Lettere: cari missionari

"Del Monte"… accetta

Gentile direttore,

in seguito alla mia lettera "La Del Monte in Kenya",
pubblicata sul numero di marzo, allego ora la fotocopia di Consumatori, maggio 2001: si
dichiara che proprio a marzo c’è stato l’accordo tra "Coop" e
"Del Monte" circa le condizioni di lavoro nella piantagione a Thika, in Kenya.

Mi auguro che corrisponda a verità.

Olivo Cassina
  Udine

Grazie dell’aggioamento. C’è stato un lungo
contenzioso tra Del Monte (multinazionale che a Thika produce ananas) e il sindacato che
tutela i diritti dei lavoratori. Il merito del successo è da ascriversi anche al Centro
Nuovo Modello di Sviluppo, cornordinato da Francesco Gesualdi, che ha promosso una campagna
di boicottaggio dei prodotti Del Monte.

 

Aids e profilattici

Illustrissimi,

leggo quasi incredulo, a pagina 30 di Missioni Consolata, giugno 2001,
che il profilattico sarebbe "unica ed efficace barriera" all’infezione
dell’Aids. Scoperto, poi, che l’autore dell’articolo è un medico, capisco
che si tratta del solito caso di "disinformazione medico-scientifica".

Per farla breve, diversi studi universitari, già a metà degli anni
’80, hanno evidenziato che il profilattico permette un abbattimento del rischio di
contagio di circa l’80% (su un periodo di due anni). Il che rende il profilattico uno
"strumento" tutt’altro che efficace, visto che rimane un bel 20% di
possibilità d’infezione.

La cosa è ben documentata, per esempio, su Medicina e Morale, 1995/5;
ma è quasi "contro-informazione", ai giorni nostri. Significa, in pratica, che
(escludendo gli "incidenti" di trasfusione, peraltro non eliminabili a colpi di
preservativo) la vera unica ed efficace barriera contro la "peste" di questi
decenni starebbe proprio nella classica "ricetta della nonna" (castità prima
del matrimonio e fedeltà nel matrimonio).

La preoccupazione più diffusa, però (anche in ambienti cattolici), è
quella di salvaguardare a tutti i costi la "rivoluzione sessuale" degli anni
’60; e quando ad essa si aggiunge il condizionamento delle case farmaceutiche (per le
quali un ritorno alla suddetta "ricetta" rappresenterebbe un danno economico
incalcolabile nel settore della contraccezione) il gioco è fatto. Così anche i medici
"cattolici" finiscono per ripetere come pappagalli la "bugia" del
secolo.

Carlo Incarbone
  Collegno (TO)

La "contro-informazione" che il lettore porta alla
ribalta merita seria considerazione. Quanto al dottor Guido Sattin (chiamato in causa per
disinformazione medico-scientifica), la sua preoccupazione non è "la rivoluzione
sessuale degli anni ’60", ma la passione per la vita. Sattin scrive pensando
soprattutto al degradato Perú, dove ha lavorato per cinque anni, ritornandovi ogni anno.

 

Ottimo il "dossier" sull’Aids

Spettabile redazione,

sono un medico, da parecchi anni abbonata a Missioni Consolata, che
leggo sempre con molto interesse. Con il dossier sull’Aids del numero di giugno 2001
avete superato voi stessi: il servizio è particolarmente ben fatto e di esemplare
correttezza scientifica. Complimenti!

M. V. Pellanda
  (via e-mail)

 

"Non riceverete più un soldo, se…"

Spettabile direzione,

da tempo pensavo di inviare un’offerta in denaro per
l’ospedale di Neisu, nella Repubblica democratica del Congo. Ma il pensiero che voi
pubblicate sulla rivista le offerte che vi giungono (con tanto di nome e cognome) mi ha
trattenuta dal farlo.

Si direbbe che non conosciate la frase del vangelo "non sappia la
mano sinistra ciò che fa la destra", e nemmeno le più elementari regole della
privacy. Infatti, senza chiedermi l’autorizzazione, avete sbandierato ai quattro
venti la lettera che vi ho inviato. Me lo ha riferito una persona che riceve la rivista.

Sono rimasta molto male, perché io sono molto discreta e pretendo
dagli altri altrettanta discrezione. Ebbene giuro che, se il fatto si ripete, non
riceverete più un soldo. Mi dispiace solo per i poveri dell’ospedale africano.

Ringrazio il padre e il medico dell’ospedale (che ha sostituito il
defunto padre Oscar Goapper) per la lettera che mi hanno inviato. Avrei piacere, se
possibile, ricevere una foto dell’ospedale e dei suoi piccoli pazienti.

Lettera firmata

 

Conosciamo la celebre massima del vangelo. E tanto di cappello a chi la
pratica! Ma non sono molti. D’altro canto, è pure noto il detto (non evangelico!):
"Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio". Moltissimi ci credono. E chi può dar
loro torto, specialmente se si tratta di denaro?

Sapesse (la signora che ci ha scritto) quanto lavoro eviteremmo, se non
pubblicassimo le offerte e i nomi dei donatori! Se lo facciamo, è per ragioni di
trasparenza, oltre che di riconoscenza.

Riconoscenza che è doppia per la signora di… "non sappia la
mano sinistra ciò che fa la destra".

 

 Ma il bene prevale sul male

Caro direttore,

la ringrazio della pubblicazione in giugno dell’articolo "Con
72 condannati alla forca", riguardante i missionari della Consolata che operarono nel
carcere giudiziario "Le Nuove" di Torino, per assistere umanamente e
religiosamente i condannati a morte durante la Resistenza nella seconda guerra mondiale.

Inoltre la testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier
Nguyén Van Thuan, sottolineando la grande sofferenza di un detenuto per ragioni politiche
e religiose, conferma il prevalere del bene sul male e mette in luce come i missionari
della Consolata, ieri e oggi, convertano gente atea e favoriscano la pace tra i popoli.

Di questi semi di umanità e di salvezza in Cristo, che daranno
sicuramente i loro frutti, siamo grati al Signore, alla Madonna Consolata e al beato
Giuseppe Allamano. Nel centenario della fondazione dei missionari della Consolata
preghiamo affinché essi possano portare sempre e ovunque il messaggio di pace e
fratellanza.

Felice Tagliente
  Torino

Il dottor Felice Tagliente, autore dell’articolo citato, opera
come psicologo presso il carcere "Le Vallette/Le Nuove" di Torino.

 

 Quando ne capitano di cotte e di crude

Carissimi amici,

in questi mesi in Kenya se ne vedono di tutti i colori, di cotte e di
crude. Tempo fa è stata bruciata una scuola con i ragazzi in dormitorio: 68 studenti
morti, 21 feriti e 9 "dispersi" (sospettati di essere gli autori
dell’incendio, perché bocciati). Davvero un fatto incredibile!

Quanto a me, sono stato coinvolto in una sparatoria nella zona
industriale di Nairobi. Mi è venuta la saliva amara, ma grazie a Dio ne sono uscito
indenne.

Intanto continuo il mio solito lavoro di riparazioni e manutenzione
della scuola, anche se sono un po’ stanco e scoraggiato. Forse le prossime vacanze in
Italia mi rimetteranno in sesto. Nel frattempo dico alla Madonna Consolata: "Io sono
un povero missionario. I problemi esistenti sono troppo grandi per me. Allora pensaci tu.
Se io faccio fiasco, pazienza. Ma tu non puoi fallire…".

fr. Gaetano Borgo
  Kenya

Recentemente il Signore ci ha concesso di fare
un’esperienza missionaria straordinaria. Il 21 giugno scorso, alle ore 18.40, fratel
Pietro Bertoni ed io siamo stati aggrediti in casa da tre individui con scuri e armi da
fuoco automatiche: ci hanno percossi e minacciati di morte. Erano drogati ed eccitati
dall’alcornol.

Sanguinanti ma coscienti, siamo stati costretti ad aprire la
cassaforte. I malviventi l’hanno svuotata: conteneva, soprattutto, i risparmi della
povera gente che aveva perso tutto con il ciclone e l’inondazione e pensava che in
missione i soldi fossero al sicuro. La cassaforte custodiva pure 4.700 dollari di alcuni
minatori, che ci avevano chiesto di aiutarli a costruire la casa in muratura. In pochi
minuti tutti i loro sogni sono svaniti.

Io sono stato rinchiuso in una stanza, mentre a fratel Pietro hanno
chiesto le chiavi della Toyota. Quando ho sentito partire la macchina, ho trovato il modo
di uscire dalla stanza e ho cercato subito Pietro. Era notte, con un silenzio
impressionante: si udiva solo la mia voce che chiamava il missionario. Mi domandavo:
"Sarà ferito o, addirittura, morto?". Giravo disperatamente per la missione
quando; vedendo il garage vuoto, ho pensato che i banditi lo avessero portato via con
loro. Allora sono corso al distretto di polizia, a 7 chilometri di distanza. Ma il
personale o era ubriaco o dormiva. Ritornato alla missione, ho trovato fratel Pietro sano
e salvo, anche lui in pena per me. Insieme abbiamo ringraziato il Signore.

Durante la passata guerra civile, siamo stati varie volte spogliati di
tutto, ma mai percossi… Ora le ferite si sono cicatrizzate e il brutto ricordo va
scomparendo a poco a poco. Tuttavia il fatto è motivo di preoccupazione anche per la
gente locale, che è stata meravigliosamente solidale con noi, anche perché
l’accaduto ha fatto il giro del Mozambico. Noi abbiamo pure scritto "una lettera
aperta" agli aggressori sconosciuti, perdonandoli e consigliandoli a cambiare vita.

Sicuri di essere nelle mani di Dio, continuiamo a lavorare per essere
segno di speranza in questa società minata da tanta corruzione. Abbiamo quattro gruppi di
giovani che imparano il mestiere di muratori. Altri, falegnami, fanno porte e finestre:
hanno appena terminato 300 banchi scolastici doppi; e le richieste sono così tante da non
poter attendere a tutti.

Cari amici, ci facciamo portavoce di tutta la popolazione che ringrazia
il Signore, il quale infonde in voi tanta generosità. Non preoccupatevi per noi. Siamo in
buone mani. Un fraterno abbraccio.

p. Amadio Marchiol
  Mozambico

Nonostante ne succedano "di cotte e di crude", in Kenya
come in Mozambico, i missionari restano. E non per fare gli eroi.

 

 "La tua benignità"

Cari missionari,

mi dichiaro fortunata di essere entrata a far parte delle persone che
si affidano alla protezione della Madonna Consolata. Avevo a Torino una sorella suora del
Cottolengo, suor Valentina, da otto anni defunta a causa di una terribile sclerosi
multipla.

Grazie a lei, abbiamo avuto il quadro della Consolata, alla quale mia
madre si rivolgeva anche di notte, inginocchiata ai piedi dell’immagine, nei momenti
di bisogno. Ne aveva ben donde: rimasta vedova con otto figli, non ha mai perso la
speranza e ha insegnato pure a noi la devozione alla Madonna.

Nelle mie povere preghiere raccomando tutti alla Consolata. In questi
giorni prego anche per un bravo ragazzo, iscritto alla facoltà di medicina, ma vittima di
tanta sfortuna. Una sera, al cancello d’ingresso del condominio dove abita, si è
ferito abbastanza gravemente la lingua; portato al pronto soccorso, gliel’hanno
suturata con alcuni punti. Otto giorni dopo, si è rotto il setto nasale; operato
d’urgenza, l’intervento non è andato troppo bene. Spero che la Madonna lo
faccia guarire senza un altro intervento.

Io prego affinché la Vergine non ci conceda ricchezze o onori, ma solo
consolazione.

Giovanna Bilotta
  Chiusi (SI)

La grande fiducia nella Madre di Dio della signora Giovanna ci
ricorda i versi immortali di Dante Alighieri:

"La tua benignità
  non pur soccorre /a chi dimanda,ma molte fiate /liberamente al dimandar
precorre"

(Paradiso, XXXIII, 16).

 

Ma quando funzioneranno le poste?

Cari missionari,

sono una donna anziana, da anni sono abbonata alla bellissima rivista
Missioni Consolata. Ma, con mio disappunto, devo comunicarvi una cosa spiacevole: da
diversi mesi non la ricevo più, pur avendo pagato l’abbonamento. Con ogni
probabilità è colpa delle poste che, purtroppo, sono in degrado. E dire che siamo nel
decantato nordest! Tutti si lamentano, ma senza risultati. Sacchi di posta vengono buttati
qua e là, e nessuno fa niente. Se continua così, sarò costretta a rinunciare
all’abbonamento.

Gina Bergamo
  Montebelluna (TV)

Sul mancato recapito di Missioni Consolata le lamentele piovono
ormai a grappoli, con situazioni croniche: per esempio da anni, ad Olbia, numerosi
abbonati ricevono la rivista solo due-tre volte nell’arco di 365 giorni.

In varie regioni si pratica "la mobilità dei postini": ciò
comporta che chi recapita la corrispondenza in un posto lo fa per due-tre mesi; poi cambia
sede. "Di fronte a qualche difficoltà (dovuta alla non conoscenza del luogo), i
postini pivelli possono buttare la rivista nei cassonetti dell’immondizia". La
gente non ne può più. E noi con essa.

 

Uomini e Donne, Fatti e Misfatti

Così la pensano sul "G 8" di Genova

 

Ho letto sul Corriere della sera l’attacco di Renato Ruggiero a
suor Patrizia Pasini. Il nostro ministro degli esteri ironizza sulla missionaria che, in
preparazione dell’incontro del "G 8" di Genova, propone anche momenti di
preghiera e digiuno.

Ma chi crede di essere Ruggiero? Fino a poco tempo fa era al vertice
dell’Organizzazione mondiale del commercio, che non lesina diktat ai paesi poveri;
entrato nel governo Berlusconi (tutto sorrisi o "denti"), il ministro si
dichiara disposto al dialogo pure con "il popolo di Seattle", che contesta la
globalizzazione. Sulla globalizzazione interviene anche il papa, durante l’Angelus
dell’8 luglio, mettendone in evidenza i gravi pericoli. E il ministro si affretta a
dire su Avvenire che il pontefice scuote le coscienze. Ma il papa non crede anche nel
digiuno e nella preghiera?

Sia un po’ più coerente, signor ministro. Con tutti.

Maria Filippini – Milano

Questa lettera (come la seguente) è stata scritta prima dei tragici
eventi di Genova (20-21 luglio).

 

Caro direttore, il 7 luglio l’ho vista a Genova, in vista del
"G 8". Ho gradito il suo intervento (specialmente quando ha denunciato
l’intimidazione dei "grandi" verso i "piccoli"). Mi sono anche
piaciute le riflessioni della ragazza dell’Ecuador e del giovane della Guinea Bissau.

Ma, proprio mentre parlavano i due testimoni del terzo mondo (gli
unici!), fotografi, cameramen e giornalisti si sono buttati su Vittorio Agnoletto, appena
giunto in sala. Non mi è piaciuto il suo comportamento: seduto in prima fila, ha
accettato persino di essere intervistato addirittura mentre l’africano e la
latinoamericana parlavano. Il fatto ha disturbato me ed altri, non solo per ragioni
materiali… Deploro lo stile dei mass media: cercano solo il personaggio; degli
"altri" non gliene frega un tubo, a meno che non facciano scornop.

Cari missionari, per favore non abbassatevi mai a questi giochi
sporchi.

Grazia Piccolo – Padova

I due testimoni del terzo mondo sono Monica Espinosa e Filomeno Lopez.
Ne parliamo a pagina 63 e 65.

 

 A Missioni Consolata non manca il coraggio di far saltare i
lettori sulla sedia. Per questo, caro direttore, ti mando una mia lettura dei fatti di
Genova… in chiave evangelica. La riflessione potrebbe intitolarsi: "La nuova
settimana santa di Genova 2001".

– Domenica delle palme, 15 luglio: dopo una lunga preparazione il
popolo della pace entra trionfale a Genova; sorgono punti di accoglienza, spazi di
discussione e centro stampa.

– Lunedì santo, 16: inizia il Public Forum, ricco di contenuti. Il
dibattito continua anche nei giorni seguenti.

– Giovedì santo, 19: la manifestazione dei migrantes lancia un
messaggio universale: "Ogni uomo è mio fratello!".

– Venerdì santo, 20: la morte in agguato vuole la sua vittima. Il velo
della zona rossa si squarcia e la violenza mostra i suoi volti.

– Sabato santo, 21: un grande corteo discende agli inferi passando tra
gironi di diavoli, fiamme e fumi.

– Pasqua di risurrezione, 22… I giornalisti, che al mattino corrono
al Media Centre, vedono computer sfasciati e macchie di sangue sui pavimenti e
termosifoni. Un angelo dice loro: "Cosa cercate? La verità non abita più qui; ora
cammina a piedi nudi per le vie del mondo. La troverete là".

Andrea Saroldi – Torino

Andrea Saroldi è pure autore del libro "Gruppi di acquisto
Solidali"
(Guida al consumo locale).

 

Abbiamo vissuto i violenti accadimenti di Genova con un sentimento
irrequieto: irrequieto sia per la guerriglia scatenata da bande di teppaglia, presenti su
entrambi i fronti dei circa 250 mila manifestanti pacifici (divisi in due tronconi per il
lancio di lacrimogeni) sia per lo scandaloso messaggio uscito dai "G 8".

Il messaggio è una rivendicazione della disuguaglianza portatrice di
ricchezza per pochissimi e del diritto di comandare il mondo con regole generatrici di
disperazione. Questo scandalo merita una risposta precisa.

Pertanto abbiamo scritto un testo, in cui vengono analizzati i
miserrimi contenuti dell’incontro dei leaders. Riteniamo che sia bene smontare, pezzo
per pezzo, i dogmi che gran parte della gente ripete a pappagallo, incapace di pensare.

Ci siamo avvicinati alla rivista Missioni Consolata frequentando la
"Scuola per l’alternativa", che abbiamo seguito con entusiasmo e per la
quale, da settembre, daremo anche il nostro contributo.

Maurizio Pagliassotti
  e Silvia Battaglia – Torino

La "risposta precisa" di Maurizio e Silvia è in
Genova (2)

AAVV




CARCERE E MISSIONE. UN FLACONE CONTRO IL MAL DI STOMACO

Che fa
un vescovo in prigione per 13 anni, di cui nove in isolamento? Risponde lo
stesso carcerato, dal 1975 al 1988 vittima in Viet Nam delle galere del
comunismo. Oggi presiede a Roma il Consiglio pontificio «Giustizia e
pace». Ed è pure cardinale.

In Viet
Nam ho vissuto oltre 13 anni in prigione, di cui nove in isolamento, senza
neppure una visita della famiglia, e con due poliziotti che non mi
parlavano. Senza radio, giornali, telefono, televisione. Una cultura di
morte. Ho trascorso da giovane vescovo questi anni di disperazione e
rivolta. Ma Gesù nell’eucaristia mi ha aiutato.


 Pacchetti di
sigarette

Non molto
tempo dopo, il direttore della prigione mi chiama.

È una
bottiglietta di vino.

Con mia
grandissima gioia, grazie a quel vino, celebro le più belle messe della
mia vita. Offro il sacrificio eucaristico sul palmo della mano, con tre
gocce di vino e una di acqua. Ogni giorno posso rinnovare con il Signore
la mia «nuova ed eterna alleanza» di sacerdote.


L’eucaristia è un sostegno per me e per gli altri prigionieri cattolici.
Dormiamo tutti su uno stesso letto. La sera alle 21.30, nell’oscurità, mi
curvo per celebrare la messa, il cui testo conosco a memoria. Poi faccio
passare sotto la zanzariera la comunione ai cinque cattolici vicini a me.
La presenza di Gesù eucaristia ci conforta molto. L’indomani raccogliamo
carta di pacchetti di sigarette, con la quale fabbrichiamo dei sacchettini
per contenere il Santissimo.

Ogni
settimana, al venerdì, si tiene la sessione di indottrinamento marxista.
Tutti i prigionieri vi partecipano. Al momento della sosta, consegniamo ad
ogni gruppo di 50 persone un sacchettino… con Gesù dentro. Ciascuno
«intasca il Signore» e, nella prova, nella tristezza, nella tribolazione,
lo sente con sé: lo prega di notte, fa l’«ora santa». E, grazie
all’adorazione e alla comunione, i cristiani che hanno abbandonato la fede
ritornano praticanti.

