente dal bosco vicino, parte del parco di San Bartolomeo, uno dei pochi resti della famosa «Mata Atlantica» (la foresta atlantica di cui si parla su MC 4/2016, pag. 22, ndr). Denys, la direttrice del Kilombo, che mi stava vicina, ha detto: «Vedi, è un’aquila». «Un’aquila? Da dove viene? – ho domandato io – È rara un’aquila da queste parti». «Sì, è un’aquila che viene dalla Mata Atlantica».

Dopo diversi mesi, l’immagine dell’aquila mi torna alla mente come una specie di simbolo che rappresenta in modo particolare gli ultimi 15 anni della mia vita.

Il cammino del Kilombo

È stato nel 1999 che sono sbarcato nella favela di Novos Alagados, nel territorio della parrocchia di São Brás, come un «estranho no ninho», un «uccello fuori dal nido». Accompagnato da un gruppo di giovani parrocchiani visitavo le famiglie. In mezzo alle palafitte, ponti di legno, viuzze, ho visto la fame. Nello sguardo timido delle matriarche, molte abbandonate dai mariti, scorgevo il pianto nascosto suscitato dalla notte che veniva senza aver niente da dare da mangiare ai bambini.

La povertà, la mancanza di strutture sanitarie e la fame mi hanno fatto alzare in volo, come l’aquila della Mata Atlantica, in cerca di soluzioni. E nel piccolo salone in fondo alla chiesa di Aparecida, in riva al mare, abbiamo cominciato a riunire il primo gruppo di mamme. Potevamo fare poco, ma quel poco doveva essere immediato e concreto: consegnavamo mensilmente una consistente cesta di alimenti e, allo stesso tempo, alimentavamo la fede delle famiglie invitandole alla celebrazione domenicale e a una riunione settimanale. È stato così che la Consolata ci ha mostrato che potevamo fare la differenza nella vita di quelle persone, con l’aiuto di amici e benefattori. Col sostegno a distanza di molte generose famiglie italiane abbiamo cominciato ad aiutare uno, due, anche fino a cinque dei figli di quelle mamme che non avevano mezzi per saziare le loro creature.

Siamo andati avanti così con entusiasmo. Ma il problema era enorme e il 2000 fu particolarmente duro. C’era il dubbio di non avere le ali adatte per un volo così alto.

Spiccare il volo

Il 2001 ha invece portato nuova energia. Il progetto cominciava a spiccare il volo: nasceva in un piccolo spazio il «Kilombo do kioiô».

I kilombos erano le comunità in cui si rifugiavano gli schiavi africani che fuggivano dai loro padroni quando il Brasile era dominio portoghese. Il kioiô è una pianta tipica della regione, usata nella medicina e nella cucina locale. In fondo al giardino della casa che avevano comprato per il progetto, c’era proprio una pianta di kioiô. Ecco battezzato il rifugio dove realizzare la nostra missione: offrire un destino differente a chi vive schiavo della fame, dell’abbandono, dell’ignoranza e della mancanza di prospettive.

La cesta di alimenti che offrivamo a molte famiglie era per loro una consolazione, e questo l’abbiamo potuto constatare in diversi momenti. Una mattina ero in macchina con due giovani, dopo aver consegnato la cesta a una mamma ammalata. A un certo punto, quattro giovani armati di pistola ci hanno fermati gridando di scendere dalla macchina. Sentivo le urla delle persone: «È il padre missionario, lasciatelo stare, è il missionario». I giovani che erano con me, pieni di spavento, mi hanno detto di uscire dall’auto e di buttare la borsa a terra. «Che c’è là dentro?», mi ha urlato uno degli assalitori. «Ci sono le cose per la Messa», ho risposto. Dopo aver dato un calcio alla borsa si sono dileguati.

Insegnare a volare

Quando il governo brasiliano ha iniziato il progetto «Fame zero», abbiamo capito che era arrivato il tempo di cambiare: non più distribuire cibo, ma insegnare a procurarsene. È nato così il gruppo di alimentazione che oggi conta quarantacinque mamme. Esse vengono nel Kilombo per imparare a cucinare e a fare pane, a confezionare torte dolci e salate. Il ricavato della vendita dei prodotti aiuta a mantenere le attività del Kilombo. È un’iniziativa che insegna un mestiere queste donne che guadagnano anche un po’ di soldini per mantenere la famiglia. Le spese delle materie prime e del centro sono in parte coperte da un contributo delle mamme, che ogni mese versano parte dei loro guadagni, e dalla generosità di benefattori e istituzioni che ci aiutano a portare avanti il lento cammino di formazione umana e professionale che coniuga rendimento e dignità.

Sotto le ali

Quasi tutte le donne con cui lavoriamo abitano in zone dominate dal traffico della droga. Da loro è venuta la richiesta di fare qualcosa per togliere i figli dalla strada. È così che nel 2011 abbiamo spiccato un altro volo, senza poter prevedere dove saremmo arrivati. È nato il doposcuola del Kilombo. Rispetto alla scuola statale, qui ogni attività è preceduta dalla preghiera e si svolge in un clima più dinamico e alternativo, stimolando la creatività. La preghiera è sempre rivolta alla patrona del Kilombo: Nossa Senhora Consolata.

La missione del doposcuola è di migliorare le conoscenze acquisite dai ragazzi nella scuola statale, perché il livello educativo nella zona è molto basso. È facile incontrare bambini che a dieci anni non sanno leggere né scrivere. E per evitare che la fame fosse un ostacolo alla resa nell’aula scolastica, abbiamo cominciato a offrire una merenda abbondante.

Il Kilombo segue direttamente 66 bambini divisi in cinque classi. Al mattino sono 32 ragazzi dagli otto ai tredici anni, divisi in due classi. Al pomeriggio sono 34 dai sette ai quattordici anni, distribuiti in tre classi. Ogni classe è accompagnata da un’insegnante e una vice. Le attività sono molto diversificate: mensilmente i bambini hanno lezioni di salute dentaria; sono visitati regolarmente da narratori di fiabe e storielle, importanti per i bambini; ricevono formazione su alimentazione, igiene e salute; sono addestrati al primo soccorso da volontari dell’Università Federale della Bahia; mentre gli insegnanti partecipano a corsi di aggioamento finanziati dalla Fondazione Roberto Marinho, sostenuta della Rede Globo, il più grande gruppo di radio e televisione del Brasile.

La capoeira

La capoeira è praticata con entusiasmo nel Kilombo. È un’arte marziale con un sistema di attacco e difesa di carattere individuale, molto simile a una danza. Bambini, adolescenti e giovani sono aiutati dalla pratica di questo sport a sfuggire alla droga e alla criminalità.

Durante la mia visita dello scorso agosto, guidato dal suono del berimbau, strumento a corda che è utilizzato per segnare il ritmo della danza, ho camminato con i ragazzi fino al parco S. Bartolomeo, un’area ricca di ricordi della cultura afrobrasiliana, localizzata a 500 metri dal Kilombo. Siamo arrivati alla cascata di Oxum (Oxum è un orixa, cioè una delle divinità del Candomblé, religione afro brasiliana), e là è iniziata la ruota della capoeira. Il canto degli uccelli si è sintonizzato con le battute dei tamburi, mentre i movimenti acceleravano in una sincronia perfetta. Per loro il cielo non sembra avere limiti.

Anche le nonne volano

Nel 2014 è arrivata una nuova ispirazione: coinvolgere nelle attività del Kilombo anche le nonne della comunità. Si è cominciato con una settimana di attività nel mese di luglio, mese dedicato alle nonne qui in Brasile. Il risultato è stato così entusiasmante che, nonostante la difficile situazione economica, abbiamo deciso di aprire le porte alle donne anziane. Sono quindici signore con più di 50 anni di età, che sono invitate a partecipare al progetto di alimentazione del Kilombo. È un tempo di terapia e socializzazione, attività molto importanti nella situazione di abbandono in cui vivono. Così abbiamo spiccato un altro volo.

Durante la mia visita della scorsa estate, in una casetta vicino al Kilombo, ho conosciuto Luzia, una giovane di 22 anni, cieca, con deficienza mentale e un solo polmone. Sua madre, donna Val, aveva preso la varicella quando era incinta della bambina. Nonostante il consiglio medico di abortire, ella aveva voluto aprire le ali e accogliere Luzia. Lo sforzo di accudire la figlia è immenso, ma l’amore vince ogni barriera. Val prepara la merenda per i bambini del Kilombo. A volte arriva un po’ in ritardo, ma nulla le toglie il sorriso e la sua volontà di vincere.

In un’altra visita sono andato a casa di Marta, una delle mamme del Kilombo. Il figlio Jomarley di dieci anni, con paralisi celebrale, è stato abbandonato dal padre. Marta si fa in quattro per dar da mangiare a Jomarley e Taiana di dodici anni.

I rapaci

Tutte queste attività, prima di realizzarle, sembravano un sogno davanti alla realtà in cui si trovava il Kilombo. E ancora di più oggi, davanti alla crisi del Brasile di questi ultimi mesi. Una nonna del progetto mi ha detto: «Prima con un real (moneta brasiliana) compravi sei panini, ora due». Ma nonostante i rapaci della crisi e dell’inflazione, vogliamo continuare a sognare nuovi voli.

Padre Pietro Parcelli, missionario della Consolata,
in collaborazione con Diniz Vieira, giornalista,
e Adenilza Cruz,  direttrice e cofondatrice del  Kilombo do kioiô.




Brasile: incontri ravvicinati


Impressioni scritte all’ombra dei grandi alberi della foresta (Mata) Atlantica del Brasile nei momenti di pausa dal lavoro di ricerca. Le «Riserve della foresta atlantica» sono un insieme di otto aree protette a cavallo degli stati brasiliani di Bahia ed Espírito Santo, che si sviluppano su un’area di circa 112.000 ettari.

Sembra il ronzio di un grosso calabrone. Mi vola attorno. Ora l’ho dietro le spalle. Mi giro con cautela per non spaventarlo. È lì, fermo, a mezz’aria, che mi guarda incuriosito, quasi a chiedersi come mai questa grossa scimmia visiti i fiori come lui. Le ali non si vedono, troppo veloci per l’occhio umano. Pare un modellino di seta sospeso nel vuoto, retto da fili invisibili. In un attimo, il colibrì scarta a destra e poi in basso, veloce come un ufo, poi di nuovo a sinistra e in alto, nervoso, frenetico, elettrico. Sembra grigio, ma i raggi tangenti del sole riflettono colori iridescenti, metallici, stupendi. Ora pare verde, poi blu, poi rosso scarlatto per ritornare grigio in penombra. Rizza le penne del collo che sembrano una ghirlanda. Una visione troppo fugace, il tempo di visitare un paio di fiori con la sua lingua lunga e sottile come un filo di sarta e poi, sempre di scatto, svanisce rumorosamente nel nulla tra le liane, le orchidee, le bromelie (foto 1).

Puma concolor (Foto Richard)
2. Puma concolor (Foto Richard)

Ieri sera finalmente è piovuto. Un bel temporale durato un paio di ore. Si sono mostrati rospi e rane, ma lo spettacolo più bello l’hanno offerto le scimmie urlatrici. Non si vedono che raramente, e quest’anno non si erano ancora fatte sentire col loro ruggito possente. Alle prime gocce di pioggia hanno iniziato all’unisono. Tutta la foresta echeggiava dei loro versi impressionanti, udibili a chilometri di distanza, ad esteare tutta la loro felicità. Pareva di essere circondati da un esercito di giaguari. Indimenticabile. Ieri è arrivato nella stazione un altro ricercatore, si chiama Richard, gestisce trappole fotografiche. Ne avevo viste un paio disseminate in foresta. Gli ho chiesto di vedere le foto scattate. Sono il frutto di otto trappole che hanno funzionato per tre mesi circa. Scattano la foto quando i loro sensori intercettano gli animali. Tra questi naturalmente figuro anch’io, ma ciò che mi impressiona è che prima o dopo il mio passaggio la camera registra tapiri, jaguarundi, ocelot e diversi puma. Anche in pieno giorno! E pensare che ero convinto di essere il solo in giro in quel pezzo di foresta dove non pareva esserci traccia di grandi mammiferi. Evidentemente mi osservavano passare ogni giorno, nascosti tra i cespugli, a pochi passi dal sentirnero.

Richard, gentilissimo, mi ha lasciato le foto più belle. C’erano anche tanti uccelli, specialmente peici e tacchini, ma non ho osato chiedere troppo
(foto 2, il passaggio del puma).

carcarà (Foto Curletti)
3. carcarà (Foto Curletti)

Doveva succedere. Un disastro nella nostra modesta cucina: uova rotte e mangiate, macchinetta del caffè rovesciata, pane sbocconcellato, zucchero sparso ovunque, frutta parzialmente distrutta, piatti e bicchieri rotti a terra… Neppure il sacchetto dei rifiuti è stato risparmiato. È bastato dimenticare la finestra aperta perché quel furbone di carcarà ne approfittasse per saccheggiare le nostre scorte. Mezzo falco e mezzo avvoltornio, si atteggiava a gallina e con aria innocente si aggirava nel cortile proprio come un pollo domestico. Sembrava un amico confidente e invece ci teneva d’occhio studiando i nostri movimenti e la buona occasione per farci fessi. Ora l’ha appena trovata. Eppure avrei dovuto capirlo che il suo atteggiamento soione ci riservava qualche brutta sorpresa. Con quel cappuccio nero sopra il capo color caffellatte ha proprio l’aspetto di un mafioso con tanto di coppola in testa. Anche la sua andatura impettita è da guappo. Ora è sul tetto che ci guarda soddisfatto, pancia piena alla faccia nostra, parrebbe quasi che col suo sguardo acuto e tagliente come una lama voglia prenderci in giro. Che fare? Vedendo il disastro i miei colleghi brasiliani, col loro 3. carattere gioviale, l’hanno presa a ridere: ma che bravo il nostro ladro! E non ci è restato che pulire e mettere ordine…

È passata più di una settimana dal fattaccio e mentre prima era onnipresente, il carcarà non si è più visto. Potrà sembrare strano, ma mi sa che si è reso conto d’averla combinata grossa e si tiene alla larga per paura di rappresaglie. Mica stupido il nostro «giocondor»… (foto 3).

tegù (Foto Curletti)
4. tegù (Foto Curletti)

Mi passa davanti con aria indifferente e quasi indolente, ma so che mi controlla ed è pronto alla fuga al minimo cenno di reazione. Con l’andatura da star di musica rap, muove il corpo come una sciantosa, oscilla a destra e a sinistra alzando le zampe alternativamente, la lunga coda inerme ad anelli chiari e scuri, la piatta lingua biforcuta in eterno movimento alla ricerca di odori e di sapori. Ma chi ha detto che i dinosauri sono estinti? Eccolo qui, un bellissimo esemplare di tegù, il più grande dei sauri terrestri brasiliani. Ormai mi conosce, abbiamo un tacito appuntamento giornaliero, io alla ricerca di un po’ d’ombra nella calura del tardo mattino, lui alla ricerca di sole che lo riscaldi. Puntualissimo esce dal suo buco nelle giornate calde, controlla il terreno circostante ed attende paziente l’uscita della compagna. Lei è più piccola e diffidente, lui invece sa di potersi fidare e mi passa a mezzo metro di distanza, quasi con aria di sfida. Sfida che raccolgo con il mio obiettivo fotografico. Il suo ritratto mi riempirà il cuore di nostalgia al ritorno nel freddo inverno europeo (foto 4).

anuro in bromelia (Foto Curletti)
5. anuro in bromelia (Foto Curletti)

Il buio arriva presto in foresta e lei lo saluta, puntuale. Un trillo lungo, intenso, cristallino. Pochi istanti e poi torna nel silenzio della sua solitudine. L’ho cercata per tre notti di seguito e infine l’ho trovata. La bromelia è aggrappata al tronco di un grosso albero e il suo fiore rosso ricorda il pennacchio del cappello di un carabiniere in uniforme. Lei se ne sta nascosta nel suo interno, nell’occhio formato dalla corona circolare delle foglie caose che conserva l’umidità della pioggia. Mi fissa con i suoi grandi occhi rossi inespressivi, rannicchiata e immobile, sperando di non essere vista. Colore verde pallido, ventre più pallido ancora, piccolissima, con tondi pallini prensili sulle lunghe dita. La raganella se ne sta lì nel profondo pozzo della sua bromelia, al sicuro. Vorrebbe vedere la luna ma per paura si accontenta di vederla passare per pochi momenti dalla rotonda finestra aperta verso il cielo del suo rifugio. Poi rimane al buio, solitaria, nell’attesa che il suo richiamo venga inteso da un compagno (foto 5).

