SPECIALE 100 ANNI – Gli infaticabili

Per i fratelli coadiutori l’Allamano nutriva speciale predilezione; riteneva il loro contributo all’«elevazione dell’ambiente» indispensabile nell’evangelizzazione. Anche per gli aspiranti al sacerdozio il lavoro manuale è sempre stato materia di formazione. Il motto benedettino: «Ora et labora» (prega e lavora) è stato e continua a essere una caratteristica dei missionari della Consolata, padri e fratelli.

CAPOSTIPITE
fratel Benedetto Falda (1882-1969)

«Non piangere! Se vuoi bene a tuo fratello, pensa a raggiungerlo in Africa e lavorare insieme con lui per la salvezza di quei popoli» disse l’Allamano a Benedetto Falda, mentre questi salutava il fratello Luigi in partenza per il Kenya.
«Ero lontano mille miglia da una simile idea – racconterà fratel Benedetto -. Meccanico di precisione, a rimorchio dei compagni di lavoro, in gran parte socialisti e sovversivi, nutrivo avversione per tutto ciò che sapeva di chiesa. Ero affezionato a mio fratello, ma la sua scelta mi sembrava nient’altro che una teatralità.
Dopo alcuni mesi, mi recai alla “Consolatina”, come veniva chiamata la prima sede dell’Istituto, per avere notizie di mio fratello. L’Allamano mi ricevette come un vecchio amico. Mi mostrò lettere e fotografie appena arrivate dal Kenya… Mi disse che c’era bisogno urgente di tecnici per impiantare una modea segheria. Si pensava di impiegare operai disposti a prestare la loro opera al servizio della missione dietro un equo compenso. Discutemmo del progetto per due ore. A un certo punto sbottai: “Senta, reverendo, io sono un meccanico. Se crede, sono pronto a partire. Potrei essere il tecnico che lei cerca. Però intenderei fare parte dell’Istituto e non andare in Africa come salariato”. Le parole mi bruciavano le labbra. Si erano dileguati nubi e preconcetti. Sembrava che un altro parlasse in me. Seguirono altri colloqui. Il 6 dicembre 1902 entravo alla Consolatina».
Aveva 20 anni: era nato a Torino il 6 giugno 1882.

Sei mesi dopo fratel Falda era in Kenya. Raggiunse Tuthu, per impiantare la segheria nella fitta e umida foresta dell’Aberdare. Era una situazione da pioniere: viaggi estenuanti a piedi, lavori senza fine, mezzi e materiali limitati, oltre all’assillo della lingua per capire e farsi capire dagli indigeni e vincere la loro diffidenza.
Dalla segheria uscirono un’infinità di materiale per costruire case per padri e suore, chiese e altre strutture dei centri di missione. Finché anche in Africa inglesi e tedeschi cominciarono a combattersi per il dominio coloniale. Fratel Benedetto seguì padri e suore negli ospedaletti militari per curare i «carriers» (portatori africani), arruolati in massa dagli inglesi e sottoposti a immani fatiche e spostamenti.
Finita la guerra, fratel Benedetto ricominciò a costruire un’altra segheria a Nyeri. Quella di Tuthu, requisita dal governo e venduta agli indiani, era un ammasso di capannoni. Per l’energia furono usati i pezzi ricavati e adattati di tre locomotive messe fuori uso dalla guerra. Il lavoro riprese a tutto vapore.
Nel 1921 fratel Benedetto si seppellì nuovamente nella foresta di Oringo, a nord-est del monte Kenya: impiantò una seconda segheria e cominciò a fornire legname per costruire case, scuole, cappelle, mobilio e le suppellettili necessarie al lavoro missionario nel Meru.
Terminata l’opera (1927) il fratello fu chiamato a dirigere il reparto di falegnameria annesso alla scuola centrale della missione di Nyeri. Efficienza e qualità dei lavori, molto ricercati dai coloni inglesi, attirarono l’attenzione dell’ispettore del Dipartimento dell’educazione, che divenne grande ammiratore e amico di Benedetto e gli ottenne un salario da istruttore.
La fama della scuola attirò anche giovani protestanti. Molti di essi vollero presto seguire anche le lezioni di catechismo che fratel Benedetto teneva ogni sera. Più tardi furono ricevuti nella chiesa e, tornati ai luoghi di origine, diventarono a loro volta missionari tra i propri paesani. Attraverso di loro fu possibile aprire missioni e scuole in zone rimaste per anni impenetrabili, come quelle di Tumutumu, Ngandu e Karatina.

I n mezzo alle più svariate e pressanti occupazioni, fratel Benedetto non dimenticò mai di essere missionario. Oltre a insegnare un mestiere con cui vivere dignitosamente, cercava di trasmettere a operai e studenti l’entusiasmo della sua fede, mediante il catechismo serale e, soprattutto, con la testimonianza della vita.
Nel 1940 ritoò in patria e gli fu affidata la formazione degli aspiranti fratelli. A lui e ai suoi allievi si deve, tra l’altro, l’allestimento di parte degli infissi usati nella ricostruzione della casa madre, distrutta dai bombardamenti del 1942, e della mobilia per arredare le stanze.
Col passare degli anni, il cuore dell’anziano fratello cominciò a dare segni di cedimento. Chiamato nella casa madre (1954), trovò lavoro nell’ufficio stampa, aggioando lo schedario degli abbonati a Missioni Consolata, felice di essere ancora utile. Sempre attivo e vegeto, continuò a lavorare fino alla morte, avvenuta nel 1969.
Ma la sua figura è ancora viva. Pioniere eroico e leggendario, Benedetto Falda è il capostipite di una lunga schiera di missionari fratelli che hanno contribuito a forgiare generazioni di uomini e cristiani, con naturalezza e dedizione, con l’operosità del cuore e delle mani.

IL ROSARIO
DEL GAUCHO
padre Domenico Viola (1906-1990)

Era nato nel 1906 a Buchardo, una sperduta fattoria nella pampa argentina, dove il prete arrivava due volte all’anno. Quando la famiglia Viola toò in Italia (1921), Domenico fu mandato a studiare nel seminario di Giaveno: a 15 anni, aveva fatto la prima (e unica) comunione e andato a messa tre volte. Buono e spassoso, un palmo più alto dei compagni, insegnava loro i segreti del gaucho: sapeva prendere al laccio il piede di un ragazzo in corsa a 15 metri di distanza.
Cominciò a divorare il vangelo e riviste missionarie. Nel 1925 entrò fra i missionari della Consolata; nel ’32 era prete e missionario in Etiopia.
La guerra italo-abissina, costrinse padre Domenico a rifugiarsi in Somalia. Toò in Etiopia con le truppe di occupazione (1936) e si stabilì a Guder. In quattro anni trasformò la missione: costruì la chiesa e organizzò la Scuola agraria. Visitava i villaggi con zelo instancabile. Gli sembrava quasi di essere nella pampa, con la differenza che il territorio era più accidentato, i viaggi interminabili e il mulo più scomodo del cavallo. Poi la guerra mondiale fermò mani e piedi del missionario, costretto a rimpatriare (1943).

In Italia padre Domenico fu incaricato di dirigere due fattorie dell’Istituto; passò alla formazione dei fratelli; nel 1946 fu nominato amministratore regionale.
Le case dell’Istituto avevano bisogno di tutto, sia per lo sviluppo che per mantenere i seminaristi che le affollavano. Padre Viola si trasformò in agricoltore e camionista, pur di provvedere il necessario a tante bocche da sfamare. In tuta da facchino, caricava e scaricava dagli automezzi viveri e materiali vari; nei viaggi le dita sgranavano rosari.

Destinato all’Argentina (1959), paese di cui aveva conservato la nazionalità, padre Domenico raggiunse Pirané, sperduta parrocchia nell’immensa regione del Chaco. Aveva 53 anni. Dal volante del camion passò al manubrio della bicicletta, con cui raggiungeva le comunità più sperdute. Spesso veniva sorpreso dalla pioggia; ed erano guai: il fango bloccava le ruote della bici, che bisognava trascinare come una slitta.
Padre Viola sfoderò subito le sue doti di muratore, geometra e architetto, insieme al gusto per le cose belle, fatte bene e a buon mercato. E le inculcò nella gente del paese e delle comunità rurali, con le parole e con l’esempio. Era convinto che il progresso materiale è il piedistallo di quello spirituale. Ancora oggi Pirané è costellata di edifici pubblici e case private che si assomigliano come gocce d’acqua per lo stile dei muri, travature e lesene bianche e verdi, simili a quello della chiesa parrocchiale e di varie cappelle rurali.
Le mani callose alternavano cazzuola e rosario. Ma anche sul lavoro cuore e mente continuavano a sgranare «ave marie». Negli ultimi anni di vita dovette mettere da parte la cazzuola: diventò una preghiera vivente. Un giorno, in una delle rare confidenze, disse di aver recitato oltre cento rosari: alcuni interi, altri mentalmente. Aveva trasformato tale devozione mariana in contemplazione.
Era da tutti venerato come un santo, sia per l’esempio di preghiera e laboriosità, che per il suo cuore umile e generoso. Morì a Buenos Aires, il 16 febbraio 1990. Stava per essere interrato nel cimitero della capitale, quando la gente di Pirané lo reclamò con forza. Durante il funerale, il vescovo di Formosa disse senza esitazione: «Padre Domenico è un santo; un grande santo. Deve essere sepolto nella sua chiesa. Sono sicuro che la gente non lo lascerà in pace: dovrà ancora intercedere per noi».

IL SOGNO
CONTINUA
fratel Ugo Versino (1918, vivente)

A 82 anni (è nato nel 1918 a Coazze, Torino) fratel Ugo Versino sogna ancora l’Africa come da bambino. Suo padre aveva conosciuto il cardinal Massaia in Etiopia e parlava spesso delle meraviglie compiute dal grande missionario. Ugo ne era rimasto affascinato. Conseguito il diploma nell’istituto tecnico salesiano (1936), a 18 anni, entrò tra i missionari della Consolata.
Tre anni dopo emise la professione religiosa: sarebbe voluto partire subito per l’Africa; solo alla fine della guerra poté imbarcarsi e raggiungere il Mozambico.

Spese cinque anni in varie missioni del Niassa, finché nel 1951 fu chiamato a Massangulo. Insieme ai fratelli Bartolomeo Peretti, Lorenzo Baroffio, Giuseppe Benedetto, Ugo organizzò un vero istituto tecnico professionale, da cui uscirono centinaia di falegnami, ebanisti, muratori, carpentieri, meccanici, calzolai, conciatori, sarti, agricoltori… e soprattutto bravi cristiani. Ne ricorda ancora i nomi; può raccontae vita e miracoli, soprattutto le persecuzioni che subirono per restare fedeli ai valori cristiani imparati dalla sua scuola e dal suo esempio.
Massangulo brulicava di quasi mille alunni; metà dei quali collegiali, quando venne la rivoluzione marxista, che nazionalizzò tutte le opere e proprietà della missione e proibì ogni manifestazione religiosa. Dapprima tollerati, i padri furono definitivamente allontanati. Fratel Ugo riuscì a restare più a lungo. «Ero venuto in Africa per stare con gli africani – racconta -; decisi di andarmene solo se mi avessero cacciato».

Fu sottoposto a inaudite umiliazioni. Per aver venduto le sue galline, prima che fossero anch’esse «nazionalizzate», fu accusato di boicottare la rivoluzione e il progresso del popolo: in pubblico processo fu condannato a sei mesi di reclusione in un campo di rieducazione socialista. Un amico lo salvò dal lavaggio del cervello.
Gli fu tolta ogni responsabilità diretta nella scuola, lasciandogli solo l’insegnamento del disegno. Faceva vita comune con i ragazzi: sveglia alle quattro del mattino; lavoro comunitario nell’orto o nella manutenzione della scuola; pulire i cessi dei ragazzi. «Fino ad oggi – dicevano i caporioni agli alunni – voi avete servito i colonialisti; è ora che anche costui impari cosa significhi servire».
La sera doveva sorbirsi, insieme ai ragazzi e insegnanti, interminabili lezioni di socialismo: ne sentiva di tutti i colori, specialmente contro i missionari. A volte, quando stavano per spararle più grosse, lo esoneravano dal resto della lezione: «Ora il colonialista può andare».
Più delle umiliazioni personali, era la distruzione sistematica della coscienza degli alunni che faceva soffrire fratel Ugo. Molti ragazzi erano confusi e gli domandavano perché ce l’avessero tanto contro la chiesa e i missionari. Rispondere apertamente era rischioso. Ma fu trovata la soluzione: mentre un ragazzo era a colloquio col fratello, altri stavano di guardia e, appena si avvicinava uno spione, dava l’allarme. Per cinque anni fratel Ugo resistette in quell’inferno, continuando a illuminare la mente dei giovani sulle falsità del marxismo e aiutarli a restare fermi nella loro fede.
Ma un giorno ricevette l’ordine di andarsene da Massangulo, con questa motivazione: «Indesiderato religioso». Era l’anno 1979. Come religioso, silenzioso, laborioso e discreto, fratel Ugo era una rovina per la propaganda rivoluzionaria.

Dopo un breve periodo di riposo in Italia, toò nuovamente fra i suoi mozambicani. Raggiunse Lichinga e riprese il solito lavoro di formazione tecnica e cristiana dei giovani. In alcuni locali messi a disposizione dalla Caritas diocesana, con macchinari racimolati facendo appello ad amici italiani, fratel Ugo riaprì una piccola scuola professionale per una trentina di giovani.
Scoppiata finalmente la pace (1992), il ministro dell’istruzione del Niassa gli propose di riaprire la scuola professionale di Massangulo. Declinò l’invito per motivi di salute. Era vero: il cuore non avrebbe retto al vedere lo scempio operato dai rivoluzionari.
Di salute, infatti, ne aveva da vendere ai più giovani di lui. Ogni giorno percorreva più volte i tre chilometri di strada che separano la missione dalla scuola, e sempre in bicicletta. Una volta una guardia municipale voleva multarlo per «eccesso di velocità».
A 82 anni suonati, fratel Ugo si è arreso alle conseguenze del tempo che scorre inesorabile per tutti. Dalla casa di riposo di Alpignano (TO) continua a sognare l’Africa, come da bambino.

MANI PER LA VITA
padre Oscar Goapper (1951-1999)

«Le nostre lacrime dicono ciò che sentiamo, perché noi non abbiamo parole per dirti grazie» diceva la gente di Neisu (Repubblica democratica del Congo) il giorno del funerale di padre Oscar Goapper. Aveva 48 anni. Era nato nel 1951 a Venado Tuerto (Argentina).
Entrato tra i missionari della Consolata, venne in Italia per il noviziato e i corsi di teologia. Ordinato sacerdote nel 1976, toò in patria per dirigere il seminario di Buenos Aires. Al tempo stesso frequentò un corso da infermiere, in attesa di partire per le missioni.
Nel 1982 raggiunse lo Zaire (oggi R. d. Congo) e si buttò senza esitazioni nel lavoro apostolico e pastorale tra i mangbetu della nascente missione di Neisu.

Il primo natale, una bambina gli morì tra le braccia per mancanza di assistenza medica: per la prima volta gli venne l’idea di diventare medico. Cominciò a frequentare un medico-chirurgo di Isiro, da cui apprese i rudimenti della medicina e i segreti delle malattie tropicali. Il piccolo dispensario della missione, sotto la sua guida, iniziò a funzionare e ad ampliarsi.
Nel 1985 chiese ufficialmente di studiare medicina. Superate le iniziali titubanze dei superiori, padre Oscar si iscrisse all’Università di Milano dove, ogni tanto, arrivava per dare alcuni esami. A Neisu, intanto, costruiva un piccolo ospedale e, con pochi mezzi e tanto coraggio, curava la gente come e più di un esperto professionista.
Seguirono anni stracolmi di lavoro, pieni di difficoltà, ma anche di tante soddisfazioni. «L’ospedale è sempre pieno – scriveva nel 1991 -. Crescono gli ammalati di Aids: i protestanti dicono che sono mie invenzioni; anche la gente dice che sono bugie e noi gridiamo nel deserto! La notte di natale, dopo la messa di mezzanotte, ho fatto un cesareo a una poverina, portata a spalle dal fratello catechista per più di 40 km. È tornata a casa sana e salva. Gesti che la gente non dimentica: è la propaganda giusta che il vangelo fa di se stesso».

