I neri, ancora incatenati – Speciale BRASILE

Il conto è presto fatto: tre secoli
di schiavitùe uno di libertà, fanno
quattrocento anni di sfruttamento. Cosìi neri brasiliani riassumono la loro storia… in attesa di riscatto.

AFRICA ADDIO
All’inizio sono gli indios a essere costretti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Poi qualche colono importa illegalmente alcuni schiavi neri. Forti e muscolosi, danno risultati eccellenti. Le poche gocce diventano un diluvio.
Nel 1539 è inoltrata a Lisbona la richiesta di schiavi africani. Nel 1550 la tratta dei neri diventa sistematica, con tutti i timbri dell’ufficialità. Nel 1570 inizia l’importazione in massa.
A mano a mano che si sviluppano industria zuccheriera e coltivazione del tabacco, industrie minerarie e piantagioni di caffè, il traffico negriero aumenta di anno in anno con un crescendo vertiginoso. In tre secoli arrivano in Brasile quasi 4 milioni di africani. Nella tabella seguente sono riportate le cifre più attendibili, calcolate per difetto.
Africa-Bahia, viaggio diretto, ma terribile: metà degli schiavi periscono in alto mare. Solo i più giovani e forti sopravvivono alle burrasche della traversata, con poco cibo e acqua rancida. «Ne muoiono troppi sulle navi negriere. Sotto sotto non ci sarà un imbroglio?» si lamentano i sovrani portoghesi; non per compassione, ma perché riscuotano le tasse per ogni nero che sbarca vivo.
I neri sbarcati in Brasile appartengono a due gruppi principali: bantu e sudanesi. Il primo proviene dal Mozambico (angico), Congo e Angola (cabinda, bakongo, benguela). Il secondo è composto da etnie e regni affacciati sul Golfo di Guinea: minas, jeje, ewe, nagô (di lingua youruba, Nigeria), haussá e tapa. Gli ultimi tre gruppi sono islamizzati, per cui sono detti muçulmis o più comunemente malês.
Portati al mercato, gli schiavi sono subito sottoposti al processo di distruzione d’identità e memoria storica: i preti li battezzano per farli cristiani; i compratori li dividono: marito dalla moglie, genitori dai figli; quelli di una stessa cultura sono mescolati in altri gruppi etnici; così non avranno la possibilità di fare combutta e ribellarsi.

A SUON DI FRUSTA
Una certa letteratura brasiliana parla di «schiavitù soave» e «signori buoni». La schiavitù è crudele per natura; se cessa di esserlo, non è perché il padrone diventa migliore, ma perché il servo si rassegna all’annullamento della sua personalità. Di fatto la giornata non ha nulla di «soave» per i neri brasiliani: lavorano dalle quattro del mattino fino a tarda sera. Toati alla senzala trovano altri lavori da sbrigare. Alle nove vanno a dormire: le porte sono chiuse; chi ha grilli per la testa viene incatenato.
Disobbedienza e impertinenza sono pagate a colpi di chicote (frusta). Legati al pelourinho (palo della gogna), i colpevoli vengono fustigati in pubblico, perché gli altri schiavi imparino la lezione. A volte essi vengono consegnati al calabouço, luogo di tortura istituzionale, dove altri fanno il lavoro sporco: il padrone deve solo stabilire il numero di frustate e avrà la coscienza a posto.
Se il servo alza la mano contro il padrone o un familiare, gli può essere tagliata una o tutte e due le mani, o subire torture ancor più sadiche, secondo le Ordenações Filipinas (1603). Un editto reale del 1741 ordina che lo schiavo fuggitivo sia marchiato con una grande F sulle spalle, impressa con un ferro rovente; di tagliargli un orecchio se recidivo.
Di fatto il signore ha sullo schiavo potere assoluto, compreso quello di vita o di morte. Lo può vendere, torturare o liberare. La legge lo protegge in ogni caso. Agli schiavi, invece, considerati come cose o bestie da soma, non è riconosciuto alcun diritto; neppure quello di fondare una famiglia. La proibizione di separare i coniugi e le madri dai figli minorenni arriverà solo nel 1871, 17 anni prima dell’abolizione della schiavitù.
Naturalmente tutto dipende dal buon cuore del padrone. In generale, però, i signori sono pomposi e ignoranti; spesso più ignoranti di certi schiavi, come i malês: poliglotti e matematici, contabili maliziosi, essi tengono i conti e fanno da precettori ai figli del padrone.

RESISTENZE
Molti neri portati in Brasile sono guerrieri e figli di re: nessun castigo può piegare la loro fierezza. La maggioranza fa finta di sottomettersi; ma poi, lontana dall’occhio del padrone, estrae dalla memoria riti e feticci per riaffermare la propria cultura e gettare il malocchio sugli oppressori.
Le forme di resistenza alla schiavitù sono molte e variegate: dall’assassinio del padrone e suoi attendenti al suicidio individuale e collettivo, al banzo, tragica nostalgia che approda alla morte. Con la propria fine lo schiavo sa di privare il padrone di un importante capitale.
La forma di protesta più frequente, però, è la fuga per rifugiarsi nei quilombos: villaggi fondati nel cuore della foresta per riconquistare la propria libertà. Ne sorgono a migliaia, dappertutto e di ogni dimensioni. Spesso vi confluisce tutta la gamma degli oppressi della società schiavista: indios, meticci, bianchi impoveriti, giovani che fuggono il servizio militare. Nei villaggi più consistenti i neri organizzano tutti gli aspetti della vita: sociale, politica, economica, religiosa e militare, soprattutto per respingere i tentativi di riportarli in cattività.
Il quilombo più famoso è quello di Palmares. Iniziato prima del 1600, tra i monti della Serra Barriga, nell’attuale stato di Alagoas, raggiunge il massimo splendore verso il 1630, quando gli olandesi occupano Peambuco. Palmares si organizza in repubblica confederale di 18 villaggi, presieduta da un capo, chiamato «re», e da un consiglio. Lo sviluppo agricolo permette di vendere il surplus ai bianchi circostanti.
Espulsi gli olandesi (1654), per quasi 70 anni il governo di Peambuco e i signori dello zucchero cercano inutilmente di distruggere Palmares. Nel 1695 il quilombo viene spazzato via da un’armata di 11 mila uomini, il più grande esercito organizzato in periodo coloniale.
Nella resistenza si distingue il capo Zumbi. Nato libero a Palmares, egli rifiuta di barattare la libertà e indipendenza del suo popolo col perdono e terre, offertegli dal governatore di Peambuco e dallo stesso re del Portogallo, a patto che cessi di difendere la causa degli schiavi.
Tradito dai collaboratori, Zumbi è catturato e decapitato a Recife il 20 novembre 1695. Oggi egli è una bandiera per tutti gli emarginati brasiliani, simbolo di lotta per la libertà e la costruzione di una nazione senza padroni e senza schiavi.
Intanto le rivolte dei neri si propagano anche alle città. Le più note scoppiano a Salvador de Bahia: nel 1807, 1809, 1813 si ribellano gli haussás islamizzati; nel 1826-30 si rivoltano i nagôs, che finiscono in un bagno di sangue; nel 1835 ancora gli haussás: sono massacrati tutti, dai bambini appena nati ai vecchi cadenti. Non minore sconcerto suscita la rivolta di Tupá (São Paulo, 1813), dove 600 neri attaccano tutte le proprietà della regione e vengono eliminati senza misericordia.
PADRONI «LIBERATI»

Nel secolo XIX la condizione disumana degli schiavi è denunciata con veemenza in tutto il mondo. Le motivazioni umanitarie si mescolano a quelle di pura convenienza. José Bonifacio de Andrada, «padre dell’indipendenza» del Brasile, dimostra come la schiavitù sia un’assurdità economica e causa di corruzione sociale: «Venti schiavi richiedono 20 zappe, che si possono risparmiare con un solo aratro… Colui che vive del sudore degli schiavi, vive nell’indolenza e l’indolenza porta al vizio».
Sotto le pressioni intee e inteazionali, nel 1850 il Brasile proibisce la tratta degli schiavi (legge Eusebio de Queiroz). Questi vengono importati di contrabbando; ma i prezzi sono proibitivi. Inoltre, nell’economia capitalista, il lavoro salariale è ormai più conveniente della schiavitù, che comporta il mantenimento di africani tristi e ribelli, di «merce» improduttiva come vecchi e bambini.
Ci pensa il governo a «liberare» i padroni dal mantenere tante bocche «inutili»: nel 1871 la «legge del ventre libero» affranca tutti i nati dopo tale data; nel 1885 è la volta degli schiavi sessantenni. Nel 1888, quando la regina Isabella firma la «legge aurea», che abolisce definitivamente la schiavitù, appena il 5,6% della popolazione nera beneficia di tale evento. Ormai di veri schiavi ne sono rimasti pochi: molti sono già affrancati, altri si sono liberati da soli, con la fuga.

RAZZISMO ALLA BRASILIANA
La «legge aurea» introduce il Brasile nel consesso delle nazioni civili; ma non cambia nulla per i neri. A suo tempo José Bonifacio aveva suggerito come procedere all’affrancamento: «Fate dei neri degli uomini liberi e fieri; offrite loro incentivi, proteggeteli, ed essi si riprodurranno e diventeranno cittadini preziosi».
I neo-liberti, invece, restano senza casa, né terra, né famiglia (0,8% di sposati). Per loro non c’è nessuno degli incentivi concessi agli immigrati. Analfabeti al 99%, buttati senza alcuna preparazione nel mondo competitivo del capitalismo, i neri costituiscono da subito un serbatornio di manodopera usa e getta, in balia del mercato del lavoro e della miseria più nera: cessano di essere schiavi e diventano «il problema» del Brasile, da rimuovere al più presto.
La società brasiliana pensa di risolvere «il problema» con lo «sbiancamento» della popolazione, favorendo l’entrata massiccia di immigrati europei dalla pelle più chiara possibile. L’idea è bene illustrata da Roosvelt, presidente Usa, in visita al paese nel 1914: «In Brasile l’ideale principale è la scomparsa del nero, gradualmente assorbito nella razza bianca. L’enorme immigrazione europea tende, decenni dopo decenni, a rendere il sangue nero un elemento insignificante in tutta la nazione».
Qualcuno calcola il tempo necessario per completare tale processo di sbiancamento. Così scrive, e prega, Afrânio Peixoto nel 1923: «Forse impiegheremo 300 anni per mutare l’anima e sbiancare la pelle… per depurare questo immane miscuglio umano. Avremo albumina sufficiente a raffinare tutta codesta scoria? Dio ci assista, se è brasiliano».
La preghiera è rimandata al mittente: i brasiliani di pelle nera aumentano di anno in anno, fino a formare oggi il 70% della popolazione del paese; e non hanno intenzione di sbiancarsi, né di continuare a essere dominati.
Per spezzare le catene dei meccanismi di oppressione e rivendicare i loro diritti, i neri si organizzano: nel 1931 nasce il Fronte brasiliano nero e promuove una forte presa di coscienza economica e politica. Il dittatore Vargas lo sopprime nel 1937.
Negli anni ’70 sorgono altri movimenti di «coscientizzazione» della gente di colore e della società brasiliana in generale: Unione e coscienza nera, Movimento nero unificato, gruppi di agenti pastorali neri… Arriva qualche risultato: i primi deputati neri entrano in parlamento; a scuola, radio, televisione e nei giornali vengono dibattuti i problemi della popolazione di colore.
Matura così una duplice presa di coscienza: la popolazione nera, da una parte, riacquista la memoria del ruolo storico giocato nello sviluppo del paese e rivendica il proprio posto nella situazione presente. Dall’altra parte, i brasiliani nel loro insieme prendono coscienza che, senza i neri, il Brasile non sarebbe il Brasile.
Da decenni si parla di «democrazia razziale»; a cento anni dall’abolizione della schiavitù il paese ha riscritto la costituzione, affermando che «la pratica del razzismo costituisce un crimine imprescrittibile, soggetto alla pena di reclusione»; ma il nero continua a essere discriminato in tutti i campi della vita sociale, politica, economica e religiosa.
«Il Brasile resta uno dei paesi più razzisti del mondo – afferma José de Souza Martins, docente di sociologia -. È un razzismo diverso da quello nordamericano; non si vede; la gente tace, ma discrimina. I ghetti sono sempre neri. Nelle università pochi neri e tanti bianchi; il rapporto si rovescia nelle prigioni. E quando un nero ce la fa, diventa campione di calcio o re del samba, ripetono quello che dicevano di Pelé: “Ha tanto buonsenso che sembra un bianco”».

Benedetto Bellesi




In barba ai “cattolicissimi”

Alla Spagna, l’altro beneficiario della spartizione del globo, toccano l’America e, dopo varie scaramucce, le Filippine. A differenza del Portogallo, che si accontenta di occupare punti strategici lungo le coste, la Spagna cerca di stabilirsi in profondità. Conclusa la conquista comincia l’evangelizzazione sistematica. I re di Spagna s’interessano personalmente dell’amministrazione ed evangelizzazione dei territori. E prendono sul serio gli impegni imposti dal patronato. Dal 1535 al 1592, per esempio, sono inviati nelle colonie 2.682 religiosi e 376 preti diocesani. In un secolo sono create 34 diocesi in America Latina.

Il vangelo in America

«I nostri re ci hanno mandato non per soggiogarvi, ma per insegnarvi la vera religione» dice Cristoforo Colombo agli indigeni de La Española (Haiti), mentre pianta la croce al suolo, prendendo possesso dell’isola in nome dei re di Spagna. Una promessa mantenuta solo per metà: di fatto gli indigeni verranno soggiogati; quanto all’insegnamento della vera religione è tutto merito dell’azione della chiesa.
Le Antille sono le prime a ricevere coloni e missionari: una quindicina di francescani (1502), seguiti da un gruppo di domenicani. Nel 1511 vi sono già tre diocesi. Ma non è una facile impresa. I missionari si scontrano spesso con i propri compatrioti: soldati, mercanti, avventurieri d’ogni risma che, di per sé, non sono ostili alla religione, anzi. Ma della religione hanno un concetto talmente distorto, da non saper più distinguere tra fede e cupidigia, tra devozione e istinto. Per il fatto di essere cristiani, si sentono autorizzati a sottomettere chiunque e con qualsiasi mezzo.
Nell’intento di reperire manodopera per la coltivazione delle terre occupate e il lavoro nelle miniere, la Corona propone l’istituzione di un sistema già collaudato in patria: l’encomienda. Ai proprietari terrieri viene dato un certo numero di indigeni con l’impegno di nutrirli, proteggerli e istruirli nella fede cristiana; questi ripagano con il lavoro. I coloni trattano gli indigeni come bestiame umano: deportazioni, smembramenti di famiglie, lavori forzati.
Contro tali abusi insorgono i domenicani. Se ne fa portavoce Antonio de Montesinos: «Non vi salverete più dei turchi. Siete tutti in peccato mortale e in esso vivete e morite, a causa della tirannia con cui trattate questa povera gente» tuona dal pulpito il 21 dicembre 1511. Il fatto è raccontato da Bartolomeo de las Casas, domenicano pure lui, strenuo difensore dei diritti degli indigeni, tanto da meritarsi l’appellativo di «padre e protettore degli indiani».