Non potrò
mai dimenticare come ci abbia sostenuto il canto liturgico, lasciatoci da
san Tommaso per la celebrazione della festa del Corpus Domini, dove viene
affermata tutta la teologia in parole semplici. E avvertirò sempre il
senso mariano dell’eucaristia. Quando la celebriamo, siamo veramente figli
di Maria: Ave verum corpus natum de Maria virgine…

Con
l’eucaristia, i laici in carcere diventano coraggiosi nell’impegno e
sereni nella tristezza: servono tutti con carità, e la loro testimonianza
affascina i non cattolici (talvolta fanatici), che poi chiedono di
conoscere Gesù e la nostra religione; diventano catechisti; poi battezzano
gli altri compagni prigionieri facendo loro da padrini.

Con
l’eucaristia la prigione cambia: diventa una scuola di fede, una
catechesi.


«Sei hutu o
tutzi?»

Ricordo i
trappisti francesi in Algeria, monaci e missionari. I superiori hanno
chiesto loro di lasciare il paese, data la seria minaccia per la loro
vita; ma tutti decidono di restare e sono morti per la fede.

In Africa
non mancano le guerre etniche. Ma tanti nostri fratelli africani soffrono
con coraggio… Un sacerdote in Rwanda, all’arrivo dei soldati, indossa i
paramenti sacri. Gli domandano: «Sei hutu o tutzi?». E lui: «Sono un
prete…». Per la seconda e terza volta gli rivolgono la stessa domanda.
La risposta è sempre: «Sono un prete». Lo ammazzano. Muore da sacerdote. E
il sacerdote non ha frontiere: è per la chiesa universale. È testimone
della fede, grazie a quel Gesù che celebra ogni giorno nell’eucaristia.

In Burundi
alcuni guerriglieri hutu fanno irruzione in un seminario per arrestare 40
studenti, chiedendo loro di dividersi: gli hutu da una parte e i tutzi
dall’altra. «Se siete hutu vivrete, se tutzi morirete!». Ma i 40
seminaristi restano uniti. Vengono tutti uccisi, fratelli nella vita e
nella morte. Sono martiri dell’unità dei popoli, quell’unità che Gesù ci
richiede: «Come tu, Padre, sei in me ed io in te, che tutti siano una sola
cosa…».

Nella
regione dei Grandi Laghi operano anche le suore «poverelle» di Bergamo, e
vengono contagiate dall’Ebola nella repubblica democratica del Congo.
Molti hanno lasciato il paese, ma esse no; anzi, sono giunte nuove
missionarie. I giornalisti incontrano suor Dinarosa Merelli.

Sono tutte
morte in Congo. Ma sono seme di nuovi cristiani.


La croce del
vescovo

Con quale
veleno li ha contaminati quel «cattivissimo vescovo», se non con quello
dell’amore di Cristo Gesù?

Un giorno,
durante i lavori forzati, taglio legna. Chiedo a un carceriere divenuto
amico: «Lasciami tagliare un pezzo di legno a forma di croce».

Il custode
non può resistere e si allontana. Io ritaglio un pezzo di legno nero a
forma di croce e lo tengo nascosto nel sapone fino alla liberazione nel
1988.

Trasferito
in un’altra prigione, vicino ad Hanoi, chiedo al carceriere un pezzo di
filo elettrico.

Tre giorni
dopo, il carceriere mi dice: «Le porterò l’occorrente. Però dobbiamo fare
tutto tra le 7 e le 11; se qualcuno vede, ci denuncerà». E in quattro ore
mi aiuta a fabbricare la catenella della croce vescovile che porto sempre
con me, perché non è solo un ricordo, ma una chiamata ad amare.

Diverse
volte i poliziotti mi pongono una domanda cruciale.

Così sono
vissuto in prigione sino alla fine.


«Corpus
Domini» in Serbia

Nel 1999,
in occasione della festa del Corpus Domini del 6 giugno, il papa mi invia
improvvisamente, quale presidente del Consiglio pontificio «Giustizia e
pace», nell’ex Jugoslavia in guerra. Con me ci sono altri due vescovi:
dobbiamo arrivare, ciascuno con una destinazione diversa, per la festa
eucaristica. Ma abbiamo soltanto tre giorni per prepararci.

Il santo
padre ci dice: «Voglio che preghiate e facciate pregare la gente con me,
mentre io celebrerò il Corpus Domini nella basilica di san Giovanni in
Laterano. Dite a tutti che il papa prega per la pace».

Partiamo:
io vado in Serbia, monsignor Martin in Macedonia e monsignor Crepaldi in
Albania, per mostrare che il santo padre ama tutti i popoli. Arrivo a
Belgrado la vigilia della festa. La città è deserta, senza acqua e senza
luce. Sono rimasti solo sei ambasciatori, che si chiedono: «Perché
Milosevic non ha accettato la proposta della Nato e tutti gli ambasciatori
sono fuggiti?».

A
mezzogiorno sono in nunziatura e ricevo una telefonata dalla Santa Sede:
«Come avete fatto? Avete celebrato la messa?». «Sì, abbiamo anche
annunciato che la pace è vicinissima». E da Roma: «Il papa lo dirà subito
a Kofi Annan, segretario delle Nazioni Unite».

La
preghiera a Gesù nell’eucaristia porta la pace nel mondo, come Gesù ha
detto: «La mia carne è per la vita del mondo». Ed è la più grande
missione.


 Testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier Nguyên Vân Thuân
nella basilica di san Giovanni in Laterano, Roma 22 giugno 2000.
Adattamento della redazione.


 


Il cardinale François Xavier Vân Thuân


  
Trecento
frammenti di speranza

 È nato il 17 aprile
1928 a Huê, Viet Nam. Discende da una famiglia che conta numerosi martiri.
Nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio materno furono bruciati vivi in
chiesa, eccetto il nonno (che studiava in Malesia).

La mamma Elisabeth
ha educato cristianamente François Xavier fin da quando era in fasce.
Allorché il figlio fu imprigionato, continuò a pregare per lui affinché
restasse sempre fedele alla chiesa.

L’incarcerazione
avvenne nel 1975 ad opera del regime comunista. François Xavier era da
pochi mesi vescovo, oltre che sacerdote dal 1953. Sopporterà la prigione
per 13 anni. Da carcerato visse momenti drammatici, come il viaggio su una
nave con 1.500 detenuti affamati e disperati. Per non parlare dei nove
anni di isolamento.

In carcere non
poteva tenere la bibbia: allora raccolse tanti pezzetti di carta e vi
scrisse tutte le frasi del vangelo che ricordava: oltre 300. Divenne il
suo vademecum quotidiano.

Liberato nel 1988,
tre anni dopo fu espulso dal Viet Nam quale «persona non grata».

Dal 1998 è
presidente a Roma del Consiglio pontificio «Giustizia e pace». E, dal 21
febbraio scorso, cardinale.

Ha pubblicato vari
libri, tutti all’insegna della speranza:

Il cammino della
speranza, I pellegrini del cammino della speranza, Il cammino della
speranza alla luce della parola di Dio e del Concilio Vaticano II,
Preghiere di speranza, La speranza non delude…

 

 


Il carcere "Le
Nuove" di Torino
  e i missionari della Consolata (1931-44)

 I missionari della
Consolata prestano assistenza spirituale ai carcerati de Le Nuove di
Torino dal 16 gennaio 1931 al 16 novembre 1944. Sono 14 anni cruciali,
condizionati da regimi dittatoriali contrapposti e segnati dalla
catastrofe della seconda guerra mondiale.

Questo periodo
assegna a Le Nuove una rilevanza politica a livello locale, nazionale ed
internazionale, poiché il carcere è spesso usato come repressione e
persecuzione contro i dissidenti politici. Le Nuove di Torino è luogo di
transito per chi viene trasferito in altre prigioni del nord e
dell’estero; racchiude detenuti italiani e stranieri per motivi
delinquenziali e politici. Durante il fascismo, e soprattutto nel 1943-45,
la vita carceraria rispecchia, prima, l’inasprimento della pena e poi il
terribile clima della guerra.

Come confortare un
morente in carcere che, talvolta, si dichiara innocente? Ancora più
difficile è accompagnare alla forca un condannato a morte, come avviene a
Vittorio Longo il 7 agosto 1935. A partire da questa data, tanti sono i
condannati alla pena capitale assistiti dai missionari della Consolata:
complessivamente 72, di cui 2 prima della guerra e 70 dal 17 marzo 1943 al
5 novembre 1944.

L’azione dei
missionari della Consolata, cappellani aggiunti ed aiutanti ne Le Nuove,
contribuisce alla salvaguardia dei valori umani e spirituali, che fondano
la Costituzione. Il loro ministero è svolto sempre a favore dei più
afflitti dalla sofferenza. Il modo di porsi di fronte ai condannati è
ispirato al rispetto della dignità umana e del fratello in Cristo.

  Sulle
orme di san Cafasso

 La prima
caratteristica dell’essere missionario in prigione è la prudenza, nel
rispetto delle norme penitenziarie.

Scrive padre
Giovanni Piovano sull’assistenza di padre Vittorio Sandrone a favore dei
carcerati: «Operò un grandissimo bene fra continue difficoltà, date da
quel luogo di pena, ma più ancora dalle circostanze e dagli eventi del
tempo, uno dei più gravi della storia di Torino e dell’Italia. Padre
Sandrone, dal primo all’ultimo giorno in cui esercitò il non facile
incarico, non solo ne conobbe la responsabilità e ciò che da lui si
richiedeva, ma lo compì con grande fede e anche con cristiano entusiasmo».

Padre Sandrone
raccomanda la prudenza per poter esercitare il ministero verso tutti. Nel
1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Istituto impartisce
alcune disposizioni: «Nel parlare non si vada oltre al puro racconto dei
fatti… A nessuno è proibito di pensare gli avvenimenti secondo la
propria coscienza, però non deve esprimere con gli estranei la sua
opinione, ed anche con i confratelli si deve usare molta prudenza e
tolleranza, evitando ogni disputa accalorata. Il meglio sarebbe pensare,
come il beato Cafasso, al grande numero di anime che muoiono senza
sacramenti e procurare di ottenere loro da Dio una grazia particolare di
penitenza».

Non si può scordare
che il codice penale Rocco (1930) determina un aumento dei casi di reato
perseguibili e un allungamento della pena, fino a raddoppiarla rispetto a
quella del codice Zanardelli (1890). Inoltre il Regolamento penitenziario
del 1931 inasprisce la vita intramuraria con punizioni più severe e minori
controlli da parte della Commissione vigilatrice estea.

Padre Sandrone
assiste 40 detenuti che muoiono in carcere, lontani dagli affetti
familiari e dai luoghi domestici, in balia dell’università che utilizza i
loro corpi per esperimenti, come prevede il Regolamento.

Il 1° febbraio 1936
padre Sandrone lascia l’incarico di cappellano delle carceri. Gli succede
padre Pietro Dante, anch’egli coinvolto nell’assistenza dei condannati a
morte.

L’esperienza di san 
Giuseppe Cafasso si ripete tragicamente. I padri Vittorio Sandrone, Pietro
Dante, Giovanni Bortolas, Giuseppe Moncher, Carlo Masera, Gerardo Bottacin,
Giacomo Fissore, Adriano Severin, Giuseppe Rubatto, Enzo Sommadossi
accompagnano i 72 condannati alla fucilazione o impiccagione con una
partecipazione umana e religiosa indicibile. Ecco una testimonianza.

«Erano le 17 circa
del 22 luglio 1944. Mi aggiravo nelle celle dei detenuti, quando mi sentii
chiamare affannosamente dalla superiora delle suore, addette alla sezione
femminile delle carceri, suor Giuseppina De Muro. Corsi al luogo
indicatomi. Nel cortile esterno dello stabilimento trovavo già in partenza
due camion carichi di truppa con mitragliatrici. Tentai di salirvi. Mi
fermò un tenente della Leonessa, perché (i tedeschi che comandavano il
famigerato 1° braccio) non lo permettevano. Mi arrampicai sul camion in
moto. Mi trovai fra soldati e mitragliatrici; seduti e ammanettati vidi
sei individui in borghese. Non li conoscevo affatto, perché provenivano
dal reparto tedesco, dove era assolutamente vietato al cappellano
l’entrarvi. Neppure sapevo dove andava. Mi avvicinai al primo che stava
nella parte posteriore della macchina. Vestiva decentemente, era pallido
in viso, per tutto il tragitto come sul luogo di esecuzione non disse una
parola: era un capitano (Ignazio Vian)… Quattro condannati vengono fatti
scendere. Le manette ai polsi e la lunga catena che li unisce ostacolano
la discesa… sotto gli alberi vengono liberati dai ferri. Un camion
retrocedendo si ferma, in modo che la parte posteriore, con sponda
abbassata, si trovi sotto i capestri. Salgono i condannati, cui quattro
tedeschi legano le mani dietro la schiena. Un diciottenne invoca la mamma:
“Sono innocente, la mia mamma resterà sola, senza aiuto e senza appoggio”.
Non avverto segnali. La macchina parte improvvisamente, mentre i soldati
danno una spinta alle vittime, che si trovano sospese nel vuoto. Le
assistetti con la preghiera, rinnovando l’assoluzione finché non le vidi
immobili».

  Anche
un ragazzo di 20 anni

 n Disponibilità,
altra caratteristica dei missionari della Consolata. Alcuni sono obbligati
per motivi bellici a tornare in Italia e prestano servizio nei campi,
negli ospedali militari e in carcere. Ad esempio, padre Giacomo Fissore
opera a Torino da giugno 1940 ad agosto 1942 come cappellano militare
presso l’ospedale da campo n. 2, poi aiuta il cappellano delle carceri dal
1943 al 1950.

n L’ascolto del
carcerato è costante nei missionari della Consolata. Di padre Fissore il
professor Luigi Sacchetti scrive: «Mentre parlavo, mi stava a guardare in
silenzio con l’occhio di chi sa cogliere le voci più sepolte e le sa
ricomporre nei disegni di Dio».

Il detenuto non
chiede giudizi politici, né strategie di difesa giudiziaria, ma di essere
ascoltato per alleviare un po’ il suo cuore oppresso e per dare un senso
alla sua mente offuscata da dubbi corrosivi. L’assistenza spirituale a chi
soffre la prigione e ai condannati a morte permette di capire il mistero
dei progetti di Dio sull’uomo, anche in situazioni assurde ed ingiuste.

n La solidarietà
crea un sostegno reciproco fra i cappellani militari e quelli delle
carceri. In una lettera del 1942 spedita da padre Fissore, cappellano
militare del 2° ospedale da campo a Bussoleno, si raccomanda un medico a
padre Sandrone, cappellano de Le Nuove: «È stato tradotto alle carceri un
suo carissimo amico, il dottor Prando, sospettato di avere maneggiato
denaro nelle licenze dei soldati. È padre di due bambine. Credo che sono
30-40 i medici implicati in simili cose. Due sono veramente colpevoli.
Anche noi cappellani siamo tenuti d’occhio».

La solidarietà si
anima anche con il Da Casa Madre, che raccoglie e trasmette informazioni
sui missionari sparsi ovunque. È un organo di stampa importante nella
guerra: riduce preoccupazioni, angosce, incertezze, e conserva la
ragionevolezza nei rapporti sociali.

n Il tatto
caratterizza la comunicazione di notizie tristi alle famiglie dei
condannati a morte. Nella lettera di padre Ezio Sommadossi al genitore di
Carlo Pizzoo, fucilato il 22 settembre 1944, si legge: «Carissimo papà
desolato, non sono vostro figlio, ma sono fratello di vostro figlio…
Tutti i suoi baci che infiniti stampò sul mio volto per l’adorato papà ve
li trasmetto; pegno troppo prezioso per me, e non mi sento la forza di
custodirli con quella fede e purezza che unì le nostre anime fino al
momento che volò tra le braccia della sua mamma adorata (morta tempo
prima). Come vorrei dirvi, padre… Permettete al mio affetto di non
chiamarvi con altro nome: troppo ne sento il bisogno, perché diversamente
non saprei spiegare il dolore che squarciò il mio cuore… La sua
scomparsa segna una tappa nella mia vita. Attendo di vedervi per
riscaldare il vostro dolore coi baci che conservo come sacro pegno di
Carluccio».

Padre Sommadossi è
cappellano a Le Nuove da luglio al 16 novembre 1944; assiste 16 condannati
a morte; il primo è proprio Carlo Pizzoo, fucilato al Martinetto. Viene
sostituito da padre Ruggero Cipolla, francescano, per motivi di salute,
secondo una nota dell’Amministrazione penitenziaria (1945). In realtà il
missionario rischia di essere catturato dai tedeschi, sospettosi del suo
operato.

n Il rischio del
martirio contraddistingue l’azione del missionario della Consolata in
carcere. In una lettera della moglie del generale Perotti, Fiorenza
Perotti, si legge: «Padre Fissore aveva assistito mio marito e i suoi
compagni e, avendo accettato le lettere che mio marito aveva scritto per
consegnarle alla famiglia, aveva avuto minacce e botte da alcuni
componenti il plotone di esecuzione. Ho parlato pochi minuti con padre
Fissore, che era malconcio fisicamente e moralmente».

Il rischio di essere
fucilato è alto per padre Fissore, tenendo presente che le SS non si
fidano dei repubblichini, e a maggior ragione di altri italiani. Tale
esempio di coraggio e resistenza ai processi di disumanizzazione, se non
di annientamento messo in atto in prigione, merita particolare attenzione.

n La conversione è
un’altra esperienza forte del missionario fra i carcerati. Padre Carlo
Masera partecipa a 10 esecuzioni capitali dal 1943 al 1944 e racconta di
un giovane sui 20 anni. «Non aveva mai pregato, né era mai entrato in
chiesa. Mi sorse il dubbio che non fosse nemmeno cristiano. Infatti mi
confessò che non era battezzato». Ma in punto di morte il giovane riceve
il battesimo e la prima comunione.

 

Nel giorno della
sepoltura di padre Masera, il 27 gennaio 1970, padre Damiano Fea afferma:
«Questo periodo per i missionari della Consolata, che hanno assistito
tanti prigionieri, deportati e condannati a morte, è stato pesante, penoso
e delicato».

Ricordarli oggi è un
dovere della società e della chiesa.

Personalmente lo
faccio anche in omaggio del centenario dei missionari della Consolata.

Felice Tagliente,
psicologo

delle carceri «Le
Vallette/Le Nuove» – Torino

F. Xavier Nguyên Vân Thuân




Un flacone contro il mal di stomaco

Che fa un vescovo in prigione per 13 anni,
di cui nove in isolamento?
Risponde lo stesso carcerato, dal 1975 al 1988
vittima in Viet Nam delle galere del comunismo.
Oggi presiede a Roma il Consiglio pontificio
«Giustizia e pace».
Ed è pure cardinale.