D al 1992 al ‘94, padre Oscar si fermò a Milano per terminare gli studi: conseguì il dottorato (110 e lode) in medicina e chirurgia. Tornato a Neisu, cominciò il dramma della guerra civile: nel natale del 1997, missione e ospedale furono saccheggiati; pochi mesi dopo, arrivarono i soldati sbandati dell’esercito zairese: padri, suore e volontari dovettero rifugiarsi nella foresta.
Invitato a Roma in un convegno sulle malattie infettive in Africa, descrisse le sue «Esperienze nella selezione e uso di piante medicinali» e poté divulgare i progressi fatti nella cura della malaria mediante l’Artemisia annua; annunciò la scoperta di un’erba che migliora notevolmente la qualità di vita dei malati terminali di Aids. «L’abbiamo chiamata Spes Neisu (speranza di Neisu). Recenti pubblicazioni scientifiche hanno dimostrato che è la stessa pianta utilizzata dagli scimpanzé per curarsi da schistosomiasi, paludismo, ferite infette».
In quell’occasione parlò a lungo dei suoi progetti: ampliamento dell’ospedale, produzione di siero per fleboclisi, sviluppo dell’omeopatia, miglioramento delle condizioni sanitarie nei villaggi, programmi di vaccinazione e nutrizione per bambini poveri, formazione di personale medico e tecnico, costruzione di una strada nella foresta, pista di atterraggio…
Mille progetti, alcuni già realizzati e altri appena iniziati, animavano il cuore del giovane missionario, sempre teso a «dare la vita per la sua gente». E fu preso in parola: all’inizio sembrava una semplice influenza e continua a fare interventi chirurgici, fino a 24 ore dalla morte. Donò l’ultimo respiro il 18 maggio 1999.
Mupe Oskari, così lo chiama la gente, è sepolto davanti alla sua casa, l’ospedale, secondo il costume mangbetu, che lo considerano uno di loro.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




Noi stiamo con Noè

Disse Dio a Noè: «Questo è un mondo avvelenato da affogare».
E così fu. Poi Noè rigenerò la terra…
Al patriarca biblico hanno pensato alcuni giovani tecnici di Torino
di fronte ad un pianeta nuovamente inquinato,
condannato ad un altro diluvio. A meno che…

Da convegni nazionali e inteazionali emerge sempre di più la necessità di trovare con urgenza energie alternative. Esse sono necessarie per tutti, ma specialmente per i popoli disagiati nel sud del pianeta. È un dovere morale, non rinviabile, aiutare queste genti.
Chi ha trascorso un po’ di tempo in un paese del terzo mondo (ospite magari di qualche missionario) racconta, al suo rientro, come questa esperienza sia stata arricchente. Ma, a tale fine, bisogna lasciarsi catturare dall’atmosfera che si respira in quelle terre e vedere le cose da un punto di vista completamente nuovo, conferendo un valore diverso alla vita, al tempo, al denaro. È necessario liberarsi dai propri numerosi condizionamenti, imparare a giornire del poco che c’è e a condividerlo.
Si rileva, soprattutto, la grave situazione di povertà in cui vive, ad esempio, la grande maggioranza degli africani. Nel contempo, affascinano gli spazi immensi e la bellezza della natura, mentre si prova rabbia nel vedere come le potenziali ricchezze della terra non siano debitamente sfruttate. Spesso ci si ferma, impotenti, di fronte a realtà ritenute immutabili.
L’amicizia con i missionari della Consolata e la collaborazione con dei volontari hanno suscitato, in alcuni giovani amici di Torino, interrogativi profondi; hanno avvertito la necessità di trovare, pur nei loro limiti, delle valide soluzioni a qualche problema del nostro pianeta.
L’inquinamento dell’ambiente, ad esempio.

In molti paesi dell’Africa (e non solo) esiste una massa di persone impoverite anche dal progressivo inquinamento ambientale, dovuto anche allo sfruttamento indiscriminato del territorio. Per gli abitanti, già costretti ad un’esistenza precaria, si aggiungono altre difficoltà, dato il rapporto di forte dipendenza economica con l’ambiente. Allora diventa indispensabile favorie lo sviluppo privilegiando il reperimento di nuove forme d’energia.
A tale scopo, il suddetto gruppo di amici di Torino ha deciso di lavorare con impegno per offrire un aiuto positivo e una speranza concreta. Da qui è nata l’idea di fondare l’Associazione culturale e umanitaria «Noè», che svolge ricerche finalizzate alla valorizzazione dell’habitat nel sud del mondo, grazie a confronti d’idee e sperimentazioni di nuovi progetti.

Tra le iniziative dell’Associazione «Noè», un progetto è particolarmente significativo.
In breve: si tratta di effettuare un tour con mezzi di trasporto sperimentali ad energia alternativa che, partendo dall’università di Tolosa, attraversi l’Africa e raggiunga l’università di Kinshasa, nella repubblica democratica del Congo; da qui, costeggiando l’Africa orientale, rientrare a Torino dopo aver toccato città, villaggi sperduti e missioni tra le più bisognose.
Il viaggio si prefigge, come scopo primario, di fornire informazioni tali da favorire la presa di coscienza di uno dei più grandi mali del terzo millennio: l’inquinamento ambientale, prodotto da emissioni di gas nocivi.
Sovente, però, tale problema viene proposto in maniera non consona alla realtà, provocando disinteresse. Sono ormai numerosi i trattati che, confortati da inoppugnabili dati, mostrano a livello mondiale i disastri ambientali, tra i quali: il surriscaldamento della terra e il recente susseguirsi di sconvolgimenti meternorologici in ogni parte del pianeta, Italia inclusa.
Chiunque consideri l’ambiente la casa dell’uomo e un dono di Dio da salvaguardare anche per i propri figli e nipoti intuisce facilmente gli ideali del progetto di «Noè».
L’intento è quello di sfruttare il sapere e le tecnologie disponibili, al fine di rallentare (almeno) il processo d’inquinamento, destinato altrimenti ad un irreversibile incremento. «Noè», pertanto, intende convogliare subito gli sforzi là dove le condizioni sociopolitiche sono più vulnerabili e minore importanza viene attribuita al problema.
Il «testimone» di questa operazione sarà «una colonna di veicoli sperimentali», spinti da propulsori ad energia alternativa, cioè ad idrogeno.
Durante il viaggio verranno fotografate e documentate le varie situazioni di povertà, le realtà missionarie, le necessità energetiche delle popolazioni. Le informazioni raccolte potranno essere divulgate in tempo reale con un browser web e opportuni programmi televisivi.
Nel frattempo sarà possibile analizzare il territorio e i bisogni energetici più urgenti dei luoghi visitati, studiando così la possibilità di realizzare in loco sistemi alternativi, come centrali eoliche, solari od idriche.

L’Associazione «Noè», in sinergia con studi tecnici italiani, oltre alla campagna di sensibilizzazione, cornordinerà il progetto e ne curerà l’attuazione sino al collaudo finale. Inoltre, in stretta collaborazione con varie facoltà universitarie e alcuni missionari della Consolata, provvederà alla formazione di tecnici locali, al fine di dare «un valore aggiunto» agli sforzi profusi e garantire, soprattutto, che le opere durino nel tempo.
Il 29-30 settembre 2000 l’iniziativa è già stata presentata all’università di Parigi da Luigi Toscano, presidente dell’Associazione «Noè», su invito di Antonio Gioelli, rettore magnifico dell’università.
L’Assemblea universitaria, favorevole al progetto, ha delegato quale cornordinatore tecnico della progettazione l’ingegnere Massimiliano Longo, direttore generale del «Centro per le ricerche ed energie alternative» di Bruxelles.
L’elemento cardine del progetto sarà il motore ad idrogeno, brevettato negli anni ’70 dallo stesso ingegner Longo e riconosciuto come valido dal premio Nobel 1977 Giulio Natta, collaboratore scientifico dell’Università europea del lavoro di Bruxelles (Uet).

L’Associazione «Noè» si rivolge a quanti credono che si possa (anzi si debba) rispettare la terra e le risorse che il Creatore vi ha elargito, usandole non solo per i propri bisogni, ma anche con metodi di conservazione, onde garantire anche ai posteri un mondo più vivibile e «a misura d’uomo».
«Noè» sollecita tutti ad unire al più presto le forze, per ingaggiare una «crociata» contro l’inquinamento. Purtroppo sono brutte le notizie giunte dall’Aja, durante la Conferenza mondiale sui mutamenti climatici (24-26 novembre 2000): Stati Uniti ed Europa hanno penosamente litigato, mancando l’accordo per ridurre i gas che producono l’effetto serra.
D’altro canto, non è più possibile ascoltare le notizie allarmanti dei mass media e pensare: «Sono problemi troppo grandi per noi. Non possiamo farci nulla!». Al contrario, ognuno deve assumersi la sua responsabilità e dire «basta!» per mutare politica.
È risaputo che una fresca, limpida e pura sorgente d’acqua di montagna è costituita da tante piccole gocce.

Luigi Toscano




Ricordati del grembiule

Un giornocambia mestiere.
Un mestiere che lo «costringe» anche a vivere faticosamentecon africani e latinoamericani.
È la scelta di Pino, di San Vito dei Normanni (BR). Prete da pochi mesi, si appresta a raggiungere il Congo in guerra.

Negli anni ’84-85 infuriava la siccità in Africa, specialmente in Etiopia. I mezzi di comunicazione riportavano scene di morte. Ed io volevo fare qualcosa.
Visitai alcune associazioni di volontariato, offrendo la mia disponibilità per qualche mese d’impegno. Ma tutto era complicato, perché ero del sud, mentre quasi tutti gli organismi di volontariato operavano nel nord. Non potevo partecipare agli incontri di formazione.
Un giorno, a Lourdes, conobbi don Pietro De Punzio, che tutti gli anni andava in Africa per un’esperienza missionaria. «Pino – disse -, perché non vieni con me?». Ci andai: precisamente in Kenya, dai missionari della Consolata a Wamba. Non feci un granché, però vidi la vita tirata della gente e, soprattutto, compresi che non bastava un mese in Africa per essere missionario.
Intanto facevo il cuoco. Però l’esperienza di Wamba mi spinse a ricontattare in Italia i missionari della Consolata. «Posso lavorare con voi due anni?» chiesi a padre Giano. Poi lo raggiunsi a Bedizzole (BS). Qui capii che neppure due anni sono sufficienti per essere missionari. «Bisogna scegliere la missione ad vitam» disse padre Giano.
– Ad vitam! Che significa?
– È latino, ragazzo mio.
– Ma io sono cuoco.
– Un po’ di latino dovrai studiarlo, se vorrai essere prete-missionario.

Lasciai i fornelli
e, a 26 anni, ritornai sui banchi di scuola. Capii presto che il missionario vero offre agli altri tutta la propria vita, per sempre. Ecco cosa vuol dire «ad vitam».
Conseguii la maturità magistrale a Bedizzole, frequentai un biennio di filosofia a Torino e, dopo il noviziato a Vittorio Veneto, feci voto di povertà, castità e obbedienza. Con tale scelta, canonicamente ero missionario della Consolata. Cercai di spiegarlo anche a mamma Grazia, già vedova da 15 anni dopo la morte del papà per malattia.
– Pino, che significa missionario canonicamente?
– Significa che ora sono nella famiglia dei missionari della Consolata.
– E partirai subito per la missione?
– Non subito. Prima devo studiare teologia, per essere prete.
– Figlio mio, hai 32 anni. Chi troppo studia matto diventa.
Era la prima volta che la mamma si opponeva ai miei progetti. Ero l’ultimo di quattro fratelli e la mamma ha sempre avuto un debole per il più «piccolo», senza far torto agli altri figli già sposati. Mi concedeva libertà, che gestivo «facendo le stagioni» come cuoco in Puglia.
Ora, però, le costava perdermi. Il ragionamento della nuova famiglia non la convinceva. Inoltre, abituata a vivere con me e non più giovane, temeva la vecchiaia… Ma, dopo tante lacrime, sospirò: «Sia fatta la volontà di Dio». Lo mormorò in dialetto, che non so scrivere…
Studiai teologia a Roma in un seminario internazionale. Eravamo in 24 di 11 paesi. Nel primo anno ero l’unico italiano. Questo comportò delle difficoltà. Per esempio: accettare gli altri come sono e farsi accettare come si è. La diversità dell’altro, specie se di cultura diversa, fa paura. Ma non si deve accettarlo con idealismo, bensì con realismo, soprattutto negli aspetti discutibili. Discutibili siamo tutti.
Inoltre in seminario è facile farsi il nido. Al mattino si va all’università, poi ognuno studia in camera sua. Sì, c’è la preghiera comunitaria. Però il tempo per vivere insieme non è molto. Questo può favorire l’individualismo, che è pericoloso per un missionario.
Dietro a queste parole, c’è una verità scomoda, di fronte alla quale talora ci si tira indietro… Anch’io mi sono detto: «Lascia perdere, Pino. Ritorna a fare il cuoco».
In quel momento di crisi, il mio formatore mi ha chiesto a bruciapelo: «Com’è la tua preghiera?». Allora ho capito che, prima di riindossare il berretto dello chef, dovevo fare «qualcos’altro».

Divenuto prete
il 7 ottobre 2000, oggi sto studiando francese. Nel mio orizzonte c’è il Congo di Mobutu e Kabila, ma anche degli ugandesi e rwandesi che gli hanno dichiarato guerra. Una guerra che in due anni circa ha mietuto quasi tre milioni di morti. Volevo una missione «forte». Eccomi servito, a 37 anni, dopo 11 di attesa.
Alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale, ho ricevuto un regalo significativo: un grembiule. Mi ricorda il mio passato di cuoco e cameriere. Ho trascorso anni a servire nei ristoranti. Oggi inizio un servizio diverso con un nuovo grembiule.

Pino Galeone




Il silenzio è complice del male

Una «nuova colonizzazione» per l’Africa? Nonscherziamo, per favore!
Il problema del continente africano e del mondo intero è un sistema economico dove detta legge una «trinità satanica», formata da «Fondo monetario
internazionale», «Banca mondiale» e «Organizzazione mondiale del commercio». Un mondo unificato sotto le insegne dell’«impero del denaro» (il cui cuore pulsante è la speculazione finanziaria), dove la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa. Parole di fuoco (e, a volte, anche discutibili) quelle di Alex Zanotelli, missionario scomodo.

LA «TRINITÀ SATANICA»