 

Per lui la morte ha le ali violette in continuo vibrato movimento. No, non ha la falce ma una sottile siringa paralizzante. Antenne gialle, corpo nero allungato stretto in un vitino da vespa, agile e nervoso. Ormai paralizzato, si lascia trascinare impotente. Lo sfecide l’ha appena ghermito e lui, la migale, grosso ragno con zanne terrificanti, terrore dei piccoli vertebrati, è ormai rassegnato ad essere dato in pasto alla prole, divorato poco alla volta ma pur sempre vivo, per conservare più a lungo possibile i succhi biologici di cui i neonati del predatore hanno bisogno. È lì, impotente, in balia del suo aggressore nonostante il potenziale offensivo, col veleno in grado di uccidere uccelli e piccoli mammiferi. Non posso frenare un moto di compassione. Chissà se è cosciente che lo attende una morte terribile, lunga, forse dolorosa, ma sicuramente da incubo nel vedere ogni giorno le larve del suo carnefice avvicinarsi per mangiarlo poco alla volta.

Sfecide
sfecide con la preda (Foto Curletti)

Insetti che predano ragni, non solo il contrario. Qual è il significato? Quale stato d’animo regna tra gli abitanti della foresta? L’amore? No, quello lo lascio ai film disneyani. Pur essendo un sentimento fondamentale, importantissimo per la sopravvivenza della specie, l’amore ha durata limitata e prima o poi finisce. Quello invece che accompagna dalla nascita alla morte è la paura. Paura. Quella non abbandona mai, è la compagna che permette la salvezza dell’individuo. Paura di essere parassitato, assalito, divorato, sbranato. Coinvolge tutti, dal giaguaro al tapiro, dal tamanduà all’agutì, dalla scimmia al bradipo, dalla formica alla vespa, dal lombrico alla lumaca. Non esiste il predatore assoluto, ogni specie, uomo compreso, ha i suoi nemici. Quanta verità in una frase di Tennyson che riassume perfettamente il pensiero: «Nature, red in tooth and claw», natura, denti e artigli insanguinati. È questa la legge, piaccia oppure no. Appare troppo evidente a chi sa interpretare il grande libro della giungla. E che Kipling mi perdoni… (foto 6).

 piroforo (Foto Curletti)
7. piroforo (Foto Curletti)

Dopo la pioggia ecco i vagalumen. Così i brasiliani chiamano i pirofori, grossi coleotteri elateridi che si attivano al calar delle tenebre. Producono luce come le nostre lucciole, ma al contrario di queste hanno luce costante e più potente: si narra che i vecchi esploratori li mettessero in gabbiette per poter leggere e scrivere la notte. Bastavano una ventina di esemplari. Hanno due punti luminosi ai lati del pronoto, dietro il capo. Alcune specie ne hanno un terzo più piccolo sulla parte inferiore dell’addome, tipo fanalino di coda. Sono esseri timidi e frugali: di giorno si vedono raramente, si accontentano della linfa che sgorga dalle ferite di qualche albero. Sono neri o bruni, poco vistosi, ma quando cala la notte mostrano tutto il loro luminoso splendore. Al buio sono uno spettacolo. I rami brillano della loro luce, giganteschi alberi di natale accompagnati dai canti dei grilli e delle cicale invece che da jingle bells. Foresta magica, non sempre terribilmente inospitale (foto 7).

Eciton formiche legionarie (Foto Curletti)
8. Eciton formiche legionarie (Foto Curletti)

Sono due colonne lunghe centinaia di metri di cui non riesco a vedere gli estremi, che si perdono nell’intrico della foresta. Due semplici colonne di formiche ma quanta differenza. Le prime frenetiche, febbrili, velocissime, aggressive, voraci; i soldati dalle enormi mandibole e dal colore avorio che si mescolano alle nere operaie indaffarate a predare le larve e le pupe di un altro formicaio per fae degli schiavi. Questi, per imprinting, lavoreranno inconsapevolmente per gli assassini della loro tribù, magari aiutandoli a depredare altri formicai fratelli. Sono dei nomadi, non hanno nido, si accampano randagi attorno alla loro regina. Milioni di agguerriti individui caivori, terrore della foresta. Provo a fermare un’operaia per verificare il bottino, una pupa in metamorfosi. Con una velocità impressionante sono subito aggredito da tre soldati. Sono stati fulminei, ben più della velocità della mia mano. Evidentemente mi tenevano d’occhio. La puntura è molto dolorosa e devo desistere. Le chiamano formiche legionarie, per gli entomologi Eciton, probabilmente proprio per la loro febbrile attività. Non le ferma nessuno, tutti gli animali della foresta indietreggiano al loro arrivo, guadano fiumi formando ponti di individui, attraversano laghi con zattere viventi formate da stornici volontari pronti ad annegare per la loro regina e per la colonia.

Atta formiche tagliatrici di foglie (Foto Curletti)
9. Atta formiche tagliatrici di foglie (Foto Curletti)

La seconda colonna è ben più lenta, compassata. Le operaie con sforzi immani portano tenacemente pezzi di foglia che altre sorelle hanno tagliato con le possenti mandibole, andando controvento e facendosi a volte sollevare per effetto vela, ma senza mollare il bottino. I soldati controllano e vigilano immobili ai lati della lunga fila, pronti a sacrificarsi per difenderle. Sono vegetariane le Atta, fatto inconsueto per il mondo delle formiche. La cosa curiosa è che oltre ad essere vegetariane sono anche degli agricoltori. Le foglie infatti non sono mangiate, ma ammassate all’interno del formicaio per fae concime su cui crescerà un fungo particolare che è il loro esclusivo alimento. Alle prime piogge le future regine sciameranno a migliaia, sono enormi, molto più dei loro sudditi. Verranno quasi tutte divorate dai predatori, uomo compreso, che ne apprezzano le cai grasse succulente. Feroci le prime, più tranquille e perseguitate le seconde. Che sia un caso? (foto 8 di Eciton e 9 di Atta).

Gianfranco Curletti*

* L’autore è l’entomologo del Museo di Storia Naturale di Carmagnola (To). Ha al suo attivo numerose spedizioni scientifiche nei vari continenti, anche se le sue ricerche lo hanno portato principalmente nell’Africa subsahariana. Autore di oltre un centinaio di pubblicazioni specialistiche, non disdegna la divulgazione. Suo il libro «Matto per gli Insetti», edito da Blu ed. di Torino. Collabora da anni con il Museo della Consolata di Torino, e con i missionari in Tanzania, Mozambico e Kenya ha condiviso conoscenze, studi, sudori e cibo.




Brasile. Il morbo che segrega


Venga chiamata «hanseniasi» o «lebbra» (come un tempo), questa patologia non soltanto produce gravi conseguenze sul fisico delle persone colpite, ma porta anche alla loro segregazione. Abbiamo incontrato un’operatrice sanitaria che segue la patologia nel Piauí, uno degli stati brasiliani più colpiti. Il Brasile, dopo l’India, è il secondo paese al mondo per numero di nuovi casi registrati ogni anno.

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Floriano (Piauí). La lebbra può deturpare, mutilare e sfigurare chi ne è colpito. E può portare all’emarginazione dei malati e dei loro familiari. A tal punto spaventosa ed escludente che, in Italia, venne emanata una legge, la numero 4 del 1974, per vietare (con l’articolo 3) l’utilizzo del termine «lebbra», sostituito da «morbo di Hansen», dal nome dello scopritore del batterio che la provoca.

Leggendo le statistiche della Organizzazione mondiale della sanità (Oms), si scopre che il Brasile è il secondo paese con il maggior numero di nuovi casi di lebbra dopo l’India: 31.064 contro 125.785 nuovi casi su un totale mondiale di 213.899 nel 20141. Le stime, inoltre, parlano di 1-2 milioni di persone con disabilità irreversibili legate al morbo di Hansen2.

Sul tema abbiamo rivolto qualche domanda a Olívia Dias de Araújo, specialista in salute pubblica e professoressa d’infermeria presso la Università Federale del Piauí, a Teresina. La professoressa sta attualmente seguendo un progetto sull’hanseniasi – denominato «IntegraHans-Piauí» e cornordinato dalla dottoressa Telma Maria Evangelista de Araújo3 – a Floriano, piccola città dove, in questi anni, il numero dei malati ha raggiunto livelli preoccupanti.

Professoressa, l’hanseniasi si riscontra soprattutto in persone e ambienti poveri. Si può parlare di una correlazione di causa-effetto tra indigenza e malattia?

«Anche se l’hanseniasi oggi riguarda i paesi più poveri e, all’interno di questi, gli strati più svantaggiati della popolazione, non si sa con certezza quale sia il peso di variabili quali l’alloggio, lo stato nutrizionale, infezioni concomitanti (come HIV e malaria), o precedenti infezioni causate da batteri. Il ruolo dei fattori genetici è stato valutato per un lungo periodo di tempo: la distribuzione della malattia in conglomerati urbani, famiglie o comunità con corredo genetico comune suggerisce anche questa possibilità».

Anche a causa del suo aspetto esteriore (piaghe, deformità del corpo, piedi e mani in particolare), il malato di hanseniasi ha sempre sofferto di uno stigma sociale che lo ha emarginato dalla comunità. Questo è vero ancora oggi?

«Il coinvolgimento dei nervi periferici è la caratteristica principale dell’hanseniasi. Questa condizione può evolvere in disabilità e deformità fisiche. Disabilità e deformità sono causa di svariati problemi per il malato: riduzione della capacità lavorativa, limitazione della sua vita sociale, insorgenza di problemi psicologici, rifiuto da parte della società. Pertanto, la risposta è: sì, ancora oggi la lebbra provoca stigma sociale e pregiudizi».

Così, per evitare lo stigma e l’esclusione sociale, le persone con hanseniasi cercano di nascondere la propria malattia.

«È vero. Per paura e vergogna i malati nascondono la propria condizione anche a familiari e parenti. Ci accorgiamo di questo in tutte le classi sociali e a tutti i livelli di istruzione. D’altra parte, è realtà che, una volta scoperti, i malati sono evitati ed esclusi anche da molte persone della propria cerchia familiare e sociale».

Il Brasile è di gran lunga il paese americano con più casi di hanseniasi.

«L’hanseniasi sta gradualmente restringendosi a un piccolo numero di paesi. La maggioranza (l’81% circa) di tutti i nuovi casi oggi si verifica in soli tre paesi: India, Brasile e Indonesia.

Il Brasile si trova al secondo posto al mondo per numero totale di nuovi casi. In America, è l’unico che non ha raggiunto l’obiettivo globale di eliminare la lebbra. Per intenderci, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha stabilito che l’hanseniasi si considera eliminata quando si registra al massimo un caso ogni 10 mila abitanti.

In Brasile, la situazione epidemiologica4 è molto eterogenea a causa della grande variabilità del “tasso di prevalenza”5 nelle varie regioni del paese. Mato Grosso, Tocantins, Maranhão, Pará e Piauí hanno il maggior numero di casi. Invece, negli stati brasiliani del Sud la lebbra è praticamente inesistente».

Secondo lei, il governo brasiliano combatte in maniera adeguata l’hanseniasi?

«Secondo la mia personale percezione, il Brasile si sta impegnando nella lotta con strategie corrette, ma anche commettendo errori, che finiscono con il compromettere il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Oms. Il governo federale sostiene che oggi siamo vicini all’eliminazione dell’hanseniasi. La realtà è diversa: i casi di lebbra sono più numerosi di quanto dicano le statistiche ufficiali, perché ci sono situazioni nascoste in alcune regioni dove la malattia è endemica. Il problema è che, senza un miglioramento delle condizioni generali di vita, sarà difficile arrivare alla scomparsa dell’hanseniasi».

Lei sta seguendo un progetto (IntegraHans) contro l’hanseniasi qui a Floriano. Come mai è stata scelta questa cittadina?

«Perché la città di Floriano è un comune storicamente iperendemico per quanto concee l’hanseniasi. Lo dimostrano i numeri. Esso ha un coefficiente di prevalenza della malattia sei volte superiore a quello ideale: sei casi ogni 10.000 abitanti. Negli anni 2001-2014 la città ha notificato 1.083 casi di lebbra, piazzandosi al secondo posto nello stato del Piauí, preceduta soltanto dalla capitale Teresina, pur risultando la quinta città come popolazione a livello statale. Pertanto, Floriano presenta una situazione preoccupante».

Cosa fare per aiutare i malati e per evitare la propagazione della malattia?

«Per aiutarli sarebbe importante investire fortemente nei servizi igienico-sanitari di base, migliorare le condizioni abitative e l’alimentazione, fornire un’istruzione pubblica di qualità e un accesso ai servizi sanitari a tutti i livelli, includendo il diritto alla riabilitazione.

Invece, per evitare nuovi casi, un’alternativa è quella di fare ciò che stiamo facendo con il progetto IntegraHans: una ricerca attiva dei contatti familiari e sociali dei pazienti, posto che queste persone sono esposte a un rischio sette volte maggiore di contrarre la malattia. Soltanto così potremo spezzare “la catena epidemiologica”. Senza un miglioramento della qualità della vita e delle condizioni sanitarie il ciclo della malattia non si chiuderà».

Lei fa visita ai malati nelle loro case. Durante queste visite ci sono state situazioni che l’hanno particolarmente colpita?

«Diverse situazioni mi hanno molto segnato in questo periodo. Ricordo soprattutto due casi. Quello di un uomo al quale non era nemmeno consentito l’accesso all’Unità sanitaria di base per il trattamento delle sue lesioni. Lo abbiamo trovato in una situazione disastrosa: una grave condizione di malnutrizione, ferite ai piedi con osso esposto, alcolismo, un odore insopportabile. È stato triste constatare che il sistema sanitario che lo avrebbe dovuto accogliere e curare semplicemente lo aveva escluso. Lo abbiamo portato a Teresina, affidando il suo caso ai responsabili comunali. Così, oggi, è vivo e vegeto.

