Viaggio in Togo: paese del vodoun

Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.
Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.

Storia di un dittatore «dinosauro»
L’INNOMINATO
Da secoli il Togo vive nel limbo della storia (vedi
scheda). Pochi saprebbero indicarne la posizione
geografica; meno ancora ne conoscono la
situazione della gente, violentata da una
dittatura che dura da 35 anni, senza sapere come
e quando potrà liberarsene

I pannelli con la sua faccia ossessionano
il paese; spille e distintivi
con la sua immagine sono
su tutti i petti d’impiegati governativi;
nugoli di donne lo accolgono
danzando ogni volta che visita un
villaggio; la sera, la televisione racconta
come ha speso la giornata…
Parlando con la gente, però, il suo
nome non lo sento pronunciare mai.
Anche i più coraggiosi usano i pronomi:
lui, costui, quello lì, quello là.
I sostenitori lo chiamano: timoniere,
padre della nazione, salvatore
della patria; i più prudenti: vecchio,
dinosauro; gli avversari gridano: assassino,
bufalo, elefante, lupo mannaro,
demonio di Pya, suo paese natale,
nel nord del Togo.
«Lui» è Gnassingbé Eyadéma, da 35
anni presidente del Togo, il più longevo
dittatore di tutti i paesi dell’Africa
post-coloniale. E resterà ancora
a lungo sulla scena, secondo diplomatici
e analisti politici.

NAZIONE ALLO SFASCIO
«Radio e televisione presentano la
situazione del paese come la migliore
che possa esistere – afferma un
missionario, che per prudenza non
nominiamo -; “lui” rassicura che tutto
va bene. Ma la realtà è differente:
la povertà impera; manca il lavoro e
la gente sopravvive col piccolo commercio;
la terra disponibile è ancora
molta, ma rende poco, per arretratezza,
siccità o troppe piogge; maestri
e funzionari statali hanno stipendi
da fame, arretrati fino a 5-6
mesi e non tutti retribuiti».
In tali condizioni, non ci si può
aspettare che gli insegnanti siano
motivati e le scuole funzionino: quelle
elementari sono in tutti i villaggi,
ma il tasso di analfabetismo è al
50%, tra le donne soprattutto.
Il rendimento scolastico è in caduta
libera. Nelle superiori i programmi
non sono svolti per intero e, all’esame
di maturità, la percentuale dei
promossi non supera il 10%; in alcuni
licei il tasso è zero. I giovani ripetono
per più anni, finendo d’iscriversi
all’università a 30 anni. Molti abbandonano
gli studi e cercano di
scappare in Europa o America, perché
il paese non garantisce un avvenire
alla sua gioventù.
Il paese è ricco di fosfati; ha industrie
di cemento; produce cotone,
caffè, cacao; ma nessuno sa dove vadano
a finire i proventi di tali risorse,
poiché ormai tutto è privatizzato.
«È stato privatizzato anche l’acquedotto
– aggiunge il missionario -.
L’acqua potabile si paga; chi non può
permettersela attinge ai fiumi, con
deleterie conseguenze per la salute».
La gente non protesta?
«Resistenze e proteste sono frequenti
e nella legalità – continua il
missionario -. Uno sciopero generale,
protratto per molti giorni, ha paralizzato
il paese. Lomé, per esempio
sembrava una città fantasma: tutto
era chiuso e nessuno per strada. Per
ora il popolo è vincente, perché ha
grande forza di sopportazione; sa che
la violenza genera violenza. La pazienza
della gente rasenta il fatalismo;
vorremmo che avesse più iniziativa
e, da parte nostra, bisognerebbe
impegnarsi di più nell’opera di
coscientizzazione: non si può parlare
molto, altrimenti quello là…».