È riduttivo dire che l’Africa è in pasto alle multinazionali. Non si tratta solo di questo. La cosa è molto più sofisticata. Le multinazionali, essendo molto intelligenti, usano le strutture inteazionali per fare la loro politica. In particolare, usano il «Fondo monetario», la «Banca mondiale» e l’«Organizzazione mondiale del commercio» (io li chiamo la «trinità satanica» dell’impero del denaro) per portare avanti i loro interessi.
Ricordate il Mai, l’«accordo multilaterale sugli investimenti», che (per ora) siamo riusciti a bloccare? Esso non è altro che la politica delle multinazionali per entrare negli stati e prendersi i mercati senza colpo ferire.
Il Mai è stato poi tradotto e affinato dagli Stati Uniti nel «Nafta for Africa» («African Growth and Opportunity Act», approvato dal congresso nordamericano lo scorso maggio).
Qual è la filosofia che sottende? In pratica la seguente: diminuire il potere degli stati, perché «meno stato c’è, meglio si va»; abbattere tutte le barriere, affinché i potentati economici siano facilitati ad investire e comperare ovunque. Una multinazionale può comperare quello che vuole.
Guardate quello che sta avvenendo in Mozambico, dove le multinazionali (magari attraverso i boeri del Sudafrica) si spostano là per acquistare migliaia di ettari di terreno. Lo comperano in chiave agricola, con un occhio di riguardo per il sottosuolo.
La politica è quella di favorire una agricoltura da esportazione e non per la sussistenza. Il Kenya produce tè e caffè, ma il caffè buono lo potete bere solo in Italia e il tè buono solo a Londra. I kenyiani o non lo bevono o hanno il peggiore. Questo è il tipo di logica.
Pensate al Congo, con una guerra voluta, ma voluta fino in fondo e andrà avanti così. Perché meno stato c’è in Congo, meglio le multinazionali funzionano. Le multinazionali dell’oro, dei diamanti, del cobalto hanno i loro eserciti.
Pensate al ruolo del Sudafrica (e qui Mandela si è fatto… fregare). Nella guerra del Congo sono coinvolte 11 nazioni, una vera guerra mondiale o continentale almeno. Ho visto le statistiche: si parla di 1 milioni e 700 mila morti in 22 mesi di guerra. Ma sui nostri giornali e le nostre televisioni non se ne parla…
Ora sto a guardare cosa farà la politica nordamericana nel Sudan, perché, da quanto mi dicono, i giacimenti di petrolio sudanesi sono i più grandi del mondo. Si dice che gli Stati Uniti potrebbero fare a meno del petrolio mediorientale se il petrolio del Sud Sudan andasse a Mombasa…
Nel 1998 Clinton fece un lungo viaggio africano proprio per promuovere la filosofia americana del «trade, not aid» (commercio, non aiuto). Chiarissimamente per favorire gli Stati Uniti (utilizzando la potenza amica e subalterna del Sudafrica) nella conquista di un grande mercato potenziale di 700 milioni di consumatori! È questo in fondo quello che sta dietro a tutto. Ormai i mercati sono saturi. Non sappiamo più a chi vendere, continuiamo a produrre, ma alla fine dobbiamo domandarci per chi produrre. L’Africa è un mercato nuovo, perché non aprirlo?, si sono detti gli americani. Sapete che, durante il suo ultimo viaggio in Nigeria, Clinton aveva con sé 1.000 uomini d’affari statunitensi?
Questo è lo scopo essenziale. Questa legislazione permetterà ai presidenti americani di stipulare accordi bilaterali con i presidenti degli stati che risponderanno ai requisiti di «elegibility». È chiaro che le nazioni africane desiderano moltissimo entrare nell’accordo. Perché vedono arrivare i soldi americani. È una maniera per salvarsi dal suicidio collettivo in cui l’Africa sta sprofondando.
E ora che gli Stati Uniti si stanno preparando per un altro grande trattato: quello con la Cina. Quello con l’Africa è soltanto l’antipasto, dopo c’è la Cina. Con il Nafta per l’Africa gli Stati Uniti stanno entrando (ma entrando alla brutta o alla grande) nel continente.
Dal Nafta per l’Africa sta emergendo chiaramente che la politica americana è di un imperialismo incredibile. Mi fa un male boia ammettere questo, perché gli Stati Uniti partirono (solo 200 anni fa) ribellandosi contro il colonialismo britannico. Tredici repubbliche che volevano la loro dignità e che sognavano un mondo alternativo. Guardate in 200 anni come si può cambiare.
PRIVATIZZARE… LA MISERIA
Altrettanto importante è la logica delle privatizzazioni. Osservate l’insistenza sul privatizzare l’educazione, la sanità… Sapete cosa vuol dire questo per l’Africa? Cosa significa per 300 milioni di persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno? Significa privatizzare la miseria. Anche in Italia questo tipo di politica la pagano i poveri. Negli Stati Uniti oggi siamo arrivati a 40 milioni di poveri. Mai il paese più potente del mondo era arrivato ad avere un tale numero di poveri…
Io non ho bisogno delle statistiche per capire la sofferenza della gente. Basta che guardi Korogocho e il Kenya. La scuola è un macello: i ragazzini non riescono più ad entrarvi, perché i genitori non hanno soldi per pagarla. E mi riferisco alla scuola pubblica! Fra qualche anno a Nairobi ci sarà il 50 per cento di ragazzi che non potranno entrare in prima elementare. Sapete cosa vuol dire il 50 per cento in una città di 4 milioni di abitanti? È una bomba! Ecco il risultato delle privatizzazioni.
Vedo la sofferenza della gente che non può più andare a curarsi all’ospedale, perché non ci sono soldi. Vedo sempre più gente che abbandona i cadaveri al governo o che cerca di seppellirli di nascosto…
Una volta vidi un uomo disperato, perché gli era morto il bambino. Questo padre era andato al fiume per cercare di seppellire il figlio, ma la gente lo aveva notato. Da tre giorni teneva il bambino morto in casa, perché non aveva i soldi per seppellirlo. Alla fine, l’uomo chiese una cosa soltanto: essere aiutato per tornare al suo villaggio, dove la sepoltura gli sarebbe costata molto meno. Pose il corpicino in un sacco e con esso si mise in viaggio.
Questi sono i drammi quotidiani che viviamo in Africa.
Lo stesso Fondo monetario internazionale dice che 1 su 5 bambini in Africa muore prima dell’età di 5 anni. Il 50 per cento degli africani vive sotto la linea della povertà assoluta e il 40 per cento con meno di un dollaro al giorno. L’interesse sul debito assorbe già oggi l’80 per cento di tutto quello che le nazioni africane ottengono vendendo i loro prodotti sul mercato. Il 40 per cento degli africani soffre di malnutrizione e di fame; oltre 42 milioni di bambini non riescono ad entrare in prima elementare. L’Africa è il solo continente al mondo dove l’immatricolazione nelle scuole è in declino, è l’unico continente dove l’educazione perde di qualità perché non ci sono più soldi per investire.
Quando avete una situazione economica del genere e fate passare una legislazione come quella del Nafta per l’Africa, io non ho dubbi nel dire che si tratta di un genocidio pianificato.
Però, sento gente come Indro Montanelli e Sergio Romano, ma anche padre Piero Gheddo, che invocano una nuova colonizzazione per l’Africa. Fare affermazioni di questo tipo è scandaloso, dopo tutto quello che abbiamo fatto a quel continente.
LA VERGOGNA DELLE ARMI ITALIANE
In Italia, a tutte le manifestazioni cui partecipo, continuo a ripetere: ma voi sapete da dove vengono molte delle armi (soprattutto le cosiddette «armi leggere») delle guerre africane? Dal nostro paese. Però, un silenzio incredibile è calato su questo problema. È scandaloso che si vada avanti a spendere quello che spendiamo in armi, a produrre quello che produciamo in armi.
L’altro giorno ero a Quarrata (Pt) con il capogruppo di rifondazione della Camera, Giordano. Questi mi ha detto: «Alex, hai saputo le ultime novità?» No, dico, vengo da Korogocho e le ultime novità non le so. Cosa c’è? «L’Italia ha appena comperato l’Eurofighter, un aereo da guerra del costo di 120 miliardi. E ne ha ordinati 100».
È possibile che debba venire un imbecille da Korogocho per ricordarvi questo? Questo è un fatto di una gravità estrema. Non so perché Pax Christi non protesti immediatamente. Non si trovano soldi per le scuole, per la sanità e li trovano per 100 aerei militari. Ma per fae che cosa? Domandatevelo.
Voi sapete tutte le armi che si producono in questo paese? Ma è possibile che in Parlamento dorma ancora la norma sulle armi leggere? C’è una proposta per mettere al bando la loro produzione e l’export. Ma la legge non va avanti.
Però quello che più mi preoccupa è il vostro silenzio. Quando sento queste cose io mi sento male e mi domando perché nessuno protesti. Sulle armi vi prego di tornare agli anni Ottanta; allora c’era molta più vivacità in questo paese, c’era molto più senso della lotta.
Ronald Reagan (un presidente che io metto a fianco di Stalin, per tutti i massacri che, coscientemente, ha perpetrato nel Centro America) per primo parlò di guerre stellari. Poi però rinunciò a quel folle progetto. È concepibile che ora se ne torni a parlare? Può darsi che Gore abbia qualche idea più liberale di Bush, ma alla fine chiunque vinca deve fare quello che la logica del mercato richiede. Altrimenti non vanno avanti.
NO AL «DIO» DEL SISTEMA
Davanti a noi non c’è soltanto l’Africa, ma è l’intero mondo che è minacciato, gravissimamente minacciato di morte. Tutti noi siamo minacciati. Questo è un sistema che crea morte a tutti i livelli.
L’Africa è emblematica come continente e su di essa scende sempre il silenzio e il non parlarne accresce ancora di più l’impressione. L’Africa è un paradigma dove impegnarsi.
Io ho come riferimento la tradizione profonda della bibbia e del giubileo. Il quale, per favore, non è roba da pellegrinaggio, soprattutto in questo tipo di società. Sono tutte cose che facciamo, ma il giubileo biblico è un’altra cosa. Non lo possiamo dimenticare. Il giubileo biblico è «il sogno di Dio».
Il problema di oggi non è l’ateismo. Per me l’ateismo è il primo passo verso la fede. Quando abbiamo ridotto Dio al dio del sistema, al dio degli Stati Uniti, al dio di questa società, l’unica maniera per riscoprire la fede è l’ateismo perché devi sbarazzarti di «questo» dio.
Il vero problema è il materialismo quotidiano, l’idolatria. Anche noi come chiesa abbiamo adottato tutti gli idoli di questa società dal massimo profitto: soldi, successo e via di questo passo.
Fare giubileo vuol dire ritornare al «sogno di Dio», legare economia e vangelo. Un gesuita inglese dice: noi leggiamo il vangelo come se non avessimo soldi in tasca e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del vangelo. E questa è la nostra realtà. Ecco perché siamo così integrati, così parte del sistema. Il giubileo è una cosa seria, è ritornare all’ideale che ci può essere una economia di uguaglianza dove i beni di questo pianeta servano a tutta la gente del mondo. Significa ritornare a una politica di giustizia, perché solo questa permetterà una economia di uguaglianza. Significa ritornare ad una esperienza di Dio, dove Dio è sentito come il Dio di schiavi, oppressi, marginalizzati, forestieri, immigrati. Di tutta la gente, insomma.
LA BOMBA DEI POVERI
Io dico a tutti di svegliarsi, perché l’altra bomba atomica è proprio quella dei poveri. Può scoppiare in qualsiasi momento. E, se scoppia, sorrideremo sul macello del Rwanda.

IL CAMMINO DI LILLIPUT

Oltre mille persone si sono ritrovate nel primo incontro nazionale della «Rete di Lilliput». Questa è la dichiarazione finale preparata dal Tavolo intercampagne e letta da Alex Zanotelli.

Marina di Massa, 6-7-8 ottobre 2000.

Nel momento in cui le leggi del profitto pretendono di dominare ogni ambito del vivere umano distruggendo la base naturale su cui si fonda la vita sul Pianeta e la politica è incapace di contrastare lo strapotere dell’economia dominante, noi oltre mille tra semplici cittadini, associazioni e gruppi, riuniti a Marina di Massa per il primo incontro della Rete di Lilliput, rivendichiamo il diritto di riappropriarci della facoltà di decidere sul nostro futuro e ci sentiamo parte integrante di una nuova forma di cittadinanza sociale che sta prendendo corpo nel Pianeta e che ha avuto una sua prima manifestazione a Seattle.
Nel contempo affermiamo che non basta battersi contro le principali storture del sistema, ma che dobbiamo ricercare delle alternative eque e sostenibili a questo assetto economico che genera esclusione, ingiustizie e distruzione del Pianeta.
I tratti fondamentali dell’alternativa che noi ci impegniamo a costruire si basano sulla sobrietà, la riduzione dell’impronta ecologica e sociale, l’esaltazione dell’economia locale ed il riconoscimento che i bisogni fondamentali sono diritti da garantire a tutti gli abitanti del Pianeta. Noi ci impegniamo fin d’oggi a costruire questa prospettiva organizzando gruppi di lavoro e campagne:
– per riaffermare la dignità del lavoro e la democrazia economica, costringendo le multinazionali alla trasparenza e alla responsabilità sociale e ambientale
– per ottenere una radicale riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale che fino ad oggi hanno generato disuguaglianze e oppressione sociale
– per l’annullamento del debito e il riconoscimento del debito ecologico dei paesi del Nord verso quelli del Sud
– per ridurre l’impronta ecologica e sociale dell’Italia proponendo alle famiglie un diverso modo di consumare, e spingendo gli enti locali e le istituzioni nazionali alla costruzione di filiere produttive alternative
– per promuovere la riconversione dell’industria bellica, per spingere le banche a non finanziare i traffici d’armi, per promuovere la tutela e i diritti dei migranti.
Sul piano della vita intea della Rete vogliamo costruire dei rapporti che esaltino la partecipazione, l’identità dei gruppi locali e il loro radicamento sul territorio, la costruzione di campagne comuni proponibili da tutti i punti della Rete, la costruzione di una struttura leggera di riferimento nazionale con compiti di informazione e servizio. Sappiamo che la nostra Rete costituisce una sfida per tutti perché è una novità assoluta che rompe con gli schemi del passato. Per questo ci impegniamo ad avviare un approfondimento interno a tutti i livelli per individuare forme ottimali di aggregazione e dilazione. Un segnale importante che va in questa direzione è la nascita di gruppi tematici emersi durante lo svolgimento dell’assemblea. Il primo passo di questo cammino è la costituzione di un gruppo di lavoro composto dal nodo locale genovese e dal tavolo intercampagne per organizzare la nostra opposizione alle politiche del G8 che si riunirà a Genova nel 2001.

L’IMPERO DEL DENARO

Caro onorevole, jambo! Penso che il viaggio in Africa e la visita a Korogocho sia stato un evento importante per te. Ti sarai accorto che vedere con i tuoi occhi e sentire con il tuo naso è tutt’altra cosa che guardare gli esclusi, in televisione o leggerli nelle statistiche.
Penso che le sofferenze dei poveri hanno cominciato a cambiarti come uomo: in questo ti sento vero e sincero.
Come leader politico ti ringrazio perché stai tentando di mettere l’Africa e la povertà globale al centro del dibattito. Non vorrei però che le sofferenze dei poveri diventassero semplicemente oggetto di manipolazioni, tatticismi e furbizie per ottenere consensi elettorali.
Per questo ho sentito il dovere di scrivere questa lettera aperta in cui esprimo la mia maniera di guardare alla realtà e ciò che da questo sguardo ne consegue.
Io guardo il mondo stando dalla parte degli impoveriti, cioè dalla parte dell’80% dell’umanità. Lo faccio come credente, perché tutta la tradizione biblica, ebraica e cristiana, da cui provengo sta dalla parte degli esclusi, perché il Dio di Mosé non è il Dio dei faraoni o di Clinton, ma il Dio dei crocefissi. Per la prima volta nella storia, il mondo è retto da un unico sistema: l’impero del denaro, il cui cuore è la speculazione finanziaria. Mai nella storia si era visto un impero tanto vittorioso e suadente, grazie alla forza dei mass media, da prenderci tutti nella sua ideologia.
Viviamo in un sistema economico dove il 20% degli uomini si pappa l’82% delle risorse a spese del resto dell’umanità. Il 20% dei più poveri ha a disposizione solo l’1,4% dei beni. Per me questo è un sistema di peccato. E la politica che cosa fa? Oggi la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa.
Questo sistema di oppressione si regge sullo strapotere delle armi: spendiamo ogni anno 800 miliardi di dollari in armamenti (ma il muro di Berlino non era crollato?). A che cosa ci servono? Per difendere i nostri privilegi dalla minaccia dei poveri.
Non dimentichiamo che chi vive nell’opulenza e la difende a denti stretti pone anche una gravissima ipoteca ambientale. Molteplici studi ci dicono che abbiamo non più di 50 anni per cambiare: è in ballo la vita del pianeta. L’impero del denaro uccide, quindi, con la fame (30 milioni: un «olocausto» ogni anno), con le armi (conflitti africani, regimi repressivi, guerre stellari), con la distruzione dell’ambiente, con l’annientamento delle culture.
È un sistema di morte che ci interpella tutti, credenti e non, perché mina la vita stessa. Se questa analisi è vera e condivisibile, dobbiamo smetterla di raccontarci la storia di uno «sviluppo sostenibile». O cambiamo rotta o cadiamo nel baratro.
Tocca alla politica reinventare la politica e anche lo stato, perché l’economia torni a servire la polis. La politica e il far politica devono rispondere alle esigenze della gente e soprattutto della vita, della vita per tutti.
Alex Zanotelli

(*) Sintesi di una lettera aperta indirizzata da padre Zanotelli a Walter Veltroni. La scorsa estate il segretario dei Ds aveva effettuato un lungo viaggio in Africa, visitando anche Korogocho. Quell’esperienza è stata raccontata nel libro Forse Dio è malato (Rizzoli, 2000).

IL DIVERSO E’ VERAMENTE UNA MINACCIA?

Le affermazioni del card. Biffi sull’immigrazione islamica sono di una gravità estrema. Ne sono rimasto esterrefatto, perché se incominciamo a dividere la gente così, non usciamo più dallo scontro. E potremmo davvero muoverci verso forme di pulizia etnica.
La grande domanda posta da Susan George è semplicissima: il miliardo e mezzo di persone, i poveri, gli inutili per il sistema attuale, hanno diritto sì o no di vivere? Sapete voi quanti episodi di razzismo ci sono in giro? È chiaro che c’è un rifiuto dell’altro. E guardate che qui anche Marx (che pure ha indovinato tante cose) si è preso una bella sventola. La teoria marxista, riprendendo quella di Rousseau, afferma che l’uomo è buono: è la società che lo rende cattivo. Purtroppo altri hanno dimostrato che la violenza non viene dalle istituzioni, ma da ogni uomo. Il rifiuto dell’altro ce lo portiamo dentro. Me lo trovo anch’io, a Korogocho, tra i derelitti.

Un giorno incontrai una ragazza di 23 anni. La salutai, chiedendole come si chiamasse. Lei rispose: «Mi chiamano Omarì». Come – dissi – ti chiamano, ma tu come ti chiami? «Mi chiamano». E io: non prendermi in giro! «Mi chiamano Omarì» insistette. Allora chiesi: a che etnia appartieni? «Non lo so». La guardai stupefatto: sei il primo africano che non sa a che etnia appartiene; l’appartenenza è talmente forte per un africano! «Tu non mi conosci, Alex. Io sono una ragazza che, piccolissima, si è ritrovata sulle strade di Nairobi insieme ad altri ragazzi e loro mi chiamavano Omarì. Non so quale sia il mio vero nome, non so chi sia mio padre, mia madre, non so niente. Sono cresciuta sulle strade. Un giorno, verso i 12-13 anni, un uomo mi violentò ed ecco il mio primo bimbo. Andai avanti così. Poi un secondo uomo mi fece violenza ed ecco il secondo bimbo. A quel punto, vinta dalla città, scappai nella discarica vicino a Korogocho. Qui la gente mi guardava e chiedeva da dove venivo, cosa facevo, perché non ero dei loro. Alla fine mi hanno sbattuta fuori. Fuori dalla discarica».
Le domandai dove era andata a vivere. «Vivo nella parte estrema di Korogocho, raccogliendo frutta marcia per me e i miei bambini e, di notte, dormendo anche sotto le bancarelle che di giorno vendono frutta. Alex aiutami!». La mandai nel gruppo della discarica dove per un po’ fu aiutata. Poi sparì.
Poche settimane fa Omarì è ritornata. Con tre ragazzi… Ho guardato la bambina più grande e le ho chiesto: e questa chi è? La ragazza mi ha risposto: «L’ho incontrata l’altro giorno per strada. Le ho chiesto chi fosse e dove erano i suoi genitori. Lei mi ha detto: non li conosco, non ho nessuno, posso venire con te?». Insomma, oggi Omarì è una donna di 23 anni con tre bambini… Non ho potuto fare altro che dirle: «Vieni, vieni con noi, Dio provvederà!».
Una storia assurda per una logica assurda che esclude, perché «non è una di noi, non è dei nostri».