Un altro caso emblematico riguarda due sorelle le cui vite sono state distrutte a causa della lebbra. Vivevano vicino a una scuola, che è stata chiusa a causa dei casi di lebbra scoppiati nella loro famiglia. Una delle sorelle vive ancora confinata nella sua casa, senza neppure aver imparato a leggere o scrivere. Stigma e pregiudizio sono immensi. Una situazione devastante. Personalmente non ho mai sentito una cosa così triste e spaventosa. L’essere umano è crudele».

Come operatrice sanitaria e come persona, qual è la sua maggiore speranza?

«La mia più grande speranza è che il “Sistema unico di salute” (Sus)6 – a cui sono orgogliosa di appartenere e di cui sono un ferreo difensore – funzioni come prevedono le sue linee guida: con completezza, universalità, equità ed efficienza; con professionisti e amministratori impegnati e condizioni adeguate di lavoro. Come persona, per la nostra gente del Nord-Est e dell’intero Brasile, spero che vengano sradicati l’analfabetismo, la fame, la povertà e la grande disuguaglianza sociale esistente».

Paolo Moiola
(con Rosa Maria Duarte Veloso – Faesf)


Note

(1) World Health Organization, Weekly epidemiological record, 4 settembre 2015, n. 36.
(2) Dato riportato da www.salute.gov.it
(3) Al progetto partecipano l’Università federale (Ufpi), il governo del Piauí, le città di Floriano e Picos, e due organizzazioni europee: la Nhr (Paesi Bassi) e la Ciomal (Svizzera).
(4) L’epidemiologia è la disciplina che studia la distribuzione e la frequenza delle malattie.
(5) Le misure di frequenza delle malattie distinguono la prevalenza e l’incidenza: la prima misura l’insieme di tutti i casi in un determinato momento per una determinata popolazione; la seconda riguarda il numero dei nuovi casi.
(6) Il Sus è il sistema di salute pubblico dello stato brasiliano. È stato istituito con la Costituzione federale del 1988 (articoli 196-198).

Siti

  • – www.aifo.it
    È il sito dell’Associazione italiana amici di Raoul Follerau, attiva contro la lebbra dal 1961.
  • – www.ilepfederation.org
    È il sito della federazione internazionale delle Ong che combattono contro l’hanseniasi.



Brasile. Pallottole spuntate?


Oltre undici milioni di brasiliani vivono nelle favelas. Una parte di esse sono territori dominati da banditi e narcotrafficanti, in cui la pacificazione è un’impresa difficile. Ne abbiamo visitate alcune a Rio de Janeiro, la città che nell’agosto del 2016 ospiterà i giochi olimpici.

Rio de Janeiro. Al primo impatto la sensazione è di incredulità. Il verde tropicale della foresta Tijuca fa da sfondo alle centinaia di case che si arrampicano sui ripidi pendii delle colline, si accavallano e incastrano l’una nell’altra. Il quadro che ne risulta è un caotico insieme di linee e colori che si inseguono a perdita d’occhio. Il Morro do Borel è una delle centinaia di favelas di Rio de Janeiro. Si stima che ci vivano oltre 20 mila persone e a questo, come agli altri quartieri della zona Nord della città, anche il gigantesco Cristo Redentore volta le spalle, rivolgendo lo sguardo verso i ricchi quartieri di Copacabana e del centro città. Dire con precisione quanta gente abiti in queste baraccopoli non è certo impresa semplice visto che alcune risultano tutt’oggi inaccessibili. Alcune si sono espanse così rapidamente da inglobae di minori e divenendo delle vere e proprie città nella città: è il caso del Complexo do Alemão, una delle favelas più grandi dell’intera America Latina. Solo in questa comunidade, così la chiamano i suoi abitanti, si calcola possano vivere oltre quattrocento mila persone, numeri impressionanti se si pensa che in tutto il Brasile si stima siano oltre undici milioni le persone che vivono in queste condizioni, pari al 6% dell’intera popolazione (Ibge 2013 su dati 2010).

Da sempre viste nell’immaginario collettivo come luoghi da cui stare alla larga per via dei pericoli legati ai trafficanti di droga, le favelas sono caratterizzate da storie, sofferenze e problemi assai diversi le une delle altre. Ad oggi la prima grande differenziazione tra questi quartieri è la presenza o meno delle Upp (Unidade de polícia pacificadora, Unità di polizia pacificatrice, sito web: www.upprj.com), un corpo speciale della Polizia militare che in questi anni, in vista degli appuntamenti inteazionali dei Campionati Mondiali di calcio (2014) e dei prossimi Giochi Olimpici (agosto 2016), ha iniziato un percorso di bonifica dal narcotraffico, cercando di mitigare la guerra per il controllo della droga. Ad esempio il Morro do Borel fino a qualche anno fa era considerato una delle favelas più pericolose di tutta la metropoli brasiliana, dal momento che la collina su cui sorge era contesa da due comandi differenti che, nel tentativo di prevalere l’uno sull’altro, erano soliti fronteggiarsi in violenti conflitti a fuoco dove il più delle volte a rimetterci la vita erano gli abitanti stessi del quartiere. Oggi invece camminiamo tranquillamente per le ripide strade della favela senza alcun timore e dove una volta sorgeva la «boca do fumo», la via adibita alla vendita e al consumo degli stupefacenti, troviamo decine di negozi e baretti affollati da cui viene diffuso a tutto volume il tradizionale funky carioca.

Narcotrafficanti

Ma sono ancora molte le comunidade che aspettano l’intervento dello stato per ripulire le loro strade da banditi e trafficanti, una di queste è la favela di Acarí all’estrema periferia Nord della città. Ci entriamo accompagnati da Marcelo, una sorta di istituzione della comunità in quanto allenatore della squadra di calcio giovanile che, proprio per il suo impegno con i giovani del quartiere, si è guadagnato il rispetto degli stessi trafficanti avendo in gioventù allenato molti di loro che in seguito hanno abbandonato gli scarpini per darsi ad attività illecite. Tutte le vie d’accesso alla favela sono presidiate da gruppi che, armi in pugno, controllano chi entra e chi esce. Naturalmente l’ingresso di uno straniero non passa inosservato e solo grazie all’intervento di Marcelo il nostro giro nella comunità può proseguire. I muri delle case sono vergati con le sigle del comando che controlla la zona e uomini armati a bordo di grosse moto fanno i corrieri rifoendo i clienti che si fermano all’entrata della favela. Marcelo ci accompagna nella casa di una giovane donna i cui due figli sono rimasti gravemente feriti alle gambe dallo scoppio di una granata. È all’ordine del giorno, nelle guerre dei trafficanti per il controllo dei territori, il coinvolgimento di giovani e bambini che si trovano per strada a giocare. All’ospedale di Rio de Janeiro i medici dopo aver visitato i due ragazzi, hanno tracciato un quadro clinico piuttosto preoccupante, ma le liste per le operazioni raggiungo i sei mesi d’attesa. Ad oggi nella favela di Acarí duecento malviventi tengono in ostaggio le vite di oltre quarantamila onesti abitanti del quartiere, palesando agli occhi di tutti la grande voragine lasciata da uno stato che, oltre a non riuscire a dare un’assistenza dignitosa ai suoi cittadini, troppo spesso non riesce a porre la legalità come alternativa per i giovani che vedono nel traffico di droga un facile modo per guadagnare fama, soldi, rispetto e naturalmente potere. E da lavorare lo stato ne avrebbe anche in quelle favelas pacificate dove la convivenza tra abitanti e agenti della Upp è spesso messa a rischio da incresciosi abusi di potere da parte delle forze dell’ordine che portano a violente reazioni della popolazione.

Pallottole vaganti

A parlarcene è Miramar, il responsabile della comunità cattolica del Morro do Borel, conosciuto in tutto il quartiere perché voce di «Radio Grande Tijuca» (sito web: rgt105fm.tk), l’emittente radiofonica che trasmette ormai da dodici anni dalla favela. Quando lo incontriamo all’interno degli studi della radio ci spiega come è cambiata la vita dopo la pacificazione, ci racconta ad esempio di quando le vie della comunità, affollate di persone che rientravano a casa da lavoro e da scuola, erano il luogo della quotidiana guerra tra trafficanti. Chi era per strada quindi doveva correre a ripararsi aspettando, anche fino a tardi, che il fuoco cessasse. «Non eravamo padroni delle nostre vite e dei nostri spazi, ma oggi fortunatamente tutto questo è cambiato e, da tempo, le armi dei trafficanti hanno smesso di sparare», racconta Miramar che poi aggiunge, «Il rapporto con la Polizia pacificatrice è però allo stesso tempo molto complicato: gli agenti della Upp che sono di stanza nella nostra comunità non ruotano mai con gli uomini dei commissariati delle altre favelas. Questo permette una più facile integrazione con gli abitanti del quartiere, però facilita anche la corruzione, per cui i trafficanti riescono ad avere mani libere in cambio di tangenti alle forze dell’ordine. Così, mentre i grandi criminali restano impuniti e continuano ad arricchirsi, la polizia conduce violente operazioni anti droga contro piccoli spacciatori che, nei tentativi di fuga, vengono spesso uccisi dal fuoco degli agenti. Capita anche che a finirci in mezzo siano i nostri ragazzi i quali, vittime di un dilagante razzismo, solo perché neri vengono identificati come spacciatori e coinvolti in violenti conflitti. Insomma ancora oggi i nostri figli non sono liberi di crescere e giocare per strada senza il rischio che un proiettile vagante possa colpirli». Miramar e il gruppo della comunità cattolica da anni sono impegnati in prima linea per cercare una mediazione nella difficile convivenza tra abitanti e agenti di polizia. In più, dal momento che il prete vive distante dalla comunità e raggiunge la piccola chiesa della favela solo la domenica mattina per celebrare messa, i fedeli si sono organizzati autonomamente creando una rete di aiuto e solidarietà che gira attorno alla radio di Miramar.

Spazzatura e amianto

I temi su cui lavorano sono svariati, ma tutti convergono sui principali problemi quotidiani che la gente deve affrontare, uno fra tutti quello dei rifiuti. Più che un problema quello della spazzatura è una vera e propria piaga che infesta le strade propagando per tutta la comunità un terribile fetore. Per di più i grossi cumuli di immondizia sono il terreno ideale di proliferazione di ratti e malattie. Le aree di raccolta rifiuti sono poche e male attrezzate, quindi, riversando la spazzatura per strada, si finisce inevitabilmente per intasare il già precario sistema fognario. A quel punto il primo giorno di pioggia le strade diventano dei veri e propri torrenti di liquami e acque nere che corrono rapidi giù per la collina finendo nei fiumi e contaminandone le acque. Miramar da tempo conduce alla radio un programma di sensibilizzazione sull’argomento: «Per risolvere il problema bisogna lavorare su un doppio binario, da un lato chiediamo a prefettura e comune di intervenire ampliando le aree di raccolta rifiuti e intensificando lo smaltimento, da un altro puntiamo soprattutto sulla sensibilizzazione dei nostri concittadini, spiegando loro quanto siano dannose alla salute le discariche abusive, e provando a introdurre il concetto di differenziazione dei rifiuti e riclico». Miramar prosegue raccontandoci di come, attraverso il programma, si mettano all’erta gli abitanti della comunità anche dai rischi legati all’esposizione all’amianto, un materiale che per via dei suoi costi estremamente bassi è largamente usato nelle coperture dei tetti e nelle cistee per l’acqua.

Nelle parole e negli occhi di Miramar, Detinha, Ruth e di tutti i membri della comunità cattolica, riusciamo a leggere la grande delusione e la rabbia di chi si sente completamente abbandonato da una società che li costringe alla ghettizzazione.

Abusi tra le mura domestiche

I pochi e sudati progressi nascono dalla cooperazione tra gli abitanti della comunità, tra questi anche i fedeli delle numerose comunità evangeliche, come Kennedy, uno dei tanti ragazzi che gestiscono il centro culturale Jocum. «Solo nella nostra favela ci sono oltre ventimila abitanti e non c’è nemmeno un presidio medico. Abbiamo sparso la voce chiedendo aiuto alle altre comunità, c’è stata una grande mobilitazione e così si è creata una rete di medici volontari che offrono la loro assistenza a tutti coloro che ne hanno necessità. Inoltre ogni sabato possiamo contare sulla preziosa presenza di uno psicologo». Proprio un supporto psicologico è quello che chiedono le molte donne vittime di abusi sessuali, una piaga sociale che colpisce anche giovani e giovanissime ragazze. Monica, maestra di un asilo della comunità e madre di tre figlie, ci racconta la sua drammatica esperienza di aver scoperto che suo padre aveva abusato diverse volte di una delle sue bimbe che in seguito aveva tentato il suicidio. «La vera angoscia incomincia quando ti rendi conto di essere impotente difronte a questi eventi, da un lato il tradimento da parte di un genitore, dall’altro la sofferenza di tua figlia, e tu nel mezzo non puoi contare su nessun aiuto, se non quello della tua comunità». Come Monica e sua figlia sono moltissime le donne vittime di queste situazioni, tanto che in alcune aree del Nord del paese i casi di violenze e stupri coinvolgono il 60% della popolazione femminile e quasi tutti avvengono all’interno delle mura domestiche.

Senza giustizia

Il teologo don Mario Antonelli, che per anni ha lavorato in?Brasile, ci mette a conoscenza di un aspetto ancora più inquietante di questo dramma femminile: «Capita spesso che durante la prima confessione le bambine raccontino degli abusi subiti come se si trattasse di una loro colpa, di un loro peccato. La totale diseducazione alla sessualità in una società dal radicato maschilismo è un vero e proprio cancro per questo paese».

Negli anni in cui i trafficanti controllavano la favela, questi reati contro donne e bambine erano puniti in maniere brutali in modo che le punizioni fossero di esempio per tutti. Naturalmente i trafficanti non erano spinti da un senso di compassione e umanità, quanto dall’esigenza di dimostrare che, all’interno della favela, solo loro erano padroni di ciascuna vita. Purtroppo oggi quelle punizioni esemplari rischiano di essere ricordate da molte famiglie come l’atto di una giustizia che lo stato invece non sa garantire.

Stefano Bertolino*

* Stefano Bertolino è fotografo e videomaker. Con due colleghi ha girato un documentario sui mondiali di calcio in Brasile (2014). A settembre è stato a Cuba per seguire la riapertura dei rapporti con gli Usa e il viaggio di papa Francesco.

Stefano Bertolino




Brasile. Balli di libertà

Alla festa di Oxossi (San Sebastiano), l’umbanda mostra il suo volto più gioioso.

Vi raccontiamo luoghi, persone e riti. Cercando di capire perché le religioni afrobrasiliane
da molti studiosi sono considerate un patrimonio da difendere.

Floriano (Piauí). Al barrio Tiberão, periferia
della città, arriviamo di notte. I due motociclisti che ci accompagnano
procedono con cautela perché, in questo quartiere, l’illuminazione pubblica è
praticamente inesistente.

È una zona collinosa con stradine sterrate ai cui lati
sono sorte piccole abitazioni. S’intravvedono a malapena, perché le lampadine,
attaccate all’architrave delle porte d’ingresso, sono molto deboli.

Nel barrio ci sono alcuni terreiros, dove, per merito di
Amarelinho (popolarissimo reporter di una radio locale), siamo stati invitati
per assistere a una ricorrenza.

