Lettere: cari missionari


Il paradiso
è qui



attraverso Missioni Consolata
di settembre, il giornale Times of India rivela che, se si riducesse la
popolazione mondiale a 100 individui, ci sarebbero 57 asiatici, 21
europei, 14 americani, 8 africani. Il quotidiano fa conoscere altri dati
(probabilmente tratti da un sito internet), omettendo però che 89 persone
sarebbero eterosessuali e 11 omosessuali; 6 individui possiederebbero il
59% della ricchezza del mondo intero e tutti e sei sarebbero statunitensi.
Ancora, su 100 individui, 80 vivrebbero in case senza abitabilità, 70
sarebbero analfabeti, 50 soffrirebbero di malnutrizione e 1 solo sarebbe
laureato.


«Se avete soldi in banca, nel
vostro portafoglio e spiccioli in una ciotola, siete fra l’8% delle
persone più benestanti al mondo. Se i vostri genitori sono vivi ed ancora
sposati, siete persone veramente rare, anche negli Stati Uniti e nel
Canada».


Qualcuno ha detto: «Lavora come
se non avessi bisogno di soldi; ama come se nessuno ti abbia mai fatto
soffrire, balla come se nessuno ti stesse guardando; canta come se nessuno
ti stesse sentendo.Vivi come se il paradiso fosse sulla terra.


Giovanni Fumagalli


Casatenovo (LC)

E noi, a poche settimane dal
natale di Gesù Cristo, citiamo un canto:


No, non è rimasta fredda la
terra:
Tu sei rimasto con noi…
Sì, il cielo è qui su questa terra:
Tu sei rimasto con noi,
ma ci porti con Te…
No, la morte non può farci paura:
Tu sei rimasto con noi…
Sei Dio con noi,
sei Dio per noi,
Dio in mezzo a noi.

«Gratia
plena»

sono un giovane devoto
dellaVergine Maria, perché le devo moltissimo. Ho avuto da poco una totale
conversione, grazie ad un vostro missionario, padre Serafino, che mi ha
aperto la strada della salvezza facendomi incontrare la madre di Dio.

Padre Serafino mi ha raccontato
come ha cercato di rendere santa la sua vita donandola a Dio; lungo la
strada della carità e della povertà spirituale ha incontrato molti
bisognosi in Africa e in tutti quei posti in cui Dio lo ha inviato
nell’arco della sua missione. Prego affinché i suoi sacrifici non siano
vani. Il mondo avanzi sulla strada della pace che Dio ha dato a noi
uomini, forse anche grazie ai sacrifici di persone come padre Serafino.


Firma non leggibile,


località non espressa

Nessuna
sanità da «terzo mondo»


in questi giorni il Consiglio
dei ministri ha approvato il documento di programmazione economica e
finanziaria per gli anni 2002/2005.


Tra gli interventi in
programma, leggo che sono previsti 120 mila miliardi di privatizzazioni
(la Repubblica 17/7/01). Ho istintivamente collegato questa notizia alle
perplessità espresse da Gianni Vaccaro nella sua lettera «Se ospedali e
scuole diventano imprese», pervenuta dal Perù e pubblicata su Missioni
Consolata, luglio-agosto 2001.


Ho poche idee in materia
politica ed economica; però mi sono chiesta: si stanno preparando per il
nostro servizio sanitario nazionale tempi difficili, ovvero da terzo
mondo?


Diana Cassani


Milano

La lettrice, più che un
interrogativo, lancia un monito. Ben venga ogni progetto del governo che
elimini gli sprechi e renda il servizio sanitario più efficiente, ma non a
scapito degli ammalati che non possono usufruire di strutture alternative!
Inoltre la lotta agli sprechi deve investire ogni ambito, compreso quello
della produzione di armi. Ecco un altro punto su cui bisogna essere
«svegli». E ci preme dire con forza che sanità, scuola, posta, trasporto,
informazione… da «terzo mondo» non sono tollerabili né nel nord né nel
sud del mondo.


Uso delle
offerte



la lettera di padre Marco
Bagnarol, pubblicata sul numero di luglio-agosto, mi ha lasciata
sconcertata.


Che un missionario, in possesso
di così generose offerte, scriva quelle due-tre cose che gli sono passate
per il capo è veramente inammissibile!


Pensavo che i missionari
destinassero al meglio i soldi che le persone, magari rinunciando a
qualche legittimo desiderio, offrono in favore di un numero indescrivibile
di individui che necessitano, prima di tutto, di medicine per sopravvivere
ed anche cibo per vivere.


D’ora in poi, prima di fare
un’offerta, ci penserò ben bene.


Lettera anonima

I missionari impiegano le
offerte ricevute secondo il desiderio dei donatori: se il denaro è per la
costruzione di un dispensario medico o di una scuola, viene impiegato a
tale scopo. E l’ha fatto, scrupolosamente, anche padre Marco Bagnarol.

Però padre Marco solleva un
altro problema; si domanda: perché è più facile raccogliere fondi per un
allevamento di animali che per la costruzione di una cappella? In altre
parole, il missionario sottopone la sensibilità evangelizzatrice dei
credenti ad un esame di coscienza. Un esame da non sottovalutare.


Se vince la
violenza

Gentile
direttore,


abbiamo vissuto un’estate
«calda», da stampare nella memoria nella sua nefasta realtà. L’estate 2001
(che ci attendeva per trascorrere nel silenzio della montagna e nel riposo
balneare o in un semplice stacco dalla realtà quotidiana) ha portato in
trionfo la violenza. Una violenza sorda e anarchica, disorganizzata e
spietata, disperata e inconcludente. Una violenza che deve farci
interrogare su dove nasce, perché riemerge con tutta la sua forza
distruttrice e contagia le giovani generazioni.


Sono ancora i fatti di
luglio-agosto (specie le vicende del G8 di Genova) che ci turbano e fanno
sobbalzare le coscienze.


A Genova perché la violenza ha
schiacciato le ragioni della protesta, del dialogo, del confronto tra
uomini e donne che vivono gli uni accanto agli altri?… Sono state messe
in soffitta le ragioni nobili di molti, che hanno partecipato non solo
alla manifestazione di sabato 21 luglio, ma anche alla settimana di
dibattito sulla globalizzazione, e che da anni lavorano con coerenza per
lo sviluppo dei paesi più poveri. Non una minoranza, ma un gruppo
consistente di giovani ha usato lo scontro per opporsi ai «grandi della
terra». La violenza, come mezzo per dire «ci siamo!», ha dimostrato ancora
una volta di essere il principio dell’autodistruzione. È scoccata la
scintilla… e l’incendio ha incenerito i buoni e sinceri, che animano la
parte sana e si impegnano per una globalizzazione al servizio dell’uomo.


I violenti hanno creduto di
vincere. In realtà hanno perso. Hanno provocato una reazione scomposta;
hanno evidenziato nel sistema la mancanza di prevenzione e tutela dei
cittadini genovesi; hanno portato a conseguenze tragiche il gioco dello
«spacca tutto», culminato con la morte di un giovane e la disgrazia per
un’altra giovane esistenza. Nelle settimane a venire è nato uno scontro
avvilente nel mondo politico: non una voce si è alzata, ferma,
intransigente, autorevole, per dire basta allo stillicidio, per indicare
un’altra strada a chi vuole perseguire valori umani, per chi deve tutelare
la sicurezza dei cittadini. Alla riflessione pacata si sono privilegiati
gli scambi di accuse e le violenze verbali, che producono solo danni,
spesso irreversibili. Della «non violenza» pochi hanno parlato. Della
capacità di opporsi all’ingiustizia, grazie all’opera silenziosa e
all’amore di coloro che vivono in prima persona i drammi nel Sud del
mondo, nulla. Solo risse verbali.


Allora la violenza dilaga,
penetra nel cuore dei deboli che si credono forti, annebbia menti e
coscienze, entra nelle giovani vite come un virus, una droga e agisce.
Attraverso la violenza si giustifica ogni azione, si chiedono protezioni
politiche, sociali, economiche e financo giustificazioni religiose.


Oggi non si può rimanere inermi
o chiedere solo ordine e repressione. È importante riportare al centro la
cultura della pace, per sradicare la violenza dai cuori, per allontanare
dalla storia l’idea che solo il male trionfa.


I cristiani e tutti gli uomini
di buona volontà sono pronti alla prova?


Luca Rolandi


Torino


Non basta la
parola

Caro
direttore,


«fare un salto» mi hanno
risposto in una banca. Significa che l’impiegato sarebbe stato assente per
tutta la mattinata… Le parole non riescono spesso a rendere il concetto
che ci frulla in testa, perché le giriamo come vogliamo.


Prendiamo, ad esempio, il
termine global. Per esso si azzuffano non solo i politici. Un bene, un
male, una novità?


Global è stato l’antico impero
di Roma, con il virgiliano imporre costumi di pace, usando clemenza a chi
cede e sgominando chi si oppone (Eneide, VI, 852-3). Anche per Marco Polo,
Cristoforo Colombo, Giuseppe Garibaldi o Guglielmo Marconi la realtà era
globale. Ma lo è stata pure nelle guerre modee e nelle epidemie antiche.
E lo è nell’economia. Dunque global non è un’invenzione di questi giorni.
Nel 1969 Marshall McLuhan scrisse sul «villaggio globale», cioè
elettronico. Oggi abbiamo quello telematico di internet. Ma i messaggi
sono destinati pure al bambino del Nepal, costretto a lavorare in una cava
di pietre, o a quello nostrano obeso per eccesso di merendine?


Global: l’esportazione che
arricchisce le nostre imprese, ma anche il lavoro minorile nei paesi «in
via di sviluppo» per prodotti destinati a noi.


Global: la nuova economia che,
ad esempio in Perù, fa rispuntare la TBC, perché gli ospedali (obbedendo
al Fondo monetario internazionale) sono ora imprese di mercato, e non
attuano prevenzione. Il Perù, dove si paga per donare il sangue ad un
malato; dove una donna muore con il figlio, perché senza soldi per il
taglio cesareo (cfr. Missioni Consolata, luglio-agosto 2001). In Gran
Bretagna hanno aggiunto a «capitalismo» l’aggettivo «compassionevole».
Sono parole povere quelle che necessitano di un abbellimento!


Antonio Montanari


Rimini

Avanti
così!

Egregio
direttore,


dopo quanto accaduto a Genova a
luglio e dopo i drammatici avvenimenti dello scorso 11 settembre negli
Usa, nel corso di frequenti discussioni con amici e conoscenti, ci siamo
ulteriormente convinti del valore che riviste come Missioni Consolata
possono assumere.


La vostra rivista garantisce la
qualità e l’originalità delle informazioni, che riescono a comunicare,
attraverso i servizi e le documentazioni che pubblicate, una testimonianza
diretta e continuativa delle culture mondiali e delle condizioni delle
economie nei singoli paesi considerati, evidenziando le contraddizioni che
emergono.


I motivi di riflessione che si
trovano aiutano anche a comprendere le ragioni che hanno spinto centinaia
di migliaia di persone a partecipare in maniera diretta, e molte di più a
condividere le ragioni di una manifestazione quale quella di Genova del 21
luglio. La prevalenza dei mezzi d’informazione ha poi fatto diventare
quanto accaduto una sola «questione di ordine pubblico», scrivendo una
valanga di inutili considerazioni, quando ben altro era il valore di ciò
che si voleva sostenere. Nel panorama dell’informazione nazionale, troppo
impegnato a fornire notizie sugli indici di borsa e sulle tendenze dei
mercati, solo in maniera sporadica trovano visibilità le realtà «altre»
dall’occidente, spesso strumentali a qualche campagna più o meno occulta.


Soprattutto in questi giorni,
in cui con leggerezza sono usate parole terribili, ci aspettiamo che
proseguiate, con il vostro lavoro, a trasmettere un messaggio di giustizia
sociale e di pace.


E questo per continuare a
«sognare un mondo diverso dall’attuale».


Aldo Da Boit


e Tamara Prest



Sorpresa,
stupore…


Spettabile
direzione,


ho letto con attenzione su
Missioni Consolata di settembre «Ai lettori» e «Battitore libero», scritti
da Paolo Moiola.


Mi ha molto stupito la
sicurezza (sicumera?) con cui il redattore individua la causa di tutti i
mali del mondo nella globalizzazione e nelle «violenze di certe
multinazionali», senza accennare alle enormi risorse sperperate in
armamenti convenzionali e no ed in guerre intee dai cosiddetti paesi
poveri (mentre, secondo notizie di stampa, l’ex-terrorista Gheddafi,
cambiando registro, ha ormai ultimato, impiegando utilmente i
petro-dollari, un imponente sistema di acquedotti per portare l’acqua dal
deserto alla costa).


Confesso, infine, sorpresa nel
trovare le tesi antiglobalizzazione e antiamericane, cavallo di battaglia
dell’estrema sinistra italiana, sostenute su Missioni Consolata da Paolo
Moiola, senza far parola su una possibile globalizzazione governata e non
selvaggia. Ancora sono sorpreso nell’apprendere la contiguità di certi
dimostranti a Genova (durante il «G 8») con tute bianche e no.


Chiedo a codesta direzione se o
in quale misura si riconosce nelle tesi del redattore Paolo Moiola.


La presente globalizzazione,
fondata sul neoliberismo economico, solleva forti perplessità nello stesso
«Rapporto delle Nazioni Unite sullo Sviluppo»: come è possibile, ad
esempio, che tre individui nel 1999 avessero ricchezze pari al reddito
complessivo di 42 paesi poveri? Come spiegare il crescente divario
economico fra paesi ricchi e poveri, rispettivamente di 11 a 1 nel 1913,
di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973, di 72 a 1 nel 1992?


Multinazionali.

Vale il discorso della non
demonizzazione. Ma è eloquente che la «Del Monte», ad esempio, sia stata
«processata» in Kenya e, alla fine, abbia accettato le richieste dei
lavoratori nelle piantagioni di ananas.


Guerre e armi.

Nel sud del mondo esistono conflitti assurdi, mancanza di rispetto dei
diritti umani e sprechi di risorse… che Missioni Consolata ha
denunciato. Ma, ancora una volta, sorge la domanda: chi produce e vende
armi? Chi ha addestrato i terroristi, responsabili delle stragi negli Usa
l’11 settembre?

In redazione il dottor
Moiola
ha le «sue» idee (come tutti), che rispettiamo, perché crediamo
nel pluralismo. Questo non significa che tutte le opinioni siano giuste,
ma che tutti possono esprimerle. Altri nostri collaboratori talora
sostengono tesi discutibili. L’invito a ciascuno è: sappi far credito
anche a chi non la pensa come te. Per tale ragione pubblichiamo anche le
lettere anonime (non siamo tenuti a farlo) e quelle che ci insultano.

Come missionari, non possiamo
dimenticare personaggi di chiesa, ieri condannati e oggi assolti: Ricci,
De Nobili, Rosmini… Grazie a Dio (è proprio il caso di affermarlo), la
chiesa cattolica (cioè universale) è quella di san Pietro e di san Paolo:
il missionario Paolo ha accusato Pietro, primo papa, di ipocrisia (cfr.
Gal 2, 11-14)… ed entrambi sono i pilastri della chiesa.

Ai nostri giorni il cardinale
Biffi «non è» il cardinale Martini. Però entrambi hanno diritto di parola,
e lo esercitano.

Complimenti
di «troppo»

Leggo
su Missioni Consolata, settembre 2001, p. 67: «… spero che il mondo che
lei difende un giorno o l’altro si frantumi sotto il peso delle proprie
contraddizioni. Con l’aiuto di quel “popolo di Seattle” (e di Porto Alegre)
che lei liquida con accademica sicumera»… Nell’attesa avete frantumato
le Twin Towers di New York e le persone che si trovavano al loro interno.
Complimenti!


A proposito, se quel mondo si
frantumerà, non ci saranno più antibiotici, aspirina, generosi oboli di
fedeli laboriosi che risparmiano.


A proposito bis, «George il
texano» si chiama George W. Bush ed è il presidente degli Stati Uniti;
merita rispetto come il suo paese che è democratico, generoso, ospitale.


A proposito tris, della «Tobin
tax» si pente persino l’ideatore Tobin, che si è reso conto di aver preso
una cantonata. A Genova non se n’è parlato, perché non funziona, non
serve, anzi fa danno.



Non si stigmatizza la
mercificazione della salute indicata dalla signora Bono, bensì quella
esemplificata da Gianni Vaccaro, che dovette pagare 20 dollari per donare
il sangue ad una ragazza con cancro terminale (cfr. Missioni Consolata,
luglio-agosto 2001).

Bis. Nell’articolo contestato,
alla riga 26 della seconda colonna, si riconosce il «presidente George W.
Bush».

Ter. Nel 1972 James Tobin
(premio Nobel per l’economia nel 1981) propose un’imposta dello 0,05%
sulle transazioni valutarie. Oggi non si riesuma la «Tobin tax» tout
court, ma qualcosa di analogo. È questo pure il parere della studiosa
Susan George,
nostra ospite il 18 settembre scorso (cfr. pagina 43).
Al riguardo, si legga: Alex C. Michalos, Un’imposta giusta: la Tobin Tax,
Gruppo Abele, Torino 1999.

Circa la «nostra» frantumazione
delle torri gemelle e l’assassinio dei residenti, i «complimenti» della
lettrice… li meritiamo davvero?

Usa,
il migliore di tutti?


essendo un lettore di Missioni
Consolata, di cui Paolo Moiola è tra i componenti la redazione, ho avuto
modo di leggere fondi o reportages di suo pugno e più volte sono stato
preso dall’impulso di scrivergli (come più volte sono stato tentato
d’invitare la direzione della rivista ad eliminare il mio nome dagli
abbonati).


Sul numero di settembre il
fondo riguardante i fatti di Genova non poteva essere che di Moiola. Il
livore che manifesta sempre verso gli Stati Uniti, per lui il Satana che
ha demonizzato il mondo occidentale (a proposito, quanto è diverso tale
livore da quello espresso dall’integralismo islamico?), appare anche in
queste righe riguardanti i fatti di Genova.


È ovvio che a Genova Moiola non
poteva non esserci e, ancora più ovviamente, per dimostrare in modo
pacifico, senza casco o mascherine e, men che meno, bastoni o spranghe. Ma
egli non ha mai dubitato che la sua «dimostrazione pacifica» avrebbe fatto
da paravento agli «spacca tutto» privi di qualsiasi motivazione se non
quella di fare disastri? O forse, sotto sotto, sperava che succedesse? Io
proprio non riesco a capire quali siano le origini del suo
antiamericanismo viscerale…


Possibile che, in tutti i suoi
redazionali, sia messo solo in evidenza l’aspetto negativo (che talvolta
esiste) dell’operato statunitense e mai ciò che di buono quel grande paese
compie a vantaggio dell’umanità? Negli anni ’40-50 Moiola non era ancora
nato; ma non gli è mai capitato di leggere qualcosa circa la storia di
quel tempo?


Io penso che il redattore sia
fondamentalmente onesto: purtroppo non si rende conto che il suo
atteggiamento (ancor più grave, perché il pensiero viene riportato da una
rivista cattolica) tende a creare un’immagine unicamente negativa di un
grande paese, non perfetto, ma sicuramente il migliore fra tutti quelli
esistenti sulla faccia della terra. Nelle sue vesti egli fa più danno dei
vari Fo, Santoro e Luttazzi, che neppure meriterebbero una citazione. Il
disprezzo, costantemente espresso e manifestato, alimenta sentimenti di
invidia, che sfociano poi in qualcosa di più grave per arrivare fatalmente
all’odio. Questa lettera viene scritta dopo i fatti di New York, che qui
non commento. Ma chiedo a me e a lui: quanta parte di responsabilità per
la tragedia può essere attribuita alle diffuse e infamanti accuse espresse
nel mondo occidentale verso gli Stati Uniti? Minima sicuramente, ma tale
da indirizzare le idee degli inconsapevoli e dei più violenti in una
direzione sbagliata, in grado di appoggiare (anche se inconsapevole) chi
intende realizzare un disegno perverso.


Che l’Italia sia «il ventre
molle» dell’Unione europea forse a Moiola farà anche piacere, confondendo
la nostra connaturata e opportunistica debolezza come una manifestazione
di non dipendenza dal «grande Satana» d’oltre oceano: non dipendenza che
esprime la solidarietà correlata sempre da «però».


Guarda caso Bush o il «texano»
(come forse Moiola preferisce), nel ringraziare i paesi che hanno
manifestato la loro solidarietà agli amici americani, ha dimenticato
l’Italia: un fatto che ha rattristato soprattutto la nostra comunità, che
si è sentita isolata e quasi emarginata in una fase storica così delicata.


Che gli Stati Uniti siano
«sicuramente il [paese] migliore fra tutti quelli esistenti sulla faccia
della terra»… signor Laurenti, provi ad affermarlo in America Latina o
nella repubblica del Congo, dove da tre anni è in corso una guerra che ha
seminato oltre 2 milioni di morti… con lo «zampone» anche degli Usa,
nonché della Francia! In ogni caso Paolo Moiola terrà conto delle
osservazioni. È stato lui a chiedere la pubblicazione della lettera,
nonostante alcuni passaggi offensivi.


Guide cieche
e sale senza sapore

Spettabile
rivista,


esprimo disappunto dopo aver
letto l’editoriale di Paolo Moiola. Non mi sarei mai aspettato di leggere
su una rivista missionaria un articolo di chiaro stampo anti-G8.


Anche il dossier di Igino
Tubaldo, sulla dichiarazione Dominus Jesus, era assai sgradevole per
alcune affermazioni di dubbio valore teologico ed ecclesiale.


Il vangelo pone un serio
interrogativo: «Può un cieco guidare un altro cieco?». Per noi cattolici
c’è una fortissima tentazione: seguire le mode di pensiero piuttosto che
la tradizione, la sacra scrittura e il magistero del papa e dei vescovi.


Assumendo categorie da altri
ambienti (per l’articolo anti-G8 da una certa sinistra e per il dossier
sulla Dominus Jesus dalla teologia protestante e del dubbio), si finisce
col diventare come il sale, che – afferma il vangelo – perde il suo
originale sapore e viene quindi buttato.


Così si diventa inutili alla
chiesa, cioè al progetto di Cristo, e al mondo! Scusate la franchezza. Mi
auguro che su queste cose ci si possa confrontare sulla rivista.


Da sempre crediamo nel
«confronto». Quindi abbiamo pubblicato anche la sua lettera.


«Dissenso»
non è «odio»



mia moglie è da decenni
abbonata a Missioni Consolata: crede nell’opera missionaria, che ha anche
visto la dedizione completa in Africa di un suo zio vescovo. Io leggo,
oltre alla vostra rivista, Corriere della Sera, di cui talvolta archivio
qualche articolo interessante ed incisivo; tra questi c’è proprio quello
del professor Panebianco del 23/6/01, che voi avete ferocemente attaccato
nel numero di settembre.


Io condivido il pensiero di
Panebianco e trovo scandaloso, sotto il profilo della faziosità e
ristrettezza di visione, quanto affermato nel vostro articolo, che ignora
almeno due cose semplicissime:




Non mi soffermo ad argomentare
perché i no global sono solo interessati, come dice Panebianco, a
sviluppare la loro identità e ideologia, e non argomenti razionali.


Resto, comunque, addolorato nel
vedere come gli articoli della vostra rivista, che vorrebbe essere
cattolica, contribuiscano a fomentare l’odio verso il mondo occidentale.


Antonio Filisetti (via e-mail)

Anche da parte nostra due
«cose»: – non ignoriamo affatto i problemi che il lettore ricorda (ma non
c’entrano con l’articolo di Panebianco); – il dissenso non è per forza
odio. Non lo è assolutamente in noi.


Il pane
bianco del professor Panebianco

Caro
direttore,


ho letto su Missioni Consolata
di settembre la critica di Paolo Moiola nei confronti del professor
Panebianco. Condivido pienamente i rilievi del vostro redattore.


Tra l’altro, il cognome del
professore mi ha ricordato che nel mio paese natale, la Serbia, il pane
bianco lo mangiano i ricchi e il pane nero o la polenta i poveri… Trovo
interessante il fatto che Panebianco difenda la società dei ricchi, la
società di coloro che mangiano pane bianco; anzi, tutte le mattine,
possono scegliere fra una ventina di pani diversi.


Il vostro giornalista è
arrabbiato, perché ha visto da vicino quelli che non hanno neanche il pane
nero, e io lo capisco. È sdegnato con quanti non vogliono né vedere né
assumersi le responsabilità di fronte alle sofferenze altrui, che egli ha
visto con i propri occhi e non riesce a cancellare dalla mente allorché
rientra nella «civiltà».


Signor direttore, sa come la
penso io? Se la globalizzazione garantisce a tutti benessere e democrazia,
io ci sto, eccome! Ma se aumenta il mio benessere e quello dei miei figli
a svantaggio delle creature di un’altra mamma, non ci sto più. Rinuncerei
al piatto pieno e ai 20 tipi di pane bianco, insieme ai miei figli;
rinuncerei ai tre pasti al giorno con molte persone che conosco… se
potessimo cancellare la morte per fame. E credo che lo farebbe anche il
professor Panebianco e, con lui, moltissimi «global», «antiglobal» e tutte
le persone che hanno un cuore nel petto.


Ma la fame nel mondo continua a
mietere numerose vittime, specialmente bambini. Se, pur con le nostre
rinunce, non eliminiamo il flagello, non significa che anche noi non ne
siamo responsabili. Non dobbiamo tranquillizzare le nostre coscienze; ma
trovare il modo che ci sia pane per tutti.


La nuova Europa e la sorella
America sono paesi meravigliosi, pieni di bellezze e ricchezze di vario
genere; ma, se avessero l’umiltà di riconoscere anche quelle degli altri,
se riconoscessero a tutti il diritto di vivere, respirare, lavorare,
studiare… se smettessero di misurare cose e persone con due misure
diverse… se dessero al mondo la parte più bella e sana della loro
civiltà… Purtroppo pochi lo fanno.


Allora ci sono quelli che non
vogliono accettare «tutto il pacchetto» della nostra civiltà, ma solo la
parte migliore. Sono i sognatori, gli utopisti. Sono anche coloro che si
ribellano, protestano, pregano. Sono quelli che Gesù chiama «sale del
mondo». Non sono terroristi e non seminano male e dolore. Possono essere
dei giornalisti, come Paolo Moiola e i suoi colleghi; sono i missionari
della Consolata e tutti quelli che combattono il dolore, la povertà e
l’ingiustizia. Che mondo sarebbe senza di loro?


Missioni Consolata rappresenta
per me un’«isola felice» nel mare delle informazioni quotidiane. Può
sembrare un paradosso: la rivista si occupa dei problemi più gravi del
mondo; eppure riesce a trasmettermi la bellezza e il valore della vita;
tiene sveglia la mia coscienza e mi fa sperare in un mondo migliore, per
il quale vale la pena di combattere e crescere i figli.


La signora Petrovic, sposata
con un medico italiano, è un’«operatrice interculturale» nelle scuole
della provincia di Trento. Ha pure una storia religiosa affascinante, che
i nostri lettori forse ricordano. Nata in Serbia sotto il regime ateo di
Tito, Snezana fu battezzata di nascosto dalla nonna… perché piangeva,
piangeva sempre. La bimba, una volta battezzata, non pianse più.  In un
post scriptum si rivolge pure ad Anna Turatello, invitandola a non avere
paura degli extracomunitari (cfr. Missioni Consolata, settembre 2001).


Scrive: Cara Anna, quell’extracomunitario
si è fermato, a differenza di altri (che non erano tali). Tu, però, non
buttarti sulla strada. E se i freni dell’auto non funzionassero?


Io ho una figlia di 16 anni,
come te. Questa estate siamo state a Belgrado. Lei ha passato delle
vacanze indimenticabili con gli «extracomunitari». Io però cancellerei
tale parola dal linguaggio della bella lingua italiana.