Nel 1524, due anni dopo la mostruosa conquista operata da Ferdinando Cortés, arrivano in Messico i «dodici apostoli» francescani. A sette anni di distanza, il primo vescovo di Città del Messico, Zumárraga, traccia un bilancio del lavoro svolto: «Un milione di persone sono state battezzate; 500 templi di idoli distrutti; 20 mila dipinti di dèmoni bruciati. Un fatto ancor più meraviglioso: una volta gli abitanti di questa città sacrificavano ogni anno ai loro idoli 20 mila cuori umani; oggi offrono a Dio sacrifici di lode, grazie all’insegnamento e buon esempio dei religiosi». Dopo 15 anni i battezzati erano 6 milioni. La sera i frati andavano a dormire con il «crampo da battesimo». Lo testimonia il più famoso dei «dodici apostoli», Toribio da Benavente, detto Motolinía, cioè il povero.
Ai francescani si uniscono domenicani, agostiniani e, più tardi gesuiti, fondando scuole, ospedali, orfanotrofi e lanciandosi in una spettacolare gara di dedizione e carità. Il cristianesimo viene costruito sulla rovina della religione e cultura azteca, ma non mancarono tentativi di adattamento. Per trasmettere il messaggio del vangelo i missionari sfruttano gusti e attitudini degli indigeni: pitture, teatro religioso, gesti simbolici, splendore del culto ed esuberanza architettonica delle chiese.
A differenza dei conquistatori, i missionari non hanno alcuna intenzione di ispanizzare gli indiani. Fondano le loro missioni lontano dai villaggi dei coloni; imparano le lingue indigene; preparano grammatiche, dizionari e catechismi e tendono a capire in profondità i popoli che evangelizzano.
In questo campo si distingue soprattutto il francescano Beardino da Sahagun: scrive la Storia generale delle cose della Nuova Spagna (Messico), frutto di 40 anni di ricerche sulle antiche usanze religiose azteche; a mano a mano che procede nella descrizione, s’innamora dei popoli descritti, fino a sognare, insieme ad altri missionari, uno stato cristiano e messicano libero dalla colonizzazione. Tale simpatia suscita i sospetti delle autorità; Filippo II fa distruggere tutte le cronache scritte dai missionari. L’opera di Sahagun si salva e sarà pubblicata solo nel XIX secolo.

Altro centro di evangelizzazione è il Perù. Vi arrivano prima i domenicani nel 1531; 13 anni dopo sono già 55. Seguono i francescani (1540), agostiniani, mercedari, gesuiti (1568). Questi si dedicano all’insegnamento e alla linguistica. A Lima viene fondata l’università, centro culturale per tutta l’America Centrale e Meridionale.
L’organizzazione della chiesa in Perù è tutto merito di Toribio de Mogrovejo: conosce la lingua degli incas, il quechua, come quella insegnatagli da sua madre; raduna sinodi e progetta piani pastorali; visita l’immensa diocesi da capo a fondo e a più riprese.
Il Perù diventa centro di irradiazione del vangelo nelle regioni confinanti. Francesco Solano, il «taumaturgo del Nuovo Mondo», evangelizza gli indios dell’Argentina. Gesuiti e francescani penetrano nel Cile e predicano agli araucani. Il domenicano Alfonso di Montenegro fonda la chiesa in Ecuador. San Luigi Bertrand, domenicano, è l’apostolo della Colombia.
Alla fine del secolo XVI, la chiesa è saldamente impiantata in quasi tutto il continente latino americano, con arcidiocesi e diocesi ancora vastissime, ma già in grado di trasformare quelle regioni nel continente più cattolico del mondo.
Nei due secoli seguenti l’evangelizzazione si spinge sempre più nell’interno del continente. Due missionari si distinguono per zelo e santità: il gesuita trentino Francesco Chini (1645-1711) e il francescano spagnolo Junipero Serra. Il primo evangelizza l’Arizzona; il secondo dissemina la costa della Califoia di stazioni missionarie, destinate a diventare grandi metropoli. Entrambi sono onorati come «padri fondatori» degli Stati Uniti.

Il vangelo nelle Filippine

L e Filippine sono raggiunte solo nel 1564; il lavoro missionario si presenta meno difficile e dà subito risultati clamorosi. La nuova città di Manila già manifesta la sua vocazione di capitale cattolica del Pacifico. Nel 1579 è eretta in diocesi, nel 1595 in arcidiocesi con tre suffraganee; i cattolici filippini sono 670 mila. Nel 1611, a Manila, viene fondata l’università «San Tommaso». Nel 1620 i battezzati raggiungono i 2 milioni.
I missionari sono ormai in tutte le isole dell’arcipelago. Nel 1668 alcuni gesuiti fondano una missione nelle isole Marianne (Oceania) e quattro anni dopo padre Diego Luìs de Sanvitores finisce martire: sarà beatificato nel 1985. Altri 12 gesuiti lo seguono nel martirio. Soppressa la Compagnia (1773), subentrano agostiniani e francescani.

LA TRATTA DEGLI SCHIAVI

Che cos’è che ha spinto gli europei a trasformarsi in negrieri? La richiesta di manodopera dei paesi del Nuovo Mondo. Gli indios sono stati decimati e poi non sembrano fatti per i lavori pesanti. I negri invece sono buoni lavoratori.
Nel 1518, si stacca dalle coste del golfo di Guinea il primo carico umano diretto alle Antille. A partire da quell’anno, i viaggi si intensificano a ritmo accelerato. Un’altra «linea» viene aperta più a sud: congiunge l’Angola con il Brasile. Nel secolo XVII, dal solo regno del Congo, vengono deportati un milione di africani. Il monopolio della tratta in principio è in mano ai portoghesi. Ma la domanda è troppo superiore all’offerta e altri stati, Olanda, Spagna, Inghilterra, Danimarca, Francia, istituiscono i loro mercati. Le coste occidentali dell’Africa, dal Senegal all’Angola, sono disseminate di posti di raccolta, ciascuno con la sua bandiera, dove gli schiavi rastrellati nelle razzie vengono valutati, pagati e imbarcati. In cambio degli schiavi, i negrieri bianchi offrono agli schiavisti neri stoffe, utensili, ma soprattutto armi e polvere da sparo. Per fare più schiavi.
Le traversate transoceaniche sono spaventose. Una volta a bordo, gli schiavi vengono ammassati sotto i ponti, incatenati a coppie, caviglia a caviglia, polso a polso. Le donne, invece, sono sciolte, tenute in compartimenti separati. Febbre e dissenteria fanno stragi. I morti vengono gettati in mare.
Ritornando dalle Americhe le navi, con il loro carico di zucchero, cotone, caffè, tabacco e rum, dirigono le loro prue verso l’Europa, per puntare poi ancora sull’Africa, dove altri schiavi sono già in attesa.
Il delirante girotondo ultramarino rallenta solo ai primi dell’ottocento, dopo che il re di Danimarca, nel 1772, ha abolito per primo la tratta; seguono Inghilterra (1807), Spagna (1820), Stati Uniti (1865), Brasile (1888). Con l’accordo di Bruxelles (1890) tutta l’Europa dichiara la tratta degli schiavi illegale.
Ma il bilancio per l’Africa è disastroso: secondo cifre attendibili (e benevole), dai 20 ai 30 milioni di africani sono stati strappati alla loro terra; buona parte periscono nel viaggio di stenti e di crudeltà; gli altri sfruttati fino alla morte. Regni prosperi distrutti o trasformati loro malgrado in mercati di schiavi, pacifiche etnie ridotte in guerra tra di loro, e infine l’immensa diaspora negra, tuttora alienata ed emarginata, degli Stati Uniti, delle Antille e del Sudamerica.

HANNO COSTRUITO L’AMERICA LATINA

Bartolomé de las Casas (1484-1566). Arriva a Santo Domingo nel 1502. Colono, prete, domenicano, vescovo di Chiapas: 82 anni vissuti con passione, lotta con tutti i mezzi (predicazione, relazioni, dibattiti) per difendere la dignità degli indios.

Antonio de Valdivieso (+1550). Domenicano, consacrato vescovo di Nicaragua da Bartolomé de las Casas. Difende gli indios fino a pagare con la vita. È l’Oscar Romero del secolo XVI.

Pedro de Gand (1480-1572). Francescano laico belga, imparentato con Carlo V, arriva in Messico nel 1523; s’innamora degli indigeni e ne sfrutta le inclinazioni alla pittura, musica, danza, teatro per educare i bambini; una cinquantina li trasforma in predicatori e catechisti. Costruisce oltre 100 chiese.

Martín de Valencia (1475-1534). Capo gruppo dei «12 apostoli» francescani, è considerato uno dei padri della chiesa messicana. Muore consumato dal lavoro e dalle penitenze.

Toribio de Benavente (1495-1565). Il più popolare dei «12 apostoli» francescani arrivati in Messico nel 1524. Chiamato Motolinía (il povero), fedele allo spirito francescano, per 45 anni percorre Messico, Guatemala e Nicaragua, predicando, battezzando e prodigandosi per la promozione umana degli indigeni. Fonda la città di Puebla.

Juan de Zumárraga (1468-1548). Primo vescovo di Città del Messico, «difensore degli indios», organizza la chiesa messicana, porta in Messico artigiani e 6 donne per l’educazione delle bambine indiane; fa istallare la prima tipografia nel Nuovo Mondo. Riconosce le apparizioni di N. S. di Guadalupe (1531).

Vasco de Quiroga (1470-1565). Inviato in Messico come giudice (1531), si appassiona alla causa indigena; a 67 anni, ancora laico, è eletto vescovo di Mochoacán. Muore quasi centenario, venerato dagli indios come tatá (padre), è considerato un padre della fede della chiesa messicana.

Beardino de Sahagun (1500-1590). Francescano spagnolo, arriva in Messico nel 1529. Insegna per 40 anni in un collegio, alla formazione degli indigeni e del clero locale. Raccoglie tutto ciò che si riferisce alla vita degli antichi messicani prima dell’arrivo di Cortés. Precursore dell’etnologia.
Alfonso de Montenegro, domenicano, fonda la chiesa in Ecuador.

Pedro de la Peña (1522-1583). Domenicano, missionario in Messico nel 1550; vescovo di Quito (Ecuador) nel 1565. Difende i diritti degli indios, prepara candidati al sacerdozio, ordina preti meticci, obbliga gli encomenderos a rispettare i loro obblighi, comanda ai preti di insegnare agli indigeni agricoltura, allevamento, igiene e medicina. Si attira le ire delle autorità, ma diventa il «fondatore della vita rurale ecuadoriana».

Jeronimo de Loáyza (1498-1575). Domenicano, vescovo di Lima dal 1541, grande organizzatore pastorale, si distingue nella difesa degli indios e dei neri, che definisce «la maggior ricchezza del Perú».

S. Luis Bertrand. Domenicano, in soli 7 anni (1562-69) catechizza, battezza, erige chiese, difende gli indios e opera miracoli: è l’apostolo della Colombia. Schifato degli abusi dei dominatori, torna in Spagna.

Toribio de Mogrovejo (1538-1606). Evangelizzatore laico, a 42 anni è consacrato arcivescovo di Lima (Perù). Organizzatore di sinodi e concili, sempre in cammino per le visite pastorali, oppositore degli abusi di governatori e coloni, conoscitore delle lingue indigene è il più grande vescovo dell’America Latina. Canonizzato nel 1726.

Francesco Solano (1549-1610). Francescano, percorre Argentina, Uruguay e Paraguay, incantando gli indigeni col piffero, amore e santità. Canonizzato nel 1726.

Luis Bolaños (1549-1629). Grande missionario francescano, evangelizza i guaraní del Paraguay. Difensore degli indios, inventa le riducciones e scrive grammatiche e catechismi in guaraní.

Antonio Ruiz di Montoya (1585-1652). Gesuita, organizzatore delle reducciones del Paraguay.

Roque Gonzales (1576-1628). Gesuita paraguayano, appassionato dei guaraní e delle reducciones, è il primo martire nato in Sudamerica. A lui si ispira il film Mission. Beatificato nel 1988, assieme ai compagni martiri Alonso Rodrigues e Juan Castillo.

Pietro Claver (1580-1654). Gesuita catalano, missionario in Colombia, si fa «schiavo degli schiavi per sempre», risvegliandone la dignità. Li evangelizza con sussidi didattici creati da lui stesso, ne impara le lingue, crea numerosi interpreti e battezza oltre 300 mila africani che la crudeltà umana aveva gettato sulle spiagge americane. Impressionante per la sua eroica carità, è canonizzato nel 1888 e dichiarato patrono universale della missione tra i neri.

Eusebio Francesco Chini (1645-1711). Gesuita trentino, sbarca in Messico nel 1681. Studioso, esploratore e viaggiatore, percorre 40.000 km a piedi o a cavallo, alla scoperta della Califoia messicana e dell’Arizona, dove, per 30 anni, evangelizza gli indios di diverse etnie e fonda numerose missioni. Battezza oltre 100 mila indigeni. Una statua in bronzo nel Campidoglio di Washington lo ricorda come «padre e fondatore dell’Arizona», unico italiano tra i grandi degli Stati Uniti.

Junipero Serra (1713-1784). Francescano di Maiorca, approda in Messico nel 1749.
Camminatore infaticabile (20.000 km a piedi), dissemina la Califoia di una dozzina di fiorenti missioni, evangelizza gli indigeni e ne promuove lo sviluppo, introducendo agricoltura e allevamento.
Una statua nel Campidoglio di Washington lo ricorda come «padre degli indiani» e «fondatore della Califoia». Beatificato nel 1988.




Tutti in gara nel mondo

Bloccata dalla rivoluzione francese,
l’evangelizzazione riprende con slancio mai visto prima.
È arrivato finalmente il tempo di evangelizzare l’Africa,
l’Australia e i più sperduti arcipelaghi dell’Oceano Pacifico.
Tutta la chiesa è mobilitata, papi e vescovi,
religiosi di antica e nuova istituzione, preti e laici.
I laici, soprattutto, uomini e donne senza frontiere,
costituiscono la grande novità della missione.
Un’altra sorpresa: i popoli evangelizzati
cominciano a diventare evangelizzatori.

Cattolica, cioè universale

Mentre i vescovi francesi si piangono addosso, recriminando sui 25 anni di rivoluzione e d’impero, e parlano di «missione intea», i semplici fedeli sono pervasi da un contagioso slancio missionario. Ogni sera migliaia di famiglie si raccolgono attorno al fuoco per leggere le Lettere edificanti e curiose di Chateaubriand: un libro di racconti missionari ristampato per tre volte tra il 1803 e il 1824. Altrettanto successo riscuotono le Nuove letture edificanti delle missioni della Cina e delle Indie, pubblicate dalle Missioni estere di Parigi.
Simbolo di tale fervore missionario è una ventenne lionese, Paolina Jaricot, che spende la sua vita per raccogliere preghiere e aiuti finanziari per i missionari, dando vita a un’associazione che nel 1822 si chiamerà «Opera della propagazione della fede». Le pubblicazioni di tale associazione si diffondono in tutta la Francia e dilagano in Svizzera, Italia, Germania, Inghilterra. Altri organismi del genere sorgono con lo scopo di coinvolgere nell’evangelizzazione tutto il popolo cristiano: l’Opera di Pietro Apostolo (1889) raccoglie fondi per sostenere e formare il clero indigeno; l’Opera dell’infanzia missionaria è aperta a tutti i fanciulli cristiani, perché siano educati allo spirito missionario e alla solidarietà mondiale.
A tale zelo di retroguardia, si accompagna lo slancio di coloro che vogliono operare in prima fila. Dall’inizio del secolo XIX ai nostri giorni sono nate in tutto il mondo cattolico centinaia di famiglie religiose, maschili e femminili, esclusivamente orientate all’azione missionaria; mentre altrettante sono le congregazioni che, nate per rispondere ai problemi locali, aprono le porte verso i territori ancora in attesa dell’annuncio del vangelo. Nel XX secolo si moltiplicano le associazioni laicali e di volontariato, che si affiancano al lavoro missionario con opere di testimonianza cristiana e opere di solidarietà e promozione umana.
La rinascita della missione è ispirata e sostenuta dai grandi papi che si sono succeduti negli ultimi due secoli, a cominciare da Pio VII, che risuscita la Compagnia di Gesù (1814) e riorganizza Propaganda Fide (1817). Ma è con Gregorio XVI, il primo «papa missionario» che avviene il rilancio dell’evangelizzazione. Già prefetto di Propaganda quando era cardinale, il papa promuove un’evangelizzazione a tutto campo, con invio di missionari in tutti i continenti, moltiplicando vicariati e diocesi, istituendo i primi seminari per la formazione di sacerdoti indigeni.
I successori continuano sulla sua scia. Leone XIII scrive sei lettere missionarie. Le direttive papali più conosciute sulla missione sono le encicliche papali del XX secolo. Benedetto XV, nella Maximum illud (1919), presenta la missione come primo dovere della chiesa, ne rifiuta l’europeizzazione e ne reclama l’indipendenza. Nel 1926 Pio XI va ben oltre il suo predecessore, sia con la Rerum Ecclesiae, sia con l’ordinazione dei primi 6 vescovi cinesi, a cui seguiranno quelli giapponesi, indocinesi, africani. È un evento di portata storica, che segna l’avvento ufficiale degli «indigeni» alla guida delle chiese locali, la promozione civile dei popoli «di colore» e l’avvio spontaneo e giornioso della decolonizzazione, che decenni dopo le grandi potenze dovranno accettare per forza, costrette da guerre e rivolte.
L’enciclica Fidei donum (1957) di Pio XII ricorda ai vescovi del mondo che essi sono tutti responsabili dell’evangelizzazione e li invita a rispondere a tale responsabilità inviando i loro preti alle chiese più bisognose. Nasce un nuovo tipo di missionario: il sacerdote diocesano «Fidei donum» a servizio temporaneo e specifico delle missioni. Il concetto di missione si arricchisce di una nuova dimensione, diventando anche collaborazione e servizio reciproco tra chiese sorelle.
Il Concilio Vaticano II sancisce la nuova coscienza missionaria maturata nell’ultimo secolo: cioè l’evangelizzazione è un dovere di tutti i cristiani e di tutte le istituzioni ecclesiali. Le encicliche Evangelii nuntiandi (1975) di Paolo VI e la Redemptoris missio di Giovanni Paolo II sviluppano le idee del Concilio e legano definitivamente l’evangelizzazione alla promozione umana, dello sviluppo, della giustizia e della pace.