I motociclisti ci fanno scendere nei pressi dell’unica
casetta davanti alla quale c’è animazione. Entriamo nell’abitazione, che
chiamano Tenda Iemanjá, e subito ai nostri occhi si dischiude un mondo fatto di
umanità, suoni e colori. Il luogo è affollatissimo. Chi vuole soltanto
guardare, senza partecipare in prima persona, sta al di qua di un muretto.
Dall’altra parte, è festa.

Questa notte si commemora Oxóssi, orixá della caccia (con
arco e frecce), considerato il protettore della foresta e dei suoi abitanti
originari (caboclos). Dal punto di vista sincretistico, esso è equiparato a
San Sebastiano, il martire cristiano universalmente rappresentato con il corpo
trafitto da frecce.

Attoo al palo centrale, fulcro del terreiro, girano danzando
uomini e soprattutto donne. Le signore indossano camicette rosse e ampie gonne
verdi. Il ritmo è dettato dal suono incessante dei tamburi e dai canti intonati
dal pai-de-santo, un uomo di 38 anni di nome Luis Gonzaga do Nascimento
detto Luizinho. Indossa un mantello verde con maniche rosse. Sulla testa porta
una corona di stoffa, probabilmente in onore di uno dei tanti attributi di Oxóssi:
quello di «re di Ketu» (dal nome di un’antica capitale yoruba, localizzata
nell’attuale Benin).

Senza aprire gli occhi, Luizinho s’interrompe per
presentarci a voce alta. D’altra parte, per noi sarebbe stato difficile passare
inosservati. Guardando i convenuti, un dato infatti sembra trovare conferma:
come il candomblé, anche l’umbanda continua a raccogliere la grande maggioranza
dei propri seguaci tra le persone nere (quasi sempre di bassa estrazione
sociale). I muri del terreiro di Luizinho sono come un libro di storia dell’umbanda e
delle religioni afrobrasiliane in generale. Vi sono disegnati indigeni e
schiavi africani in catene accanto a immagini di Gesù e della Madonna. In uno
stanzino riparato da una tenda trova invece posto un piccolo altare con statue
e immagini.

Mentre da un lato il pai-de-santo intona i canti e dall’altro
quattro suonatori di atabaques e maracas scandiscono il ritmo, al centro della stanza i fedeli
continuano nella loro danza.

In transe

A un certo punto della notte un paio di persone ci
vengono a chiamare e ci dicono di seguirle. Non andiamo lontano. Attraversiamo
semplicemente la stradina per entrare in un altro terreiro, nascosto tra le
abitazioni. È una casa di una sola stanza, piccola e buia. Al fondo della
stessa è posto un altare ingombro di statue di varie dimensioni. Ma per noi
ospiti è il pai-de-santo del luogo l’elemento indimenticabile. Lui si chiama Chicão.
Ha un cappello di paglia in testa, una pipa in mano e una bella faccia d’anziano.

Canta. Parla rapidissimo in una lingua sconosciuta e
comunque diversa dal brasiliano. Chicâo si lascia fotografare. Poi ci fa uscire
dalla stanza e ci porta nel cortile adiacente per mostrarci un riparo in legno
(tronqueira),
grande come la cuccia di un cane. Il pai-de-santo si accovaccia e apre il
lucchetto che lo chiude. All’interno, nonostante la luce sia soltanto quella
delle candele, riconosciamo un paio di statuine di exús, le entità che
assorbono le negatività delle persone.

La tronqueira è dunque considerata un presidio a guardia del terreiro, per tenere lontane
da esso tutte le energie negative.

Il giro guidato non è finito. Una signora del gruppetto
di persone che ci sta accompagnando in questo tour molto insolito ci spiega che
tutti gli abitanti di queste case sono seguaci dell’umbanda e che di terreiros ce ne sono diversi.
Capiamo che ormai non c’è modo di ritirarci senza offendere qualcuno.

Andremo dunque nel terreiro di Zé Reis e poi in quello
di una donna, Rita Maria da Silva.

Troviamo il giovane Zé Reis, camicia verde, cappello e
pipa, seduto accanto al suo altare. E, nell’angolo di fronte, un uomo con un
tamburo lungo e stretto. Anche lui ci accoglie con grande gentilezza, anche lui
ci tiene a cantare davanti a noi.

Quando,
alla fine del nostro percorso, arriviamo alla casa della donna, lei è in
condizione di transe: non c’è modo di
conversare. Corporatura magra e folta chioma di capelli crespi, indossa un
vestito bianco e una lunga sciarpa rossa con alcuni disegni tipici dell’umbanda.
La casa non è un vero terreiro, ma una normale (e
modestissima) abitazione. In un angolo della stanza da letto c’è un altarino
con il consueto puzzle di immagini cristiane
e simbologie della religione afro, il tutto illuminato da una serie di candele.

È qui
che la donna inizia una sorta di danza lenta stringendo tra le mani delle
lunghe frecce. Sempre con gli occhi serrati e parole ripetute come in una
litania. I nostri accompagnatori ci spiegano che la medium incorpora il Caboclo
Sete Flechas, l’«indio dalle sette frecce», ognuna di esse
con una funzione diversa (salute, difesa, spiritualità,…).

Magia nera,
superstizioni, pratiche diaboliche?

Che sia per i rituali particolari o per la tipologia dei
seguaci o ancora per retaggi storici malinterpretati (la schiavitù, in primis),
l’umbanda e le religioni afrobrasiliane in generale sono ancora oggi guardate
con sospetto. O con astio, soprattutto dalle (potenti)  Chiese evangeliche neopentecostali1.

Scrive Alessandra Amaral Soares Nascimento: «Per essere
religioni del transe, del culto degli spiriti e in alcuni casi di sacrifici
animali, esse sono state associate a stereotipi come quelli della “magia nera”,
superstizioni di gente ignorante, pratiche diaboliche»2.

Va ricordato che i culti africani arrivarono nel paese
latinoamericano con gli schiavi durante un lasso di tempo di oltre 300 anni (in
Brasile, la pratica dello schiavismo durò – almeno ufficialmente – dal 1559 al
1888).

Come ricorda Alessandra Amaral, «lo schiavo doveva essere
battezzato entro un massimo di cinque anni dal suo arrivo in Brasile». Si
trattava in sostanza dell’applicazione pratica del principio «Cuius regio, eius religio»,
ovvero dell’obbligo per lo schiavo di conformarsi alla religione del padrone.

Le religioni afrobrasiliane si svilupparono dunque come
forma di «resistenza» alle imposizioni dei padroni bianchi e come affermazione
della propria identità. L’umbanda – nata soltanto nel 1908 – ne è un’evoluzione
alla luce dell’orgoglio derivante dall’«essere brasiliano», vale a dire un mix
di bianco, nero e indigeno.

Secondo Reginaldo Prandi, altro studioso e specialista in
religioni afrobrasiliane, «silenziosamente, oggi assistiamo a un vero massacro
delle religioni afrobrasiliane». Un fatto molto grave, spiega il professore
dell’Università di San Paolo, perché il loro contributo «alle più diverse aree
della cultura brasiliana è ricchissimo»3.

A parte le considerazioni degli studiosi, vale la pena di
ricordare le parole di Gilberto Gil, uno dei più noti musicisti brasiliani, che
in una strofa di una sua canzone scrive: «Quando i popoli dell’Africa
arrivarono qui / non avevano la libertà di religione. / Adottarono il Senhor do
Bonfim / sia per resistenza, che per resa»4.

Accoglienza

Con gli occhi e la testa ancora pieni di sensazioni,
torniamo alla Tenda Iemanjá di Luizinho, dove la festa in onore di Oxóssi vive
un momento di pausa. Le persone stanno recuperando le energie consumate
mangiando banane, angurie e meloni.

Noi ne approfittiamo per ringraziare il pai-de-santo e le persone
presenti per la cordialità e simpatia con cui ci hanno accolti. Tra non molto i
tamburi ricominceranno a dare il ritmo ai canti e alle danze.

Paolo Moiola*
 
Note:

(1) Della Comissão de Combate à Intolerância Religiosa (http://ccir.org.br) non fanno parte esponenti
neopentecostali.

(2) Alessandra
Amaral Soares Nascimento, Candomblé e
umbanda: praticas religiosas da identitade negra no Brasil, in «Revista brasileira de Sociologia da Emocão» 9 (27),
dicembre 2010.

(3) Reginaldo
Prandi, O Brasil com axé:
candomblé e umbanda no mercado religioso, in «Estudos
Avançados» 18 (52), 2004.

(4) Testuale: «Quando
os povos d’África chegaram aqui / Não tinham liberdade de religião / Adotaram
Senhor do Bonfim: / Tanto resistência, quanto rendição». La Igreja de Nosso Senhor do Bonfim è la più famosa chiesa di Salvador Bahia, in Brasile.

Paolo Moiola




Brasile. I tamburi di oxalá

Da alcuni studiosi
l’umbanda è considerata la religione brasiliana per eccellenza perché
miscellanea di tutti gli elementi da cui il paese ha preso forma. Per cercare
di capire abbiamo visitato alcuni «terreiros», i luoghi dove si svolgono le
cerimonie. Le sorprese non sono mancate.

Floriano.
Sopra la porta d’ingresso, sul muro color verde, la scritta recita: «Casa de
productos de umbanda São Jorge». All’interno gli scaffali sono pieni: ci sono
incensi e prodotti naturali per propiziare ogni genere di obiettivo (dall’amore
ai soldi); e poi statue di varie dimensioni con le fattezze di santi cattolici
o di altre persone.

Nel centro di Floriano, piccola città del Piauí, ci sono ben
due negozi che vendono articoli per l’umbanda. Eppure, stando alle statistiche
ufficiali o semplicemente alle risposte della gente, i brasiliani che seguono
quella religione sarebbero pochi (o pochissimi).

Anche individuare un terreiro, il luogo dove si tengono
le cerimonie, non è impresa facile. In questo noi veniamo assistiti dalla
fortuna. Arriviamo a casa del signor Ademar José Soares, a pochi metri dalla
riva del Paranaiba, perché lui, un uomo di 76 anni con una vitalità ben
superiore a quella prevedibile per la sua età, è un organizzatore del bumba-meu-boi, una
nota festa popolare di antica tradizione.

Quasi subito l’obiettivo della nostra visita diventa però
un altro. Ademarzinho (i diminutivi sono una diffusa consuetudine brasiliana)
ci racconta infatti di essere un pai-de-santo, il responsabile di un terreiro dell’umbanda.
Immediatamente lo tempestiamo delle domande più disparate.

Vedendoci così interessati, l’uomo ci invita a partecipare
alla gira (sessione) del venerdì successivo. Spinti dalla nostra
grande curiosità, aderiamo con entusiasmo. Peraltro ci imponiamo di non fare
troppa pubblicità all’invito, dato che spesso le cerimonie di umbanda, pur non
essendo segrete, dai più vengono descritte come macumba nella sua accezione
negativa, cioè incontri dove si praticano malefici e dunque da evitare con
cura.

Celebrazione e riti

Ci presentiamo puntuali, verso le nove della sera,
davanti all’abitazione di Ademarzinho. La casa è assai modesta e non ci sono
insegne che indichino la presenza di un terreiro. Per accedervi si passano
due porticine. All’entrata del locale ci sono due banchi per ospitare chi
voglia assistere alle sedute che si svolgono al di là di una piccola balaustra.
A illuminare gli spazi ci sono alcune deboli luci, ma soprattutto candele (velas), sparse in ogni
angolo. Religione sincretica per antonomasia, l’umbanda viene considerata
monoteista (Dio è chiamato Olorum o Zâmbi), anche se la credenza negli orixás (di derivazione
africana) e quella negli elementi della natura (ereditata dal panteismo
indigenista) potrebbero far pensare il contrario.

Qui, nel terreiro di Ademarzinho, il sincretismo tra umbanda e
cattolicesimo trova la sua forma concreta e visibile in fondo al salone, dove,
appoggiato a una parete azzurra, c’è un vero e proprio altare (congá). Al centro un
festone circonda una statua di San Lazzaro, accanto Santa Barbara e Nostra
Signora di Aparecida, oltre a un rosario e, poco sopra, un piccolo crocefisso.
Sui lati dell’altare trovano invece spazio una serie di statue, sistemate su
ripiani in forma di scala. Si distinguono Gesù con la croce, padre Cicero (un
famoso prete brasiliano), San Francesco d’Assisi, San Giovanni Battista, Santa
Teresina delle Rose, San Benedetto, San Michele Arcangelo, San Sebastiano.

Alla destra dell’altare ci sono i tamburi (atabaques), che rimandano
alla tradizione africana, e l’ingresso ai locali privati del terreiro.

Al centro della sala c’è un palo (guna) bianco, attorno al
quale si svolgeranno le danze. Esso simboleggia l’unione tra la terra e il
cielo, ma anche il fulcro della casa.

Il celebrante (pai-de-santo) è Ademarzinho, ma ad
aiutarlo ci sono varie signore, alcune delle quali scopriremo essere medium.

La cerimonia inizia con una distribuzione d’incenso (defumação) per purificare
l’ambiente. Quindi, vengono intonati il Padre nostro (Pai nosso) e l’Ave Maria.

Sia il pai-de-santo che le donne aiutanti indossano vestiti bianchi. Va
ricordato che nell’umbanda ogni rito è associato a colori, bevande, cibi,
fiori, erbe, pietre, metalli, simboli specifici.

In un ambiente siffatto l’atmosfera è resa suggestiva dai
suoni dei tamburi e dalle litanie (pontos cantados) innalzate dal sacerdote e
dalle sue aiutanti. Attoo al palo centrale si svolge la danza delle donne,
che lentamente fanno roteare testa e braccia.

Nel terreiro sono presenti alcune persone venute per ricevere riti
purificatori o propiziatori (passes): due uomini, un ragazzo, una giovane donna accompagnata
dalla madre e dal fratello. Con un gesso il pai-de-santo disegna per terra alcuni
cerchi e al loro interno dei simboli. Accanto a questi disegni (pontos riscados) viene
posta l’immancabile candela.

Uno a uno gli uomini, venuti per chiedere la guarigione
dei loro problemi fisici, si presentano davanti alle aiutanti. Presa una
bacinella di metallo, le signore vi depongono foglie ed erbe, le imbevono di
alcol e danno loro fuoco. Poi raccolgono la fiamma con le mani e la «passano»
su piedi, gambe e braccia delle tre persone. Un abbraccio chiude il rito.

Cambio di scena: exú
e pombagira

Dopo un paio di ore una delle donne-medium ci dice di
mettere via macchina fotografica e videocamera. Il suo tono è di quelli che non
ammettono repliche. Obbediamo, anche per non venir meno al nostro ruolo di
ospiti del terreiro.

I componenti della famiglia si sono seduti a terra
attorno a una tovaglia su cui sono stati posti piatti, posate, bicchieri e
varie bottiglie di vino: è l’offerta (ebó) per ottenere una grazia. Al centro della «tavola»
sono stati inoltre deposti alcuni indumenti che ci dicono appartenere al marito
della donna, alcolista e violento che si vuole ricondurre sulla retta via.

Ora il clima che si respira è totalmente cambiato. È
cupo, senza tamburi e canti. La donna che ci aveva fatto riporre gli strumenti
appare stravolta fisicamente ed emotivamente, forse perché incorpora – così ci
verrà spiegato – lo spirito della pombagira Maria Padilha, entità
richiamata quando ci sono problemi d’amore. La scena è però nella mani del pai-de-santo,
anch’egli completamente trasformato, sia nell’aspetto esteriore che nel
comportamento. Capiamo che il pai-de-santo incorpora exú Tranca Ruas, entità che apre o chiude strade a
seconda delle necessità.