Sono stranieri di diversi
paesi. Ognuno ha un nome e cognome; può essere bello o brutto, onesto o
disonesto, educato o maleducato, pigro o diligente, stupido o
intelligente… Non aver paura, Anna. Anch’essi sono «il tuo prossimo».

Le
armi del «diavolo»

Cari
missionari,


temo di venire cestinato
scrivendo sull’orribile attentato negli Usa.


Il discorso di Bush, con la
parola «vinceremo», mi sa più di ragionamento di «vendetta» che di
giustizia; ancora una volta, dimostra che la civiltà civile siamo «noi» e
noi siamo nel giusto. Gli altri sono diavoli.


Lutto, minuti di silenzio,
trasmissioni sospese. Sono d’accordissimo: ci mancherebbe! Ma quando gli
Usa hanno attaccato Baghdad e Belgrado, quanti sono stati i minuti di
silenzio?


Il «diavolo» Bin Laden è stato
finanziato dalla Cia americana, finché ha fatto comodo, come i vari Saddam
(i nemici). Troppo comodo! Lo sbaglio, nella nostra epoca di popoli
civili, è stato ed è quello di vendere, vendere… senza pensare
minimamente che i «diavoli» le armi le comprano in casa nostra: non se le
sono create loro!


Il «mea culpa» è d’obbligo.


Gli Usa fanno una politica
estera dannatamente a loro favore, senza pensare ai popoli di «serie C».
Finché i palestinesi e i curdi non avranno una patria, ad esempio, e noi
continueremo a pensare solo al dio-denaro, al dio delle banche, non
stupiamoci se il diavolo prova invidia e odio nei nostri riguardi di
popolo occidentale santo. E con un nostro aereo ci condanna.



Diamo atto al presidente Bush
che, dopo le stragi dell’11 settembre, ha escluso la vendetta e persegue
la giustizia e la libertà. Ma come?


Una voce
fuori del coro


sono un ex allievo dei
missionari della Consolata. Dopo qualche anno di servizio in Mozambico,
sono ora responsabile del settore «cooperazione allo sviluppo» nella
provincia di Trento. In tale veste (ma anche e soprattutto a livello di
impegno personale), mi occupo di problemi legati allo sviluppo: diritti
fondamentali, pace, democrazia.


Ringrazio molto Missioni
Consolata, che rappresenta per me un valido strumento d’informazione,
analisi e riflessione, soprattutto in riferimento ai problemi degli
squilibri mondiali, della globalizzazione delle povertà, dei diritti dei
popoli colonizzati dai paesi occidentali, non più in senso classico, ma in
modo più subdolo e (se possibile) più pericoloso dalle logiche del
mercato.


Ogni mese leggo Missioni
Consolata, una delle poche voci fuori del coro, capace di leggere con
equilibrio e coraggio le contraddizioni dei nostri tempi, sempre con un
occhio attento ai diritti calpestati di milioni di persone, in nome di una
non ben definita libertà, che sempre più si rivela libertà di fare i
propri interessi a scapito di tutto e tutti.


Dopo le tragedie negli Stati
Uniti, mentre la violenza costringe a schierarsi senza «distinguo» né
capacità di riflessione, mantenere viva la fiamma della ragione e della
ricerca onesta rappresenta una scelta profetica, che solo chi è spinto
dalla passione e dalla generosità può fare.


Sono riconoscente ai missionari
della Consolata per la formazione ricevuta e mi complimento con la
rivista. Mi fa piacere vedere che i valori (che mi hanno sostenuto da
ragazzo) sono sempre la scelta degli ultimi, la giustizia, il rispetto,
l’equità, il pluralismo e rappresentino ancora oggi la linea direttrice
della rivista. Buon lavoro.

 



Chiesa e potere militare


 Gesù
non era cappellano di Erode

 


Cari missionari, il
dossier su «gli indios di Roraima/Brasile» è molto bello e ancora più
bella è la campagna di mobilitazione che avete lanciato per impedire la
costruzione della caserma nel villaggio di Uiramutã e arginare la
militarizzazione del territorio indigeno (Missioni Consolata,
luglio-agosto 2001).


Spero che da parte
di tutte le istituzioni cattoliche vi sia la medesima sollecitudine per
questa nobile causa o, quanto meno, non vi sia ostilità verso i vostri
progetti.


Dico questo perché
la presenza militare è molto radicata presso le alte sfere della chiesa
cattolica ed è una presenza pesantissima.


Ci siamo dimenticati
che Giovanni XXIII, prima di diventare papa, fu cappellano militare e che
l’attuale pontefice, tra gli altri titoli, detiene anche quello di
«vescovo militare»?


Il fatto potrebbe
funzionare se questi titoli e questa presenza fossero interpretati come un
servizio alla verità di Cristo, un servizio alla giustizia, alla pace,
alla salvaguardia del creato, e non una sovrastruttura finalizzata alla
legittimazione di strutture di peccato. Queste, sul piano morale e
religioso, non potranno MAI avere legittimità e autorevolezza (cosa ben
diversa da autoritarismo).


Io non so se e in
quale misura anche in Brasile sia presente una «chiesa in stellette», «in
anfibi» o un progetto di «caritas militare» e se i cappellani militari
italiani siano andati a Rio de Janeiro o Manaus a svolgere «pastorale
vocazionale militare» e addestrare in tale senso i loro confratelli per
far nascere una chiesa militare locale.


So che in paesi
latino-americani (in particolare Argentina e El Salvador) i cappellani
militari hanno avuto un ruolo assai importante nell’escalation delle
violenze contro la popolazione civile; e, se lo so, è perché ad ammetterlo
sono stati gli stessi autori delle atrocità e in qualche caso, sia pure a
distanza di anni, gli stessi cappellani.


Sono convinta che il
papa, a livello teorico, possa avere qualche ragione per tenere ancora in
piedi l’Ordinariato militare. A livello pratico, però, dovrebbe vigilare
di più su ciò che effettivamente i cappellani e vescovi militari insegnano
e fanno e, soprattutto, su ciò che omettono di insegnare e fare in prima
persona.


Gesù è andato nelle
case di tanti peccatori e ha usato misericordia con tanta gente che aveva
fatto del male. Ma non è stato né il cappellano di Erode né quello di
Pilato.


Rita Ferri – Fano
(PS)

 

Lettera che si
avvale di numerose fonti bibliografiche… Il papa non scende a patti con
la guerra. E lo sta dimostrando anche nel presente ed angoscioso frangente
mondiale, dopo l’«11 settembre 2001».

 

 

 



Abbiamo già tanti problemi, e voi…

 


Caro direttore,


per ragioni di
salute sto trascorrendo un po’ di tempo con i parenti, a contatto con la
gente, e raccolgo anche qualche parere su Missioni Consolata. In genere la
rivista piace per il taglio spigliato e non clericale, che – dicono – si
trova in pochissime riviste cattoliche. Quindi ringraziano te e la
redazione.


Permettimi anche di
riportare (senza offesa) due osservazioni critiche, abbastanza comuni.


1. Essendo Missioni
Consolata «la rivista missionaria della famiglia», si desidererebbe un
arti

AAVV




Giustizia infinita?

 

New York e Washington.
Mi è impossibile esprimere il dolore e l’orrore provati di fronte alle stragi, a
sette giorni dalla tragedia. È un evento che segna per sempre la storia di un individuo,
e non solo di una nazione. Non c’è chirurgia plastica che possa sanare la
coltellata-sfregio, inferta dall’atto terroristico dell’11 settembre. Un
abisso fisico e morale.
Presto avremo la conta definitiva delle vittime. Saranno
troppe: una cifra superiore alla capacità umana di sopportazione, come ha ricordato il
sindaco di New York, Rudy Giuliani.

Inizieremo a conoscere le storie di manager, commessi, pompieri,
poliziotti, donne delle pulizie, turisti… che si sono "persi"
nell’inferno di cristallo del World Trade Center. Che vigliaccheria schifosa è mai
questa? Eppure chi l’ha commessa vi ha sacrificato la vita! Ma ha ammazzato migliaia
di innocenti. Quale Allah è così sfrontato da richiedere tanto sacrificio?

Qualcuno pagherà il conto. Speriamo che si individuino i responsabili
giusti e non capri espiatori. Il timore è che a versare il dazio siano innocenti di altra
bandiera, di altro credo religioso. La parola "guerra" echeggia sempre più
forte nelle dichiarazioni dei politici americani. Ma contro chi? Si respira aria da
legge del taglione.

Perdono? Sembra irrispettoso oggi, a week after. Sembra
offendere la sensibilità di tanti che non hanno più lacrime. Giustizia… infinita
allora? La CNN ha mostrato un giovane prete che si aggirava fra le rovine delle torri
gemelle, sporco al punto da sembrare nudo. Girava come chi sa che quello era il posto in
cui Dio lo chiamava, senza capire la ragione. Era silenziosamente presente
nell’oceano della morte. "Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada;
se percorro la città, ecco gli orrori della fame. Anche il profeta e il sacerdote si
aggirano per il paese e non sanno che cosa fare" (Ger 14, 18). Ma padre Judge,
cappellano dei vigili del fuoco, sapeva cosa fare: si è sacrificato dando la vita nel suo
servizio sacerdotale.

I vescovi statunitensi hanno provato ad incoraggiare i cristiani alla
pace; invitano tutti a rinnovare la fiducia in Dio, a rifiutare la tentazione
dell’odio,
la vera causa della tragedia. Che la caccia ai responsabili
dell’atto scellerato non si tramuti in una spirale di violenza, in cui i poveri
pagano il prezzo più alto! Come sempre.

Leggo su internet che Francesco Cossiga avrebbe dichiarato:
"Adesso ci sarà certamente qualcuno che dirà: gli americani se la sono
meritata!".
Purtroppo qualcuno ci sarà, perché la madre dei cretini è
sempre gravida…
Preghiamo che i morti servano, almeno, a renderci conto del disagio
mondiale che i sistemi politici non controllano più. La politica statunitense non si è
dimostrata particolarmente illuminata sul rapporto Nord-Sud del mondo. Gli americani (che
ora chiamano a raccolta tutti gli alleati contro il terrorismo) dimenticano le loro prese
di posizione unilaterali,
che li hanno esposti a critiche anche da parte degli amici
europei. C’è stata arroganza nelle scelte riguardanti l’ambiente, il nucleare,
gli armamenti, per non parlare dell’embargo contro Iraq e Cuba. È davvero così
strano che qualcuno non ami l’America?

Tutti siamo consapevoli che molto, nell’immediato futuro del
mondo, è nelle mani degli Stati Uniti. Una leadership illuminata tiene conto di chi
lavora a fianco, lo promuove, lo guida per ottenere i risultati migliori nel bene comune.
Questa è la leadership che il mondo si aspetta dagli Usa a livello economico, politico e
militare. Tale è la leadership che potrà sconfiggere con successo ogni tentativo
terrorista di minare i valori della democrazia e libertà, di cui gli Stati Uniti si
dichiarano paladini.

A Washington e New York il mondo intero è stato colpito
l’11 settembre. Ciò che unisce tutti i popoli di fronte a quell’eccidio è il
male, che colpisce l’innocente. E quanti morti innocenti in ex Jugoslavia, Rwanda,
Burundi, Congo, Liberia, Sierra Leone, Timor Est, Sudan, Medio Oriente!…
Ad essi si
aggiungono le vittime del disinteresse o interesse di chi vuole mantenere
intatti i suoi privilegi.

Suggerirei agli amici statunitensi di cogliere l’esempio splendido
di alcuni loro giovani, che in questi sette giorni hanno offerto la vita per salvae
altre. Se chiamati alle armi, faranno anche la guerra. Ma quanto sarebbe più bello se
questi ed altri ragazzi, in ogni parte del mondo, avessero l’opportunità di provare
quanto valgono sul terreno della pace e della solidarietà internazionale!

La chiesa ha il difficile compito di creare ponti di pace fra
"distanze grandi" e "terreni impervi". Non si può prescindere da una
presenza di consolazione in questi giorni di disperazione. È necessario il
dialogo con le altre fedi religiose, in primis con la comunità islamica ed ebraica.

Preghiamo perché il mondo rifiuti ogni violenza e ognuno apra
(finalmente) mente e cuore. Che Dio accolga le vittime delle stragi di New York e
Washington, consoli le loro famiglie!

padre Ugo Pozzoli




Genova (1): prima del vertice degli “otto grandi” VOI NON SIETE I PADRONI DEL MONDO

Oggi chi scrive sul "G 8" di Genova, a quasi
tre mesi da fatti tristemente noti, rischia di incappare nel "senno di poi", di
cui sono piene le fosse.
Tuttavia resta valido il detto "l’esperienza insegna", per non cadere negli
errori di ieri. Come pure: "Chi sbaglia paga". Ma senza capri espiatori.
A noi il "G 8" interessa, soprattutto, per le ripercussioni nei paesi
impoveriti. Oltre ad alcune testimonianze dal Sud del mondo, diamo spazio a due documenti:
quello "propositivo" di numerosi istituti missionari e organizzazioni cattoliche
e quello "risolutivo" degli "otto grandi" (articolo successivo). Il
confronto fra le "attese" dei primi e i "risultati" dei secondi è
eloquente.

 

Genova, sabato 7 luglio, ore 8.30. Usciti dalla stazione
ferroviaria di Brignole, ci incamminiamo verso il teatro "Carlo Felice" in
piazza De Ferrari. Dopo pochi passi, un signore ci accosta: "Scusi, per favore mi sa
dire…".
– Ci sto andando anch’io!
– Per il convegno nazionale "Guardiamo il "G 8" negli occhi"?
– Esattamente.
– Allora la seguo. Buon giorno! Io sono Dino, dell’Azione Cattolica di Rovigo.

Giunti all’ingresso del teatro, Dino si ferma, per attendere
alcuni amici di Napoli. "Napoli?" esclamiamo incuriositi. "L’Italia
forse è divisa, ma gli italiani sono certamente uniti, alla faccia del senatùr…
voltagabbana" è la risposta.
Ci separiamo.

La storia di un crapulone

Il "Carlo Felice" è un teatro da 3 mila posti. Ma, al nostro
ingresso, contiamo solo due missionarie della Consolata davanti ad un cartellone, che
riporta i nomi del comitato promotore del convegno: circa 60 istituti e associazioni; in
ordine alfabetico, prime le Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) e ultimi
i Missionari Verbiti. Mentre carichiamo la macchina fotografica, scorgiamo anche diversi
ragazzi e ragazze scout, in pantaloni corti, camicia blu e fazzoletto verde al collo,
seguiti da un gruppetto della Coldiretti con un vistoso berretto giallo. Scattiamo le
prime foto. Poi puntiamo l’obiettivo su Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea
(sempre presente a "certi" appuntamenti), e don Andrea Gallo, della Comunità di
san Benedetto al porto. Notiamo Pierluigi Castagnetti, segretario del Partito popolare
italiano, e Aldo Bodrato, ex ministro della pubblica istruzione. Ma questi ed altri
personaggi non bastano a riempire il vasto teatro, che rischia un vuoto desolante.

Però alle 10 il "Carlo Felice" è zeppo: giovani e adulti,
mamme con bimbi in braccio, portatori di handicap in carrozzella, volontari,
sindacalisti, docenti, missionari, suore, preti.

Si inizia con lo sguardo rivolto ad un Cristo campesino del
Cile, mentre si legge la storia di un crapulone che banchetta ogni giorno lautamente… in
barba all’affamato e piagato Lazzaro, del quale solo i cani hanno pietà. Al termine
della loro vita, il primo finisce all’inferno e il secondo fra le braccia di Abramo,
il padre dei credenti.

Il crapulone supplica: "Abramo, manda Lazzaro dai miei fratelli:
che mutino subito comportamento, altrimenti finiranno con me nei tormenti!".
"Hanno già avuto la legge di Mosè e gli ammonimenti dei profeti – replica il
patriarca -, e tutto è stato inutile. Non si convertirebbero neppure se uno risuscitasse
dalla tomba" (cfr. Lc 16, 19-31).

"Incalzati da questo monito severo, riproposto anche dal Cristo campesino
– afferma Fabio Protasoni, cornordinatore del convegno – vogliamo riflettere sulle
situazioni di povertà dell’80 per cento dell’umanità, causate da ingiustizie
sociali e politiche, prima che sia troppo tardi, come per il crapulone del vangelo".

La parola al sud del mondo

Seguono tre testimonianze.

La prima è di Monica Espinosa, già impegnata in Ecuador
con "Rete del Giubileo 2000", che si domanda: "Cosa dobbiamo aspettarci
dall’America Latina? Sempre e solo guerriglieri arrabbiati? Assolutamente no. Ma
occorre fare subito giustizia, specialmente per le classi sociali emarginate. Mi auguro
che i "G 8" imbocchino con coraggio questa strada. La globalizzazione è come
una porta, che può essere chiusa o aperta. Finora non è stata una porta aperta ai
poveri".

Anche la giovane Monica ricorre ad un’icona. È quella di Pietro,
che si sente dire da Gesù Cristo: "Abbi cura delle mie pecore" (cfr. Gv 21,
15-19). L’ecuadoriana lancia un messaggio: "Io, voi, noi tutti siamo cristiani
nella misura in cui abbiamo a cuore i problemi della gente, di tutta la gente".

Sale sul palco Filomeno Lopez, della Guinea Bissau, che
rappresenta i problemi dell’Africa. È sorridente e scattante nei movimenti (poi si
scoprirà che è pure un eccellente danzatore). Il suo raffinato italiano gli consente di
maneggiare con arte anche il fioretto dell’ironia. "Amici, come mi devo
presentare? Certamente come un "fuori", un extra, un extracomunitario. Però
ieri qualcuno mi chiamava vu’ cumprà e, prima ancora, vu’ lavà… Amici, non
cadiamo negli stereotipi, frutto di ignoranza. Io credo nella riconciliazione, previo il
rispetto reciproco".

Anche Filomeno riflette sulla globalizzazione. Rigetta quella
"sbarcata sui porti africani con una risposta esclusivamente mercantile: la
globalizzazione intesa come extra mercatum nulla salus, che ha per fondamento
l’arte di vincere senza ragione".

La terza testimonianza è del direttore della rivista Missioni
Consolata
. Egli riporta alcune voci dal Sud del mondo: ad esempio, quella del
cardinale Evaristo As. L’arcivescovo di São Paulo (Brasile), in una intervista del
1988, affermava che il debito estero del suo paese è illegittimo e illegale:
"illegittimo, perché è già stato pagato tre volte con il versamento di 36 miliardi
di dollari di interessi; illegale, perché contratto da generali brasiliani senza
consultare il parlamento. E gli stati creditori sapevano che imprestavano soldi per
finalità militari…".

"Oggi, a 13 anni da quell’intervista, si discute ancora –
commenta il direttore di Missioni Consolata – sulla necessità o meno di cancellare
il debito dei paesi poveri. Non dovrebbe essere una questione scontata, com’è
scontata la caduta di… una mela matura?".

Un accenno anche alla protesta della gente in Congo (ex Zaire) contro
la guerra. "Nella chiesa di Pawa, durante la messa di pasqua dell’anno scorso, i
fedeli hanno gridato: "La guerra è peccato!". Ma la colpa è ancora più grave
se ad imbracciare il mitra sono ragazzi di 12 anni, come ho visto in Congo".

"Mkubwa haombi" (il capo non chiede permessi): è un detto
swahili, che spesso nasconde la strategia dell’intimidazione e, di conseguenza, della
sottomissione. "Ma oggi, grazie anche ai missionari, molti alzano la testa per dire
al presidente prevaricatore: "Signor no!"".

Ai fischi rimedia un po’ il Cardinale

È il clou del convegno: ovvero la presentazione del "Manifesto
delle Associazioni cattoliche ai Leaders del G 8
" (vedere il testo a parte). Fra
i suoi estensori spicca l’economista Riccardo Moro. Il quale, tuttavia, ci dichiara:
"Vedi questi sei ragazzi? Il Manifesto è soprattutto opera loro". E sono gli
stessi ragazzi che, un po’ emozionati, lo leggono in assemblea. L’applauso dei 3
mila vale l’approvazione.

Il Manifesto viene affidato a Umberto Vattani, segretario generale
della Faesina, perché a sua volta lo trasmetta al governo in carica. Invitato (per
deferenza) dal cornordinatore del convegno ad intervenire, Vattani prende la parola.

Non l’avesse mai fatto! O avesse parlato in termini diversi, non
si sarebbe beccato tre bordate di fischi: la prima un po’ leggera, la seconda più
pesante, la terza secca e arrabbiata, anche perché il politico continuava sicuro.

Il diplomaticoVattani esalta l’Italia, sesta potenza economica
mondiale grazie alla globalizzazione… "a differenza dell’Africa, che resterà
sempre povera se non entrerà nel processo". Ma i 3 mila cattolici del "Carlo
Felice" rifiutano questa visione del mondo.

Ad aggiustare (forse) le cose ci pensa Dionigi Tettamanzi, cardinale di
Genova (significativa, tra l’altro, la Lettera dei Vescovi liguri ai fedeli delle
loro Chiese in occasione del G 8
).

I cattolici non devono scordare che, secondo la dottrina della chiesa,
la proprietà dei beni ha una "funzione sociale comunitaria", e non solo
privata: di qui il dovere dell’attenzione all’altro. Questo però esige un
impegno politico professionale, perché il volontariato non basta più.

Infine il cardinale dichiara: "Oggi si parla del "G 8",
cioè del gruppo degli 8 paesi più ricchi; qualcuno sollecita che a parlare siano i
"G 20", ossia i 20 paesi più poveri… Io dico: facciamo un G TUTTI,
dove ognuno possa parlare, ma alla luce della parabola del ricco e del povero con il quale
abbiamo aperto il convegno".

 

Ore 14,35. Entriamo in uno snack bar di Genova, dove Dino e gli
amici di Napoli, Gennaro e Concetta, stanno addentando un panino.

– Volete favorire? – è l’invito dei napoletani.
  – Perché mi date del "voi"?

Risata generale.

Quando siamo tutti al caffè, Dino commenta: "Un bel convegno,
durante il quale ho apprezzato gli interventi dei rappresentanti del terzo mondo.
D’ora in avanti bisognerà sempre fare così. Molto interessante pure il
Manifesto…". "Noi a Napoli – s’intromette Gennaro – abbiamo un detto che,
nel caso presente, potrebbe suonare: passata la festa del "G 8", gabbati ancora
una volta i poveri". "No, guagliò – replica Concetta -. Passata la
festa, i poveri ritornano a lavorare".

 

 Noi, sentinelle del mattino

Manifesto delle associazioni
cattoliche ai leaders del G 8

 

La vita umana è valore universale. Garantirla nel suo esistere e
tutelarla nella sua dignità è responsabilità politica che la comunità internazionale,
insieme a ciascuno di noi, è chiamata ad esercitare per il raggiungimento del bene
comune.

Oggi la dignità della vita umana è violata. Molti sono gli ambiti in
cui questo accade, dalla guerra alla povertà, dal sapere privilegio di alcuni al potere
monopolio di pochi.

Noi sentiamo l’impegno di appartenere ad una famiglia, che va
oltre i confini nazionali e le logiche economiche. Crediamo che tutti siamo veramente di
tutti e non possiamo rimanere indifferenti di fronte a clamorose differenze.

Affermiamo che ogni uomo è una risorsa, un bene prezioso per gli
altri, e a sua volta chiede agli altri di essere aiutato nel suo cammino verso il
compimento definitivo. Nessuno può essere considerato solo un soggetto economico
passivo,
il cui valore è commisurato alla sua capacità di acquisto.

Noi siamo qui per ricordarvi che voi siete noi. Voi,
responsabili delle nostre nazioni, siete i nostri rappresentanti. Voi avete una grande
responsabilità. Voi non siete il governo del mondo, ma quanto decidete ha
inevitabili ripercussioni su molti, anche al di fuori dei confini dei nostri paesi.

Noi siamo qui perché abbiamo un sogno: non vogliamo essere i
ricchi che guardano ai poveri da aiutare. Vogliamo essere cittadini di una comunità
solidale che diano a tutti lo stesso diritto di avere necessità e offrire opportunità.

Per questo facciamo a voi, nostri rappresentanti, le richieste che
riteniamo punto di partenza perché ogni persona di oggi e domani possa vivere in
libertà, solidarietà e dignità.

 

La notte I conflitti / La guerra

La dignità della vita umana è offesa da conflitti che coinvolgono
popolazioni vulnerabili. Donne e uomini, bambini e anziani, in divisa o abiti civili, sono
attori spesso inconsapevoli di copioni scritti, più o meno intenzionalmente, da altre
mani, in altre lingue e in altri luoghi. Noi esigiamo che voi lavoriate con chiarezza e
determinazione per:

– bandire la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e
impegnarsi come Stati a non ricorrere alla forza per dirimere le controversie intee e
inteazionali;

– avviare un processo credibile e autentico di riforma delle Nazioni
Unite che ne rafforzi democrazia, autorevolezza ed efficacia, in particolare nella loro
responsabilità di principale attore in favore della pace nel mondo;

– in questo quadro, privilegiare gli approcci ‘locali’,
valorizzando anche i contributi non governativi, affrontando tutti i conflitti, anche
quelli interni quando violano la libertà delle popolazioni civili;

– combattere autenticamente il mercato delle armi, a partire
dall’informazione su tutte le operazioni di vendita e acquisto. Nessuna copertura
finanziaria pubblica deve essere data a chi le produce e le vende;

– non sprecare il denaro. Vogliamo che le risorse non vengano gettate
in progetti di difesa inutili, come lo scudo spaziale, ma siano utilizzate per eliminare
le cause che originano i conflitti, prima fra tutte la povertà.

 

Debito

Il peso del debito estero dei paesi del Sud compromette la dignità
della vita di milioni di persone. Tuttora risorse finanziarie, preziose e scarse, vengono
usate dai paesi impoveriti per pagare i creditori, cioè i governi del Nord, cioè noi! In
occasione del Giubileo vi abbiamo chiesto azioni coraggiose. Voi ci avete ascoltato solo
in parte. Ci inorridisce sapere che il denaro che ancora incassiamo, per quanto ridotto
rispetto agli anni scorsi, sia sottratto da interventi per dare case, cibo, medicine e
istruzione a persone che sono per noi come altri noi stessi.

Vi chiediamo perciò ancora con forza di:

cancellare tutto il debito accumulato sino al 19 giugno 1999, la data
della grande manifestazione di Colonia. Nel vostro linguaggio si tratta dello spostamento
della data che divide il debito cancellabile da quello non cancellabile;

cambiare i parametri che permettono di partecipare alla iniziativa
internazionale per i paesi gravemente indebitati (iniziativa Hipc). Vogliamo che nei paesi
indebitati siano assicurati beni e servizi fondamentali a tutti i cittadini. Solo il
denaro restante, dopo queste spese, può essere utilizzato per pagare il debito;

concordare con i paesi indebitati e i rappresentanti della società
civile del Sud e del Nord l’istituzione di un "Processo di arbitrato
internazionale equo e trasparente" per valutare in termini di giustizia
l’ammontare effettivo del debito delle nazioni. La remissione del debito è questione
di giustizia prima che di solidarietà.

 

Povertà

La dignità della vita umana è offesa dalla scandalosa differenza tra
la vita dei paesi ricchi e di quelli da questi impoveriti. Un bambino su venti in Africa
muore prima dei cinque anni. Un bambino su due non va a scuola. È una situazione che ci
fa orrore e di cui siamo e siete corresponsabili. Noi ci impegniamo a stili di vita nuovi,
più equi e solidali, ma nello stesso tempo, poiché rappresentate la nostra voce,
vogliamo che voi impegniate le nostre nazioni a:

– onorare da subito l’impegno, assunto e non mantenuto, di
finanziare l’aiuto allo sviluppo con lo 0,7% del PIL dei nostri paesi. Oggi la media
è minore della metà;

– promuovere e rafforzare, nelle sedi inteazionali, l’utilizzo
dei programmi di riduzione della povertà che prevedano un autentico coinvolgimento della
società civile;

– favorire con mezzi finanziari e assistenza tecnica l’azione dei
governi dei paesi impoveriti, perché sia garantito a tutte le popolazioni il diritto alla
salute e istruzione.