L’Africa diventa cristiana

Un giorno del 1800, Anna Maria Javouhey vede la sua camera affollarsi di faccette nere imploranti aiuto. La visione non si cancellerà mai più dalla memoria. Fonda le suore di San Giuseppe di Cluny; nel 1817 ne manda alcune in Senegal; poi essa stessa le raggiunge: con sorpresa, riconosce per le strade di Saint Luis le stesse facce sognate 22 anni prima.
Così ricomincia la storia dell’evangelizzazione in Africa. Madre Javouhey lotta con coraggio contro i bianchi che calpestano i diritti degli africani. «I neri – scrive – sono buoni, semplici e non hanno altra malizia se non quella imparata dai bianchi». Fonda scuole in Senegal e Guinea e si adopera per la formazione del clero indigeno. Nel 1840 ha la gioia di assistere all’ordinazione di tre preti senegalesi.
Nella stessa direzione si muove Francesco Libermann, anche se non metterà mai piede nelle missioni. Nel 1841 due creoli di Réunion gli parlano della triste situazione degli schiavi neri: rimane così sconvolto che mette subito mano alla fondazione della congregazione del Cuore Immacolato di Maria (confluita nel 1848 nella Società dello Spirito Santo) e comincia a inviare missionari a evangelizzare Guinea, Liberia, Sierra Leone e Gabon, combattere la schiavitù e formare il clero locale.
Le prime spedizioni sono un disastro: i missionari cadono come mosche, falciati da malaria e febbre gialla. «Non voglio mandare i miei figli al macello – si tortura padre Libermann -. Ma non posso abbandonare milioni di africani che non hanno mai sentito la buona notizia del Signore». Anche i missionari della Società delle Missioni Africane di Lione (Sma), guidati dallo stesso fondatore, mons. Marion de Brésillac, vicario apostolico della Sierra Leone, sono stroncati tutti dalla micidiale febbre gialla (1859).
Ma l’epopea missionaria continua, si estende alle isole dell’Oceano Indiano, si attesta lungo le coste orientali africane e penetra gradualmente nel cuore del continente. Un centinaio di missionari perdono la vita nel vicariato nell’Africa Centrale (dall’Egitto ai Grandi Laghi), finché Daniele Comboni progetta di «salvare l’Africa con gli africani», riavvia la missione nel Sudan (1872) e ne diventa il primo vescovo. Liberati schiavi e schiave, li coinvolge nel lavoro missionario; alcuni di essi diventano sacerdoti e religiosi.
Una ex schiava sudanese, Giuseppina Bakhita, diventerà religiosa e sarà beatificata nel 1992.
L’evangelizzazione di questa regione è segnata da persecuzione e martirio. Tra il 1882 e il 1889, nella bufera scatenata dal movimento messianico islamico del mahdismo, missionari e missionarie sono ridotti in schiavitù; molti catechisti e sacerdoti africani sono martirizzati. Ma l’opera missionaria continua; dal Sudan si estende all’Uganda.
Grande stratega dell’evangelizzazione è pure il cardinale Lavigerie, fondatore dei missionari per l’Africa (padri e suore bianche). Anche lui vuole «salvare l’Africa con gli africani». Invia i suoi missionari su due fronti; l’uno parte da Algeri, attraversa il deserto e penetra nelle regioni subsahariane. Dopo due spedizioni massacrate dai tuareg, i padri bianchi si attestano a Bamako e Tumbuctù (Mali).
L’altro fronte, nel 1878, da Bagamoyo (Tanzania) si dirige nella regione dei Grandi Laghi. Un gruppo di padri penetra nell’Alto Congo; un altro evangelizza il regno dei Baganda, nell’Uganda meridionale: nasce la chiesa ugandese in un battesimo di sangue: negli anni 1885-87 vengono uccisi oltre 80 cristiani; 22 di essi, arsi vivi insieme a un gruppo di fratelli protestanti, saranno canonizzati nel 1964. Sono i primi martiri della chiesa africana dei tempi modei.
Nel 1839 il lazzarista Agostino de Jacobis entra clandestinamente in Etiopia; tra infinite persecuzioni da parte del clero copto pone le basi della chiesa cattolica in Abissinia. Nel 1846 un altro grande missionario, il cappuccino Guglielmo Massaia evangelizza i galla, nel sud del paese. La loro opera sarà continuata dai lazzaristi e cappuccini francesi, ai quali si uniranno i missionari della Consolata.
Nel 1850, sfidando l’opposizione calvinista, gli Oblati di Maria Immacolata iniziano l’evangelizzazione degli zulu e sotho del Sudafrica. Nel 1880 arrivano i missionari di Mariannhill. Nello stesso anno la prima missione dei verbiti tedeschi in Namibia è distrutta dai protestanti.
Nel 1879 Propaganda affida ai gesuiti la missione nella regione della Zambesia. Negli anni seguenti i padri bianchi creano la missione del lago Niassa; una parte del vicariato sarà affidato ai monfortani.
Nel 1887 i padri belgi di Scheut gettano le basi cristiane nel Congo, sacrificando il 30% dei missionari.
Nel 1890 mons. Le Roy, della congregazione dello Spirito Santo, celebra la prima messa alle pendici del Kilimangiaro, a 3.600 metri di altitudine. È il primo annuncio del vangelo in Kenya. Dodici anni dopo arrivano i missionari della Consolata, seguiti dai padri di Mill Hill.
Siamo ormai in piena colonizzazione dell’Africa, sanzionata dalla Conferenza di Berlino (1885). L’evangelizzazione è in qualche modo condizionata dalla politica delle potenze coloniali; al tempo stesso ne è favorita, come in una specie di pax romana, che consente di estendere l’evangelizzazione a tutta l’Africa. Nel 1920 vi lavorano 31 istituti religiosi maschili, 14 dei quali nuovi di zecca, 24 istituti femminili e quasi 10 mila catechisti locali.
Salvo il periodo della seconda guerra mondiale, l’evangelizzazione continua la sua accelerazione per tutto il secolo XX. Nascono le chiese locali con vescovi e clero indigeno; inizia quel processo di inculturazione che deve sviluppare una chiesa cristiana e africana al tempo stesso. Soprattutto gli africani cominciano a diventare missionari di se stessi.

Asia: continente di martiri

A lll’inizio del XIX secolo la chiesa cinese vive ancora in clandestinità; le persecuzioni fanno molti martiri: nel 1815 mons. Dufresse, vicario apostolico di Seciun, è decapitato, 4 preti cinesi strangolati, due muoiono in prigione; nell’Honan i padri Clet e Giovanni di Triora subiscono la stessa sorte (1820); nel 1840 padre Gabriele Perboyre muore crocifisso e strangolato.
Ritorna un po’ di pace quando le potenze europee costringono gli imperatori della Cina a firmare trattati e convenzioni diplomatiche. In pochi anni da tutta l’Europa arrivano centinaia di missionari, che fanno a gara nel costruire ospedali, scuole, seminari e università. Ma le persecuzioni non si placano. Altri missionari sono vittime di guerre civili e rigurgiti xenofobi: i padri Chapdelaine (1856) e Néel (1862) sono massacrati insieme a molti cristiani. Nel 1900 la società segreta dei boxers fa strage di circa 300 mila stranieri, tra i quali una cinquantina di missionari, e di 30 mila cristiani, un centinaio dei quali preti e religiose: 86 di essi (66 cinesi e 20 missionari stranieri) saranno beatificati tra il 1946 e il 1955.
Le persecuzioni aprono gli occhi ai missionari: non si può predicare il vangelo all’ombra delle bandiere europee; bisogna «farsi cinesi coi cinesi». E fanno pressione su Roma, perché riveda le sue posizioni: 6 diocesi e vicariati sono affidate ai cinesi (1926); si ridiscute la questione dei riti e la proibizione viene revocata (1939). «Decolonizzazione» della chiesa e sangue dei martiri fanno esplodere l’evangelizzazione: i 720 mila fedeli del 1900 diventano un milione e mezzo nel 1912, due e mezzo nel 1930, quattro nel 1949; così pure i preti: in mezzo secolo passano da 1.375 (400 cinesi) a 5.725, oltre la metà dei quali sono cinesi.
Negli ultimi 50 anni la chiesa è ridotta di nuovo al silenzio dal regime comunista; entra in clandestinità e continua a scrivere la storia dell’evangelizzazione con lacrime e sangue: oggi la popolazione cattolica è più che triplicata (circa 10 milioni); i seminari ufficiali e clandestini sono pieni di persone che vogliono consacrarsi a Dio e alla missione.

Anche in Vietnam la missione si sposa col martirio. Fino al 1800, oltre 30 mila cristiani hanno perso la vita a causa della fede. Il nuovo secolo si apre con i migliori auspici, nonostante la penuria di missionari. Ma a partire dal 1833 esplode un’altra persecuzione: le chiese vengono distrutte; vescovi e missionari sbattuti in prigione, dove alcuni vi muoiono di stenti, altri ne escono per essere decapitati o strangolati. I cristiani sono obbligati a calpestare il crocifisso: le loro teste cadono a decine di migliaia.
Un altro periodo di tolleranza. Ma nel 1857 il massacro riprende più violento e continua per una trentina d’anni: 115 preti e 100 mila cristiani vietnamiti muoiono per la fede. Di queste schiere di martiri, 117 vengono canonizzati nel 1988.
In mezzo secolo di pax gallica (il Vietnam diventa protettorato francese) l’evangelizzazione riprende col solito slancio. Dopo la prima guerra mondiale arrivano numerosi missionari e missionarie di paesi e congregazioni differenti; si moltiplicano le opere di carità e promozione umana; fioriscono le congregazioni religiose locali, comprese quelle di vita contemplativa; la chiesa è vietnamizzata.
Ma una serie di guerre coloniali, sfociate nell’occupazione comunista su tutto il paese, frenano nuovamente l’espansione missionaria. Eppure il numero dei candidati al sacerdozio è migliaia di volte superiore a quello ammesso dal governo nei seminari autorizzati. Invece di essere un ostacolo, la persecuzione sta divenendo un’occasione per far scoprire ai giovani nuove forme (laicali) di consacrazione, più facili a sfuggire il controllo governativo e più incisive e capillari per la testimonianza e l’evangelizzazione del paese.

Negli ultimi due secoli l’evangelizzazione ha raggiunto tutte le nazioni asiatiche. I cattolici in Asia aumentano del 4,5% l’anno, superando i 101 milioni. Su 3,4 miliardi di asiatici essi sono una minoranza, ma viva e dinamica.
Tirando le somme della storia, si può affermare che la chiesa in Asia è quella che ha dato più martiri in assoluto: oltre 300 mila in Vietnam nel secolo XIX; almeno 30 mila in Cina, durante la rivoluzione dei boxers (1900) e un numero incalcolabile nei 50 anni di dittatura comunista; decine di migliaia in Corea tra il 1801-83; aggiungendo le schiere di martiri sotto la persecuzione islamica di tartari e turchi e quelli del Giappone, l’esercito supera il milione.
Il numero dei martiri continua a crescere ogni anno in varie parti dell’Asia: Filippine, Timor Est, Indonesia, India per citare gli esempi più clamorosi, dove i cristiani sono perseguitati e uccisi per la loro fedeltà ai valori del vangelo.

Il vangelo in Australia e Oceania

N el XIX secolo viene aperto un campo nuovo per l’evangelizzazione: il continente australiano e quel pulviscolo di isole chiamato Oceania, che si estende per decine di migliaia di chilometri nell’immenso Oceano Pacifico. Favoriti dalla supremazia marittima inglese, i protestanti vi lavorano da alcuni decenni, quando arrivano i primi missionari cattolici; ma recuperano subito il tempo perduto con profusione di sudore, lacrime e sangue.
Tra difficoltà enormi, dovute alle distanze incolmabili, isolamento, mancanza di comunicazione, clima malarico, ostilità degli indigeni, lingue e culture diversissime, concorrenza protestante e ostacoli frapposti dalle varie autorità coloniali, i missionari scrivono pagine d’oro nella storia dell’evangelizzazione. Nell’impossibilità di leggerle tutte, ne sfogliamo alcune tra le più esaltanti.

Appena diventata possedimento inglese (1787), l’Australia è usata come colonia penitenziale per condannati politici, un terzo dei quali sono cattolici. Tra i confinati, un giorno arrivano tre preti irlandesi. Uno di essi, James Dixon, ottiene di fare il cappellano del penitenziario: il 5 maggio 1803 viene celebrata la prima messa con un calice di stagno. Rimpatriati i tre irlandesi, per 30 anni il continente rimane riserva di caccia degli anglicani, interdetto ai preti «papisti».
Nel 1819 Roma invia il cistercense Geremia O’Flynn come prefetto apostolico dell’Australia e Tasmania. Dopo poco tempo di lavoro clandestino, il missionario è scoperto, inteato e rispedito al mittente. La notizia fa scandalo. Il parlamento londinese consente che due preti si prendano cura dei cattolici dell’isola. Nel 1829 viene proclamata la libertà religiosa. Ma solo nel 1834, il benedettino inglese mons. Béde Polding può stabilirsi nel vicariato; otto anni dopo diventerà arcivescovo di Sydney.
In coincidenza con un forte flusso migratorio, attirato dalla scoperta delle miniere d’oro, arrivano maristi e benedettini francesi. La popolazione cattolica si fa sempre più consistente. In 30 anni vengono create una decina di diocesi. Nasce una chiesa con caratteri europei. Parecchi missionari cercano di evangelizzare gli aborigeni; ma, per oltre un secolo, i risultati non sono entusiasmanti.

Più incoraggiante, ma non meno difficile, si presenta l’evangelizzazione degli indigeni sparpagliati negli innumerevoli arcipelaghi dell’Oceano Pacifico. Nel 1827 i missionari di Picpus arrivano nelle Hawaii, l’arcipelago settentrionale della Polinesia. Dopo quattro anni di concorrenza con i fratelli protestanti, sono presi e sbarcati sulla costa della Califoia con due bottiglie d’acqua. Toano nel 1837. Dalla Francia partono nuovi rinforzi, ma la nave è inghiottita dall’oceano insieme a 7 preti, 7 fratelli, 10 suore e lo stesso vicario apostolico.
Arrivano altre congregazioni religiose e l’evangelizzazione procede più speditamente. Il più famoso dei missionari di Picpus è padre Damiano, l’apostolo dei lebbrosi dell’isola di Molokai.
Un secondo fronte dei padri di Picpus è aperto nella Polinesia meridionale. Nel 1833 si stabiliscono nelle isole Gambier, abitate da cannibali, terrore dei naviganti. I missionari vi ottengono grandi successi: nel 1835 si contano già 4 mila battezzati. Nelle isole Marchesi, invece, la lotta contro cannibalismo, idolatria e poligamia dura oltre un secolo: nel 1950 tutta la popolazione dell’arcipelago è cattolica.
Non meno faticosa è l’evangelizzazione di Tahiti, l’isola più importante dell’arcipelago polinesiano: più volte cacciati dagli intrallazzi tra protestanti e autorità francesi, i missionari di Picpus riescono a spuntarla ed estendono gradualmente l’evangelizzazione alle isole circostanti.