In Viet Nam ho vissuto oltre 13 anni in prigione, di cui nove in isolamento, senza neppure una visita della famiglia, e con due poliziotti che non mi parlavano. Senza radio, giornali, telefono, televisione. Una cultura di morte.
Ho trascorso da giovane vescovo questi anni di disperazione e rivolta. Ma Gesù nell’eucaristia mi ha aiutato.
pacchetti di sigarette
Il primo giorno di carcere… sono a mani vuote. Il secondo, mi è permesso di scrivere per chiedere dei vestiti e un dentifricio. Chiedo pure delle medicine e del vino… La gente, fuori, ha il dono dello Spirito: capisce subito.
Non molto tempo dopo, il direttore della prigione mi chiama.
– Signor Vân Thuân, lei ha mal di stomaco?
– Sì, signore!
– Ha bisogno di medicine?
– Ogni mattina.
– Eccole un flacone per il suo male.
È una bottiglietta di vino.
Con mia grandissima gioia, grazie a quel vino, celebro le più belle messe della mia vita. Offro il sacrificio eucaristico sul palmo della mano, con tre gocce di vino e una di acqua. Ogni giorno posso rinnovare con il Signore la mia «nuova ed eterna alleanza» di sacerdote.
L’eucaristia è un sostegno per me e per gli altri prigionieri cattolici. Dormiamo tutti su uno stesso letto. La sera alle 21.30, nell’oscurità, mi curvo per celebrare la messa, il cui testo conosco a memoria. Poi faccio passare sotto la zanzariera la comunione ai cinque cattolici vicini a me. La presenza di Gesù eucaristia ci conforta molto. L’indomani raccogliamo carta di pacchetti di sigarette, con la quale fabbrichiamo dei sacchettini per contenere il Santissimo.
Ogni settimana, al venerdì, si tiene la sessione di indottrinamento marxista. Tutti i prigionieri vi partecipano. Al momento della sosta, consegniamo ad ogni gruppo di 50 persone un sacchettino… con Gesù dentro. Ciascuno «intasca il Signore» e, nella prova, nella tristezza, nella tribolazione, lo sente con sé: lo prega di notte, fa l’«ora santa». E, grazie all’adorazione e alla comunione, i cristiani che hanno abbandonato la fede ritornano praticanti.
Non potrò mai dimenticare come ci abbia sostenuto il canto liturgico, lasciatoci da san Tommaso per la celebrazione della festa del Corpus Domini, dove viene affermata tutta la teologia in parole semplici. E avvertirò sempre il senso mariano dell’eucaristia. Quando la celebriamo, siamo veramente figli di Maria: Ave verum corpus natum de Maria virgine…
Con l’eucaristia, i laici in carcere diventano coraggiosi nell’impegno e sereni nella tristezza: servono tutti con carità, e la loro testimonianza affascina i non cattolici (talvolta fanatici), che poi chiedono di conoscere Gesù e la nostra religione; diventano catechisti; poi battezzano gli altri compagni prigionieri facendo loro da padrini.
Con l’eucaristia la prigione cambia: diventa una scuola di fede, una catechesi.
«Sei hutu o tutzi?»
In ogni angolo del mondo l’eucaristia infonde forza e fa santi di ogni tribù, lingua e nazione. La storia della chiesa è piena di martiri, che hanno vinto persino la morte grazie all’eucaristia.
Ricordo i trappisti francesi in Algeria, monaci e missionari. I superiori hanno chiesto loro di lasciare il paese, data la seria minaccia per la loro vita; ma tutti decidono di restare e sono morti per la fede.
In Africa non mancano le guerre etniche. Ma tanti nostri fratelli africani soffrono con coraggio… Un sacerdote in Rwanda, all’arrivo dei soldati, indossa i paramenti sacri. Gli domandano: «Sei hutu o tutzi?». E lui: «Sono un prete…». Per la seconda e terza volta gli rivolgono la stessa domanda. La risposta è sempre: «Sono un prete». Lo ammazzano. Muore da sacerdote. E il sacerdote non ha frontiere: è per la chiesa universale. È testimone della fede, grazie a quel Gesù che celebra ogni giorno nell’eucaristia.
In Burundi alcuni guerriglieri hutu fanno irruzione in un seminario per arrestare 40 studenti, chiedendo loro di dividersi: gli hutu da una parte e i tutzi dall’altra. «Se siete hutu vivrete, se tutzi morirete!». Ma i 40 seminaristi restano uniti. Vengono tutti uccisi, fratelli nella vita e nella morte. Sono martiri dell’unità dei popoli, quell’unità che Gesù ci richiede: «Come tu, Padre, sei in me ed io in te, che tutti siano una sola cosa…».
Nella regione dei Grandi Laghi operano anche le suore «poverelle» di Bergamo, e vengono contagiate dall’Ebola nella repubblica democratica del Congo. Molti hanno lasciato il paese, ma esse no; anzi, sono giunte nuove missionarie. I giornalisti incontrano suor Dinarosa Merelli.
– Perché resta qui? Deve andarsene. Il morbo è molto contagioso!
– Rimango per servire la gente, anche a prezzo della mia vita.
Sono tutte morte in Congo. Ma sono seme di nuovi cristiani.
La croce del vescovo
In carcere in Viet Nam i poliziotti non mi parlano, perché sono in isolamento. Ma un giorno mi rivelano ciò che è stato detto loro dal capo: «Dal momento che andrete a controllare un vescovo cattolico assai pericoloso, vi sostituirò ogni due settimane con un altro gruppo, altrimenti egli vi contaminerà». Dopo qualche tempo, il capo convoca tutti i miei carcerieri: «Ormai non vi cambio più, altrimenti questo cattivissimo vescovo contaminerà tutta la polizia».
Con quale veleno li ha contaminati quel «cattivissimo vescovo», se non con quello dell’amore di Cristo Gesù?
Un giorno, durante i lavori forzati, taglio legna. Chiedo a un carceriere divenuto amico: «Lasciami tagliare un pezzo di legno a forma di croce».
– È molto pericoloso, è vietato! Lei ora è mio amico e io finirò in prigione come lei.
– No, chiudi gli occhi e lasciami fare.
Il custode non può resistere e si allontana. Io ritaglio un pezzo di legno nero a forma di croce e lo tengo nascosto nel sapone fino alla liberazione nel 1988.
Trasferito in un’altra prigione, vicino ad Hanoi, chiedo al carceriere un pezzo di filo elettrico.
– Signor Vân Thuân, lei vuole suicidarsi!
– Ma no!
– Cosa vuole fare con il filo elettrico?
– Voglio fare una catenella per appendere la mia croce. Se mi presti due piccole tenaglie, te lo mostrerò.
Tre giorni dopo, il carceriere mi dice: «Le porterò l’occorrente. Però dobbiamo fare tutto tra le 7 e le 11; se qualcuno vede, ci denuncerà». E in quattro ore mi aiuta a fabbricare la catenella della croce vescovile che porto sempre con me, perché non è solo un ricordo, ma una chiamata ad amare.
Diverse volte i poliziotti mi pongono una domanda cruciale.
– Lei ci ama?
– Sì, certo, che vi amo.
– Impossibile! Noi la teniamo qui da più di dieci anni, senza giudizio, senza sentenza, e lei ci ama!
– Io continuo ad amarvi e voi vedete come siamo amici. È incomprensibile, ma bello.
– Perché ci ama?
– Perché me l’ha insegnato Gesù e io, se non vi amassi, non sarei più degno di portare il nome cristiano di Francesco Saverio.
Così sono vissuto in prigione sino alla fine.
«Corpus Domini» in Serbia
Ancora un aneddoto, che non ho mai raccontato.
Nel 1999, in occasione della festa del Corpus Domini del 6 giugno, il papa mi invia improvvisamente, quale presidente del Consiglio pontificio «Giustizia e pace», nell’ex Jugoslavia in guerra. Con me ci sono altri due vescovi: dobbiamo arrivare, ciascuno con una destinazione diversa, per la festa eucaristica. Ma abbiamo soltanto tre giorni per prepararci.
Il santo padre ci dice: «Voglio che preghiate e facciate pregare la gente con me, mentre io celebrerò il Corpus Domini nella basilica di san Giovanni in Laterano. Dite a tutti che il papa prega per la pace».
Partiamo: io vado in Serbia, monsignor Martin in Macedonia e monsignor Crepaldi in Albania, per mostrare che il santo padre ama tutti i popoli. Arrivo a Belgrado la vigilia della festa. La città è deserta, senza acqua e senza luce. Sono rimasti solo sei ambasciatori, che si chiedono: «Perché Milosevic non ha accettato la proposta della Nato e tutti gli ambasciatori sono fuggiti?».
L’indomani celebro l’eucaristia in cattedrale con il popolo. Quando leggo il telegramma del pontefice, tutti piangono, perché i cattolici sono una minoranza tra ortodossi e musulmani: sentono che il papa è con loro e prega per la pace nella regione. Dopo la messa, i sei ambasciatori vengono a congedarsi in sagrestia. E, nello stesso istante, i loro segretari arrivano di corsa con una notizia: la Serbia sta per accettare il piano di pace della Nato e tutti gli ambasciatori stanno per ritornare. Ndr: dopo 78 giorni di guerra, il 9 giugno 1999 il presidente Milosevic e il parlamento serbo accettarono i 12 punti del piano di pace proposto dalla Nato e Russia.
A mezzogiorno sono in nunziatura e ricevo una telefonata dalla Santa Sede: «Come avete fatto? Avete celebrato la messa?». «Sì, abbiamo anche annunciato che la pace è vicinissima». E da Roma: «Il papa lo dirà subito a Kofi Annan, segretario delle Nazioni Unite».
La preghiera a Gesù nell’eucaristia porta la pace nel mondo, come Gesù ha detto: «La mia carne è per la vita del mondo». Ed è la più grande missione.

Testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier Nguyên Vân Thuân nella basilica di san Giovanni in Laterano, Roma 22 giugno 2000. Adattamento della redazione.

Trecento frammenti di speranza

È nato il 17 aprile 1928 a Huê, Viet Nam. Discende da una famiglia che conta numerosi martiri. Nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio materno furono bruciati vivi in chiesa, eccetto il nonno (che studiava in Malesia).
La mamma Elisabeth ha educato cristianamente François Xavier fin da quando era in fasce. Allorché il figlio fu imprigionato, continuò a pregare per lui affinché restasse sempre fedele alla chiesa.
L’incarcerazione avvenne nel 1975 ad opera del regime comunista. François Xavier era da pochi mesi vescovo, oltre che sacerdote dal 1953. Sopporterà la prigione per 13 anni. Da carcerato visse momenti drammatici, come il viaggio su una nave con 1.500 detenuti affamati e disperati. Per non parlare dei nove anni di isolamento.
In carcere non poteva tenere la bibbia: allora raccolse tanti pezzetti di carta e vi scrisse tutte le frasi del vangelo che ricordava: oltre 300. Divenne il suo vademecum quotidiano.
Liberato nel 1988, tre anni dopo fu espulso dal Viet Nam quale «persona non grata».
Dal 1998 è presidente a Roma del Consiglio pontificio «Giustizia e pace». E, dal 21 febbraio scorso, cardinale.
Ha pubblicato vari libri, tutti all’insegna della speranza:
Il cammino della speranza, I pellegrini del cammino della speranza, Il cammino della speranza alla luce della parola di Dio e del Concilio Vaticano II, Preghiere di speranza, La speranza non delude…

Con 72 condannati alla forca

I missionari della Consolata prestano assistenza spirituale ai carcerati de Le Nuove di Torino dal 16 gennaio 1931 al 16 novembre 1944. Sono 14 anni cruciali, condizionati da regimi dittatoriali contrapposti e segnati dalla catastrofe della seconda guerra mondiale.
Questo periodo assegna a Le Nuove una rilevanza politica a livello locale, nazionale ed internazionale, poiché il carcere è spesso usato come repressione e persecuzione contro i dissidenti politici. Le Nuove di Torino è luogo di transito per chi viene trasferito in altre prigioni del nord e dell’estero; racchiude detenuti italiani e stranieri per motivi delinquenziali e politici. Durante il fascismo, e soprattutto nel 1943-45, la vita carceraria rispecchia, prima, l’inasprimento della pena e poi il terribile clima della guerra.
Come confortare un morente in carcere che, talvolta, si dichiara innocente? Ancora più difficile è accompagnare alla forca un condannato a morte, come avviene a Vittorio Longo il 7 agosto 1935. A partire da questa data, tanti sono i condannati alla pena capitale assistiti dai missionari della Consolata: complessivamente 72, di cui 2 prima della guerra e 70 dal 17 marzo 1943 al 5 novembre 1944.
L’azione dei missionari della Consolata, cappellani aggiunti ed aiutanti ne Le Nuove, contribuisce alla salvaguardia dei valori umani e spirituali, che fondano la Costituzione. Il loro ministero è svolto sempre a favore dei più afflitti dalla sofferenza. Il modo di porsi di fronte ai condannati è ispirato al rispetto della dignità umana e del fratello in Cristo.

Sulle orme di san Cafasso

L a prima caratteristica dell’essere missionario in prigione è la prudenza, nel rispetto delle norme penitenziarie.
Scrive padre Giovanni Piovano sull’assistenza di padre Vittorio Sandrone a favore dei carcerati: «Operò un grandissimo bene fra continue difficoltà, date da quel luogo di pena, ma più ancora dalle circostanze e dagli eventi del tempo, uno dei più gravi della storia di Torino e dell’Italia. Padre Sandrone, dal primo all’ultimo giorno in cui esercitò il non facile incarico, non solo ne conobbe la responsabilità e ciò che da lui si richiedeva, ma lo compì con grande fede e anche con cristiano entusiasmo».
Padre Sandrone raccomanda la prudenza per poter esercitare il ministero verso tutti. Nel 1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Istituto impartisce alcune disposizioni: «Nel parlare non si vada oltre al puro racconto dei fatti… A nessuno è proibito di pensare gli avvenimenti secondo la propria coscienza, però non deve esprimere con gli estranei la sua opinione, ed anche con i confratelli si deve usare molta prudenza e tolleranza, evitando ogni disputa accalorata. Il meglio sarebbe pensare, come il beato Cafasso, al grande numero di anime che muoiono senza sacramenti e procurare di ottenere loro da Dio una grazia particolare di penitenza».
Non si può scordare che il codice penale Rocco (1930) determina un aumento dei casi di reato perseguibili e un allungamento della pena, fino a raddoppiarla rispetto a quella del codice Zanardelli (1890). Inoltre il Regolamento penitenziario del 1931 inasprisce la vita intramuraria con punizioni più severe e minori controlli da parte della Commissione vigilatrice estea.
Padre Sandrone assiste 40 detenuti che muoiono in carcere, lontani dagli affetti familiari e dai luoghi domestici, in balia dell’università che utilizza i loro corpi per esperimenti, come prevede il Regolamento.
Il 1° febbraio 1936 padre Sandrone lascia l’incarico di cappellano delle carceri. Gli succede padre Pietro Dante, anch’egli coinvolto nell’assistenza dei condannati a morte.
L’esperienza di san Giuseppe Cafasso si ripete tragicamente. I padri Vittorio Sandrone, Pietro Dante, Giovanni Bortolas, Giuseppe Moncher, Carlo Masera, Gerardo Bottacin, Giacomo Fissore, Adriano Severin, Giuseppe Rubatto, Enzo Sommadossi accompagnano i 72 condannati alla fucilazione o impiccagione con una partecipazione umana e religiosa indicibile. Ecco una testimonianza.
«Erano le 17 circa del 22 luglio 1944. Mi aggiravo nelle celle dei detenuti, quando mi sentii chiamare affannosamente dalla superiora delle suore, addette alla sezione femminile delle carceri, suor Giuseppina De Muro. Corsi al luogo indicatomi. Nel cortile esterno dello stabilimento trovavo già in partenza due camion carichi di truppa con mitragliatrici. Tentai di salirvi. Mi fermò un tenente della Leonessa, perché (i tedeschi che comandavano il famigerato 1° braccio) non lo permettevano. Mi arrampicai sul camion in moto. Mi trovai fra soldati e mitragliatrici; seduti e ammanettati vidi sei individui in borghese. Non li conoscevo affatto, perché provenivano dal reparto tedesco, dove era assolutamente vietato al cappellano l’entrarvi. Neppure sapevo dove andava. Mi avvicinai al primo che stava nella parte posteriore della macchina. Vestiva decentemente, era pallido in viso, per tutto il tragitto come sul luogo di esecuzione non disse una parola: era un capitano (Ignazio Vian)… Quattro condannati vengono fatti scendere. Le manette ai polsi e la lunga catena che li unisce ostacolano la discesa… sotto gli alberi vengono liberati dai ferri. Un camion retrocedendo si ferma, in modo che la parte posteriore, con sponda abbassata, si trovi sotto i capestri. Salgono i condannati, cui quattro tedeschi legano le mani dietro la schiena. Un diciottenne invoca la mamma: “Sono innocente, la mia mamma resterà sola, senza aiuto e senza appoggio”. Non avverto segnali. La macchina parte improvvisamente, mentre i soldati danno una spinta alle vittime, che si trovano sospese nel vuoto. Le assistetti con la preghiera, rinnovando l’assoluzione finché non le vidi immobili».

Anche un ragazzo di 20 anni

Disponibilità, altra caratteristica dei missionari della Consolata. Alcuni sono obbligati per motivi bellici a tornare in Italia e prestano servizio nei campi, negli ospedali militari e in carcere. Ad esempio, padre Giacomo Fissore opera a Torino da giugno 1940 ad agosto 1942 come cappellano militare presso l’ospedale da campo n. 2, poi aiuta il cappellano delle carceri dal 1943 al 1950.
n L’ascolto del carcerato è costante nei missionari della Consolata. Di padre Fissore il professor Luigi Sacchetti scrive: «Mentre parlavo, mi stava a guardare in silenzio con l’occhio di chi sa cogliere le voci più sepolte e le sa ricomporre nei disegni di Dio».
Il detenuto non chiede giudizi politici, né strategie di difesa giudiziaria, ma di essere ascoltato per alleviare un po’ il suo cuore oppresso e per dare un senso alla sua mente offuscata da dubbi corrosivi. L’assistenza spirituale a chi soffre la prigione e ai condannati a morte permette di capire il mistero dei progetti di Dio sull’uomo, anche in situazioni assurde ed ingiuste.
n La solidarietà crea un sostegno reciproco fra i cappellani militari e quelli delle carceri. In una lettera del 1942 spedita da padre Fissore, cappellano militare del 2° ospedale da campo a Bussoleno, si raccomanda un medico a padre Sandrone, cappellano de Le Nuove: «È stato tradotto alle carceri un suo carissimo amico, il dottor Prando, sospettato di avere maneggiato denaro nelle licenze dei soldati. È padre di due bambine. Credo che sono 30-40 i medici implicati in simili cose. Due sono veramente colpevoli. Anche noi cappellani siamo tenuti d’occhio».
La solidarietà si anima anche con il Da Casa Madre, che raccoglie e trasmette informazioni sui missionari sparsi ovunque. È un organo di stampa importante nella guerra: riduce preoccupazioni, angosce, incertezze, e conserva la ragionevolezza nei rapporti sociali.
Il tatto caratterizza la comunicazione di notizie tristi alle famiglie dei condannati a morte. Nella lettera di padre Ezio Sommadossi al genitore di Carlo Pizzoo, fucilato il 22 settembre 1944, si legge: «Carissimo papà desolato, non sono vostro figlio, ma sono fratello di vostro figlio… Tutti i suoi baci che infiniti stampò sul mio volto per l’adorato papà ve li trasmetto; pegno troppo prezioso per me, e non mi sento la forza di custodirli con quella fede e purezza che unì le nostre anime fino al momento che volò tra le braccia della sua mamma adorata (morta tempo prima). Come vorrei dirvi, padre… Permettete al mio affetto di non chiamarvi con altro nome: troppo ne sento il bisogno, perché diversamente non saprei spiegare il dolore che squarciò il mio cuore… La sua scomparsa segna una tappa nella mia vita. Attendo di vedervi per riscaldare il vostro dolore coi baci che conservo come sacro pegno di Carluccio».
Padre Sommadossi è cappellano a Le Nuove da luglio al 16 novembre 1944; assiste 16 condannati a morte; il primo è proprio Carlo Pizzoo, fucilato al Martinetto. Viene sostituito da padre Ruggero Cipolla, francescano, per motivi di salute, secondo una nota dell’Amministrazione penitenziaria (1945). In realtà il missionario rischia di essere catturato dai tedeschi, sospettosi del suo operato.
Il rischio del martirio contraddistingue l’azione del missionario della Consolata in carcere. In una lettera della moglie del generale Perotti, Fiorenza Perotti, si legge: «Padre Fissore aveva assistito mio marito e i suoi compagni e, avendo accettato le lettere che mio marito aveva scritto per consegnarle alla famiglia, aveva avuto minacce e botte da alcuni componenti il plotone di esecuzione. Ho parlato pochi minuti con padre Fissore, che era malconcio fisicamente e moralmente».
Il rischio di essere fucilato è alto per padre Fissore, tenendo presente che le SS non si fidano dei repubblichini, e a maggior ragione di altri italiani. Tale esempio di coraggio e resistenza ai processi di disumanizzazione, se non di annientamento messo in atto in prigione, merita particolare attenzione.
n La conversione è un’altra esperienza forte del missionario fra i carcerati. Padre Carlo Masera partecipa a 10 esecuzioni capitali dal 1943 al 1944 e racconta di un giovane sui 20 anni. «Non aveva mai pregato, né era mai entrato in chiesa. Mi sorse il dubbio che non fosse nemmeno cristiano. Infatti mi confessò che non era battezzato». Ma in punto di morte il giovane riceve il battesimo e la prima comunione.