 

Una luce che sorge

Costruire il futuro: globalizzare la solidarietà e le responsabilità

La dignità della vita, a Nord come a Sud, può essere tutelata solo
attraverso un forte, condiviso e rispettato sistema di regole, in cui non il più forte
abbia maggiori diritti, ma il più debole. Non è questo ciò che accade oggi nel mondo. A
voi, nostri rappresentanti, chiediamo quindi di non nascondervi dietro facili
giustificazioni, ma di rispondere a queste richieste.

 

Il mercato fra libertà e responsabilità

– Vogliamo che sia creato un sistema di regole nel commercio
internazionale che permetta a tutti i paesi, in particolare ai più impoveriti, di offrire
sul mercato le proprie merci ad un prezzo equo, abolendo le barriere, a cominciare dalle
nazioni del G 8, e, per i prodotti agro-alimentari, prevedendo un meccanismo di
regolamentazione produttiva e distributiva che definisca quote produttive alle nazioni e
garantisca stabilità dei prezzi.

– Vogliamo una vera libertà di mercato, in cui tutti siano liberi di
acquistare conoscendo con precisione che cosa viene loro offerto e a tutti sia data
possibilità di vendere i propri prodotti. Non è quello che accade oggi.

– Vogliamo un impegno immediato e concreto di denuncia dei paradisi
fiscali e finanziari. Impegnatevi nelle diverse sedi inteazionali per la definizione e
pubblicazione delle liste dei paesi che permettono il riciclaggio di denaro sporco e
offrono riparo fiscale per speculazioni selvagge.

– Vogliamo, a cominciare dai nostri paesi, una tassa sulle transazioni
valutarie (del tipo della Tobin Tax) che renda costosi i trasferimenti inteazionali di
denaro a scopo speculativo e offra il ricavato per finanziare lo sviluppo.

 

Il lavoro strumento per la dignità della vita

– Vogliamo che sia migliorata e venga applicata la legislazione
internazionale che impedisce lo sfruttamento lavorativo delle persone. Costo del lavoro
più basso e competitivo non deve significare "umiliante".

 

L’ambiente dovere globale

– Vogliamo che siano riconfermati immediatamente gli accordi di Kyoto
in tema ambientale e che sia indicato in modo trasparente il percorso futuro di
rafforzamento dell’azione di tutela del Creato.

 

Libertà e democrazia economica

– Vogliamo un’economia libera in cui siano impedite posizioni di
monopolio, come quelle delle multinazionali in grado di alterare il mercato e
l’informazione sulla loro azione.

 

Un’informazione libera

– I paesi del G 8 promuovano leggi che garantiscano a livello nazionale
e internazionale la pluralità dei media e degli editori, vietando monopoli, per
permettere una libertà responsabile a tutti i cittadini.

– Vogliamo un’informazione trasparente anche sulle caratteristiche
dei prodotti alimentari in generale e in particolare degli organismi geneticamente
modificati (ogm).

 

La scienza per tutti

– Vogliamo che sia finanziata fortemente la ricerca pubblica in campo
sanitario, per rendere possibile la produzione di farmaci per le malattie diffuse tra le
popolazioni più povere.

In particolare vogliamo siano moltiplicati gli sforzi per rendere i
farmaci per la cura dell’AIDS accessibili a tutti coloro che sono infetti, in Africa
e ovunque, a cominciare dalle donne incinte prima e dopo il parto.

– Vogliamo regole che consentano produzione e distribuzione dei
medicinali a costi sostenibili per le popolazioni più povere. Questo significa affrontare
anche la questione della riforma della proprietà intellettuale.

 

A Tor Vergata abbiamo ascoltato le parole del Papa

Cari amici, vedo in voi le "sentinelle del mattino" in
quest’alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi
venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a
combattere gli uni contro gli altri. Oggi siete qui per affermare che, nel nuovo secolo,
non vi presterete a essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace,
pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri
esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la
vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di
rendere questa terra sempre più abitabile per tutti.

È esattamente quello che vogliamo fare.

Francesco Beardi




Dossier: TESTIMONIANZE DI MISSIONARI CON PERMESSO? Su culture, conflitti, scelte, annuncio del vangelo

Articolo 1

SEMPRE
"AL TROTTO"

 

Il beato Giuseppe Allamano affermava che, se vogliamo conoscere la
nostra identità, è sufficiente ricordare il nostro nome: "missionari della
Consolata". Missionari che egli ha sognato come persone che andassero incontro alla
gente, qualificate nel campo spirituale, scientifico, culturale e pastorale. Il fondatore
non voleva gente mediocre. Essendo i suoi missionari destinati ad avere come orizzonte il
mondo, esigeva che avessero un cuore aperto alle sue dimensioni, capace di ampie visioni e
di accoglienza verso tutti. Il missionario è colui che va, che cammina. L’Allamano,
però, diceva (con un tocco originalissimo) che non dobbiamo solo camminare, ma correre,
"trottare". Missionari che camminano sempre, come i "samburu" o come i
magi, che non si sono fermati di fronte alle difficoltà; come ha corso la Consolata, per
andare ad aiutare Elisabetta; come hanno corso i cristiani "atleti" ricordati da
san Paolo.

Persone che trottano, dice l’Allamano, come la Madonna faceva
"trottare Gesù" (non so dove l’abbia letto o saputo, ma lui lo dice!). In ogni
caso questo esprime il suo sentimento e il dinamismo richiesto ai missionari della
Consolata oggi. Allora il sogno è che, a 100 anni dalla fondazione dei missionari della
Consolata, quando si sente il peso del tempo, noi vinciamo la tentazione di adagiarci, di
non sapere più correre. Trottare con entusiasmo. Se non lo facciamo, diventiamo inutili.
L’Allamano, nonostante l’età, non è mai invecchiato, perché ha sempre avuto attenzione
a ciò che avveniva al di fuori della sua stanza, a quello che vedeva; ha sempre
conservato l’attenzione ai tempi, ai cambiamenti; non si è fossilizzato, non si è
accontentato di ripetere, non è stato contento delle mete raggiunte, ma ha cercato di
andare incontro alle situazioni, alle necessità. È anche il nostro compito: non
fossilizzarci, non accontentarci di quello che abbiamo compiuto, ma andare oltre, obbedire
al comando di Gesù, prendere il largo, affrontare le situazioni che sfidano la missione,
il vangelo, il bene dell’umanità. E non solo partire, ma partire in comunione.
"L’unità di intenti" è il principio vincente: o si lavora insieme o si
perde tempo. E questo diventa particolarmente evidente oggi in un mondo globalizzato.
Ricordo le parole che il fondatore scriveva, nel 1909, a fratel Benedetto Falda: "La
nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata.
Passeranno gli uomini, cadranno alcune foglie, cadranno i rami secchi, ma l’albero
prospererà e diventerà gigantesco. Io ne ho le prove in mano". Le prove ci sono
ancora. Ce lo conferma anche l’esperienza di tanti nostri fratelli e sorelle che, nel
silenzio di ogni giorno, continuano a portare la "consolazione di Dio tra i più
poveri del mondo". È con questo spirito che vanno accolte le testimonianze di alcuni
missionari della Consolata, rilasciate in occasione del centenario dell’Istituto e
riproposte dal presente "dossier".

 

p. Gottardo Pasqualetti,

superiore dei missionari della Consolata in Italia

 

Articolo 2

 

 

Mozambico

 

 

Tenacemente presenti

 

"Mi tempestavano di domande:

"Perché rimani? Perché ti preoccupi di noi?".

E poter rispondere nel cuore: "Perché sono cristiano"".

 

 

di Franco Gioda (*)

 

Racconto quello che ho visto in Mozambico, quello che abbiamo vissuto
insieme e si sta vivendo oggi, con il sogno che ci ha guidato in questi anni. Se
togliamo il sogno, non comprendiamo il significato della nostra presenza missionaria nel
paese.
Bisogna ricordare e comprendere la storia: il tempo coloniale portoghese,
l’inizio dell’indipendenza nazionale e la rivoluzione comunista, la guerra, la pace e
oggi l’oblio. Dopo il 1975, con la libertà concessa a malincuore dal Portogallo in
seguito ad una lunga lotta, il Mozambico è caduto in un sistema che ha gravato
pesantemente su tutto: il marxismo-leninismo nel suo modello più radicale. Sono seguite
le nazionalizzazioni affrettate, la paralisi del commercio, la fuga degli imprenditori,
l’indottrinamento socialista, la mancanza di libertà minime, il controllo generale
su tutto. Come se ciò non bastasse, ecco la tragedia della guerra civile tra Frelimo
(Fronte di liberazione del Mozambico) e Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), guerra
aggravata da siccità e fame. Di qui l’insicurezza totale. Nel 1992 la pace, firmata
a Roma, con una grande speranza di rinascita.

Oggi, però, il Mozambico rischia di essere dimenticato
dall’opinione pubblica mondiale. Ultimamente il paese è stato ancora oggetto di
attenzione, ma solo a causa dell’alluvione: un momento drammatico e isolato, nel senso che
ha toccato solo una parte della nazione.

 

 

Calati nelle situazioni

 

I missionari della Consolata, che arrivarono in Mozambico nel 1925,
avevano in cuore la formazione impartita dal beato Giuseppe Allamano: quindi una
spiritualità del concreto, del quotidiano.
I primi pionieri giunsero nel territorio
senza tanti progetti, ma con una fortissima carica umana e spirituale, con l’ideale di
vivere in mezzo alla gente.

Oggi sono ancora presenti nelle zone più sperdute, dove le persone
sono abbandonate da tutti. Direi che hanno quasi timore della città, anche perché si
cercano i più poveri, con l’idea chiara dello sviluppo-consolazione. Quando il
missionario si cala nella realtà, non fa distinzione tra sviluppo e consolazione:
non ci può essere l’uno senza l’altra, e viceversa.

Con queste premesse, è importante sottolineare alcuni aspetti del
nostro lavoro in Mozambico. Abbiamo sempre cercato di immergerci nelle situazioni
concrete, per dare risposte utili.

La prima è stata la formazione attraverso le scuole: scuole di
arti e mestieri per l’avvio professionale al lavoro. In questo i fratelli missionari
sono stati una benedizione enorme. Naturalmente lo stato portoghese ne ha approfittato:
concedendoci la libertà di insegnamento (nel 1942), si è creato un intenso sviluppo con
il moltiplicarsi di scuole, soprattutto in foresta.

Con il tempo si è capito che, dietro il permesso del Portogallo,
c’era una strategia (non troppo velata) di espandere e rafforzare la colonizzazione.
C’è stato, allora, un momento di ripensamento e di ribellione al sistema con la
tentazione, per i missionari, di abbandonare tutto. Ma, guardando all’interesse della
gente, si è deciso di restare, di non abbandonare le comunità, almeno finché si è
potuto, cioè fino alla rivoluzione marxista-leninista, allorché tutto si è bloccato:
scuole, ministero, attività sociali.

L’unico permesso concessoci era di "essere presenti":
condividere le sofferenze e attese del popolo, aiutare a non perdere la speranza. Questo
fino al momento della pace, della ricostruzione, delle nuove scelte: scelte diverse da
quelle precedenti. Anche per noi, missionari, non più proprietari e gestori, ma
"servi" in aiuto e sostegno alle scuole governative; collaboratori senza
potere, onesti e umili.

C’è stata, con la pace, l’intuizione formidabile dell’università
cattolica.
In Mozambico c’era una sola università nel sud. Nel remoto nord del paese,
persino a 3 mila chilometri dalla capitale Maputo, la scuola era solo quella elementare,
con pochissime scuole superiori. L’intuizione di qualche missionario della Consolata è
sfociata nel progetto di una università, che al presente può vantare 1.500 studenti, con
quattro facoltà in tre città del nord. Una carta vincente.

 

 

Con grande "nostalgia"

 

Un altro aspetto del nostro lavoro missionario attuato in questi anni,
ma soprattutto in quelli della rivoluzione e della guerra, è stato la vicinanza con la
gente.

La prima "strategia" del governo comunista fu di isolarci, di
tagliarci fuori, di fare sì che non avessimo più alcun contatto con la popolazione. Ecco
la concentrazione in determinati posti, con missionari derisi ed espulsi. Per visitare le
comunità dei cristiani (fatica e denaro a parte), erano necessari permessi su permessi,
controlli meticolosi, attese estenuanti, limitazioni. Da qui ancora l’interrogativo:
che facciamo? Abbiamo cercato di resistere e di non mollare, sfruttando ogni occasione che
ci veniva concessa. Le visite alle comunità avvenivano con il rappresentante del partito
comunista alle calcagna, che controllava tutto. Ma (fatto inaspettato) il rapporto con la
gente è diventato più forte, più coinvolgente. In alcune comunità dura tutt’oggi.

I missionari di Cuamba, ad esempio, facevano pervenire (attraverso
persone) delle schede catechetiche da compilare nei villaggi; gli animatori locali
rispondevano alle domande, descrivevano i fatti, segnalavano gli esempi, e inviavano tutto
per iscritto al missionario, che ci rifletteva e programmava il lavoro pastorale.

È nata così una chiesa "ministeriale", dove i catechisti e
gli animatori facevano quasi tutto. Grazie a loro, le comunità resistevano alla
propaganda atea, vivevano nella fede e, addirittura, si moltiplicavano. In luoghi dove le
comunità, prima della rivoluzione e della guerra, erano 10-15… sono diventate 20-25. Ne
è derivata anche una "purificazione" per i missionari troppo legati
ancora alle strutture, ai metodi del passato, forse pure al governo. In quel tempo si è
capito che l’unico "buon pastore" è il Signore: è Lui che pascola il
gregge, al di là del nostro molto o poco lavoro. Un terzo aspetto della nostra presenza,
oltre alla formazione e condivisione di vita, è stata la testimonianza. Il Mozambico, con
la guerra, ha avuto circa 1 milione di morti, 2 milioni di rifugiati all’estero (nei
campi-profughi del Malawi e dello Zimbabwe), 5 milioni di sfollati interni… Tutto il
paese era in gravissime difficoltà. Poi la guerriglia, che sequestrava, rubava e
bruciava, seminando morte e distruzione anche fra i missionari.

Ma siamo rimasti. Abbiamo incoraggiato, testimoniato la speranza,
nonostante continui segni di morte. Forse ho portato anch’io un po’ di
consolazione, e solo con la testimonianza della mia presenza. Quante volte, dopo aver
viaggiato in bicicletta di notte, arrivavo ad un villaggio e mangiavo quello che
c’era. Mi tempestavano di domande: "Padre, perché sei qui? perché rimani?
perché ti preoccupi di noi?". E poter rispondere nel cuore: "Perché sono
cristiano… Per amore e nel nome di Gesù Cristo".

Quello che ho fatto io l’hanno fatto molti altri missionari, ognuno nel
suo stile, ma tutti con la stessa passione, la stessa voglia di essere
"testimoni" di Qualcuno per cui abbiamo dato la vita. Un po’ come Maria, sotto
la croce e accanto al figlio in agonia, ma senza poter fare nulla. Solo esserci!

Oggi, dopo gli accordi di pace dell’ottobre 1992, lo sforzo è di
aiutare il paese a vivere gli ideali stupendi conquistati con sofferenza nel periodo buio
del passato. Ricordare i valori appresi, il volto nuovo delle comunità cristiane, la
voglia di continuare a crescere nella formazione umana e cristiana… Cercare di non
cadere nelle nuove trappole,
come quella degli aiuti facili, della delega in bianco,
dei miraggi del benessere occidentale che generano divisioni, gelosie, discriminazioni,
povertà umana e morale.

Se volessi riassumere tutto, potrei farlo con la parola portoghese "saudade",
che è intraducibile; indica nostalgia e rimpianto di alcune situazioni, anche di
sofferenza. Credo che la chiesa in Mozambico senta "saudade" del tempo di
persecuzione e guerra. Un tempo tragico, certo, ma durante il quale in cui i cristiani
erano aggrappati alla parola di Dio. Non avevano nulla, ma erano luce. Una comunità di
testimoni e martiri (come i 21 catechisti trucidati a Guiúa), presenza viva di Cristo.

 

(*) Padre Franco Gioda, missionario in Mozambico durante il
colonialismo, la rivoluzione comunista, la guerra civile e il raggiungimento della pace.
È stato anche superiore dei missionari della Consolata operanti nel paese.

 

 

Articolo 3

dossier Kenya

 

 

Dal Kenya all’Ecuador

 

 

Dialogo con le culture

 

 

"La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,

ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti".

 

 

di Giuseppe Ramponi (*)

 

Quando operavo in Kenya (nel distretto dei samburu, diocesi di
Marsabit), ho potuto dialogare con vari rappresentanti di etnie vicine, i frequentatori
della missione, maestri e anziani che diventavano amici. Avvertivo il bisogno di capire
"la vita samburu": come era organizzata la tribù negli aspetti sociali,
educativi e religiosi. Il popolo viveva la cultura senza essee protagonisti: la vita di
ogni giorno era guidata dal capo-famiglia, in comunione con gli altri che formavano la
manyatta, il recinto.

Gli sperimentati missionari dicevano che il dialogo era previo e
necessario per l’evangelizzazione. E si doveva cercare una piccola "crepa"
dove mettere il dito e, allargandola, cominciare la predicazione; poi, come fa la sonda,
esplorare e capire se c’era posto per la nostra fede. Se ci lasciavano entrare, era nostro
compito costruire subito la chiesa, con messe, preghiere, canti, sacramenti, catecumeni.
Era il metodo di allora. Oggi, dopo tanta riflessione e polemiche durate anche anni, non
si è d’accordo su tutto. Io sono disposto ad accettare tutti i punti di vista e guardo da
ogni angolo, escluso quello "ottuso".

 

 

La cultura della vita

 

Un cambio radicale nella diocesi di Marsabit avvenne all’inizio
del 1970, quando il vescovo Carlo Cavallera accettò il parere dei missionari, che
suggerivano più impegno per la cultura: ricerca e studio di usi e costumi e conoscenza
della lingua tribale, e non soltanto di quella nazionale (swahili). Io venni scelto per il
distretto dei samburu e, nello stesso tempo, mi nominarono responsabile delle scuole
(Education Secretary). Cominciava un sogno ad occhi aperti.

Nei due settori educativi comuni a tutti i popoli (cultura e
istruzione) c’era finalmente l’opportunità di lavorare ad un progetto che mi stava
molto a cuore: elevare a dignità la cultura e farla entrare nella scuola come
educazione-base (per divenire persone) e completarla con l’istruzione (per
diventare cittadini). La scuola a Maralal era diventata un modello e un centro per
sincerare, identificare e dare dignità alla cultura locale e, allo stesso tempo, dotare
la persona di tutte le qualità garantite dai diritti umani e dal vangelo. Speravo, in
quel contesto, che la persona avrebbe saputo parlare e chiedersi: perché, come, quando,
dove, con chi?… Mi piace inorgoglirmi e affermare che la scuola era un paradigma nel
progetto storico del popolo samburu.

Con la mia partenza, l’impostazione cambiò, perché i successori
erano pratici: non volevano teorie, ma fatti pieni di numeri e guadagni.

Lasciato il Kenya, raggiunsi la Colombia. Nel 1983 ero a Cartagena de
Indias. Pensavo di lavorare con i negri, per cercare i legami con l’antica cultura
africana e dare il brivido della dignità originale a chi era stato spogliato di tutto. La
casa accogliente e comprensiva doveva essere la chiesa.
Doveva essere pure un
laboratorio di ricerca e ricostruzione, partendo da qualsiasi calore ancora vivo,
nonostante l’immensa cenere. Era una sfida. Fallì, perché i responsabili locali si
sforzavano solo di credere nelle verità divine, non nella Verità.

Nel 1987, dopo due anni passati nel Caquetá (importantissimi, perché
mi introdussero nel mondo indigeno, che mi mancava), arrivai in Ecuador, con gli indios in
lotta, portabandiera delle rivendicazioni culturali e organizzative proprie di un popolo
oppresso. In Ecuador sono diventato "pellegrino" con gli indios di lingua
quichua nella loro solitudine, angustia, indignazione ed ira. La gente era ai margini già
al tempo degli incas, diventando solo lavoro bruto e a buon mercato dai conquistatori
spagnoli in poi. Ma quando a Riobamba arrivò il vescovo Leonida Proaño, incominciò il
cammino di riscatto ed emancipazione. Ora l’indio ha un suo progetto di vita e
rivendica la propria storia.

Ho imparato di nuovo tutto e ho abbandonato un po’ la cultura dei
libri per abbracciare quella della vita reale e quotidiana. Oggi mi dedico anima e corpo
alle scuole, dove studiano i bambini indios, e voglio rendere la sede bella, idonea e
qualificata. L’educazione offrirà le "armi" per la "riconquista".

Lavoro anche nella pastorale indigena, con un buon numero di
catechisti: tutti volontari e tutti della base, popolo-popolo. Con essi faccio la lettura
critica della realtà comunitaria in trasformazione, per decifrare gli "enigmi
culturali", proponendo e avviando l’aggancio con l’utopia del Regno di Dio,
l’unica ragione per essere missionari e risposta ancora sempre valida per dipingere di
speranza il progetto storico dei popoli.La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,
ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti. Mi piace ragionare con i
collaboratori, specialmente maestri: il discorso è sempre interessante. La lettura di
segni, immagini, miti, gesti e relazioni non si può fare alle spalle del gruppo
interessato. Però è vero che c’è bisogno dell’"osservatore esterno". E
sono ancora convinto che è indispensabile il cammino indicato da Gesù Cristo e, più che
mai, sono attuali i suoi segni: chiavi per aprire, occhi, orecchie, bocche, mani, cuori
e… sepolcri.

 

 

L’innesto sull’albero buono

 

La scena ecclesiale mondiale ci ha regalato parole "chiavi".
Il Concilio ecumenico Vaticano II ci ha dato la parola "dialogo"; la
Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellín (1968) "liberazione",
quella di Puebla (1979) "stare con i poveri" e, con la Conferenza
ecclesiale di Santo Domingo (1992), entra nella storia l’esigenza dell’"inculturazione".
In America Latina essa diventa un imperativo per seguire Gesù Cristo nella solidarietà
verso i volti umani sfigurati.

In Ecuador non parliamo di dialogo con le culture, ma di grido della
cultura
e clamore persistente che esige spazio e riconoscimento nel palazzo della
politica e nella chiesa. La cultura india vuole entrare nella chiesa in nome del
cristianesimo che, bene o male, è diventato suo e si presenta "inculturato"
nell’arco di 500 anni. E si vuole pensare, parlare e agire nella chiesa con una
lingua propria e categorie di pensiero proprie.

Non si accontenta di riti e segni, ma si chiede il diritto di studiare
la filosofia partendo dalla propria cosmovisione, di costruire una teologia muovendosi dal
proprio progetto storico. È un’inculturazione speciale, che richiede la caduta
della chiesa monoculturale
e reclama il diritto di sedersi accanto alle altre culture,
già canoniche, accedendo con diritto completo alla piena cittadinanza ecclesiale. Ora
sogno e lavoro per un "innesto culturale" nella chiesa, affinché questa capisca
e utilizzi tutte le cose buone che la cultura ha, rivedendo e rettificando la struttura
monoculturale che, finora, ha reso "visibile la grazia" con parole, concetti
espressioni liturgiche e dottrinali tratte da un solo vocabolario.

È l’idea sottile di san Paolo (Rom 11, 11-24). Di solito si innesta il
ramo buono nell’albero selvatico. Il missionario insegna, invece, ad innestare la parte
selvatica nell’albero buono. Quindi diventa logica l’azione di inculturare la chiesa,
ossia innestare la cultura indigena nella chiesa.

Paolo vedeva i "pagani selvatici" innestati nell’"albero
buono" del popolo dell’alleanza, cioè la chiesa. E mi diverte l’idea di innestare
gli indios nella chiesa. Mi fa ricordare i barbari, che sconsacrarono l’impero romano, e
immagino lo stupore nel vedere questi "rambo" entrare nelle basiliche, un
po’ chiassosi, e chiedere ascolto. Che cosa impedisce che nel 2001 gli indios entrino
nella loro chiesa, parlino, cantino, adorino e si salvino? E questo senza chiedere in
prestito simboli, ideogrammi, concetti di vita, definizioni di sapienza e conoscenza, di
intelletto e fortezza, di consiglio, pietà e timor di Dio? Passi più lunghi della gamba?
Non me ne sono mai invaghito. Ho sempre cercato di partire da quello che è possibile.
Prima di arrivare alla teologia, c’è la pastorale, che è un lavoro per costruire la
comunità di fede, speranza e carità. Dopo, basta un niente per dire: è la chiesa. Il
vangelo è spirito, forza, visione, una visione di vita che parte da Gesù. Ma gli hanno
dato corpo, segni, sensi, oratoria, logica, parola, ragionamento, mezzi comunicativi. Se
nel passato talora (per non dire spesso) c’è stato bisogno di discutere e disceere la
vera teologia, per definire che cosa si doveva insegnare e credere, ciò significa che
l’interpretazione non è stata subito unanime. E perché non oggi? Anche i popoli
dialogano, ragionano e cambiano. In Kenya i kikuyu (descritti da padre Costanzo Cagnolo in
una celebre monografia di 68 anni fa) sono cambiati; non operano più nei villaggi, nei
campi e nei mercati come allora. Anche in Ecuador l’impero inca non c’è più. Ma c’è
Pilatuña e ci sono io. Pilatuña vive la cultura e io predico il vangelo. Però con
questa differenza: Pilatuña vive la cultura e non sa predicarla; io so forse annunciare
il vangelo, ma faccio molta fatica a viverlo.

 

(*) Padre Giuseppe Ramponi, missionario in Kenya, Colombia e, oggi,
in Ecuador. Ha scritto: "Preghiere samburu", Consolata Fathers, Nairobi (pro
manuscripto); "Missionari e indios. Sentire la vita", Edizioni Siaca, Cento
(FE), 1999.

 

Articolo 4

dossier Congo

 

 

 

Repubblica democratica del Congo

 

Tra i fuochi della guerra

 

 

Una guerra con 2 milioni di morti dal 1998.

Alta la tensione: "Siamo tutti uguali, però loro…".

Ma, con il missionario, si dice pure: "Se tu resti…".

 

 

di Santino Zanchetta (*)

 

La mia è una piccola testimonianza, con qualche particolare
drammatico, che giustifichi perché siamo rimasti nella Repubblica democratica del Congo,
nonostante la guerra. Lo faccio a nome di tutti i missionari: quelli che sono rimasti per
scelta o perché costretti… e che hanno anche dato la vita. Parlo della guerra vissuta
(dalla gente e dai missionari), per rispondere alla domanda: perché restare in tale
contesto? Recentemente il Congo ha subìto due guerre successive; la seconda è scoppiata
nell’agosto del 1998 ed è tuttora in corso.

Per noi, missionari, guerra sono i bombardamenti con armi
pesanti, quando le bordate non sono mai precise, né indovinate, né tanto meno…
chirurgiche. Le bombe cadono ovunque, perché il nemico da perseguire non ha un campo
preciso e occupa generalmente i quartieri popolari. Noi abbiamo avuto la fortuna di
sopravvivere, mentre 2 milioni di persone sono state uccise.

Guerra sono gli scontri, quartiere per quartiere, con gente che fugge e
cerca disperatamente rifugio; con soldati che, aspettando l’evoluzione degli avvenimenti,
si danno al saccheggio, rubando tutto il possibile, forse per appagare la propria fame o
per rifarsi dei salari mai ricevuti.

Guerra è l’odio verso i nemici e i loro alleati: un odio
alimentato dalla stampa, dai discorsi, dai canti e ritoelli, ma anche dalla sofferenza
di chi ha dovuto patire fame, lutti, atrocità, privazioni di medicine, luce, acqua.
Guerra è pure l’Aids, trasmesso (consciamente e inconsciamente) dai soldati e vissuto con
terrore da parte delle vittime.