IL COLONNELLO
Di etnia kabyé, nato nel 1935, dopo
un breve curricolo scolastico
Etienne Eyadéma diventò sotto ufficiale
dell’esercito francese e militò
per 12 anni sotto tale bandiera in
Dahomey (attuale Benin), Algeria,
Niger e Indocina. L’esperienza militare
ha supplito alla mancanza di formazione
scolastica, facendo di lui un
grande lavoratore, che si corica a
mezzanotte e si alza alle 4 del mattino.
I vicini lo dipingono affabile, disponibile
all’ascolto, grande intrattenitore
che racconta fatterelli. Tutte
doti abilmente sfruttate per farsi
una buona reputazione all’estero e
interporsi come uomo di mediazione
in vari conflitti africani: Biafra,
Ciad, Niger e Congo (Zaire).
Scampato a vari incidenti e attentati,
veri o presunti, si è costruito
un’aureola d’immortalità
e la gente lo crede dotato di
poteri occulti. A tali credenti
egli dice che, a dargli
forza, c’è un «solo marabutto:
il caro popolo
togolese».
Eyadéma militava
ancora nell’esercito francese il 27
aprile del 1960, quando il Togo, terzo
paese a sud del Sahara, dopo
Ghana (1957) e Camerun (gennaio
1960), raggiunse la piena sovranità.
Artefice dell’indipendenza fu
Sylvanus Olympio, di etnia ewé del
sud, nazionalista moderato, vero
creatore del Togo moderno.
Il presidente, però, sottovalutò
le tensioni tra nord
e sud del paese: le popolazioni settentrionali, da lui definite
petits nordiques, si sentirono trascurate.
E quando, nel 1963, rifiutò d’integrare
nell’esercito nazionale 600
soldati, quasi tutti kabyé del nord, reduci
dal servizio sotto la bandiera
francese, il colonnello Eyadéma ne
approfittò per fare un golpe militare:
Olympio fu freddato mentre cercava
di rifugiarsi nell’ambasciata americana.
Eyadéma rivendica ancora a sé tale
assassinio, anche se altri dicono
che sia stato un soldato francese a
sparare al presidente.
Eyadéma fu il primo a innescare la
danza macabra di colpi di stato militari
che, in breve tempo, avrebbero
consegnato tanti paesi africani a dittatori
senza scrupoli come lui.
Promosso generale dell’esercito,
nel 1967 Eyadéma capeggiò un altro
colpo di stato, incruento, e si autoproclamò
capo dello stato.

IL DITTATORE
In due anni Eyadéma instaurò un
regime autoritario: fece confluire i
movimenti operai in un’unica federazione
sindacale; abolì i partiti politici
e fondò il suo: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
Nei paesi confinanti erano in corso
rivoluzioni marxiste (Ghana, Burkina
Faso e Benin); ma egli rimase legato
all’Occidente, pur senza rompere con
la Corea del Nord. E ne fu largamente
ricompensato con aiuti militari dai
francesi e benevolenza da Washington
e vari governi europei, che chiusero
gli occhi sui suoi eccessi.
Ciò non gli impedì qualche sterzata
nazionalista: nel 1972-76 nazionalizzò
la produzione ed esportazione
dei fosfati. Emulando l’amico Mobutu,
dittatore dello Zaire, si erse a
paladino dell’«autenticità»: ordinò ai
togolesi di rimpiazzare i nomi europei
con quelli africani e lui stesso
cambiò Etienne in Gnassingbé; costruì
uno dei più pervasivi culti della
personalità, circondandosi di uno
stuolo di leccapiedi e di donne festanti
in abiti tradizionali.
Nel 1974 uscì indenne da un incidente
aereo, da lui pubblicamente
attribuito a un complotto di «imperialisti
» stranieri, e diventò più irrazionale
e imprevedibile.
Per una decina d’anni (1970-80)
l’incremento del turismo e l’aumento
del prezzo dei fosfati fecero esplodere
un boom economico che meritò al
Togo l’appellativo di «Svizzera africana
». Eyadéma cavalcò il miracolo
per varare una nuova costituzione
(1979) che sanciva il presidenzialismo
e, manco a dirlo, fu eletto presidente
per sette anni.
La pacchia finì nel 1981: il prezzo
dei fosfati si dimezzò e la recessione
economica mondiale ridusse drasticamente
il turismo europeo; il deficit
della bilancia dei pagamenti fece
schizzare il debito estero a un miliardo
di dollari.
Per avere altri prestiti, Eyadéma dovette
adottare le misure imposte dagli
organismi finanziari mondiali:
congelare i salari, ridurre le spese statali,
aumentare le imposte fiscali, privatizzare
le aziende pubbliche e licenziare.
Il debito estero aumentava
e l’economia continuò a decadere.
Sindacati e movimenti di opposizione
alzarono la testa con scioperi
e pubbliche proteste. Ma alle elezioni
del 1986, il presidente fu rieletto
per altri sette anni col 99,95% dei
voti.
Di fronte al plebiscito fasullo, l’opposizione
scese di nuovo in piazza.
Nel settembre dello stesso anno un
gruppo di esuli in Ghana riuscì a entrare
nel palazzo presidenziale e in
un campo militare di Lomé. Ci furono
morti da ambo le parti; Eyadéma
stesso sparò parecchi colpi. Ma a salvarlo
furono 200 paracadutisti francesi,
prontamente inviati dal Gabon
e Centrafrica.
Il dittatore continuò a disfarsi degli
oppositori con ogni mezzo illecito,
finendo regolarmente sulla lista
nera di Amnesty Inteational.