Nel giorno della sepoltura di padre Masera, il 27 gennaio 1970, padre Damiano Fea afferma: «Questo periodo per i missionari della Consolata, che hanno assistito tanti prigionieri, deportati e condannati a morte, è stato pesante, penoso e delicato».
Ricordarli oggi è un dovere della società e della chiesa.
Personalmente lo faccio anche in omaggio del centenario dei missionari della Consolata.
Felice Tagliente, psicologo
delle carceri «Le Vallette/Le Nuove» – Torino

F. Xavier e Van Thuan




Perché non sono americano

Superiore generale dei missionari della Consolata per 12 anni
e oggi superiore di quelli in Tanzania,
padre Giuseppe Inverardi, bresciano,
ci permette di approfondire la situazione di questo paese,
in relazione anche ad altre nazioni dell’Africa…
Il socialismo di Nyerere: successi e fallimenti.
L’importanza del kiswahili. Il dramma dell’Aids e dei ragazzi di strada.
L’azione della chiesa.

Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di auto nomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito del la rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.

Julius Nierere – Il “Gandhi” dell’Africa nera

IL «GANDHI» DELL’AFRICA NERA

L o chiamavano «mwalimu», maestro. Laureato in pedagogia in Inghilterra, si era dedicato all’insegnamento: maestro nella primaria e maestro di vita poi per tutta l’Africa, che voleva liberata senza spargimento di sangue.
Determinanti sono state le sue mediazioni per portare la pace in Sudafrica, Mozambico… Ha liberato il Tanzania con una precisa tattica: esercitando ogni sorta di pressione non violenta sugli inglesi e alle Nazioni Unite, per ottenere autogoverno e indipendenza. Lui, il «Gandhi» dell’Africa nera.
Ha fondato il partito Tanu (Tanganyika African National Union) con il programma Uhuru na umoja (libertà e unità). Ha creato vincoli di amicizia tra le 120 tribù del paese, facendo appello all’unità nazionale, più forte dei vincoli etnici; ha favorito la lingua kiswahili come fattore di coesione nazionale; ha saputo trarre vantaggio dalle tensioni delle «tribù» europee (inglesi, tedeschi e greci), per farsi ascoltare dagli inglesi che accettarono di ritirarsi dal Tanzania senza rappresaglie né sabotaggi. Diventato presidente, non cambiò stile di vita: viveva i principi che insegnava, basati su una particolare forma di socialismo, mirante a raggruppare la gente in villaggi per vivere una vita sociale in forma di cornoperativa, dove tutti potessero interessarsi e partecipare al bene comune, con l’aiuto dello stato nelle grandi opere: strade, acquedotti, ospedali.
Viveva modestamente. Lo posso testimoniare in seguito ad un significativo incontro avuto con lui. Avevo intervistato padre Walsh, dei Padri Bianchi, cappellano degli universitari e direttore spirituale di Nyerere. Grazie a questo missionario, potei incontrare il presidente nella sua casa, semplice e dignitosamente povera. Finito il colloquio, egli stesso ci accompagnò all’università di Dar es Salaam, guidando la sua modesta automobile. Edificante il colloquio sul rapporto tra fede e politica.
Fede in Gesù Cristo: appena poteva, partecipava all’eucaristia inginocchiato tra i ragazzi. Fu anche visto in fila, davanti al confessionale.
Fede nell’uomo, nella sua sostanziale bontà: da qui la scelta di spingere i tanzaniani a vivere con un ideale fin troppo elevato per le deboli forze di queste popolazioni, da sempre chiuse entro i limitati confini delle necessità quotidiane.
Q ualcuno lo chiamava «il maestro rosso», specie per i suoi precisi interventi contro la corruzione di coloro che il popolo aveva argutamente ascritto alla «tribù» dei «Wabenzi», cioè di quanti potevano permettersi il lusso di girare su costosissime Mercedes Benz! Aveva promulgato «il codice dei dirigenti», per impedire ai ricchi di percepire due stipendi.
La gente aveva un’estrema fiducia in lui; per cui lo seguì sulla strada di una riforma che intendeva dare al paese un indirizzo socialista, tipicamente africano, non marxista, alieno dalla lotta di classe, basato sul tradizionale collettivismo rurale e legato alla cultura del passato. «Giustizia, uguaglianza, dignità»: erano i cardini del socialismo e dell’autogestione, proclamati nella famosa dichiarazione di Arusha (1967).
Il suo socialismo si chiamava «ujamaa», termine kiswahili che significa «stato di famiglia». Nyerere sognava che l’intero Tanzania diventasse una famiglia. Cominciò la campagna di nazionalizzazione. Nello stesso tempo nacquero le cornoperative di produzione e consumo autogestite ed autornamministrate. Bellissimo l’ideale. Deboli gli uomini chiamati a metterlo in pratica.
S i parlò di disastro, di completo fallimento. I forti e contrastanti interessi economici, i boicottaggi, le invidie, l’estrema povertà del paese, la mancanza di preparazione e di incentivi personali; poi anche l’aumento del prezzo del petrolio, la guerra contro l’Uganda di Amin…
I malcontenti portarono ad un tentativo di colpo di stato. Quando Nyerere incontrò colui che progettava di destituirlo, gli mise un fucile in mano e lo invitò a sparargli: era disposto a morire se ciò fosse servito ad evitare un bagno di sangue per la sua gente.
Quando, nel 1984, si accorse che c’erano tensioni e rischi di aggravamento delle proteste separatiste, spontaneamente lasciò la presidenza al musulmano Mwinyi. Egli, convinto cattolico, parlò in favore del suo successore, per cementare tutto il paese e facilitare così la transizione del potere.
Si ritirò nel suo villaggio a coltivare la terra e a fare il catechista, lasciando tali occupazioni solo quando percepiva di poter essere ancora utile come mediatore di pace presso popolazioni travagliate dalla guerra.
Valentino Salvoldi

aa.vv




Io sono perchè, noi siamo

L’ Africa non cessa di sorprendere. Nonostante i crescenti problemi, fa di tutto per sopravvivere, anzi per danzare la vita.
Lo scorso anno, in Etiopia, per un corso di aggioamento ai religiosi e al clero, presi lo spunto da un disegno di un artista africano intitolato: «Il Cristo che ride».
Oggi in Tanzania, per sviluppare il tema della salvezza, mi avvalgo come ispirazione del presepio allestito dai missionari della Consolata nella loro casa-procura di Dar es Salaam. Si tratta di una scultura, che si dispiega in uno stupendo groviglio di corpi scolpiti nell’ebano («maconde»), plasticamente culminante in una culla: vi riposa il bambino Gesù, che si massaggia un piede con il particolare atteggiamento che prelude… al sonno. «Dormire è bello – commenta un giovane africano -, dormire e sognare».
Interessante anche l’osservazione di un missionario della Consolata su quel divino infante: «Si sta togliendo una pulce penetrante. Povero Cristo! Ha sperimentato di tutto sulla terra».
I vangeli canonici non ci parlano di pulci penetranti; forse gli apocrifi… San Paolo afferma che, attraverso la sofferenza, il figlio di Dio ha capito che cosa significa essere figlio dell’uomo. E a tutti ha offerto la salvezza.
Anche alla pulce penetrante? Se questa non viene tolta subito, porta a complicanze irreparabili. Presa in tempo, è facilmente eliminabile, come fosse uno scherzo, un gioco da bambini.

«I l sorriso» e «il massaggio del piede»: due immagini che ci parlano dell’arte di ridimensionare ogni cosa, mantenendo un sostanziale ottimismo. Questo atteggiamento, tipico di molti africani, è riscontrabile anche in Tanzania, paese dai mille problemi, sapientemente affrontati con calma uno dopo l’altro, oppure rimandati in attesa di tempi migliori… quando a Dio piacerà.
L’arte di ridimensionare tutto non va confusa con la superficialità né, tanto meno, con il cinismo. Quando il peso della sofferenza è eccessivo e il lavoro per salvare il salvabile cozza contro una serie di fallimenti, è facile scoraggiarsi e sembrare indifferenti al dolore.
Se nell’ospedale di Ikonda, nel sud del Tanzania, durante il fine-settimana muoiono otto pazienti, in prevalenza giovani e tutti a causa dell’Aids, diventa indispensabile radunare gli infermieri e cercare insieme le ragioni per motivare ancora l’impegno al servizio della vita: anziché contare i decessi, si ricordano perciò i successi ottenuti. In ospedale la gente (non abituata agli antibiotici), con poche pastiglie ritrova condizioni di vita accettabili, mentre se fosse rimasta al villaggio, priva di medicinali o con le sole cure del «dottore tradizionale» (stregone), sarebbe morta in tempi brevissimi.
Ridimensionare, in questo caso, significa trasferire tutto in una nuova dimensione: non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e dal senso d’impotenza, ma sentirsi orgogliosi delle vite salvate o che si è tentato di salvare.
L’arte del ridimensionare è teorizzata dall’arcivescovo di Dar es Salaam, Polycarp Pengo, ed è vissuta da lui con la spontaneità di un bambino. Dice: «Bisogna ridimensionare ogni cosa, sforzandosi di vedere prevalentemente le cose belle».
Il bambino attualizza il ridimensionamento e lo mette in pratica attraverso un rito che non ho mai visto in altre parti dell’Africa. Dai tre ai sette anni, i piccoli salutano i grandi ponendo la manina sulla testa degli adulti e ripetendo più volte: «Sono ai tuoi piedi». Per lasciarsi toccare la testa, il grande deve abbassarsi al livello del piccolo e, così facendo, si ridimensiona. Forse chi è coinvolto in questo gesto non ne apprezza a sufficienza la portata. Ma, visto dall’esterno, è molto significativo.
I bambini della scuola matea l’hanno ripetuto più volte anche con me e mia nipote Maria Rosa Lorini, coautrice di questo dossier. C’è da augurarsi che non vada perduto con il passare del tempo e il sovrapporsi delle culture.

C’ è pure da sperare che i tanzaniani mantengano inalterati i valori, ribaditi con forza da Julius Nyerere, il «maestro» per antonomasia del Tanzania.
Visitiamo questo paese ad un anno circa dalla sua morte, anche con l’intento di capire quale ricordo abbia conservato la gente di quest’uomo amante della giustizia, cattolico, convinto del valore della fede, vista pure come mezzo per motivare ulteriormente l’impegno politico.
Anche Nyerere è stato un esperto nel coinvolgere i suoi concittadini nell’arte di ridimensionare tutto: per lui si basava sulla familiarità con il pensiero di Dio, la nascita e la morte. Dava per scontata la vita eterna; considerava quella terrena il bene più grande, affidatoci dal Creatore, e aiutava il suo popolo a vedere ogni realtà nella giusta prospettiva.
E, mentre non usava mezzi termini nel denunziare lo sfruttamento dell’occidente nei confronti dell’Africa, invitava i popoli del continente a convivere in pace, senza sognare l’impossibile, ma vivendo una povertà dignitosa, cercando di essere liberi, autosufficienti e capaci di governarsi gestendo con intelligenza le risorse a loro disposizione.

P iù che riportare le mie impressioni o analisi, nel presente dossier preferisco, con Maria Rosa, cedere la parola ai missionari che stanno spendendo la vita al servizio dello sviluppo integrale del Tanzania.
Abbiamo incontrato parecchi preti e suore anche avanzati in età. Ma nessuno di loro sembra preoccuparsene, e continuano a rimanere sulla breccia: annunciano il vangelo, insegnano, guidano la jeep, fanno operazioni chirurgiche, programmano costruzioni di case e ponti come se non dovessero mai morire.
Vivendo in missione, hanno imparato a ridimensionare anche la morte.
Valentino Salvoldi
Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di autonomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito della rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.
«Batti il tamburo,
non i bambini!»

Q uesto è lo slogan che padre Franco Sordella e i bambini della Faraja House hanno scelto per l’inaugurazione della loro nuova scuola elementare nel settembre scorso. La Faraja House (casa della consolazione) è un centro nella città di Iringa per ragazzi difficili: in maggioranza provenienti dalla strada e parecchi orfani. Ognuno con il suo bagaglio di abbandono, violenza, miseria.
Il progetto (uno dei tanti realizzati dai missionari della Consolata) è iniziato dal nulla tre anni fa. Oggi consta di due settori: il primo, «ragazzi di strada» per la riabilitazione; il secondo, per l’avviamento professionale anche di minori che non vivono nella Faraja House. Il tutto è quasi un villaggio: comprende dormitori, refettori, cucine, laboratori, dispensario e la scuola tecnica, che annovera 60 ragazzi. Con gli altrettanti bambini della Faraja House, si raggiunge un totale di 120.
Ma ci sono anche i frequentatori della domenica: ragazzini che sopravvivono lavorando al mercato e vivendo in «tane» (ad esempio, presso i mucchi di crusca dietro i mulini). Ad essi, «il dì di festa», viene offerto un buon pasto e la possibilità di lavarsi e di non restare analfabeti.
Oggigiorno anche le scuole governative sono a pagamento: perciò pochi sono i bambini che hanno la possibilità di frequentarle. Nel paese scarseggiano strutture e maestri: così non bisogna stupirsi se, entrando in una classe, si trovano anche 100 allievi, che devono solo rimanere seduti e buoni, presente o meno l’insegnante, se non vogliono essere castigati.
Accanto al «problema scolastico», sta aumentando anche il numero di bambini che, come Issa, rimangono orfani a causa dell’Aids. Issa (Gesù) è stato accolto nella Faraja House a natale.
Visto che Gesù bambino fu rifiutato, perché – si sono detti i missionari – non cercare in città il ragazzo più abbandonato e solo? Uno di quelli che dormono nascosti per paura di essere picchiati o abusati dai più grandi… e dargli una famiglia? È saltato fuori Issa, che ha trovato finalmente casa, ma anche chiesa, scuola e lavoro.
Già, lavoro. Non bisogna stupirsi se, nella Faraja House, la prima cosa che si compra all’inizio della scuola non sono i libri, ma la zappa. L’importante è che il lavoro non diventi l’unico riferimento a scapito dell’istruzione e, soprattutto, che gli insegnanti non costringano i ragazzi a lavorare nei loro campi tutto il giorno sotto la minaccia del bastone.

M entre la Faraja House ospita bambini di strada, per i ragazzi che cercano un lavoro (in particolare le ragazze) è stato creato il Centro «Stella del mattino», anch’esso nel territorio di Iringa. Costruito e gestito dai missionari della Consolata, «Stella del mattino» ospita 60 adolescenti provenienti da villaggi dove non esistono le strutture necessarie per l’istruzione.
Il sistema educativo del Centro è «studio e lavoro»: lo stesso che vige nelle scuole statali fin dai tempi dell’ujamaa. La filosofia pedagogica di base enfatizza «l’importanza di trasmettere ai ragazzi le conoscenze che possano situarli in una buona posizione sociale e renderli cittadini capaci di autoguidarsi e portare il loro popolo fuori dalla povertà e dall’ignoranza» (J.T.K. Ulimwengu, capo editore Rai/Mtanzania).
Nel Centro si punta all’autosostentamento: sia per non dover dipendere da aiuti estei, sia per rendere più consapevoli i giovani. Qui essi possono mantenersi allevando animali, coltivando i campi e, nello stesso tempo, formandosi culturalmente per far fiorire domani tutte le potenzialità che la nazione possiede. In Tanzania nel 1996, durante il seminario organizzato dal «Centro per l’energia, lo sviluppo, la sicurezza e la tecnologia», si discusse sul deterioramento del livello qualitativo dell’educazione. Se nelle scuole primarie il problema maggiore è legato al sovrannumero, alle secondarie (dove il numero degli studenti è contenuto a causa della selezione per merito) la violenza sessuale costituisce il principale fattore di ingiustizia e continua ad essere al centro di dibattiti e della cronaca locale.
Il Ministro dell’educazione ha rivelato che, tra il 1995 e il 1998, 12.721 ragazze furono espulse dalla scuola poiché incinte. Anche da parte degli insegnanti.

HO VSTO LA BONTA’ LIBERATRICE

«Abbiamo visto i miracoli dell’amore» potremmo intitolare un libro, se volessimo narrare ciò che uomini e donne di Dio, preti e suore locali, missionari e laici, stanno realizzando a favore dei più poveri nei più remoti angoli della terra, là dove manca tutto: acqua, cibo, strade, ospedali, scuole.
La jeep s’inerpica sui monti a sud della Tanzania, oltre i 2 mila metri: antichi tratturi trasformati in «strade», che si possono affrontare durante la stagione secca, ma che si convertono in rovinosi torrenti durante i sei mesi delle piogge. Nonostante si creda che quattro ruote motrici possano fare miracoli, sovente ci s’impantana al punto da non potersi più muovere.
E quelle zone che sembravano deserte, d’un tratto si animano di persone che sbucano da ogni angolo, si organizzano in breve tempo e rimettono la macchina in condizione di riprendere il viaggio. È uno dei volti della solidarietà africana, una dimostrazione che l’antica massima vale ancora: «Io sono, perché noi siamo». Non si contano i saluti, i complimenti e i ringraziamenti, anche se qualcuno afferma che non è conveniente ringraziare perché, come dicono soprattutto i musulmani, «chi ha una ricompensa in terra non l’avrà in paradiso».
Da Njombe – dove finisce la strada asfaltata – a Ikonda, per percorrere 70 chilometri impieghiamo più di tre ore. Fortunatamente da alcuni giorni non piove. Intoo a noi spazi immensi e verde… verde dappertutto: siamo nella stagione delle piogge. Le poche abitazioni che si scorgono sono in terra rossa e hanno il tetto di paglia, dal quale fuoriesce fumo. Il cibo è cotto in pentole appoggiate su tre pietre, che costituiscono il focolare, per terra, in mezzo all’abitazione «multiuso». E il cibo è tutti i giorni uguale: polenta e fagioli.
Lo stesso cibo ci viene offerto dai parenti degli ammalati nell’ospedale di Ikonda. Quando la struttura venne ultimata, fu chiesto ai capi dei wakinga e wabena (etnie locali) come dovesse essere l’ambiente affinché i degenti si sentissero più a loro agio. Risposta: una grande stanza aerata, dove ognuno posa le sue tre pietre, simbolo dell’unità familiare, sulle quali cuoce la solita farina di mais. È meglio non cambiare troppo le abitudini delle persone. Poi toeranno al loro villaggio…
Ogni tanto suor Magda porta ai bambini un uovo oppure, alle mamme, un po’ d’olio per condire le patate bollite quando ci sono. La malnutrizione non aiuta certamente la guarigione.
L’ospedale è gestito dai missionari della Consolata. Può ospitare 200 ammalati e vi lavorano tre medici africani e tre spagnoli. Attualmente è il governo spagnolo a fornire i fondi per il funzionamento della scuola-infermiere e per la formazione degli assistenti medici; ma il personale competente è insufficiente. L’organizzazione Medicus Mundi cerca costantemente volontari, e si può contare sulla presenza di persone disposte a spendere qualche anno della loro vita per gli altri.