Guerra è la rabbia contro la povertà mal sopportata (e ciò
spiega i saccheggi e furti), sfogo del tribalismo in atto.

 

 

Tasselli di un mosaico

 

In questo quadro fosco, noi missionari abbiamo vissuto la guerra
insieme alla gente. Con tensione, per avvenimenti che non hanno mai fine; con terrore, per
ciò che potrà ancora capitare, senza sapere quando e come; con silenzio, ignorando
assolutamente cosa fare per proteggersi o proteggere la popolazione. Con paura incessante:
della morte, della tortura, del sequestro, dell’isolamento, della mancanza di
comunicazione e informazioni.

Guerra è stata anche, per noi, la partecipazione al dolore del popolo,
superando il voltastomaco nel vedere persone bruciate vive con la tecnica del
"pneumatico sui corpi", pestate con il mattarello del mortaio. E poi i
ripetuti saccheggi a missioni, parrocchie, seminari, conventi, sotto la minaccia delle
armi; obbligati a caricare tutto sulle autoblindo dei militari e vederle partire.

In guerra, però, non sono le lacrime che salvano, ma come si affronta
la situazione, soprattutto per noi missionari, divenuti punti di riferimento. Abbiamo
vissuto ogni sorta di sopruso; siamo stati anche feriti nei sentimenti più profondi: come
uomini, come stranieri, come sacerdoti, suore e consacrati. Sorgono tante domande, tutte
cariche di angoscia: perché restare nel paese? Perché amare la gente? Perché, dopo
tutto quello che abbiamo vissuto e visto, dobbiamo credere che la nostra presenza abbia
significato e valore?… Perché, invece, non partire, in attesa di tempi migliori e più
sicuri? La mia risposta (mentre la guerra continua) non è né definitiva né esaustiva:
è un insieme di piccoli tasselli, come in un mosaico.

Il primo motivo che, come missionari, ci fa rimanere è l’affetto,
la parte umana di noi. Siamo vissuti per tanti anni insieme: abbiamo pregato e partecipato
al dolore comune nei funerali, alle difficoltà materiali e spirituali; abbiamo
chiacchierato a lungo visitando le case e prendendo in braccio i bambini; abbiamo sognato
iniziative comuni di sviluppo. La nostra esistenza è intimamente legata a quella della
gente.

Date queste realtà, chi ha il coraggio di spezzare i legami,
abbandonare l’amico nel dolore o nella lotta per la sopravvivenza? La vicinanza fratea
infonde coraggio ad una comunità disorientata, la fa sentire amata e valorizzata.
"Se tu resti – mi sento dire -, significa che noi siamo importanti, ci vuoi
bene e sei uno di noi".

Il secondo tassello del mosaico è più profondo: dipende dalla stessa
missione che ci vincola, senza sconti, alle comunità cristiane. Quali che siano le
circostanze (abbondanza, penuria, gioia, pericolo, gratitudine o indifferenza), il vangelo
della carità (cioè il dono di sé) deve essere proclamato in ogni situazione. Pertanto la
missione non è una passeggiata occasionale,
una manciata di emozioni che passano, ma
condivisione di vita, costantemente e concretamente.

Un terzo motivo: la nostra presenza deve diventare segno di una cultura
di pace contro ogni logica della guerra,
facendo capire che, nonostante la violenza,
è la frateità che deve reggere la vita… Attraverso riflessioni, incontri e gesti di
carità, il missionario approfondisce il vangelo con l’uomo della strada, provocando
(non senza fatica) pensieri di riconciliazione. Un esempio: furono fatti prigionieri dei
rwandesi, ed era "normale" insultarli, denigrarli e considerarli animali per
tutte le sofferenze che avevano provocato… Nella nostra riflessione, in missione,
abbiamo affrontato il tema della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che
supera l’appartenenza ad una tribù o stato. La riflessione ha incontrato molta
resistenza… perché "è vero che siamo tutti uguali, loro però…". Ciò
nonostante, dopo reazioni anche violente, siamo riusciti a raccogliere cibo e soldi per
andare a trovare i prigionieri "nemici", con un atteggiamento di pace e perdono.

 

 

Preparando il futuro

 

È importante rimanere e, soprattutto "come" si rimane. Non
è la presenza fisica che gioca il ruolo determinante, ma il significato che acquista e
l’azione quotidiana: cioè la vicinanza che faccia crescere la comunità cristiana,
che infonda speranza (ma anche soluzione) nei problemi concreti, che educhi alla non
violenza e al perdono.

In frangenti drammatici (come è avvenuto nelle nostre missioni del
Congo settentrionale) a volte è più utile la "partenza momentanea", perché il
missionario, restando, può mettere a repentaglio la vita della sua gente. Spesso,
infatti, "il bianco" è ricercato per quello che possiede o ha nascosto; e, per
sapere e trovare qualcosa (macchine, soldi, viveri), si può anche ricorrere alla tortura
delle persone. In questi casi, forse, la soluzione migliore è l’allontanamento
temporaneo, per permettere alla gente di vivere senza subire ulteriori pressioni e
violenze.

 

I missionari non sono eroi; non sono nati per questo (io, almeno);
però la presenza-missione li interpella e si esprime "con" la gente in tante
piccole cose.

Infine il nostro restare è un investimento per il futuro. La
situazione, anche pastorale, esige nuove visioni e prospettive; suppone che i missionari
lavorino non soltanto cercando di "sopravvivere" oggi, ma guardando alle
generazioni future. La guerra, purtroppo, non finirà domani e la ricostruzione del Congo
non avverrà dopodomani. I giovani, specialmente, devono saper convivere con la violenza,
stimolati però a cercare valori nuovi, umani e cristiani, per costruire un futuro di pace
per il paese. Ecco perché, in barba alla guerra (o, meglio, a motivo di essa), il nostro
gruppo missionario di Kinshasa ha voluto offrire un segno "forte". Prendendo lo
spunto dalla conferenza "Il coraggio dell’annuncio", abbiamo aperto una nuova
parrocchia nella "periferia più periferia" della capitale, dove bisogna
incominciare da zero. È una testimonianza di chiesa, di vicinanza missionaria, che
esprime, a dispetto della scarsità di mezzi e personale, la fiducia di poter dare un
volto nuovo al Congo. Noi siamo sempre "i missionari della Consolata".

 

 

(*) Padre Santino Zanchetta, missionario in Zaire-Congo. Il paese,
spaccato in due, è in guerra dal 1998: le vittime superano i due milioni. La separazione
incide anche sui missionari della Consolata, costituitisi in due gruppi che non possono
incontrarsi.

 

Articolo 5

 

dossier America Latina

 

 

America Latina

 

 

L’indio al centro

 

 

"Per gli indios, noi missionari non siamo importanti:

con la chiesa o senza la chiesa, faranno il loro cammino. Siamo noi che
abbiamo bisogno di loro".

 

di Antonio Bonanomi (*)

 

È importante chiarire subito un "dettaglio": l’indio non
esiste. Esiste come termine, non come realtà; nessuno degli indigeni dell’America si
riconosce come indio, perché è una parola sbagliata; è un "errore" di
Cristoforo Colombo,
che pensava di avere raggiunto le… Indie!

Pertanto meglio sarebbe parlare di popoli indigeni o, come si
dice in Argentina, di popoli aborigeni, che occupano un determinato territorio fin
dall’"inizio": quindi padroni della loro terra e storia. Tuttavia fare la
scelta degli indios non è una moda; significa incominciare a guardare il mondo non
dall’occidente, da noi, ma da loro. Non solo il mondo, ma anche la chiesa sarebbe
più povera senza la loro presenza, perché gli indios apportano una grande ricchezza, con
una saggezza, una storia e un progetto di vita diversi. Siamo noi che abbiamo bisogno di
loro, più che loro di noi. Qual è il panorama degli indigeni nell’America Centrale e
Meridionale? Sono circa 45 milioni coloro che si dichiarano indigeni, anche se credo che
siano il doppio, perché la maggioranza dei popoli che vivono in America hanno una
percentuale di sangue indi al 20-60%; quindi il volto indigeno è molto più comune di
quanto appare nelle nostre mappe. Essere indigeni in America è stato un motivo di
vergogna per tanto tempo e molti si sono mimetizzati per poter sopravvivere! Si passa dal
70-80% della Bolivia e del Guatemala, allo 0,2% del Brasile, all’1% del Venezuela, al 2%
della Colombia. Quindi c’è una diversità di presenza enorme.

C’è pure una diversità di situazioni: popoli che vivono ancora come
cacciatori, raccoglitori, pescatori e popoli che sono alle soglie della modeità con i
vantaggi e gli svantaggi che questo implica. Oggi questi popoli stanno facendo "la
riconquista" della loro storia, cultura, territorio.

Oggi il grande problema in America è il non riconoscimento della
propria identità.
Il futuro dirà chiaramente che, se l’America vorrà diventare un
continente con un volto, una storia e un progetto originali, dovrà necessariamente
riscoprirsi plurietnico e multiculturale: latina, india, nera. Una sfida enorme, ma
anche la ricchezza d’America.

 

 

Il quinto sole

 

Ci sono tre grandi tappe nella storia dei popoli indigeni. La prima è
il tempo che precede la conquista, e non è conosciuta. Tutti pensiamo che la storia
d’America sia incominciata quando è arrivato Colombo, ma quei popoli "scoperti"
avevano già migliaia di anni di civiltà, di cui è rimasto solo qualche rudere, alcune
iscrizioni e pochi reperti nei musei.

La seconda tappa della storia comincia con "la conquista".
Per noi il 1492 è una data gloriosa, perché spalanca all’Europa un mondo
sconosciuto; per gli indios è l’inizio della colonizzazione, del genocidio e della
"scomparsa", non solo fisica, ma soprattutto culturale, di identità.

Verso gli anni ’70 incomincia una terza tappa per i popoli
indigeni: è quella della "riconquista". Vissuti finora ai margini,
vogliono riappropriarsi della loro storia e identità; vogliono essere di nuovo
protagonisti e signori della loro terra espropriata. Per questo il terzo millennio, per
l’America, sarà il millennio degli indigeni e dei neri. Oggi il grande problema
americano è il non riconoscimento della propria identità, bensì l’essere un
continente senza identità.

La storia unisce i popoli indigeni, anche se la cultura a volte li
differenzia; e li unisce il progetto del futuro che sentono come proprio: gli indios
vivono dell’utopia, credono e sono convinti che sorgerà il "quinto sole", il
nuovo impero degli indios in America.

Se la società latinoamericana non accetta la sfida di assumere la
cultura e il progetto indigeno come radici della sua storia, difficilmente il continente
incontrerà la pace, perché non s’incontrerà con se stesso.

 

 

Alle radici

 

Noi missionari della Consolata in America Latina abbiamo compiuto un
lungo cammino per giungere alle… radici. Quando siamo partiti per il continente,
l’abbiamo fatto con un progetto particolare: incontrare l’America degli
emigranti e, quindi, la ricerca-scoperta di paesi o quartieri totalmente veneti, trentini,
siciliani, calabresi… tutta gente che era partita dall’Italia per cercare da
mangiare e sfuggire alla miseria.

La prima tappa dei nostri missionari è stata quella di stabilirsi dove
c’erano gli europei; arrivando, si sono sentiti più o meno a casa loro; non hanno
avvertito il cambiamento provato dai missionari in Africa, dove il "salto" era
più evidente.

Poi c’è stata la seconda tappa, a volte più lunga e a volte più
breve. Il fatto di essere missionari li ha resi inquieti e si sono, allora,
aperti alle zone più povere e abbandonate: il Chaco in Argentina, Roraima in Brasile, il
Caquetá in Colombia… Ma l’indio era sempre invisibile. Se si prendono in mano i
documenti ufficiali (come le Conferenze regionali) fino agli anni ’70, non si parla
mai di indios. È come se uno prima vede i rami, poi il tronco e, solo alla
fine, le radici.

Soltanto in una terza tappa i missionari e le missionarie della
Consolata sono arrivati agli indios. All’inizio è stato come giungere dal centro alla
periferia; poi si sono resi conto che giungere all’indio non è arrivare alla periferia
d’America, ma alle sue radici. A São Paulo, in Brasile, si contano 600-700 mila
giapponesi, una delle culture asiatiche più ricche; si trovano più cattolici giapponesi
in Brasile che nello stesso Giappone… In Colombia si incontrano pure turchi o colonie
libanesi. Le colonie sono come rami, che non hanno in sé la vita; questa viene dalle
radici. C’è anche il tronco, che è il mondo dei meticci, della colonizzazione: un
mondo inquieto, incerto, disposto a tutte le avventure. E, infine, le radici, che sono i
popoli indigeni.

Per gli indios, noi missionari non siamo importanti, né necessari: con
o senza la chiesa, essi faranno il loro cammino. Siamo noi che abbiamo bisogno di loro.
Non incontreremo mai le radici, né costruiremo una chiesa che sia davvero cattolica,
cioè con una pluralità di valori, senza gli aborigeni. Dobbiamo andare incontro agli
indios, perché sono "diversi"… La loro è una cultura che privilegia lo
spirito sulla materia. Per l’indio tutto è vita.

L’uomo può diventare animale o pietra… Noi occidentali non siamo il
centro di tutto, perché, avendolo fatto per ragioni di profitto, stiamo rovinando tutto.
È la tragedia dell’homo homini lupus, che si ripete.

 

Poi c’è la comunità. L’indio non esiste come
"individuo"; non dice "io", ma "noi"; si sente parte di un
corpo. Se volete annullare un indio, portatelo fuori dalla comunità: non esiste più, è
un uomo morto…

Come missionari, la nostra funzione è: stare con gli indios, sorretti
dal vangelo, per rafforzae l’identità. Nel momento presente essi devono
fronteggiare ad una sfida grande: unire, in una sintesi nuova, la loro storia e tradizione
con… altre realtà, in un processo di interculturalità. È questo il nostro compito di
missionari, membri di una famiglia ormai intercontinentale: non richiudere gli indios come
oggetti da museo, ma rafforzarli, aprendoli al dialogo interculturale; perché la loro
ricchezza non solo sia conosciuta, ma diventi valore per altri. Ricordo due figure
significative: la prima è quella di padre Giovanni Calleri, il primo missionario della
Consolata ucciso (nel 1968), per avere amato gli indios del Brasile; la seconda riguarda
un altro sacerdote, padre Alvaro Ulcué, colombiano, anch’egli ucciso (nel 1984),
perché si era schierato dalla parte degli indios. Questo dice qualcosa: che la scelta
degli indios in America Latina è anche scelta di martirio. Ciò vale pure per il nostro
istituto. È bello sapere che un missionario della Consolata colombiano, padre Ariel
Granada, sia morto martire in Mozambico e un italiano abbia avuto la stessa sorte in
Brasile… Questo "filo rosso", che caratterizza la storia delle missioni, lega
anche la storia dei popoli indigeni.

 

 

(*) Padre Antonio Bonanomi, missionario fra gli indios "nasa"
della Colombia. Dopo una significativa presenza in Italia come professore e formatore, ha
raggiunto l’America Latina.

 

Articolo 6

 

dossier Kenya nord

 

 

Kenya del Nord

 

 

Samburu a rischio

 

 

"Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca

di realizzarsi fuori della comunità… La popolazione

è "in guerra" per divenire più potente e ricca".

 

 

di James Lengarin (*)

 

Io sono un samburu. Appartengo ad un popolo nomade di pastori nel Kenya
del nord. I samburu sono un ramo dei masai (eravamo "cugini"): il 95% della
lingua, degli usi e costumi sono uguali, anche se non mancano le diversità. I samburu
sono circa 150 mila e vivono su una superficie di 20 mila chilometri quadrati. Un
territorio vasto, ma povero, perché senz’acqua. Quando ritorno a casa per trovare i
parenti, non li trovo mai sullo stesso luogo, perché, essendo pastori nomadi, devono
spostarsi alla ricerca di acqua e pascoli erbosi.

 

 

Mucche al centro

 

La società samburu è formata da otto clan (o insieme di famiglie), a
loro volta divisi in due: "vacche nere" e "vacche bianche". Il nome
non deve stupire, perché la nostra vita ruota attorno alle mucche. Con la loro pelle, ad
esempio, si confezionano vestiti, stuoie, tabacchiere, sandali: tutto proviene dalla
mucca. Essa è il centro di tutto, non la… new economy!

La nostra è anche una società gerontocratica, perché tutte le
decisioni vengono prese dal "Consiglio degli anziani": solo gli anziani, non
altre persone; nonne e mamme possono dire la loro, dare un parere, ma la decisione finale
spetta al Consiglio! È composto da tutti i capifamiglia, che devono dialogare e restare
uniti per il bene del popolo. La vita dell’individuo passa attraverso vari momenti di
crescita (classi di età) e diversa è la responsabilità sociale: il bambino deve restare
bambino e il guerriero… guerriero. I lavori sono organizzati secondo i ruoli: i ragazzi
pascolano i vitellini o le caprette; i guerrieri il bestiame più grosso e difendono la
società dai nemici; gli anziani guidano la vita attraverso il Consiglio, decidono su riti
ed iniziazione, controllano i matrimoni; le donne costruiscono le dimore, mungono il
bestiame, procurano acqua, legna e cibo per tutti; esse sono al centro della famiglia e
rispettate nel loro ruolo.

In ciò concee la vita religiosa tradizionale, i samburu credono in
un unico Dio, Ngai, che rimanda non solo ad un essere supremo, ma significa pure
"pioggia" e "cielo".
Nell’acqua c’è la vita. Il nostro
è un Signore che dona la vita attraverso la pioggia. E può manifestarsi in vari luoghi:
in una casa, sotto la pianta, sulla montagna, dove si prega, si offrono sacrifici, si
invocano le benedizioni (che sono quasi infinite). Si prega mattino e sera.

I samburu tradizionali sono molto lontani dalla fede in Gesù Cristo.
Il messaggio cristiano è di difficile accettazione. Un uomo-Dio: come è
possibile? I missionari devono faticare non poco per comunicare questa "buona
notizia", sconvolgente per i samburu.

La vita sociale è legata ai periodi di siccità e pioggia; quando
questa manca, la gente sta male, gli animali muoiono e la vita si ferma. Per questo Dio è
pioggia, cioè cibo, carne, sangue, latte: ciò che garantiscono gli animali.

Negli ultimi tempi i samburu sono cresciuti di numero, ma la qualità
dei pascoli è scaduta. Le frequenti siccità e carestie hanno costretto la gente ad una
maggiore dipendenza da cibi estei, come riso, polenta… Tutte cose che prima non
mangiavano; ora, invece, ne fanno uso per sopravvivere. Al presente dipendono anche dal
governo nazionale e dagli aiuti stranieri.

I samburu sono stati a lungo "fuori dal mondo". Quando in
Kenya c’erano i coloni inglesi, alla gente non era permesso di lasciare il territorio. È
rimasta, dunque, isolata per parecchio tempo, divenendo un problema per i colonizzatori,
che faticavano a concepire e dominare una società… senza capo, in quanto tutto è
determinato dal Consiglio degli anziani.

I missionari della Consolata ebbero i primi contatti con i samburu nel
1946, allorché padre Carlo Andrione giunse a Maralal per visitare alcuni amici kikuyu.
Così è iniziato l’avvicinamento, con qualche scuola.

La prima missione sorse a Baragoi nel 1951; vi era anche un centro per
ragazzi, una scuola, un dispensario; il tutto con la presenza delle suore. Fu un passo
molto importante per la nostra storia. I missionari osservavano, imparavano dalla gente,
dialogavano con gli anziani. La scuola è stata l’iniziativa più "utile",
come quella di Wamba e l’omonimo ospedale: un’oasi nel deserto, con medici che
arrivano dall’Italia.

Accennando ai missionari, è doveroso ricordare i confratelli martiri:
padre Michele Stallone ucciso nel 1965 e padre Luigi Graiff nel 1981. Nel 1998 cadde anche
padre Luigi Andeni. Missionari uccisi in un clima di "guerra", mentre essi
aiutavano in "pace" la gente e portavano cibo ai bisognosi.

 

 

L’antenna sulle capanne

 

Contese ce ne sono sempre state nel nord del Kenya, soprattutto fra le
tribù. Noi samburu, ad esempio, non mangiamo con i turkana, perché ce lo vieta la
tradizione che abbiamo ereditato dai nostri padri. Ricordo anche i bellicosi ngorokos e le
azioni di banditismo dei somali.

Ma ben altri sono gli scontri con operazioni tipicamente militari; sono
soldati che combattono altri soldati. E lo stato centrale ha le sue responsabilità.

Un proverbio recita: "Se chiudete la bocca al popolo, ne armate la
mano". Ecco allora che la lotta nel nord del Kenya è diventata una "guerra
civile". Lo stato, invece di garantire alla gente sicurezza e speranza di
vita, mette a disposizione fucili. Una nota preoccupante nei conflitti samburu è
la "giovinezza": la violenza è diventata un modo di vivere per i giovani; sono
ragazzi disoccupati che non hanno nulla da perdere e, di conseguenza, non posseggono né
etica né disciplina. Ma non si tratta di lotte tribali per impossessarsi di mucche o di
sorgenti d’acqua, bensì di banditi organizzati per un fine politico. Tra i rovi del
deserto si aggirano uomini con fucili a tracolla. In tale situazione la cultura samburu è
davvero a rischio. Finora i samburu, pur cambiando, hanno sostanzialmente conservato
l’identità culturale (tanto da essere subito riconosciuti) e il senso di libertà.
Invece altri gruppi hanno subìto in modo violento le spinte del cambiamento: coinvolti
nel processo di urbanizzazione, hanno perso le loro radici.

Quindi i samburu potrebbero rappresentare un esempio di mutamento
positivo (persino nella religione), conservando tuttavia i tratti culturali fondamentali.
Alcuni sono diventati cristiani, lavorano in città, dirigono piccole aziende, ma restano
samburu. Inoltre si sostengono a vicenda. Ognuno ha diritto alla propria libertà di
pensiero, purché non vada contro il bene comune. Al centro c’è la persona: tutto ruota
attorno ad essa e alla vita. Questo almeno fino a ieri.

Oggi però anche i samburu sono a rischio, perché c’è il miraggio
del benessere.
Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca di realizzarsi
fuori della comunità. Il problema grave è che, al presente, la popolazione è "in
guerra" per divenire più potente e ricca. Quando un giovane samburu lascia il
villaggio per motivi di studio o lavoro, al ritorno a casa non si trova più a suo agio,
non è più uno di "loro": non va ad attingere acqua con i compagni, non segue
il gregge al pascolo. Forse il nuovo comportamento è determinato dal fatto che il ragazzo
non ha ricevuto l’educazione tradizionale. Infatti alcuni giovani non ascoltano più gli
anziani (che sono emarginati); invece sono impegnati nell’ascolto della radio e,
possibilmente, della televisione.

Su alcune capanne svetta persino l’antenna parabolica. Solo
musica. La cultura tradizionale tace. Ha voce solo l’immediato, l’economico.

Questo è il rischio che stiamo vivendo: essere individui che cercano
solo di avere di più e a prezzi facili. E dove finiremo con i nostri traumi?

 

 

(*) Padre James Lengarin, primo missionario della Consolata
"samburu" (Kenya). Ha studiato a Londra e Roma. Oggi svolge animazione
missionaria a Galatina (LE).

 

Articolo 7

 

San Vicente/Puerto Leguízamo (Colombia)

 

Nell’inferno della coca

 

 

"Io vorrei maledire la coca. Invece i veri maledetti

siamo noi. Ci siamo lasciati ingannare

dal miraggio di quelle foglie…".

 

 

di Javier Francisco Múnera (*)

 

Mi sento sinceramente un po’ a disagio con il titolo
"nell’inferno della coca", perché io ci vivo. Ma per me non è un inferno,
anche se potrebbe apparire tale. Quindi mi permetto di cambiare il titolo con
"Colombia: tensione armata e coca; la sfida della pace e dell’armonia con il
creato".

In Colombia, in un conflitto sociale che dura da oltre 50 anni e che
non si riesce ancora a risolvere, la pace è la nostra sfida più grossa. Impegna le
migliori risorse anche nel vicariato apostolico di San Vicente/Puerto Leguízamo.

 

 

Intreccio di armi e droga

 

Il vicariato ricopre un’area di circa 100 mila chilometri quadrati, con
quattro comuni principali: Cartagena del Chairá, Solano, San Vicente e Puerto Leguízamo.
Un territorio che rivela l’assenza dello stato per tutto ciò che riguarda i servizi
e le infrastrutture, nonché per i costanti scontri. L’attuale popolazione proviene
da altre regioni della Colombia, colpite dalla violenza politica degli anni ’50-60:
ha cercato qui lavoro e rifugio. La nostra regione si caratterizza per la coltivazione
della coca, oltre che per la presenza della guerriglia. I contadini hanno incominciato
lentamente a piantare coca e a vendee le foglie raccolte; hanno imparato a trattarle,
per ricavare la "pasta basica"; questa viene poi raffinata in polvere bianca e
venduta ai commercianti che alimentano i mercati di cocaina in Europa e America del Nord.

Oggi in Colombia (nella nostra zona in particolare) il conflitto
armato e il traffico di stupefacenti si intrecciano,
condizionando la vita della
popolazione e, quindi, anche la nostra presenza pastorale. È un’incredibile sfida
missionaria. Siamo convinti che solo la via del negoziato può aiutarci ad uscire dal caos
in cui annaspa la nazione; non possiamo accettare alcuna soluzione militare, che rechi
altro sangue e sacrifichi nuove vite umane. Riteniamo utile, come male minore, una
"zona di distensione", per realizzare una intesa con i guerriglieri delle Forze
armate rivoluzionarie colombiane (Farc).

Tuttavia la guerriglia è divenuta ormai un "quasi stato",
che domina e controlla il territorio e le persone, non solo nella nostra zona, ma anche
altrove: vi sono tasse, leggi, punizioni, reclutamento di ragazzi e ragazze, lavori
forzati, abusi contro i diritti umani. La gente lo sa: o resta a tali condizioni o se ne
va; non c’è via di mezzo, anche perché il controllo è forte e si esercita maggiormente
nelle aree rurali.

Un esempio: quest’anno a Remolino non si è celebrato il natale,
nonostante che i padri Giacinto Franzoi e Beppe Cravero avessero preparato la comunità.
La comandante guerrigliera Jessica, infatti, aveva ordinato alla gente di rimanere in
piazza per il "carnevale", durato tre giorni. I missionari avevano chiesto due
ore per poter almeno celebrare la messa di natale; ma la richiesta non fu accolta…
L’aspetto peggiore dell’episodio è che la gente non ha avuto la capacità di
reagire,
di resistere al sopruso della guerriglia.

Come missionari, dobbiamo educare tutti alla pace e alla
riconciliazione. La popolazione ha fiducia nella chiesa, anche se conflitti armati e
traffici di coca hanno soffocato i valori di convivenza sociale tipici di un tempo. Si
vive in una situazione assai confusa di "legalità illegittima", e i riferimenti
ai valori umani e cristiani non sono all’ordine del giorno. Però io credo che ci sia
ancora spazio per continuare a seminare, con più capacità "profetica", tutti
insieme e come équipes ecclesiali.

Il problema rende necessaria la formazione per il coinvolgimento
sia nel processo di pace sia nella costruzione di nuove forme di convivenza sociale, per
divenire più responsabili. Pertanto abbiamo iniziato, con altre diocesi, le "scuole
di pace",
affrontando temi importanti e fondamentali: identità e appartenenza
(necessarie dove il tessuto sociale è molto fragile); conflitti sociali e il loro
ragionevole superamento; partecipazione politica. Il tutto illuminato dalla bibbia e dal
magistero sociale della chiesa.