Oggi in Italia è importante uscire da questa logica dell’altro. Provo una grande sofferenza nel vedere il razzismo crescente, il rifiuto dell’altro, anche in chiave religiosa. Io dico a tutti: perché abbiamo paura dei musulmani? Ho studiato teologia musulmana, corano, arabo classico, storia, e ne sono rimasto profondamente impressionato. Quando, per esempio, leggevo i mistici musulmani, non ci trovavo nessuna differenza con Giovanni della Croce o Teresa d’Avila. Quanto più entriamo nella realtà e le situazioni si rivelano complesse, tanto più i nostri slogan diventano semplicistici. Perché tutto ciò che non è bianco non è nero. Tutto ciò che non ci appartiene non è contro di noi, tutto ciò che non è cristiano non è marxista, tutto ciò che non è musulmano non è imperialista o diabolico, tutto ciò che non ci rassomiglia non è una minaccia. Le generalizzazioni, alimentate dalla propaganda politica e religiosa, sono un pericolo.
Al.Za.

Alex Zanotelli




I neri, ancora incatenati – Speciale BRASILE

Il conto è presto fatto: tre secoli
di schiavitùe uno di libertà, fanno
quattrocento anni di sfruttamento. Cosìi neri brasiliani riassumono la loro storia… in attesa di riscatto.

AFRICA ADDIO
All’inizio sono gli indios a essere costretti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Poi qualche colono importa illegalmente alcuni schiavi neri. Forti e muscolosi, danno risultati eccellenti. Le poche gocce diventano un diluvio.
Nel 1539 è inoltrata a Lisbona la richiesta di schiavi africani. Nel 1550 la tratta dei neri diventa sistematica, con tutti i timbri dell’ufficialità. Nel 1570 inizia l’importazione in massa.
A mano a mano che si sviluppano industria zuccheriera e coltivazione del tabacco, industrie minerarie e piantagioni di caffè, il traffico negriero aumenta di anno in anno con un crescendo vertiginoso. In tre secoli arrivano in Brasile quasi 4 milioni di africani. Nella tabella seguente sono riportate le cifre più attendibili, calcolate per difetto.
Africa-Bahia, viaggio diretto, ma terribile: metà degli schiavi periscono in alto mare. Solo i più giovani e forti sopravvivono alle burrasche della traversata, con poco cibo e acqua rancida. «Ne muoiono troppi sulle navi negriere. Sotto sotto non ci sarà un imbroglio?» si lamentano i sovrani portoghesi; non per compassione, ma perché riscuotano le tasse per ogni nero che sbarca vivo.
I neri sbarcati in Brasile appartengono a due gruppi principali: bantu e sudanesi. Il primo proviene dal Mozambico (angico), Congo e Angola (cabinda, bakongo, benguela). Il secondo è composto da etnie e regni affacciati sul Golfo di Guinea: minas, jeje, ewe, nagô (di lingua youruba, Nigeria), haussá e tapa. Gli ultimi tre gruppi sono islamizzati, per cui sono detti muçulmis o più comunemente malês.
Portati al mercato, gli schiavi sono subito sottoposti al processo di distruzione d’identità e memoria storica: i preti li battezzano per farli cristiani; i compratori li dividono: marito dalla moglie, genitori dai figli; quelli di una stessa cultura sono mescolati in altri gruppi etnici; così non avranno la possibilità di fare combutta e ribellarsi.

A SUON DI FRUSTA
Una certa letteratura brasiliana parla di «schiavitù soave» e «signori buoni». La schiavitù è crudele per natura; se cessa di esserlo, non è perché il padrone diventa migliore, ma perché il servo si rassegna all’annullamento della sua personalità. Di fatto la giornata non ha nulla di «soave» per i neri brasiliani: lavorano dalle quattro del mattino fino a tarda sera. Toati alla senzala trovano altri lavori da sbrigare. Alle nove vanno a dormire: le porte sono chiuse; chi ha grilli per la testa viene incatenato.
Disobbedienza e impertinenza sono pagate a colpi di chicote (frusta). Legati al pelourinho (palo della gogna), i colpevoli vengono fustigati in pubblico, perché gli altri schiavi imparino la lezione. A volte essi vengono consegnati al calabouço, luogo di tortura istituzionale, dove altri fanno il lavoro sporco: il padrone deve solo stabilire il numero di frustate e avrà la coscienza a posto.
Se il servo alza la mano contro il padrone o un familiare, gli può essere tagliata una o tutte e due le mani, o subire torture ancor più sadiche, secondo le Ordenações Filipinas (1603). Un editto reale del 1741 ordina che lo schiavo fuggitivo sia marchiato con una grande F sulle spalle, impressa con un ferro rovente; di tagliargli un orecchio se recidivo.
Di fatto il signore ha sullo schiavo potere assoluto, compreso quello di vita o di morte. Lo può vendere, torturare o liberare. La legge lo protegge in ogni caso. Agli schiavi, invece, considerati come cose o bestie da soma, non è riconosciuto alcun diritto; neppure quello di fondare una famiglia. La proibizione di separare i coniugi e le madri dai figli minorenni arriverà solo nel 1871, 17 anni prima dell’abolizione della schiavitù.
Naturalmente tutto dipende dal buon cuore del padrone. In generale, però, i signori sono pomposi e ignoranti; spesso più ignoranti di certi schiavi, come i malês: poliglotti e matematici, contabili maliziosi, essi tengono i conti e fanno da precettori ai figli del padrone.

RESISTENZE
Molti neri portati in Brasile sono guerrieri e figli di re: nessun castigo può piegare la loro fierezza. La maggioranza fa finta di sottomettersi; ma poi, lontana dall’occhio del padrone, estrae dalla memoria riti e feticci per riaffermare la propria cultura e gettare il malocchio sugli oppressori.
Le forme di resistenza alla schiavitù sono molte e variegate: dall’assassinio del padrone e suoi attendenti al suicidio individuale e collettivo, al banzo, tragica nostalgia che approda alla morte. Con la propria fine lo schiavo sa di privare il padrone di un importante capitale.
La forma di protesta più frequente, però, è la fuga per rifugiarsi nei quilombos: villaggi fondati nel cuore della foresta per riconquistare la propria libertà. Ne sorgono a migliaia, dappertutto e di ogni dimensioni. Spesso vi confluisce tutta la gamma degli oppressi della società schiavista: indios, meticci, bianchi impoveriti, giovani che fuggono il servizio militare. Nei villaggi più consistenti i neri organizzano tutti gli aspetti della vita: sociale, politica, economica, religiosa e militare, soprattutto per respingere i tentativi di riportarli in cattività.
Il quilombo più famoso è quello di Palmares. Iniziato prima del 1600, tra i monti della Serra Barriga, nell’attuale stato di Alagoas, raggiunge il massimo splendore verso il 1630, quando gli olandesi occupano Peambuco. Palmares si organizza in repubblica confederale di 18 villaggi, presieduta da un capo, chiamato «re», e da un consiglio. Lo sviluppo agricolo permette di vendere il surplus ai bianchi circostanti.
Espulsi gli olandesi (1654), per quasi 70 anni il governo di Peambuco e i signori dello zucchero cercano inutilmente di distruggere Palmares. Nel 1695 il quilombo viene spazzato via da un’armata di 11 mila uomini, il più grande esercito organizzato in periodo coloniale.
Nella resistenza si distingue il capo Zumbi. Nato libero a Palmares, egli rifiuta di barattare la libertà e indipendenza del suo popolo col perdono e terre, offertegli dal governatore di Peambuco e dallo stesso re del Portogallo, a patto che cessi di difendere la causa degli schiavi.
Tradito dai collaboratori, Zumbi è catturato e decapitato a Recife il 20 novembre 1695. Oggi egli è una bandiera per tutti gli emarginati brasiliani, simbolo di lotta per la libertà e la costruzione di una nazione senza padroni e senza schiavi.
Intanto le rivolte dei neri si propagano anche alle città. Le più note scoppiano a Salvador de Bahia: nel 1807, 1809, 1813 si ribellano gli haussás islamizzati; nel 1826-30 si rivoltano i nagôs, che finiscono in un bagno di sangue; nel 1835 ancora gli haussás: sono massacrati tutti, dai bambini appena nati ai vecchi cadenti. Non minore sconcerto suscita la rivolta di Tupá (São Paulo, 1813), dove 600 neri attaccano tutte le proprietà della regione e vengono eliminati senza misericordia.
PADRONI «LIBERATI»

Nel secolo XIX la condizione disumana degli schiavi è denunciata con veemenza in tutto il mondo. Le motivazioni umanitarie si mescolano a quelle di pura convenienza. José Bonifacio de Andrada, «padre dell’indipendenza» del Brasile, dimostra come la schiavitù sia un’assurdità economica e causa di corruzione sociale: «Venti schiavi richiedono 20 zappe, che si possono risparmiare con un solo aratro… Colui che vive del sudore degli schiavi, vive nell’indolenza e l’indolenza porta al vizio».
Sotto le pressioni intee e inteazionali, nel 1850 il Brasile proibisce la tratta degli schiavi (legge Eusebio de Queiroz). Questi vengono importati di contrabbando; ma i prezzi sono proibitivi. Inoltre, nell’economia capitalista, il lavoro salariale è ormai più conveniente della schiavitù, che comporta il mantenimento di africani tristi e ribelli, di «merce» improduttiva come vecchi e bambini.
Ci pensa il governo a «liberare» i padroni dal mantenere tante bocche «inutili»: nel 1871 la «legge del ventre libero» affranca tutti i nati dopo tale data; nel 1885 è la volta degli schiavi sessantenni. Nel 1888, quando la regina Isabella firma la «legge aurea», che abolisce definitivamente la schiavitù, appena il 5,6% della popolazione nera beneficia di tale evento. Ormai di veri schiavi ne sono rimasti pochi: molti sono già affrancati, altri si sono liberati da soli, con la fuga.

RAZZISMO ALLA BRASILIANA
La «legge aurea» introduce il Brasile nel consesso delle nazioni civili; ma non cambia nulla per i neri. A suo tempo José Bonifacio aveva suggerito come procedere all’affrancamento: «Fate dei neri degli uomini liberi e fieri; offrite loro incentivi, proteggeteli, ed essi si riprodurranno e diventeranno cittadini preziosi».
I neo-liberti, invece, restano senza casa, né terra, né famiglia (0,8% di sposati). Per loro non c’è nessuno degli incentivi concessi agli immigrati. Analfabeti al 99%, buttati senza alcuna preparazione nel mondo competitivo del capitalismo, i neri costituiscono da subito un serbatornio di manodopera usa e getta, in balia del mercato del lavoro e della miseria più nera: cessano di essere schiavi e diventano «il problema» del Brasile, da rimuovere al più presto.
La società brasiliana pensa di risolvere «il problema» con lo «sbiancamento» della popolazione, favorendo l’entrata massiccia di immigrati europei dalla pelle più chiara possibile. L’idea è bene illustrata da Roosvelt, presidente Usa, in visita al paese nel 1914: «In Brasile l’ideale principale è la scomparsa del nero, gradualmente assorbito nella razza bianca. L’enorme immigrazione europea tende, decenni dopo decenni, a rendere il sangue nero un elemento insignificante in tutta la nazione».
Qualcuno calcola il tempo necessario per completare tale processo di sbiancamento. Così scrive, e prega, Afrânio Peixoto nel 1923: «Forse impiegheremo 300 anni per mutare l’anima e sbiancare la pelle… per depurare questo immane miscuglio umano. Avremo albumina sufficiente a raffinare tutta codesta scoria? Dio ci assista, se è brasiliano».
La preghiera è rimandata al mittente: i brasiliani di pelle nera aumentano di anno in anno, fino a formare oggi il 70% della popolazione del paese; e non hanno intenzione di sbiancarsi, né di continuare a essere dominati.
Per spezzare le catene dei meccanismi di oppressione e rivendicare i loro diritti, i neri si organizzano: nel 1931 nasce il Fronte brasiliano nero e promuove una forte presa di coscienza economica e politica. Il dittatore Vargas lo sopprime nel 1937.
Negli anni ’70 sorgono altri movimenti di «coscientizzazione» della gente di colore e della società brasiliana in generale: Unione e coscienza nera, Movimento nero unificato, gruppi di agenti pastorali neri… Arriva qualche risultato: i primi deputati neri entrano in parlamento; a scuola, radio, televisione e nei giornali vengono dibattuti i problemi della popolazione di colore.
Matura così una duplice presa di coscienza: la popolazione nera, da una parte, riacquista la memoria del ruolo storico giocato nello sviluppo del paese e rivendica il proprio posto nella situazione presente. Dall’altra parte, i brasiliani nel loro insieme prendono coscienza che, senza i neri, il Brasile non sarebbe il Brasile.
Da decenni si parla di «democrazia razziale»; a cento anni dall’abolizione della schiavitù il paese ha riscritto la costituzione, affermando che «la pratica del razzismo costituisce un crimine imprescrittibile, soggetto alla pena di reclusione»; ma il nero continua a essere discriminato in tutti i campi della vita sociale, politica, economica e religiosa.
«Il Brasile resta uno dei paesi più razzisti del mondo – afferma José de Souza Martins, docente di sociologia -. È un razzismo diverso da quello nordamericano; non si vede; la gente tace, ma discrimina. I ghetti sono sempre neri. Nelle università pochi neri e tanti bianchi; il rapporto si rovescia nelle prigioni. E quando un nero ce la fa, diventa campione di calcio o re del samba, ripetono quello che dicevano di Pelé: “Ha tanto buonsenso che sembra un bianco”».

Benedetto Bellesi




In barba ai “cattolicissimi”

Alla Spagna, l’altro beneficiario della spartizione del globo, toccano l’America e, dopo varie scaramucce, le Filippine. A differenza del Portogallo, che si accontenta di occupare punti strategici lungo le coste, la Spagna cerca di stabilirsi in profondità. Conclusa la conquista comincia l’evangelizzazione sistematica. I re di Spagna s’interessano personalmente dell’amministrazione ed evangelizzazione dei territori. E prendono sul serio gli impegni imposti dal patronato. Dal 1535 al 1592, per esempio, sono inviati nelle colonie 2.682 religiosi e 376 preti diocesani. In un secolo sono create 34 diocesi in America Latina.

Il vangelo in America

«I nostri re ci hanno mandato non per soggiogarvi, ma per insegnarvi la vera religione» dice Cristoforo Colombo agli indigeni de La Española (Haiti), mentre pianta la croce al suolo, prendendo possesso dell’isola in nome dei re di Spagna. Una promessa mantenuta solo per metà: di fatto gli indigeni verranno soggiogati; quanto all’insegnamento della vera religione è tutto merito dell’azione della chiesa.
Le Antille sono le prime a ricevere coloni e missionari: una quindicina di francescani (1502), seguiti da un gruppo di domenicani. Nel 1511 vi sono già tre diocesi. Ma non è una facile impresa. I missionari si scontrano spesso con i propri compatrioti: soldati, mercanti, avventurieri d’ogni risma che, di per sé, non sono ostili alla religione, anzi. Ma della religione hanno un concetto talmente distorto, da non saper più distinguere tra fede e cupidigia, tra devozione e istinto. Per il fatto di essere cristiani, si sentono autorizzati a sottomettere chiunque e con qualsiasi mezzo.
Nell’intento di reperire manodopera per la coltivazione delle terre occupate e il lavoro nelle miniere, la Corona propone l’istituzione di un sistema già collaudato in patria: l’encomienda. Ai proprietari terrieri viene dato un certo numero di indigeni con l’impegno di nutrirli, proteggerli e istruirli nella fede cristiana; questi ripagano con il lavoro. I coloni trattano gli indigeni come bestiame umano: deportazioni, smembramenti di famiglie, lavori forzati.
Contro tali abusi insorgono i domenicani. Se ne fa portavoce Antonio de Montesinos: «Non vi salverete più dei turchi. Siete tutti in peccato mortale e in esso vivete e morite, a causa della tirannia con cui trattate questa povera gente» tuona dal pulpito il 21 dicembre 1511. Il fatto è raccontato da Bartolomeo de las Casas, domenicano pure lui, strenuo difensore dei diritti degli indigeni, tanto da meritarsi l’appellativo di «padre e protettore degli indiani».

Nel 1524, due anni dopo la mostruosa conquista operata da Ferdinando Cortés, arrivano in Messico i «dodici apostoli» francescani. A sette anni di distanza, il primo vescovo di Città del Messico, Zumárraga, traccia un bilancio del lavoro svolto: «Un milione di persone sono state battezzate; 500 templi di idoli distrutti; 20 mila dipinti di dèmoni bruciati. Un fatto ancor più meraviglioso: una volta gli abitanti di questa città sacrificavano ogni anno ai loro idoli 20 mila cuori umani; oggi offrono a Dio sacrifici di lode, grazie all’insegnamento e buon esempio dei religiosi». Dopo 15 anni i battezzati erano 6 milioni. La sera i frati andavano a dormire con il «crampo da battesimo». Lo testimonia il più famoso dei «dodici apostoli», Toribio da Benavente, detto Motolinía, cioè il povero.
Ai francescani si uniscono domenicani, agostiniani e, più tardi gesuiti, fondando scuole, ospedali, orfanotrofi e lanciandosi in una spettacolare gara di dedizione e carità. Il cristianesimo viene costruito sulla rovina della religione e cultura azteca, ma non mancarono tentativi di adattamento. Per trasmettere il messaggio del vangelo i missionari sfruttano gusti e attitudini degli indigeni: pitture, teatro religioso, gesti simbolici, splendore del culto ed esuberanza architettonica delle chiese.
A differenza dei conquistatori, i missionari non hanno alcuna intenzione di ispanizzare gli indiani. Fondano le loro missioni lontano dai villaggi dei coloni; imparano le lingue indigene; preparano grammatiche, dizionari e catechismi e tendono a capire in profondità i popoli che evangelizzano.
In questo campo si distingue soprattutto il francescano Beardino da Sahagun: scrive la Storia generale delle cose della Nuova Spagna (Messico), frutto di 40 anni di ricerche sulle antiche usanze religiose azteche; a mano a mano che procede nella descrizione, s’innamora dei popoli descritti, fino a sognare, insieme ad altri missionari, uno stato cristiano e messicano libero dalla colonizzazione. Tale simpatia suscita i sospetti delle autorità; Filippo II fa distruggere tutte le cronache scritte dai missionari. L’opera di Sahagun si salva e sarà pubblicata solo nel XIX secolo.