Nel 1838 i maristi arrivano nella Polinesia. Li guida mons. Pompallier, che si stabilisce nella Nuova Zelanda. La comunità cattolica è costituita da coloni irlandesi; ma è subito avviata l’evangelizzazione dei maori. Intanto padre Battaion converte tutta l’isola di Wallis e Francesca Perron, laica missionaria, getta le basi di una congregazione femminile locale. Pietro Chanel lavora per tre anni nell’isola Futuna, finché viene martirizzato (1841). Due anni dopo tutti gli isolani diventano cristiani.
Nel 1842 i maristi raggiungono le isole della Tonga; l’anno seguente la Nuova Caledonia, dove fratel Biagio Marmoiton viene massacrato; un anno dopo le Figi; nel 1845 Samoa. Per 40 anni i pionieri subiscono un martirio incruento: navigano senza posa da un’isola all’altra, piantando croci e nulla più. Nel 1902 nell’arcipelago ci sono solo 3 mila battezzati; 50 anni dopo sono quasi 30 mila e i preti indigeni evangelizzano altre isole dell’Oceania.

Nel 1844 Roma affida ai maristi anche la Micronesia. Mons. Epalle approda con 7 preti e 6 fratelli nelle isole Salomone. Appena sbarcati, il vescovo viene assassinato; 4 missionari sono divorati dai cannibali; gli altri si salvano con la fuga. Il vicariato passa ai missionari italiani del Pime, ma i risultati non cambiano: Giovanni Mazzucconi viene ucciso nell’isola di Woodlark (1855). Solo nel 1898 l’evangelizzazione delle isole Salomone riprende con i maristi, aiutati da catechisti indigeni delle isole Figi e Samoa.
Nel 1881 Propaganda affida ai missionari del Sacro cuore di Issoudun le grandi isole della Nuova Guinea o Papuasia e gli arcipelaghi adiacenti. Qui l’evangelizzazione procede più speditamente che altrove.

Agli inizi del XX secolo, fatta eccezione per la Papuasia, tutto il quinto continente è convertito al cristianesimo dalle varie confessioni. Ai pionieri del secolo precedente (maristi, cappuccini, padri di Picpus e d’Issoudun, verbiti, Pime, ecc.) si è aggiunta un’incalcolabile schiera di missionari di varie congregazioni: gesuiti, Mill Hill, pallottini, salesiani, passionisti, monfortani, francescani, preti diocesani, congregazioni di fratelli e molte congregazioni religiose.
Ne è nata una chiesa ricca di risorse locali (clero, religiosi e religiose, laici impegnati), con una storia di santità e sangue, non solo «straniero»: Peter To Rot, catechista in Papua Nuova Guinea, avvelenato a 33 anni, e Mary MacKillop, suora australiana, fondatrice della congregazione di San Giuseppe e del Sacro Cuore, beatificati nel 1995.

I GRANDI MISSIONARI

Guglielmo Massaia (1809-1889). Cappuccino, nel 1846 è vicario apostolico dei galla (Etiopia). Peripezie, persecuzioni e successi sono raccontati nei 12 volumi de «I miei 35 anni di missione nell’Alta Etiopia». Cardinale nel 1884.

Agostino de Jacobis (1800-1860). Lazzarista, vicario apostolico dell’Abissinia (1839), è consacrato vescovo dal Massaia (1849). Apostolo infaticabile è maestro di missionari, affronta enormi fatiche, sacrifici e persecuzioni. Beatificato nel 1935.

Giuseppe Faraud (1823-1890). Oblato di Maria Immacolata, primo vicario apostolico del Mackenzie, sviluppa e consolida le missioni tra i montagnesi del nord-ovest canadese.

Melchior de Marion Bresillac (1813-1859). Prete delle Missioni estere, è inviato in India nel 1842 e diventa vescovo di Coimbatur. Nel 1856 fonda la Società per le missioni africane (Sma) e parte per la Sierra Leone, dove muore di febbre gialla.
Damiano de Veuster (1840-1889). Della congregazione dei Sacri Cuori, a 23 anni parte per le Hawaii, si mette a servizio dei lebbrosi e muore consumato dalla carità e dalla lebbra. Beatificato nel 1995

Pier Luigi Maria Chanel (1803-1843). Marista, martirizzato nell’isola di Futuna (Oceania). Canonizzato nel 1954.

Giovanni Cagliero (1838-1926). Salesiano, in Argentina nel 1875, evangelizza la Patagonia. Nel 1904 è delegato apostolico in Costarica, Nicaragua e Honduras. Cardinale nel 1915.

Charles Lavigerie (1825-1892). Vescovo di Nancy, poi di Algeri (1867), fonda i missionari e missionarie per l’Africa (padri bianchi e suore bianche). Amico dei musulmani, difensore degli schiavi, apostolo degli africani, formatore di apostoli.

Daniele Comboni (1831-1881). Prefetto apostolico di Karthum, fondatore dei missionari per l’Africa e pie madri della Nigrizia. Combatte la schiavitù e promuove il clero locale per «salvare l’Africa con l’Africa». Proclamato beato nel 1996.

Gabriele Leperbiyre (1802-1840). Lazzarista, in Cina dal 1835. Tradimento, arresto, giorno e ora della morte in croce lo avvicinano alla passione di Cristo. Canonizzato nel 1996.

Simeone Lourdel (1835-1890). Padre bianco, primo missionario in Uganda, formatore di martiri, è venerato dagli ugandesi come loro «padre nella fede».

Giovanni Mazzucconi (1826-1855). Missionario del Pime in Oceania: viene trucidato, dopo soli tre anni di apostolato, nell’isola di Woodlark. Beatificato nel 1984.

Teofano Venard (1829-1861). Delle Missioni estere, apostolo del Tonchino: martirizzato nel 1861 e beatificato nel 1909.

Pierre-Jean de Smet (1801-1873). Gesuita belga, missionario tra gli indiani degli Stati Uniti, ne difende i diritti contro le invasioni e gli stermini operati dai bianchi.

MISSIONE AL FEMMINILE

La storia missionaria del XIX-XX secolo è più che mai tinta di rosa. Le figure che presentiamo sono solo un simbolo delle migliaia di donne che hanno dato la vita nell’eroica testimonianza di amore e santità.

Anne Marie Javouhey (1779-1851). A 15 anni nasconde i preti «non giurati». Nel 1806 fonda le suore di San Giuseppe di Cluny e nel 1817 le invia in Senegal e Réunion. Missionaria in Senegal e Guinea, si spende nell’aiutare gli africani. Re Luigi Filippo la definisce «un grande uomo». Beatificata nel 1950.

Filippina Duchesne (1769-1852). Durante la rivoluzione aiuta prigionieri, malati e moribondi. Entrata nella Società del Sacro Cuore, nel 1818 parte per il Missouri (Usa), fonda conventi e scuole per bianchi, neri e indiani. Beatificata nel 1940.

Teresa di Gesù (1873-1897). Carmelitana di Lisieux. Offre la sua breve vita per i missionari. Patrona delle missioni.

Francesca Saverio Cabrini (1850-1917). Fondatrice delle missionarie del Sacro Cuore, sogna la Cina. Leone XIII le indica gli emigrati italiani in America. Raggiunge gli Usa nel 1889; dissemina nelle tre Americhe 67 case religiose, innumerevoli scuole, ospedali, collegi, orfanotrofi, laboratori, ospizi per anziani. Canonizzata nel 1952, è patrona degli emigranti.

Katherine Drexel (1858-1955). Fondatrice delle suore del Santo Sacramento, spende la vita per l’integrazione di neri e indiani nella società Usa, fondando per loro scuole e l’università «Saverio» di New Orleans. Canonizzata nel 2000.




BURUNDI – Severin si sveglia ll’alba

A spiegare la divisione etnica si rischia sempre
di cadere in facili
schematizzazioni:
gli hutu-agricoltori contro i tutsi-allevatori, i primi in maggioranza
ma senza potere,
i secondi privilegiati
dai colonizzatori.
Ma la divisione è reale
e si riproduce anche
nella chiesa locale.
Dicono molti burundesi: «Noi siamo figli
della nostra terra,
prima siamo hutu e tutsi
e poi cristiani».
Per capire di più,
abbiamo seguito Severin, di professione catechista, lungo le strade
del piccolo e martoriato paese africano.

Come ogni mattino Severin Ndikundana si sveglia all’alba. Alle cinque il sole sta già sorgendo sulle colline del Burundi e i contadini, da sempre, scandiscono il ritmo delle loro giornate sulle ore di luce. Severin saluta la moglie e i figli e parte, a piedi, percorrendo le scorciatornie che lo porteranno dopo una decina di chilometri, dalla sua collina, nei pressi di Gishora, alla seconda città del Burundi: Gitega.
Severin è uno dei catechisti dell’antica parrocchia di Rukundo (amore, in kirundi), che, trovandosi ai margini della città, copre un vasto territorio circostante. I fedeli sono i contadini dell’interno più che la gente di Gitega.
È catechista dal 1980, mostra orgoglioso il tesserino della diocesi sul quale sono riportati i suoi dati e il giorno di inizio del servizio. Perché sei diventato catechista? «Per vocazione» risponde con molta semplicità. Magro, con il volto scavato, osserva con due occhi intelligenti. Difficile definire la sua età, ma in un paese dove la speranza di vita è di 43 anni, lui è sicuramente considerato un anziano. Quindi, in Africa, un saggio.
«Diventare catechisti è una vocazione. Bisogna, però, frequentare dei movimenti cattolici da giovani per stimolarla».
Severin insegna religione in una scuola elementare, segue i catecumeni per prepararli al battesimo, impartisce una formazione di due mesi a chi si è allontanato dai sacramenti e vuole riconvertirsi. Come altri catechisti è coinvolto in attività di alfabetizzazione: insegna a leggere, scrivere e contare agli adulti che non hanno potuto frequentare la scuola.
A Rukundo ci sono 28 catechisti «ufficiali», che svolgono questa attività come lavoro, in cambio di un piccolo salario. Altri 121 sono gli aiuto-catechisti volontari. I primi si incontrano ogni venerdì mattina per seguire la formazione, aggioarsi e scambiarsi impressioni.
LA CHIESA, SPECCHIO DELLA SOCIETÀ
Il paese sta attraversando una crisi che si trascina dal 21 ottobre 1993, all’indomani dell’assassinio del neopresidente (il primo democraticamente eletto) Melchior Ndadaye. Le elezioni avevano segnato una svolta portando al potere un partito a maggioranza hutu. Più di sei anni di guerra civile, causata dalla lotta intea per il potere e influenzata dall’instabile situazione geopolitica regionale dei Grandi Laghi. Un conflitto con evidenti connotazioni etniche, che ha causato, oltre ad alcune centinaia di migliaia di morti e più di un milione di sfollati e rifugiati, la catastrofe economica del piccolo paese centrafricano.
«La chiesa del Burundi è lo specchio della società» si sente spesso dire, e la società burundese è attraversata, oltre che dalle divisioni economiche e di potere, anche dalla problematica etnica. «La questione etnica non è compresa dall’opinione pubblica straniera» spiega un missionario esperto in comunicazioni sociali, che chiede di mantenere l’anonimato (perché in Burundi nessuno parla e chi accetta di farlo non vuole essere citato). «Viene spesso assimilata alla divisione in partiti politici e catalogata in categorie chiuse, mentre ha assunto un significato molto più… sentimentale». Bisogna esaminare le componenti culturali e storiche, ci spiega. Le culture di base degli allevatori (tutsi) e degli agricoltori (hutu) non delimitavano una divisione così netta tra le due etnie.
L’imposizione di una struttura estea (quella coloniale) che si appoggiava di più a un gruppo (i tutsi), foendogli educazione e dandogli peso economico e infine politico, è stato uno shock culturale e ha enfatizzato il problema. Così da un complesso tessuto socio-politico, composto da clan, lignaggi e discendenze regali, il colonialismo ha realizzato una tremenda semplificazione storica banalizzando la divisione in due gruppi precisi: hutu e tutsi.
La mancanza di una cultura della condivisione del potere ha fatto il resto.
CLERO INDIGENO E CLERO COLONIALE