 

 

A mani vuote

 

L’altro grande conflitto che colpisce la nostra regione è quello della
coca. È un fatto grave, che si inserisce nella storia e nell’economia di uno sfruttamento
selvaggio che ha ferito e ferisce l’Amazzonia, creando un profondo squilibrio tra
persone e "habitat".

Dalla coltivazione della coca, dal suo mercato e traffico
internazionale traggono grandi guadagni anche diversi gruppi armati. In particolare, nella
nostra regione, sono le Farc che controllano il commercio della polvere di coca; e non si
può negare che, nelle aree di loro dominio, è aumentato il numero degli ettari
coltivati. Sono loro che decidono i prezzi e a chi vendere la "neve bianca". Ma
c’è anche un versante positivo: le Farc hanno obbligato a seminare mais, riso,
platano, iucca, perché la gente pensava solo alla coca.

Tuttavia resta l’"economia illecita" della coca. Su di
essa si sono scaricate le politiche errate dello stato centrale, ricattato dagli Stati
Uniti, con metodi repressivi. Ma le fumigazioni dei campi di coca e i prodotti chimici non
sono serviti a nulla; anzi, hanno compromesso l’ambiente, favorendo la deforestazione
dell’Amazzonia. Da registrare anche danni irrimediabili alle acque.

C’è il probema della cocasa: pare che questo sottoprodotto
(un residuo della lavorazione delle foglie di coca) contenga un elevato tasso di piombo,
con il rischio che sia assimilato da altre colture, i cui frutti sono di largo consumo
(pomodori e verdure varie). L’impatto su donne e bambini, destinati alla raccolta e
soprattutto alla lavorazione degli avanzi di coca, è nefasto, perché sono a contatto
(senza alcuna protezione) con prodotti chimici nocivi alla salute.

Spesso la popolazione è coinvolta in tale lavoro più per necessità
che per volontà: praticamente viene costretta, altrimenti non potrebbe sopravvivere. Mancano
le condizioni per una economia sostenibile con altri prodotti:
la scarsità di vie di
comunicazioni e di centri di raccolta fanno sì che si perdano tanti prodotti, mentre i
contadini non trovano un appoggio statale valido per rendersi autonomi con altre risorse.
E i soldi che entrano nelle tasche dei coltivatori di coca non giovano a nulla, perché
non recano né benessere né sviluppo; invece aumentano gli alcornolizzati e i prodotti di
lusso, totalmente non necessari. La qualità di vita non è migliorata; al contrario,
tutti gli articoli di prima necessità costano cari. L’economia della coca si è riversata
come una maledizione sui nostri contadini.

Ecco la testimonianza di un’anziana: "Di fronte al dolor

Giacomo Mazzotti




Lettere: cari missionari

"Del Monte"… accetta

Gentile direttore,

in seguito alla mia lettera "La Del Monte in Kenya",
pubblicata sul numero di marzo, allego ora la fotocopia di Consumatori, maggio 2001: si
dichiara che proprio a marzo c’è stato l’accordo tra "Coop" e
"Del Monte" circa le condizioni di lavoro nella piantagione a Thika, in Kenya.

Mi auguro che corrisponda a verità.

Olivo Cassina
  Udine

Grazie dell’aggioamento. C’è stato un lungo
contenzioso tra Del Monte (multinazionale che a Thika produce ananas) e il sindacato che
tutela i diritti dei lavoratori. Il merito del successo è da ascriversi anche al Centro
Nuovo Modello di Sviluppo, cornordinato da Francesco Gesualdi, che ha promosso una campagna
di boicottaggio dei prodotti Del Monte.

 

Aids e profilattici

Illustrissimi,

leggo quasi incredulo, a pagina 30 di Missioni Consolata, giugno 2001,
che il profilattico sarebbe "unica ed efficace barriera" all’infezione
dell’Aids. Scoperto, poi, che l’autore dell’articolo è un medico, capisco
che si tratta del solito caso di "disinformazione medico-scientifica".

Per farla breve, diversi studi universitari, già a metà degli anni
’80, hanno evidenziato che il profilattico permette un abbattimento del rischio di
contagio di circa l’80% (su un periodo di due anni). Il che rende il profilattico uno
"strumento" tutt’altro che efficace, visto che rimane un bel 20% di
possibilità d’infezione.

La cosa è ben documentata, per esempio, su Medicina e Morale, 1995/5;
ma è quasi "contro-informazione", ai giorni nostri. Significa, in pratica, che
(escludendo gli "incidenti" di trasfusione, peraltro non eliminabili a colpi di
preservativo) la vera unica ed efficace barriera contro la "peste" di questi
decenni starebbe proprio nella classica "ricetta della nonna" (castità prima
del matrimonio e fedeltà nel matrimonio).

La preoccupazione più diffusa, però (anche in ambienti cattolici), è
quella di salvaguardare a tutti i costi la "rivoluzione sessuale" degli anni
’60; e quando ad essa si aggiunge il condizionamento delle case farmaceutiche (per le
quali un ritorno alla suddetta "ricetta" rappresenterebbe un danno economico
incalcolabile nel settore della contraccezione) il gioco è fatto. Così anche i medici
"cattolici" finiscono per ripetere come pappagalli la "bugia" del
secolo.

Carlo Incarbone
  Collegno (TO)

La "contro-informazione" che il lettore porta alla
ribalta merita seria considerazione. Quanto al dottor Guido Sattin (chiamato in causa per
disinformazione medico-scientifica), la sua preoccupazione non è "la rivoluzione
sessuale degli anni ’60", ma la passione per la vita. Sattin scrive pensando
soprattutto al degradato Perú, dove ha lavorato per cinque anni, ritornandovi ogni anno.

 

Ottimo il "dossier" sull’Aids

Spettabile redazione,

sono un medico, da parecchi anni abbonata a Missioni Consolata, che
leggo sempre con molto interesse. Con il dossier sull’Aids del numero di giugno 2001
avete superato voi stessi: il servizio è particolarmente ben fatto e di esemplare
correttezza scientifica. Complimenti!

M. V. Pellanda
  (via e-mail)

 

"Non riceverete più un soldo, se…"

Spettabile direzione,

da tempo pensavo di inviare un’offerta in denaro per
l’ospedale di Neisu, nella Repubblica democratica del Congo. Ma il pensiero che voi
pubblicate sulla rivista le offerte che vi giungono (con tanto di nome e cognome) mi ha
trattenuta dal farlo.

Si direbbe che non conosciate la frase del vangelo "non sappia la
mano sinistra ciò che fa la destra", e nemmeno le più elementari regole della
privacy. Infatti, senza chiedermi l’autorizzazione, avete sbandierato ai quattro
venti la lettera che vi ho inviato. Me lo ha riferito una persona che riceve la rivista.

Sono rimasta molto male, perché io sono molto discreta e pretendo
dagli altri altrettanta discrezione. Ebbene giuro che, se il fatto si ripete, non
riceverete più un soldo. Mi dispiace solo per i poveri dell’ospedale africano.

Ringrazio il padre e il medico dell’ospedale (che ha sostituito il
defunto padre Oscar Goapper) per la lettera che mi hanno inviato. Avrei piacere, se
possibile, ricevere una foto dell’ospedale e dei suoi piccoli pazienti.

Lettera firmata

 

Conosciamo la celebre massima del vangelo. E tanto di cappello a chi la
pratica! Ma non sono molti. D’altro canto, è pure noto il detto (non evangelico!):
"Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio". Moltissimi ci credono. E chi può dar
loro torto, specialmente se si tratta di denaro?

Sapesse (la signora che ci ha scritto) quanto lavoro eviteremmo, se non
pubblicassimo le offerte e i nomi dei donatori! Se lo facciamo, è per ragioni di
trasparenza, oltre che di riconoscenza.

Riconoscenza che è doppia per la signora di… "non sappia la
mano sinistra ciò che fa la destra".

 

 Ma il bene prevale sul male

Caro direttore,

la ringrazio della pubblicazione in giugno dell’articolo "Con
72 condannati alla forca", riguardante i missionari della Consolata che operarono nel
carcere giudiziario "Le Nuove" di Torino, per assistere umanamente e
religiosamente i condannati a morte durante la Resistenza nella seconda guerra mondiale.

Inoltre la testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier
Nguyén Van Thuan, sottolineando la grande sofferenza di un detenuto per ragioni politiche
e religiose, conferma il prevalere del bene sul male e mette in luce come i missionari
della Consolata, ieri e oggi, convertano gente atea e favoriscano la pace tra i popoli.

Di questi semi di umanità e di salvezza in Cristo, che daranno
sicuramente i loro frutti, siamo grati al Signore, alla Madonna Consolata e al beato
Giuseppe Allamano. Nel centenario della fondazione dei missionari della Consolata
preghiamo affinché essi possano portare sempre e ovunque il messaggio di pace e
fratellanza.

Felice Tagliente
  Torino

Il dottor Felice Tagliente, autore dell’articolo citato, opera
come psicologo presso il carcere "Le Vallette/Le Nuove" di Torino.

 

 Quando ne capitano di cotte e di crude

Carissimi amici,

in questi mesi in Kenya se ne vedono di tutti i colori, di cotte e di
crude. Tempo fa è stata bruciata una scuola con i ragazzi in dormitorio: 68 studenti
morti, 21 feriti e 9 "dispersi" (sospettati di essere gli autori
dell’incendio, perché bocciati). Davvero un fatto incredibile!

Quanto a me, sono stato coinvolto in una sparatoria nella zona
industriale di Nairobi. Mi è venuta la saliva amara, ma grazie a Dio ne sono uscito
indenne.

Intanto continuo il mio solito lavoro di riparazioni e manutenzione
della scuola, anche se sono un po’ stanco e scoraggiato. Forse le prossime vacanze in
Italia mi rimetteranno in sesto. Nel frattempo dico alla Madonna Consolata: "Io sono
un povero missionario. I problemi esistenti sono troppo grandi per me. Allora pensaci tu.
Se io faccio fiasco, pazienza. Ma tu non puoi fallire…".

fr. Gaetano Borgo
  Kenya

Recentemente il Signore ci ha concesso di fare
un’esperienza missionaria straordinaria. Il 21 giugno scorso, alle ore 18.40, fratel
Pietro Bertoni ed io siamo stati aggrediti in casa da tre individui con scuri e armi da
fuoco automatiche: ci hanno percossi e minacciati di morte. Erano drogati ed eccitati
dall’alcornol.

Sanguinanti ma coscienti, siamo stati costretti ad aprire la
cassaforte. I malviventi l’hanno svuotata: conteneva, soprattutto, i risparmi della
povera gente che aveva perso tutto con il ciclone e l’inondazione e pensava che in
missione i soldi fossero al sicuro. La cassaforte custodiva pure 4.700 dollari di alcuni
minatori, che ci avevano chiesto di aiutarli a costruire la casa in muratura. In pochi
minuti tutti i loro sogni sono svaniti.

Io sono stato rinchiuso in una stanza, mentre a fratel Pietro hanno
chiesto le chiavi della Toyota. Quando ho sentito partire la macchina, ho trovato il modo
di uscire dalla stanza e ho cercato subito Pietro. Era notte, con un silenzio
impressionante: si udiva solo la mia voce che chiamava il missionario. Mi domandavo:
"Sarà ferito o, addirittura, morto?". Giravo disperatamente per la missione
quando; vedendo il garage vuoto, ho pensato che i banditi lo avessero portato via con
loro. Allora sono corso al distretto di polizia, a 7 chilometri di distanza. Ma il
personale o era ubriaco o dormiva. Ritornato alla missione, ho trovato fratel Pietro sano
e salvo, anche lui in pena per me. Insieme abbiamo ringraziato il Signore.

Durante la passata guerra civile, siamo stati varie volte spogliati di
tutto, ma mai percossi… Ora le ferite si sono cicatrizzate e il brutto ricordo va
scomparendo a poco a poco. Tuttavia il fatto è motivo di preoccupazione anche per la
gente locale, che è stata meravigliosamente solidale con noi, anche perché
l’accaduto ha fatto il giro del Mozambico. Noi abbiamo pure scritto "una lettera
aperta" agli aggressori sconosciuti, perdonandoli e consigliandoli a cambiare vita.

Sicuri di essere nelle mani di Dio, continuiamo a lavorare per essere
segno di speranza in questa società minata da tanta corruzione. Abbiamo quattro gruppi di
giovani che imparano il mestiere di muratori. Altri, falegnami, fanno porte e finestre:
hanno appena terminato 300 banchi scolastici doppi; e le richieste sono così tante da non
poter attendere a tutti.

Cari amici, ci facciamo portavoce di tutta la popolazione che ringrazia
il Signore, il quale infonde in voi tanta generosità. Non preoccupatevi per noi. Siamo in
buone mani. Un fraterno abbraccio.

p. Amadio Marchiol
  Mozambico

Nonostante ne succedano "di cotte e di crude", in Kenya
come in Mozambico, i missionari restano. E non per fare gli eroi.

 

 "La tua benignità"

Cari missionari,

mi dichiaro fortunata di essere entrata a far parte delle persone che
si affidano alla protezione della Madonna Consolata. Avevo a Torino una sorella suora del
Cottolengo, suor Valentina, da otto anni defunta a causa di una terribile sclerosi
multipla.

Grazie a lei, abbiamo avuto il quadro della Consolata, alla quale mia
madre si rivolgeva anche di notte, inginocchiata ai piedi dell’immagine, nei momenti
di bisogno. Ne aveva ben donde: rimasta vedova con otto figli, non ha mai perso la
speranza e ha insegnato pure a noi la devozione alla Madonna.

Nelle mie povere preghiere raccomando tutti alla Consolata. In questi
giorni prego anche per un bravo ragazzo, iscritto alla facoltà di medicina, ma vittima di
tanta sfortuna. Una sera, al cancello d’ingresso del condominio dove abita, si è
ferito abbastanza gravemente la lingua; portato al pronto soccorso, gliel’hanno
suturata con alcuni punti. Otto giorni dopo, si è rotto il setto nasale; operato
d’urgenza, l’intervento non è andato troppo bene. Spero che la Madonna lo
faccia guarire senza un altro intervento.

Io prego affinché la Vergine non ci conceda ricchezze o onori, ma solo
consolazione.

Giovanna Bilotta
  Chiusi (SI)

La grande fiducia nella Madre di Dio della signora Giovanna ci
ricorda i versi immortali di Dante Alighieri:

"La tua benignità
  non pur soccorre /a chi dimanda,ma molte fiate /liberamente al dimandar
precorre"

(Paradiso, XXXIII, 16).

 

Ma quando funzioneranno le poste?

Cari missionari,

sono una donna anziana, da anni sono abbonata alla bellissima rivista
Missioni Consolata. Ma, con mio disappunto, devo comunicarvi una cosa spiacevole: da
diversi mesi non la ricevo più, pur avendo pagato l’abbonamento. Con ogni
probabilità è colpa delle poste che, purtroppo, sono in degrado. E dire che siamo nel
decantato nordest! Tutti si lamentano, ma senza risultati. Sacchi di posta vengono buttati
qua e là, e nessuno fa niente. Se continua così, sarò costretta a rinunciare
all’abbonamento.

Gina Bergamo
  Montebelluna (TV)

Sul mancato recapito di Missioni Consolata le lamentele piovono
ormai a grappoli, con situazioni croniche: per esempio da anni, ad Olbia, numerosi
abbonati ricevono la rivista solo due-tre volte nell’arco di 365 giorni.

In varie regioni si pratica "la mobilità dei postini": ciò
comporta che chi recapita la corrispondenza in un posto lo fa per due-tre mesi; poi cambia
sede. "Di fronte a qualche difficoltà (dovuta alla non conoscenza del luogo), i
postini pivelli possono buttare la rivista nei cassonetti dell’immondizia". La
gente non ne può più. E noi con essa.

 

Uomini e Donne, Fatti e Misfatti

Così la pensano sul "G 8" di Genova

 

Ho letto sul Corriere della sera l’attacco di Renato Ruggiero a
suor Patrizia Pasini. Il nostro ministro degli esteri ironizza sulla missionaria che, in
preparazione dell’incontro del "G 8" di Genova, propone anche momenti di
preghiera e digiuno.

Ma chi crede di essere Ruggiero? Fino a poco tempo fa era al vertice
dell’Organizzazione mondiale del commercio, che non lesina diktat ai paesi poveri;
entrato nel governo Berlusconi (tutto sorrisi o "denti"), il ministro si
dichiara disposto al dialogo pure con "il popolo di Seattle", che contesta la
globalizzazione. Sulla globalizzazione interviene anche il papa, durante l’Angelus
dell’8 luglio, mettendone in evidenza i gravi pericoli. E il ministro si affretta a
dire su Avvenire che il pontefice scuote le coscienze. Ma il papa non crede anche nel
digiuno e nella preghiera?

Sia un po’ più coerente, signor ministro. Con tutti.

Maria Filippini – Milano

Questa lettera (come la seguente) è stata scritta prima dei tragici
eventi di Genova (20-21 luglio).

 

Caro direttore, il 7 luglio l’ho vista a Genova, in vista del
"G 8". Ho gradito il suo intervento (specialmente quando ha denunciato
l’intimidazione dei "grandi" verso i "piccoli"). Mi sono anche
piaciute le riflessioni della ragazza dell’Ecuador e del giovane della Guinea Bissau.

Ma, proprio mentre parlavano i due testimoni del terzo mondo (gli
unici!), fotografi, cameramen e giornalisti si sono buttati su Vittorio Agnoletto, appena
giunto in sala. Non mi è piaciuto il suo comportamento: seduto in prima fila, ha
accettato persino di essere intervistato addirittura mentre l’africano e la
latinoamericana parlavano. Il fatto ha disturbato me ed altri, non solo per ragioni
materiali… Deploro lo stile dei mass media: cercano solo il personaggio; degli
"altri" non gliene frega un tubo, a meno che non facciano scornop.

Cari missionari, per favore non abbassatevi mai a questi giochi
sporchi.

Grazia Piccolo – Padova

I due testimoni del terzo mondo sono Monica Espinosa e Filomeno Lopez.
Ne parliamo a pagina 63 e 65.

 

 A Missioni Consolata non manca il coraggio di far saltare i
lettori sulla sedia. Per questo, caro direttore, ti mando una mia lettura dei fatti di
Genova… in chiave evangelica. La riflessione potrebbe intitolarsi: "La nuova
settimana santa di Genova 2001".

– Domenica delle palme, 15 luglio: dopo una lunga preparazione il
popolo della pace entra trionfale a Genova; sorgono punti di accoglienza, spazi di
discussione e centro stampa.

– Lunedì santo, 16: inizia il Public Forum, ricco di contenuti. Il
dibattito continua anche nei giorni seguenti.

– Giovedì santo, 19: la manifestazione dei migrantes lancia un
messaggio universale: "Ogni uomo è mio fratello!".

– Venerdì santo, 20: la morte in agguato vuole la sua vittima. Il velo
della zona rossa si squarcia e la violenza mostra i suoi volti.

– Sabato santo, 21: un grande corteo discende agli inferi passando tra
gironi di diavoli, fiamme e fumi.

– Pasqua di risurrezione, 22… I giornalisti, che al mattino corrono
al Media Centre, vedono computer sfasciati e macchie di sangue sui pavimenti e
termosifoni. Un angelo dice loro: "Cosa cercate? La verità non abita più qui; ora
cammina a piedi nudi per le vie del mondo. La troverete là".

Andrea Saroldi – Torino

Andrea Saroldi è pure autore del libro "Gruppi di acquisto
Solidali"
(Guida al consumo locale).

 

Abbiamo vissuto i violenti accadimenti di Genova con un sentimento
irrequieto: irrequieto sia per la guerriglia scatenata da bande di teppaglia, presenti su
entrambi i fronti dei circa 250 mila manifestanti pacifici (divisi in due tronconi per il
lancio di lacrimogeni) sia per lo scandaloso messaggio uscito dai "G 8".

Il messaggio è una rivendicazione della disuguaglianza portatrice di
ricchezza per pochissimi e del diritto di comandare il mondo con regole generatrici di
disperazione. Questo scandalo merita una risposta precisa.

Pertanto abbiamo scritto un testo, in cui vengono analizzati i
miserrimi contenuti dell’incontro dei leaders. Riteniamo che sia bene smontare, pezzo
per pezzo, i dogmi che gran parte della gente ripete a pappagallo, incapace di pensare.

Ci siamo avvicinati alla rivista Missioni Consolata frequentando la
"Scuola per l’alternativa", che abbiamo seguito con entusiasmo e per la
quale, da settembre, daremo anche il nostro contributo.

Maurizio Pagliassotti
  e Silvia Battaglia – Torino

La "risposta precisa" di Maurizio e Silvia è in
Genova (2)

AAVV




CARCERE E MISSIONE. UN FLACONE CONTRO IL MAL DI STOMACO

Che fa
un vescovo in prigione per 13 anni, di cui nove in isolamento? Risponde lo
stesso carcerato, dal 1975 al 1988 vittima in Viet Nam delle galere del
comunismo. Oggi presiede a Roma il Consiglio pontificio «Giustizia e
pace». Ed è pure cardinale.

In Viet
Nam ho vissuto oltre 13 anni in prigione, di cui nove in isolamento, senza
neppure una visita della famiglia, e con due poliziotti che non mi
parlavano. Senza radio, giornali, telefono, televisione. Una cultura di
morte. Ho trascorso da giovane vescovo questi anni di disperazione e
rivolta. Ma Gesù nell’eucaristia mi ha aiutato.


 Pacchetti di
sigarette

Non molto
tempo dopo, il direttore della prigione mi chiama.

È una
bottiglietta di vino.

Con mia
grandissima gioia, grazie a quel vino, celebro le più belle messe della
mia vita. Offro il sacrificio eucaristico sul palmo della mano, con tre
gocce di vino e una di acqua. Ogni giorno posso rinnovare con il Signore
la mia «nuova ed eterna alleanza» di sacerdote.


L’eucaristia è un sostegno per me e per gli altri prigionieri cattolici.
Dormiamo tutti su uno stesso letto. La sera alle 21.30, nell’oscurità, mi
curvo per celebrare la messa, il cui testo conosco a memoria. Poi faccio
passare sotto la zanzariera la comunione ai cinque cattolici vicini a me.
La presenza di Gesù eucaristia ci conforta molto. L’indomani raccogliamo
carta di pacchetti di sigarette, con la quale fabbrichiamo dei sacchettini
per contenere il Santissimo.

Ogni
settimana, al venerdì, si tiene la sessione di indottrinamento marxista.
Tutti i prigionieri vi partecipano. Al momento della sosta, consegniamo ad
ogni gruppo di 50 persone un sacchettino… con Gesù dentro. Ciascuno
«intasca il Signore» e, nella prova, nella tristezza, nella tribolazione,
lo sente con sé: lo prega di notte, fa l’«ora santa». E, grazie
all’adorazione e alla comunione, i cristiani che hanno abbandonato la fede
ritornano praticanti.

Non potrò
mai dimenticare come ci abbia sostenuto il canto liturgico, lasciatoci da
san Tommaso per la celebrazione della festa del Corpus Domini, dove viene
affermata tutta la teologia in parole semplici. E avvertirò sempre il
senso mariano dell’eucaristia. Quando la celebriamo, siamo veramente figli
di Maria: Ave verum corpus natum de Maria virgine…

Con
l’eucaristia, i laici in carcere diventano coraggiosi nell’impegno e
sereni nella tristezza: servono tutti con carità, e la loro testimonianza
affascina i non cattolici (talvolta fanatici), che poi chiedono di
conoscere Gesù e la nostra religione; diventano catechisti; poi battezzano
gli altri compagni prigionieri facendo loro da padrini.

Con
l’eucaristia la prigione cambia: diventa una scuola di fede, una
catechesi.


«Sei hutu o
tutzi?»

Ricordo i
trappisti francesi in Algeria, monaci e missionari. I superiori hanno
chiesto loro di lasciare il paese, data la seria minaccia per la loro
vita; ma tutti decidono di restare e sono morti per la fede.

In Africa
non mancano le guerre etniche. Ma tanti nostri fratelli africani soffrono
con coraggio… Un sacerdote in Rwanda, all’arrivo dei soldati, indossa i
paramenti sacri. Gli domandano: «Sei hutu o tutzi?». E lui: «Sono un
prete…». Per la seconda e terza volta gli rivolgono la stessa domanda.
La risposta è sempre: «Sono un prete». Lo ammazzano. Muore da sacerdote. E
il sacerdote non ha frontiere: è per la chiesa universale. È testimone
della fede, grazie a quel Gesù che celebra ogni giorno nell’eucaristia.

In Burundi
alcuni guerriglieri hutu fanno irruzione in un seminario per arrestare 40
studenti, chiedendo loro di dividersi: gli hutu da una parte e i tutzi
dall’altra. «Se siete hutu vivrete, se tutzi morirete!». Ma i 40
seminaristi restano uniti. Vengono tutti uccisi, fratelli nella vita e
nella morte. Sono martiri dell’unità dei popoli, quell’unità che Gesù ci
richiede: «Come tu, Padre, sei in me ed io in te, che tutti siano una sola
cosa…».

Nella
regione dei Grandi Laghi operano anche le suore «poverelle» di Bergamo, e
vengono contagiate dall’Ebola nella repubblica democratica del Congo.
Molti hanno lasciato il paese, ma esse no; anzi, sono giunte nuove
missionarie. I giornalisti incontrano suor Dinarosa Merelli.

Sono tutte
morte in Congo. Ma sono seme di nuovi cristiani.


La croce del
vescovo

Con quale
veleno li ha contaminati quel «cattivissimo vescovo», se non con quello
dell’amore di Cristo Gesù?

Un giorno,
durante i lavori forzati, taglio legna. Chiedo a un carceriere divenuto
amico: «Lasciami tagliare un pezzo di legno a forma di croce».

Il custode
non può resistere e si allontana. Io ritaglio un pezzo di legno nero a
forma di croce e lo tengo nascosto nel sapone fino alla liberazione nel
1988.

Trasferito
in un’altra prigione, vicino ad Hanoi, chiedo al carceriere un pezzo di
filo elettrico.

Tre giorni
dopo, il carceriere mi dice: «Le porterò l’occorrente. Però dobbiamo fare
tutto tra le 7 e le 11; se qualcuno vede, ci denuncerà». E in quattro ore
mi aiuta a fabbricare la catenella della croce vescovile che porto sempre
con me, perché non è solo un ricordo, ma una chiamata ad amare.

Diverse
volte i poliziotti mi pongono una domanda cruciale.

Così sono
vissuto in prigione sino alla fine.


«Corpus
Domini» in Serbia

Nel 1999,
in occasione della festa del Corpus Domini del 6 giugno, il papa mi invia
improvvisamente, quale presidente del Consiglio pontificio «Giustizia e
pace», nell’ex Jugoslavia in guerra. Con me ci sono altri due vescovi:
dobbiamo arrivare, ciascuno con una destinazione diversa, per la festa
eucaristica. Ma abbiamo soltanto tre giorni per prepararci.

Il santo
padre ci dice: «Voglio che preghiate e facciate pregare la gente con me,
mentre io celebrerò il Corpus Domini nella basilica di san Giovanni in
Laterano. Dite a tutti che il papa prega per la pace».

Partiamo:
io vado in Serbia, monsignor Martin in Macedonia e monsignor Crepaldi in
Albania, per mostrare che il santo padre ama tutti i popoli. Arrivo a
Belgrado la vigilia della festa. La città è deserta, senza acqua e senza
luce. Sono rimasti solo sei ambasciatori, che si chiedono: «Perché
Milosevic non ha accettato la proposta della Nato e tutti gli ambasciatori
sono fuggiti?».

A
mezzogiorno sono in nunziatura e ricevo una telefonata dalla Santa Sede:
«Come avete fatto? Avete celebrato la messa?». «Sì, abbiamo anche
annunciato che la pace è vicinissima». E da Roma: «Il papa lo dirà subito
a Kofi Annan, segretario delle Nazioni Unite».