Fra le malattie (che richiedono il ricovero in ospedale) nel 1995 al primo posto c’era la malaria, passata poi al secondo. Oggi è l’Aids che detiene il triste primato: lo è anche nella classifica dei decessi. Nell’ospedale abbiamo sfogliato il voluminoso registro dei pazienti che fanno il test dell’Hiv.
Il fatto che tante persone vi si sottopongono significa che hanno comportamenti a rischio, o che vivono in ambienti dove il contagio può essere frequente, oppure che manifestano già alcuni sintomi. Orbene: ogni pagina del registro reca 18 nomi; quelli scritti in rosso sono «sieropositivi»; solo due (a volte tre) i nomi in nero, cioè i «negativi».
Nella regione di Iringa-Njombe la trasmissione dell’Aids è particolarmente accentuata anche a causa del lavoro «offerto» dalla Brooke Bond, multinazionale del tè. Il lavoro si protrae per 11-12 ore al giorno, anche sotto la pioggia, per una paga mensile che varia da 90.000 a 150.000 lire, a seconda della quantità di foglie raccolte.
I lavoratori, immigrati stagionali per la raccolta, vivono nelle casette degli accampamenti costruiti dalla compagnia, isolati. Ovunque ci sono contadini che non lavorano «in proprio», costretti anche a comprare il cibo (per lo più proveniente dal campo del manager). Non essendoci alcun diversivo, sono facile preda dell’alcornol e della promiscuità.
All’ospedale di Kibao (della Brooke Bond) risulta che 9 operai su 10 sono affetti da Hiv positivo. Quando la malattia comincia a manifestarsi, viene loro corrisposta una piccola liquidazione e sono licenziati. Con l’aggravante che, non essendo stati informati della natura e della pericolosità del male, tornando al villaggio, contagiano chi vi è rimasto. La compagnia del tè ha pensato di risolvere il problema così: un’ora settimanale di istruzione sull’uso di profilattici e sull’importanza di anticoncezionali e abortivi. Nessun accenno viene fatto agli effetti collaterali che, usando i farmaci Depoprovera e Norplan, comportano rischi elevati. Non a caso, nel Nord del mondo, tali farmaci sono stati banditi. E non solo perché, con il passare del tempo, causano sterilità nelle donne.
Se nei centri sanitari governativi non fossero praticate regolarmente «certe» iniezioni, il paese non riceverebbe più gli aiuti dall’estero. E questo sistema sta distruggendo l’«orgoglio delle tanzaniane». Una donna, infatti, diventa tale solo dopo aver partorito il primo figlio: da quel momento sarà «la mamma di…». Col tempo, il ricorso sommario a contraccettivi distruggerà la fertilità di un’intera popolazione.
Inoltre negli ospedali governativi, al momento del parto, soprattutto se c’è stato un cesareo o in seguito a complicazioni, spesso sono i medici a decidere indiscriminatamente, senza chiedere il consenso di alcuno, di chiudere le tube delle giovani madri. Queste vengono a scoprirlo soltanto in seguito quando, vedendo che non arrivano altri figli, effettuano visite di controllo, magari negli ospedali dei missionari.
Una tanzaniana, confidandosi con una missionaria della Consolata, ha commentato: «Noi abbiamo molta più fiducia nei vostri ospedali, perché qui c’è il timore di Dio, mentre in quelli del governo c’è solo il timore della nazione».
Maria Rosa Lorini

Maria Rosa Lorini




Chi paga i suonatori sceglie pure la musica

«Soldi-e-missione»: un intreccio complesso e… delicato.
Infatti sono pochi quanti accettano
che si guardi nel loro portafoglio! Per portare un esempio,
nel 1998 i vescovi italiani contavano 135 miliardi di lire
(frutto della generosità dei cattolici)
da offrire ai poveri nel Sud del mondo. Come l’hanno fatto?
E bastano i denari per vincere il sottosviluppo?

«Soldi» e «missione». Due temi contrastanti? Eppure la missione fa uso di risorse finanziarie e il loro impiego indica uno stile di evangelizzazione. L’argomento «soldi e missione» è spinoso:
– esiste un certo pudore quando si parla di «soldi e missione», come se vi fosse un livello spirituale prioritario… e il resto entrasse accidentalmente. Il denaro allora assume una valenza negativa (l’idolo «denaro»). Il trattae contaminerebbe la purezza missionaria;
– in missione si è pronti a condividere le esperienze, però non il portafoglio. Ci sono lodevoli sforzi di trasparenza; ma si è gelosi dei propri conti; non si gradisce che altri ci mettano il naso;
– infine, per le ragioni suddette, è difficile avere il quadro della situazione per poter esprimere una valutazione seria.
Nel dossier si osserva l’ambito ecclesiale:
1. presentando il quadro generale della situazione;
2. accennando a qualche problema;
3. indicando alcune ipotesi di lavoro.

1. Situazione

Sarebbe bello conoscere il giro di soldi che si muovono per la missione.
Nel 1990 si tentò di raccogliere più dati possibili, per delineare il quadro della situazione (vedi il box Offerte pro missioni); ma il principio della privacy prevalse.
Tuttavia da quell’analisi, anche se datata, è possibile avere un’idea del denaro, destinato al Sud del mondo, da enti istituzionali quali il Comitato aiuti della Conferenza episcopale italiana e le Opere pontificie (vedi i vari box).

La fantasia non ha confini

La prima impressione che si ricava dall’analisi del 1990 è la constatazione, nel tessuto italiano, di una realtà missionaria variegata. Sono coinvolte istituzioni nazionali, regionali e locali, soggetti religiosi e laici: insomma una galassia. È una presenza attiva, capace di fantasia e creatività, di proposte e realizzazioni.
Nel 1998 il Convegno missionario nazionale di Bellaria, con 1.600 presenze, ne ha preso atto coniando l’espressione «popolo della missione».
Le diverse realtà hanno a che fare con raccolte di fondi per sostenere attività e progetti. Tutte, sia pure in varie forme, attingono dalla gente le risorse necessarie. Più chiaramente, tutti attingiamo alla stessa fonte: i cittadini italiani. E bisogna dire che sono generosi, almeno con i missionari.
Le iniziative messe in campo hanno aspetti di grande creatività: «otto per mille», giornate missionarie, campagne nazionali, raccolte ordinarie, cene e digiuni di solidarietà, marce sponsorizzate, lotterie, campi di lavoro, autotassazioni, spettacoli. La fantasia non ha confini.
Per i prossimi anni bisognerà prevedere una flessione, perché le richieste si sono moltiplicate, ma il «pozzo» è sempre lo stesso. Inoltre, probabilmente, la gente si stancherà di essere sollecitata a contribuire per una pletora di attività.
Forse l’iniziativa più innovativa (e di maggior successo) negli ultimi anni è stata l’«adozione a distanza». È una proposta con elementi di presa immediata: il coinvolgimento emotivo, il rapporto individuale, l’investimento su persone, la continuità dell’impegno, l’efficacia dell’intervento, il controllo sul processo.
Se esiste una diffusa perplessità sull’incidenza degli aiuti nella realtà globale, bisogna pure affermare che questi hanno permesso la realizzazione di numerosi progetti, che hanno dato un contributo significativo al cammino dei popoli. Le nazioni sono disseminate di opere realizzate con il concorso di un’efficace generosità: scuole, ospedali, strade… Per molti paesi l’intervento ecclesiale-missionario resta l’unico catalizzatore di sviluppo.

Il giardino è mio

Bisogna ammettere che il difficile reperimento dei fondi determina, a volte, una esasperata concorrenza. Questo rischia di ridurre l’animazione missionaria a pura raccolta di soldi, con un antagonismo fra gli organismi interessati ed una accentuata diffidenza reciproca.
Si nota una «malcelata gelosia» dei propri spazi e benefattori, delle piccole «miniere d’oro» che ognuno ha scoperto… da difendere ad ogni costo.
Avviare una collaborazione con tale mentalità alle spalle è difficile, se non impossibile.
Cuore e portafoglio

Un’altra interessante osservazione viene fatta soprattutto da chi è parte in causa. Sovente l’urgenza di reperire fondi non permette un esame critico dei mezzi utilizzati per raggiungere lo scopo.
Abbiamo tutti assistito a testimonianze missionarie, racconti di campi estivi trascorsi in missione con filmati e diapositive. L’immagine e il commento sono scontati: povertà, abbandono, ecc. Si ricorre (anche se inconsciamente) ad elementi emotivi. E il passaggio dal cuore al portafoglio è breve. Si esige più attenzione al riguardo: ogni popolo ha la sua dignità che va rispettata; della povertà bisogna parlare con «pudore».
L’Africa, per esempio, è «molto di più» della somma dei suoi mali.

Domande spicciole

Esprimo ad alta voce qualche interrogativo, che mi porto dentro dagli anni della missione in Zaire (Congo).
Non ho mai capito perché è sempre facile trovare finanziamento per un… allevamento di maiali, mentre è estremamente complicato reperire fondi per erigere una cappella o sostenere un progetto pastorale. Forse si ritiene che i suini creino sviluppo e migliorino le condizioni di vita, mentre la cappella avrebbe meno incidenza. Per esperienza, garantisco che una comunità cristiana ben animata è capace di essere una grande forza di progresso per tutti.
Lo stesso si puo affermare degli investimenti in persone e strutture. È più facile reperire fondi per realizzare opere che per formare persone. Le strutture sono quantificabili e permettono un ritorno di immagine. Invece investire in persone è più rischioso, perché gli individui possono lasciare l’iter formativo e il risultato è meno visibile. Tuttavia il fattore umano è l’elemento cardine del cammino di un popolo: su questo bisogna investire molto di più.

Isole felici

Si tratta della sperequazione degli aiuti.
Il missionario lombardo o veneto ha a disposizione discreti capitali, che gli permettono di realizzare progetti di una certa portata; invece il calabrese, il latinoamericano o africano non hanno le stesse risorse. Il primo passa per bravo, capace e sarà rimpianto dalla comunità cristiana dove ha operato, a differenza del secondo.
Evitiamo di creare «isole felici» in un oceano di miseria.

. Problemi

Gli aiuti che la chiesa italiana invia non sono sufficienti per avviare un efficace programma di sostegno alle chiese più giovani. Inoltre sono frammentati, con un’estrema varietà dei soggetti che intervengono.

In ordine sparso

Valutando l’indagine del 1990, il professor A. Oberti affermava: «Tutti siamo consapevoli che c’è un flusso (probabilmente ingente) di aiuti, diversi per tipologia, genere, provenienza, destinazione… che dall’Italia parte per il terzo mondo; ma non riusciamo a conoscere le dimensioni, le modalità e, soprattutto, le motivazioni di fondo del flusso. La non conoscenza di questi e altri elementi è grave, non perché non soddisfa la curiosità o il gusto per le statistiche; è grave perché, nella guerra che si cerca di condurre al sottosviluppo, non siamo in grado di razionalizzare l’aiuto e di finalizzarlo il più oggettivamente possibile. Lasciamo che tutto sia guidato da sentimenti, ragioni individuali o di gruppo, motivazioni soggettive religiose, assistenziali, politiche, economiche».
«Si ha un’ulteriore riprova dell’esistenza, nella chiesa e società italiana, di uno spiccato vitalismo sociale; però non si riesce a trovare modi e forme che consentano, senza spegnere la vitalità, di accompagnare e orientare le individualità verso una società comunitaria».
Quattro sono, oggi, i soggetti operanti, ma scarsamente cooperanti fra loro: gli enti ecclesiali nazionali e diocesani, gli istituti missionari e religiosi, gli organismi di volontariato e i movimenti ecclesiali. A questi si affianca una miriade di gruppi attivi sul territorio e variamente collegati agli spazi ecclesiali.
Il fragile tessuto che connette la «galassia missionaria» impedisce la comunicazione di esperienze per una crescita globale e, soprattutto, rende ardua la verifica del loro impatto. La frammentarietà degli interventi impedisce migliori risultati e può rallentare il necessario impatto culturale per una crescita di conoscenza e di coscienza collettiva rispetto ai problemi da affrontare.

Fiducia sì, ma non troppa

Sovente si invocano lo scambio e la cooperazione come principi direttivi: dovrebbero esprimere uno sforzo congiunto dei soggetti interessati, dare e ricevere con spirito di reciprocità. Però, finché ciò avviene a senso unico, è difficile realizzare una comunione paritaria.
Resta l’impressione che nella chiesa si ripeta la situazione esistente nei rapporti di forza del mondo. C’è una chiesa del Nord, ricca, e una del Sud, povera. Una chiesa che dà e una che riceve, una chiesa «benefattrice» e una «assistita». È un rapporto disuguale, ma anche di «forza». Questo si esprime nella sfiducia sulle capacità delle comunità destinatarie a progettare, gestire e realizzare progetti propri.
Perciò… «è normale che le chiese che ricevono aiuti facciano un rapporto dettagliato sulla loro gestione; al contrario, non ci si immagina nemmeno che possano, allo stesso modo, chiedere alle chiese dei paesi ricchi di dare ragione dell’utilizzo delle risorse, perché le risorse appartengono all’unico popolo di Dio».
Ciò vale anche per i regolamenti della cooperazione, che gli organismi istituzionali hanno sviluppato. L’utilità e necessità di darsi delle regole è evidente. Ma la domanda è: chi le stabilisce e secondo quali criteri? L’impressione è che chi detiene le risorse detti anche i principi del loro utilizzo.
Pertanto, non stiamo ricopiando i rapporti di forza fra il Nord e Sud del mondo che, di solito, condanniamo nella Banca mondiale, nel Fondo monetario internazionale, nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo? Anche la solidarietà richiede regole condivise o, almeno, che tengano conto delle esigenze dei partners.

Neocolonialismo religioso?

Conosciamo il tempo delle «colonie d’oltre mare», appendici economiche di vari paesi europei. Con l’indipendenza degli stati, è subentrato un altro regime che, pur lasciando l’apparato statale autonomo, economicamente lo ha reso dipendente dai governi di tuo del Nord.
È il rischio che corre anche la gestione degli aiuti alle missioni: creano dipendenza (economica e psicologica, dovendo dipendere dall’approvazione altrui).
Ricordiamo la «moratoria» della Conferenza delle chiese d’Africa, tenutasi a Lusaka (Zambia) nel 1974, che proponeva la sospensione di tutti gli aiuti, sia in personale sia in finanze, che provenivano dall’estero. Il fatto suscitò vive reazioni da parte di vescovi e missionari stranieri. Era però il tentativo di affermare un necessario protagonismo dei soggetti locali, cercando di toglierli dal «patronato» esterno.
Al presente serpeggia un «sentire»; a volte è assopito per paura che i canali di finanziamento siano chiusi per «rappresaglia». La domanda però resta: quanta coercizione esercita l’aiuto offerto? Il denaro è sempre potere. Questo mette in gioco la consistenza vera di una chiesa locale e il suo grado di autonomia e decisione. Sono da capire le domande che sovente le chiese del Sud si pongono. Quali sono il peso e l’autorità delle giovani chiese, se non dispongono di un’autonomia finanziaria? Chi fornisce loro i mezzi? Fin dove le lascerà autonome nella parola e nell’iniziativa?
Il problema «finanziamenti» chiama in causa anche l’ecclesiologia e pone la questione del giusto rapporto fra autonomia della chiesa locale e corresponsabilità nella chiesa universale. L’aiuto dovrebbe essere il segno che manifesta la comunione delle chiese nel rispetto di ciascuna.
Ricordiamo «lo stile delle offerte» nella chiesa primitiva. «La colletta – afferma san Paolo – non ha lo scopo di ridurre voi in miseria, affinché altri stiano bene: la si fa per realizzare una certa uguaglianza. In questo momento voi siete nell’abbondanza e, perciò, potete recare aiuto a quelli che sono nella necessità» (2 Cor 8, 13-14; cfr. 1 Cor 16, 1-6; 2 Cor 8-9; Rom 15, 25-31).
Non si tratta solo di dispute tecniche o teologiche, ma di vera dignità.
Mi hanno sempre impressionato i vescovi africani, obbligati a percorrere l’occidente come mendicanti, passando da una diocesi all’altra e da un organismo all’altro, ad intercedere per i bisogni delle loro diocesi… con l’obbligo poi di rendere conto ad una pletora di benefattori stranieri.
Non mi è successo di vedere un nostro vescovo (anche di una piccola e povera diocesi) fare altrettanto.

3. Che fare?

Recenti fatti (che hanno coinvolto alcuni settori della cooperazione italiana e – senza reale consistenza – alcune sezioni della Caritas) hanno generato nell’italiano sfiducia in organismi ritenuti credibili ed efficienti. Perché?

Esigenza di trasparenza

È la qualità necessaria ad ogni gestione finanziaria nella chiesa. Trasparenza comporta chiarezza e serietà nei bilanci, nella destinazione e nell’uso delle risorse (sia di chi dà sia di chi riceve). Nella maggioranza dei casi si usano offerte della gente comune, spesso frutto di sacrificio.
Ma non basta la trasparenza di bilancio. Si richiede chiarezza di programmazione, non disgiunta da una valutazione dell’efficacia degli interventi. Sovente non è sufficiente realizzare un progetto: bisogna valutae la sostenibilità nel tempo. Un briciolo di managerialità in questo settore non guasta.
Aggiungo due semplici proposte:
– organizzare un «data base» consultabile dei progetti in atto, almeno per quelli sostenuti da soggetti istituzionali;
– usare la Banca Etica per la gestione dei fondi. Si darebbe anche una mano a questa iniziativa, evitando di far transitare fondi attraverso istituzioni bancarie, i cui movimenti finanziari sovente non sono compatibili con lo scopo dei soldi raccolti.

Scambio alla pari

L’aiuto deve esprimere la comunione di tutte le chiese, che è alla base della cattolicità. La solidarietà non è mai imposta, ma fa proprie le attese di una comunità sociale o ecclesiale. Naturalmente non sempre sono evidenti, per chi vive nel Nord, le urgenze o priorità di chi sta nel Sud.
«Il vero aiuto è quello che viene dallo scambio alla pari: non solo dare, ma dare e ricevere, solidarietà e interdipendenza. Deve nascere a poco a poco una conoscenza reciproca, la capacità di comprensione dell’altro: ossia spirito di frateità e solidarietà». Questo va oltre l’aiuto finanziario, per includere elementi culturali, cammini di chiesa, persone.
Sembrerebbe scontato che l’azione delle nostre comunità non si limitasse solo all’invio di denaro, ma gettasse un ponte di comunicazione più efficace. Anche i missionari (che rientrano in diocesi per vacanze o altro) dovrebbero «divenire ponte» fra diverse esperienze di chiesa. Invece, sovente, utilizzano il tempo con lo spirito del «prendi e fuggi». Difficilmente il personale inviato in missione diventa stimolo di riflessione nella vita pastorale della propria diocesi.
Ci siamo aperti alla missione; abbiamo inviato soldi e persone; i vescovi visitano i preti in missione. Ma tutto continua come sempre. «Dall’aiuto allo scambio» si diceva tempo fa. È ancora un percorso valido.

Dal frammento alla sintesi

In un mondo che si globalizza unificandosi e fondendosi, è ridicolo difendere il proprio orticello. Il futuro dell’impegno missionario non appartiene solo ai singoli, ma al lavoro di équipe, al costituire reti di azione (la filosofia delle «reti lillipuziane»), mettere insieme una società civile che possa pesare nei contesti nazionali e inteazionali per capacità di analisi, proposta e operatività.
Al di là delle provocazioni, il movimento di Seattle è un esempio bello di cooperazione, che ha aggregato soggetti diversificati e tecnologie a portata di tutti (solidarietà telematica).
È necessario fare sintesi e superare i parallelismi ecclesiali. Penso alla Caritas, all’Ufficio per la Cooperazione missionaria tra le chiese (a livello nazionale e locale), alle riviste missionarie, ai movimenti, agli organismi laicali.
Bisogna anche vincere il provincialismo per immetterci in contesti globali. La domanda da porsi è: come situarci nel flusso di aiuti che le chiese inviano? E ancora: qual è il nostro apporto alle politiche di cooperazione che i governi nazionali e l’Unione Europea mettono in atto?
Si deve mirare a quattro effetti:
– la crescita complessiva della qualità degli interventi;
– la costituzione di un fronte civile, nazionale e internazionale, che incida sui grandi processi in corso;
– la perequazione degli aiuti;
– la capacità d’investire insieme con interventi di respiro nazionale e internazionale (pensiamo agli investimenti per creare informazione e opinione, i processi di pace).
Non basta il tappabuchi

L’inchiesta del 1990 evidenziava un problema di una certa portata: il rapporto fra la quantità e qualità degli aiuti. E, di fronte ai problemi nel Sud del mondo, gli interventi seguono due criteri.
Criterio congiunturale. Punta all’efficacia immediata dell’intervento, affievolendosi poi sulla media e lunga distanza. Gli esempi sono tanti: carestie, conflitti, esodi di massa, terremoti, alluvioni.
In questi casi prevale il fare, secondo il principio «so io quello di cui hai bisogno». E la preferenza delle iniziative cade su tutto ciò che si può subito mettere in atto e quantificare. Al di là delle vere emergenze, questo modello riproduce lo schema dell’eurocentrismo e dello sviluppo attraverso capitali e tecnologie. È l’aiuto «umanitario», dentro il quale molti ancora operano. Talora ha prodotto «cattedrali nel deserto», delle quali sono disseminati i continenti.
Criterio strutturale. È il risultato della riflessione maturata in questi anni. Tiene conto delle necessarie variabili umane: cultura, storia, politica, religione, geografia, sostenibilità degli interventi a medio e lungo termine, scenari globali. Coglie lo sviluppo come una realtà unica, che si manifesta in modi diversi da caso a caso, luogo a luogo, ma che resta fondamentalmente un fatto di «persone». Senza di queste, si possono avere progressi settoriali (economici, tecnologici, agricoli, sanitari…), ma non uno sviluppo reale e duraturo, strutturale anziché congiunturale: uno sviluppo che renda il povero agente della propria crescita, soggetto capace di autonomia, non succube di «scambi ineguali».