Per un altro religioso, burundese, si può parlare di un vero cristianesimo coloniale: «Nel catechismo veniva insegnato che, incontrando per strada il parroco e il capo villaggio, il curato doveva essere salutato prima».
Con l’indipendenza (1962) si è costituito un clero «indigeno», che ha subito puntato a rimpiazzare i missionari e ad ottenere una posizione politica, mentre restava un clero «coloniale», che cercava di resistere. Si creò questa ambiguità in seno alla stessa chiesa; ambiguità che oggi ereditano religiosi, preti e vescovi.
«Gli avvenimenti del ’72 (massacri a sfondo etnico) consacrano la divisione in tre chiese – sostiene il nostro interlocutore -; oltre a quella coloniale (missionaria, ndr.), il clero indigeno si posiziona sui due gruppi etnici e di colpo la chiesa ha l’immagine del paese traducendone esattamente gli stessi conflitti sociali». È Bagaza (1976-’87) che rompe il meccanismo togliendo potere alla chiesa, ma con Buyoya (presidente dal 1987 al 1993 e poi dal ’96 a oggi) si ritorna a un matrimonio ambiguo tra chiesa e stato.
SPIRITUALITÀ ANCESTRALE
Una società che, secondo un missionario belga, «dal ’62 si bagna nella violenza, e così anche i cristiani. Una vera strategia politica». Il religioso vede una chiesa di massa, «sacramentale», nella quale cioè si da molta importanza ai sacramenti nella loro esteriorità, ma che ha poco impatto sulla trasformazione della società. Basta guardare le statistiche dei battesimi e l’assidua frequentazione delle messe.
«Non c’è corrispondenza tra la fede che deve determinare comportamenti di misericordia, di tolleranza, e le azioni del cristiano». C’è poi ancora molta sovrapposizione con il magico, le credenze tradizionali.
Anche il padre burundese è d’accordo: «La chiesa non è mai stata una parte integrante della nostra cultura, ma sempre qualcosa di esterno. Non c’è mai stato niente che ci abbia fatto identificare in essa». Questa è una caratteristica comune a tutta l’Africa, dove l’evangelizzazione si è innestata su una cultura che aveva già una spiritualità profonda. Spiritualià il più delle volte negata e proibita (come nel caso del Burundi). Il cristiano africano mantiene questa ambiguità, in cui spesso i valori ancestrali, come quelli di appartenenza, sono più profondi di quelli del vangelo. «Noi siamo figli della nostra terra, prima siamo hutu e tutsi e poi cristiani» si dice in Burundi.
C’È CHIESA E CHIESA
Il capannone scuro della parrocchia di Rukundo è ancora trabordante di persone alla terza messa domenicale. Vi saranno almeno un migliaio di fedeli, stipati su dei piccoli banchi costituiti da un asse inchiodato su due sostegni. In fondo, lontanissimo, su un’alta base di cemento, siede il sacerdote. Dietro di lui un ampio altare e, sul muro, un grosso tamburo in bassorilievo, simbolo del potere regale, che ospita il tabeacolo. La messa in kirundi (la lingua del popolo barundi) dura circa due ore. La maggior parte dei presenti vive sulle colline, anche a molti chilometri di distanza. Sono venuti in città per il mercato e la messa. Spesso sono scalzi o portano consumate ciabatte infradito. Le donne sono avvolte in sgargianti tessuti, hanno in testa il tipico foulard colorato e portano il figlioletto sulla schiena.
Diversa è l’atmosfera alla parrocchia del Buon Pastore, nel cuore del quartiere dei funzionari. Il locale è più piccolo, ma c’è meno gente e non si sta accalcati sugli ampi banchi con inginocchiatornio. C’è anche la messa in francese. Rare sono le donne in vestiti africani. Normalmente qui si sfoggia l’ultimo abito all’europea acquistato in capitale e l’elaborata acconciatura che obbliga le signore a intere giornate dal parrucchiere. Anche i bambini hanno le scarpe lucide. La messa dura solo un’ora. I volti sono diversi: sembra di essere in un altro paese. Ma anche qui dietro all’altare c’è un tabeacolo a forma di tamburo.
Cyprien lavora assieme a Severin alla parrocchia di Rukundo. Ha fatto un corso da catechista che dura quattro anni. Adesso svolge un anno di prova e alla fine dovrà presentare una sintesi delle attività di questo periodo, per diventare, si può dire, un catechista diplomato. «Mi piacerebbe cambiare il cuore dei fedeli – spiega -, fare in modo che aprano la loro mente e partecipino al loro sviluppo». Cyprien vorrebbe essere una guida per un reale miglioramento della vita dei cristiani. Una liberazione che passa attraverso il vangelo.
La suora che li accompagna (anch’essa burundese) è più esplicita: «Abbiamo la fede, ma non si manifesta dentro di noi. L’odio e l’ingiustizia regnano in noi, a partire dalle autorità, fino ai consacrati, e tutti i cristiani».
«Molta gente non dice la verità, ruba. Non è la carenza di cose; è il non saper vivere con quello che c’è». È una chiesa che deve convertirsi, e conclude: «Pregate perché ciò avvenga».
Cyprien ci racconta il compito più importante dei catechisti. «La domenica, nelle succursali (cappelle legate alla parrocchia, ndr) sulle colline, ci incontriamo con i cristiani e li aiutiamo in celebrazioni semplici, non eucaristiche». Fondamentali perché il sacerdote è costretto, dalla vastità del territorio parrocchiale, a visitare a tuo le comunità.
VESCOVI E PRETI LONTANI DAL POPOLO
La frattura tra il popolo e la gerarchia ecclesiastica è ancora grande. La gestione della diocesi è spesso autoritaria. «Il vescovo è un capo tribale, così i preti a livello più basso – spiega un missionario studioso di ecclesiologia -; esiste una netta separazione tra gli ecclesiastici e il popolo. I preti non vogliono perdere i loro privilegi, il loro potere». Secondo lui siamo di fronte a una chiesa pre-Concilio Vaticano II. I motivi sono anche storici, perché nel ’65 il Burundi veniva dilaniato da massacri post-indipendenza che portarono alla prima repubblica con il consolidamento del potere tutsi. Le tensioni politiche e sociali impedirono la penetrazione delle idee del Concilio.
Secondo il missionario esperto in comunicazione, invece, c’è una condivisione di responsabilità tra laici e clero. Il responsabile della commissione «giustizia e pace» della conferenza episcopale, l’addetto stampa della stessa e altre posizioni di responsabilità sono assunte da laici.
Severin e Cyprien raccontano di avere poco contatto con il loro vescovo: «Non è facile incontrarlo. Arriviamo a lui tramite la nostra responsabile. Da quando è stato nominato (marzo ’97, ndr) non è mai venuto a farci visita». Eppure alcuni vescovi burundesi sono sempre in viaggio. Passano due mesi in Burundi e uno in Europa. Lo stesso pontefice, secondo indiscrezioni, li avrebbe ripresi nell’ultima visita ad limina.
Andarlo a cercare? Troppo timore reverenziale. «L’ufficio pastorale della diocesi è come la presidenza (della repubblica, ndr) per noi. Ci andiamo solo se il parroco ci dà il permesso». In questo senso si capiscono le parole di un altro missionario: «I vescovi fanno i padroni della loro gente, non si mischiano e non soffrono con il popolo».
IL DRAMMA DEI «RAGGRUPPATI»
Nessun vescovo ha visitato, ufficialmente, uno dei cinquanta campi di raggruppamento, nei quali sono stati concentrati a forza, a partire da metà settembre, almeno 350 mila persone, sulle colline intorno alla capitale.
Atteggiamento che non è piaciuto a molti cristiani, questo «non mischiarsi nella miseria», necessario, specie per un pastore, perché siamo fatti di sentimenti, non solo di conoscenza intellettuale.
Un grido di denuncia è arrivato dall’arcivescovo di Gitega, mons. Ntamwana, al rientro da un incontro con i vescovi di Rwanda e Congo, in Kenya. Ma nelle dichiarazioni di fine anno nessun riferimento ai campi, dove la gente muore di stenti e sono violati i diritti umani più elementari. «Era chiaro che non ci sarebbe stato un atto congiunto. Da un lato, perché non sarebbero stati tutti d’accordo e, dall’altro, perché qui le denunce si fanno in modo silenzioso». Molte situazioni si risolvono sulla base di relazioni personali. Non bisogna quindi offendere la sensibilità di qualcuno e rovinare i rapporti, ma piuttosto cercare di agire con diplomazia (caratteristica questa molto sviluppata nei burundesi) sfruttando contatti diretti.
Ma non a tutti questi metodi vanno bene: mancano le critiche e le prese di posizione. «Sono rari gli interventi profetici, che puntino a sganciarsi dalla problematica etnica e diano voce ai senza voce – dice un missionario italiano -; non vogliono mettersi contro il presidente, cattolico e moderato». Il religioso burundese insiste: «Ci mancano profeti e testimoni. Si ha paura di dire la verità e assumerla. I missionari possono gridare un po’ di più. Ma devono stare attenti». I religiosi stranieri spesso parteggiano a fianco «della massa che soffre» (ovvero gli hutu, 85% della popolazione, quasi totalmente esclusi dal potere politico, economico e militare) e questo prende subito una connotazione etnica. Da qui le accuse da parte di preti, vescovi ed estremisti di appoggiare la ribellione (a maggioranza hutu).
Ancora una volta sono i catechisti che si espongono di più. Anche nei campi di raggruppamento, mettendo in pericolo la loro vita, continuano a portare la testimonianza del vangelo, ad aiutare la gente. «Questo fa sperare: al di là della debolezza dei preti, c’è una presenza popolare fatta di fede, che prova che la chiesa non sparirà» continua il missionario.
TEOLOGIA SENZA TESTIMONIANZE
In Burundi ci sono circa 1.300 religiosi, tra cui più di 1.000 suore. L’«Assemblea dei superiori maggiori» (Asuma) cornordina le 16 congregazioni di uomini e le 32 di donne. Nazionali e stranieri insieme. È qui che si legano maggiormente la chiesa missionaria e quella locale, pur partendo da basi culturali molto lontane. Le congregazioni burundesi sono state create dai vescovi, che le vogliono al loro servizio. «Cerchiamo di far passare il messaggio che, in quanto religiosi, siamo parte della chiesa, abbiamo le nostre opere, una nostra missione e un ruolo specifico», racconta un ex presidente dell’assemblea. Questo per ridurre la dipendenza gerarchica. «Pensate che nelle convenzioni che facciamo con i vescovi non possiamo usare la parola “partenariato”, perché presume un accordo tra parti uguali. È una teologia che stiamo formando, poco a poco». Ma molto resta il cammino da fare.
Allo stesso modo l’Asuma cerca di far aprire le congregazioni locali all’impegno verso il popolo: «Abbiamo cercato di motivarli nei confronti dei raggruppati. Problema che loro non sentivano come prioritario. Siamo riusciti a organizzare raccolte di fondi e distribuzioni di viveri con l’impegno diretto di religiosi e religiose». Purtroppo, spiega il padre, il vangelo sociale non è ancora compreso, molto spesso a causa della formazione nei seminari che non prevede i concetti di «servizio», «responsabilizzazione» e «partecipazione popolare».
Ad esempio c’è molta ignoranza sull’importanza, della giustizia nell’evangelizzazione.
Conferma, ancor più duro, il religioso burundese: «È una chiesa senza pensiero teologico, dove dominano i buoni parlatori e i buoni strateghi. Manca uno spazio di espressione sulla fede». Vede però uno spiraglio. «Esiste tuttavia una riflessione teologica che parte dalla base, fatta di testimonianze».
E I MISSIONARI?
Ha dunque ancora un senso la permanenza dei missionari in Burundi? «Sì. Perché la chiesa è missionaria per natura. Per l’apertura agli altri e per lo scambio», ci risponde qualcuno. «Per la varietà e l’universalità della chiesa. Perché la presenza di missionari, specie nei momenti più bui, ha dato fiducia. Abbiamo ancora bisogno di collaborare, non con posti di responsabilità, ma con una presenza efficace, con libertà di analisi e di suggerire», dice qualcun altro. «Sì, ma in modo diverso da oggi. Come poveri, contemplativi, per diffondere il messaggio di Cristo a tutti andando in profondità, per incarnarlo in questa cultura», sostiene chi rigetta il modello di clero «coloniale», ancor oggi presente.
È difficile descrivere la complessità della chiesa di un paese. Ci accontentiamo di una frase di Cyprien, catechista di Mugutu, parrocchia di Rukundo: «Vorrei che il nostro popolo uscisse dall’oscurità e partecipasse, lui stesso, al suo sviluppo. Per questo ha bisogno di guide».

Hubert Dubo




Solidarietà e passione critica

Caro direttore, la celebrazione dell’anno giubilare mi spinge ad operare, oltre che per la mia conversione, anche per l’aiuto ai fratelli più poveri e bisognosi.
Conosco da parecchi anni i missionari della Consolata. Sono in relazione con padre Feando Paladini, alla cui missione (in Congo) vorrei che fosse devoluta la presente somma di denaro. È mio desiderio che tale denaro venga impiegato in qualche attrezzatura sanitaria o nella costruzione di un pozzo, strutture che ritengo necessarie per la salute e l’igiene.
Vorrei poter fare di più, ma sono anche malata; anzi, la prego di scusare la mia scrittura: soffro di artrite reumatornide in tutta la persona e ho gravi deformazioni alle mani. Comprendo perciò le sofferenze degli altri e, come gesto di solidarietà, offro il mio modesto contributo.
Nel 1980 sottoscrissi una borsa di studio per un aspirante che poi uscì dal seminario. Pazienza!
Spero che il Signore gradisca l’offerta delle mie sofferenze, del mio dono in suffragio dei miei genitori Antonietta e Floriano e mi conceda la grazia di compiere sempre la sua volontà.
Tina Cartani – Felline (LE)

H o letto con grande interesse «Prima il profitto, poi la salute» di Carlo Urbani (Missioni Consolata, febbraio 2000).
Ancora una volta viene presentato con molta chiarezza il comportamento delle multinazionali: queste, anche nel settore dei farmaci, pretendono di esercitare il loro potere impedendone la produzione a prezzi accessibili a tutti i paesi del Sud, che sarebbero in grado di produrre medicinali più comuni, con immenso vantaggio per le popolazioni locali. La tutela dei brevetti impedisce che questo avvenga e, quando si ricorre alla licenza obbligatoria, sono colti da pesanti ritorsioni commerciali.
Già in Amici dei lebbrosi (agosto 1999) era stata presentata l’influenza negativa delle multinazionali nel settore. Il dottor Zafarullah, direttore di un progetto sostenuto dall’Aifo in Bangladesh, ha raccontato: le multinazionali sono riuscite a bloccare una richiesta al governo di proibire la vendita di medicinali inutili (se non dannosi) e vietati nei paesi industrializzati e di limitare l’importazione di quelli essenziali; all’iniziativa di produrre farmaci essenziali, da vendere a basso prezzo sotto nomi generici, «le multinazionali hanno risposto con una controffensiva, offrendo incentivi economici alle farmacie che rifiutavano i nostri prodotti; hanno inoltre abbassato i prezzi dei loro prodotti, hanno fomentato scioperi tra i nostri dipendenti e hanno ucciso un nostro lavoratore».
Anche questo è un frutto della globalizzazione, che non pare proprio essere attenta ai bisogni essenziali delle popolazioni del Sud del mondo.
Tuttavia Famiglia Cristiana (n. 6, 2000) si dimostra cauta al riguardo. Il settimanale, dopo aver ricordato che nell’Africa sub-sahariana un bambino su sei non supera i cinque anni, afferma: «occorre leggere attentamente dietro le cifre, pur senza arrivare a demonizzare acriticamente la globalizzazione». Si dice pure che la popolazione con una bassa soglia di sviluppo si è ridotta dal 20 al 10 per cento.
Come conciliare questi dati con altri pubblicati in gennaio da Cem/Mondialità? Qui si scrive: «Pur ospitando solo un miliardo e 200 milioni di persone, pari al 23% della popolazione planetaria , il Nord si garantisce l’84% del prodotto lordo mondiale. Viceversa il Sud, che accoglie gli altri 4 miliardi e 100 milioni di persone, partecipa al prodotto lordo con una quota pari al 16%».
Dispiace che certi giornali si mantengano sempre su posizioni ambigue, mentre condivido pienamente ciò che ha scritto Missioni Consolata: «è immorale e scandaloso che il reddito di tre individui nel Nord del mondo sia pari a quello di 600 milioni di persone nel Sud». Cosa ci dicono queste cifre?
Rallegramenti a Piermario Pertusio, di Chieri, che chiede informazioni per partecipare alla mobilitazione contro il negoziato del Wto e grazie a lei, direttore, per le indicazioni sul Centro nuovo modello di sviluppo.
Da tempo utilizzo Missioni Consolata per le lezioni di diritto ed economia nel biennio e sollecito la rivista a continuare la pubblicazione coraggiosa di altre notizie sulle reali conseguenze del sottosviluppo, che i missionari conoscono bene.
sr. Pier Paola – (via «e-mail»)

Abbiamo «incoiciato» queste due lettere, perché esprimono bene gli atteggiamenti di tanti nostri lettori, che non ringrazieremo mai abbastanza.
Nella commovente lettera della signora Tina si rispecchia la solidarietà di chi, pur nella sofferenza, sa guardare a quanti vivono in situazioni più precarie. Suor Pier Paola, poi, offre notevoli spunti di riflessione e merita un plauso per la capacità di insegnare diritto ed economia usando anche Missioni Consolata, confrontandola con altre pubblicazioni.
Ecco cosa vuol dire essere liberi, e «non portare il cervello all’ammasso».

Tina Cartani e sr. Pier Paola




L’opinione – I popoli sono come le nuvole

Vidiadhur S. Naipaul

Nato a Trinidad (Piccole Antille) nel 1932,
è uno dei massimi scrittori viventi.
Il 19 giugno scorso ha ricevuto
il premio internazionale Grinzane Cavour
“Una vita per la letteratura”.
Dotato di un inglese raffinato,
Vidiadhur S. Naipaul ha scritto romanzi e saggi, frutto di una ricerca rigorosa
e una forte tensione morale.
Lo scrittore, che non sopporta la superficialità dei giornalisti, ha risposto ad alcune domande durante una conferenza-stampa.

Signor Naipaul, lei ha viaggiato anche in paesi islamici e ha scritto «Fra credenti». Pensa che ci sia una rinascita del mondo islamico, una rivoluzione modea?
Ho visitato, per esempio, l’Iran nel 1979-80. Gran parte del linguaggio dei fondamentalisti islamici pareva una mimica del linguaggio della rivoluzione marxista. Per questo i marxisti in Iran hanno avuto tanti guai. Si sono dati alla causa religiosa e ne sono stati consumati. Quella non era una rivoluzione religiosa, ma un’azione reazionaria in gran parte nelle mani di persone senza cultura. Dobbiamo essere molto cauti e non lasciarci sedurre dalle parole apparentemente civili.
So che alcuni studiosi degli Stati Uniti ritengono che il fondamentalismo abbia aspetti positivi: stanno soltanto proteggendo il loro lavoro. Abbiamo visto e, ancora oggi, vediamo tutta la faccia nefasta del fondamentalismo in Afghanistan.
L’Iran è una tirannia. Non dobbiamo, però, frapporci tra le rivoluzioni e ciò che la gente vuole. Gli iraniani hanno voluto questa rivoluzione «farsa». È giusto che l’abbiano e che ne paghino il prezzo.

Le migrazioni hanno sempre caratterizzato la storia? Che ne pensa?
Se si potesse vedere la storia, come su foto inviate da un satellite, si vedrebbero le popolazioni in movimento come le nuvole. Se potessimo andare ai tempi dell’antica Roma, vedremmo le invasioni dei teutoni nel sud della Francia, dove Cezanne ha dipinto i suoi quadri famosi. L’Andalusia, regione della Spagna, ha preso il suo nome dai vandali dell’Europa orientale (la parola «anda» deriva da «vandalo»), mentre i turchi per secoli si sono accampati presso le rovine delle città dell’antica Grecia. In quest’ottica anche gli spagnoli hanno poi invaso il Nuovo Mondo.
Questo genere di migrazioni non può, però, essere paragonato alle attuali migrazioni «economiche» a cui forse state pensando.