Altro centro di evangelizzazione è il Perù. Vi arrivano prima i domenicani nel 1531; 13 anni dopo sono già 55. Seguono i francescani (1540), agostiniani, mercedari, gesuiti (1568). Questi si dedicano all’insegnamento e alla linguistica. A Lima viene fondata l’università, centro culturale per tutta l’America Centrale e Meridionale.
L’organizzazione della chiesa in Perù è tutto merito di Toribio de Mogrovejo: conosce la lingua degli incas, il quechua, come quella insegnatagli da sua madre; raduna sinodi e progetta piani pastorali; visita l’immensa diocesi da capo a fondo e a più riprese.
Il Perù diventa centro di irradiazione del vangelo nelle regioni confinanti. Francesco Solano, il «taumaturgo del Nuovo Mondo», evangelizza gli indios dell’Argentina. Gesuiti e francescani penetrano nel Cile e predicano agli araucani. Il domenicano Alfonso di Montenegro fonda la chiesa in Ecuador. San Luigi Bertrand, domenicano, è l’apostolo della Colombia.
Alla fine del secolo XVI, la chiesa è saldamente impiantata in quasi tutto il continente latino americano, con arcidiocesi e diocesi ancora vastissime, ma già in grado di trasformare quelle regioni nel continente più cattolico del mondo.
Nei due secoli seguenti l’evangelizzazione si spinge sempre più nell’interno del continente. Due missionari si distinguono per zelo e santità: il gesuita trentino Francesco Chini (1645-1711) e il francescano spagnolo Junipero Serra. Il primo evangelizza l’Arizzona; il secondo dissemina la costa della Califoia di stazioni missionarie, destinate a diventare grandi metropoli. Entrambi sono onorati come «padri fondatori» degli Stati Uniti.

Il vangelo nelle Filippine

L e Filippine sono raggiunte solo nel 1564; il lavoro missionario si presenta meno difficile e dà subito risultati clamorosi. La nuova città di Manila già manifesta la sua vocazione di capitale cattolica del Pacifico. Nel 1579 è eretta in diocesi, nel 1595 in arcidiocesi con tre suffraganee; i cattolici filippini sono 670 mila. Nel 1611, a Manila, viene fondata l’università «San Tommaso». Nel 1620 i battezzati raggiungono i 2 milioni.
I missionari sono ormai in tutte le isole dell’arcipelago. Nel 1668 alcuni gesuiti fondano una missione nelle isole Marianne (Oceania) e quattro anni dopo padre Diego Luìs de Sanvitores finisce martire: sarà beatificato nel 1985. Altri 12 gesuiti lo seguono nel martirio. Soppressa la Compagnia (1773), subentrano agostiniani e francescani.

LA TRATTA DEGLI SCHIAVI

Che cos’è che ha spinto gli europei a trasformarsi in negrieri? La richiesta di manodopera dei paesi del Nuovo Mondo. Gli indios sono stati decimati e poi non sembrano fatti per i lavori pesanti. I negri invece sono buoni lavoratori.
Nel 1518, si stacca dalle coste del golfo di Guinea il primo carico umano diretto alle Antille. A partire da quell’anno, i viaggi si intensificano a ritmo accelerato. Un’altra «linea» viene aperta più a sud: congiunge l’Angola con il Brasile. Nel secolo XVII, dal solo regno del Congo, vengono deportati un milione di africani. Il monopolio della tratta in principio è in mano ai portoghesi. Ma la domanda è troppo superiore all’offerta e altri stati, Olanda, Spagna, Inghilterra, Danimarca, Francia, istituiscono i loro mercati. Le coste occidentali dell’Africa, dal Senegal all’Angola, sono disseminate di posti di raccolta, ciascuno con la sua bandiera, dove gli schiavi rastrellati nelle razzie vengono valutati, pagati e imbarcati. In cambio degli schiavi, i negrieri bianchi offrono agli schiavisti neri stoffe, utensili, ma soprattutto armi e polvere da sparo. Per fare più schiavi.
Le traversate transoceaniche sono spaventose. Una volta a bordo, gli schiavi vengono ammassati sotto i ponti, incatenati a coppie, caviglia a caviglia, polso a polso. Le donne, invece, sono sciolte, tenute in compartimenti separati. Febbre e dissenteria fanno stragi. I morti vengono gettati in mare.
Ritornando dalle Americhe le navi, con il loro carico di zucchero, cotone, caffè, tabacco e rum, dirigono le loro prue verso l’Europa, per puntare poi ancora sull’Africa, dove altri schiavi sono già in attesa.
Il delirante girotondo ultramarino rallenta solo ai primi dell’ottocento, dopo che il re di Danimarca, nel 1772, ha abolito per primo la tratta; seguono Inghilterra (1807), Spagna (1820), Stati Uniti (1865), Brasile (1888). Con l’accordo di Bruxelles (1890) tutta l’Europa dichiara la tratta degli schiavi illegale.
Ma il bilancio per l’Africa è disastroso: secondo cifre attendibili (e benevole), dai 20 ai 30 milioni di africani sono stati strappati alla loro terra; buona parte periscono nel viaggio di stenti e di crudeltà; gli altri sfruttati fino alla morte. Regni prosperi distrutti o trasformati loro malgrado in mercati di schiavi, pacifiche etnie ridotte in guerra tra di loro, e infine l’immensa diaspora negra, tuttora alienata ed emarginata, degli Stati Uniti, delle Antille e del Sudamerica.

HANNO COSTRUITO L’AMERICA LATINA

Bartolomé de las Casas (1484-1566). Arriva a Santo Domingo nel 1502. Colono, prete, domenicano, vescovo di Chiapas: 82 anni vissuti con passione, lotta con tutti i mezzi (predicazione, relazioni, dibattiti) per difendere la dignità degli indios.

Antonio de Valdivieso (+1550). Domenicano, consacrato vescovo di Nicaragua da Bartolomé de las Casas. Difende gli indios fino a pagare con la vita. È l’Oscar Romero del secolo XVI.

Pedro de Gand (1480-1572). Francescano laico belga, imparentato con Carlo V, arriva in Messico nel 1523; s’innamora degli indigeni e ne sfrutta le inclinazioni alla pittura, musica, danza, teatro per educare i bambini; una cinquantina li trasforma in predicatori e catechisti. Costruisce oltre 100 chiese.

Martín de Valencia (1475-1534). Capo gruppo dei «12 apostoli» francescani, è considerato uno dei padri della chiesa messicana. Muore consumato dal lavoro e dalle penitenze.

Toribio de Benavente (1495-1565). Il più popolare dei «12 apostoli» francescani arrivati in Messico nel 1524. Chiamato Motolinía (il povero), fedele allo spirito francescano, per 45 anni percorre Messico, Guatemala e Nicaragua, predicando, battezzando e prodigandosi per la promozione umana degli indigeni. Fonda la città di Puebla.

Juan de Zumárraga (1468-1548). Primo vescovo di Città del Messico, «difensore degli indios», organizza la chiesa messicana, porta in Messico artigiani e 6 donne per l’educazione delle bambine indiane; fa istallare la prima tipografia nel Nuovo Mondo. Riconosce le apparizioni di N. S. di Guadalupe (1531).

Vasco de Quiroga (1470-1565). Inviato in Messico come giudice (1531), si appassiona alla causa indigena; a 67 anni, ancora laico, è eletto vescovo di Mochoacán. Muore quasi centenario, venerato dagli indios come tatá (padre), è considerato un padre della fede della chiesa messicana.

Beardino de Sahagun (1500-1590). Francescano spagnolo, arriva in Messico nel 1529. Insegna per 40 anni in un collegio, alla formazione degli indigeni e del clero locale. Raccoglie tutto ciò che si riferisce alla vita degli antichi messicani prima dell’arrivo di Cortés. Precursore dell’etnologia.
Alfonso de Montenegro, domenicano, fonda la chiesa in Ecuador.

Pedro de la Peña (1522-1583). Domenicano, missionario in Messico nel 1550; vescovo di Quito (Ecuador) nel 1565. Difende i diritti degli indios, prepara candidati al sacerdozio, ordina preti meticci, obbliga gli encomenderos a rispettare i loro obblighi, comanda ai preti di insegnare agli indigeni agricoltura, allevamento, igiene e medicina. Si attira le ire delle autorità, ma diventa il «fondatore della vita rurale ecuadoriana».

Jeronimo de Loáyza (1498-1575). Domenicano, vescovo di Lima dal 1541, grande organizzatore pastorale, si distingue nella difesa degli indios e dei neri, che definisce «la maggior ricchezza del Perú».

S. Luis Bertrand. Domenicano, in soli 7 anni (1562-69) catechizza, battezza, erige chiese, difende gli indios e opera miracoli: è l’apostolo della Colombia. Schifato degli abusi dei dominatori, torna in Spagna.

Toribio de Mogrovejo (1538-1606). Evangelizzatore laico, a 42 anni è consacrato arcivescovo di Lima (Perù). Organizzatore di sinodi e concili, sempre in cammino per le visite pastorali, oppositore degli abusi di governatori e coloni, conoscitore delle lingue indigene è il più grande vescovo dell’America Latina. Canonizzato nel 1726.

Francesco Solano (1549-1610). Francescano, percorre Argentina, Uruguay e Paraguay, incantando gli indigeni col piffero, amore e santità. Canonizzato nel 1726.

Luis Bolaños (1549-1629). Grande missionario francescano, evangelizza i guaraní del Paraguay. Difensore degli indios, inventa le riducciones e scrive grammatiche e catechismi in guaraní.

Antonio Ruiz di Montoya (1585-1652). Gesuita, organizzatore delle reducciones del Paraguay.

Roque Gonzales (1576-1628). Gesuita paraguayano, appassionato dei guaraní e delle reducciones, è il primo martire nato in Sudamerica. A lui si ispira il film Mission. Beatificato nel 1988, assieme ai compagni martiri Alonso Rodrigues e Juan Castillo.

Pietro Claver (1580-1654). Gesuita catalano, missionario in Colombia, si fa «schiavo degli schiavi per sempre», risvegliandone la dignità. Li evangelizza con sussidi didattici creati da lui stesso, ne impara le lingue, crea numerosi interpreti e battezza oltre 300 mila africani che la crudeltà umana aveva gettato sulle spiagge americane. Impressionante per la sua eroica carità, è canonizzato nel 1888 e dichiarato patrono universale della missione tra i neri.

Eusebio Francesco Chini (1645-1711). Gesuita trentino, sbarca in Messico nel 1681. Studioso, esploratore e viaggiatore, percorre 40.000 km a piedi o a cavallo, alla scoperta della Califoia messicana e dell’Arizona, dove, per 30 anni, evangelizza gli indios di diverse etnie e fonda numerose missioni. Battezza oltre 100 mila indigeni. Una statua in bronzo nel Campidoglio di Washington lo ricorda come «padre e fondatore dell’Arizona», unico italiano tra i grandi degli Stati Uniti.

Junipero Serra (1713-1784). Francescano di Maiorca, approda in Messico nel 1749.
Camminatore infaticabile (20.000 km a piedi), dissemina la Califoia di una dozzina di fiorenti missioni, evangelizza gli indigeni e ne promuove lo sviluppo, introducendo agricoltura e allevamento.
Una statua nel Campidoglio di Washington lo ricorda come «padre degli indiani» e «fondatore della Califoia». Beatificato nel 1988.




Tutti in gara nel mondo

Bloccata dalla rivoluzione francese,
l’evangelizzazione riprende con slancio mai visto prima.
È arrivato finalmente il tempo di evangelizzare l’Africa,
l’Australia e i più sperduti arcipelaghi dell’Oceano Pacifico.
Tutta la chiesa è mobilitata, papi e vescovi,
religiosi di antica e nuova istituzione, preti e laici.
I laici, soprattutto, uomini e donne senza frontiere,
costituiscono la grande novità della missione.
Un’altra sorpresa: i popoli evangelizzati
cominciano a diventare evangelizzatori.

Cattolica, cioè universale

Mentre i vescovi francesi si piangono addosso, recriminando sui 25 anni di rivoluzione e d’impero, e parlano di «missione intea», i semplici fedeli sono pervasi da un contagioso slancio missionario. Ogni sera migliaia di famiglie si raccolgono attorno al fuoco per leggere le Lettere edificanti e curiose di Chateaubriand: un libro di racconti missionari ristampato per tre volte tra il 1803 e il 1824. Altrettanto successo riscuotono le Nuove letture edificanti delle missioni della Cina e delle Indie, pubblicate dalle Missioni estere di Parigi.
Simbolo di tale fervore missionario è una ventenne lionese, Paolina Jaricot, che spende la sua vita per raccogliere preghiere e aiuti finanziari per i missionari, dando vita a un’associazione che nel 1822 si chiamerà «Opera della propagazione della fede». Le pubblicazioni di tale associazione si diffondono in tutta la Francia e dilagano in Svizzera, Italia, Germania, Inghilterra. Altri organismi del genere sorgono con lo scopo di coinvolgere nell’evangelizzazione tutto il popolo cristiano: l’Opera di Pietro Apostolo (1889) raccoglie fondi per sostenere e formare il clero indigeno; l’Opera dell’infanzia missionaria è aperta a tutti i fanciulli cristiani, perché siano educati allo spirito missionario e alla solidarietà mondiale.
A tale zelo di retroguardia, si accompagna lo slancio di coloro che vogliono operare in prima fila. Dall’inizio del secolo XIX ai nostri giorni sono nate in tutto il mondo cattolico centinaia di famiglie religiose, maschili e femminili, esclusivamente orientate all’azione missionaria; mentre altrettante sono le congregazioni che, nate per rispondere ai problemi locali, aprono le porte verso i territori ancora in attesa dell’annuncio del vangelo. Nel XX secolo si moltiplicano le associazioni laicali e di volontariato, che si affiancano al lavoro missionario con opere di testimonianza cristiana e opere di solidarietà e promozione umana.
La rinascita della missione è ispirata e sostenuta dai grandi papi che si sono succeduti negli ultimi due secoli, a cominciare da Pio VII, che risuscita la Compagnia di Gesù (1814) e riorganizza Propaganda Fide (1817). Ma è con Gregorio XVI, il primo «papa missionario» che avviene il rilancio dell’evangelizzazione. Già prefetto di Propaganda quando era cardinale, il papa promuove un’evangelizzazione a tutto campo, con invio di missionari in tutti i continenti, moltiplicando vicariati e diocesi, istituendo i primi seminari per la formazione di sacerdoti indigeni.
I successori continuano sulla sua scia. Leone XIII scrive sei lettere missionarie. Le direttive papali più conosciute sulla missione sono le encicliche papali del XX secolo. Benedetto XV, nella Maximum illud (1919), presenta la missione come primo dovere della chiesa, ne rifiuta l’europeizzazione e ne reclama l’indipendenza. Nel 1926 Pio XI va ben oltre il suo predecessore, sia con la Rerum Ecclesiae, sia con l’ordinazione dei primi 6 vescovi cinesi, a cui seguiranno quelli giapponesi, indocinesi, africani. È un evento di portata storica, che segna l’avvento ufficiale degli «indigeni» alla guida delle chiese locali, la promozione civile dei popoli «di colore» e l’avvio spontaneo e giornioso della decolonizzazione, che decenni dopo le grandi potenze dovranno accettare per forza, costrette da guerre e rivolte.
L’enciclica Fidei donum (1957) di Pio XII ricorda ai vescovi del mondo che essi sono tutti responsabili dell’evangelizzazione e li invita a rispondere a tale responsabilità inviando i loro preti alle chiese più bisognose. Nasce un nuovo tipo di missionario: il sacerdote diocesano «Fidei donum» a servizio temporaneo e specifico delle missioni. Il concetto di missione si arricchisce di una nuova dimensione, diventando anche collaborazione e servizio reciproco tra chiese sorelle.
Il Concilio Vaticano II sancisce la nuova coscienza missionaria maturata nell’ultimo secolo: cioè l’evangelizzazione è un dovere di tutti i cristiani e di tutte le istituzioni ecclesiali. Le encicliche Evangelii nuntiandi (1975) di Paolo VI e la Redemptoris missio di Giovanni Paolo II sviluppano le idee del Concilio e legano definitivamente l’evangelizzazione alla promozione umana, dello sviluppo, della giustizia e della pace.