L’uomo indossa un mantello nero con una fodera intea
rossa e un tridente ricamato. Tiene in mano una bottiglia di cachaça che sorseggia di
quando in quando. I suoi canti si sono fatti più striduli e incomprensibili.
Intendiamo però chiaramente quando chiede che gli venga portata una gallina
nera. Dalle stanze appartate arriva una giovane signora con in mano l’animale
richiesto.

La gallina viene presa per il collo e passata sul corpo
delle persone. A un certo punto il celebrante tira il collo al malcapitato
animale. Il sangue (ejé) viene raccolto in una ciotola, da cui beve ogni persona
del cerchio.

Va detto che i sacrifici animali non sono affatto comuni
nell’umbanda. Assistervi non è un’esperienza piacevole, ma occorre ricordare
che questo tipo di offerte sono previste da quasi tutte le religioni.

Ormai sono passate le una della notte e noi siamo qui da
ore. Decidiamo quindi di lasciare il terreiro. In silenzio, facciamo un
segno di saluto e, indietreggiando di schiena (come ci è stato detto di fare),
usciamo dalla casa.

 

Bibliografia

• Ademir Barbosa Júnior, O livro essencial de umbanda,
Universo dos Livros, São Paulo 2014.
• Andrea D’Anna, Le religioni afroamericane,
Editrice Nigrizia, 1972
• Pedro F. Miguel, Honga. Per un’antropologia africana,
La Meridiana, Molfetta 1990.
• Pierluigi Lattuada, Sciamanesimo brasiliano, Anima
Edizioni, 2005.
• Andrea Romanazzi, Lo sciamanesimo afroamerindio,
Anguana Edizioni, 2013.

Intervista con Patricia Santos

Candomblé e umbanda
sono religioni

Patricia Santos è una giovane
professoressa di storia presso l’Università statale del Piauí. Da cinque anni
si occupa di religiosità e di fenomeni religiosi, ma sono stati i suoi studenti
a spingerla a studiare anche l’umbanda.

Professoressa, nel maggio del 2014, un giudice federale di nome Eugênio
Rosa de Araújo sentenziò che le religioni afrobrasiliane non sono religioni…

«Sulla questione ci sono state varie discussioni. Personalmente le
considero delle religioni, con regole e riti».

Si dice che l’umbanda e il candomblé siano religioni afrobrasiliane. È
un’affermazione corretta?

«Direi di sì. L’umbanda è una religione con un’origine brasiliana, ma
con varie matrici: cattolicesimo, spiritismo kardecista, elementi di religiosità
indigena e di religiosità africana. È una religione eterogenea nata anche come
forma di resistenza. Il candomblé è più una religione africana. Direi che essa ha
subito un “processo di sbiancamento” meno accentuato. Nondimeno anche in essa
sono presenti rituali di altre religioni».

Nel suo paese quanti sono i seguaci delle religioni afrobrasiliane?

«Non saprei dire quanti siano i seguaci dell’umbanda, anche perché si
assiste a una negazione da parte degli stessi umbandisti. In un sondaggio
condotto da un gruppo di ricerca nella città di Oeiras, nel Piauí, si è
riscontrato che gli stessi frequentatori dei terreiros non si
considerano umbandisti o addirittura negano qualsiasi relazione con quella
religione.

I dati Ibge (Instituto Brasileiro de Geográfia e Estatistica)
dicono che in questa città non ci sono praticanti dell’umbanda. Un dato
contraddetto dal numero di terreiros esistenti. Soltanto nella zona
urbana se ne contano almeno sette».

Se i numeri dei seguaci non si conoscono, si può almeno dire a quali
categorie sociali appartengano?

«Anche se non è così facile determinare la partecipazione delle varie
categorie sociali, è evidente che tra gli aderenti alle religioni
afrobrasiliane si incontra un gran numero di neri e di poveri. In ogni caso, va
segnalato che oggi molti frequentatori sono bianchi, ricchi e con un alto
livello di scolarità. Rimane vero che, da molto tempo, i terreiros si
trovano nelle periferie delle città o comunque in zone marginali delle stesse».

L’umbanda (e il candomblé) si celebrano sempre nei terreiros?

«Non sempre. Il terreiro è lo spazio dove vengono fatti la
maggior parte dei rituali. Tuttavia, alcuni di essi si possono fare anche all’aria
aperta».

Chi conduce i riti dell’umbanda?

«Generalmente i celebranti sono il pai-de-santo o la mãe-de-santo».

Nell’umbanda sono venerate varie divinità (orixás). Si può
comunque dire che essa sia una religione monoteista?

«La è. Olorum (detto anche Zambi) rappresenta il nostro Dio cristiano.
Oxalá è Gesù Cristo. E poi ci sono gli orixás, santi con nomi e ruoli
diversi».

Esiste un momento che accomuna le celebrazioni in ogni terreiro?

«Il momento centrale sono i pontos cantados, che sono canti e musiche
che vengono intonati durante le celebrazioni».

Esiste una «linea bianca» e una «linea nera» nelle celebrazioni
dell’umbanda?

«Altra risposta complicata da dare. In generale, gli umbandisti non
considerano pratiche denominate linea nera, volte cioè a propiziare il male. Al
contrario, l’umbanda si propone di essere vicina alle cose buone».

L’umbanda è malvista o almeno guardata con sospetto da molti
brasiliani. Come mai?

«Perché essa è sempre stata descritta con termini negativi come quello
di stregoneria. Davanti a definizioni di questo tipo le persone si spaventano.
Oltre a ciò, c’è una motivazione che deriva dalla formazione sociale e storica
del Brasile. Il paese ha sempre descritto i neri come esseri inferiori, barbari
o stregoni. Magari per il semplice fatto di saper lavorare le erbe o di adorare
la natura».

Se in passato fu la chiesa cattolica a guardare con sospetto alle
religioni afrobrasiliane, oggigiorno sono le chiese neopentecostali (con la Igreja
Universal di Edir Macedo in testa) i principali avversari di umbanda e
candomblé. È così?

«Nel passato la chiesa cattolica ha condannato i culti religiosi
afrobrasiliani, perché ai suoi occhi erano generatori di malefici. Questo
atteggiamento fu molto seguito durante il periodo coloniale brasiliano. Anche
perché era  funzionale al controllo e
alla vigilanza dei padroni (bianchi) sugli schiavi (neri).

Oggi sono le chiese neopentecostali a mostrare intolleranza. Nella loro
ricerca di proseliti, esse non esitano a porre in essere azioni violente contro
i seguaci o i luoghi delle religioni afrobrasiliane. Ad esempio, ci sono stati
molti casi (cfr. Istoé 2191, 2011) di invasione di terreiros o
distruzioni di immagini di orixás che si trovassero in vie o piazze
pubbliche».

Paolo Moiola

 


 
TRA CIELO E TERRA. Dizionario essenziale
I SOGGETTI

Orixás – Derivanti direttamente dalla
tradizione religiosa africana portata nelle Americhe dagli schiavi neri, sono
divinità, ministri di Dio (Olorum-Zâmbi), ognuno legato a uno o più elementi
della natura, ognuno con precise qualità e funzioni. Sono 16 in totale. I
principali (assieme ai corrispettivi sincretici) sono: Oxalá (Gesù Cristo),
Iemanjá (Nostra Signora), Ogum (San Giorgio), Oxóssi (San Sebastiano), Xangô
(San Geronimo, San Giovanni Battista e altri ancora), Obaluaê (San Cipriano),
Oxum (divinità femminile, Nostra Signora di Aparecida).

Eguns – Sono gli spiriti, entità
energetiche che hanno avuto una vita materiale. I principali sono i caboclos
(spiriti di indigeni), i pretos-velhos (spiriti di schiavi africani)
e i crianças (spiriti di bambini).

Exús / Pombagiras – Sono spiriti di particolare
rilevanza, in quanto messaggeri e intermediari tra gli orixás e gli uomini. Le pombagiras ne sono la versione femminile.
Quando erano incarnati in un corpo, exús e pombagiras ebbero vite difficili, segnate da
violenza, odio, vendetta, ignoranza. Gli avversari dell’umbanda e delle
religioni afrobrasiliane, identificandoli con il diavolo e il male in generale,
li usano per screditare quelle credenze.

Pai-de-Santo / Mãe-de-Santo – Sono il sacerdote o la
sacerdotessa responsabili di un terreiro. Il gruppo di fedeli si chiama família-de-santo.

Médiuns – I medium sono persone dotate di
una sensibilità particolare che le pone in condizione di fare da intermediari
con il mondo degli spiriti. È comune lo stato di transe («trance», in
inglese).

 
• LUOGHI, PRATICHE, STRUMENTI

Terreiro – È il luogo dove si svolgono le
cerimonie di umbanda o candomblé.

Congá – È l’altare sacro del terreiro.

Defumação – È la pratica di bruciare erbe e
resine per purificare gli ambienti dove si terranno le sessioni di umbanda.

Pontos cantados / Pontos riscados – I primi sono i canti e
invocazioni. Si distinguono dalle preghiere. I secondi sono invece disegni – di
solito cerchi bianchi con stelle, frecce, triangoli, croci, e altri segni
geometrici – che richiamano ciascuno una precisa entità spirituale.

Atabaque – È uno strumento musicale a
percussione. Consiste in un tamburo di legno cilindrico o leggermente conico
con la bocca coperta da cuoio. È molto utilizzato nelle cerimonie di umbanda e
candomblé.

Velas – Le candele sono sempre presenti
nei riti dell’umbanda.

Passes – I rituali usati per alleviare o
curare le sofferenze, spirituali o fisiche, delle persone.

Ebós – Sono le offerte agli orixás
per ringraziamento o per chiedere qualcosa. Si chiama ebó ejé, l’offerta
di sangue.

Corte – È il rito del sacrificio di
animali (peraltro previsto in molte religioni). Non costituendone un
fondamento, nell’umbanda non è una pratica comune.

Gira – È una sessione di umbanda.


 

• Retroterra culturale

Spiritismo kardecista – Corrente filosofica-religiosa (ma
con pretese di scientificità) fondata dal francese Allan Kardec (1804-1869). Si
fonda sulla credenza dell’esistenza degli spiriti, anime disincarnate degli
uomini. L’unica differenza tra uomini e spiriti è che i primi sono
temporaneamente incarnati in un involucro corporeo. Le comunicazioni tra uomini
e spiriti avvengono attraverso un «medium», che è una persona con particolari
doti che funge da mediatore. Lo spiritismo kardecista è una delle matrici
dell’umbanda. Quest’ultima ha anche una data di nascita: 1908, a Rio de
Janeiro.

Macumba / Macumbeiro – Nomi generici per indicare le pratiche
religiose africane trapiantate in Brasile e la persona che le attua. Tuttavia,
i due termini sono quasi sempre usati con finalità dispregiative.

Altre denominazioni – Esistono altre denominazioni delle
religioni afrobrasiliane, ognuna legata a una determinata regione geografica,
ma con caratteristiche identiche o similari. Le principali sono le seguenti: tambor-de-mina,
xangô, batuque. A?Cuba la religione di origine africana
ha assunto il nome di santeria, ad Haiti quello di vodù (cfr. MC
giugno 2014).

Paolo Moiola

Tags: Religioni afrobrasiliane, Macumba, Candomblé, sincretismo religioso

Testi e foto di Paolo Moiola




Luci e ombre del Brasile «nero»

Incontro con mons. Giovanni Crippa, Vescovo ausiliario di Salvador Bahia.

La Bahia è abitata dai discendenti degli schiavi africani. Stato
affascinante ma arretrato e problematico come la sua capitale, Salvador. Ne
abbiamo parlato con Giovanni Crippa, missionario della Consolata, vescovo
ausiliario di una città che rappresenta la più antica diocesi del Brasile.

Salvador Bahia. Il centro storico di Salvador domina con il suo sguardo antico e
solenne un’estensione a perdita d’occhio di case cresciute, negli ultimi
decenni, una sull’altra fino a formare un disordinato e congestionato reticolo
urbano e stradale.

Il Pelourinho, colorato, bello e decadente, è
il punto di grande attrazione per turisti, artisti alla ricerca di ispirazioni
e suggestioni forti e di lettori appassionati di Jorge Amado, probabilmente il
più grande scrittore brasiliano.

La città, vista dall’alto, è un’unica enorme
favela, da cui spuntano, qua e là, delle isole di grattacieli modeissimi e
lussuosi, e grandi centri commerciali brulicanti di auto ed esseri umani (ma in
cui ancora molti bahiani non possono permettersi di fare acquisti).

SPLENDORI E MISERIE

Salvador Bahia è sede di numerose università,
storiche e rinomate, sia statali sia federali, cattoliche, evangeliche e di
altre confessioni, nonché di un prestigioso Centro di Studi afro-orientali
della Ufba (Università federale della Bahia). È abbellita da palazzi e strade
di grande pregio artistico; è dispensatrice di musica, letteratura, pittura; di
misticismo e saggezza tradizionale; di esoterismo; di magia; dei riti
propiziatori a Madre Terra; di donne sciamane venerate e temute, in quanto depositarie
di antichi poteri e di guarigione. Nota per il suo sincretismo e anche per la
sua tolleranza religiosa, la Bahia lascia spazio a culti e pratiche di diversa
origine, che talvolta si nascondono o si mescolano l’uno nell’altro, come
avviene per i riti del candomblé, nei quali animismo africano,
paganesimo europeo pre-cristiano e cattolicesimo si confondono in celebrazioni
popolari molto seguite, ad esempio quelle in onore di Iyemanjá, la Dea del
Mare, assimilata, per certi versi, alla Madonna.

L’allegria e la festosità dei bahiani sono
contagiose. La loro lentezza esasperante, la disorganizzazione e il cronico
ritardo sono elementi di cui presto ci si dimentica di fronte alla simpatia
della gente, che non perde l’occasione per inscenare balli e canti neanche
mentre prepara la acarajé, un piatto afrobrasiliano delizioso. O mentre
aspetta che diventi notte giocando a carte su un tavolino improvvisato vicino a
un venditore abusivo di cd.

Salvador è, allo stesso tempo, bella e
intrigante, brutta e violenta. Piena di storia e di cultura, ma ancora
arretrata, problematica e recettrice di marginalità e disagio. È l’emblema di
tutta la splendida Bahia, lo stato nero del Brasile da cui è impossibile non
venire ammaliati.

L’INVASIONE DEI «GRINGOS»

Come Iyami-Ajé / Iyami Oxorongá (nella
mitologia orixás, figura femminile donatrice di vita e di morte), la
Bahia è creatrice, ma anche distruttrice. Come in tutto il paese, ricchezza e
povertà, cultura e ignoranza, lusso e miseria, convivono in un unico luogo, con
contrasti enormi e aggressivi, a distanza di pochi metri l’uno dall’altro.