La
preghiera a Gesù nell’eucaristia porta la pace nel mondo, come Gesù ha
detto: «La mia carne è per la vita del mondo». Ed è la più grande
missione.


 Testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier Nguyên Vân Thuân
nella basilica di san Giovanni in Laterano, Roma 22 giugno 2000.
Adattamento della redazione.


 


Il cardinale François Xavier Vân Thuân


  
Trecento
frammenti di speranza

 È nato il 17 aprile
1928 a Huê, Viet Nam. Discende da una famiglia che conta numerosi martiri.
Nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio materno furono bruciati vivi in
chiesa, eccetto il nonno (che studiava in Malesia).

La mamma Elisabeth
ha educato cristianamente François Xavier fin da quando era in fasce.
Allorché il figlio fu imprigionato, continuò a pregare per lui affinché
restasse sempre fedele alla chiesa.

L’incarcerazione
avvenne nel 1975 ad opera del regime comunista. François Xavier era da
pochi mesi vescovo, oltre che sacerdote dal 1953. Sopporterà la prigione
per 13 anni. Da carcerato visse momenti drammatici, come il viaggio su una
nave con 1.500 detenuti affamati e disperati. Per non parlare dei nove
anni di isolamento.

In carcere non
poteva tenere la bibbia: allora raccolse tanti pezzetti di carta e vi
scrisse tutte le frasi del vangelo che ricordava: oltre 300. Divenne il
suo vademecum quotidiano.

Liberato nel 1988,
tre anni dopo fu espulso dal Viet Nam quale «persona non grata».

Dal 1998 è
presidente a Roma del Consiglio pontificio «Giustizia e pace». E, dal 21
febbraio scorso, cardinale.

Ha pubblicato vari
libri, tutti all’insegna della speranza:

Il cammino della
speranza, I pellegrini del cammino della speranza, Il cammino della
speranza alla luce della parola di Dio e del Concilio Vaticano II,
Preghiere di speranza, La speranza non delude…

 

 


Il carcere "Le
Nuove" di Torino
  e i missionari della Consolata (1931-44)

 I missionari della
Consolata prestano assistenza spirituale ai carcerati de Le Nuove di
Torino dal 16 gennaio 1931 al 16 novembre 1944. Sono 14 anni cruciali,
condizionati da regimi dittatoriali contrapposti e segnati dalla
catastrofe della seconda guerra mondiale.

Questo periodo
assegna a Le Nuove una rilevanza politica a livello locale, nazionale ed
internazionale, poiché il carcere è spesso usato come repressione e
persecuzione contro i dissidenti politici. Le Nuove di Torino è luogo di
transito per chi viene trasferito in altre prigioni del nord e
dell’estero; racchiude detenuti italiani e stranieri per motivi
delinquenziali e politici. Durante il fascismo, e soprattutto nel 1943-45,
la vita carceraria rispecchia, prima, l’inasprimento della pena e poi il
terribile clima della guerra.

Come confortare un
morente in carcere che, talvolta, si dichiara innocente? Ancora più
difficile è accompagnare alla forca un condannato a morte, come avviene a
Vittorio Longo il 7 agosto 1935. A partire da questa data, tanti sono i
condannati alla pena capitale assistiti dai missionari della Consolata:
complessivamente 72, di cui 2 prima della guerra e 70 dal 17 marzo 1943 al
5 novembre 1944.

L’azione dei
missionari della Consolata, cappellani aggiunti ed aiutanti ne Le Nuove,
contribuisce alla salvaguardia dei valori umani e spirituali, che fondano
la Costituzione. Il loro ministero è svolto sempre a favore dei più
afflitti dalla sofferenza. Il modo di porsi di fronte ai condannati è
ispirato al rispetto della dignità umana e del fratello in Cristo.

  Sulle
orme di san Cafasso

 La prima
caratteristica dell’essere missionario in prigione è la prudenza, nel
rispetto delle norme penitenziarie.

Scrive padre
Giovanni Piovano sull’assistenza di padre Vittorio Sandrone a favore dei
carcerati: «Operò un grandissimo bene fra continue difficoltà, date da
quel luogo di pena, ma più ancora dalle circostanze e dagli eventi del
tempo, uno dei più gravi della storia di Torino e dell’Italia. Padre
Sandrone, dal primo all’ultimo giorno in cui esercitò il non facile
incarico, non solo ne conobbe la responsabilità e ciò che da lui si
richiedeva, ma lo compì con grande fede e anche con cristiano entusiasmo».

Padre Sandrone
raccomanda la prudenza per poter esercitare il ministero verso tutti. Nel
1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Istituto impartisce
alcune disposizioni: «Nel parlare non si vada oltre al puro racconto dei
fatti… A nessuno è proibito di pensare gli avvenimenti secondo la
propria coscienza, però non deve esprimere con gli estranei la sua
opinione, ed anche con i confratelli si deve usare molta prudenza e
tolleranza, evitando ogni disputa accalorata. Il meglio sarebbe pensare,
come il beato Cafasso, al grande numero di anime che muoiono senza
sacramenti e procurare di ottenere loro da Dio una grazia particolare di
penitenza».

Non si può scordare
che il codice penale Rocco (1930) determina un aumento dei casi di reato
perseguibili e un allungamento della pena, fino a raddoppiarla rispetto a
quella del codice Zanardelli (1890). Inoltre il Regolamento penitenziario
del 1931 inasprisce la vita intramuraria con punizioni più severe e minori
controlli da parte della Commissione vigilatrice estea.

Padre Sandrone
assiste 40 detenuti che muoiono in carcere, lontani dagli affetti
familiari e dai luoghi domestici, in balia dell’università che utilizza i
loro corpi per esperimenti, come prevede il Regolamento.

Il 1° febbraio 1936
padre Sandrone lascia l’incarico di cappellano delle carceri. Gli succede
padre Pietro Dante, anch’egli coinvolto nell’assistenza dei condannati a
morte.

L’esperienza di san 
Giuseppe Cafasso si ripete tragicamente. I padri Vittorio Sandrone, Pietro
Dante, Giovanni Bortolas, Giuseppe Moncher, Carlo Masera, Gerardo Bottacin,
Giacomo Fissore, Adriano Severin, Giuseppe Rubatto, Enzo Sommadossi
accompagnano i 72 condannati alla fucilazione o impiccagione con una
partecipazione umana e religiosa indicibile. Ecco una testimonianza.

«Erano le 17 circa
del 22 luglio 1944. Mi aggiravo nelle celle dei detenuti, quando mi sentii
chiamare affannosamente dalla superiora delle suore, addette alla sezione
femminile delle carceri, suor Giuseppina De Muro. Corsi al luogo
indicatomi. Nel cortile esterno dello stabilimento trovavo già in partenza
due camion carichi di truppa con mitragliatrici. Tentai di salirvi. Mi
fermò un tenente della Leonessa, perché (i tedeschi che comandavano il
famigerato 1° braccio) non lo permettevano. Mi arrampicai sul camion in
moto. Mi trovai fra soldati e mitragliatrici; seduti e ammanettati vidi
sei individui in borghese. Non li conoscevo affatto, perché provenivano
dal reparto tedesco, dove era assolutamente vietato al cappellano
l’entrarvi. Neppure sapevo dove andava. Mi avvicinai al primo che stava
nella parte posteriore della macchina. Vestiva decentemente, era pallido
in viso, per tutto il tragitto come sul luogo di esecuzione non disse una
parola: era un capitano (Ignazio Vian)… Quattro condannati vengono fatti
scendere. Le manette ai polsi e la lunga catena che li unisce ostacolano
la discesa… sotto gli alberi vengono liberati dai ferri. Un camion
retrocedendo si ferma, in modo che la parte posteriore, con sponda
abbassata, si trovi sotto i capestri. Salgono i condannati, cui quattro
tedeschi legano le mani dietro la schiena. Un diciottenne invoca la mamma:
“Sono innocente, la mia mamma resterà sola, senza aiuto e senza appoggio”.
Non avverto segnali. La macchina parte improvvisamente, mentre i soldati
danno una spinta alle vittime, che si trovano sospese nel vuoto. Le
assistetti con la preghiera, rinnovando l’assoluzione finché non le vidi
immobili».

  Anche
un ragazzo di 20 anni

 n Disponibilità,
altra caratteristica dei missionari della Consolata. Alcuni sono obbligati
per motivi bellici a tornare in Italia e prestano servizio nei campi,
negli ospedali militari e in carcere. Ad esempio, padre Giacomo Fissore
opera a Torino da giugno 1940 ad agosto 1942 come cappellano militare
presso l’ospedale da campo n. 2, poi aiuta il cappellano delle carceri dal
1943 al 1950.

n L’ascolto del
carcerato è costante nei missionari della Consolata. Di padre Fissore il
professor Luigi Sacchetti scrive: «Mentre parlavo, mi stava a guardare in
silenzio con l’occhio di chi sa cogliere le voci più sepolte e le sa
ricomporre nei disegni di Dio».

Il detenuto non
chiede giudizi politici, né strategie di difesa giudiziaria, ma di essere
ascoltato per alleviare un po’ il suo cuore oppresso e per dare un senso
alla sua mente offuscata da dubbi corrosivi. L’assistenza spirituale a chi
soffre la prigione e ai condannati a morte permette di capire il mistero
dei progetti di Dio sull’uomo, anche in situazioni assurde ed ingiuste.

n La solidarietà
crea un sostegno reciproco fra i cappellani militari e quelli delle
carceri. In una lettera del 1942 spedita da padre Fissore, cappellano
militare del 2° ospedale da campo a Bussoleno, si raccomanda un medico a
padre Sandrone, cappellano de Le Nuove: «È stato tradotto alle carceri un
suo carissimo amico, il dottor Prando, sospettato di avere maneggiato
denaro nelle licenze dei soldati. È padre di due bambine. Credo che sono
30-40 i medici implicati in simili cose. Due sono veramente colpevoli.
Anche noi cappellani siamo tenuti d’occhio».

La solidarietà si
anima anche con il Da Casa Madre, che raccoglie e trasmette informazioni
sui missionari sparsi ovunque. È un organo di stampa importante nella
guerra: riduce preoccupazioni, angosce, incertezze, e conserva la
ragionevolezza nei rapporti sociali.

n Il tatto
caratterizza la comunicazione di notizie tristi alle famiglie dei
condannati a morte. Nella lettera di padre Ezio Sommadossi al genitore di
Carlo Pizzoo, fucilato il 22 settembre 1944, si legge: «Carissimo papà
desolato, non sono vostro figlio, ma sono fratello di vostro figlio…
Tutti i suoi baci che infiniti stampò sul mio volto per l’adorato papà ve
li trasmetto; pegno troppo prezioso per me, e non mi sento la forza di
custodirli con quella fede e purezza che unì le nostre anime fino al
momento che volò tra le braccia della sua mamma adorata (morta tempo
prima). Come vorrei dirvi, padre… Permettete al mio affetto di non
chiamarvi con altro nome: troppo ne sento il bisogno, perché diversamente
non saprei spiegare il dolore che squarciò il mio cuore… La sua
scomparsa segna una tappa nella mia vita. Attendo di vedervi per
riscaldare il vostro dolore coi baci che conservo come sacro pegno di
Carluccio».

Padre Sommadossi è
cappellano a Le Nuove da luglio al 16 novembre 1944; assiste 16 condannati
a morte; il primo è proprio Carlo Pizzoo, fucilato al Martinetto. Viene
sostituito da padre Ruggero Cipolla, francescano, per motivi di salute,
secondo una nota dell’Amministrazione penitenziaria (1945). In realtà il
missionario rischia di essere catturato dai tedeschi, sospettosi del suo
operato.

n Il rischio del
martirio contraddistingue l’azione del missionario della Consolata in
carcere. In una lettera della moglie del generale Perotti, Fiorenza
Perotti, si legge: «Padre Fissore aveva assistito mio marito e i suoi
compagni e, avendo accettato le lettere che mio marito aveva scritto per
consegnarle alla famiglia, aveva avuto minacce e botte da alcuni
componenti il plotone di esecuzione. Ho parlato pochi minuti con padre
Fissore, che era malconcio fisicamente e moralmente».

Il rischio di essere
fucilato è alto per padre Fissore, tenendo presente che le SS non si
fidano dei repubblichini, e a maggior ragione di altri italiani. Tale
esempio di coraggio e resistenza ai processi di disumanizzazione, se non
di annientamento messo in atto in prigione, merita particolare attenzione.

n La conversione è
un’altra esperienza forte del missionario fra i carcerati. Padre Carlo
Masera partecipa a 10 esecuzioni capitali dal 1943 al 1944 e racconta di
un giovane sui 20 anni. «Non aveva mai pregato, né era mai entrato in
chiesa. Mi sorse il dubbio che non fosse nemmeno cristiano. Infatti mi
confessò che non era battezzato». Ma in punto di morte il giovane riceve
il battesimo e la prima comunione.

 

Nel giorno della
sepoltura di padre Masera, il 27 gennaio 1970, padre Damiano Fea afferma:
«Questo periodo per i missionari della Consolata, che hanno assistito
tanti prigionieri, deportati e condannati a morte, è stato pesante, penoso
e delicato».

Ricordarli oggi è un
dovere della società e della chiesa.

Personalmente lo
faccio anche in omaggio del centenario dei missionari della Consolata.

Felice Tagliente,
psicologo

delle carceri «Le
Vallette/Le Nuove» – Torino

F. Xavier Nguyên Vân Thuân




Un flacone contro il mal di stomaco

Che fa un vescovo in prigione per 13 anni,
di cui nove in isolamento?
Risponde lo stesso carcerato, dal 1975 al 1988
vittima in Viet Nam delle galere del comunismo.
Oggi presiede a Roma il Consiglio pontificio
«Giustizia e pace».
Ed è pure cardinale.

In Viet Nam ho vissuto oltre 13 anni in prigione, di cui nove in isolamento, senza neppure una visita della famiglia, e con due poliziotti che non mi parlavano. Senza radio, giornali, telefono, televisione. Una cultura di morte.
Ho trascorso da giovane vescovo questi anni di disperazione e rivolta. Ma Gesù nell’eucaristia mi ha aiutato.
pacchetti di sigarette
Il primo giorno di carcere… sono a mani vuote. Il secondo, mi è permesso di scrivere per chiedere dei vestiti e un dentifricio. Chiedo pure delle medicine e del vino… La gente, fuori, ha il dono dello Spirito: capisce subito.
Non molto tempo dopo, il direttore della prigione mi chiama.
– Signor Vân Thuân, lei ha mal di stomaco?
– Sì, signore!
– Ha bisogno di medicine?
– Ogni mattina.
– Eccole un flacone per il suo male.
È una bottiglietta di vino.
Con mia grandissima gioia, grazie a quel vino, celebro le più belle messe della mia vita. Offro il sacrificio eucaristico sul palmo della mano, con tre gocce di vino e una di acqua. Ogni giorno posso rinnovare con il Signore la mia «nuova ed eterna alleanza» di sacerdote.
L’eucaristia è un sostegno per me e per gli altri prigionieri cattolici. Dormiamo tutti su uno stesso letto. La sera alle 21.30, nell’oscurità, mi curvo per celebrare la messa, il cui testo conosco a memoria. Poi faccio passare sotto la zanzariera la comunione ai cinque cattolici vicini a me. La presenza di Gesù eucaristia ci conforta molto. L’indomani raccogliamo carta di pacchetti di sigarette, con la quale fabbrichiamo dei sacchettini per contenere il Santissimo.
Ogni settimana, al venerdì, si tiene la sessione di indottrinamento marxista. Tutti i prigionieri vi partecipano. Al momento della sosta, consegniamo ad ogni gruppo di 50 persone un sacchettino… con Gesù dentro. Ciascuno «intasca il Signore» e, nella prova, nella tristezza, nella tribolazione, lo sente con sé: lo prega di notte, fa l’«ora santa». E, grazie all’adorazione e alla comunione, i cristiani che hanno abbandonato la fede ritornano praticanti.
Non potrò mai dimenticare come ci abbia sostenuto il canto liturgico, lasciatoci da san Tommaso per la celebrazione della festa del Corpus Domini, dove viene affermata tutta la teologia in parole semplici. E avvertirò sempre il senso mariano dell’eucaristia. Quando la celebriamo, siamo veramente figli di Maria: Ave verum corpus natum de Maria virgine…
Con l’eucaristia, i laici in carcere diventano coraggiosi nell’impegno e sereni nella tristezza: servono tutti con carità, e la loro testimonianza affascina i non cattolici (talvolta fanatici), che poi chiedono di conoscere Gesù e la nostra religione; diventano catechisti; poi battezzano gli altri compagni prigionieri facendo loro da padrini.
Con l’eucaristia la prigione cambia: diventa una scuola di fede, una catechesi.
«Sei hutu o tutzi?»
In ogni angolo del mondo l’eucaristia infonde forza e fa santi di ogni tribù, lingua e nazione. La storia della chiesa è piena di martiri, che hanno vinto persino la morte grazie all’eucaristia.
Ricordo i trappisti francesi in Algeria, monaci e missionari. I superiori hanno chiesto loro di lasciare il paese, data la seria minaccia per la loro vita; ma tutti decidono di restare e sono morti per la fede.
In Africa non mancano le guerre etniche. Ma tanti nostri fratelli africani soffrono con coraggio… Un sacerdote in Rwanda, all’arrivo dei soldati, indossa i paramenti sacri. Gli domandano: «Sei hutu o tutzi?». E lui: «Sono un prete…». Per la seconda e terza volta gli rivolgono la stessa domanda. La risposta è sempre: «Sono un prete». Lo ammazzano. Muore da sacerdote. E il sacerdote non ha frontiere: è per la chiesa universale. È testimone della fede, grazie a quel Gesù che celebra ogni giorno nell’eucaristia.
In Burundi alcuni guerriglieri hutu fanno irruzione in un seminario per arrestare 40 studenti, chiedendo loro di dividersi: gli hutu da una parte e i tutzi dall’altra. «Se siete hutu vivrete, se tutzi morirete!». Ma i 40 seminaristi restano uniti. Vengono tutti uccisi, fratelli nella vita e nella morte. Sono martiri dell’unità dei popoli, quell’unità che Gesù ci richiede: «Come tu, Padre, sei in me ed io in te, che tutti siano una sola cosa…».
Nella regione dei Grandi Laghi operano anche le suore «poverelle» di Bergamo, e vengono contagiate dall’Ebola nella repubblica democratica del Congo. Molti hanno lasciato il paese, ma esse no; anzi, sono giunte nuove missionarie. I giornalisti incontrano suor Dinarosa Merelli.
– Perché resta qui? Deve andarsene. Il morbo è molto contagioso!
– Rimango per servire la gente, anche a prezzo della mia vita.
Sono tutte morte in Congo. Ma sono seme di nuovi cristiani.
La croce del vescovo
In carcere in Viet Nam i poliziotti non mi parlano, perché sono in isolamento. Ma un giorno mi rivelano ciò che è stato detto loro dal capo: «Dal momento che andrete a controllare un vescovo cattolico assai pericoloso, vi sostituirò ogni due settimane con un altro gruppo, altrimenti egli vi contaminerà». Dopo qualche tempo, il capo convoca tutti i miei carcerieri: «Ormai non vi cambio più, altrimenti questo cattivissimo vescovo contaminerà tutta la polizia».
Con quale veleno li ha contaminati quel «cattivissimo vescovo», se non con quello dell’amore di Cristo Gesù?
Un giorno, durante i lavori forzati, taglio legna. Chiedo a un carceriere divenuto amico: «Lasciami tagliare un pezzo di legno a forma di croce».
– È molto pericoloso, è vietato! Lei ora è mio amico e io finirò in prigione come lei.
– No, chiudi gli occhi e lasciami fare.
Il custode non può resistere e si allontana. Io ritaglio un pezzo di legno nero a forma di croce e lo tengo nascosto nel sapone fino alla liberazione nel 1988.
Trasferito in un’altra prigione, vicino ad Hanoi, chiedo al carceriere un pezzo di filo elettrico.
– Signor Vân Thuân, lei vuole suicidarsi!
– Ma no!
– Cosa vuole fare con il filo elettrico?
– Voglio fare una catenella per appendere la mia croce. Se mi presti due piccole tenaglie, te lo mostrerò.
Tre giorni dopo, il carceriere mi dice: «Le porterò l’occorrente. Però dobbiamo fare tutto tra le 7 e le 11; se qualcuno vede, ci denuncerà». E in quattro ore mi aiuta a fabbricare la catenella della croce vescovile che porto sempre con me, perché non è solo un ricordo, ma una chiamata ad amare.
Diverse volte i poliziotti mi pongono una domanda cruciale.
– Lei ci ama?
– Sì, certo, che vi amo.
– Impossibile! Noi la teniamo qui da più di dieci anni, senza giudizio, senza sentenza, e lei ci ama!
– Io continuo ad amarvi e voi vedete come siamo amici. È incomprensibile, ma bello.
– Perché ci ama?
– Perché me l’ha insegnato Gesù e io, se non vi amassi, non sarei più degno di portare il nome cristiano di Francesco Saverio.
Così sono vissuto in prigione sino alla fine.
«Corpus Domini» in Serbia
Ancora un aneddoto, che non ho mai raccontato.
Nel 1999, in occasione della festa del Corpus Domini del 6 giugno, il papa mi invia improvvisamente, quale presidente del Consiglio pontificio «Giustizia e pace», nell’ex Jugoslavia in guerra. Con me ci sono altri due vescovi: dobbiamo arrivare, ciascuno con una destinazione diversa, per la festa eucaristica. Ma abbiamo soltanto tre giorni per prepararci.
Il santo padre ci dice: «Voglio che preghiate e facciate pregare la gente con me, mentre io celebrerò il Corpus Domini nella basilica di san Giovanni in Laterano. Dite a tutti che il papa prega per la pace».
Partiamo: io vado in Serbia, monsignor Martin in Macedonia e monsignor Crepaldi in Albania, per mostrare che il santo padre ama tutti i popoli. Arrivo a Belgrado la vigilia della festa. La città è deserta, senza acqua e senza luce. Sono rimasti solo sei ambasciatori, che si chiedono: «Perché Milosevic non ha accettato la proposta della Nato e tutti gli ambasciatori sono fuggiti?».
L’indomani celebro l’eucaristia in cattedrale con il popolo. Quando leggo il telegramma del pontefice, tutti piangono, perché i cattolici sono una minoranza tra ortodossi e musulmani: sentono che il papa è con loro e prega per la pace nella regione. Dopo la messa, i sei ambasciatori vengono a congedarsi in sagrestia. E, nello stesso istante, i loro segretari arrivano di corsa con una notizia: la Serbia sta per accettare il piano di pace della Nato e tutti gli ambasciatori stanno per ritornare. Ndr: dopo 78 giorni di guerra, il 9 giugno 1999 il presidente Milosevic e il parlamento serbo accettarono i 12 punti del piano di pace proposto dalla Nato e Russia.
A mezzogiorno sono in nunziatura e ricevo una telefonata dalla Santa Sede: «Come avete fatto? Avete celebrato la messa?». «Sì, abbiamo anche annunciato che la pace è vicinissima». E da Roma: «Il papa lo dirà subito a Kofi Annan, segretario delle Nazioni Unite».
La preghiera a Gesù nell’eucaristia porta la pace nel mondo, come Gesù ha detto: «La mia carne è per la vita del mondo». Ed è la più grande missione.

Testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier Nguyên Vân Thuân nella basilica di san Giovanni in Laterano, Roma 22 giugno 2000. Adattamento della redazione.

Trecento frammenti di speranza

È nato il 17 aprile 1928 a Huê, Viet Nam. Discende da una famiglia che conta numerosi martiri. Nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio materno furono bruciati vivi in chiesa, eccetto il nonno (che studiava in Malesia).
La mamma Elisabeth ha educato cristianamente François Xavier fin da quando era in fasce. Allorché il figlio fu imprigionato, continuò a pregare per lui affinché restasse sempre fedele alla chiesa.
L’incarcerazione avvenne nel 1975 ad opera del regime comunista. François Xavier era da pochi mesi vescovo, oltre che sacerdote dal 1953. Sopporterà la prigione per 13 anni. Da carcerato visse momenti drammatici, come il viaggio su una nave con 1.500 detenuti affamati e disperati. Per non parlare dei nove anni di isolamento.
In carcere non poteva tenere la bibbia: allora raccolse tanti pezzetti di carta e vi scrisse tutte le frasi del vangelo che ricordava: oltre 300. Divenne il suo vademecum quotidiano.
Liberato nel 1988, tre anni dopo fu espulso dal Viet Nam quale «persona non grata».
Dal 1998 è presidente a Roma del Consiglio pontificio «Giustizia e pace». E, dal 21 febbraio scorso, cardinale.
Ha pubblicato vari libri, tutti all’insegna della speranza:
Il cammino della speranza, I pellegrini del cammino della speranza, Il cammino della speranza alla luce della parola di Dio e del Concilio Vaticano II, Preghiere di speranza, La speranza non delude…

Con 72 condannati alla forca

I missionari della Consolata prestano assistenza spirituale ai carcerati de Le Nuove di Torino dal 16 gennaio 1931 al 16 novembre 1944. Sono 14 anni cruciali, condizionati da regimi dittatoriali contrapposti e segnati dalla catastrofe della seconda guerra mondiale.
Questo periodo assegna a Le Nuove una rilevanza politica a livello locale, nazionale ed internazionale, poiché il carcere è spesso usato come repressione e persecuzione contro i dissidenti politici. Le Nuove di Torino è luogo di transito per chi viene trasferito in altre prigioni del nord e dell’estero; racchiude detenuti italiani e stranieri per motivi delinquenziali e politici. Durante il fascismo, e soprattutto nel 1943-45, la vita carceraria rispecchia, prima, l’inasprimento della pena e poi il terribile clima della guerra.
Come confortare un morente in carcere che, talvolta, si dichiara innocente? Ancora più difficile è accompagnare alla forca un condannato a morte, come avviene a Vittorio Longo il 7 agosto 1935. A partire da questa data, tanti sono i condannati alla pena capitale assistiti dai missionari della Consolata: complessivamente 72, di cui 2 prima della guerra e 70 dal 17 marzo 1943 al 5 novembre 1944.
L’azione dei missionari della Consolata, cappellani aggiunti ed aiutanti ne Le Nuove, contribuisce alla salvaguardia dei valori umani e spirituali, che fondano la Costituzione. Il loro ministero è svolto sempre a favore dei più afflitti dalla sofferenza. Il modo di porsi di fronte ai condannati è ispirato al rispetto della dignità umana e del fratello in Cristo.