L’Africa diventa cristiana

Un giorno del 1800, Anna Maria Javouhey vede la sua camera affollarsi di faccette nere imploranti aiuto. La visione non si cancellerà mai più dalla memoria. Fonda le suore di San Giuseppe di Cluny; nel 1817 ne manda alcune in Senegal; poi essa stessa le raggiunge: con sorpresa, riconosce per le strade di Saint Luis le stesse facce sognate 22 anni prima.
Così ricomincia la storia dell’evangelizzazione in Africa. Madre Javouhey lotta con coraggio contro i bianchi che calpestano i diritti degli africani. «I neri – scrive – sono buoni, semplici e non hanno altra malizia se non quella imparata dai bianchi». Fonda scuole in Senegal e Guinea e si adopera per la formazione del clero indigeno. Nel 1840 ha la gioia di assistere all’ordinazione di tre preti senegalesi.
Nella stessa direzione si muove Francesco Libermann, anche se non metterà mai piede nelle missioni. Nel 1841 due creoli di Réunion gli parlano della triste situazione degli schiavi neri: rimane così sconvolto che mette subito mano alla fondazione della congregazione del Cuore Immacolato di Maria (confluita nel 1848 nella Società dello Spirito Santo) e comincia a inviare missionari a evangelizzare Guinea, Liberia, Sierra Leone e Gabon, combattere la schiavitù e formare il clero locale.
Le prime spedizioni sono un disastro: i missionari cadono come mosche, falciati da malaria e febbre gialla. «Non voglio mandare i miei figli al macello – si tortura padre Libermann -. Ma non posso abbandonare milioni di africani che non hanno mai sentito la buona notizia del Signore». Anche i missionari della Società delle Missioni Africane di Lione (Sma), guidati dallo stesso fondatore, mons. Marion de Brésillac, vicario apostolico della Sierra Leone, sono stroncati tutti dalla micidiale febbre gialla (1859).
Ma l’epopea missionaria continua, si estende alle isole dell’Oceano Indiano, si attesta lungo le coste orientali africane e penetra gradualmente nel cuore del continente. Un centinaio di missionari perdono la vita nel vicariato nell’Africa Centrale (dall’Egitto ai Grandi Laghi), finché Daniele Comboni progetta di «salvare l’Africa con gli africani», riavvia la missione nel Sudan (1872) e ne diventa il primo vescovo. Liberati schiavi e schiave, li coinvolge nel lavoro missionario; alcuni di essi diventano sacerdoti e religiosi.
Una ex schiava sudanese, Giuseppina Bakhita, diventerà religiosa e sarà beatificata nel 1992.
L’evangelizzazione di questa regione è segnata da persecuzione e martirio. Tra il 1882 e il 1889, nella bufera scatenata dal movimento messianico islamico del mahdismo, missionari e missionarie sono ridotti in schiavitù; molti catechisti e sacerdoti africani sono martirizzati. Ma l’opera missionaria continua; dal Sudan si estende all’Uganda.
Grande stratega dell’evangelizzazione è pure il cardinale Lavigerie, fondatore dei missionari per l’Africa (padri e suore bianche). Anche lui vuole «salvare l’Africa con gli africani». Invia i suoi missionari su due fronti; l’uno parte da Algeri, attraversa il deserto e penetra nelle regioni subsahariane. Dopo due spedizioni massacrate dai tuareg, i padri bianchi si attestano a Bamako e Tumbuctù (Mali).
L’altro fronte, nel 1878, da Bagamoyo (Tanzania) si dirige nella regione dei Grandi Laghi. Un gruppo di padri penetra nell’Alto Congo; un altro evangelizza il regno dei Baganda, nell’Uganda meridionale: nasce la chiesa ugandese in un battesimo di sangue: negli anni 1885-87 vengono uccisi oltre 80 cristiani; 22 di essi, arsi vivi insieme a un gruppo di fratelli protestanti, saranno canonizzati nel 1964. Sono i primi martiri della chiesa africana dei tempi modei.
Nel 1839 il lazzarista Agostino de Jacobis entra clandestinamente in Etiopia; tra infinite persecuzioni da parte del clero copto pone le basi della chiesa cattolica in Abissinia. Nel 1846 un altro grande missionario, il cappuccino Guglielmo Massaia evangelizza i galla, nel sud del paese. La loro opera sarà continuata dai lazzaristi e cappuccini francesi, ai quali si uniranno i missionari della Consolata.
Nel 1850, sfidando l’opposizione calvinista, gli Oblati di Maria Immacolata iniziano l’evangelizzazione degli zulu e sotho del Sudafrica. Nel 1880 arrivano i missionari di Mariannhill. Nello stesso anno la prima missione dei verbiti tedeschi in Namibia è distrutta dai protestanti.
Nel 1879 Propaganda affida ai gesuiti la missione nella regione della Zambesia. Negli anni seguenti i padri bianchi creano la missione del lago Niassa; una parte del vicariato sarà affidato ai monfortani.
Nel 1887 i padri belgi di Scheut gettano le basi cristiane nel Congo, sacrificando il 30% dei missionari.
Nel 1890 mons. Le Roy, della congregazione dello Spirito Santo, celebra la prima messa alle pendici del Kilimangiaro, a 3.600 metri di altitudine. È il primo annuncio del vangelo in Kenya. Dodici anni dopo arrivano i missionari della Consolata, seguiti dai padri di Mill Hill.
Siamo ormai in piena colonizzazione dell’Africa, sanzionata dalla Conferenza di Berlino (1885). L’evangelizzazione è in qualche modo condizionata dalla politica delle potenze coloniali; al tempo stesso ne è favorita, come in una specie di pax romana, che consente di estendere l’evangelizzazione a tutta l’Africa. Nel 1920 vi lavorano 31 istituti religiosi maschili, 14 dei quali nuovi di zecca, 24 istituti femminili e quasi 10 mila catechisti locali.
Salvo il periodo della seconda guerra mondiale, l’evangelizzazione continua la sua accelerazione per tutto il secolo XX. Nascono le chiese locali con vescovi e clero indigeno; inizia quel processo di inculturazione che deve sviluppare una chiesa cristiana e africana al tempo stesso. Soprattutto gli africani cominciano a diventare missionari di se stessi.

Asia: continente di martiri

A lll’inizio del XIX secolo la chiesa cinese vive ancora in clandestinità; le persecuzioni fanno molti martiri: nel 1815 mons. Dufresse, vicario apostolico di Seciun, è decapitato, 4 preti cinesi strangolati, due muoiono in prigione; nell’Honan i padri Clet e Giovanni di Triora subiscono la stessa sorte (1820); nel 1840 padre Gabriele Perboyre muore crocifisso e strangolato.
Ritorna un po’ di pace quando le potenze europee costringono gli imperatori della Cina a firmare trattati e convenzioni diplomatiche. In pochi anni da tutta l’Europa arrivano centinaia di missionari, che fanno a gara nel costruire ospedali, scuole, seminari e università. Ma le persecuzioni non si placano. Altri missionari sono vittime di guerre civili e rigurgiti xenofobi: i padri Chapdelaine (1856) e Néel (1862) sono massacrati insieme a molti cristiani. Nel 1900 la società segreta dei boxers fa strage di circa 300 mila stranieri, tra i quali una cinquantina di missionari, e di 30 mila cristiani, un centinaio dei quali preti e religiose: 86 di essi (66 cinesi e 20 missionari stranieri) saranno beatificati tra il 1946 e il 1955.
Le persecuzioni aprono gli occhi ai missionari: non si può predicare il vangelo all’ombra delle bandiere europee; bisogna «farsi cinesi coi cinesi». E fanno pressione su Roma, perché riveda le sue posizioni: 6 diocesi e vicariati sono affidate ai cinesi (1926); si ridiscute la questione dei riti e la proibizione viene revocata (1939). «Decolonizzazione» della chiesa e sangue dei martiri fanno esplodere l’evangelizzazione: i 720 mila fedeli del 1900 diventano un milione e mezzo nel 1912, due e mezzo nel 1930, quattro nel 1949; così pure i preti: in mezzo secolo passano da 1.375 (400 cinesi) a 5.725, oltre la metà dei quali sono cinesi.
Negli ultimi 50 anni la chiesa è ridotta di nuovo al silenzio dal regime comunista; entra in clandestinità e continua a scrivere la storia dell’evangelizzazione con lacrime e sangue: oggi la popolazione cattolica è più che triplicata (circa 10 milioni); i seminari ufficiali e clandestini sono pieni di persone che vogliono consacrarsi a Dio e alla missione.

Anche in Vietnam la missione si sposa col martirio. Fino al 1800, oltre 30 mila cristiani hanno perso la vita a causa della fede. Il nuovo secolo si apre con i migliori auspici, nonostante la penuria di missionari. Ma a partire dal 1833 esplode un’altra persecuzione: le chiese vengono distrutte; vescovi e missionari sbattuti in prigione, dove alcuni vi muoiono di stenti, altri ne escono per essere decapitati o strangolati. I cristiani sono obbligati a calpestare il crocifisso: le loro teste cadono a decine di migliaia.
Un altro periodo di tolleranza. Ma nel 1857 il massacro riprende più violento e continua per una trentina d’anni: 115 preti e 100 mila cristiani vietnamiti muoiono per la fede. Di queste schiere di martiri, 117 vengono canonizzati nel 1988.
In mezzo secolo di pax gallica (il Vietnam diventa protettorato francese) l’evangelizzazione riprende col solito slancio. Dopo la prima guerra mondiale arrivano numerosi missionari e missionarie di paesi e congregazioni differenti; si moltiplicano le opere di carità e promozione umana; fioriscono le congregazioni religiose locali, comprese quelle di vita contemplativa; la chiesa è vietnamizzata.
Ma una serie di guerre coloniali, sfociate nell’occupazione comunista su tutto il paese, frenano nuovamente l’espansione missionaria. Eppure il numero dei candidati al sacerdozio è migliaia di volte superiore a quello ammesso dal governo nei seminari autorizzati. Invece di essere un ostacolo, la persecuzione sta divenendo un’occasione per far scoprire ai giovani nuove forme (laicali) di consacrazione, più facili a sfuggire il controllo governativo e più incisive e capillari per la testimonianza e l’evangelizzazione del paese.

Negli ultimi due secoli l’evangelizzazione ha raggiunto tutte le nazioni asiatiche. I cattolici in Asia aumentano del 4,5% l’anno, superando i 101 milioni. Su 3,4 miliardi di asiatici essi sono una minoranza, ma viva e dinamica.
Tirando le somme della storia, si può affermare che la chiesa in Asia è quella che ha dato più martiri in assoluto: oltre 300 mila in Vietnam nel secolo XIX; almeno 30 mila in Cina, durante la rivoluzione dei boxers (1900) e un numero incalcolabile nei 50 anni di dittatura comunista; decine di migliaia in Corea tra il 1801-83; aggiungendo le schiere di martiri sotto la persecuzione islamica di tartari e turchi e quelli del Giappone, l’esercito supera il milione.
Il numero dei martiri continua a crescere ogni anno in varie parti dell’Asia: Filippine, Timor Est, Indonesia, India per citare gli esempi più clamorosi, dove i cristiani sono perseguitati e uccisi per la loro fedeltà ai valori del vangelo.

Il vangelo in Australia e Oceania

N el XIX secolo viene aperto un campo nuovo per l’evangelizzazione: il continente australiano e quel pulviscolo di isole chiamato Oceania, che si estende per decine di migliaia di chilometri nell’immenso Oceano Pacifico. Favoriti dalla supremazia marittima inglese, i protestanti vi lavorano da alcuni decenni, quando arrivano i primi missionari cattolici; ma recuperano subito il tempo perduto con profusione di sudore, lacrime e sangue.
Tra difficoltà enormi, dovute alle distanze incolmabili, isolamento, mancanza di comunicazione, clima malarico, ostilità degli indigeni, lingue e culture diversissime, concorrenza protestante e ostacoli frapposti dalle varie autorità coloniali, i missionari scrivono pagine d’oro nella storia dell’evangelizzazione. Nell’impossibilità di leggerle tutte, ne sfogliamo alcune tra le più esaltanti.

Appena diventata possedimento inglese (1787), l’Australia è usata come colonia penitenziale per condannati politici, un terzo dei quali sono cattolici. Tra i confinati, un giorno arrivano tre preti irlandesi. Uno di essi, James Dixon, ottiene di fare il cappellano del penitenziario: il 5 maggio 1803 viene celebrata la prima messa con un calice di stagno. Rimpatriati i tre irlandesi, per 30 anni il continente rimane riserva di caccia degli anglicani, interdetto ai preti «papisti».
Nel 1819 Roma invia il cistercense Geremia O’Flynn come prefetto apostolico dell’Australia e Tasmania. Dopo poco tempo di lavoro clandestino, il missionario è scoperto, inteato e rispedito al mittente. La notizia fa scandalo. Il parlamento londinese consente che due preti si prendano cura dei cattolici dell’isola. Nel 1829 viene proclamata la libertà religiosa. Ma solo nel 1834, il benedettino inglese mons. Béde Polding può stabilirsi nel vicariato; otto anni dopo diventerà arcivescovo di Sydney.
In coincidenza con un forte flusso migratorio, attirato dalla scoperta delle miniere d’oro, arrivano maristi e benedettini francesi. La popolazione cattolica si fa sempre più consistente. In 30 anni vengono create una decina di diocesi. Nasce una chiesa con caratteri europei. Parecchi missionari cercano di evangelizzare gli aborigeni; ma, per oltre un secolo, i risultati non sono entusiasmanti.

Più incoraggiante, ma non meno difficile, si presenta l’evangelizzazione degli indigeni sparpagliati negli innumerevoli arcipelaghi dell’Oceano Pacifico. Nel 1827 i missionari di Picpus arrivano nelle Hawaii, l’arcipelago settentrionale della Polinesia. Dopo quattro anni di concorrenza con i fratelli protestanti, sono presi e sbarcati sulla costa della Califoia con due bottiglie d’acqua. Toano nel 1837. Dalla Francia partono nuovi rinforzi, ma la nave è inghiottita dall’oceano insieme a 7 preti, 7 fratelli, 10 suore e lo stesso vicario apostolico.
Arrivano altre congregazioni religiose e l’evangelizzazione procede più speditamente. Il più famoso dei missionari di Picpus è padre Damiano, l’apostolo dei lebbrosi dell’isola di Molokai.
Un secondo fronte dei padri di Picpus è aperto nella Polinesia meridionale. Nel 1833 si stabiliscono nelle isole Gambier, abitate da cannibali, terrore dei naviganti. I missionari vi ottengono grandi successi: nel 1835 si contano già 4 mila battezzati. Nelle isole Marchesi, invece, la lotta contro cannibalismo, idolatria e poligamia dura oltre un secolo: nel 1950 tutta la popolazione dell’arcipelago è cattolica.
Non meno faticosa è l’evangelizzazione di Tahiti, l’isola più importante dell’arcipelago polinesiano: più volte cacciati dagli intrallazzi tra protestanti e autorità francesi, i missionari di Picpus riescono a spuntarla ed estendono gradualmente l’evangelizzazione alle isole circostanti.

Nel 1838 i maristi arrivano nella Polinesia. Li guida mons. Pompallier, che si stabilisce nella Nuova Zelanda. La comunità cattolica è costituita da coloni irlandesi; ma è subito avviata l’evangelizzazione dei maori. Intanto padre Battaion converte tutta l’isola di Wallis e Francesca Perron, laica missionaria, getta le basi di una congregazione femminile locale. Pietro Chanel lavora per tre anni nell’isola Futuna, finché viene martirizzato (1841). Due anni dopo tutti gli isolani diventano cristiani.
Nel 1842 i maristi raggiungono le isole della Tonga; l’anno seguente la Nuova Caledonia, dove fratel Biagio Marmoiton viene massacrato; un anno dopo le Figi; nel 1845 Samoa. Per 40 anni i pionieri subiscono un martirio incruento: navigano senza posa da un’isola all’altra, piantando croci e nulla più. Nel 1902 nell’arcipelago ci sono solo 3 mila battezzati; 50 anni dopo sono quasi 30 mila e i preti indigeni evangelizzano altre isole dell’Oceania.

Nel 1844 Roma affida ai maristi anche la Micronesia. Mons. Epalle approda con 7 preti e 6 fratelli nelle isole Salomone. Appena sbarcati, il vescovo viene assassinato; 4 missionari sono divorati dai cannibali; gli altri si salvano con la fuga. Il vicariato passa ai missionari italiani del Pime, ma i risultati non cambiano: Giovanni Mazzucconi viene ucciso nell’isola di Woodlark (1855). Solo nel 1898 l’evangelizzazione delle isole Salomone riprende con i maristi, aiutati da catechisti indigeni delle isole Figi e Samoa.
Nel 1881 Propaganda affida ai missionari del Sacro cuore di Issoudun le grandi isole della Nuova Guinea o Papuasia e gli arcipelaghi adiacenti. Qui l’evangelizzazione procede più speditamente che altrove.

Agli inizi del XX secolo, fatta eccezione per la Papuasia, tutto il quinto continente è convertito al cristianesimo dalle varie confessioni. Ai pionieri del secolo precedente (maristi, cappuccini, padri di Picpus e d’Issoudun, verbiti, Pime, ecc.) si è aggiunta un’incalcolabile schiera di missionari di varie congregazioni: gesuiti, Mill Hill, pallottini, salesiani, passionisti, monfortani, francescani, preti diocesani, congregazioni di fratelli e molte congregazioni religiose.
Ne è nata una chiesa ricca di risorse locali (clero, religiosi e religiose, laici impegnati), con una storia di santità e sangue, non solo «straniero»: Peter To Rot, catechista in Papua Nuova Guinea, avvelenato a 33 anni, e Mary MacKillop, suora australiana, fondatrice della congregazione di San Giuseppe e del Sacro Cuore, beatificati nel 1995.