Lungo il Litorale di Salvador e di Mata de
São João, fin quasi al confine con lo stato del Sergipe, umili villaggi di
pescatori si sono trasformati in meno di dieci anni in cittadine artificiali
per ricchi epuloni brasiliani e stranieri, che hanno investito in immobili,
facendo salire alle stelle il prezzo dei terreni, delle costruzioni e degli
affitti. I nativos (popolazione locale), come vengono chiamati dai gringos
con un malcelato disprezzo, sono stati relegati, per scelta o per necessità, in
altri villaggi adiacenti meno glamour e benestanti, o in vie fatiscenti
e sporchissime in zone meno visibili e transitate dai turisti. È il caso,
emblematico, della famosa e frequentata (affollata) Praia do Forte, che in un
decennio è passata da umile borgo di pescatori e raccoglitori di cocchi a città
dai tanti e lussuosi condominios fechados (condomini chiusi) e centro
commerciale a cielo aperto. La popolazione locale, discendente degli schiavi
neri deportati dall’Africa con le tratte secolari, ha in gran parte venduto
terreni e casette ai forestieri, che ne hanno fatto negozi, ristoranti e
abitazioni per milionari, oppure li ha ceduti in affitto a prezzi altissimi.

Il boom edilizio di tutta l’area costiera e
le ondate di turismo hanno portato benessere anche agli autoctoni, ma ciò non è
stato accompagnato da sviluppo umano, educazione scolastica e servizi
medico-sanitari, con il risultato di produrre un ulteriore disagio sociale, un
abuso di alcolici e sostanze stupefacenti, abitudini sessuali precoci con
conseguenti mateità nel periodo adolescenziale.

A tutto questo si sovrappone, come
causa-effetto, una gestione pubblica deficitaria e indifferente ai bisogni reali
della popolazione di tutto lo stato, e un’organizzazione della politica che
ricorda ancora i tempi dei latifondisti e dei fazendeiros, e dove domina
corruzione, voto di scambio e vuote promesse.

La scuola pubblica è totalmente inadeguata a
qualsiasi standard dignitoso. La sanità è una sorta di «emergenza» perenne mai
trasformata in medicina specialistica o diagnostica. Chi ha soldi si fa curare,
chi non ne ha s’arrangia e può sperare che la medicina tradizionale, con le sue
mille erbe e radici, possa fare miracoli anche con i virus portati dai turisti.

La famiglia è un concetto dalla difficile
definizione: le ragazzine più povere e
con scarsa scolarizzazione iniziano a far figli a 12-14 anni, e non poche a 30
si ritrovano già nonne e con diversi matrimoni alle spalle.

CATTOLICA E AFRICANA

In un afoso pomeriggio di febbraio, poco
prima che il Caevale renda inaccessibili le già engarrafadas
(imbottigliate) strade di Salvador, e il suo caotico centro storico, a Garcia,
nella sede dell’Arcidiocesi, incontriamo il vescovo ausiliario, il simpatico e
attivissimo dom Giovanni Crippa, italiano e missionario della Consolata.

Dom Giovanni, cosa vuol dire essere vescovo
in Bahia?

«L’Arcidiocesi di São Salvador da Bahia è la
prima diocesi del Brasile (1551). I suoi numeri sono importanti (vedi box,
cfr
). L’arcivescovo, dom Murilo Sebastião Ramos Krieger, conta su due
Vescovi Ausiliari: dom Gilson Andrade da Silva e il sottoscritto. Un terzo, dom
Gregorio Paixão, è stato recentemente nominato vescovo di Petrópolis.

È una realtà che devo ancora imparare a
conoscere, ma che già amo e cerco di servire. La grande sfida è mantenere viva
l’azione della Chiesa in un territorio così esteso e con una popolazione
considerevole, incentivando uno spirito di comunione tra i sacerdoti e
promuovendo il senso di appartenenza alla Chiesa locale di tutto il popolo di
Dio come dice il mio motto episcopale: “In aedificationem Corporis Christi”,
cioè, “Per edificare il Corpo di Cristo” (Ef 4,12), che è la Chiesa».

Ci descriva una sua giornata-tipo…

«Dalla mia poca esperienza posso dire che non
esiste una giornata-tipo. Il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi,
al n. 70 dice: “Il Vescovo ausiliare è dato per raggiungere più efficacemente
il bene delle anime in una Diocesi troppo estesa o con elevato numero di
abitanti o per altri motivi di apostolato”.

Per quanto mi riguarda, l’arcivescovo mi ha
affidato il territorio del Recôncavo (la parte più intea della regione
metropolitana) per concretizzare il progetto di una futura Diocesi. Per questo
risiedo prevalentemente nella città di Cruz das Almas, a circa 150 km da
Salvador, per poter seguire da vicino le parrocchie attraverso le visite
pastorali, gli incontri con il clero, con i religiosi, i movimenti e i vari
servizi pastorali.

All’inizio di febbraio abbiamo acquistato
anche una radio Am (Rádio Alvorada), un grande investimento economico, che sarà
di grande aiuto per l’evangelizzazione. Le parrocchie, infatti, hanno un
territorio molto esteso e sono formate da diverse comunità dove la presenza del
sacerdote è saltuaria.

Stiamo anche pensando all’apertura di un
seminario propedeutico per la futura Diocesi dove accogliere i giovani che si
sentono chiamati al sacerdozio.

Oltre alle parrocchie del Recôncavo mi occupo
anche di quelle dell’isola di Itaparica prospicente alla Bahia de Todos os
Santos.

Quando è necessario ritorno nella capitale
bahiana per collaborare nella pastorale, nelle celebrazioni di cresime e feste
patronali. Non mancano impegni di conferenze in varie istituzioni (università,
collegi, parrocchie…) e ritiri. Collaboro anche con la Radio Excelsior da
Bahia con un programma settimanale di 45 minuti sulla liturgia della Parola
della domenica.

Per la mancanza di professori, nel primo
semestre, insegno Storia della Chiesa nella Facoltà cattolica di Feira de
Santana, così ho l’occasione per incontrare persone amiche che hanno fatto
parte della prima tappa della mia vita in Brasile.

L’agenda di un vescovo è sempre piena, come
lo è quella di un prete dedicato al suo servizio, ma le occasioni più belle ce
le riserva lo Spirito quando ci sfida con l’imprevisto».

Quali sono i principali problemi della Bahia
e di Salvador?

«Salvador è una città antica (1549) la cui
origine coincide con la scoperta/conquista da parte dei portoghesi. Ogni suo
angolo, con le chiese, monumenti e vie, è segnata da questa storia che ha
marcato il nome della città stessa: Città del Salvatore della Bahia di Tutti i
Santi.

Salvador, meravigliosa, ricca di storia e di
bellezze naturali, è una città abbandonata, dimenticata e maltrattata. Per
l’incompetenza dei suoi amministratori è cresciuta in un modo disordinato ed è
diventata una grande favela. Ad eccezione di alcune “isole”, la maggior parte
della popolazione vive ammucchiata in quartieri dove mancano le infrastrutture
necessarie per soddisfare i bisogni essenziali. L’esempio più eclatante è la
costruzione della metropolitana, iniziata 13 anni fa e ancora oggi senza
nessuna prospettiva di conclusione dei lavori. Tuttavia, in pochi mesi, il
governo dello stato è riuscito a costruire lo stadio della “Fonte Nova”, per la
Coppa delle Confederazioni e i prossimi Mondiali di Calcio.

Nel 2012 c’è stato uno sciopero dei
professori che è durato 115 giorni e uno sciopero della Polizia militare, di 12
giorni, che hanno provocato grandissimi disagi tra i cittadini.

Un altro grave problema è l’accesso alla
sanità. Le istituzioni sanitarie pubbliche sono carenti e precarie. Non ci sono
strutture sufficienti per garantire i servizi alla popolazione.

Il “Plano de saúde” (Assicurazione
sanitaria) privato è costoso, e una famiglia media con figli difficilmente se
lo può permettere. Questa situazione è una piaga che colpisce soprattutto il
Nordest del Brasile.

Un’altra grande lacuna è quella della scuola
pubblica, soprattutto quella gestita dallo Stato: mancano le strutture, c’è
degrado, scarsa preparazione curricolare – purtroppo anche degli insegnanti -,
abbandono degli studi, ecc.

Da parte dei politici, anche in questo
ambito, si nota disinteresse, perché si sa, è più facile governare un paese
ignorante che uno istruito.

La mancanza di educazione e istruzione tra
gli adolescenti, la disgregazione familiare, e la pedofilia – uomini adulti che
hanno rapporti con ragazzine – portano al fenomeno, piuttosto diffuso, delle
gravidanze precoci.

Le famiglie popolari, in Bahia, sono centrate
sulla figura della donna, della madre. Molte volte l’uomo fugge dalle sue
responsabilità, è assente. C’è molto machismo, da una parte, e strutture
sociali matriarcali, dall’altra. Tutto questo, insieme all’assenza dello Stato,
concorre a creare un clima di violenza che ha raggiunto livelli molto alti.
Secondo la Segreteria di sicurezza pubblica (SSP), nel 2012 sono stati
registrati 2.391 omicidi in Salvador e nelle città della Regione metropolitana,
con un aumento del 12,5% rispetto al 2011». 

Un elemento che balza gli occhi, in tutta la
Bahia (e nel resto del Nordest), è la crescita delle chiese evangeliche e
pentecostali. Ce ne sono in ogni angolo e sempre di più. Come spiega questo
fenomeno?

«I dati sulla religione del Censimento del
2010 mostrano che tra il 2000 e il 2010 la percentuale della popolazione che si
dichiarava cattolica è passata dal 73,6% al 64,6%.

Gli evangelici costituiscono il 22,2% della
popolazione. Tuttavia, il segmento evangelico è molto diversificato o diviso:
il 60% sono pentecostali, il 18,5% appartiene alle chiese storiche o
tradizionali e il 21,8% a una categoria che l’Ibge (Instituto Brasileiro de
Geografia e Estatística
) chiama “evangelici non determinati” dei quali alcuni
non sono praticanti.

Gli adepti allo spiritismo sono passati
dall’1,3% al 2% e i cosiddetti senza religione sono passati dal 7,3% all’8%.

Stiamo vivendo un profondo cambiamento nella
società brasiliana, anche a livello religioso. Se è vero che la Chiesa
cattolica sta perdendo fedeli, è altrettanto vero che le chiese protestanti
(luterana, presbiteriana, battista e avventista) stanno attraversando una crisi
profonda. Si moltiplicano le chiese evangeliche, frutto di una divisione e di
una guerra intea alla ricerca di spazio e visibilità.

Questa disputa intea al cristianesimo
favorisce la crescita del numero di persone indifferenti al Vangelo.

Un fenomeno molto in voga in questi tempi, è
quello della “teologia della prosperità”, di tipo calvinista: il successo
materiale è il riscontro della fede. I predicatori attuano vere e proprie
“strategie”, e la tecnica usata è quella dell’auto-motivazione. La tattica è
approssimativamente questa: incontrano persone in difficoltà economiche,
psicologiche, sociali e iniziano a motivarle a ottenere dei risultati
materiali, dei cambiamenti chiedendo di affidarsi a Dio. Se questo è certamente
positivo, il problema sorge quando le esperienze di successo ottenuto sono
fittizie, raccontate da “comparse” allo scopo di indurre il fedele ad
abbandonarsi alle istruzioni del predicatore, che adotta vere tecniche di
vendita e ne approfitta, spesso arricchendosi alle spalle dei poveracci che
donano tutto ciò che hanno nella convinzione di ricevere una ricompensa da Dio.
La fede diventa così un prodotto di scambio commerciale, materialista, egoista.
Non c’è più il dono agli altri, gratuito, ma solo un dare per avere.

D’altro canto, però, la Chiesa cattolica si
rende conto di quanto già sapeva da secoli, cioè che esiste un grande numero di
cattolici battezzati, ma non evangelizzati.

Il grande pericolo è che questa nuova
configurazione non ha come obiettivo di unire i cristiani per trasformare il
mondo seguendo il desiderio di Gesù, ma quello di promuovere ideologie
rivestite di una vernice religiosa che procura interessi personali o di gruppi
che si auto-definiscono chiese. La maggior parte di queste “chiese” incoraggia
un proselitismo riduzionista e disgregante della società, cercando di imporre
un pensiero unico. La Chiesa cattolica rispetta tutte le religioni e desidera
essere rispettata». 

La Bahia è nota per i rituali di candomblé, una sorta di religione
sincretista, con riferimenti a culti animisti, pagani pre-cristiani e
cattolici. Qual è il rapporto tra la Chiesa cattolica bahiana e questi gruppi?
Ci sono fedeli che alla domenica vanno a messa e alla sera ai rituali
afro-brasiliani?

«La Bahia è terra di un popolo ospitale e
amico che offre la sua casa, le sue tradizioni e la sua culinaria a tutte le
persone che qui arrivano.

La religione fa parte dell’espressione
culturale di un popolo. Non tutti i bahiani seguono le tradizioni legate alle
religioni afro-brasiliane. È ingenuo pensare che tutti gli afro-discendenti
siano legati al candomblé. Purtroppo, la religione afro è sempre più confusa
con il folclore. Il patrimonio musicale religioso del candomblé, per
esempio, è usato per fini commerciali.

Il punto di partenza deve essere il rispetto
di qualunque forma religiosa lasciando all’individuo la libertà della scelta.
Il sincretismo religioso, però, è riduzionista e mette il seguace della
religione del candomblé in una posizione di servilismo o sottomissione
all’uomo bianco. All’inizio della colonizzazione, i neri venuti dall’Africa
erano obbligati a “mentire” se volevano continuare a praticare la loro
religione, che era proibita, in un paese cristiano. Per mantenere i propri riti
attribuirono nomi di santi cattolici ai propri orixás (divinità). Oxalá,
per esempio, poteva essere il Senhor do Bonfim. Era una forma intelligente, di
saggezza politica, per mantenersi indenni e per non essere puniti.

Oggi, la Costituzione brasiliana permette a
ogni cittadino di abbracciare liberamente la propria religione. Vivere un
sincretismo, praticare allo stesso tempo il candomblé con il cristianesimo
significa riconoscere che il primo non è capace di soddisfare o di offrire
quello che si sta cercando. Lo stesso si può dire dei cristiani che frequentano
il candomblé.

La teologia e l’antropologia cristiane
differiscono totalmente da quella del candomblé. Per questo le persone del
candomblé devono vivere liberamente la loro scelta, così come quelli che
professano altre religioni. Buona parte delle Iyalorixá (sacerdotesse o
dirigenti spirituali) di Salvador sono contrarie al sincretismo, specialmente coloro
che hanno una formazione accademica, per evitare che venga considerata una mera
espressione folclorica.

La Chiesa è convinta che deve predicare il
Vangelo di Gesù, vivendo i valori cristiani e rispettando le differenze».

Per concludere, monsignore. Cosa le piace
della Bahia e di Salvador in particolare?

«Prima di tutto la gente. Gente felice,
ospitale, cordiale che ti mette subito a tuo agio, che ti fa sentire a casa.
Gente che sempre chiede la benedizione, che vuole salutarti, stringerti la
mano, abbracciarti.

Ci sono poi alcuni luoghi significativi per
la bellezza di cui la natura li ha dotati e per il significato storico,
religioso e culturale che hanno acquisito lungo il tempo.

La Cattedrale metropolitana della
Trasfigurazione del Signore: una chiesa che apparteneva ai gesuiti e che
accoglie le spoglie mortali di alcuni vescovi che lì hanno svolto il loro
ministero. Persone che hanno amato e servito questa Chiesa come il card. Dom
Lucas Moreira Neves che mi ha ordinato diacono a Roma nel 1985. Chi immaginava
di diventare vescovo ausiliare in questa Chiesa di cui lui è stato pastore?