Ebbene, come giudica le odiee migrazioni «economiche»? Conflittuali o incontri di cultura?
L’odiea migrazione è permessa e persino incoraggiata dai governi con le loro politiche. I kosovari in Italia potrebbero essere definiti «i migranti della Nato». La Nato ha fatto grande pubblicità. Ne siete preoccupati?

Lei lo sarebbe?
Se fossi italiano credo proprio di sì.

Cosa pensa dei molti conflitti che lacerano il mondo, in India come nell’ex Jugoslavia? Sono causati da motivi tribali?
Abbiamo parlato di «movimenti storici». Non userei l’aggettivo «tribale», perché penso che lo si possa applicare solo, forse, a sparuti gruppi che vivono nell’Antartico… Nessuno può pensare ad un mondo tribale o incoraggiare il mondo ad esserlo!
Il conflitto dei Balcani non è soltanto etnico. Le popolazioni locali hanno vissuto per decenni senza libertà, senza istituzioni libere, senza leggi in cui riporre speranza, senza valide tradizioni. La storia insegna che un popolo si sente potente nella propria etnia (che poi si rivela una trappola), quando non ha fiducia nelle istituzioni. Alle nuove generazioni dell’ex Jugoslavia bisognerebbe insegnare la democrazia e, con questa, sviluppare la fiducia nelle istituzioni.
Non userei l’aggettivo «tribale» anche perché penso che ogni persona possa avere cinque, sei, sette… idee di se stessa.
Per esempio, guardate questa signora (indicava la sottoscritta, che mi ero presentata come collaboratrice di una rivista missionaria): è italiana, giornalista, scrive per un periodico impegnato, ha una sua cultura, avrà visitato paesi del sud del mondo, conosciuto culture diverse…

Nel suo romanzo «Alla curva del fiume», ambientato in Congo, il protagonista Samir è di origine indiana e appare come una persona onesta, mentre la figura del despota racchiude i tratti di numerose dittature. Ha voluto sottolineare alcune caratteristiche universali?
Quando scrivo non mi chiedo se il protagonista è onesto: scrivo e basta. Sarà il lettore o il critico a giudicare i diversi personaggi.
Nel presentare la figura del dittatore in Congo, avevo in mente Mobutu e ho cercato di descriverlo. Non so se Mobutu sia «universale». Se tale despota ne ricorda altri, non è mio compito dirlo. Nei romanzi cerco di raccontare situazioni reali in un determinato contesto e momento storico.

Che cosa pensa degli scrittori indiani come Narayan?
Narayan è un grande scrittore indiano di lingua inglese: oggi ha più di 90 anni. Però è uno scrittore spirituale, mistico e nega la realtà. Ha perso la moglie quando era molto giovane e questo ha condizionato la sua opera. Scrive nell’illusione, nega le osservazioni della realtà. Per lui la realtà è falsa.
Scrivere un romanzo significa, invece, affermare che il mondo è reale, significa illustrare la solidità del mondo. Attenti, dunque, agli scrittori che cercano di raccontare la complessa realtà indiana imitando Joyce, Marquez o Hemingway!

Quali scrittori apprezza o apprezzava da studente?
Sono uno scrittore, non un lettore. Da giovane leggevo decine di libri per volta. Di ogni testo scorrevo con attenzione 50-60 pagine, cercando di sentire la musica nella scrittura. Ho apprezzato molto Maupassant.

Pare che il suo rapporto con i giornalisti sia terribile. Eppure non l’ho rilevato nei suoi scritti. Perché?
La mia irritazione non è causata dai giornalisti, ma dal loro bluff (inganno, boria). Personalmente non mi sognerei mai di diventare editore del Musical Express, perché non so nulla di musica. Ma purtroppo ci sono giornalisti che pretendono di intervistare uno scrittore senza aver letto almeno uno dei suoi libri o che scrivono copiando materiale d’archivio. Questi giornalisti sono un bluff, perché sciupano sia il proprio tempo che quello dello scrittore e commettono una frode nei confronti dei lettori, che non ricevono il servizio dovuto.
È un’occasione perduta per il giornalista, al quale chiedo: «Qual è il valore del tuo lavoro? Che rispetto hai di te stesso? Fai così settimana dopo settimana? Che cosa offri ai tuoi lettori? Come ti senti?».

P. S.
Non mi sognerei mai di fare domande ad uno scrittore senza aver letto almeno due dei suoi libri e aver deciso che vale la pena di intervistarlo.
Nel caso di Naipaul, avevo capito che è uno scrittore di valore, ma che non sarebbe stato facile incontrarlo.
Durante la conferenza-stampa, ho suggerito ad un collega di leggere «Una casa per il signor Biswas», in cui Naipaul è critico e ironico verso i giornalisti e direttori di giornali, oppure «Alla curva del fiume», in cui il protagonista è inorridito della superficialità con cui i giornalisti occidentali hanno descritto i massacri degli arabi lungo la costa dell’Africa orientale.
Naipaul ha apprezzato il mio suggerimento e ha commentato: «Vedo che lei si è preparata bene. Per quale rivista scrive?».
«Missioni Consolata» ho risposto.
S. B.

Silvana Bottignole




SE NON LI CURI, LI AMMAZZI

“Iam vacua ardet Roma” (ormai vuota, Roma brucia). Lo scrisse papa Gregorio Magno nel Seicento, allorché «la capitale del mondo» era bottino dei barbari. È una frase-sentenza, continuamente attuale nelle «notti della storia», illuminate solo dal bagliore delle armi.
Brucia ancora l’Africa: Guinea Bissau, Etiopia, Eritrea, Sierra Leone, Congo… nel crepitio delle pallottole. Pallottole non africane!
Ma, come a Roma il papa non si rassegnò allo strazio del popolo, così in Africa qualcuno si ribella al catastrofismo. E diventa propositivo. È questo il senso di una lettera, scritta in Congo.
Dal 2 agosto scorso la nazione è ripiombata nella guerra civile o, forse, nella prima guerra mondiale africana: da una parte i ribelli (con Uganda, Rwanda e Burundi) e, dall’altra, i soldati del presidente Kabila (con Zimbabwe, Namibia e Angola). I ribelli controllano il nordest, ma anche il Katanga, ricco di diamanti. La contrapposizione potrebbe durare anni, senza una mediazione internazionale. Intanto si contano migliaia di morti, vittime sia dei ribelli sia dei governativi.
La lettera è stata scritta nell’ospedale di Neisu, nel «caldo» nord, da padre Oscar Goapper, missionario della Consolata e medico.
Cari amici, vi scrivo pur sapendo che questa lettera sarà controllata da qualche funzionario congolese. Siamo allo stremo. Il dollaro continua a salire e la nostra moneta a scendere.
Qui nel nord, complice la guerra, siamo tagliati fuori dal mondo. Tutto è commedia. E la commedia si ripete quando, dopo tentativi infiniti, riesco a trovare un posto su un aereo militare. Ma ecco che, al momento del decollo, mi sento dire: «Si parte domani, forse». Già, forse!
È terribilmente difficile reperire medicine per l’ospedale. Sono sette mesi che ci arrabattiamo con risultati quasi zero. Il confratello Rombaut, infermiere professionale, ha raggiunto Kampala (Uganda) ed è tornato con appena 30 chili di materiale medico. I 140 letti del nostro ospedale sono strapieni (senza contare i malati che giacciono per terra). Siamo impotenti di fronte alla guerra.
Come missionario medico, ho sempre perseguito progetti dettagliati. Nell’emergenza odiea tutto salta. Oggi, quando entro in ospedale barcamenandomi fra gli ammalati per non pestarli, un ritornello mi martella le tempia: «O li curi subito o li ammazzi!».
Ci servono soldi e un’immensa pazienza in questa interminabile quaresima…
I soldi sono anche nostri. La pazienza, intrisa di sofferenza, è loro. Il prossimo di tutti.
La Redazione

La Redazione




DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZITu pensi e io penso. Ma chi ci crede?

Dunque il 24 ottobre 1998 la rivista
«Missioni Consolata» ha compiuto 100 anni.
L’anniversario è stato celebrato a Torino con il Convegno«Il Sud del mondo fra giudizi e pregiudizi».

I relatori:un economista di Torino,
una pedagoga del Brasile,un esponente
della Comunità sant’Egidio (Roma),
un opinionista de «La Stampa»,
un rettore di università (Mozambico).
Offriamo una sintesi dei loro interventie del dibattito
con il pubblico.

Daniele Ciravegna,
preside di «Economia e commercio» (Torino)

I CIRCOLI del VIZIO

È necessaria una rivoluzione culturale.

C’ è una frattura fra Nord e Sud del mondo, perché il primo è sviluppato e il secondo sottosviluppato. Esiste una soluzione del problema? Si stenta a trovarla, perché nei paesi sottosviluppati «la povertà si autornalimenta».
Siamo di fronte ad una situazione in cui le nazioni povere sono incapaci di produrre beni sufficienti per avere un buon tenore di vita. Quando la bassa produzione pro-capite non permette di ottenere nemmeno il minimo per sopravvivere, è evidente che scarseggino le risorse per gli investimenti.
E, se non si investe o si investe poco, si ottiene pure poco e lo si consuma tutto. Quindi non resta nulla da investire.
Come uscire dal circolo vizioso? Attraverso accordi inteazionali di cooperazione allo sviluppo o l’entrata di risorse per creare investimenti, senza deprimere i consumi interni già bassi.
E come pagare le risorse estee? Con l’esportazione di propri prodotti. Però, così facendo, non si risolve il problema: infatti, se non si possono comprimere i consumi interni, c’è poco da esportare. Allora l’unico modo per avere risorse è di non pagarle o di non pagarle subito: quindi ottenere trasferimenti di beni e regalie del Nord. Ma anche questo non è facile, perché il Nord non ha acquisito la mentalità di dover contribuire alla sviluppo del Sud, senza chiedere una contropartita. Il Nord si è proposto di destinare lo 0,7% del prodotto interno lordo allo sviluppo del Sud. Ma ciò non avviene.
Stando così le cose, si è imboccata un’altra strada: permettere ai paesi del Sud di acquisire risorse senza pagarle subito, cioè indebitandosi. Qui sorge un ennesimo problema: se il debito non verrà cancellato, fra 5-10 anni bisognerà trovare dei beni per restituirlo.
Se le risorse ottenute vengono investite nel Sud in modo produttivo, fra 5-10 anni esse potranno essere pagate; ma, se il loro impiego è stato improduttivo (si pensi agli sprechi in armamenti), il debito contratto non potrà essere rimborsato al tempo stabilito. Allora si rinvia ancora il pagamento. A questo punto si può intervenire cancellando tout court i debiti: ciò significa regalare i beni, anziché subito, dopo alcuni anni. Qui pure c’è un limite, perché il Nord non è disponibile a investire risorse a fondo perduto.
Come si situa la globalizzazione
economica in questo contesto? Essa ha aspetti positivi e negativi. È positivo che i beni si vendano e si comprino liberamente. Ma questo riguarda soprattutto le economie a un buon livello di sviluppo, che possono cedere beni per acquisie altri. Ne ricavano vantaggi le economie specializzate.
La globalizzazione crea anche difficoltà, perché l’apertura economica internazionale può causare il fallimento delle attività intee non sufficientemente protette. Se globalizzazione vuol dire «liberalizzazione selvaggia», le economie povere ne fanno le spese. Quindi la globalizzazione deve essere controllata.
Questo è evidente nel campo finanziario. Qui gli scambi sono cospicui; ciò di per sé non è negativo, ma lo diventa se si evade ogni controllo delle autorità governative. Gli effetti deleteri si verificano quando ci si avvale dei «paradisi fiscali», che proteggono scambi finanziari illeciti. Esistono «paradisi fiscali» anche nei paesi in via di sviluppo, dove è facile pulire o riciclare i «soldi sporchi» del narcotraffico o del commercio di armi.
Se la circolazione di denaro è senza controlli, è facile corrompere la classe politica. Alcuni narcotrafficanti hanno dichiarato di aver finanziato (furbescamente) sia il partito A sia il partito B: quindi, qualunque partito vinca, per loro va sempre bene.
Senza un controllo super-nazionale (e qui l’Onu è chiamata in causa), si crea una spirale perversa: si ricicla denaro sporco in un paese, si corrompono le persone influenti, per continuare a livelli sempre più alti, complice il sottosviluppo.
Come spezzare la spirale?
Soltanto in un modo: puntare sulla qualificazione morale e culturale della gente. In altre parole: bisogna investire sul capitale umano.
Se consideriamo solo il risultato finale materiale («ho prodotto tanto», «ho prodotto poco»), non abbiamo capito l’essenza della questione: questa non sta nel produrre tanto o poco, ma nel compiere una «rivoluzione culturale». È una rivoluzione fatta di investimenti nella formazione morale, sociale, economica.
Cito il caso della Colombia, con l’azione dei missionari della Consolata contro «la cultura della coca» attraverso le fattorie familiari amazzoniche e il progetto dell’università «Allamano». Il comune denominatore di queste iniziative è: un programma educativo, morale ed economico.
Se non si investe in questo modo, non si pone fine al problema scandaloso del sottosviluppo nel Sud del mondo.

Theí de Almeida Vianna,
rifugiata politica e pedagoga (Brasile)

POVERTÀ o INGIUSTIZIA?

Missionari per i politici.

Io vengo dal Brasile, un paese di 8.511.000 chilometri quadrati e 170 milioni di abitanti. È l’ottava potenza economica del mondo: primo in caffè, frutta e soia; secondo in apparati di aria condizionata; sesto in riso; settimo in oro, ventesimo nel petrolio e gas naturale. Dunque vengo da un paese ricco, dove la gente vive in case con bagni faraonici. E come mai ci sono i bambini di strada? Perché le favelas? Perché la vita vale zero?
Quando il professore Ciravegna parlava del Nord e Sud del mondo, io pensavo al mio paese, dove le zone di ricchezza e povertà sono capovolte: il sud è ricco, mentre nel nord la gente dorme anche per strada e, talora, muore di fame. Allora il Brasile non è sottosviluppato: è un paese ingiusto. Chi ha detto questo è il presidente Enrique Cardoso.
Io, però, devo badare a come parlo, perché sono una rifugiata politica e ho intenzione di ritornare in patria.
Un aneddoto.
Dio, nel creare il mondo, disse ad un angelo: «Fa’ scorrere questo fiume maestoso in Brasile». Poi: «Scarica i terremoti e le gelate in Europa, ma pianta questi alberi maestosi in Amazzonia e riempi la terra di minerali preziosi…». L’angelo interruppe: «Scusa, Signore! Perché al Brasile dai solo cose belle e agli altri cose brutte?». E Dio: «Ma tu non sai che razza di politici io metterò in quel paese!». Ecco perché il problema del Brasile non è la povertà, ma l’ingiustizia.
Giunta in Italia, ho notato tanti pregiudizi, anche perché non si conosce il Brasile. Numerosi italiani dicevano: «Tu sei proprio brasiliana? Non sei mica nera!». Oppure: «Voi mangiate sempre con le mani, senza posate?».
Però perché l’ingiustizia fra nord e sud del Brasile? Perché siamo stati una colonia del Portogallo. Quando il Brasile fu «scoperto», il territorio venne diviso in capitanias, in feudi, assegnati agli amici del re. Ancora oggi esistono baroni, colonnelli e politici discendenti dalle prime famiglie: tutti grandi proprietari terrieri.
La colonizzazione del Brasile è stata diversa da quella dell’America del nord: gli inglesi sono emigrati negli Stati Uniti per restarci; invece i portoghesi sono venuti da noi per arricchirsi e poi ritornare a casa. Qui, sì, che si dovrebbe parlare di restituzione: ridare ai brasiliani ciò che fu preso tanti anni fa.
Dopo la conquista, la schiavitù. I portoghesi obbligavano gli indios a lavorare la terra; ma questi, piuttosto, si lasciavano morire. Così si importarono schiavi dall’Africa.
Il 13 maggio 1888 la regina Isabella abolì la schiavitù, perché non era più economicamente redditizia. Così milioni di persone che, fino a poco tempo prima (pur nella schiavitù), avevano una casa e una porzione sicura di cibo, dal detto al fatto si sono trovati sulla strada. E dove sono finiti? Alcuni hanno iniziato le favelas. Chi le ha viste sa che lì i bianchi sono rari. I residenti in favelas sono i nipoti e i pronipoti degli schiavi buttati sulla strada nel 1888. E dire che, talora, gli schiavi avevano più cultura, erano più civilizzati dei loro padroni!
Il contributo economico che l’Africa ha dato al Brasile è stato alto e se ne vedono ancora i risultati. Ad esempio: chi lavora nelle miniere di Minas Gerais? chi raccoglie il cotone nel nord-est? Sono soprattutto gli afrobrasiliani.