I GRANDI MISSIONARI

Guglielmo Massaia (1809-1889). Cappuccino, nel 1846 è vicario apostolico dei galla (Etiopia). Peripezie, persecuzioni e successi sono raccontati nei 12 volumi de «I miei 35 anni di missione nell’Alta Etiopia». Cardinale nel 1884.

Agostino de Jacobis (1800-1860). Lazzarista, vicario apostolico dell’Abissinia (1839), è consacrato vescovo dal Massaia (1849). Apostolo infaticabile è maestro di missionari, affronta enormi fatiche, sacrifici e persecuzioni. Beatificato nel 1935.

Giuseppe Faraud (1823-1890). Oblato di Maria Immacolata, primo vicario apostolico del Mackenzie, sviluppa e consolida le missioni tra i montagnesi del nord-ovest canadese.

Melchior de Marion Bresillac (1813-1859). Prete delle Missioni estere, è inviato in India nel 1842 e diventa vescovo di Coimbatur. Nel 1856 fonda la Società per le missioni africane (Sma) e parte per la Sierra Leone, dove muore di febbre gialla.
Damiano de Veuster (1840-1889). Della congregazione dei Sacri Cuori, a 23 anni parte per le Hawaii, si mette a servizio dei lebbrosi e muore consumato dalla carità e dalla lebbra. Beatificato nel 1995

Pier Luigi Maria Chanel (1803-1843). Marista, martirizzato nell’isola di Futuna (Oceania). Canonizzato nel 1954.

Giovanni Cagliero (1838-1926). Salesiano, in Argentina nel 1875, evangelizza la Patagonia. Nel 1904 è delegato apostolico in Costarica, Nicaragua e Honduras. Cardinale nel 1915.

Charles Lavigerie (1825-1892). Vescovo di Nancy, poi di Algeri (1867), fonda i missionari e missionarie per l’Africa (padri bianchi e suore bianche). Amico dei musulmani, difensore degli schiavi, apostolo degli africani, formatore di apostoli.

Daniele Comboni (1831-1881). Prefetto apostolico di Karthum, fondatore dei missionari per l’Africa e pie madri della Nigrizia. Combatte la schiavitù e promuove il clero locale per «salvare l’Africa con l’Africa». Proclamato beato nel 1996.

Gabriele Leperbiyre (1802-1840). Lazzarista, in Cina dal 1835. Tradimento, arresto, giorno e ora della morte in croce lo avvicinano alla passione di Cristo. Canonizzato nel 1996.

Simeone Lourdel (1835-1890). Padre bianco, primo missionario in Uganda, formatore di martiri, è venerato dagli ugandesi come loro «padre nella fede».

Giovanni Mazzucconi (1826-1855). Missionario del Pime in Oceania: viene trucidato, dopo soli tre anni di apostolato, nell’isola di Woodlark. Beatificato nel 1984.

Teofano Venard (1829-1861). Delle Missioni estere, apostolo del Tonchino: martirizzato nel 1861 e beatificato nel 1909.

Pierre-Jean de Smet (1801-1873). Gesuita belga, missionario tra gli indiani degli Stati Uniti, ne difende i diritti contro le invasioni e gli stermini operati dai bianchi.

MISSIONE AL FEMMINILE

La storia missionaria del XIX-XX secolo è più che mai tinta di rosa. Le figure che presentiamo sono solo un simbolo delle migliaia di donne che hanno dato la vita nell’eroica testimonianza di amore e santità.

Anne Marie Javouhey (1779-1851). A 15 anni nasconde i preti «non giurati». Nel 1806 fonda le suore di San Giuseppe di Cluny e nel 1817 le invia in Senegal e Réunion. Missionaria in Senegal e Guinea, si spende nell’aiutare gli africani. Re Luigi Filippo la definisce «un grande uomo». Beatificata nel 1950.

Filippina Duchesne (1769-1852). Durante la rivoluzione aiuta prigionieri, malati e moribondi. Entrata nella Società del Sacro Cuore, nel 1818 parte per il Missouri (Usa), fonda conventi e scuole per bianchi, neri e indiani. Beatificata nel 1940.

Teresa di Gesù (1873-1897). Carmelitana di Lisieux. Offre la sua breve vita per i missionari. Patrona delle missioni.

Francesca Saverio Cabrini (1850-1917). Fondatrice delle missionarie del Sacro Cuore, sogna la Cina. Leone XIII le indica gli emigrati italiani in America. Raggiunge gli Usa nel 1889; dissemina nelle tre Americhe 67 case religiose, innumerevoli scuole, ospedali, collegi, orfanotrofi, laboratori, ospizi per anziani. Canonizzata nel 1952, è patrona degli emigranti.

Katherine Drexel (1858-1955). Fondatrice delle suore del Santo Sacramento, spende la vita per l’integrazione di neri e indiani nella società Usa, fondando per loro scuole e l’università «Saverio» di New Orleans. Canonizzata nel 2000.




BURUNDI – Severin si sveglia ll’alba

A spiegare la divisione etnica si rischia sempre
di cadere in facili
schematizzazioni:
gli hutu-agricoltori contro i tutsi-allevatori, i primi in maggioranza
ma senza potere,
i secondi privilegiati
dai colonizzatori.
Ma la divisione è reale
e si riproduce anche
nella chiesa locale.
Dicono molti burundesi: «Noi siamo figli
della nostra terra,
prima siamo hutu e tutsi
e poi cristiani».
Per capire di più,
abbiamo seguito Severin, di professione catechista, lungo le strade
del piccolo e martoriato paese africano.

Come ogni mattino Severin Ndikundana si sveglia all’alba. Alle cinque il sole sta già sorgendo sulle colline del Burundi e i contadini, da sempre, scandiscono il ritmo delle loro giornate sulle ore di luce. Severin saluta la moglie e i figli e parte, a piedi, percorrendo le scorciatornie che lo porteranno dopo una decina di chilometri, dalla sua collina, nei pressi di Gishora, alla seconda città del Burundi: Gitega.
Severin è uno dei catechisti dell’antica parrocchia di Rukundo (amore, in kirundi), che, trovandosi ai margini della città, copre un vasto territorio circostante. I fedeli sono i contadini dell’interno più che la gente di Gitega.
È catechista dal 1980, mostra orgoglioso il tesserino della diocesi sul quale sono riportati i suoi dati e il giorno di inizio del servizio. Perché sei diventato catechista? «Per vocazione» risponde con molta semplicità. Magro, con il volto scavato, osserva con due occhi intelligenti. Difficile definire la sua età, ma in un paese dove la speranza di vita è di 43 anni, lui è sicuramente considerato un anziano. Quindi, in Africa, un saggio.
«Diventare catechisti è una vocazione. Bisogna, però, frequentare dei movimenti cattolici da giovani per stimolarla».
Severin insegna religione in una scuola elementare, segue i catecumeni per prepararli al battesimo, impartisce una formazione di due mesi a chi si è allontanato dai sacramenti e vuole riconvertirsi. Come altri catechisti è coinvolto in attività di alfabetizzazione: insegna a leggere, scrivere e contare agli adulti che non hanno potuto frequentare la scuola.
A Rukundo ci sono 28 catechisti «ufficiali», che svolgono questa attività come lavoro, in cambio di un piccolo salario. Altri 121 sono gli aiuto-catechisti volontari. I primi si incontrano ogni venerdì mattina per seguire la formazione, aggioarsi e scambiarsi impressioni.
LA CHIESA, SPECCHIO DELLA SOCIETÀ
Il paese sta attraversando una crisi che si trascina dal 21 ottobre 1993, all’indomani dell’assassinio del neopresidente (il primo democraticamente eletto) Melchior Ndadaye. Le elezioni avevano segnato una svolta portando al potere un partito a maggioranza hutu. Più di sei anni di guerra civile, causata dalla lotta intea per il potere e influenzata dall’instabile situazione geopolitica regionale dei Grandi Laghi. Un conflitto con evidenti connotazioni etniche, che ha causato, oltre ad alcune centinaia di migliaia di morti e più di un milione di sfollati e rifugiati, la catastrofe economica del piccolo paese centrafricano.
«La chiesa del Burundi è lo specchio della società» si sente spesso dire, e la società burundese è attraversata, oltre che dalle divisioni economiche e di potere, anche dalla problematica etnica. «La questione etnica non è compresa dall’opinione pubblica straniera» spiega un missionario esperto in comunicazioni sociali, che chiede di mantenere l’anonimato (perché in Burundi nessuno parla e chi accetta di farlo non vuole essere citato). «Viene spesso assimilata alla divisione in partiti politici e catalogata in categorie chiuse, mentre ha assunto un significato molto più… sentimentale». Bisogna esaminare le componenti culturali e storiche, ci spiega. Le culture di base degli allevatori (tutsi) e degli agricoltori (hutu) non delimitavano una divisione così netta tra le due etnie.
L’imposizione di una struttura estea (quella coloniale) che si appoggiava di più a un gruppo (i tutsi), foendogli educazione e dandogli peso economico e infine politico, è stato uno shock culturale e ha enfatizzato il problema. Così da un complesso tessuto socio-politico, composto da clan, lignaggi e discendenze regali, il colonialismo ha realizzato una tremenda semplificazione storica banalizzando la divisione in due gruppi precisi: hutu e tutsi.
La mancanza di una cultura della condivisione del potere ha fatto il resto.
CLERO INDIGENO E CLERO COLONIALE

Per un altro religioso, burundese, si può parlare di un vero cristianesimo coloniale: «Nel catechismo veniva insegnato che, incontrando per strada il parroco e il capo villaggio, il curato doveva essere salutato prima».
Con l’indipendenza (1962) si è costituito un clero «indigeno», che ha subito puntato a rimpiazzare i missionari e ad ottenere una posizione politica, mentre restava un clero «coloniale», che cercava di resistere. Si creò questa ambiguità in seno alla stessa chiesa; ambiguità che oggi ereditano religiosi, preti e vescovi.
«Gli avvenimenti del ’72 (massacri a sfondo etnico) consacrano la divisione in tre chiese – sostiene il nostro interlocutore -; oltre a quella coloniale (missionaria, ndr.), il clero indigeno si posiziona sui due gruppi etnici e di colpo la chiesa ha l’immagine del paese traducendone esattamente gli stessi conflitti sociali». È Bagaza (1976-’87) che rompe il meccanismo togliendo potere alla chiesa, ma con Buyoya (presidente dal 1987 al 1993 e poi dal ’96 a oggi) si ritorna a un matrimonio ambiguo tra chiesa e stato.
SPIRITUALITÀ ANCESTRALE
Una società che, secondo un missionario belga, «dal ’62 si bagna nella violenza, e così anche i cristiani. Una vera strategia politica». Il religioso vede una chiesa di massa, «sacramentale», nella quale cioè si da molta importanza ai sacramenti nella loro esteriorità, ma che ha poco impatto sulla trasformazione della società. Basta guardare le statistiche dei battesimi e l’assidua frequentazione delle messe.
«Non c’è corrispondenza tra la fede che deve determinare comportamenti di misericordia, di tolleranza, e le azioni del cristiano». C’è poi ancora molta sovrapposizione con il magico, le credenze tradizionali.
Anche il padre burundese è d’accordo: «La chiesa non è mai stata una parte integrante della nostra cultura, ma sempre qualcosa di esterno. Non c’è mai stato niente che ci abbia fatto identificare in essa». Questa è una caratteristica comune a tutta l’Africa, dove l’evangelizzazione si è innestata su una cultura che aveva già una spiritualità profonda. Spiritualià il più delle volte negata e proibita (come nel caso del Burundi). Il cristiano africano mantiene questa ambiguità, in cui spesso i valori ancestrali, come quelli di appartenenza, sono più profondi di quelli del vangelo. «Noi siamo figli della nostra terra, prima siamo hutu e tutsi e poi cristiani» si dice in Burundi.
C’È CHIESA E CHIESA
Il capannone scuro della parrocchia di Rukundo è ancora trabordante di persone alla terza messa domenicale. Vi saranno almeno un migliaio di fedeli, stipati su dei piccoli banchi costituiti da un asse inchiodato su due sostegni. In fondo, lontanissimo, su un’alta base di cemento, siede il sacerdote. Dietro di lui un ampio altare e, sul muro, un grosso tamburo in bassorilievo, simbolo del potere regale, che ospita il tabeacolo. La messa in kirundi (la lingua del popolo barundi) dura circa due ore. La maggior parte dei presenti vive sulle colline, anche a molti chilometri di distanza. Sono venuti in città per il mercato e la messa. Spesso sono scalzi o portano consumate ciabatte infradito. Le donne sono avvolte in sgargianti tessuti, hanno in testa il tipico foulard colorato e portano il figlioletto sulla schiena.
Diversa è l’atmosfera alla parrocchia del Buon Pastore, nel cuore del quartiere dei funzionari. Il locale è più piccolo, ma c’è meno gente e non si sta accalcati sugli ampi banchi con inginocchiatornio. C’è anche la messa in francese. Rare sono le donne in vestiti africani. Normalmente qui si sfoggia l’ultimo abito all’europea acquistato in capitale e l’elaborata acconciatura che obbliga le signore a intere giornate dal parrucchiere. Anche i bambini hanno le scarpe lucide. La messa dura solo un’ora. I volti sono diversi: sembra di essere in un altro paese. Ma anche qui dietro all’altare c’è un tabeacolo a forma di tamburo.
Cyprien lavora assieme a Severin alla parrocchia di Rukundo. Ha fatto un corso da catechista che dura quattro anni. Adesso svolge un anno di prova e alla fine dovrà presentare una sintesi delle attività di questo periodo, per diventare, si può dire, un catechista diplomato. «Mi piacerebbe cambiare il cuore dei fedeli – spiega -, fare in modo che aprano la loro mente e partecipino al loro sviluppo». Cyprien vorrebbe essere una guida per un reale miglioramento della vita dei cristiani. Una liberazione che passa attraverso il vangelo.
La suora che li accompagna (anch’essa burundese) è più esplicita: «Abbiamo la fede, ma non si manifesta dentro di noi. L’odio e l’ingiustizia regnano in noi, a partire dalle autorità, fino ai consacrati, e tutti i cristiani».
«Molta gente non dice la verità, ruba. Non è la carenza di cose; è il non saper vivere con quello che c’è». È una chiesa che deve convertirsi, e conclude: «Pregate perché ciò avvenga».
Cyprien ci racconta il compito più importante dei catechisti. «La domenica, nelle succursali (cappelle legate alla parrocchia, ndr) sulle colline, ci incontriamo con i cristiani e li aiutiamo in celebrazioni semplici, non eucaristiche». Fondamentali perché il sacerdote è costretto, dalla vastità del territorio parrocchiale, a visitare a tuo le comunità.
VESCOVI E PRETI LONTANI DAL POPOLO
La frattura tra il popolo e la gerarchia ecclesiastica è ancora grande. La gestione della diocesi è spesso autoritaria. «Il vescovo è un capo tribale, così i preti a livello più basso – spiega un missionario studioso di ecclesiologia -; esiste una netta separazione tra gli ecclesiastici e il popolo. I preti non vogliono perdere i loro privilegi, il loro potere». Secondo lui siamo di fronte a una chiesa pre-Concilio Vaticano II. I motivi sono anche storici, perché nel ’65 il Burundi veniva dilaniato da massacri post-indipendenza che portarono alla prima repubblica con il consolidamento del potere tutsi. Le tensioni politiche e sociali impedirono la penetrazione delle idee del Concilio.
Secondo il missionario esperto in comunicazione, invece, c’è una condivisione di responsabilità tra laici e clero. Il responsabile della commissione «giustizia e pace» della conferenza episcopale, l’addetto stampa della stessa e altre posizioni di responsabilità sono assunte da laici.
Severin e Cyprien raccontano di avere poco contatto con il loro vescovo: «Non è facile incontrarlo. Arriviamo a lui tramite la nostra responsabile. Da quando è stato nominato (marzo ’97, ndr) non è mai venuto a farci visita». Eppure alcuni vescovi burundesi sono sempre in viaggio. Passano due mesi in Burundi e uno in Europa. Lo stesso pontefice, secondo indiscrezioni, li avrebbe ripresi nell’ultima visita ad limina.
Andarlo a cercare? Troppo timore reverenziale. «L’ufficio pastorale della diocesi è come la presidenza (della repubblica, ndr) per noi. Ci andiamo solo se il parroco ci dà il permesso». In questo senso si capiscono le parole di un altro missionario: «I vescovi fanno i padroni della loro gente, non si mischiano e non soffrono con il popolo».
IL DRAMMA DEI «RAGGRUPPATI»
Nessun vescovo ha visitato, ufficialmente, uno dei cinquanta campi di raggruppamento, nei quali sono stati concentrati a forza, a partire da metà settembre, almeno 350 mila persone, sulle colline intorno alla capitale.
Atteggiamento che non è piaciuto a molti cristiani, questo «non mischiarsi nella miseria», necessario, specie per un pastore, perché siamo fatti di sentimenti, non solo di conoscenza intellettuale.
Un grido di denuncia è arrivato dall’arcivescovo di Gitega, mons. Ntamwana, al rientro da un incontro con i vescovi di Rwanda e Congo, in Kenya. Ma nelle dichiarazioni di fine anno nessun riferimento ai campi, dove la gente muore di stenti e sono violati i diritti umani più elementari. «Era chiaro che non ci sarebbe stato un atto congiunto. Da un lato, perché non sarebbero stati tutti d’accordo e, dall’altro, perché qui le denunce si fanno in modo silenzioso». Molte situazioni si risolvono sulla base di relazioni personali. Non bisogna quindi offendere la sensibilità di qualcuno e rovinare i rapporti, ma piuttosto cercare di agire con diplomazia (caratteristica questa molto sviluppata nei burundesi) sfruttando contatti diretti.
Ma non a tutti questi metodi vanno bene: mancano le critiche e le prese di posizione. «Sono rari gli interventi profetici, che puntino a sganciarsi dalla problematica etnica e diano voce ai senza voce – dice un missionario italiano -; non vogliono mettersi contro il presidente, cattolico e moderato». Il religioso burundese insiste: «Ci mancano profeti e testimoni. Si ha paura di dire la verità e assumerla. I missionari possono gridare un po’ di più. Ma devono stare attenti». I religiosi stranieri spesso parteggiano a fianco «della massa che soffre» (ovvero gli hutu, 85% della popolazione, quasi totalmente esclusi dal potere politico, economico e militare) e questo prende subito una connotazione etnica. Da qui le accuse da parte di preti, vescovi ed estremisti di appoggiare la ribellione (a maggioranza hutu).
Ancora una volta sono i catechisti che si espongono di più. Anche nei campi di raggruppamento, mettendo in pericolo la loro vita, continuano a portare la testimonianza del vangelo, ad aiutare la gente. «Questo fa sperare: al di là della debolezza dei preti, c’è una presenza popolare fatta di fede, che prova che la chiesa non sparirà» continua il missionario.
TEOLOGIA SENZA TESTIMONIANZE
In Burundi ci sono circa 1.300 religiosi, tra cui più di 1.000 suore. L’«Assemblea dei superiori maggiori» (Asuma) cornordina le 16 congregazioni di uomini e le 32 di donne. Nazionali e stranieri insieme. È qui che si legano maggiormente la chiesa missionaria e quella locale, pur partendo da basi culturali molto lontane. Le congregazioni burundesi sono state create dai vescovi, che le vogliono al loro servizio. «Cerchiamo di far passare il messaggio che, in quanto religiosi, siamo parte della chiesa, abbiamo le nostre opere, una nostra missione e un ruolo specifico», racconta un ex presidente dell’assemblea. Questo per ridurre la dipendenza gerarchica. «Pensate che nelle convenzioni che facciamo con i vescovi non possiamo usare la parola “partenariato”, perché presume un accordo tra parti uguali. È una teologia che stiamo formando, poco a poco». Ma molto resta il cammino da fare.
Allo stesso modo l’Asuma cerca di far aprire le congregazioni locali all’impegno verso il popolo: «Abbiamo cercato di motivarli nei confronti dei raggruppati. Problema che loro non sentivano come prioritario. Siamo riusciti a organizzare raccolte di fondi e distribuzioni di viveri con l’impegno diretto di religiosi e religiose». Purtroppo, spiega il padre, il vangelo sociale non è ancora compreso, molto spesso a causa della formazione nei seminari che non prevede i concetti di «servizio», «responsabilizzazione» e «partecipazione popolare».
Ad esempio c’è molta ignoranza sull’importanza, della giustizia nell’evangelizzazione.
Conferma, ancor più duro, il religioso burundese: «È una chiesa senza pensiero teologico, dove dominano i buoni parlatori e i buoni strateghi. Manca uno spazio di espressione sulla fede». Vede però uno spiraglio. «Esiste tuttavia una riflessione teologica che parte dalla base, fatta di testimonianze».
E I MISSIONARI?
Ha dunque ancora un senso la permanenza dei missionari in Burundi? «Sì. Perché la chiesa è missionaria per natura. Per l’apertura agli altri e per lo scambio», ci risponde qualcuno. «Per la varietà e l’universalità della chiesa. Perché la presenza di missionari, specie nei momenti più bui, ha dato fiducia. Abbiamo ancora bisogno di collaborare, non con posti di responsabilità, ma con una presenza efficace, con libertà di analisi e di suggerire», dice qualcun altro. «Sì, ma in modo diverso da oggi. Come poveri, contemplativi, per diffondere il messaggio di Cristo a tutti andando in profondità, per incarnarlo in questa cultura», sostiene chi rigetta il modello di clero «coloniale», ancor oggi presente.
È difficile descrivere la complessità della chiesa di un paese. Ci accontentiamo di una frase di Cyprien, catechista di Mugutu, parrocchia di Rukundo: «Vorrei che il nostro popolo uscisse dall’oscurità e partecipasse, lui stesso, al suo sviluppo. Per questo ha bisogno di guide».