Tre snodi essenziali

Il passaggio dal congiunturale allo strutturale è il cambiamento qualitativo da realizzare nei nostri interventi. Il percorso avviene attraverso tre snodi.
1. I nuovi scenari mondiali: particolarmente il fenomeno e gli effetti della globalizzazione.
Neoliberismo, mercato, monopoli finanziari… sono le nuove frontiere dentro le quali sviluppare un’azione. Ci sono squilibri contro i quali bisogna lottare, una strumentalizzazione politica degli aiuti da correggere, perché sono le strutture globali all’origine delle inclusioni o esclusioni di interi continenti. Sono i sistemi «forti» che oggi governano il mondo. È nell’impegno per un nuovo ordine mondiale che ci si deve compromettere, se si vuole incidere sui processi di marginalizzazione.
Questo implica conoscenze dettagliate dei micro e macro sistemi, monitoraggi dei processi in corso (ad esempio: il meeting di Seattle, Davos), aggioamenti continui.
Il passaggio culturale dal «singolo» progetto alla solidarietà «globale» è consistente. Ci dobbiamo chiedere se, in qualche missione, sia più urgente costruire una struttura o aderire ad una campagna nazionale. Se vale di più raccogliere fondi per il «nostro missionario», o se non sia meglio sostenere, anche economicamente, la campagna per tassare le transazioni finanziarie (Tobin tax).
2. I nuovi modelli di intervento. In questo settore siamo debitori di una prassi che, nel passato, ci ha ancorati ad interventi consolidati (il progetto da realizzare). Ma, grazie alla creatività di alcuni, sono nate nuove forme di azione che pare diano discreti risultati a medio e lungo termine. Mi riferisco al «commercio equo e solidale» con la sua capacità di sostenere la crescita di una imprenditorialità locale, con riinvestimenti nel sociale.
C’è pure il «micro credito», che offre agli esclusi la possibilità di affrancarsi dalla povertà con i loro propri sforzi. È una bella novità, portata alla ribalta da Muhammad Yunus, economista del Bangladesh, fondatore della Grameen Bank.
Le «banche etiche». Nate di recente in Italia, indicano la via per un risparmio alternativo, non finalizzato al mero profitto. C’è tutta una serie di nuove iniziative che indicano la vitalità e il rinnovamento in questo settore. Vanno conosciute e sostenute anche con i nostri finanziamenti.
3. La valenza educativa dell’aiuto. «Ricordiamoci che lo scopo principale dell’aiuto non è quello di venire incontro alle altre nazioni, ma di aiutare noi stessi». Lo affermava il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, per ribadire gli interessi americani.
In ogni caso la prima ricaduta degli aiuti è su di noi, quasi a boomerang. Oggi siamo tutti coscienti della interdipendenza nel mondo, del legame fra la ricchezza di pochi e la povertà di molti, fra l’emarginazione di interi continenti e le nostre responsabilità.
Siamo tutti invitati a mettere in discussione i nostri «stili di vita», secondo lo slogan di una famosa campagna «contro la fame cambia la vita». La cultura della solidarietà, della giustizia per tutti, del bene comune da ricercare insieme… chiama in causa i nostri modelli culturali, politici, economici, oltre ai nostri consumi.
Soldi e missionari

Impressiona favorevolmente l’ammontare degli aiuti economici che la chiesa italiana destina alle missioni. Ma questo basta per dirci missionari?
Se per lo sviluppo bisogna in primis investire nelle risorse umane, a maggior ragione lo si deve affermare per la missione: più che di mezzi, ha bisogno di persone. Di fronte ad un aumento di aiuti verso le missioni, si è registrata in questi anni una sensibile diminuzione di missionari che partono. Non c’è il rischio di delegare ai soldi il compito dell’annuncio?
Non nascondiamoci il pericolo di sostituire l’evangelizzazione con le opere di promozione umana. Si può, certo, parlare di «predica delle opere», ma non senza l’annuncio.
Occorre ribadire con forza che:
– la missione senza missionari non ha senso;
– la missione senza annuncio si svuota del suo contenuto originale;
– la missione senza gesti concreti non riproduce il modello del Gesù, «che ha fatto e insegnato» (At 1, 1).

L o scopo di questo dossier è di fornire degli argomenti che servano da piattaforma per avviare un dibattito su «soldi e missione». Sono convinto che il processo evolutivo, dentro il quale l’evangelizzazione si sta muovendo, richieda anche il rinnovamento dell’aspetto finanziario.
Il mondo dominato da criteri di mercato, monopolio e profitto ha bisogno di nuovi segni credibili di solidarietà.

Bibliografia

– Il fuoco della missione, Emi, Bologna 1999
– Come orizzonte il mondo, Emi, Bologna 1999
– A. Sella, Giubileo di giustizia, Editrice Monti, Milano 1999
– Dizionario dello sviluppo (a cura di Wolfgang Sachs), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
– Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991
– M. Meloni, La battaglia di Seattle, Edizione Berti (supplemento di «Altreconomia», febbraio 2000)
– Finances: autonomie et solidarité, in «Spiritus», dicembre 1992
Mission dans la faiblesse, in «Spiritus», marzo 1996

Ricerca di archivio:
Indagine sugli aiuti della Chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo, Ufficio nazionale per la Cooperazione missionaria tra le Chiese, Caritas Italiana, Pontificie Opere Missionarie

Siti Inteet consultati:
http://www.vatican.va
http://www.chiesacattolica.it
http://www.unimondo.org
http://www.un.org

OFFERTE «PRO MISSIONI»
Modalità di raccolta nelle parrocchie / Ricerca del 1990

FONTI
– private e volontarie 77,70%

DOVE
– funzioni religiose, quaresima 69,20%
– giornate particolari, giornata missionaria
mondiale, lotterie 12,70%
– raccolta a domicilio 15,30%

QUANDO
– ricorrenza annuale 58,60%
– ricorrenza occasionale 45,90%
– ricorrenza costante 2,30%

FORME di AIUTO
– in beni 30%
– in denaro 64,10%

PROVENIENZA delle RICHIESTE
– missioni 43,8%
– singoli volontari e missionari 25,8%
– diocesi, Caritas locali, istituti religiosi 42%
MOTIVI dell’AIUTO
– richieste specifiche 44,8%
– emergenze particolari 24,60%
– intuito personale 22,30%

DESTINAZIONE GEOGRAFICA
– Africa 31,50%
– Centro e Sud America 21,17%
– Asia 13,16%
– altro 4,55%

TIPO D’INTERVENTO
– settore ecclesiale 36,20%
– casi di emergenza 20,08%
– sviluppo sanitario 16,62%
– alfabetizzazione 13,75%
– sviluppo agricolo 10,19%

Fonte:
Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991

Contributi della Conferenza episcopale italiana
Ai Paesi nel sud del mondo

Distribuzione dei fondi al 30 dicembre 1998
cifre arrotondate

Importo da distribuire 135 miliardi di lire

Conferenze Episcopali (49 progetti) 32 miliardi
Diocesi (198 progetti) 33 miliardi e mezzo
Organismi religiosi e missionari (197 progetti) 25 miliardi
Caritas (18 progetti) 2 miliardi
Organismi laici (108 progetti) 40 miliardi
Altro (3 progetti) 500 milioni

TOTALE 133 miliardi
Avanzo: 2 miliardi

Distribuzione per aree geografiche

Paesi africani del Sahel 18 miliardi
Asia (paesi prioritari) 6 miliardi e mezzo
America Latina (paesi prioritari) 26 miliardi
Aree diverse ed emergenze 82 miliardi e mezzo

TOTALE 133 miliardi

Fonte:
Notiziario dell’Ufficio nazionale della Cooperazione missionaria tra le chiese, Roma, novembre 1999

Eesto Viscardi




BURUNDI – Via dalla mia terra

Nel calderone dei Grandi Laghi africani, il Burundi continua a mietere le sue vittime. Anche tra i missionari italiani. In quattro mesi, due sono stati uccisi (Antonio Bargiggia e suor Gina Simionato) e un terzo gravemente ferito (don Carlo Masseroni). Chi resta si domanda perché e chiede giustizia. Nel frattempo, l’assassinio di Kabila (16 gennaio), presidente del vicino Congo (rd), ha reso più instabile tutta la regione. Qualcuno parla anche di una «Repubblica dei Grandi Laghi», sotto controllo ruandese…

Quel mattino stavo andando a Murayi a 25 chilometri da Gitega, la seconda città del Burundi. Un amico mi chiama sul telefono portatile: «Pare ci sia stato un attacco vicino a Kibimba, ne sai niente?». Ero a tre chilometri dal posto.
Cerco di informarmi e mi accosto alla posizione militare di un campo di déplacés (sfollati, a maggioranza tutsi, che vivono in villaggi artificiali lungo le strade principali). Il soldato conferma: «Sì, è successo qualcosa, ma non c’è problema, non ci sono scontri in corso nella zona. Continuate pure. Nessun rischio». Sta per proseguire a piedi quando, tornato in dietro, in modo un po’ beffardo mi guarda e rivela: «È stato ucciso un muzungu (bianco), ma la situazione è sotto controllo».
In Burundi muoiono ogni giorno decine di persone a causa della guerra. Civili uccisi dalla guerriglia; contadini che cadono nelle rappresaglie dell’esercito regolare, altri presi tra i due fuochi. Ma, quando la vittima è uno straniero, il significato è molto più forte. È un messaggio che qualcuno vuole mandare.

È il tre ottobre scorso, quando Antonio Bargiggia, volontario laico consacrato, si ferma ad una barriera sulla strada che ogni settimana percorre per raggiungere la capitale.
Qualche discussione con i quattro uomini che lo hanno fermato. Poi uno finge di andare verso la parte posteriore dell’auto, si gira e gli spara un colpo alla nuca. I suoi compagni di viaggio (tre burundesi) fuggono incolumi.
Fratel Antonio (così era conosciuto in Burundi) era nel paese da 20 anni. Apparteneva a «Fratelli dei poveri», gruppo di religiosi e laici di Milano riconosciuto dal cardinal Martini. Da alcuni anni viveva a Buterere, uno dei quartieri più poveri della capitale. Zona di case di fango e lamiera, che ogni sera alle sei viene «chiusa»: nessuno può entrare o uscire fino al mattino dopo. Abitava in una casa burundese, come i burundesi più umili. Caso unico per un muzungu in questo paese.
«Antonio era una persona che mi incantava per la sua umiltà e per il saper stare con i locali. Era l’unico a preoccuparsi anche dei soldati. Diceva: “Poveri ragazzi, anche loro soffrono ma nessuno li considera”. Come apostolato, seguiva all’ospedale militare i feriti senza parenti, portando loro conforto». È la testimonianza di un volontario italiano, subito dopo l’accaduto. Eppure sono stati quattro giovani militari sui vent’anni gli esecutori.
Fuggiti con la sua macchina (strano errore, forse erano certi dell’impunità garantita dal loro mandante), sono stati arrestati un’ora dopo. Il governo si è subito preoccupato di affermare che erano disertori. Dopo un processo sommario, uno di loro (quello che aveva premuto il grilletto), è stato fucilato davanti ai suoi compagni e alla gente di Gitega.

Quindici ottobre. Verso le sette del mattino, la macchina delle suore Dorotee di Venezia lascia il seminario maggiore di Songa, nei pressi di Gitega, per dirigersi alla parrocchia di Gihiza dove le suore abitano. Il giorno prima erano venute a dormire al seminario, perché c’erano «strani movimenti» intorno alla missione. Poco prima di arrivare vedono un gruppo di persone sulla strada. Partono alcune raffiche di mitra che investono suor Gina Simionato, unica italiana, al volante. La suora trevigiana è colpita al volto e muore sul colpo. Delle tre consorelle burundesi che la accompagnano, una si fa un graffio. Si dirà che la macchina è caduta in un attentato dei ribelli che hanno sparato all’impazzata. Osservando la vettura, risulta invece chiaro che i colpi erano tutti indirizzati al guidatore muzungu. Un proiettile ha lasciato un buco molto grosso nella carrozzeria posteriore: non si trattava forse di un semplice kalashnikov.
Al contrario dell’attacco di Kibimba, qui non si scopre chi sia l’autore. L’accusa cade subito sui ribelli che da alcuni giorni girano nella zona. Ma l’attentato è avvenuto a circa cinque chilometri da una posizione militare e le testimonianze lasciano molti dubbi sulla cronologia esatta dei fatti. «Non sembra lo schema utilizzato dalla ribellione», confida un giornalista della capitale. Possono essere stati i militari, ma anche le bande di estremisti tutsi, già famose a Gitega, pilotate da un potere nascosto ma presente ed efficace, che forse sta riacquistando consensi a causa della situazione politica.
Il Burundi è devastato da una guerra civile dal 21 ottobre del 1993, quando il primo presidente democratico, l’hutu Melchior Ndadaye, fu arrestato e ucciso da un gruppo di militari estremisti. Da allora l’esercito, a maggioranza tutsi (oggi però, per mancanza di forze, esso impiega anche molti giovani hutu), e diversi gruppi armati ribelli a dominante hutu, si scontrano. O meglio, saccheggiano e massacrano la popolazione civile dei due campi.
Dopo diversi tentativi di pacificazione, Nelson Mandela, mediatore della crisi burundese dal dicembre 1999 (succeduto allo scomparso Julius Nyerere), è riuscito a portare 19 partiti burundesi a siglare un accordo-quadro il 28 agosto scorso ad Arusha, in Tanzania. La debolezza di questa firma sta nel fatto che molti partiti (soprattutto quelli legati all’estremismo tutsi) hanno firmato con riserve. Questo vuol dire che tutti i passi più importanti sono da ridiscutere e negoziare (presidenza di transizione, rappresentanza etnica nell’esercito, nella giustizia e nell’amministrazione). Ancor peggio: nonostante gli sforzi di Mandela, i due maggiori gruppi ribelli hutu, le «Forze per la difesa della democrazia» (Fdd) e le «Forze nazionali di liberazione» (Fnl), quelli che hanno gli eserciti sul campo, non erano presenti ai negoziati che hanno portato alla firma.
Incontri diretti tra il presidente della repubblica, il maggiore Pierre Buyoya, e il leader dell’Fdd, Jean-Bosco Ndayikengurukiye sono in corso in Sudafrica e potrebbero portare a qualche passo positivo. Nel paese, però, domina la paura. Paura dei tutsi che, come minoranza, temono un esercito misto, perché le forze armate burundesi, guidate da ufficiali tutsi, soprattutto del sud, sono la loro unica vera garanzia di non essere prevaricati dall’80-85% hutu e di mantenere i loro privilegi. Paura del popolo contadino a maggioranza hutu, che subisce sempre più i saccheggi della guerriglia e le rappresaglie dei militari. Paura dei pochi intellettuali hutu delle città, che rischiano di essere presi di mira, come è già successo in passato.
Per questo, dal 28 agosto le azioni di guerra, invece che diminuire, si sono intensificate. Da un lato i guerriglieri sono tornati a far sentire le armi, per mostrare il loro potere negoziale, dall’altro cresce il malcontento tra gli ufficiali dell’esercito che si oppongono alla firma e le frange estremiste tutsi hanno ripreso a organizzarsi. «Il tempo è poco – racconta un membro della delegazione governativa ad Arusha – il presidente potrebbe avere problemi a tenere calmi i vertici militari ancora per molto. D’altro lato i ribelli sono ben equipaggiati anche grazie al loro intervento in Congo e non hanno tutta questa voglia di scendere a patti». Kinshasa fornisce all’Fdd di Jean-Bosco armi e protezione, in cambio l’armata ribelle difende il fronte a Lubumbashi (capitale dello Shaba, nel sud) contro l’avanzata dell’esercito regolare burundese. Una guerra con caratteristiche sempre più regionali.
L’assassinio di Kabila, in Congo, il 16 gennaio scorso, ha l’effetto di sbilanciare ancora di più l’instabile equilibrio dei Grandi Laghi. Gli alleati burundesi del defunto presidente congolese si trovano ora in una posizione di svantaggio, perché viene loro a mancare un partner importante. Sentendosi meno forti potrebbero essere più disponibili a trattare. D’altro lato, il governo del Burundi (ma soprattutto gli estremisti tutsi) si irrigidiranno, forti della scomparsa del nemico di Kinshasa. Andando oltre, gli eserciti ruandese, ugandese e burundese, che occupano e saccheggiano quasi la metà della Repubblica democratica del Congo, potrebbero, ancora una volta, avanzare verso la capitale, oppure tentare l’annessione formale dei vasti territori occupati.
Già da tempo si parla di una fantomatica «Repubblica dei Grandi Laghi», sotto il controllo ruandese.

Intanto, in Burundi, si cercano ancora delle risposte. «Ma perché questi attacchi a religiosi italiani?». Si chiede un missionario da anni nel paese. «Se contiamo anche la pallottola sparata a freddo in faccia a don Carlo Masseroni (missionario fidei donum di Novara), vivo solo per miracolo, a luglio, siamo già a tre: tutti con modalità simili». Già, perché? Non è la prima volta (nel settembre 1995 due padri saveriani e una volontaria furono giustiziati a casa loro dai militari). Perché sono testimoni scomodi, perché lavorano a fianco della popolazione più abbandonata e sono tra i pochi a sapere e, a volte, a denunciare, in questo paese dove la stampa è ancora imbavagliata. Ma anche perché spesso sono gli obiettivi più facili e indifesi.
Fratel Antonio era a conoscenza di molti problemi di Buterere, tra cui questioni di terra. Don Carlo aveva riconosciuto i militari che, per la seconda volta in pochi mesi, erano tornati a rubare alla missione. Chi ha ucciso fratel Antonio era stato visto il giorno prima, nello stesso luogo, a informarsi sui movimenti dell’italiano. Allo stesso modo, alcuni sconosciuti chiedevano quando sarebbero tornate le suore, i giorni precedenti all’imboscata di Gihiza.
Ma secondo altri (per prima la comunità internazionale) «sono casi isolati di banditismo, senza nessuna relazione tra loro»; a scopo di furto, è la tesi più accreditata, quando invece i religiosi non avevano soldi addosso. Addirittura si sente dire: «Le vittime viaggiavano a orari non conformi alle norme di sicurezza, nei quali il governo burundese non può garantire la protezione degli stranieri».
Questi sono i ragionamenti di chi vuole archiviare il caso e non creare problemi ai propri partner governativi. I media locali non danno spazio a questi gravi fatti (soprattutto il secondo passa sotto silenzio) e gli operatori umanitari di Nazioni Unite e organismi inteazionali non ricevono (tranne quelli italiani) particolari consegne di sicurezza.

Tra i religiosi e volontari italiani si accusa il colpo. Molta tristezza, condivisione, ma anche un po’ di remissione: «È la vita dei missionari», confida un’anziana suora. «Vanno bene i martiri, ma vogliamo pure giustizia», replica un missionario laico.