Sulle orme di san Cafasso

L a prima caratteristica dell’essere missionario in prigione è la prudenza, nel rispetto delle norme penitenziarie.
Scrive padre Giovanni Piovano sull’assistenza di padre Vittorio Sandrone a favore dei carcerati: «Operò un grandissimo bene fra continue difficoltà, date da quel luogo di pena, ma più ancora dalle circostanze e dagli eventi del tempo, uno dei più gravi della storia di Torino e dell’Italia. Padre Sandrone, dal primo all’ultimo giorno in cui esercitò il non facile incarico, non solo ne conobbe la responsabilità e ciò che da lui si richiedeva, ma lo compì con grande fede e anche con cristiano entusiasmo».
Padre Sandrone raccomanda la prudenza per poter esercitare il ministero verso tutti. Nel 1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Istituto impartisce alcune disposizioni: «Nel parlare non si vada oltre al puro racconto dei fatti… A nessuno è proibito di pensare gli avvenimenti secondo la propria coscienza, però non deve esprimere con gli estranei la sua opinione, ed anche con i confratelli si deve usare molta prudenza e tolleranza, evitando ogni disputa accalorata. Il meglio sarebbe pensare, come il beato Cafasso, al grande numero di anime che muoiono senza sacramenti e procurare di ottenere loro da Dio una grazia particolare di penitenza».
Non si può scordare che il codice penale Rocco (1930) determina un aumento dei casi di reato perseguibili e un allungamento della pena, fino a raddoppiarla rispetto a quella del codice Zanardelli (1890). Inoltre il Regolamento penitenziario del 1931 inasprisce la vita intramuraria con punizioni più severe e minori controlli da parte della Commissione vigilatrice estea.
Padre Sandrone assiste 40 detenuti che muoiono in carcere, lontani dagli affetti familiari e dai luoghi domestici, in balia dell’università che utilizza i loro corpi per esperimenti, come prevede il Regolamento.
Il 1° febbraio 1936 padre Sandrone lascia l’incarico di cappellano delle carceri. Gli succede padre Pietro Dante, anch’egli coinvolto nell’assistenza dei condannati a morte.
L’esperienza di san Giuseppe Cafasso si ripete tragicamente. I padri Vittorio Sandrone, Pietro Dante, Giovanni Bortolas, Giuseppe Moncher, Carlo Masera, Gerardo Bottacin, Giacomo Fissore, Adriano Severin, Giuseppe Rubatto, Enzo Sommadossi accompagnano i 72 condannati alla fucilazione o impiccagione con una partecipazione umana e religiosa indicibile. Ecco una testimonianza.
«Erano le 17 circa del 22 luglio 1944. Mi aggiravo nelle celle dei detenuti, quando mi sentii chiamare affannosamente dalla superiora delle suore, addette alla sezione femminile delle carceri, suor Giuseppina De Muro. Corsi al luogo indicatomi. Nel cortile esterno dello stabilimento trovavo già in partenza due camion carichi di truppa con mitragliatrici. Tentai di salirvi. Mi fermò un tenente della Leonessa, perché (i tedeschi che comandavano il famigerato 1° braccio) non lo permettevano. Mi arrampicai sul camion in moto. Mi trovai fra soldati e mitragliatrici; seduti e ammanettati vidi sei individui in borghese. Non li conoscevo affatto, perché provenivano dal reparto tedesco, dove era assolutamente vietato al cappellano l’entrarvi. Neppure sapevo dove andava. Mi avvicinai al primo che stava nella parte posteriore della macchina. Vestiva decentemente, era pallido in viso, per tutto il tragitto come sul luogo di esecuzione non disse una parola: era un capitano (Ignazio Vian)… Quattro condannati vengono fatti scendere. Le manette ai polsi e la lunga catena che li unisce ostacolano la discesa… sotto gli alberi vengono liberati dai ferri. Un camion retrocedendo si ferma, in modo che la parte posteriore, con sponda abbassata, si trovi sotto i capestri. Salgono i condannati, cui quattro tedeschi legano le mani dietro la schiena. Un diciottenne invoca la mamma: “Sono innocente, la mia mamma resterà sola, senza aiuto e senza appoggio”. Non avverto segnali. La macchina parte improvvisamente, mentre i soldati danno una spinta alle vittime, che si trovano sospese nel vuoto. Le assistetti con la preghiera, rinnovando l’assoluzione finché non le vidi immobili».

Anche un ragazzo di 20 anni

Disponibilità, altra caratteristica dei missionari della Consolata. Alcuni sono obbligati per motivi bellici a tornare in Italia e prestano servizio nei campi, negli ospedali militari e in carcere. Ad esempio, padre Giacomo Fissore opera a Torino da giugno 1940 ad agosto 1942 come cappellano militare presso l’ospedale da campo n. 2, poi aiuta il cappellano delle carceri dal 1943 al 1950.
n L’ascolto del carcerato è costante nei missionari della Consolata. Di padre Fissore il professor Luigi Sacchetti scrive: «Mentre parlavo, mi stava a guardare in silenzio con l’occhio di chi sa cogliere le voci più sepolte e le sa ricomporre nei disegni di Dio».
Il detenuto non chiede giudizi politici, né strategie di difesa giudiziaria, ma di essere ascoltato per alleviare un po’ il suo cuore oppresso e per dare un senso alla sua mente offuscata da dubbi corrosivi. L’assistenza spirituale a chi soffre la prigione e ai condannati a morte permette di capire il mistero dei progetti di Dio sull’uomo, anche in situazioni assurde ed ingiuste.
n La solidarietà crea un sostegno reciproco fra i cappellani militari e quelli delle carceri. In una lettera del 1942 spedita da padre Fissore, cappellano militare del 2° ospedale da campo a Bussoleno, si raccomanda un medico a padre Sandrone, cappellano de Le Nuove: «È stato tradotto alle carceri un suo carissimo amico, il dottor Prando, sospettato di avere maneggiato denaro nelle licenze dei soldati. È padre di due bambine. Credo che sono 30-40 i medici implicati in simili cose. Due sono veramente colpevoli. Anche noi cappellani siamo tenuti d’occhio».
La solidarietà si anima anche con il Da Casa Madre, che raccoglie e trasmette informazioni sui missionari sparsi ovunque. È un organo di stampa importante nella guerra: riduce preoccupazioni, angosce, incertezze, e conserva la ragionevolezza nei rapporti sociali.
Il tatto caratterizza la comunicazione di notizie tristi alle famiglie dei condannati a morte. Nella lettera di padre Ezio Sommadossi al genitore di Carlo Pizzoo, fucilato il 22 settembre 1944, si legge: «Carissimo papà desolato, non sono vostro figlio, ma sono fratello di vostro figlio… Tutti i suoi baci che infiniti stampò sul mio volto per l’adorato papà ve li trasmetto; pegno troppo prezioso per me, e non mi sento la forza di custodirli con quella fede e purezza che unì le nostre anime fino al momento che volò tra le braccia della sua mamma adorata (morta tempo prima). Come vorrei dirvi, padre… Permettete al mio affetto di non chiamarvi con altro nome: troppo ne sento il bisogno, perché diversamente non saprei spiegare il dolore che squarciò il mio cuore… La sua scomparsa segna una tappa nella mia vita. Attendo di vedervi per riscaldare il vostro dolore coi baci che conservo come sacro pegno di Carluccio».
Padre Sommadossi è cappellano a Le Nuove da luglio al 16 novembre 1944; assiste 16 condannati a morte; il primo è proprio Carlo Pizzoo, fucilato al Martinetto. Viene sostituito da padre Ruggero Cipolla, francescano, per motivi di salute, secondo una nota dell’Amministrazione penitenziaria (1945). In realtà il missionario rischia di essere catturato dai tedeschi, sospettosi del suo operato.
Il rischio del martirio contraddistingue l’azione del missionario della Consolata in carcere. In una lettera della moglie del generale Perotti, Fiorenza Perotti, si legge: «Padre Fissore aveva assistito mio marito e i suoi compagni e, avendo accettato le lettere che mio marito aveva scritto per consegnarle alla famiglia, aveva avuto minacce e botte da alcuni componenti il plotone di esecuzione. Ho parlato pochi minuti con padre Fissore, che era malconcio fisicamente e moralmente».
Il rischio di essere fucilato è alto per padre Fissore, tenendo presente che le SS non si fidano dei repubblichini, e a maggior ragione di altri italiani. Tale esempio di coraggio e resistenza ai processi di disumanizzazione, se non di annientamento messo in atto in prigione, merita particolare attenzione.
n La conversione è un’altra esperienza forte del missionario fra i carcerati. Padre Carlo Masera partecipa a 10 esecuzioni capitali dal 1943 al 1944 e racconta di un giovane sui 20 anni. «Non aveva mai pregato, né era mai entrato in chiesa. Mi sorse il dubbio che non fosse nemmeno cristiano. Infatti mi confessò che non era battezzato». Ma in punto di morte il giovane riceve il battesimo e la prima comunione.

Nel giorno della sepoltura di padre Masera, il 27 gennaio 1970, padre Damiano Fea afferma: «Questo periodo per i missionari della Consolata, che hanno assistito tanti prigionieri, deportati e condannati a morte, è stato pesante, penoso e delicato».
Ricordarli oggi è un dovere della società e della chiesa.
Personalmente lo faccio anche in omaggio del centenario dei missionari della Consolata.
Felice Tagliente, psicologo
delle carceri «Le Vallette/Le Nuove» – Torino

F. Xavier e Van Thuan




Perché non sono americano

Superiore generale dei missionari della Consolata per 12 anni
e oggi superiore di quelli in Tanzania,
padre Giuseppe Inverardi, bresciano,
ci permette di approfondire la situazione di questo paese,
in relazione anche ad altre nazioni dell’Africa…
Il socialismo di Nyerere: successi e fallimenti.
L’importanza del kiswahili. Il dramma dell’Aids e dei ragazzi di strada.
L’azione della chiesa.

Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di auto nomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito del la rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.

Julius Nierere – Il “Gandhi” dell’Africa nera

IL «GANDHI» DELL’AFRICA NERA

L o chiamavano «mwalimu», maestro. Laureato in pedagogia in Inghilterra, si era dedicato all’insegnamento: maestro nella primaria e maestro di vita poi per tutta l’Africa, che voleva liberata senza spargimento di sangue.
Determinanti sono state le sue mediazioni per portare la pace in Sudafrica, Mozambico… Ha liberato il Tanzania con una precisa tattica: esercitando ogni sorta di pressione non violenta sugli inglesi e alle Nazioni Unite, per ottenere autogoverno e indipendenza. Lui, il «Gandhi» dell’Africa nera.
Ha fondato il partito Tanu (Tanganyika African National Union) con il programma Uhuru na umoja (libertà e unità). Ha creato vincoli di amicizia tra le 120 tribù del paese, facendo appello all’unità nazionale, più forte dei vincoli etnici; ha favorito la lingua kiswahili come fattore di coesione nazionale; ha saputo trarre vantaggio dalle tensioni delle «tribù» europee (inglesi, tedeschi e greci), per farsi ascoltare dagli inglesi che accettarono di ritirarsi dal Tanzania senza rappresaglie né sabotaggi. Diventato presidente, non cambiò stile di vita: viveva i principi che insegnava, basati su una particolare forma di socialismo, mirante a raggruppare la gente in villaggi per vivere una vita sociale in forma di cornoperativa, dove tutti potessero interessarsi e partecipare al bene comune, con l’aiuto dello stato nelle grandi opere: strade, acquedotti, ospedali.
Viveva modestamente. Lo posso testimoniare in seguito ad un significativo incontro avuto con lui. Avevo intervistato padre Walsh, dei Padri Bianchi, cappellano degli universitari e direttore spirituale di Nyerere. Grazie a questo missionario, potei incontrare il presidente nella sua casa, semplice e dignitosamente povera. Finito il colloquio, egli stesso ci accompagnò all’università di Dar es Salaam, guidando la sua modesta automobile. Edificante il colloquio sul rapporto tra fede e politica.
Fede in Gesù Cristo: appena poteva, partecipava all’eucaristia inginocchiato tra i ragazzi. Fu anche visto in fila, davanti al confessionale.
Fede nell’uomo, nella sua sostanziale bontà: da qui la scelta di spingere i tanzaniani a vivere con un ideale fin troppo elevato per le deboli forze di queste popolazioni, da sempre chiuse entro i limitati confini delle necessità quotidiane.
Q ualcuno lo chiamava «il maestro rosso», specie per i suoi precisi interventi contro la corruzione di coloro che il popolo aveva argutamente ascritto alla «tribù» dei «Wabenzi», cioè di quanti potevano permettersi il lusso di girare su costosissime Mercedes Benz! Aveva promulgato «il codice dei dirigenti», per impedire ai ricchi di percepire due stipendi.
La gente aveva un’estrema fiducia in lui; per cui lo seguì sulla strada di una riforma che intendeva dare al paese un indirizzo socialista, tipicamente africano, non marxista, alieno dalla lotta di classe, basato sul tradizionale collettivismo rurale e legato alla cultura del passato. «Giustizia, uguaglianza, dignità»: erano i cardini del socialismo e dell’autogestione, proclamati nella famosa dichiarazione di Arusha (1967).
Il suo socialismo si chiamava «ujamaa», termine kiswahili che significa «stato di famiglia». Nyerere sognava che l’intero Tanzania diventasse una famiglia. Cominciò la campagna di nazionalizzazione. Nello stesso tempo nacquero le cornoperative di produzione e consumo autogestite ed autornamministrate. Bellissimo l’ideale. Deboli gli uomini chiamati a metterlo in pratica.
S i parlò di disastro, di completo fallimento. I forti e contrastanti interessi economici, i boicottaggi, le invidie, l’estrema povertà del paese, la mancanza di preparazione e di incentivi personali; poi anche l’aumento del prezzo del petrolio, la guerra contro l’Uganda di Amin…
I malcontenti portarono ad un tentativo di colpo di stato. Quando Nyerere incontrò colui che progettava di destituirlo, gli mise un fucile in mano e lo invitò a sparargli: era disposto a morire se ciò fosse servito ad evitare un bagno di sangue per la sua gente.
Quando, nel 1984, si accorse che c’erano tensioni e rischi di aggravamento delle proteste separatiste, spontaneamente lasciò la presidenza al musulmano Mwinyi. Egli, convinto cattolico, parlò in favore del suo successore, per cementare tutto il paese e facilitare così la transizione del potere.
Si ritirò nel suo villaggio a coltivare la terra e a fare il catechista, lasciando tali occupazioni solo quando percepiva di poter essere ancora utile come mediatore di pace presso popolazioni travagliate dalla guerra.
Valentino Salvoldi

aa.vv




Io sono perchè, noi siamo

L’ Africa non cessa di sorprendere. Nonostante i crescenti problemi, fa di tutto per sopravvivere, anzi per danzare la vita.
Lo scorso anno, in Etiopia, per un corso di aggioamento ai religiosi e al clero, presi lo spunto da un disegno di un artista africano intitolato: «Il Cristo che ride».
Oggi in Tanzania, per sviluppare il tema della salvezza, mi avvalgo come ispirazione del presepio allestito dai missionari della Consolata nella loro casa-procura di Dar es Salaam. Si tratta di una scultura, che si dispiega in uno stupendo groviglio di corpi scolpiti nell’ebano («maconde»), plasticamente culminante in una culla: vi riposa il bambino Gesù, che si massaggia un piede con il particolare atteggiamento che prelude… al sonno. «Dormire è bello – commenta un giovane africano -, dormire e sognare».
Interessante anche l’osservazione di un missionario della Consolata su quel divino infante: «Si sta togliendo una pulce penetrante. Povero Cristo! Ha sperimentato di tutto sulla terra».
I vangeli canonici non ci parlano di pulci penetranti; forse gli apocrifi… San Paolo afferma che, attraverso la sofferenza, il figlio di Dio ha capito che cosa significa essere figlio dell’uomo. E a tutti ha offerto la salvezza.
Anche alla pulce penetrante? Se questa non viene tolta subito, porta a complicanze irreparabili. Presa in tempo, è facilmente eliminabile, come fosse uno scherzo, un gioco da bambini.

«I l sorriso» e «il massaggio del piede»: due immagini che ci parlano dell’arte di ridimensionare ogni cosa, mantenendo un sostanziale ottimismo. Questo atteggiamento, tipico di molti africani, è riscontrabile anche in Tanzania, paese dai mille problemi, sapientemente affrontati con calma uno dopo l’altro, oppure rimandati in attesa di tempi migliori… quando a Dio piacerà.
L’arte di ridimensionare tutto non va confusa con la superficialità né, tanto meno, con il cinismo. Quando il peso della sofferenza è eccessivo e il lavoro per salvare il salvabile cozza contro una serie di fallimenti, è facile scoraggiarsi e sembrare indifferenti al dolore.
Se nell’ospedale di Ikonda, nel sud del Tanzania, durante il fine-settimana muoiono otto pazienti, in prevalenza giovani e tutti a causa dell’Aids, diventa indispensabile radunare gli infermieri e cercare insieme le ragioni per motivare ancora l’impegno al servizio della vita: anziché contare i decessi, si ricordano perciò i successi ottenuti. In ospedale la gente (non abituata agli antibiotici), con poche pastiglie ritrova condizioni di vita accettabili, mentre se fosse rimasta al villaggio, priva di medicinali o con le sole cure del «dottore tradizionale» (stregone), sarebbe morta in tempi brevissimi.
Ridimensionare, in questo caso, significa trasferire tutto in una nuova dimensione: non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e dal senso d’impotenza, ma sentirsi orgogliosi delle vite salvate o che si è tentato di salvare.
L’arte del ridimensionare è teorizzata dall’arcivescovo di Dar es Salaam, Polycarp Pengo, ed è vissuta da lui con la spontaneità di un bambino. Dice: «Bisogna ridimensionare ogni cosa, sforzandosi di vedere prevalentemente le cose belle».
Il bambino attualizza il ridimensionamento e lo mette in pratica attraverso un rito che non ho mai visto in altre parti dell’Africa. Dai tre ai sette anni, i piccoli salutano i grandi ponendo la manina sulla testa degli adulti e ripetendo più volte: «Sono ai tuoi piedi». Per lasciarsi toccare la testa, il grande deve abbassarsi al livello del piccolo e, così facendo, si ridimensiona. Forse chi è coinvolto in questo gesto non ne apprezza a sufficienza la portata. Ma, visto dall’esterno, è molto significativo.
I bambini della scuola matea l’hanno ripetuto più volte anche con me e mia nipote Maria Rosa Lorini, coautrice di questo dossier. C’è da augurarsi che non vada perduto con il passare del tempo e il sovrapporsi delle culture.

C’ è pure da sperare che i tanzaniani mantengano inalterati i valori, ribaditi con forza da Julius Nyerere, il «maestro» per antonomasia del Tanzania.
Visitiamo questo paese ad un anno circa dalla sua morte, anche con l’intento di capire quale ricordo abbia conservato la gente di quest’uomo amante della giustizia, cattolico, convinto del valore della fede, vista pure come mezzo per motivare ulteriormente l’impegno politico.
Anche Nyerere è stato un esperto nel coinvolgere i suoi concittadini nell’arte di ridimensionare tutto: per lui si basava sulla familiarità con il pensiero di Dio, la nascita e la morte. Dava per scontata la vita eterna; considerava quella terrena il bene più grande, affidatoci dal Creatore, e aiutava il suo popolo a vedere ogni realtà nella giusta prospettiva.
E, mentre non usava mezzi termini nel denunziare lo sfruttamento dell’occidente nei confronti dell’Africa, invitava i popoli del continente a convivere in pace, senza sognare l’impossibile, ma vivendo una povertà dignitosa, cercando di essere liberi, autosufficienti e capaci di governarsi gestendo con intelligenza le risorse a loro disposizione.

P iù che riportare le mie impressioni o analisi, nel presente dossier preferisco, con Maria Rosa, cedere la parola ai missionari che stanno spendendo la vita al servizio dello sviluppo integrale del Tanzania.
Abbiamo incontrato parecchi preti e suore anche avanzati in età. Ma nessuno di loro sembra preoccuparsene, e continuano a rimanere sulla breccia: annunciano il vangelo, insegnano, guidano la jeep, fanno operazioni chirurgiche, programmano costruzioni di case e ponti come se non dovessero mai morire.
Vivendo in missione, hanno imparato a ridimensionare anche la morte.
Valentino Salvoldi
Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di autonomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito della rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.
«Batti il tamburo,
non i bambini!»

Q uesto è lo slogan che padre Franco Sordella e i bambini della Faraja House hanno scelto per l’inaugurazione della loro nuova scuola elementare nel settembre scorso. La Faraja House (casa della consolazione) è un centro nella città di Iringa per ragazzi difficili: in maggioranza provenienti dalla strada e parecchi orfani. Ognuno con il suo bagaglio di abbandono, violenza, miseria.
Il progetto (uno dei tanti realizzati dai missionari della Consolata) è iniziato dal nulla tre anni fa. Oggi consta di due settori: il primo, «ragazzi di strada» per la riabilitazione; il secondo, per l’avviamento professionale anche di minori che non vivono nella Faraja House. Il tutto è quasi un villaggio: comprende dormitori, refettori, cucine, laboratori, dispensario e la scuola tecnica, che annovera 60 ragazzi. Con gli altrettanti bambini della Faraja House, si raggiunge un totale di 120.
Ma ci sono anche i frequentatori della domenica: ragazzini che sopravvivono lavorando al mercato e vivendo in «tane» (ad esempio, presso i mucchi di crusca dietro i mulini). Ad essi, «il dì di festa», viene offerto un buon pasto e la possibilità di lavarsi e di non restare analfabeti.
Oggigiorno anche le scuole governative sono a pagamento: perciò pochi sono i bambini che hanno la possibilità di frequentarle. Nel paese scarseggiano strutture e maestri: così non bisogna stupirsi se, entrando in una classe, si trovano anche 100 allievi, che devono solo rimanere seduti e buoni, presente o meno l’insegnante, se non vogliono essere castigati.
Accanto al «problema scolastico», sta aumentando anche il numero di bambini che, come Issa, rimangono orfani a causa dell’Aids. Issa (Gesù) è stato accolto nella Faraja House a natale.
Visto che Gesù bambino fu rifiutato, perché – si sono detti i missionari – non cercare in città il ragazzo più abbandonato e solo? Uno di quelli che dormono nascosti per paura di essere picchiati o abusati dai più grandi… e dargli una famiglia? È saltato fuori Issa, che ha trovato finalmente casa, ma anche chiesa, scuola e lavoro.
Già, lavoro. Non bisogna stupirsi se, nella Faraja House, la prima cosa che si compra all’inizio della scuola non sono i libri, ma la zappa. L’importante è che il lavoro non diventi l’unico riferimento a scapito dell’istruzione e, soprattutto, che gli insegnanti non costringano i ragazzi a lavorare nei loro campi tutto il giorno sotto la minaccia del bastone.

M entre la Faraja House ospita bambini di strada, per i ragazzi che cercano un lavoro (in particolare le ragazze) è stato creato il Centro «Stella del mattino», anch’esso nel territorio di Iringa. Costruito e gestito dai missionari della Consolata, «Stella del mattino» ospita 60 adolescenti provenienti da villaggi dove non esistono le strutture necessarie per l’istruzione.
Il sistema educativo del Centro è «studio e lavoro»: lo stesso che vige nelle scuole statali fin dai tempi dell’ujamaa. La filosofia pedagogica di base enfatizza «l’importanza di trasmettere ai ragazzi le conoscenze che possano situarli in una buona posizione sociale e renderli cittadini capaci di autoguidarsi e portare il loro popolo fuori dalla povertà e dall’ignoranza» (J.T.K. Ulimwengu, capo editore Rai/Mtanzania).
Nel Centro si punta all’autosostentamento: sia per non dover dipendere da aiuti estei, sia per rendere più consapevoli i giovani. Qui essi possono mantenersi allevando animali, coltivando i campi e, nello stesso tempo, formandosi culturalmente per far fiorire domani tutte le potenzialità che la nazione possiede. In Tanzania nel 1996, durante il seminario organizzato dal «Centro per l’energia, lo sviluppo, la sicurezza e la tecnologia», si discusse sul deterioramento del livello qualitativo dell’educazione. Se nelle scuole primarie il problema maggiore è legato al sovrannumero, alle secondarie (dove il numero degli studenti è contenuto a causa della selezione per merito) la violenza sessuale costituisce il principale fattore di ingiustizia e continua ad essere al centro di dibattiti e della cronaca locale.
Il Ministro dell’educazione ha rivelato che, tra il 1995 e il 1998, 12.721 ragazze furono espulse dalla scuola poiché incinte. Anche da parte degli insegnanti.

HO VSTO LA BONTA’ LIBERATRICE

«Abbiamo visto i miracoli dell’amore» potremmo intitolare un libro, se volessimo narrare ciò che uomini e donne di Dio, preti e suore locali, missionari e laici, stanno realizzando a favore dei più poveri nei più remoti angoli della terra, là dove manca tutto: acqua, cibo, strade, ospedali, scuole.
La jeep s’inerpica sui monti a sud della Tanzania, oltre i 2 mila metri: antichi tratturi trasformati in «strade», che si possono affrontare durante la stagione secca, ma che si convertono in rovinosi torrenti durante i sei mesi delle piogge. Nonostante si creda che quattro ruote motrici possano fare miracoli, sovente ci s’impantana al punto da non potersi più muovere.
E quelle zone che sembravano deserte, d’un tratto si animano di persone che sbucano da ogni angolo, si organizzano in breve tempo e rimettono la macchina in condizione di riprendere il viaggio. È uno dei volti della solidarietà africana, una dimostrazione che l’antica massima vale ancora: «Io sono, perché noi siamo». Non si contano i saluti, i complimenti e i ringraziamenti, anche se qualcuno afferma che non è conveniente ringraziare perché, come dicono soprattutto i musulmani, «chi ha una ricompensa in terra non l’avrà in paradiso».
Da Njombe – dove finisce la strada asfaltata – a Ikonda, per percorrere 70 chilometri impieghiamo più di tre ore. Fortunatamente da alcuni giorni non piove. Intoo a noi spazi immensi e verde… verde dappertutto: siamo nella stagione delle piogge. Le poche abitazioni che si scorgono sono in terra rossa e hanno il tetto di paglia, dal quale fuoriesce fumo. Il cibo è cotto in pentole appoggiate su tre pietre, che costituiscono il focolare, per terra, in mezzo all’abitazione «multiuso». E il cibo è tutti i giorni uguale: polenta e fagioli.
Lo stesso cibo ci viene offerto dai parenti degli ammalati nell’ospedale di Ikonda. Quando la struttura venne ultimata, fu chiesto ai capi dei wakinga e wabena (etnie locali) come dovesse essere l’ambiente affinché i degenti si sentissero più a loro agio. Risposta: una grande stanza aerata, dove ognuno posa le sue tre pietre, simbolo dell’unità familiare, sulle quali cuoce la solita farina di mais. È meglio non cambiare troppo le abitudini delle persone. Poi toeranno al loro villaggio…
Ogni tanto suor Magda porta ai bambini un uovo oppure, alle mamme, un po’ d’olio per condire le patate bollite quando ci sono. La malnutrizione non aiuta certamente la guarigione.
L’ospedale è gestito dai missionari della Consolata. Può ospitare 200 ammalati e vi lavorano tre medici africani e tre spagnoli. Attualmente è il governo spagnolo a fornire i fondi per il funzionamento della scuola-infermiere e per la formazione degli assistenti medici; ma il personale competente è insufficiente. L’organizzazione Medicus Mundi cerca costantemente volontari, e si può contare sulla presenza di persone disposte a spendere qualche anno della loro vita per gli altri.