Hubert Dubo




Solidarietà e passione critica

Caro direttore, la celebrazione dell’anno giubilare mi spinge ad operare, oltre che per la mia conversione, anche per l’aiuto ai fratelli più poveri e bisognosi.
Conosco da parecchi anni i missionari della Consolata. Sono in relazione con padre Feando Paladini, alla cui missione (in Congo) vorrei che fosse devoluta la presente somma di denaro. È mio desiderio che tale denaro venga impiegato in qualche attrezzatura sanitaria o nella costruzione di un pozzo, strutture che ritengo necessarie per la salute e l’igiene.
Vorrei poter fare di più, ma sono anche malata; anzi, la prego di scusare la mia scrittura: soffro di artrite reumatornide in tutta la persona e ho gravi deformazioni alle mani. Comprendo perciò le sofferenze degli altri e, come gesto di solidarietà, offro il mio modesto contributo.
Nel 1980 sottoscrissi una borsa di studio per un aspirante che poi uscì dal seminario. Pazienza!
Spero che il Signore gradisca l’offerta delle mie sofferenze, del mio dono in suffragio dei miei genitori Antonietta e Floriano e mi conceda la grazia di compiere sempre la sua volontà.
Tina Cartani – Felline (LE)

H o letto con grande interesse «Prima il profitto, poi la salute» di Carlo Urbani (Missioni Consolata, febbraio 2000).
Ancora una volta viene presentato con molta chiarezza il comportamento delle multinazionali: queste, anche nel settore dei farmaci, pretendono di esercitare il loro potere impedendone la produzione a prezzi accessibili a tutti i paesi del Sud, che sarebbero in grado di produrre medicinali più comuni, con immenso vantaggio per le popolazioni locali. La tutela dei brevetti impedisce che questo avvenga e, quando si ricorre alla licenza obbligatoria, sono colti da pesanti ritorsioni commerciali.
Già in Amici dei lebbrosi (agosto 1999) era stata presentata l’influenza negativa delle multinazionali nel settore. Il dottor Zafarullah, direttore di un progetto sostenuto dall’Aifo in Bangladesh, ha raccontato: le multinazionali sono riuscite a bloccare una richiesta al governo di proibire la vendita di medicinali inutili (se non dannosi) e vietati nei paesi industrializzati e di limitare l’importazione di quelli essenziali; all’iniziativa di produrre farmaci essenziali, da vendere a basso prezzo sotto nomi generici, «le multinazionali hanno risposto con una controffensiva, offrendo incentivi economici alle farmacie che rifiutavano i nostri prodotti; hanno inoltre abbassato i prezzi dei loro prodotti, hanno fomentato scioperi tra i nostri dipendenti e hanno ucciso un nostro lavoratore».
Anche questo è un frutto della globalizzazione, che non pare proprio essere attenta ai bisogni essenziali delle popolazioni del Sud del mondo.
Tuttavia Famiglia Cristiana (n. 6, 2000) si dimostra cauta al riguardo. Il settimanale, dopo aver ricordato che nell’Africa sub-sahariana un bambino su sei non supera i cinque anni, afferma: «occorre leggere attentamente dietro le cifre, pur senza arrivare a demonizzare acriticamente la globalizzazione». Si dice pure che la popolazione con una bassa soglia di sviluppo si è ridotta dal 20 al 10 per cento.
Come conciliare questi dati con altri pubblicati in gennaio da Cem/Mondialità? Qui si scrive: «Pur ospitando solo un miliardo e 200 milioni di persone, pari al 23% della popolazione planetaria , il Nord si garantisce l’84% del prodotto lordo mondiale. Viceversa il Sud, che accoglie gli altri 4 miliardi e 100 milioni di persone, partecipa al prodotto lordo con una quota pari al 16%».
Dispiace che certi giornali si mantengano sempre su posizioni ambigue, mentre condivido pienamente ciò che ha scritto Missioni Consolata: «è immorale e scandaloso che il reddito di tre individui nel Nord del mondo sia pari a quello di 600 milioni di persone nel Sud». Cosa ci dicono queste cifre?
Rallegramenti a Piermario Pertusio, di Chieri, che chiede informazioni per partecipare alla mobilitazione contro il negoziato del Wto e grazie a lei, direttore, per le indicazioni sul Centro nuovo modello di sviluppo.
Da tempo utilizzo Missioni Consolata per le lezioni di diritto ed economia nel biennio e sollecito la rivista a continuare la pubblicazione coraggiosa di altre notizie sulle reali conseguenze del sottosviluppo, che i missionari conoscono bene.
sr. Pier Paola – (via «e-mail»)

Abbiamo «incoiciato» queste due lettere, perché esprimono bene gli atteggiamenti di tanti nostri lettori, che non ringrazieremo mai abbastanza.
Nella commovente lettera della signora Tina si rispecchia la solidarietà di chi, pur nella sofferenza, sa guardare a quanti vivono in situazioni più precarie. Suor Pier Paola, poi, offre notevoli spunti di riflessione e merita un plauso per la capacità di insegnare diritto ed economia usando anche Missioni Consolata, confrontandola con altre pubblicazioni.
Ecco cosa vuol dire essere liberi, e «non portare il cervello all’ammasso».

Tina Cartani e sr. Pier Paola




L’opinione – I popoli sono come le nuvole

Vidiadhur S. Naipaul

Nato a Trinidad (Piccole Antille) nel 1932,
è uno dei massimi scrittori viventi.
Il 19 giugno scorso ha ricevuto
il premio internazionale Grinzane Cavour
“Una vita per la letteratura”.
Dotato di un inglese raffinato,
Vidiadhur S. Naipaul ha scritto romanzi e saggi, frutto di una ricerca rigorosa
e una forte tensione morale.
Lo scrittore, che non sopporta la superficialità dei giornalisti, ha risposto ad alcune domande durante una conferenza-stampa.

Signor Naipaul, lei ha viaggiato anche in paesi islamici e ha scritto «Fra credenti». Pensa che ci sia una rinascita del mondo islamico, una rivoluzione modea?
Ho visitato, per esempio, l’Iran nel 1979-80. Gran parte del linguaggio dei fondamentalisti islamici pareva una mimica del linguaggio della rivoluzione marxista. Per questo i marxisti in Iran hanno avuto tanti guai. Si sono dati alla causa religiosa e ne sono stati consumati. Quella non era una rivoluzione religiosa, ma un’azione reazionaria in gran parte nelle mani di persone senza cultura. Dobbiamo essere molto cauti e non lasciarci sedurre dalle parole apparentemente civili.
So che alcuni studiosi degli Stati Uniti ritengono che il fondamentalismo abbia aspetti positivi: stanno soltanto proteggendo il loro lavoro. Abbiamo visto e, ancora oggi, vediamo tutta la faccia nefasta del fondamentalismo in Afghanistan.
L’Iran è una tirannia. Non dobbiamo, però, frapporci tra le rivoluzioni e ciò che la gente vuole. Gli iraniani hanno voluto questa rivoluzione «farsa». È giusto che l’abbiano e che ne paghino il prezzo.

Le migrazioni hanno sempre caratterizzato la storia? Che ne pensa?
Se si potesse vedere la storia, come su foto inviate da un satellite, si vedrebbero le popolazioni in movimento come le nuvole. Se potessimo andare ai tempi dell’antica Roma, vedremmo le invasioni dei teutoni nel sud della Francia, dove Cezanne ha dipinto i suoi quadri famosi. L’Andalusia, regione della Spagna, ha preso il suo nome dai vandali dell’Europa orientale (la parola «anda» deriva da «vandalo»), mentre i turchi per secoli si sono accampati presso le rovine delle città dell’antica Grecia. In quest’ottica anche gli spagnoli hanno poi invaso il Nuovo Mondo.
Questo genere di migrazioni non può, però, essere paragonato alle attuali migrazioni «economiche» a cui forse state pensando.

Ebbene, come giudica le odiee migrazioni «economiche»? Conflittuali o incontri di cultura?
L’odiea migrazione è permessa e persino incoraggiata dai governi con le loro politiche. I kosovari in Italia potrebbero essere definiti «i migranti della Nato». La Nato ha fatto grande pubblicità. Ne siete preoccupati?

Lei lo sarebbe?
Se fossi italiano credo proprio di sì.

Cosa pensa dei molti conflitti che lacerano il mondo, in India come nell’ex Jugoslavia? Sono causati da motivi tribali?
Abbiamo parlato di «movimenti storici». Non userei l’aggettivo «tribale», perché penso che lo si possa applicare solo, forse, a sparuti gruppi che vivono nell’Antartico… Nessuno può pensare ad un mondo tribale o incoraggiare il mondo ad esserlo!
Il conflitto dei Balcani non è soltanto etnico. Le popolazioni locali hanno vissuto per decenni senza libertà, senza istituzioni libere, senza leggi in cui riporre speranza, senza valide tradizioni. La storia insegna che un popolo si sente potente nella propria etnia (che poi si rivela una trappola), quando non ha fiducia nelle istituzioni. Alle nuove generazioni dell’ex Jugoslavia bisognerebbe insegnare la democrazia e, con questa, sviluppare la fiducia nelle istituzioni.
Non userei l’aggettivo «tribale» anche perché penso che ogni persona possa avere cinque, sei, sette… idee di se stessa.
Per esempio, guardate questa signora (indicava la sottoscritta, che mi ero presentata come collaboratrice di una rivista missionaria): è italiana, giornalista, scrive per un periodico impegnato, ha una sua cultura, avrà visitato paesi del sud del mondo, conosciuto culture diverse…

Nel suo romanzo «Alla curva del fiume», ambientato in Congo, il protagonista Samir è di origine indiana e appare come una persona onesta, mentre la figura del despota racchiude i tratti di numerose dittature. Ha voluto sottolineare alcune caratteristiche universali?
Quando scrivo non mi chiedo se il protagonista è onesto: scrivo e basta. Sarà il lettore o il critico a giudicare i diversi personaggi.
Nel presentare la figura del dittatore in Congo, avevo in mente Mobutu e ho cercato di descriverlo. Non so se Mobutu sia «universale». Se tale despota ne ricorda altri, non è mio compito dirlo. Nei romanzi cerco di raccontare situazioni reali in un determinato contesto e momento storico.

Che cosa pensa degli scrittori indiani come Narayan?
Narayan è un grande scrittore indiano di lingua inglese: oggi ha più di 90 anni. Però è uno scrittore spirituale, mistico e nega la realtà. Ha perso la moglie quando era molto giovane e questo ha condizionato la sua opera. Scrive nell’illusione, nega le osservazioni della realtà. Per lui la realtà è falsa.
Scrivere un romanzo significa, invece, affermare che il mondo è reale, significa illustrare la solidità del mondo. Attenti, dunque, agli scrittori che cercano di raccontare la complessa realtà indiana imitando Joyce, Marquez o Hemingway!

Quali scrittori apprezza o apprezzava da studente?
Sono uno scrittore, non un lettore. Da giovane leggevo decine di libri per volta. Di ogni testo scorrevo con attenzione 50-60 pagine, cercando di sentire la musica nella scrittura. Ho apprezzato molto Maupassant.

Pare che il suo rapporto con i giornalisti sia terribile. Eppure non l’ho rilevato nei suoi scritti. Perché?
La mia irritazione non è causata dai giornalisti, ma dal loro bluff (inganno, boria). Personalmente non mi sognerei mai di diventare editore del Musical Express, perché non so nulla di musica. Ma purtroppo ci sono giornalisti che pretendono di intervistare uno scrittore senza aver letto almeno uno dei suoi libri o che scrivono copiando materiale d’archivio. Questi giornalisti sono un bluff, perché sciupano sia il proprio tempo che quello dello scrittore e commettono una frode nei confronti dei lettori, che non ricevono il servizio dovuto.
È un’occasione perduta per il giornalista, al quale chiedo: «Qual è il valore del tuo lavoro? Che rispetto hai di te stesso? Fai così settimana dopo settimana? Che cosa offri ai tuoi lettori? Come ti senti?».

P. S.
Non mi sognerei mai di fare domande ad uno scrittore senza aver letto almeno due dei suoi libri e aver deciso che vale la pena di intervistarlo.
Nel caso di Naipaul, avevo capito che è uno scrittore di valore, ma che non sarebbe stato facile incontrarlo.
Durante la conferenza-stampa, ho suggerito ad un collega di leggere «Una casa per il signor Biswas», in cui Naipaul è critico e ironico verso i giornalisti e direttori di giornali, oppure «Alla curva del fiume», in cui il protagonista è inorridito della superficialità con cui i giornalisti occidentali hanno descritto i massacri degli arabi lungo la costa dell’Africa orientale.
Naipaul ha apprezzato il mio suggerimento e ha commentato: «Vedo che lei si è preparata bene. Per quale rivista scrive?».
«Missioni Consolata» ho risposto.
S. B.

Silvana Bottignole