Il Santuario-Basilica del Senhor do Bonfim,
dove si confondono fede e tradizione, religiosità popolare e catechesi,
preghiera e emozione vissuta da una miriade di persone di ogni ceto e razza.

La Basilica Nossa Senhora da Conceição da
Praia, patrona della Bahia, espressione della devozione mariana della gente che
lì accorre quotidianamente.

La Bahia de Todos os Santos: non ci si stanca
mai di contemplare questa bellezza naturale. Ogni giorno sembra diversa,
soprattutto nei colori quando il sole tramonta.

Il Recôncavo: composto da vari municipi che
circondano la Bahia de Todos os Santos, qui si mischiano il verde della
vegetazione con l’abbondanza della frutta; le varie espressioni della
religiosità popolare con le feste tradizionali; la bontà della gente con la
bellezza delle sue chiese.

L’isola di Itaparica dove la popolazione vive
di pesca e di turismo. Qui la gente è padrona del tempo, ha imparato ad essere
paziente e ad avere sempre fiducia nella Provvidenza divina.

Le periferie della città dove, nonostante la
povertà, la violenza e l’ambiente disumano, le persone vivono e soprattutto
cercano di trovare il senso della vita a partire dal Vangelo e dalla vita
comunitaria, dove le celebrazioni sono sempre una festa e un punto di partenza
per costruire il Regno di Dio».

Angela
Lano*

 (*) Gioalista e scrittrice,
Angela Lano vive con la famiglia nello stato brasiliano di Bahia.

Angela Lano




BRASILE Undicesimo capitolo generale Missionari Consolata

Sandali al vento

Con l’11° Capitolo generale i missionari della Consolata hanno esaminato il lavoro degli ultimi tempi e progettato il cammino dei prossimi sei anni, per rispondere alle sfide del mondo attuale e alle attese dei popoli in cui svolgono la loro opera di evangelizzazione.

Zaccaria, dallo sguardo sorridente. C’è pure lui, alto ed esile come un grissino. Partecipa, insieme ad altre 48 persone provenienti da Africa, America, Asia ed Europa, all’11° Capitolo generale di São Paulo (Brasile). È la massima assemblea dell’Istituto Missioni Consolata.
Ogni sei anni i missionari della Consolata, presenti i loro delegati da tutti i paesi dove operano (oggigiorno 22), sostano un mese abbondante a valutare il trascorso sessennio e a programmare quello futuro. Inoltre il Capitolo elegge la nuova direzione generale dell’Istituto, composta da un superiore e quattro consiglieri.
In pullman… Zaccaria appare alquanto spaesato, mentre dal finestrino rincorre la sterminata metropoli paulista, immersa in una fungaia di grattacieli. Approdato tutto solo dalla Costa d’Avorio, si sente troppo smilzo in una nazione dove tutto è «maior do mundo».
Tuttavia, oggi, 11 aprile, apertura ufficiale del Capitolo generale, Zaccaria si rasserena un poco. Con i 48 colleghi (comprese le missionarie della Consolata, anch’esse riunite in Capitolo), dopo il viaggio in autobus, si trova a pregare nel santuario mariano di Nossa Senhora Aparecida. Ma questa «signora» è una «madonnina»: non bella, troppo nana, a pezzi. Si racconta che, nel 1717, sia «apparsa» ad alcuni pescatori addirittura senza testa!
Ma sorride. Forse è l’unica Madonna al mondo che sorrida sempre con smagliante spontaneità. Zaccaria se la gode, perché ride come lui ed è nera quanto lui.
Zaccaria King’aru è un missionario della Consolata kenyano. Appartiene al popolo dei kikuyu, nato a Tuthu nel 1953, esattamente nel villaggio dove il 29 giugno 1902 i missionari della Consolata celebrarono la prima messa in Kenya in onore della loro omonima patrona.
Attualmente padre Zaccaria è il superiore, in Costa d’Avorio, dei 13 missionari della Consolata italiani, congolesi, spagnoli, kenyani e colombiani. Al Capitolo di São Paulo è il loro portabandiera.

Dopo 37 giorni di sessioni, incontri, dibattiti e gruppi di studio, l’11° Capitolo generale chiude i battenti tra il sollievo comune.
Il 16 maggio padre Zaccaria fa le valigie, per ritornare in Costa d’Avorio. Non è un problema raccogliere poche camicie e canottiere. Più difficile, invece, è districarsi fra la congerie di relazioni, schede, comunicati e mozioni che il Capitolo ha prodotto. «Troppa carta!» mormora tra sé il missionario maneggiando una pila di fotocopie.
Ma, dovendo informare i confratelli sui lavori e le scelte del Capitolo, padre Zaccaria passa in rassegna con cura l’intera documentazione acquisita e si sofferma pure a rileggerla. Anche perché è interessante.
Recita, per esempio, la relazione dell’Italia: «Bisogna essere testimoni della missione ad gentes, che supera la questione degli aiuti economici. Nostro compito specifico è invitare la chiesa locale e la società civile a respirare un’aria di mondialità e a destare in tutti una sana inquietudine per il regno di Dio. Se la chiesa è rannicchiata sui propri problemi e paralizzata da schemi del passato, dobbiamo offrire le vivaci esperienze delle giovani chiese, e non solo raccontare avvenimenti patetici, tali da suscitare facili emozioni per elemosinare denari. L’animazione missionaria è ben altro!».
A proposito di soldi (ma non solo), ecco quanto si scrive dal Tanzania: «Ringraziamo la Provvidenza, che ci giunge attraverso vari canali: parenti, amici, benefattori e associazioni varie. È spesso un coro di generosa solidarietà, a volte del tutto inattesa. Forse la missione non può che avere che questo unico cespite sicuro: la Provvidenza. Riconoscenza, sobrietà, responsabilità e fedeltà amministrativa devono essere le caratteristiche con cui noi, missionari, riceviamo e doniamo. Ma anche disceere, valutare bene ed essere pronti, eventualmente, a ridimensionare il nostro stile di realizzare la missione…».
Quanto al Kenya (paese cui Zaccaria è, ovviamente, molto attento), le diocesi di Maralal e Marsabit sono ancora un campo d’avanguardia, con aree di primissima evangelizzazione. Il problema di tanti idiomi e il disagio di vivere in zone impervie non facilitano il lavoro missionario. Ciononostante, si auspica un rinnovamento della pastorale, che coinvolga maggiormente la popolazione locale.

Varie volte, durante il Capitolo, è risuonato il termine «pandemia», assai più eloquente del pur grave «epidemia». Oggi la pandemia per antonomasia si chiama Aids e furoreggia in Africa. «Aids che per molti è una parola-tabù, da non pronunciarsi mai» ha denunciato in assemblea padre Zaccaria. «Aids che ha ucciso 500 persone nel mio villaggio natale e sei fratelli nella mia stessa famiglia» ha precisato un altro capitolare africano, raggelando l’uditorio.
Nell’Africa subsahariana dove operano i missionari della Consolata, dall’Etiopia all’Uganda, dal Congo al Mozambico, l’Aids produce il deserto: scompare la generazione degli adulti (la più valida economicamente e culturalmente), lasciando alle spalle solo vecchi e bambini orfani, sovente sieropositivi.
Dal Sudafrica si è udita, forse, la voce più sconsolata. In media, ogni giorno, un migliaio di persone contrae il virus Hiv-Aids. Nel 2004 oltre 400 mila individui sono deceduti. Però (ed è un’assurdità!), nonostante la forte pressione internazionale per usufruire di farmaci a basso costo, «il governo sudafricano, ottenutili, non ha approvato alcuna terapia, quale ad esempio gli antiretrovirali durante il parto». Perché?…
La relazione dal Sudafrica (a suo tempo caratterizzato dall’odiosa discriminazione razziale, imposta ai neri dai bianchi) ha impressionato anche per il clima di insicurezza e paura che regna in varie parti del paese: a tal punto che alcune abitazioni sono munite di «recinti ad alta tensione elettrica» per respingere i malintenzionati.
Intanto l’anziano e saggio Nelson Mandela raccomanda a tutti «un piano di ricostruzione e sviluppo che nasca dall’anima».

Data la diversità culturale, padre Zaccaria ha ascoltato con interesse soprattutto gli interventi riguardanti le nazioni dell’America. Nazioni socialmente travagliate. Fa testo l’Argentina (un tempo granaio del mondo), dove ieri si moriva anche di fame, mentre oggi si sopravvive alla «buena de Dios». Oppure il Venezuela, che vede crescere spudoratamente il divario fra ricchi e poveri.
Per i missionari della Consolata la scelta dei bisognosi è sempre stata una priorità. E bisognosi sono, specialmente, i popoli indigeni. In Argentina e Venezuela la loro scoperta (o riscoperta) qualifica la missione.
Gli aborigeni latinoamericani sono stati il cavallo di battaglia in tante campagne di sensibilizzazione. L’ultima in ordine di tempo è stata «Nos existimos»: ha riguardato i contadini poveri, gli emarginati urbani e gli indios di Roraima (Brasile). Ebbene, con quale gioia, il 16 aprile, i capitolari hanno salutato l’omologazione dell’area indigena Raposa/Serra do Sol di Roraima! Esultanti specialmente i padri Antonio Feandes e Laurindo Lazzaretti, nonché fratel Carlo Zacquini, operanti in loco…
E la Colombia? Da decenni, con i suoi 25 mila morti ammazzati all’anno, è dilaniata da un tasso di violenza superiore persino a quello dell’Iraq. Eppure non mancano spiragli di luce, come la Scuola di riconciliazione e perdono «Espere». È un antidoto efficace al clima di odio instauratosi nella nazione per motivi politici. «Gli effetti positivi di questa scuola – ha affermato padre Piero Trabucco, ex superiore generale – potrebbero suggerire al nostro Istituto di favorire l’iniziativa ovunque svolgiamo un’azione missionaria».
Dunque, riconciliazione e perdono, però non disgiunti da verità e giustizia.
Poiché i missionari della Consolata sono intercontinentali, padre Zaccaria ha accolto con stupore l’analisi sul Nordamerica (Stati Uniti e Canada). Qui la multiculturalità è, nello stesso tempo, dono e fardello. In ogni caso assurge a sfida che i missionari, sia di cultura inglese che francese, vogliono affrontare con coraggio.
E coraggioso è stato padre Leonard De Pasquale, superiore del Nordamerica, nell’affermare che «gli Stati Uniti esportano la loro ideologia di democrazia in un modo non accettabile da tutti i cittadini. Di conseguenza molti si sono opposti all’aggressione degli Usa all’Iraq, come pure alla politica di controllo e dominio del mondo».

Valigia in mano e borsa a tracolla, padre Zaccaria King’aru lascia Rua Itá 381 – São Paulo, sede dell’11° Capitolo generale. Poiché assai difficilmente vi rimetterà piede, il missionario, prima di andarsene definitivamente, si volta a guardare per l’ultima volta… e incontra sulla facciata dell’edificio l’altorilievo della Consolata: bislungo, sproporzionato, impassibile. Non sorride questa Madonna; anzi, non ha neppure volto. Ma è volutamente incompiuta.
E forse, proprio per questo, è eloquentissima. Senza manto, indosserà e il sari indiano e il pareo tanzaniano e il ruana colombiano. Senza sguardo, avrà gli occhi verdi della mamma canadese, quelli a mandorla della coreana o le pupille estasiate dell’etiope.
Consolata e consolatrice, sorella e madre di tutte le genti.

Box 1

«Il nostro stile
di vita e missione»

È il titolo del documento ufficiale prodotto dall’11° Capitolo generale. Consta di due parti. La prima offre una sintesi articolata sul come i missionari della Consolata:
– sono discepoli di Cristo,
– vivono l’appartenenza al proprio istituto,
– manifestano la comunione,
– prestano servizio missionario,
– dispensano i misteri di salvezza,
– amministrano i beni materiali,
– sono organizzati.

L a 2a parte (assai diversa dalla prima) comprende alcune «schede» con proposte operative attinenti a:
– santitá di vita come orizzonte della missione,
– comunitá multiculturale e interculturale,
– comunione e collaborazione con altre forze,
– attenzione all’ad gentes degli areopaghi,
– giustizia, pace e integritá del creato,
– dialogo interreligioso,
– formazione di base e permanente,
– fratelli missionari consacrati,
– animazione missionaria e vocazionale,
– mezzi di comunicazione sociale
– sfida dell’Aids.

N el sessennio 2005-2011 la direzione generale dei missionari della Consolata sarà composta dai padri:
– Aquiléo Fiorentini, superiore generale
– Stefano Camerlengo, vicesuperiore e primo consigliere
– Francisco de Asís Jesús López Vásquez, secondo consigliere
– António Manuel de Jesus Feandes, terzo consigliere
– Matthew Ouma, quarto consigliere

C omplessivamente i missionari della Consolata sono un migliaio. Provengono da Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Congo, Corea del Sud, El Salvador, Eritrea, Etiopia, Inghilterra, Italia, Kenya, Mozambico, Polonia, Portogallo, Spagna, Tanzania, Usa, Uganda, Uruguay, Venezuela. Operano, in comunità inteazionali, in questi stessi stati (esclusi Cile, El Salvador, Eritrea, Polonia, Uruguay). Ma sono presenti anche a Gibuti.

Francesco Beardi




Solo Perrier e San Pellegrino (diario minimo dal Brasile)

A Campos do Jordao, Cortina tropicale fra le montagne che dividono San Paolo da Rio de Janeiro e Minas Gerais, la signora che mi ospita è arrivata in elicottero: Sandra Papaiz, proprietaria della grande fabbrica ereditata dal padre, sbarcato dal Friuli negli anni Cinquanta, ascolta i commenti sul nuovo papa degli amici che si preparano alla cena nella casa dalle verande di legno coperte da fiori. "Finalmente toerà la messa in latino…". È una signora insolita: proprietaria della fabbrica attorno alla quale è cresciuta la cittadina di Diadema, centomila abitanti nei gironi di San Paolo. Ha sconvolto i compagni di golf diventando assessore di un municipio governato da un braccio destro di Lula, Pt, Partito dei lavoratori. Per vent’anni, Sandra ha visto Lula, allora sindacalista, insultare il padre, sbracciarsi in cortile con l’altoparlante. Ed oggi, da donna pratica, si è resa conto che il continente Brasile dalle gambe molli aveva bisogno di un uomo così.
Come ogni America Latina, il Brasile rappresenta due società parallele. Nelle città mostro (San Paolo, 21 milioni di abitanti) si sfiorano, ma non si mescolano mai. I problemi restano lontani: per gli uni, produrre, esportare; per gli altri, mangiare una volta al giorno. Il continente che ha i piedi nell’acqua della foresta umida, con bacini giganteschi alle spalle di ogni metropoli, soffre la sete. Il cacao del nord est diventa legna secca. Migliaia di contadini senza lavoro assediano le città. I fiumi dell’Amazzonia, avvelenati dagli sbarramenti delle dighe, fanno marcire le foreste sepolte sott’acqua e attorno ai grattacieli nessuno beve dal rubinetto. Solo acque minerali. Navi cisterna ogni giorno. Impossibile gustarne il sapore nei ristoranti dove gli stranieri vanno a pranzo. Il cameriere rifiuta la richiesta di acqua brasiliana. "Solo Perrier e San Pellegrino, signore. La nostra clientela beve così".