Marco Bello




Dal 1901 al…

All’alba del terzo millennio alcuni missionari della Consolata hanno scritto a Gesù bambino: «Signore, quando toerai sulla terra,
non andare in Brasile, perché dovresti raccogliere canna da zucchero ed avresti le mani sanguinanti per i fusti spigolosi.
Evita il Bangladesh: finiresti nelle fabbriche di mattoni e le tue piccole spalle sarebbero ferite, prima ancora di portare la croce. Sta’ alla larga dai negrieri schiavisti del Sudan, perché ti venderebbero subito per 30 denari. Non varcare nemmeno le frontiere del Pakistan: ti metterebbero a cucire palloni da football, senza mai farti vedere una partita. E il Congo? Non andarci, Gesù, perché dovresti fare la guerra non con soldatini di cartapesta, ma con pallottole ad uranio, le stesse usate dalla Nato in Kosovo…».

E cco alcuni drammi che i coetanei del piccolo Gesù hanno vissuto da protagonisti negli ultimi anni. Per non parlare degli abusi sessuali, delle mine che hanno interrotto per sempre i loro giochi sui prati, dei foi crematori che li hanno ridotti in fumo nauseante.
È successo molto altro ancora nel secolo passato. Secondo il politologo Eric Hobsbawm, è stato «il secolo breve», iniziato nel 1914 (con «la grande guerra») e terminato nel 1991 (con il disfacimento dell’Unione Sovietica). Un secolo breve, e però è stata «l’epoca più violenta della storia dell’umanità».
È saggio, allora, augurarsi
«cento di questi anni»?
N ati nel 1901, i missionari della Consolata compiono 100 anni. Questo numero «straordinario» della rivista verte su di loro. Ma non è tutta la loro storia: perché, se alcuni sono stati «pionieri», «generosi», «illustrissimi», «infaticabili» e «martiri», altri invece…
E poi, se di storia si trattasse, troppo vistose (e ingiuste) sarebbero le lacune.
«Cento di questi anni»
è un sentito grazie al Signore e alla Consolata per il bene che hanno fatto nell’arco di un secolo. Si possono contare le magnalia Dei, cioè le meraviglie di Dio; però, quando ci si vanta dei «successi dell’uomo», si cade in meschinità, ossia nel peccato. In tale senso, «cento di questi anni» non sono certo da augurare.

L a lettera dei missionari a Gesù bambino termina: «Signore, è giusto che andiamo noi nel sud del mondo. Tu, intanto, resta a casa nostra. Qui starai al sicuro, vedrai!…».
E avete «visto» anche voi, cari amici e benefattori dei missionari della Consolata. Avete visto e valutato. Grazie della vostra comprensione, del vostro perdono. Grazie della generosità, che dura da un secolo. È anche contando su di voi che ci auguriamo «cento di questi anni».
Per una maggiore consolazione in un mondo inquinato, violento ed ingiusto, a scapito specialmente dei «piccoli». Eppure il beato Giuseppe Allamano ama la gente di questo pianeta.
p. Gottardo Pasqualetti,
Superiore dei missionari della Consolata in Italia

Gottardo Pasqualetti




SPECIALE 100 ANNI – Soffia il vento del cambiamento

Nel 1960 Harold MacMillan, primo ministro dell’impero britannico,annuncia «il vento del cambiamento» in Africa.
E cambiamento è, cioè indipendenza, «uhuru». Parola magica.
Nei primi anni ‘60 elettrizza tanti paesi del continente.
Segna «il risveglio dell’Africa nera»?
Serenità in Tanzania, sofferenza in Kenya, guerra e pace in Mozambico.

Tanzania,
9 dicembre 1961
«Nel 1950 il bozzolo del colonialismo incomincia a rivelarsi angusto per la “crisalide” Tanganyika – annota padre Alessandro Di Martino -. La crisalide si rende conto di avere le ali sviluppate: preme contro l’involucro e lo rode, smaniosa di librarsi in volo in piena sovranità».
Nel mandato britannico del Tanganyika il processo verso l’indipendenza è abbastanza spedito. Forse non si sa quanto sia stato assecondato dai missionari della Consolata.
La chiesa d’Iringa, che opera fra i wahehe, wasangu e wabena, non assiste al processo con la neutralità del forestiero. È in gioco l’avvenire del proprio «gregge». Promuovendo lo sviluppo sociale (in particolare la scolarizzazione), non si prefigge forse di formare l’élite della nascente nazione?
Senza fare «il tifo per atleti particolari», la chiesa responsabilizza la popolazione. Però non ama atteggiamenti da prima donna. È prodiga di stimoli meditati.
Nell’agosto 1951 si delinea l’atteggiamento verso il movimento nazionalistico: «limitarsi ad osservazioni sui requisiti necessari perché possa reggersi da sé». Con un particolare: eliminare ogni residuo razzista, «evitare attentamente che la nostra condotta dia l’impressione che ci atteniamo alla policy del colour bar; non chiamare più gli abitanti “neri”, bensì africani; trattare tutti con la dovuta considerazione».
Si privilegia la coscientizzazione dei cristiani di fronte ai doveri civili. Nel 1951, alle elezioni del primo Consiglio distrettuale, composto da africani, si raccomanda: «stare attenti che i cristiani se ne interessino e siano debitamente rappresentati da individui adatti… formare i fedeli al sentimento cristiano non solo come individui, ma anche come membri della società».
Ma nel 1951 l’obiettivo non è ancora l’indipendenza piena. Nel paese si ha in mente un governo confederale, esteso all’Africa orientale britannica del Kenya-Uganda-Tanganyika. «Sembra che il bene sia la costituzione di una forte federazione dei vari territori, nella quale ogni paese ritenga la propria indipendenza negli affari interni, dove tutti (europei, asiatici e africani) coesistano cogli stessi diritti e doveri. Per il bene delle popolazioni è opportuno orientare l’opinione pubblica a tale scopo… Mai prescindere dal fine soprannaturale per cui ci troviamo in questi paesi» (1952).
Passano due anni, un tempo sufficiente perché il Tanganyika focalizzi il suo scopo. Ora si esige piena indipendenza. Il primo passo concreto è nel 1954, allorché nasce il Tanu (Tanganyika African National Union), il partito che porterà il paese all’indipendenza nell’ordine e nella tolleranza razziale. Scendono in lizza anche altri partiti, ma nella votazione finale del 1960 il Tanu ottiene 70 seggi su 71. Tutti gli altri partiti si sciolgono senza traumi.
Il vescovo di Iringa, Attilio Beltramino, incoraggia i suoi stretti dipendenti a partecipare alle elezioni: «È mia intenzione che gli aventi diritto (sacerdoti, fratelli, suore, seminaristi) si facciano registrare come elettori» (28 giugno 1960). Anticipa le direttive generali emanate dalla Conferenza episcopale: «È dottrina della chiesa che il voto non sia solo un privilegio ma un dovere, e un cattolico non può facilmente esimersi dal partecipare alla scelta dei propri rappresentanti… Ma ciò non implica che ci debba essere un cosiddetto partito cattolico».
Il 3 settembre 1960 l’euforia galvanizza la popolazione all’approssimarsi del traguardo finale dell’uhuru (indipendenza). Tuttavia l’atmosfera è contenuta in una accettabile festosità. Le tragiche turbolenze del vicinato (Congo e Kenya) consigliano il vescovo di indicare alcune precauzioni.
Si fissa il giorno dell’indipendenza per il 9 dicembre 1961. Monsignor Beltramino ne predispone la celebrazione religiosa nella festa dell’Immacolata, il 7 dicembre. In questo giorno il paese viene consacrato al cuore immacolato di Maria, con una preghiera inviata da Giovanni XXIII, il papa buono.
Iringa, 9 dicembre 1961: la nuova bandiera del Tanganyika indipendente si dispiega sovrana. Padre Francesco Sciolla, vicario generale, di fronte ad esponenti politici e religiosi, nel silenzio assoluto della folla, ringrazia Dio e augura a tutti prosperità e pace.
«Sotto le stelle, dal santuario della Consolata di Iringa dilaga il tripudio delle campane. A Tosamaganga, il fragore di mortaretti»: è il tocco letterario di padre Di Martino.

kenya,
12 dicembre 1963
Fin dall’inizio, i missionari della Consolata in Kenya si impegnano nello studio della cultura dei kikuyu, nella promozione dell’uomo, nell’evangelizzazione. Non fanno politica… Tuttavia, agli occhi degli africani, amano distinguersi dagli inglesi che hanno conquistato il paese con la forza; però non ne contestano il colonialismo. Solo con il tempo recepiscono le istanze d’indipendenza politica, raggiunta il 12 dicembre 1963.
Qual è l’atteggiamento dei missionari, nel 1952-54, di fronte al movimento di autonomia dei mau mau? Al riguardo spicca la figura di Carlo Cavallera, vescovo di Nyeri, nel cuore del ciclone dei mau mau che, secondo lo storico Ki-Zerbo, hanno causato la morte di 8 mila civili africani, 68 europei, 460 soldati e 100 mila prigionieri.
Quando Cavallera può valutare la minaccia costituita da quell’associazione clandestina, ritiene doveroso condannarla: lo fa dopo un’inchiesta fra i missionari e gli stessi cristiani. Dalle loro risposte non c’è dubbio: il movimento mau mau è anticristiano e incita all’apostasia chi ha abbracciato il cristianesimo. Eloquente, per il vescovo e i missionari, è il «giuramento mau mau»: esso impone l’abbandono della chiesa, il rifiuto dei sacramenti, l’odio verso tutti i bianchi; d’altro canto, il giuramento sprona gli africani a ritornare alla loro divinità tradizionale.
Quindi i missionari condannano i mau mau per ragioni religiose.
Ciò non equivale a condanna politica tout court. Il vescovo Cavallera prende le distanze dagli europei che invocano il coprifuoco contro i «terroristi». «Bisogna fare sempre distinzione tra la parte religiosa e quella politica» raccomanda il vescovo ai missionari. Nel frattempo, incurante dei pericoli e delle minacce subite, percorre in lungo e in largo la sua vasta diocesi, per esprimere solidarietà alle vittime della violenza. Ed è quasi miracoloso che monsignor Cavallera ne esca indenne.
Se i mau mau volessero eliminare quel «vescovo impiccione», i suoi frequenti viaggi gli offrirebbero occasioni d’oro per farlo. Ma anch’essi con ogni probabilità «distinguono»: politicamente il vescovo non è una minaccia, pur essendo bianco; religiosamente non lo capiscono; umanamente lo ammirano, perché non lesina soccorsi ai bisognosi.
Questo però non risparmia le missioni da attacchi intimidatori e mortali: padre Edmondo Cavicchi viene ferito e resta psicologicamente menomato per il resto della vita; suor Eugenia Cavallo è assassinata. Due i martiri africani: le suore Rosetta Njeri e Cecilia Wangechi, nonché l’eroica testimonianza di sangue di semplici cristiani come Aloisio Kamau.
La fine dell’emergenza dei mau mau (durante la quale molti battezzati abbandonano la fede) segna l’inizio di una spettacolare ripresa cristiana. Quale la causa?
«L’esperienza dei missionari è che, ovunque, vi sia un risveglio inspiegabile. Io – conclude monsignor Cavallera – l’attribuisco al sangue dei nostri martiri».

Mozambico,
25 giugno 1975
«L’annuncio del vangelo nel Niassa, specie nella prima fase, è opera quasi esclusiva dei missionari della Consolata. Circa gli inizi, basti ricordare l’opera di padre Pietro Calandri e di suor Franca Cavicchi. In queste figure comprendiamo tutti i missionari e le missionarie della Consolata» dichiara nel 1988 Luis Gonzaga Ferreira da Silva, vescovo di Lichinga.
Siamo in Mozambico, dove i missionari della Consolata operano dal 1925, non solo a Lichinga, ma anche a Maputo, Inhambane e Nampula. Il paese non è facile.
È colonia del Portogallo da circa cinque secoli. E, mentre negli anni ’60 in quasi tutte le nazioni dell’Africa sventolano le proprie bandiere, in Mozambico imperano ancora Salazar e amici. Ma soffia, rabbioso, il vento del cambiamento: ed è guerra per un decennio.
Durante la lotta armata per l’indipendenza, la chiesa (connivente con il colonialismo) è soggetta anche ad una contestazione intea: ad esempio, nel 1971 i Padri Bianchi lasciano per protesta il paese. I missionari della Consolata, pur approvando il gesto, decidono di restare. Tuttavia in precedenza, il 24 dicembre 1970, padre Celio Regoli è accusato (ingiustamente) dal governo portoghese di collaborazione con i ribelli e viene espulso…
Il 25 giugno 1975 il Mozambico è indipendente. Ma, quasi subito, ripiomba in guerra: una guerra civile tra le forze governative del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e i guerriglieri della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana). Il Frelimo gode dell’appoggio dell’Unione Sovietica e la Renamo si avvale del Sudafrica. Quindi è scontro tra marxismo e capitalismo: «due elefanti che lottano, a scapito dell’erba che calpestano». L’«erba» non cresce più.
Così è morte violenta per oltre un milione di mozambicani e fame nera per tutti. Per non parlare degli innumerevoli profughi interni: fuggono dai loro villaggi, sperando di trovare altrove una situazione migliore; ma cadono dalla padella alla brace.
La violenza è anche contro le fedi religiose, perché «la religione è l’oppio dei popoli». La chiesa cattolica è la più bersagliata, giacché i colonialisti portoghesi sono… cattolici.
Alcuni fatti:
– il 21 luglio 1977, con motivi assolutamente pretestuosi, la Repubblica popolare del Mozambico decreta l’espulsione, entro 48 ore, dei padri Armanno Armanni e Mauro Calderoni;
– novembre 1978: padre Severino Bordignon è rinchiuso per due mesi in carcere e poi espulso. Il capo di accusa è: «Sovversione contro lo stato, avendo mobilitato il popolo per la catechesi e per aver insegnato a pregare ed assistere alla messa»;
– dicembre 1978: padre Eugenio Menegon è condannato a domicilio coatto.
Sul fronte della Renamo, anche i guerriglieri non scherzano:
– 19 luglio e 16 settembre 1982: rapimento dei padri Giuseppe Alessandria e Adelino Francisco, con quattro suore della Consolata. Rimangono in mano ai ribelli sino a fine novembre;
– 15 febbraio 1991: in una terribile imboscata cade ucciso padre Ariel Granada Sea, mentre padre José Feando Martins da Rocha è ferito (resterà zoppicante per sempre);
– 1 marzo 1992: un’altra imboscata durante la quale padre Joao Coelho resta brutalmente ferito e quattro giovani che l’accompagnano uccisi. Il missionario è ostaggio dei guerriglieri per un mese;
– 22 marzo 1992: assalto notturno al Centro catechistico di Guiùa, diretto da padre Andrea Brevi e massacro di 24 persone, con rapimento di 9 bambini…
Il 4 ottobre 1992 Frelimo e Renamo firmano a Roma il «cessate il fuoco». È pace. Una pace da costruire tra rovine materiali e umane infinite. Aleggia pure lo spettro che il Mozambico sia come l’Angola: cioè che ritorni al bazooka, giacché i trattati sono solo pezzi di carta. Ma la pace regge. E il Mozambico è oggi un segno di speranza per l’intera Africa.
Fra le macerie, accumulatesi durante quasi un trentennio di guerre, tutti si rimboccano le maniche. I missionari della Consolata puntano in alto: suggeriscono all’episcopato cattolico la creazione di una università. Padre Francesco Ponsi realizza il sogno. L’università cattolica del Mozambico viene inaugurata il 10 agosto 1996, con sedi a Beira e Nampula. Il rettore è padre Filipe J. Couto, primo missionario della Consolata locale.

LA FAMILGIA ESTESA DELLO STATO

Dopo l’indipendenza, l’azione dei missionari della Consolata in Tanzania avviene in un contesto diverso da quello di altri paesi africani, essendo condizionata da un particolare socialismo. È una specie di «fai da te», codificato nella Dichiarazione di Arusha (1967), che prende a modello dello stato la famiglia africana estesa, ujamaa, nella quale ognuno vive per gli altri e dove l’individuo esiste perché esistono gli altri.
L’idea, pur vicina al vangelo, si colloca in realtà agli antipodi della dottrina sociale della chiesa e dei diritti umani, in quanto riconosce al gruppo prerogative proprie del singolo, concede allo stato la proprietà dell’individuo e priva la persona di ogni incentivo al proprio sviluppo.
Naturale conseguenza di questa visione di società è la creazione forzata di «villaggi socialisti», accettata da alcuni ambienti religiosi e rigettata da altri. Non manca, anche, chi sposa la scelta e se ne fa propagatore, come il vescovo Christopher Mwoleka di Rulenge, che alterna l’attività episcopale con il lavoro manuale nei campi a fianco della gente. Quanto ai missionari della Consolata, le loro opinioni variano.
Padre Egidio Crema, studioso dei wahehe, nel 1968 non ha dubbi sulla riuscita del socialismo tanzaniano, espresso dalla politica di Nyerere e del Tanu. «In base alla loro linea di azione – sostiene – credo che non sia difficile comprendere e giustificare gli stessi atteggiamenti apparentemente contrastanti e confusi della politica intrapresa dal presidente in Tanzania».
Padre Alessandro Di Martino, storico dei missionari della Consolata nel paese, nel 1979 ravvisa nel villaggio dell’ujamaa una condizione ideale per la formazione delle comunità ecclesiali di base. «La creazione di tali comunità – scrive – ha trovato in Tanzania un contesto politico e culturale provvidenzialmente favorevole. I villaggi dell’ujamaa o comunitari, sorti sotto la spinta del socialismo dal raggruppamento delle capanne, fino a ieri sparse ai quattro venti, offrono a tutti la possibilità di incontrarsi e riunirsi con estrema facilità. Mentre lo spirito di fratellanza e solidarietà è inculcato dal partito in ogni villaggio; visto in chiave evangelica, questo si presenta ai battezzati come un punto di partenza per una testimonianza cristiana in campo politico e sociale».
Padre Franco Cravero è lieto di dare, nello spirito dell’ujamaa, un contributo per lo sviluppo costruendo una scuola di falegnameria per i ragazzi e un’altra di economia domestica per le ragazze (1979).
Nel 1990 padre Giulio Belotti nutre dubbi che la donna tanzaniana, su cui poggia gran parte dell’ujamaa, possa un giorno arrivare a gestire la propria crescita.
Di opinione abbastanza negativa è padre Luis Jiménez Feandez, per il quale l’ujamaa ha favorito il crescere della corruzione e l’abuso di cariche pubbliche. E, dopo aver propagandato l’istruzione per tutti i cittadini, in realtà ha garantito l’accesso all’università solo allo 0,5% e gli studi secondari solo al 3% della gioventù. Non meno carenti sarebbero i risultati nella sanità, occupazione, casa, ecc.
Ma tutti i missionari sono concordi nel valutare i grandi obiettivi raggiunti dall’ujamaa, come il dialogo inter-tribale, l’unificazione linguistica e la nascita di una nazione: valori che hanno favorito anche l’evangelizzazione.

LIBERTA’ E CRISTIANESIMO

«Uhuru, uhuru, uhuru!». Non si sente altro oggi in Kenya, 12 dicembre 1963.
Il mattino è stato ecumenico. Il metodista Valender, uno sceicco musulmano in un grosso turbante ed io in cotta e stola, all’aperto e attorniati da migliaia di persone, abbiamo pregato per il Kenya e la sua indipendenza. L’atmosfera era carica di gioia ed emotività.
Ognuno ha recitato una preghiera. A me pareva che persino gli angeli si arrampicassero sugli sgabelli per ricevere una benedizione protestante, una cattolica e una musulmana. Ho chiesto a Dio che fecondasse con la pioggia delle sue benedizioni l’uhuru.
Che la libertà scaturita in Kenya cresca, come crescono i raccolti nelle stagioni delle piogge, e si rinnovi come le piante di banana. Gli uomini che guidano il paese ottengano luce per vagliare la libertà, come si vaglia il granoturco, liberandola dalle erbe parassite e dalle gramigne che vegetano e danneggiano.
Una libertà senza nubifragi e siccità, con tutti i membri dei clan che vivono in una grande famiglia, dove gli anziani guidano con saggezza, gli uomini lavorano, le donne tengono linda la casa, i figli studiano e tornano dalle sorgenti con secchi di acqua limpida. Così benedica Dio il Kenya e i suoi abitanti.
Dall’applauso ho capito che la mia preghiera è stata la più azzeccata. Il vicepresidente del partito Kanu mi ha detto che l’intervento deve essere stampato, perché è bello. Quando un popolo parla così di preghiere nel giorno della sua indipendenza, probabilmente la realizzerà.
Nel pomeriggio i ragazzi hanno cantato l’inno nazionale. È un motivo mistico, che esce dalla foresta e si allarga lentamente e benedicente su tutta la nazione.