Fra le malattie (che richiedono il ricovero in ospedale) nel 1995 al primo posto c’era la malaria, passata poi al secondo. Oggi è l’Aids che detiene il triste primato: lo è anche nella classifica dei decessi. Nell’ospedale abbiamo sfogliato il voluminoso registro dei pazienti che fanno il test dell’Hiv.
Il fatto che tante persone vi si sottopongono significa che hanno comportamenti a rischio, o che vivono in ambienti dove il contagio può essere frequente, oppure che manifestano già alcuni sintomi. Orbene: ogni pagina del registro reca 18 nomi; quelli scritti in rosso sono «sieropositivi»; solo due (a volte tre) i nomi in nero, cioè i «negativi».
Nella regione di Iringa-Njombe la trasmissione dell’Aids è particolarmente accentuata anche a causa del lavoro «offerto» dalla Brooke Bond, multinazionale del tè. Il lavoro si protrae per 11-12 ore al giorno, anche sotto la pioggia, per una paga mensile che varia da 90.000 a 150.000 lire, a seconda della quantità di foglie raccolte.
I lavoratori, immigrati stagionali per la raccolta, vivono nelle casette degli accampamenti costruiti dalla compagnia, isolati. Ovunque ci sono contadini che non lavorano «in proprio», costretti anche a comprare il cibo (per lo più proveniente dal campo del manager). Non essendoci alcun diversivo, sono facile preda dell’alcornol e della promiscuità.
All’ospedale di Kibao (della Brooke Bond) risulta che 9 operai su 10 sono affetti da Hiv positivo. Quando la malattia comincia a manifestarsi, viene loro corrisposta una piccola liquidazione e sono licenziati. Con l’aggravante che, non essendo stati informati della natura e della pericolosità del male, tornando al villaggio, contagiano chi vi è rimasto. La compagnia del tè ha pensato di risolvere il problema così: un’ora settimanale di istruzione sull’uso di profilattici e sull’importanza di anticoncezionali e abortivi. Nessun accenno viene fatto agli effetti collaterali che, usando i farmaci Depoprovera e Norplan, comportano rischi elevati. Non a caso, nel Nord del mondo, tali farmaci sono stati banditi. E non solo perché, con il passare del tempo, causano sterilità nelle donne.
Se nei centri sanitari governativi non fossero praticate regolarmente «certe» iniezioni, il paese non riceverebbe più gli aiuti dall’estero. E questo sistema sta distruggendo l’«orgoglio delle tanzaniane». Una donna, infatti, diventa tale solo dopo aver partorito il primo figlio: da quel momento sarà «la mamma di…». Col tempo, il ricorso sommario a contraccettivi distruggerà la fertilità di un’intera popolazione.
Inoltre negli ospedali governativi, al momento del parto, soprattutto se c’è stato un cesareo o in seguito a complicazioni, spesso sono i medici a decidere indiscriminatamente, senza chiedere il consenso di alcuno, di chiudere le tube delle giovani madri. Queste vengono a scoprirlo soltanto in seguito quando, vedendo che non arrivano altri figli, effettuano visite di controllo, magari negli ospedali dei missionari.
Una tanzaniana, confidandosi con una missionaria della Consolata, ha commentato: «Noi abbiamo molta più fiducia nei vostri ospedali, perché qui c’è il timore di Dio, mentre in quelli del governo c’è solo il timore della nazione».
Maria Rosa Lorini

Maria Rosa Lorini




Chi paga i suonatori sceglie pure la musica

«Soldi-e-missione»: un intreccio complesso e… delicato.
Infatti sono pochi quanti accettano
che si guardi nel loro portafoglio! Per portare un esempio,
nel 1998 i vescovi italiani contavano 135 miliardi di lire
(frutto della generosità dei cattolici)
da offrire ai poveri nel Sud del mondo. Come l’hanno fatto?
E bastano i denari per vincere il sottosviluppo?

«Soldi» e «missione». Due temi contrastanti? Eppure la missione fa uso di risorse finanziarie e il loro impiego indica uno stile di evangelizzazione. L’argomento «soldi e missione» è spinoso:
– esiste un certo pudore quando si parla di «soldi e missione», come se vi fosse un livello spirituale prioritario… e il resto entrasse accidentalmente. Il denaro allora assume una valenza negativa (l’idolo «denaro»). Il trattae contaminerebbe la purezza missionaria;
– in missione si è pronti a condividere le esperienze, però non il portafoglio. Ci sono lodevoli sforzi di trasparenza; ma si è gelosi dei propri conti; non si gradisce che altri ci mettano il naso;
– infine, per le ragioni suddette, è difficile avere il quadro della situazione per poter esprimere una valutazione seria.
Nel dossier si osserva l’ambito ecclesiale:
1. presentando il quadro generale della situazione;
2. accennando a qualche problema;
3. indicando alcune ipotesi di lavoro.

1. Situazione

Sarebbe bello conoscere il giro di soldi che si muovono per la missione.
Nel 1990 si tentò di raccogliere più dati possibili, per delineare il quadro della situazione (vedi il box Offerte pro missioni); ma il principio della privacy prevalse.
Tuttavia da quell’analisi, anche se datata, è possibile avere un’idea del denaro, destinato al Sud del mondo, da enti istituzionali quali il Comitato aiuti della Conferenza episcopale italiana e le Opere pontificie (vedi i vari box).

La fantasia non ha confini

La prima impressione che si ricava dall’analisi del 1990 è la constatazione, nel tessuto italiano, di una realtà missionaria variegata. Sono coinvolte istituzioni nazionali, regionali e locali, soggetti religiosi e laici: insomma una galassia. È una presenza attiva, capace di fantasia e creatività, di proposte e realizzazioni.
Nel 1998 il Convegno missionario nazionale di Bellaria, con 1.600 presenze, ne ha preso atto coniando l’espressione «popolo della missione».
Le diverse realtà hanno a che fare con raccolte di fondi per sostenere attività e progetti. Tutte, sia pure in varie forme, attingono dalla gente le risorse necessarie. Più chiaramente, tutti attingiamo alla stessa fonte: i cittadini italiani. E bisogna dire che sono generosi, almeno con i missionari.
Le iniziative messe in campo hanno aspetti di grande creatività: «otto per mille», giornate missionarie, campagne nazionali, raccolte ordinarie, cene e digiuni di solidarietà, marce sponsorizzate, lotterie, campi di lavoro, autotassazioni, spettacoli. La fantasia non ha confini.
Per i prossimi anni bisognerà prevedere una flessione, perché le richieste si sono moltiplicate, ma il «pozzo» è sempre lo stesso. Inoltre, probabilmente, la gente si stancherà di essere sollecitata a contribuire per una pletora di attività.
Forse l’iniziativa più innovativa (e di maggior successo) negli ultimi anni è stata l’«adozione a distanza». È una proposta con elementi di presa immediata: il coinvolgimento emotivo, il rapporto individuale, l’investimento su persone, la continuità dell’impegno, l’efficacia dell’intervento, il controllo sul processo.
Se esiste una diffusa perplessità sull’incidenza degli aiuti nella realtà globale, bisogna pure affermare che questi hanno permesso la realizzazione di numerosi progetti, che hanno dato un contributo significativo al cammino dei popoli. Le nazioni sono disseminate di opere realizzate con il concorso di un’efficace generosità: scuole, ospedali, strade… Per molti paesi l’intervento ecclesiale-missionario resta l’unico catalizzatore di sviluppo.

Il giardino è mio

Bisogna ammettere che il difficile reperimento dei fondi determina, a volte, una esasperata concorrenza. Questo rischia di ridurre l’animazione missionaria a pura raccolta di soldi, con un antagonismo fra gli organismi interessati ed una accentuata diffidenza reciproca.
Si nota una «malcelata gelosia» dei propri spazi e benefattori, delle piccole «miniere d’oro» che ognuno ha scoperto… da difendere ad ogni costo.
Avviare una collaborazione con tale mentalità alle spalle è difficile, se non impossibile.
Cuore e portafoglio

Un’altra interessante osservazione viene fatta soprattutto da chi è parte in causa. Sovente l’urgenza di reperire fondi non permette un esame critico dei mezzi utilizzati per raggiungere lo scopo.
Abbiamo tutti assistito a testimonianze missionarie, racconti di campi estivi trascorsi in missione con filmati e diapositive. L’immagine e il commento sono scontati: povertà, abbandono, ecc. Si ricorre (anche se inconsciamente) ad elementi emotivi. E il passaggio dal cuore al portafoglio è breve. Si esige più attenzione al riguardo: ogni popolo ha la sua dignità che va rispettata; della povertà bisogna parlare con «pudore».
L’Africa, per esempio, è «molto di più» della somma dei suoi mali.

Domande spicciole

Esprimo ad alta voce qualche interrogativo, che mi porto dentro dagli anni della missione in Zaire (Congo).
Non ho mai capito perché è sempre facile trovare finanziamento per un… allevamento di maiali, mentre è estremamente complicato reperire fondi per erigere una cappella o sostenere un progetto pastorale. Forse si ritiene che i suini creino sviluppo e migliorino le condizioni di vita, mentre la cappella avrebbe meno incidenza. Per esperienza, garantisco che una comunità cristiana ben animata è capace di essere una grande forza di progresso per tutti.
Lo stesso si puo affermare degli investimenti in persone e strutture. È più facile reperire fondi per realizzare opere che per formare persone. Le strutture sono quantificabili e permettono un ritorno di immagine. Invece investire in persone è più rischioso, perché gli individui possono lasciare l’iter formativo e il risultato è meno visibile. Tuttavia il fattore umano è l’elemento cardine del cammino di un popolo: su questo bisogna investire molto di più.

Isole felici

Si tratta della sperequazione degli aiuti.
Il missionario lombardo o veneto ha a disposizione discreti capitali, che gli permettono di realizzare progetti di una certa portata; invece il calabrese, il latinoamericano o africano non hanno le stesse risorse. Il primo passa per bravo, capace e sarà rimpianto dalla comunità cristiana dove ha operato, a differenza del secondo.
Evitiamo di creare «isole felici» in un oceano di miseria.

. Problemi

Gli aiuti che la chiesa italiana invia non sono sufficienti per avviare un efficace programma di sostegno alle chiese più giovani. Inoltre sono frammentati, con un’estrema varietà dei soggetti che intervengono.

In ordine sparso

Valutando l’indagine del 1990, il professor A. Oberti affermava: «Tutti siamo consapevoli che c’è un flusso (probabilmente ingente) di aiuti, diversi per tipologia, genere, provenienza, destinazione… che dall’Italia parte per il terzo mondo; ma non riusciamo a conoscere le dimensioni, le modalità e, soprattutto, le motivazioni di fondo del flusso. La non conoscenza di questi e altri elementi è grave, non perché non soddisfa la curiosità o il gusto per le statistiche; è grave perché, nella guerra che si cerca di condurre al sottosviluppo, non siamo in grado di razionalizzare l’aiuto e di finalizzarlo il più oggettivamente possibile. Lasciamo che tutto sia guidato da sentimenti, ragioni individuali o di gruppo, motivazioni soggettive religiose, assistenziali, politiche, economiche».
«Si ha un’ulteriore riprova dell’esistenza, nella chiesa e società italiana, di uno spiccato vitalismo sociale; però non si riesce a trovare modi e forme che consentano, senza spegnere la vitalità, di accompagnare e orientare le individualità verso una società comunitaria».
Quattro sono, oggi, i soggetti operanti, ma scarsamente cooperanti fra loro: gli enti ecclesiali nazionali e diocesani, gli istituti missionari e religiosi, gli organismi di volontariato e i movimenti ecclesiali. A questi si affianca una miriade di gruppi attivi sul territorio e variamente collegati agli spazi ecclesiali.
Il fragile tessuto che connette la «galassia missionaria» impedisce la comunicazione di esperienze per una crescita globale e, soprattutto, rende ardua la verifica del loro impatto. La frammentarietà degli interventi impedisce migliori risultati e può rallentare il necessario impatto culturale per una crescita di conoscenza e di coscienza collettiva rispetto ai problemi da affrontare.

Fiducia sì, ma non troppa

Sovente si invocano lo scambio e la cooperazione come principi direttivi: dovrebbero esprimere uno sforzo congiunto dei soggetti interessati, dare e ricevere con spirito di reciprocità. Però, finché ciò avviene a senso unico, è difficile realizzare una comunione paritaria.
Resta l’impressione che nella chiesa si ripeta la situazione esistente nei rapporti di forza del mondo. C’è una chiesa del Nord, ricca, e una del Sud, povera. Una chiesa che dà e una che riceve, una chiesa «benefattrice» e una «assistita». È un rapporto disuguale, ma anche di «forza». Questo si esprime nella sfiducia sulle capacità delle comunità destinatarie a progettare, gestire e realizzare progetti propri.
Perciò… «è normale che le chiese che ricevono aiuti facciano un rapporto dettagliato sulla loro gestione; al contrario, non ci si immagina nemmeno che possano, allo stesso modo, chiedere alle chiese dei paesi ricchi di dare ragione dell’utilizzo delle risorse, perché le risorse appartengono all’unico popolo di Dio».
Ciò vale anche per i regolamenti della cooperazione, che gli organismi istituzionali hanno sviluppato. L’utilità e necessità di darsi delle regole è evidente. Ma la domanda è: chi le stabilisce e secondo quali criteri? L’impressione è che chi detiene le risorse detti anche i principi del loro utilizzo.
Pertanto, non stiamo ricopiando i rapporti di forza fra il Nord e Sud del mondo che, di solito, condanniamo nella Banca mondiale, nel Fondo monetario internazionale, nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo? Anche la solidarietà richiede regole condivise o, almeno, che tengano conto delle esigenze dei partners.

Neocolonialismo religioso?

Conosciamo il tempo delle «colonie d’oltre mare», appendici economiche di vari paesi europei. Con l’indipendenza degli stati, è subentrato un altro regime che, pur lasciando l’apparato statale autonomo, economicamente lo ha reso dipendente dai governi di tuo del Nord.
È il rischio che corre anche la gestione degli aiuti alle missioni: creano dipendenza (economica e psicologica, dovendo dipendere dall’approvazione altrui).
Ricordiamo la «moratoria» della Conferenza delle chiese d’Africa, tenutasi a Lusaka (Zambia) nel 1974, che proponeva la sospensione di tutti gli aiuti, sia in personale sia in finanze, che provenivano dall’estero. Il fatto suscitò vive reazioni da parte di vescovi e missionari stranieri. Era però il tentativo di affermare un necessario protagonismo dei soggetti locali, cercando di toglierli dal «patronato» esterno.
Al presente serpeggia un «sentire»; a volte è assopito per paura che i canali di finanziamento siano chiusi per «rappresaglia». La domanda però resta: quanta coercizione esercita l’aiuto offerto? Il denaro è sempre potere. Questo mette in gioco la consistenza vera di una chiesa locale e il suo grado di autonomia e decisione. Sono da capire le domande che sovente le chiese del Sud si pongono. Quali sono il peso e l’autorità delle giovani chiese, se non dispongono di un’autonomia finanziaria? Chi fornisce loro i mezzi? Fin dove le lascerà autonome nella parola e nell’iniziativa?
Il problema «finanziamenti» chiama in causa anche l’ecclesiologia e pone la questione del giusto rapporto fra autonomia della chiesa locale e corresponsabilità nella chiesa universale. L’aiuto dovrebbe essere il segno che manifesta la comunione delle chiese nel rispetto di ciascuna.
Ricordiamo «lo stile delle offerte» nella chiesa primitiva. «La colletta – afferma san Paolo – non ha lo scopo di ridurre voi in miseria, affinché altri stiano bene: la si fa per realizzare una certa uguaglianza. In questo momento voi siete nell’abbondanza e, perciò, potete recare aiuto a quelli che sono nella necessità» (2 Cor 8, 13-14; cfr. 1 Cor 16, 1-6; 2 Cor 8-9; Rom 15, 25-31).
Non si tratta solo di dispute tecniche o teologiche, ma di vera dignità.
Mi hanno sempre impressionato i vescovi africani, obbligati a percorrere l’occidente come mendicanti, passando da una diocesi all’altra e da un organismo all’altro, ad intercedere per i bisogni delle loro diocesi… con l’obbligo poi di rendere conto ad una pletora di benefattori stranieri.
Non mi è successo di vedere un nostro vescovo (anche di una piccola e povera diocesi) fare altrettanto.

3. Che fare?

Recenti fatti (che hanno coinvolto alcuni settori della cooperazione italiana e – senza reale consistenza – alcune sezioni della Caritas) hanno generato nell’italiano sfiducia in organismi ritenuti credibili ed efficienti. Perché?

Esigenza di trasparenza

È la qualità necessaria ad ogni gestione finanziaria nella chiesa. Trasparenza comporta chiarezza e serietà nei bilanci, nella destinazione e nell’uso delle risorse (sia di chi dà sia di chi riceve). Nella maggioranza dei casi si usano offerte della gente comune, spesso frutto di sacrificio.
Ma non basta la trasparenza di bilancio. Si richiede chiarezza di programmazione, non disgiunta da una valutazione dell’efficacia degli interventi. Sovente non è sufficiente realizzare un progetto: bisogna valutae la sostenibilità nel tempo. Un briciolo di managerialità in questo settore non guasta.
Aggiungo due semplici proposte:
– organizzare un «data base» consultabile dei progetti in atto, almeno per quelli sostenuti da soggetti istituzionali;
– usare la Banca Etica per la gestione dei fondi. Si darebbe anche una mano a questa iniziativa, evitando di far transitare fondi attraverso istituzioni bancarie, i cui movimenti finanziari sovente non sono compatibili con lo scopo dei soldi raccolti.

Scambio alla pari

L’aiuto deve esprimere la comunione di tutte le chiese, che è alla base della cattolicità. La solidarietà non è mai imposta, ma fa proprie le attese di una comunità sociale o ecclesiale. Naturalmente non sempre sono evidenti, per chi vive nel Nord, le urgenze o priorità di chi sta nel Sud.
«Il vero aiuto è quello che viene dallo scambio alla pari: non solo dare, ma dare e ricevere, solidarietà e interdipendenza. Deve nascere a poco a poco una conoscenza reciproca, la capacità di comprensione dell’altro: ossia spirito di frateità e solidarietà». Questo va oltre l’aiuto finanziario, per includere elementi culturali, cammini di chiesa, persone.
Sembrerebbe scontato che l’azione delle nostre comunità non si limitasse solo all’invio di denaro, ma gettasse un ponte di comunicazione più efficace. Anche i missionari (che rientrano in diocesi per vacanze o altro) dovrebbero «divenire ponte» fra diverse esperienze di chiesa. Invece, sovente, utilizzano il tempo con lo spirito del «prendi e fuggi». Difficilmente il personale inviato in missione diventa stimolo di riflessione nella vita pastorale della propria diocesi.
Ci siamo aperti alla missione; abbiamo inviato soldi e persone; i vescovi visitano i preti in missione. Ma tutto continua come sempre. «Dall’aiuto allo scambio» si diceva tempo fa. È ancora un percorso valido.

Dal frammento alla sintesi

In un mondo che si globalizza unificandosi e fondendosi, è ridicolo difendere il proprio orticello. Il futuro dell’impegno missionario non appartiene solo ai singoli, ma al lavoro di équipe, al costituire reti di azione (la filosofia delle «reti lillipuziane»), mettere insieme una società civile che possa pesare nei contesti nazionali e inteazionali per capacità di analisi, proposta e operatività.
Al di là delle provocazioni, il movimento di Seattle è un esempio bello di cooperazione, che ha aggregato soggetti diversificati e tecnologie a portata di tutti (solidarietà telematica).
È necessario fare sintesi e superare i parallelismi ecclesiali. Penso alla Caritas, all’Ufficio per la Cooperazione missionaria tra le chiese (a livello nazionale e locale), alle riviste missionarie, ai movimenti, agli organismi laicali.
Bisogna anche vincere il provincialismo per immetterci in contesti globali. La domanda da porsi è: come situarci nel flusso di aiuti che le chiese inviano? E ancora: qual è il nostro apporto alle politiche di cooperazione che i governi nazionali e l’Unione Europea mettono in atto?
Si deve mirare a quattro effetti:
– la crescita complessiva della qualità degli interventi;
– la costituzione di un fronte civile, nazionale e internazionale, che incida sui grandi processi in corso;
– la perequazione degli aiuti;
– la capacità d’investire insieme con interventi di respiro nazionale e internazionale (pensiamo agli investimenti per creare informazione e opinione, i processi di pace).
Non basta il tappabuchi

L’inchiesta del 1990 evidenziava un problema di una certa portata: il rapporto fra la quantità e qualità degli aiuti. E, di fronte ai problemi nel Sud del mondo, gli interventi seguono due criteri.
Criterio congiunturale. Punta all’efficacia immediata dell’intervento, affievolendosi poi sulla media e lunga distanza. Gli esempi sono tanti: carestie, conflitti, esodi di massa, terremoti, alluvioni.
In questi casi prevale il fare, secondo il principio «so io quello di cui hai bisogno». E la preferenza delle iniziative cade su tutto ciò che si può subito mettere in atto e quantificare. Al di là delle vere emergenze, questo modello riproduce lo schema dell’eurocentrismo e dello sviluppo attraverso capitali e tecnologie. È l’aiuto «umanitario», dentro il quale molti ancora operano. Talora ha prodotto «cattedrali nel deserto», delle quali sono disseminati i continenti.
Criterio strutturale. È il risultato della riflessione maturata in questi anni. Tiene conto delle necessarie variabili umane: cultura, storia, politica, religione, geografia, sostenibilità degli interventi a medio e lungo termine, scenari globali. Coglie lo sviluppo come una realtà unica, che si manifesta in modi diversi da caso a caso, luogo a luogo, ma che resta fondamentalmente un fatto di «persone». Senza di queste, si possono avere progressi settoriali (economici, tecnologici, agricoli, sanitari…), ma non uno sviluppo reale e duraturo, strutturale anziché congiunturale: uno sviluppo che renda il povero agente della propria crescita, soggetto capace di autonomia, non succube di «scambi ineguali».

Tre snodi essenziali

Il passaggio dal congiunturale allo strutturale è il cambiamento qualitativo da realizzare nei nostri interventi. Il percorso avviene attraverso tre snodi.
1. I nuovi scenari mondiali: particolarmente il fenomeno e gli effetti della globalizzazione.
Neoliberismo, mercato, monopoli finanziari… sono le nuove frontiere dentro le quali sviluppare un’azione. Ci sono squilibri contro i quali bisogna lottare, una strumentalizzazione politica degli aiuti da correggere, perché sono le strutture globali all’origine delle inclusioni o esclusioni di interi continenti. Sono i sistemi «forti» che oggi governano il mondo. È nell’impegno per un nuovo ordine mondiale che ci si deve compromettere, se si vuole incidere sui processi di marginalizzazione.
Questo implica conoscenze dettagliate dei micro e macro sistemi, monitoraggi dei processi in corso (ad esempio: il meeting di Seattle, Davos), aggioamenti continui.
Il passaggio culturale dal «singolo» progetto alla solidarietà «globale» è consistente. Ci dobbiamo chiedere se, in qualche missione, sia più urgente costruire una struttura o aderire ad una campagna nazionale. Se vale di più raccogliere fondi per il «nostro missionario», o se non sia meglio sostenere, anche economicamente, la campagna per tassare le transazioni finanziarie (Tobin tax).
2. I nuovi modelli di intervento. In questo settore siamo debitori di una prassi che, nel passato, ci ha ancorati ad interventi consolidati (il progetto da realizzare). Ma, grazie alla creatività di alcuni, sono nate nuove forme di azione che pare diano discreti risultati a medio e lungo termine. Mi riferisco al «commercio equo e solidale» con la sua capacità di sostenere la crescita di una imprenditorialità locale, con riinvestimenti nel sociale.
C’è pure il «micro credito», che offre agli esclusi la possibilità di affrancarsi dalla povertà con i loro propri sforzi. È una bella novità, portata alla ribalta da Muhammad Yunus, economista del Bangladesh, fondatore della Grameen Bank.
Le «banche etiche». Nate di recente in Italia, indicano la via per un risparmio alternativo, non finalizzato al mero profitto. C’è tutta una serie di nuove iniziative che indicano la vitalità e il rinnovamento in questo settore. Vanno conosciute e sostenute anche con i nostri finanziamenti.
3. La valenza educativa dell’aiuto. «Ricordiamoci che lo scopo principale dell’aiuto non è quello di venire incontro alle altre nazioni, ma di aiutare noi stessi». Lo affermava il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, per ribadire gli interessi americani.
In ogni caso la prima ricaduta degli aiuti è su di noi, quasi a boomerang. Oggi siamo tutti coscienti della interdipendenza nel mondo, del legame fra la ricchezza di pochi e la povertà di molti, fra l’emarginazione di interi continenti e le nostre responsabilità.
Siamo tutti invitati a mettere in discussione i nostri «stili di vita», secondo lo slogan di una famosa campagna «contro la fame cambia la vita». La cultura della solidarietà, della giustizia per tutti, del bene comune da ricercare insieme… chiama in causa i nostri modelli culturali, politici, economici, oltre ai nostri consumi.
Soldi e missionari

Impressiona favorevolmente l’ammontare degli aiuti economici che la chiesa italiana destina alle missioni. Ma questo basta per dirci missionari?
Se per lo sviluppo bisogna in primis investire nelle risorse umane, a maggior ragione lo si deve affermare per la missione: più che di mezzi, ha bisogno di persone. Di fronte ad un aumento di aiuti verso le missioni, si è registrata in questi anni una sensibile diminuzione di missionari che partono. Non c’è il rischio di delegare ai soldi il compito dell’annuncio?
Non nascondiamoci il pericolo di sostituire l’evangelizzazione con le opere di promozione umana. Si può, certo, parlare di «predica delle opere», ma non senza l’annuncio.
Occorre ribadire con forza che:
– la missione senza missionari non ha senso;
– la missione senza annuncio si svuota del suo contenuto originale;
– la missione senza gesti concreti non riproduce il modello del Gesù, «che ha fatto e insegnato» (At 1, 1).

L o scopo di questo dossier è di fornire degli argomenti che servano da piattaforma per avviare un dibattito su «soldi e missione». Sono convinto che il processo evolutivo, dentro il quale l’evangelizzazione si sta muovendo, richieda anche il rinnovamento dell’aspetto finanziario.
Il mondo dominato da criteri di mercato, monopolio e profitto ha bisogno di nuovi segni credibili di solidarietà.

Bibliografia

– Il fuoco della missione, Emi, Bologna 1999
– Come orizzonte il mondo, Emi, Bologna 1999
– A. Sella, Giubileo di giustizia, Editrice Monti, Milano 1999
– Dizionario dello sviluppo (a cura di Wolfgang Sachs), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
– Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991
– M. Meloni, La battaglia di Seattle, Edizione Berti (supplemento di «Altreconomia», febbraio 2000)
– Finances: autonomie et solidarité, in «Spiritus», dicembre 1992
Mission dans la faiblesse, in «Spiritus», marzo 1996

Ricerca di archivio:
Indagine sugli aiuti della Chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo, Ufficio nazionale per la Cooperazione missionaria tra le Chiese, Caritas Italiana, Pontificie Opere Missionarie

Siti Inteet consultati:
http://www.vatican.va
http://www.chiesacattolica.it
http://www.unimondo.org
http://www.un.org

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Modalità di raccolta nelle parrocchie / Ricerca del 1990

FONTI
– private e volontarie 77,70%

DOVE
– funzioni religiose, quaresima 69,20%
– giornate particolari, giornata missionaria
mondiale, lotterie 12,70%
– raccolta a domicilio 15,30%

QUANDO
– ricorrenza annuale 58,60%
– ricorrenza occasionale 45,90%
– ricorrenza costante 2,30%

FORME di AIUTO
– in beni 30%
– in denaro 64,10%

PROVENIENZA delle RICHIESTE
– missioni 43,8%
– singoli volontari e missionari 25,8%
– diocesi, Caritas locali, istituti religiosi 42%
MOTIVI dell’AIUTO
– richieste specifiche 44,8%
– emergenze particolari 24,60%
– intuito personale 22,30%

DESTINAZIONE GEOGRAFICA
– Africa 31,50%
– Centro e Sud America 21,17%
– Asia 13,16%
– altro 4,55%

TIPO D’INTERVENTO
– settore ecclesiale 36,20%
– casi di emergenza 20,08%
– sviluppo sanitario 16,62%
– alfabetizzazione 13,75%
– sviluppo agricolo 10,19%

Fonte:
Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991

Contributi della Conferenza episcopale italiana
Ai Paesi nel sud del mondo

Distribuzione dei fondi al 30 dicembre 1998
cifre arrotondate

Importo da distribuire 135 miliardi di lire

Conferenze Episcopali (49 progetti) 32 miliardi
Diocesi (198 progetti) 33 miliardi e mezzo
Organismi religiosi e missionari (197 progetti) 25 miliardi
Caritas (18 progetti) 2 miliardi
Organismi laici (108 progetti) 40 miliardi
Altro (3 progetti) 500 milioni

TOTALE 133 miliardi
Avanzo: 2 miliardi

Distribuzione per aree geografiche

Paesi africani del Sahel 18 miliardi
Asia (paesi prioritari) 6 miliardi e mezzo
America Latina (paesi prioritari) 26 miliardi
Aree diverse ed emergenze 82 miliardi e mezzo

TOTALE 133 miliardi

Fonte:
Notiziario dell’Ufficio nazionale della Cooperazione missionaria tra le chiese, Roma, novembre 1999

Eesto Viscardi