Matteo Zuppi,
esponente della Comunità
di sant’Egidio (Roma)

COOPERAZIONE in PANNE

Investire nella pace.
A proposito dei latifondisti,
ricordate Chico Mendes? Egli era contro la strada transamazzonica, che favoriva Olacyr Ribeiro, il «re della soia». Mendes fu ucciso nel 1988, tre giorni prima di natale. Allora presidente del Brasile era Collor De Mello, discendente ricchissimo dei portoghesi. Il 22 dicembre 1988 la tivù Globo di Roberto Marinho (la cui figlia è stata la prima moglie di Collor) trasmetteva la telenovela Valitudo, tutta centrata sull’uccisione del personaggio Odette Reutman. Il giorno seguente tutti i giornali titolavano: «Chi ha ucciso Odette?». E nessuno si chiese chi avesse amazzato Chico Mendes.
Collor De Mello, Marinho e altri fanno parte dell’élite che continua a sfruttare il nord-est brasiliano, l’Amazzonia… ma nessuno dice niente. Anzi, la moglie di Collor ha preso i soldi dalla «Legione di assistenza» e la cugina è sparita con i soldi delle «merende scolastiche».
Il Brasile ha bisogno di una rivoluzione morale. Per farla, si dovrebbe predicare il vangelo specialmente ai politici. Certo, qualcosa si sta facendo. Ma sono ancora troppi i brasiliani che vivono in «una gabbia dorata»: non vogliono vedere ciò che c’è fuori.
Allora ai missionari della Consolata dico: «Andate pure fra gli indios yanomami. Ma, por favor, andate soprattutto a Brasilia, sede del potere politico!».
Grazie a Missioni Consolata, 100 anni fa c’era un sogno: quello di stabilire un rapporto con il Sud del mondo. Oggi, invece, chi sogna di investire energie umane nel terzo mondo?
L’Europa ha ridotto la cooperazione allo sviluppo ai minimi termini. In Italia la cooperazione, in questi ultimi anni, è passata da 5.000 a 500 miliardi di lire. E buona parte di questo denaro viene gestito da organismi inteazionali, che ne spendono il 50-70% per mantenere il loro «baraccone»!
La crisi della cooperazione allo sviluppo è la spia di un disagio più profondo, dovuto anche alla globalizzazione: il liberismo economico ha schiacciato la cooperazione, specie in Africa. Tuttavia il viaggio di Clinton in questo continente, nel 1998, ha ridestato la speranza. Finalmente l’Africa – si diceva – sta invertendo la tendenza e può risorgere dalle ceneri.
Ci sarebbe un’Africa diversa con nuovi dirigenti; i vecchi dittatori, come Mobutu, sono stati cacciati. Ora si può trattare con le nazioni africane da pari a pari. «Se farete funzionare l’economia, saremo vostri partners»: questo in poche parole il succo del discorso di Clinton in Africa.
Ma si è ricaduti nel pessimismo,
perché i nuovi capi africani fanno la guerra come quelli vecchi: si pensi a Kabila in Congo, all’Etiopia, all’Eritrea…
Questo solleva il problema delle guerre, che in Africa sono tante, interminabili e tragiche: 30 dal 1970 al 1996. Solo nel 1996 erano ben 14 i conflitti aperti su 53 paesi, e da allora ne sono sorti altri, senza chiudee quasi nessuno. C’è però il caso positivo (forse unico) del Mozambico, che ha saputo giungere alla pace.
Di fronte alla guerra, c’è l’incapacità della comunità internazionale di occuparsene. L’azione delle Nazioni Unite in Somalia ha fatto passare la voglia di intervenire nei conflitti africani: sono parole del segretario Kofi Annan in un rapporto al Consiglio di sicurezza nell’aprile 1998. Oggi si tenta di delegare agli stessi africani la soluzione dei conflitti. Ed è giusto, perché gli africani devono essere i primi interlocutori dei loro problemi. Però…
Per l’occidente questo potrebbe essere anche un atteggiamento di comodo, perché consente di lavarsi le mani e di… chiudere «la porta del Mediterraneo». Inoltre tale distacco dai conflitti è ipocrita, laddove ci sono stati condizionamenti economici e militari molto pesanti. Ciò vale per l’Africa, come per tanti paesi del terzo mondo.
Una proposta: per vivere in pace, bisogna investire nella pace anche in termini economici. La pace, come la guerra, è un mercato: bisogna investirci affinché diventi un «affare utile». Le repressioni contro le guerriglie non risolvono i problemi che vi si nascondono.
Una guerriglia, in una situazione di povertà, come può diventare un partito politico legale senza un investimento economico contro il degrado sociale? Missioni Consolata lo sa bene, allorché ha lanciato la Campagna contro il narcotraffico in Colombia.
Investire nella pace
significa rilanciare la cooperazione internazionale allo sviluppo con strumenti efficaci e in una luce nuova, che non sia quella del mero profitto economico! Una cooperazione che investa sulla scuola. Al riguardo la cooperazione italiana è assolutamente latitante. Se non si investe nell’educazione, ci sarà sempre un’Africa incapace di soddisfare le esigenze dei suoi abitanti, molti dei quali fuggono altrove.
Ultima considerazione: un comune destino lega il Nord al Sud, e viceversa. Missioni Consolata, 100 anni fa, ha incominciato a guardare al mondo. Oggi, per non essere un’aquila divenuta pollo, ricorda che la giustizia non è un optional, che la restituzione ai poveri non è buonismo, che il condono del debito estero del Sud non è benigna concessione del Nord. È, invece, una esigenza etica che coinvolge il Nord come il Sud.
Dobbiamo essere grati ai missionari che ce lo ricordano. Essi, inoltre, fanno conoscere il Sud del mondo non con giudizi e pregiudizi, ma nella sua realtà.

Igor Man,
opinionista de «La Stampa»

l’ISLÀM è… LEGGE

Bisogno di «tenerezza».

Teheran, 8 settembre 1978. In Iran regnava ancora lo scià. Ma le manifestazioni contro di lui ammassavano gente a centinaia di migliaia. Quel giorno, in piazza Zhalé, arrivò un colonnello in jeep. Ai giornalisti disse: «Se non ve ne andate, do ordine di sparare. Allora assistei ad una scena incredibile: alcuni iraniani si sedettero davanti alla jeep e dissero: «Fratello, se hai coraggio, spara». Sparò. Seguì una strage di 10 mila persone.
Teheran, 29 gennaio 1979. Incalzato da milioni di persone, lo scià aveva lasciato il paese il 17 gennaio. La rivoluzione, teleguidata da Khomeini, aveva vinto una battaglia, ma non la guerra. La cacciata dello scià aveva incattivito gli ufficiali dell’esercito, perché numerosi soldati se ne tornavano a casa.
Quel 29 gennaio, mentre gli studenti protestavano, passò una colonna di pretoriani ancora fedeli allo scià, sparando alla cieca. Io fui ferito. Qualcuno chiamò un’ambulanza. Intanto gli sgherri continuavano a sparare.
Incuranti dei colpi, umili cittadini crearono attorno a me e a un collega francese una sorta di trincea: ci protessero con i loro corpi. Più tardi, nel lasciare l’ospedale, espressi gratitudine, ma anche stupore, a chi aveva rischiato la vita per uno straniero, un cristiano. Un piccolo borghese rispose: «I credenti sono tutti fratelli». Era una citazione del corano, sura 49, versetto 10.
In pieno materialismo,
quando tutti vogliamo subito la ricchezza facile, esiste ancora gente disposta a rischiare la pelle per uno sconosciuto, solo perché «i credenti sono tutti fratelli».
Mi domando: è possibile il dialogo interreligioso? Esso è voluto da Giovanni Paolo II, specialmente dopo l’incontro di Assisi, nel 1987, di numerosi capi religiosi. Il santo padre insiste molto anche sul dialogo fra islàm e cristianesimo.
Non sono poche le consonanze fra le due religioni. Numerose sure del corano riecheggiano il vangelo: si esalta la verginità feconda della Madonna, si riconosce in Isa (Gesù) un santo profeta. Però qui cade la prima mannaia; eccola nelle parole di Raimondo Lullo: «I saraceni credono che il Signore nostro Gesù Cristo è figlio di Dio, ma non credono che egli sia Dio».
Islàm e cristianesimo hanno in comune il Dio unico, trascendente, creatore, retributore. Ma fra cristianesimo e islàm esistono pure linee nette di separazione. Per il cristiano Dio si è rivelato in Cristo Gesù, redentore dell’umanità, che ha fondato la chiesa come suo prolungamento. Da Cristo proviene ogni grazia.
Per l’islam Dio rivela la sua parola, ma non se stesso. Egli resta inaccessibile. L’unica mediazione tra Dio e l’uomo è il corano, dove l’individuo può accostarsi ad Allah, subie la potenza e godee la misericordia. Muhammad è solo un profeta. Ancora: nell’islam solo i puri, gli ortodossi, hanno la verità. C’è l’imam (capo religioso) e, quindi, l’interpretazione della sharia (legge).
Qui cade la seconda mannaia: la sharia appunto. Se infatti, secondo il corano, i cristiani e musulmani potrebbero trovare un punto d’incontro, la sharia blocca ogni sistema di vasi comunicanti. La sharia è un insieme di regole con le quali i califfi, dopo Muhammad, hanno affermato il loro potere. Gli attuali epigoni dei califfi sono alcuni leaders arabi.
Sulla «sharia»
Hussein Hamed Amr, musulmano egiziano, nel 1987 scrisse: «La maggioranza dei musulmani crede che le disposizioni della sharia siano tali e quali a quanto sancito dal corano e dalla sunna, identiche a come le lasciò il profeta; chi invece studia la storia dell’islam comprende che la sharia è un palazzo, i cui molti piani sono stati costruiti, uno dopo l’altro, lungo i secoli in funzione della società e delle esigenze dei califfi o tiranni».
Di più: in molti paesi islamici, accanto alla giurisdizione ordinaria, se ne è formata un’altra extra ordinem dei sovrani. L’indipendenza del giudice non esiste, limitata dal califfo che incarna il potere giudiziario.
Il difficile dialogo tra islam e cristianesimo ha bisogno di un aiuto, che sta nel creare posti di lavoro e nella comprensione.
Una volta i vu’ cumprà in Europa cercavano di farsi assimilare; oggi, dopo il risveglio islamico, sanno di appartenere ad una grande cultura-religione; chiedono rispetto, la moschea…
E la nostra società non è preparata: da ciò incomprensioni, attriti, razzismi. Ritengo che dobbiamo ripensare il nostro modello di vita e rinunziare a molte presunzioni.
Un grande africano, benché controverso, Ben Bella, mi diceva: «Il Sud del mondo ha anche bisogno di tenerezza». Voleva dire: se non lo comprenderemo, un giorno ci chiederà il conto.

Filipe José Couto,
rettore dell’università cattolica (Mozambico)

RICORDO E DIMENTICO

L’università della ricostruzione

Oltre trent’anni fa su Missioni Consolata è apparso un mio articolo… Io, che sono del terzo mondo, ho avuto la possibilità di scrivere quello che pensavo. Successivamente, durante la guerra civile in Mozambico, ho espresso delle opinioni scomode; ma la rivista le ha riportate, pur con la nota: «Quanto affermato da padre Couto non corrisponde in tutto al pensiero della redazione». Questo fa onore a Missioni Consolata, perché non ha avuto pregiudizi: è stata ed è una rivista dove tutti si esprimono liberamente.
Ora dovrei parlare dei pregiudizi che, come africano, ho incontrato in Portogallo, Italia, Germania e Inghilterra, dove ho studiato e insegnato. Dico subito che molti africani non concordano su quanto sto per affermare. Però lo dico ugualmente, perché è la mia esperienza.
Io non ho subìto grandi pregiudizi. Se dicessi che nei paesi sopra ricordati sono stato trattato male, direi il falso. Se sono arrivato ad avere una laurea in filosofia e teologia, lo devo all’Italia e Germania.
Però c’è stato un fatto: quando io ragionavo «in un certo modo», mi sentivo dire: «Tu non sei africano!». Quando il mio ragionamento filava e capivo san Tommaso o Kant, molti commentavano: «Tu non sei africano!».
Questo è stato ciò che più mi ha fatto male. Perché? Perché gli uomini e le donne, in ogni parte del mondo, sono uguali. Non esiste una razza superiore o inferiore all’altra. Devo, però, precisare che la frase «tu non sei africano» non nascondeva malizia: gli italiani o i tedeschi la dicevano solo perché erano abituati ad africani che ragionavano in un modo diverso.
Per loro io rappresentavo un’eccezione.
Anche noi, africani,
abbiamo qualche pregiudizio. Da alcuni anni, sulla bocca di tutti, circola la parola «inculturazione». Ma io non la uso più, perché l’inculturazione può giustificare i nostri ritardi… Non lo dobbiamo accettare, se vogliamo contribuire alla costruzione o ricostruzione di una società africana diversa. Se siamo uguali a tutti (e lo siamo!), dobbiamo anche «correre», perché questo fa parte della vita.
Secondo un poeta del Tanzania, «kukumbuka ni wajibu, kusahau ni faraja», che significa: ricordarsi del passato (quindi dei pregiudizi e di quanto si è sofferto) è un dovere; tuttavia dimenticare è un conforto. Noi africani dobbiamo dimenticare che siamo stati sfruttati e colonizzati, per essere più propositivi. E smettiamola di giocare il ruolo dei «poverini», facendo i mendicanti!
Detto questo sui pregiudizi,
parlo dei missionari della Consolata. Secondo lo stile del fondatore, il beato Giuseppe Allamano, essi sono stati molto concreti nell’emancipazione dei popoli. Giunti in Mozambico nel 1926, hanno incominciato l’attività nel Nyassa, nel nord del paese. Oggi qui si è verificato un fatto meraviglioso.
Dopo la guerra civile, chi ha mediato tra il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e la Renamo (Resistenza nazionale mozambicana)? È stato Brazão Mazula, ex missionario della Consolata. È stato lui il mediatore del processo di pace: don Matteo Zuppi può dirlo. Al presente Mazula è rettore dell’università statale. Poi c’è Carlos Machili, un altro ex missionario della Consolata, che è preside della facoltà di pedagogia. E ci sono anch’io, rettore dell’università cattolica, con padre Francesco Ponsi, vicerettore, e padre Bruno Pipino, professore. Siamo tutti missionari della Consolata.
Questi sono alcuni frutti dell’opera dei nostri missionari, che hanno lavorato e lavorano per la ricostruzione del Mozambico, sfruttato dal colonialismo e dilaniato dalla guerra civile.
L’Allamano diceva: il bene, anche se è poco, bisogna farlo bene affinché cresca. Ebbene, l’università cattolica, dopo tre anni di vita, ha compiuto passi da gigante: c’è la facoltà di economia e commercio a Beira; c’è la facoltà di diritto e educazione a Nampula; si è aperta la facoltà di agricoltura nel Nyassa, dalla quale troveranno giovamento oltre cinque milioni di contadini. Fra poco avremo anche la facoltà completa di medicina.
In questi tre anni gli studenti sono passati da 90 a circa 577: e tutti pagano 500 dollari. All’inizio è stato duro, perché numerosi studenti dicevano: «Signor rettore, noi non possiamo pagare 500 dollari, perché siamo poveri». Al che io rispondevo: «Se siamo poveri, non dobbiamo diventare anche accattoni». Hanno capito.
Nonostante gli errori del passato, credo che la chiesa e i missionari possano e debbano ancora fare molto per la cooperazione tra i popoli del Nord e Sud del mondo, affinché ci sia una società più giusta e fratea.

aa.vv




La pulce penetrante di Gesù

L’ Africa non cessa di sorprendere. Nonostante i crescenti problemi, fa di tutto per sopravvivere, anzi per danzare la vita.
Lo scorso anno, in Etiopia, per un corso di aggioamento ai religiosi e al clero, presi lo spunto da un disegno di un artista africano intitolato: «Il Cristo che ride».
Oggi in Tanzania, per sviluppare il tema della salvezza, mi avvalgo come ispirazione del presepio allestito dai missionari della Consolata nella loro casa-procura di Dar es Salaam. Si tratta di una scultura, che si dispiega in uno stupendo groviglio di corpi scolpiti nell’ebano («maconde»), plasticamente culminante in una culla: vi riposa il bambino Gesù, che si massaggia un piede con il particolare atteggiamento che prelude… al sonno. «Dormire è bello – commenta un giovane africano -, dormire e sognare».
Interessante anche l’osservazione di un missionario della Consolata su quel divino infante: «Si sta togliendo una pulce penetrante. Povero Cristo! Ha sperimentato di tutto sulla terra».
I vangeli canonici non ci parlano di pulci penetranti; forse gli apocrifi… San Paolo afferma che, attraverso la sofferenza, il figlio di Dio ha capito che cosa significa essere figlio dell’uomo. E a tutti ha offerto la salvezza.
Anche alla pulce penetrante? Se questa non viene tolta subito, porta a complicanze irreparabili. Presa in tempo, è facilmente eliminabile, come fosse uno scherzo, un gioco da bambini.