SPERANZA STRANGOLATA
Finita la guerra fredda (1989), la
Francia cominciò a mollare Eyadéma
e fece pressione perché aprisse il paese
al multipartitismo, come stavano
facendo altre ex colonie francesi.
Per mettere in cattiva luce i sistemi
pluralisti, la televisione di stato
mostrava scioperi e violenze; ma ottenne
l’effetto contrario: all’inizio
del 1991 le forze favorevoli alla democrazia,
in maggioranza ewé e mina
del sud, iniziarono scioperi e tumulti,
repressi brutalmente: 28 corpi
furono ripescati nella laguna di
Lomé e scaricati sulla gradinata dell’ambasciata
americana.
Di fronte alle pressioni estee e
intee, Eyadéma dovette concedere
libertà di stampa, liberare i prigionieri
politici e convocare una Conferenza
nazionale sovrana (Cns), come
era avvenuto l’anno prima in Benin,
per decidere l’avvenire del paese.
Aperta nel giugno 1991 e presieduta
da mons. Philippe Kpodzro, vescovo
di Atapkamé, poi di Lomé, la
Cns spogliò il dittatore d’ogni potere,
formò un governo di transizione, guidato
da Kokou Koffigoh, già presidente
della Lega per i diritti umani, e
istituì l’Alto consiglio della repubblica
(Atr), massimo organo legislativo,
sempre presieduto dal vescovo.
Ma i militari disertarono subito
l’Assemblea: non ci stavano a perdere
i privilegi e sentirsi rinfacciare torture,
assassinii e carneficine. Quando
fu deciso lo scioglimento del partito
unico (Rpt), essi sequestrarono
e umiliarono i membri dell’Atr finché
non si rimangiarono il decreto; la
settimana seguente presero in ostaggio
il primo ministro, obbligandolo a
formare un governo d’unità nazionale,
cioè con uomini di Eyadéma.
Tattiche intimidatorie e mini colpi
di stato continuarono per tutto il
1992, costringendo Koffigoh a continui
rimpasti governativi, secondo
gli umori del dittatore. Diversi leaders
dell’opposizione subirono attentati,
tra cui Gilchrist Olympio, figlio
di Sylvanus e capo dell’Unione di forze
per il cambiamento (Ufc). Prontamente
ricoverato a Parigi, si salvò.
Più volte Koffigoh chiese alla Francia
di difendere la democrazia; ma
questa non mosse un dito, pur avendo
300 paracadutisti nel Benin, pronti
a evacuare i 3.500 connazionali
ancora in Togo.
In un anno Eyadéma riacquistò
quasi tutto il potere. Sindacati, organizzazioni
politiche e partiti d’opposizione
lanciarono uno sciopero
generale a oltranza, durato nove mesi:
la guardia presidenziale uccise un
centinaio di manifestanti; migliaia di
togolesi fuggirono in Ghana e Benin.
Eppure la Cns è stato un evento
storico: ha permesso alle forze democratiche
di emergere, guardarsi in
faccia; ha fatto il processo al regime,
costringendolo a gettare la maschera;
ha attirato sul paese l’attenzione
della comunità internazionale.
Inoltre la Cns ha varato la nuova costituzione
(1992), fissando la durata
del mandato presidenziale a cinque
anni, rinnovabile una sola volta:
un cavallo di Troia in mano alle forze
democratiche, che possono mobilitarsi
per esigee il rispetto.