O Dio, nostra forza,
benedici tutti noi,
ci sia scudo la giustizia
e noi si viva in frateità,
pace e libertà.
Svegliamoci, fratelli,
lavoriamo in alacrità,
in servizio virile
alla nostra patria Kenya.
Amiamola con fermezza,
difendiamola con prontezza.
Costruiamo la nostra nazione…
Diamoci la mano,
lavoriamo insieme
ogni giorno grati a Dio.

Poi tutti si sono dati convegno nella cattedrale di Meru: politici, ex mau mau, protestanti, musulmani, i nuovi borghesucci, la massa di contadini. Qualcuno è svenuto.
Ho iniziato l’omilia della messa con: «uhuru na ukristu» (libertà e cristianesimo). Silenzio di tomba. Come un prete si sente ascoltato in certe occasioni!
Ho svolto l’idea di libertà nella Bibbia e della liberazione portataci da Cristo, che ci fa popolo di Dio. Ho parlato del colonialismo degli egiziani, che tenevano prigionieri gli ebrei. Ho continuato dicendo che il Kenya salutava Kenyatta, protagonista della sua indipendenza, e Gesù Cristo, fautore della libertà di ogni uomo. E ho concluso pregando per il Kenya e il suo presidente.
Mi sono sentito un po’ inorgoglito, come se avessi fatto un discorso alla camera dei lords. Saverio, un kenyano, mi ha detto: «Padre, pareva che parlassi della libertà della tua nazione». È stato un complimento.
S tasera sono stanco nella solitudine della mia camera. La finestra è spalancata sotto le stelle, che sembrano essere state lucidate apposta per questo giorno. Mi ritrovo a canticchiare l’inno nazionale:
O Dio, nostra forza,
benedici tutti noi…

p. Giovanni Bonzanino

Francesco Beardi




SOECIALE 100 ANNI – Arrivano nuove caravelle

Terra di contrasti stridenti: «favelas»
e grattacieli, dittature e democrazie, denunce
e omertà, guerra e pace, bianchi e neri,
indios e… Però l’America Latina
è anche un laboratorio missionario straordinario: alimenta grandi speranze,
specie dopo il Concilio ecumenico Vaticano II.
Accoglie i missionari della Consolata
e… ricambia il favore donando i propri figli
ai continenti più bisognosi.

I missionari della Consolata annunciano il vangelo anche in America Latina. Al loro arrivo, dopo la seconda guerra mondiale, il continente non presenta i tratti tipici della missione ad gentes: infatti, sino dalle caravelle della colonizzazione spagnola e portoghese, i paesi latinoamericani hanno raggiunto lo status di «chiesa autonoma» con vescovi, sacerdoti e istituzioni religiose locali.
I missionari delle «nuove caravelle» non trovano situazioni simili a quelle incontrate, per esempio, fra gli oromo dell’Etiopia o i wahehe del Tanzania. Pertanto lo scopo principale nel Nuovo Mondo non è la prima evangelizzazione, bensì di inserirsi nelle strutture ecclesiali esistenti; intanto formano missionari locali ad gentes e acquisiscono aiuti per le regioni più bisognose.
Tuttavia la «Consolata» in America Latina raggiunge anche territori eminentemente missionari: in Brasile gli indios macuxí e yanomami, in Argentina gli aborigeni tobas, in Colombia quelli nasa, in Ecuador i quichua, in Venezuela i guajiros e yequana. È la scelta dei più poveri tra i poveri, mentre soffia il vento di rinnovamento del Concilio ecumenico Vaticano II.
Inoltre la «Consolata» entra nelle baraccopoli delle metropoli o nelle regioni degli afroamericani, discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. I problemi sono drammatici.
L’articolo si sofferma su alcune situazioni missionarie in Brasile, Argentina e Colombia.

Brasile:
La scelta degli indios
È la prima nazione dell’America Latina a ricevere i missionari della Consolata nel 1937. Il paese appare loro (e ai successori) una soluzione transitoria, in attesa di trovare qualche altra missione sullo stile africano. L’Istituto è qui perché ha bisogno di vocazioni e mezzi per sostenere altrove la sua vasta e complessa attività. Nessuno crede che l’ultima sponda della missione sia l’abbastanza prospero sud del Brasile, fra le piantagioni di caffè. Tuttavia dagli stati di Paraná, Santa Catarina, Rio Grande do Sul, grazie all’animazione missionaria, sono sorti annunciatori del vangelo brasiliani, oggi in azione in diversi continenti…
L’interrogativo è: esiste nel paese maior do mundo un territorio che richiami le missioni d’Africa? Ed ecco la regione di Roraima, altamente di missione. I padri della Consolata vi mettono piede nel 1948.
Il territorio, da tempi immemorabili patria degli indios, agli inizi degli anni ’50 si presenta quasi come esclusiva proprietà dei bianchi: questi occupano vaste fattorie, dove gli indigeni sono costretti a vivere come residenti abusivi e in stato di servitù. È una situazione di ingiustizia insostenibile, specialmente alla luce del Concilio Vaticano II.
I missionari, sorretti dalla scelta evangelica dei poveri, fanno causa comune con gli indios macuxí, wapichana, ingarikó e taurepang. E, per la prima volta dalla conquista portoghese del 1500, l’indio al cospetto del bianco incomincia a non chinare più la testa sottomessa, ma a fronte alta risponde «nossignore!».
Inizia una grande battaglia per la salvaguardia dell’identità culturale indigena e la riappropriazione delle terre contro il potere anche politico locale. È in tale contesto che viene lanciata la Campagna mondiale «Una mucca per l’indio», sottoscritta pure da tanti lettori di Missioni Consolata.
L’11 dicembre 1998 il Ministero della giustizia del Brasile decreta la demarcazione dell’area indigena Raposa-Serra do Sol, ma non arresta i latifondisti bianchi: costoro, forti dell’appoggio di alcuni politici di Roraima, sono disposti a difendere le loro pretese sul territorio anche con la violenza.
I missionari «scelgono» poi i yanomami, che vivono allo stato tradizionale (fermi a circa 12 mila anni fa) e rischiano il genocidio-etnocidio. Figli della foresta amazzonica, «il polmone del mondo», gli indios sono esposti alle malattie dei bianchi che ne invadono il territorio per cercare oro e legname prezioso. Tra lotte incessanti nasce il «parco dei yanomami». Il governo brasiliano riconosce agli indios il diritto alla proprietà e a vivere sulla propria terra. Ma la vittoria è tutt’altro che certa.
Non c’è promozione umana senza scuola. Ma l’alfabetizzazione dei yanomami è problematica. Una missionaria laica e tre padri, nel 1990, iniziano nel Catrimani una educazione scolastica speciale. Cosciente che la scuola nelle aree indigene è stata uno strumento di dominazione e distruzione culturale, l’équipe opta per un insegnamento slegato dal sistema statale e incarnato nella cultura locale. È un’alfabetizzazione etnologica, bilingue (yanomami e portoghese), biculturale, globale.
E l’evangelizzazione? «I yanomami – scrivono Guglielmo Damioli e Giovanni Saffirio – sono ancora un popolo neolitico (in gran parte illetterato) di cacciatori, raccoglitori e orticoltori, la cui storia evolve verso “la pienezza dei tempi” (plenitudo temporum): condizione necessaria per la scoperta e comprensione del messaggio cristiano».
Il missionario «sia coerente con le proprie convinzioni religiose – afferma l’enciclica Redemptoris missio, 56 – e aperto a comprendere quelle dell’altro, senza chiusure e dissimulazioni, ma con verità, umiltà, lealtà, sapendo che il dialogo può arricchire ognuno».
Ebbene i missionari della Consolata evitano ogni manipolazione della vita yanomami. Fin dal loro primo contatto, adottano semplici regole di convivenza, ma suggeriscono mutamenti culturali con la pratica palese e specifica di valori cristiani: il perdono, la valorizzazione di tutte le forme di vita, la generosità con tutti, le cure mediche tradizionali e allopatiche, l’istruzione, senza chiedere compensi o adesione alla fede cristiana (1).

(1) L’attenzione agli indios dei missionari si esprime anche attraverso importanti pubblicazioni:
– Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apiaù, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1967; Massacre, Cimi, São Paulo 1998;
– Guglielmo Damioli – Giovanni Saffirio, Yanomami, Il Capitello, Torino 1996;
– John Saffirio, Ideal and kinship terminology among the Yanomama Indians of the Catrimani river (Brazil), University of Pittsburg, 1985 (tesi di laurea).

Argentina:
«descamisados»
e «desaparecidos»

Il generale Juan Perón è progressista, radicale, anticlericale. Grazie al favore dei descamisados (scamiciati), nel 1946 vince le elezioni in Argentina. È una vittoria contro la borghesia e inaugura una dittatura a larga base popolare, che governa il paese secondo la dottrina del justicialismo. Ma Perón, a modo suo, protegge i lavoratori attraverso il populismo e il dirigismo economico. Quanto basta per attirargli le simpatie delle masse, alienandole dalla chiesa.
Non è facile per i missionari della Consolata operare in Argentina dal 1947 (anno del loro arrivo) durante il peronismo. Un cattolicesimo nazionalista contende il potere a stato e chiesa, mentre i capi politici e religiosi si fronteggiano, con pari acredine, per accaparrarsi il favore del popolo e trascinarlo dalla loro parte.
Però è lo stesso Perón che sollecita i missionari a recarsi nella disagiata regione del Chaco… per risolvere il problema degli indios tobas. L’iniziativa è meritevole. D’altra parte che cosa aspettarsi da un presidente, se non di riparare le ingiustizie accumulate in secoli di colonialismo spagnolo? Ma si rivela propaganda politica.
Infatti, dalla seconda metà del XIX secolo, con la colonizzazione intea e l’impulso all’immigrazione, migliaia e migliaia di aborigeni sono ridotti a poche centinaia, intruppati in riserve (colonias) per coltivare cotone, allevare bestiame o disboscare la foresta. Inoltre, a causa dei loro continui spostamenti, è impossibile per i missionari instaurare un dialogo e sviluppare progetti di promozione umana.
Passato il fugace e illusorio idillio tra peronismo e chiesa argentina, le due società si fronteggiano in campo aperto mettendo in atto le rispettive forze: Peròn i suoi giovani, la sua milizia, le manifestazioni di piazza, le leggi contro la libertà religiosa nelle scuole… la chiesa incoraggiando l’Azione Cattolica, il clero e i fedeli a resistere con coraggio a violenze, arresti e soprusi.
È un braccio di ferro tra due diverse visioni del mondo, destinato a risolversi nel 1955 in un golpe militare, appoggiato da larghi settori del clero e dell’episcopato, da notabili e militanti cattolici.
I missionari della Consolata vivono quei giorni di tensione accanto alle loro comunità parrocchiali. C’è anche chi paga di persona: padre Carlo Motta, nel natale 1955, viene malmenato da un gruppo di scalmanati; padre Ruggero Angheben finisce momentaneamente in carcere; i padri Guido Guerra e Armando Cecconi sono tenuti sotto sorveglianza. Tutti devono ricordare di essere stranieri in terra straniera.
La dottrina sociale della chiesa universale a favore dei diritti umani, scaturita dal Concilio Vaticano II e dalle Conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam), per ovvie ragioni non ha ripercussioni immediate nell’ambiente ecclesiale locale. Tuttavia, al tramonto delle dittature, trova terreno fertile nei Sacerdotes del Tercer Mundo, nella nuova Riflessione teologica sullo sviluppo e nelle Madri di Plaza de Mayo, che recriminano per i «soppressi» dalla dittatura (desaparecidos).
Sul versante politico, la fine della demagogia inaugura un corso che si dibatte tra giunte (risolute a frenare ogni infiltrazione comunista) e governi che tentano di instaurare la democrazia. Il paese è irrequieto, e anche la chiesa lo è, specialmente in alcune sue frange peroniste e di sinistra.
Morto Perón nel 1974, gli succede la moglie Isabelita, travolta nel marzo 1976 dal golpe militare di Jorge Rafael Videla, che ripristina la pena di morte contro i terroristi.
In tale contesto si inserisce l’arresto di padre Gianfranco Testa e la sua drammatica detenzione nei penitenziari del regime (vedi l’inserto «56 mesi nelle galere…»).
Però la missione in Argentina resiste, nella fedeltà alla chiesa locale e all’Istituto, anche se in condizioni sfavorevoli:
1/ un elemento perverso frena la popolazione e, di conseguenza, anche i missionari: è il sistema poliziesco che governa per lunghi anni con la paura, la censura, i desaparecidos, le esecuzioni sommarie, il carcere duro, i controlli capillari, la guerra per le isole Malvinas;
2/ la mancanza di informazione fa erroneamente credere che il paese, già meta di numerosi emigrati italiani in cerca di benessere, sia prospero; ne fanno le spese anche i missionari.
A partire dal 1984, con il faticoso ritorno alla democrazia, i missionari operano in condizioni sociali più favorevoli. Uno dei loro fiori all’occhiello è l’azione fra gli indios tobas.

Colombia: nel vortice
della violenza
«Violencia». È, purtroppo, una delle prime realtà che i missionari della Consolata scoprono giungendo in Colombia nel 1947.
Nelle elezioni presidenziali dell’anno precedente, il leader demagogo Jorge Gaitán viene sconfitto e, nel 1948, addirittura ucciso. Esplode la guerra civile tra liberali e conservatori, passata alla storia appunto come «la violencia».
Il fenomeno divampa per un decennio (1948-57): causa 300 mila morti, l’esodo di 2 milioni di contadini disperati verso le città, con il conseguente sovraffollamento e povertà di periferie (serbatorni dell’attuale criminalità); scatena guerriglie; traumatizza la coscienza del popolo; consolida la mentalità del conflitto come meccanismo di funzionamento della società.
Siamo negli anni ’50. Ma sembra la fotocopia della Colombia odiea, il paese più violento del mondo, che conta 25-30 mila morti ammazzati all’anno…
Però la Colombia vanta pure una lunga tradizione cristiana, dai connotati spagnoleschi, dal culto popolare e dall’arte ridondante. I missionari sono qui «per dare una mano», perché la comunità ecclesiale si sta espandendo senza un numero sufficiente di sacerdoti.
Che la chiesa abbia bisogno di aiuto è lampante. Secondo José Luis Sea, missionario della Consolata colombiano, nel 1964 sulle spalle di ogni sacerdote di campagna grava la responsabilità di circa 8 mila persone: e, fatto ancora più sintomatico, il 51 per cento dei preti che lavorano in missione sono stranieri. Grave è pure la situazione nelle aree urbane.
L’incontro tra i missionari e le parrocchie urbane e rurali comporta un reciproco vantaggio: l’Istituto attinge alle fonti di una pastorale creativa e popolare; la chiesa locale si avvantaggia di una mens missionaria aperta a tutte le culture.
Negli anni ’80 alcuni missionari si avventurano verso regioni più complesse, di «frontiera». Spiccano alcuni padri che piantano le tende tra i campesinos della Cundinamarca, a 40 chilometri da Bogotà, facendo di Tocaima il centro d’interesse: si dedicano ad un progetto basato sull’insegnamento sociale della chiesa: è la Promociòn integral de comunidades rurales. L’obiettivo è di creare in ogni centro rurale le condizioni per una promozione integrale dei contadini, diventati vittime del latifondo e delle monocolture per l’esportazione…
Dopo 15 anni di lavoro nel popoloso quartiere di Blaz de Lezo, nella diocesi di Cartagena de las Indias, i missionari si concentrano sul mondo indigeno e afro della Bahia, lungo la costa atlantica, ricettacolo di popolazioni meticce, forgiate nell’altofoo della schiavitù e messe alla prova da una povertà endemica. Così, dal piccolo centro di Pasacaballos, nel 1983 parte la missione tra i morenos: una missione da inventare e un popolo da scoprire. Nel 1988 sorgono altre due missioni: El Cabrero e Marialabaja (1)…
Quando lo stato non crea posti di lavoro, la popolazione è costretta ad arrangiarsi, spesso emigrando. Allora in Colombia si assiste ad una emigrazione intea che vede migliaia di persone riversarsi verso il Caquetà, nell’Amazzonia. Oltre che dalla mancanza di lavoro, il fenomeno è originato dal bisogno di fuggire dalla guerriglia e dai paramilitari. Dalla violencia, insomma.
Un milione e mezzo di ettari di alberi sono presto abbattuti (siamo in Amazzonia!) per coltivare coca, che nell’arco di 24 ore diventa cocaina: e alimenta il narcotraffico mondiale, procura facile ricchezza ai campesinos, ma li espone alle frequenti incursioni della guerriglia e alle spietate repressioni delle forze governative. Il numero delle vittime non si conta. Però nessuna proposta sociale, capace di dare alla gente una nuova prospettiva di sopravvivenza – denuncia padre Giacinto Franzoi – accompagna l’intervento militare.
La convinzione che, con i dispositivi militari di grandi proporzioni, si possa superare il problema «coca» una volta per sempre è illusoria. A questo quadro, già sconfortante, padre Giuseppe Svanera aggiunge gli effetti degradanti che il commercio della «polvere bianca» produce nelle popolazioni: perdita dei valori umani, caduta del senso religioso, sfiducia, malasanità, corruzione, prostituzione, analfabetismo. Solo l’8% dei ragazzi termina il ciclo delle elementari, e il 60% della popolazione in età scolare non varcherà mai la porta di una scuola.
Dopo aver toccato il fondo, ci si accorge che ogni illusione è crollata e che è urgente trovare una via di uscita: dai gruppi pastorali allargati delle missioni di Solano e Remolino, nel vicariato di san Vicente-Puerto Leguízamo, affiora la volontà di sostituire la coltivazione della coca con altre colture, meno vantaggiose economicamente, ma più sicure socialmente: caucciù, cacao. Il progetto è affascinante, ma non facile.
Nel 1995 il vicariato lancia pure una «pastorale sociale». Il problema di fondo è quello di battere la «narcoscienza», cioè non cadere nella trappola del soldo facile e immediato che la coca assicura. Ai cocaleros (che sono tali perché senza alternative di lavoro), la chiesa propone di convivere con la «loro» Amazzonia, valorizzandola: utilizzare la fauna terrestre e acquatica, la flora fruttifera e medicinale. E commercializzare il tutto. Un’impresa da giganti.
Afferma il cardinale Ersilio Tonini: «La Campagna “Non di sola coca” dei missionari della Consolata e i progetti che essa presenta sembrano piccola cosa di fronte all’immensità del problema; ma il loro significato è molto vasto, più vasto della Colombia e dell’America Latina».

N on si può concludere questo rapido (ed incompleto) excursus sulla presenza della «Consolata» in America Latina senza, almeno, ricordare i suoi missionari locali. Sono 151, fra cui quattro vescovi: José L. Sea, Luis A. Castro e Francisco J. Munera, della Colombia, nonché Walmir A. Valle, del Brasile.
Alcuni padri, fratelli e suore della Consolata, divenendo missionari al di là delle loro frontiere nazionali, hanno saputo «dare dalla loro povertà», ricambiando così il «favore» ricevuto dai missionari europei delle prime caravelle.
Ad esempio: i brasiliani Elio Rama e Luiz Emer, rispettivamente in Mozambico e Corea del Sud; Alonso Alvares nella repubblica democratica del Congo e Armando Olaya in Costa d’Avorio, entrambi colombiani. Senza scordare padre Oscar Goapper, argentino, schiantato dalla fatica nel suo ospedale di Neisu nel Congo in guerra.

(1) Padre Vincenzo Pellegrino ha approfondito i problemi degli afro-colombiani della costa atlantica nel volume La campana di Balbino, Emi, Bologna 1999.

Francesco Beardi