«I l sorriso» e «il massaggio del piede»: due immagini che ci parlano dell’arte di ridimensionare ogni cosa, mantenendo un sostanziale ottimismo. Questo atteggiamento, tipico di molti africani, è riscontrabile anche in Tanzania, paese dai mille problemi, sapientemente affrontati con calma uno dopo l’altro, oppure rimandati in attesa di tempi migliori… quando a Dio piacerà.
L’arte di ridimensionare tutto non va confusa con la superficialità né, tanto meno, con il cinismo. Quando il peso della sofferenza è eccessivo e il lavoro per salvare il salvabile cozza contro una serie di fallimenti, è facile scoraggiarsi e sembrare indifferenti al dolore.
Se nell’ospedale di Ikonda, nel sud del Tanzania, durante il fine-settimana muoiono otto pazienti, in prevalenza giovani e tutti a causa dell’Aids, diventa indispensabile radunare gli infermieri e cercare insieme le ragioni per motivare ancora l’impegno al servizio della vita: anziché contare i decessi, si ricordano perciò i successi ottenuti. In ospedale la gente (non abituata agli antibiotici), con poche pastiglie ritrova condizioni di vita accettabili, mentre se fosse rimasta al villaggio, priva di medicinali o con le sole cure del «dottore tradizionale» (stregone), sarebbe morta in tempi brevissimi.
Ridimensionare, in questo caso, significa trasferire tutto in una nuova dimensione: non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e dal senso d’impotenza, ma sentirsi orgogliosi delle vite salvate o che si è tentato di salvare.
L’arte del ridimensionare è teorizzata dall’arcivescovo di Dar es Salaam, Polycarp Pengo, ed è vissuta da lui con la spontaneità di un bambino. Dice: «Bisogna ridimensionare ogni cosa, sforzandosi di vedere prevalentemente le cose belle».
Il bambino attualizza il ridimensionamento e lo mette in pratica attraverso un rito che non ho mai visto in altre parti dell’Africa. Dai tre ai sette anni, i piccoli salutano i grandi ponendo la manina sulla testa degli adulti e ripetendo più volte: «Sono ai tuoi piedi». Per lasciarsi toccare la testa, il grande deve abbassarsi al livello del piccolo e, così facendo, si ridimensiona. Forse chi è coinvolto in questo gesto non ne apprezza a sufficienza la portata. Ma, visto dall’esterno, è molto significativo.
I bambini della scuola matea l’hanno ripetuto più volte anche con me e mia nipote Maria Rosa Lorini, coautrice di questo dossier. C’è da augurarsi che non vada perduto con il passare del tempo e il sovrapporsi delle culture.

C’ è pure da sperare che i tanzaniani mantengano inalterati i valori, ribaditi con forza da Julius Nyerere, il «maestro» per antonomasia del Tanzania.
Visitiamo questo paese ad un anno circa dalla sua morte, anche con l’intento di capire quale ricordo abbia conservato la gente di quest’uomo amante della giustizia, cattolico, convinto del valore della fede, vista pure come mezzo per motivare ulteriormente l’impegno politico.
Anche Nyerere è stato un esperto nel coinvolgere i suoi concittadini nell’arte di ridimensionare tutto: per lui si basava sulla familiarità con il pensiero di Dio, la nascita e la morte. Dava per scontata la vita eterna; considerava quella terrena il bene più grande, affidatoci dal Creatore, e aiutava il suo popolo a vedere ogni realtà nella giusta prospettiva.
E, mentre non usava mezzi termini nel denunziare lo sfruttamento dell’occidente nei confronti dell’Africa, invitava i popoli del continente a convivere in pace, senza sognare l’impossibile, ma vivendo una povertà dignitosa, cercando di essere liberi, autosufficienti e capaci di governarsi gestendo con intelligenza le risorse a loro disposizione.

P iù che riportare le mie impressioni o analisi, nel presente dossier preferisco, con Maria Rosa, cedere la parola ai missionari che stanno spendendo la vita al servizio dello sviluppo integrale del Tanzania.
Abbiamo incontrato parecchi preti e suore anche avanzati in età. Ma nessuno di loro sembra preoccuparsene, e continuano a rimanere sulla breccia: annunciano il vangelo, insegnano, guidano la jeep, fanno operazioni chirurgiche, programmano costruzioni di case e ponti come se non dovessero mai morire.
Vivendo in missione, hanno imparato a ridimensionare anche la morte.
Valentino Salvoldi
Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di autonomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito della rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.
«Batti il tamburo,
non i bambini!»

Q uesto è lo slogan che padre Franco Sordella e i bambini della Faraja House hanno scelto per l’inaugurazione della loro nuova scuola elementare nel settembre scorso. La Faraja House (casa della consolazione) è un centro nella città di Iringa per ragazzi difficili: in maggioranza provenienti dalla strada e parecchi orfani. Ognuno con il suo bagaglio di abbandono, violenza, miseria.
Il progetto (uno dei tanti realizzati dai missionari della Consolata) è iniziato dal nulla tre anni fa. Oggi consta di due settori: il primo, «ragazzi di strada» per la riabilitazione; il secondo, per l’avviamento professionale anche di minori che non vivono nella Faraja House. Il tutto è quasi un villaggio: comprende dormitori, refettori, cucine, laboratori, dispensario e la scuola tecnica, che annovera 60 ragazzi. Con gli altrettanti bambini della Faraja House, si raggiunge un totale di 120.
Ma ci sono anche i frequentatori della domenica: ragazzini che sopravvivono lavorando al mercato e vivendo in «tane» (ad esempio, presso i mucchi di crusca dietro i mulini). Ad essi, «il dì di festa», viene offerto un buon pasto e la possibilità di lavarsi e di non restare analfabeti.
Oggigiorno anche le scuole governative sono a pagamento: perciò pochi sono i bambini che hanno la possibilità di frequentarle. Nel paese scarseggiano strutture e maestri: così non bisogna stupirsi se, entrando in una classe, si trovano anche 100 allievi, che devono solo rimanere seduti e buoni, presente o meno l’insegnante, se non vogliono essere castigati.
Accanto al «problema scolastico», sta aumentando anche il numero di bambini che, come Issa, rimangono orfani a causa dell’Aids. Issa (Gesù) è stato accolto nella Faraja House a natale.
Visto che Gesù bambino fu rifiutato, perché – si sono detti i missionari – non cercare in città il ragazzo più abbandonato e solo? Uno di quelli che dormono nascosti per paura di essere picchiati o abusati dai più grandi… e dargli una famiglia? È saltato fuori Issa, che ha trovato finalmente casa, ma anche chiesa, scuola e lavoro.
Già, lavoro. Non bisogna stupirsi se, nella Faraja House, la prima cosa che si compra all’inizio della scuola non sono i libri, ma la zappa. L’importante è che il lavoro non diventi l’unico riferimento a scapito dell’istruzione e, soprattutto, che gli insegnanti non costringano i ragazzi a lavorare nei loro campi tutto il giorno sotto la minaccia del bastone.

M entre la Faraja House ospita bambini di strada, per i ragazzi che cercano un lavoro (in particolare le ragazze) è stato creato il Centro «Stella del mattino», anch’esso nel territorio di Iringa. Costruito e gestito dai missionari della Consolata, «Stella del mattino» ospita 60 adolescenti provenienti da villaggi dove non esistono le strutture necessarie per l’istruzione.
Il sistema educativo del Centro è «studio e lavoro»: lo stesso che vige nelle scuole statali fin dai tempi dell’ujamaa. La filosofia pedagogica di base enfatizza «l’importanza di trasmettere ai ragazzi le conoscenze che possano situarli in una buona posizione sociale e renderli cittadini capaci di autoguidarsi e portare il loro popolo fuori dalla povertà e dall’ignoranza» (J.T.K. Ulimwengu, capo editore Rai/Mtanzania).
Nel Centro si punta all’autosostentamento: sia per non dover dipendere da aiuti estei, sia per rendere più consapevoli i giovani. Qui essi possono mantenersi allevando animali, coltivando i campi e, nello stesso tempo, formandosi culturalmente per far fiorire domani tutte le potenzialità che la nazione possiede. In Tanzania nel 1996, durante il seminario organizzato dal «Centro per l’energia, lo sviluppo, la sicurezza e la tecnologia», si discusse sul deterioramento del livello qualitativo dell’educazione. Se nelle scuole primarie il problema maggiore è legato al sovrannumero, alle secondarie (dove il numero degli studenti è contenuto a causa della selezione per merito) la violenza sessuale costituisce il principale fattore di ingiustizia e continua ad essere al centro di dibattiti e della cronaca locale.
Il Ministro dell’educazione ha rivelato che, tra il 1995 e il 1998, 12.721 ragazze furono espulse dalla scuola poiché incinte. Anche da parte degli insegnanti.
«ho visto la bontÀ
liberatrice»

«A bbiamo visto i miracoli dell’amore» potremmo intitolare un libro, se volessimo narrare ciò che uomini e donne di Dio, preti e suore locali, missionari e laici, stanno realizzando a favore dei più poveri nei più remoti angoli della terra, là dove manca tutto: acqua, cibo, strade, ospedali, scuole.
La jeep s’inerpica sui monti a sud della Tanzania, oltre i 2 mila metri: antichi tratturi trasformati in «strade», che si possono affrontare durante la stagione secca, ma che si convertono in rovinosi torrenti durante i sei mesi delle piogge. Nonostante si creda che quattro ruote motrici possano fare miracoli, sovente ci s’impantana al punto da non potersi più muovere.
E quelle zone che sembravano deserte, d’un tratto si animano di persone che sbucano da ogni angolo, si organizzano in breve tempo e rimettono la macchina in condizione di riprendere il viaggio. È uno dei volti della solidarietà africana, una dimostrazione che l’antica massima vale ancora: «Io sono, perché noi siamo». Non si contano i saluti, i complimenti e i ringraziamenti, anche se qualcuno afferma che non è conveniente ringraziare perché, come dicono soprattutto i musulmani, «chi ha una ricompensa in terra non l’avrà in paradiso».
Da Njombe – dove finisce la strada asfaltata – a Ikonda, per percorrere 70 chilometri impieghiamo più di tre ore. Fortunatamente da alcuni giorni non piove. Intoo a noi spazi immensi e verde… verde dappertutto: siamo nella stagione delle piogge. Le poche abitazioni che si scorgono sono in terra rossa e hanno il tetto di paglia, dal quale fuoriesce fumo. Il cibo è cotto in pentole appoggiate su tre pietre, che costituiscono il focolare, per terra, in mezzo all’abitazione «multiuso». E il cibo è tutti i giorni uguale: polenta e fagioli.
Lo stesso cibo ci viene offerto dai parenti degli ammalati nell’ospedale di Ikonda. Quando la struttura venne ultimata, fu chiesto ai capi dei wakinga e wabena (etnie locali) come dovesse essere l’ambiente affinché i degenti si sentissero più a loro agio. Risposta: una grande stanza aerata, dove ognuno posa le sue tre pietre, simbolo dell’unità familiare, sulle quali cuoce la solita farina di mais. È meglio non cambiare troppo le abitudini delle persone. Poi toeranno al loro villaggio…
Ogni tanto suor Magda porta ai bambini un uovo oppure, alle mamme, un po’ d’olio per condire le patate bollite quando ci sono. La malnutrizione non aiuta certamente la guarigione.
L’ospedale è gestito dai missionari della Consolata. Può ospitare 200 ammalati e vi lavorano tre medici africani e tre spagnoli. Attualmente è il governo spagnolo a fornire i fondi per il funzionamento della scuola-infermiere e per la formazione degli assistenti medici; ma il personale competente è insufficiente. L’organizzazione Medicus Mundi cerca costantemente volontari, e si può contare sulla presenza di persone disposte a spendere qualche anno della loro vita per gli altri.

F ra le malattie (che richiedono il ricovero in ospedale) nel 1995 al primo posto c’era la malaria, passata poi al secondo. Oggi è l’Aids che detiene il triste primato: lo è anche nella classifica dei decessi. Nell’ospedale abbiamo sfogliato il voluminoso registro dei pazienti che fanno il test dell’Hiv.
Il fatto che tante persone vi si sottopongono significa che hanno comportamenti a rischio, o che vivono in ambienti dove il contagio può essere frequente, oppure che manifestano già alcuni sintomi. Orbene: ogni pagina del registro reca 18 nomi; quelli scritti in rosso sono «sieropositivi»; solo due (a volte tre) i nomi in nero, cioè i «negativi».
Nella regione di Iringa-Njombe la trasmissione dell’Aids è particolarmente accentuata anche a causa del lavoro «offerto» dalla Brooke Bond, multinazionale del tè. Il lavoro si protrae per 11-12 ore al giorno, anche sotto la pioggia, per una paga mensile che varia da 90.000 a 150.000 lire, a seconda della quantità di foglie raccolte.
I lavoratori, immigrati stagionali per la raccolta, vivono nelle casette degli accampamenti costruiti dalla compagnia, isolati. Ovunque ci sono contadini che non lavorano «in proprio», costretti anche a comprare il cibo (per lo più proveniente dal campo del manager). Non essendoci alcun diversivo, sono facile preda dell’alcornol e della promiscuità.
All’ospedale di Kibao (della Brooke Bond) risulta che 9 operai su 10 sono affetti da Hiv positivo. Quando la malattia comincia a manifestarsi, viene loro corrisposta una piccola liquidazione e sono licenziati. Con l’aggravante che, non essendo stati informati della natura e della pericolosità del male, tornando al villaggio, contagiano chi vi è rimasto. La compagnia del tè ha pensato di risolvere il problema così: un’ora settimanale di istruzione sull’uso di profilattici e sull’importanza di anticoncezionali e abortivi. Nessun accenno viene fatto agli effetti collaterali che, usando i farmaci Depoprovera e Norplan, comportano rischi elevati. Non a caso, nel Nord del mondo, tali farmaci sono stati banditi. E non solo perché, con il passare del tempo, causano sterilità nelle donne.
Se nei centri sanitari governativi non fossero praticate regolarmente «certe» iniezioni, il paese non riceverebbe più gli aiuti dall’estero. E questo sistema sta distruggendo l’«orgoglio delle tanzaniane». Una donna, infatti, diventa tale solo dopo aver partorito il primo figlio: da quel momento sarà «la mamma di…». Col tempo, il ricorso sommario a contraccettivi distruggerà la fertilità di un’intera popolazione.
Inoltre negli ospedali governativi, al momento del parto, soprattutto se c’è stato un cesareo o in seguito a complicazioni, spesso sono i medici a decidere indiscriminatamente, senza chiedere il consenso di alcuno, di chiudere le tube delle giovani madri. Queste vengono a scoprirlo soltanto in seguito quando, vedendo che non arrivano altri figli, effettuano visite di controllo, magari negli ospedali dei missionari.
Una tanzaniana, confidandosi con una missionaria della Consolata, ha commentato: «Noi abbiamo molta più fiducia nei vostri ospedali, perché qui c’è il timore di Dio, mentre in quelli del governo c’è solo il timore della nazione».
Maria Rosa Lorini

Valentino Savoldi e Maria Rosa Lorini