Un mattino i giornali annunciano la buona notizia. L’occhio di un satellite scopre che le favelas di Rio e San Paolo hanno smesso di allungarsi. La buona notizia è che nei terreni attorno possono crescere i palazzi dei nuovi quartieri giardino. La cattiva notizia è che le favelas si spostano verticalmente verso discariche sterminate dove dal mattino alla sera donne e ragazzi frugano per recuperare qualcosa da vendere o qualcosa da mangiare, scarti che l’appetito del popolo delle acque straniere non ritiene ormai commestibili. Quattro milioni di vagabondi sopravvivono nella capitale industriale del paese, migliaia di ragazzi con l’Aids vagano sui marciapiedi impestati da cinque milioni di automobili. Per fortuna, c’è la maggior concentrazione di elicotteri privati del mondo. Nessuna persona sensata va al lavoro in automobile, ripetono i vacanzieri di Campos do Jordao. Autostrade cittadine a sei corsie paralizzate dal mattino alla sera. Appuntamenti che gonfiano ritardi imbarazzanti, ma nessuno si imbarazza: "Siamo a San Paolo…", è il sorriso del signore arrivato un’ora dopo. Nel cucinone di don Julio Lancellotti, prete di strada, la cena è un po’ di verdura. La sua rete di Case della Vita raccoglie adolescenti alla deriva col sangue avvelenato dall’Aids. Sono tornati stanchi da un pomeriggio di preghiera che i preti amici di don Julio hanno organizzato attorno alla cattedrale per ricordare cinque barboni uccisi e bruciati da squadre della morte. Per la magistratura sono poliziotti in libera uscita. Non muoiono solo barboni: quattro ragazzi al giorno restano senza vita nelle discariche. Sempre colpi d’arma da fuoco. Le ragazze e i ragazzi di don Julio stasera hanno gli occhi che si chiudono sulla minestra. Magliette colorate, pettinati con cura, dita sporche di biro. Con il prete guardiamo Porta a Porta, parla il Socci che distribuiva miracoli nelle dirette di Excalibur: sta ricordando di aver presentato un anno fa il libro del cardinale Ratzinger: "Dallo spiritualismo profondo e costruttivo. In America Latina è facile fare della sociologia dimenticando la dottrina della chiesa". Anche don Julio allarga l’orecchio. Sospira e alza gli occhi verso la tavola ormai vuota. "Di questi ragazzi, due o tre moriranno i prossimi mesi. Facile, dice il signore della Tv di Roma".

Il mondo della disperazione e della ricchezza esibita a volte si toccano. Il condominio dove abita il signor Daniel Dantas la cui professione consiste nel mettere d’accordo affari e politica, sembra un gigantesco mobile dai cassetti aperti in modo diverso: terrazze più larghe, terrazze più corte. Vogliono dire piscine piccole e piscine grandi. Ne è orgoglioso. Chiacchieriamo mentre una figlia bambina nuota nella vasca e il cameriere serve il caffè. Sposto i rami delle piante verdissime che separano la terrazza dalla realtà e mi affaccio su una favelas della quale non vedo la fine: su e giù per le colline di Morumbi. "Paraisopolis", spiega Dantas con allegria. "Città del paradiso. Centomila abitanti, forse di più. Qualcuno vuole costringerli ad andare via. L’altra sera sono bruciate due strade. Povera gente, mi spiace, ma un posto così bello sepolto da lamiere e cartoni, è una vergogna che dovremo risolvere". Ascolta le nostre chiacchiere Carmita, figlia grande. "Lavora anche il sabato", sorriso del padre orgoglioso. Spiega che il posto è nuovo: sta per essere aperto lo shopping centre più "in" della città, Villa Daslu. Proprio "villa" perché la proprietaria è italiana: Eliana Tronchesi. "È lo show room delle meraviglie". Entro in un cortile abbracciato dalle logge di un palazzo rinascimento fiorentino. Attraverso salotti dove, per distrazione, al posto dei libri la biblioteca accoglie giornielli di Bulgari, tanti Armani, creme di bellezza americane, abiti appena sfilati a Parigi. Al piano di sopra salotti per uomini. Naturalmente, tutto falso: dai tappeti all’architettura che ricorda le colonne di Pompei, Califoia. Prezzi: da capogiro. Col prezzo di un orologio don Julio potrebbe mantenere per mesi i suoi venti ragazzi. C’è sempre una graziosa padrona di casa che offre il caffè, o una tartina, due dita di champagne, sulle poltrone delle stanze infilate a binocolo, una dopo l’altra. Non vorrei si pensasse ad una villa modello Fiesole. Se l’architettura ha brutalizzato nella banalità l’armonia fiorentina, la dimensione spaventa. Villa Daslu è lunga come Versailles. Sul tetto del magazzino, in fondo a un cortile secondario, due piattaforme aspettano gli elicotteri delle signore che hanno fretta. Ecco la città del futuro: falso rinascimento assediato da una disperazione disperata. Vite e lingue diverse, babele nelle stesse strade.

Fra quarant’anni, avverte un rapporto Onu, metà della popolazione del mondo sarà urbanizzata. San Paolo, o Città del Messico, mostri invivibili, si moltiplicheranno a macchia d’olio ovunque. Le differenze sociali esploderanno. Immondizie, agenti armati attorno alle zone rosa. Fuori, gli stracci, milioni di stracci. Nel 1933 Levi Strauss, professore all’università di San Paolo, aveva previsto la follia di cento chilometri di palazzi: avrebbero distrutto la foresta dell’altopiano trasformando il rio Pinheiro dove Levi Strauss, Braudel e il nostro Ungaretti andavano a pescare, in una fogna che ammorba ricchi e poveri: vapori nauseabondi. "Li respireranno assieme, notabili e diseredati in qualcosa finalmente uguali".

Maurizio Chierici

Maurizio Chierici




BRASILEMa il sole non brilla ancora

Missionario della Consolata kenyano, studente
nel seminario di San Paolo, Daniel si prepara
alla missione collaborando alle attività parrocchiali nella favela di Heliopolis, il cui nome significa
«città del sole». Ma la realtà è ben differente.

È una delle 1.999 favelas con cui si espande la megalopoli di San Paolo. È nata nel 1970, quando alcune famiglie, rimosse dalla prefettura da un quartiere della metropoli brasiliana, per fare spazio a una grande avenida, si rifugiarono a sud della città.
Negli anni seguenti la favela si è ingrandita gradualmente, con l’arrivo di migrati provenienti dal nord-est del Brasile, in cerca di lavoro e nella speranza di una vita più dignitosa. Oggi, conta oltre 85 mila abitanti: è una delle più grandi favelas del Brasile. Di questa popolazione oltre 30 mila sono bambini in età scolare, tra i 7 e i 14 anni.
Afflitta da enormi carenze strutturali e sociali, oggi, Heliopolis (città del sole) è ben lontana dallo splendere suggerito dal nome: il 40% delle abitazioni non ha adeguate condizioni igieniche, con il conseguente dilagare di malattie d’ogni genere; oltre il 60% delle strade non è asfaltato; più di 250 famiglie vivono in baracche che rischiano di franare alla prima pioggia torrenziale; costruzioni di ogni tipo formano un labirinto in cui è difficile districarsi.
Povertà e disoccupazione sono all’origine di enormi problemi sociali: violenza, droga, fame, emarginazione, analfabetismo (14 milioni di brasiliani non sanno leggere né scrivere). Ai problemi locali, infatti si aggiungono gli squilibri che affliggono il resto del Brasile.
Pur essendo l’ottava potenza economica mondiale, il Brasile è il paese con la maggiore disuguaglianza al mondo nella ridistribuzione di ricchezza, concentrata in mano a pochi nababbi. Per cui, come dimostrano le statistiche ufficiali, oltre 32 milioni di brasiliani sono al di sotto della soglia della povertà e il 29% vive con meno di un euro al giorno.
I sociologi definiscono tale miseria «apartheid sociale»; e questa è ben visibile a Heliopolis. Per i più fortunati, cioè per chi ha un lavoro, il salario oscilla tra i 90 e i 400 euro al mese. La paga minima copre appena l’1% del cosiddetto «paniere» dei beni di prima necessità: ciò significa che migliaia di persone non guadagnano a sufficienza neppure per comprare gli alimenti.

Dal 1997 nella favela di Heliopolis lavorano i missionari della Consolata, da quando, cioè, si sono ritirati i missionari di un’altra congregazione religiosa.
Oltre alla necessità di assistenza religiosa alla popolazione, l’accettazione di questo nuovo campo di apostolato è motivata dalla vicinanza al seminario teologico: la favela offre un’opportunità ai giovani studenti di prepararsi concretamente alla missione.
Quando i missionari della Consolata incominciarono la loro presenza, Heliopolis non era ancora parrocchia, ma un’«area pastorale», organizzata in comunità cristiane di base, che cercavano di conciliare la loro fede con l’impegno sociale, la solidarietà e l’aiuto reciproco, lottando per la casa e altri diritti basilari.
Incontri di preghiera, celebrazioni eucaristiche, catechesi, novene, corsi biblici e altre attività religiose avvenivano in abitazioni private. Finché ci si è organizzati per trovare terreni e costruirvi spazi adeguati alle varie attività comunitarie.
Il 14 dicembre del 2003 l’«area pastorale» di Heliopolis è stata elevata a parrocchia e padre Ricardo Gonçalves Castro, dopo tanti anni di lavoro nella zona, è stato nominato parroco.
La parrocchia è dedicata a santa Paulina, la quale, nata in Italia, a 9 anni andò in Brasile, dove visse e morì, diventando la prima santa brasiliana che dedicò tutta la vita al servizio dei poveri.
La nuova parrocchia è composta da sei comunità: San Giuseppe Operaio, Santa Elisabetta, San Benedetto, Immacolata Concezione, Sant’Angela e Sant’Antonio. Quella di San Giuseppe è sede parrocchiale; la sua chiesa è stata una delle prime ad essere costruita, con l’aiuto di benefattori stranieri e la collaborazione della comunità.
La cappella della comunità di Santa Elisabetta, con l’adiacente centro sociale, è nata per l’iniziativa di gruppi del quartiere, che hanno comperato il terreno e offerto praticamente tutta la mano d’opera. Lo stesso coinvolgimento locale si è avuto anche con le comunità di San Benedetto e Sant’Antonio.
Sant’Angela, invece, ceduta alla parrocchia di Santa Paulina dai padri Oblati di San Giuseppe, era già una comunità matura, con cappella e centro sociale. Solo la comunità dell’Immacolata non ha ancora alcuna struttura e continua a radunarsi nelle abitazioni private.

Scopo della nostra presenza è, naturalmente, l’evangelizzazione e la promozione umana. Oltre al parroco e ai seminaristi, nella parrocchia di Santa Paulina lavorano due comunità religiose: le suore dell’Immacolata Concezione e le Francescane Angeline. In concreto, tale lavoro abbraccia tutte le normali attività di una parrocchia.
«I l lavoro missionario a Heliopolis richiede pazienza e tempi lunghi – afferma padre Ricardo, che da tempo vive nella favela -. L’organizzazione della parrocchia non è facile, anche perché la gente, abituata a vivere autonomamente, come comunità di base, stentano a inserirsi nella complessa organizzazione di una parrocchia. Ma a forza di insistere che la chiesa non è mia ma della gente, qualcosa si sta muovendo».
Molte responsabilità, infatti, sono affidate ai laici. Una volta al mese, i cornordinatori e animatori di tutte le comunità, si radunano insieme al parroco, ai seminaristi e alle suore per valutare il lavoro svolto, programmare e cornordinare le attività essenziali della parrocchia: catechesi, liturgia, cura degli anziani, infanzia missionaria, pastorale dei bambini, dei giovani e delle famiglie.
Esistono, poi, diversi gruppi e movimenti impegnati in varie attività religiose e sociali: gruppo delle donne, gruppi di preghiera, di studio della bibbia, di alfabetizzazione, di visite alle famiglie.
Ciò non significa che a Santa Paulina sia tutto rose e fiori. La partecipazione a incontri e attività è molto varia, anche perché si svolgono di sera, dopo una giornata di duro lavoro. Così pure la domenica: alcuni uomini lavorano anche nei giorni festivi; altri approfittano per riposarsi o per migliorare la propria casa.
Sorte migliore hanno le iniziative rivolte a donne, adolescenti e bambini. La pastorale dei bambini, che si occupa della loro salute, per esempio, è inserita nel programma a livello nazionale. Secondo le statistiche, il 41% dei bambini tra i 6 e i 14 mesi sono denutriti; uno ogni 16 muore prima di raggiungere i 5 anni, per malattie che possono essere prevenute.
A Heliopolis ci occupiamo dei bambini da zero a sei anni: una volta al mese essi vengono al centro sociale per essere pesati e nutriti; negli altri giorni, gli agenti di pastorale li visitano a domicilio. Il programma comprende pure la formazione delle mamme, per insegnare loro a proteggere la salute dei loro figli.
Il coinvolgimento delle comunità riguarda pure i mezzi per sostenere le loro attività. E bisogna dire che sono ingegnose: organizzano lotterie e bazar, cercano liberi contributi e donazioni di vario genere.

Il problema più grave di Heliopolis è certamente la violenza: la maggior parte degli assassinii sono provocati dai trafficanti di droga. Molta gente è coinvolta nello spaccio, non per scelta, ma come mezzo di sopravvivenza.
La chiesa cerca di rispondere alla sfida della violenza soprattutto con la catechesi familiare, che, dall’inizio dell’anno, ha subito una svolta significativa: stiamo coinvolgendo i genitori nella formazione religiosa dei loro figli. Sono essi che, in casa, danno lezioni di catechismo, con l’aiuto di un catechista, che visita regolarmente le famiglie. In tali visite si discute dei mezzi per difendere i più piccoli dai pericoli della droga.
Per ora ci sembra il metodo migliore. È impossibile prendere di petto i trafficanti: si rischierebbe la vita. La loro presenza è di per se stessa causa d’insicurezza, anche per noi seminaristi stranieri, almeno all’inizio: non essendo conosciuti da tutta la popolazione, si rischia di essere scambiati per trafficanti. Una volta raggiunte le comunità, ci sentiamo al sicuro.
Ad aiutarci nella lotta contro la violenza si è unito un organismo non governativo: l’Unione dei nuclei e associazioni di abitanti di Heliopolis (Unas). Da 5 anni, all’inizio del mese di giugno, Unas e comunità cristiane organizzano la «Marcia della pace» per chiedere la fine della violenza nella favela. Il motto dell’ultima manifestazione era: «La pace comincia qui».
La collaborazione tra chiesa e Unas comprende altre iniziative per migliorare la formazione di 1.100 ragazzi e adolescenti: per toglierli dalla strada sono stati creati spazi di incontro per il tempo libero; vengono organizzate attività culturali e sportive, come scuola di teatro e di pallone, dopo-scuola per supplire alle carenze dell’insegnamento statale.
Molte di queste attività per i più piccoli sono gestite dai giovani, preparati appositamente per tale responsabilità. Per i giovani, inoltre, organizziamo corsi di abilitazione per entrare nel mercato del lavoro, evitando così di cadere nelle maglie della droga.

Daniel Mkado Onyango