FARSA CONTINUA
Ma le elezioni presidenziali del
1993, da tenersi secondo le regole
della nuova costituzione e sotto gli
occhi di osservatori africani e occidentali,
furono una farsa: il principale
oppositore, Gilchrist Olympio, fu
squalificato dalla competizione per
un cavillo burocratico; altri due candidati
si ritirarono. Gli osservatori tedeschi
e americani tornarono a casa;
restarono quelli francesi e del Burkina
Faso e avallarono le elezioni «democratiche
»: il dittatore fu eletto col
96,5% di suffragi; solo un terzo degli
aventi diritto si recò alle ue.
Le elezioni parlamentari del 1994
furono preparate da coprifuoco e sparatorie
giornaliere; ciò nonostante,
l’opposizione ottenne la maggioranza:
su 78 seggi, 34 andarono al Comitato
d’azione per il rinnovamento
(Car), guidato da Yao Abgoyibo, 6 all’Unione
democratica togolese (Udt)
di Edem Kodjo, 38 al partito di Eyadéma.
Ma il dittatore riuscì a dividere
l’opposizione: affidò a Kodjo la formazione
del governo con il suo partito
(Rpt) e il Car fu messo fuori gioco.
Di fronte alle frodi elettorali e violazioni
dei diritti umani, nel 1994 la
Comunità Europea, Stati Uniti e organismi
finanziari mondiali esclusero
il Togo da aiuti e prestiti. Eyadéma
cominciò a stringere rapporti col
Giappone, Arabia Saudita, Emirati
Arabi, Kuwait, Iran, Cuba…
Le elezioni presidenziali del 1998
si svolsero all’insegna «della legge
del terrore, in un clima d’impunità»
secondo Amnesty Inteational, che
portò davanti all’opinione mondiale
centinaia di uccisioni di oppositori e
testimoni. La rivelazione fece imbestialire
il dittatore, costretto ad accettare
una commissione d’inchiesta
internazionale.
La vittoria del dittatore arrivò con
la «frode sistematica», parole del Dipartimento
di stato americano: la
conta delle schede fu bloccata, quando
apparve chiaro che Eyadéma stava
perdendo; la commissione elettorale
fu costretta a dare i numeri: 52%
ad Eyadéma, 34% all’Udt, 9,5% al
Car: un altro plebiscito non era più
credibile.
Inutili furono le contestazioni, disperse
con pallottole e gas lacrimogeni.
Le elezioni parlamentari del
1999 furono boicottate da Car e Udt
e il partito di Eyadéma ottenne quasi
tutti i seggi: 78 su 81. Il governo
fu affidato ad Agbéyomé Kodjo, tuttora
in carica.

TOGO: STATO DI TERRORE»
Ora tutto sembra in pace, ma la povertà
aumenta di giorno in giorno. La
gente è stanca di protestare o, piuttosto,
è terrorizzata. L’opposizione è
imbavagliata: il suo leader principale,
Yao Abgoyibo, è appena uscito di
prigione; molti dirigenti di partiti sono
in esilio; altri cambiano ogni notte
domicilio; continuano la caccia ai
«democratici» e le sparizioni.
Per rientrare nelle grazie dell’Occidente
Eyadéma ha promesso di anticipare
le elezioni presidenziali al
2001: l’anno è passato e nessuno sa
dire se e quando si terranno. La scadenza
naturale è il 2003; si spera che
non si ricandidi: la Costituzione non
permette più di due mandati.
«Lo sanno tutti – afferma un oppositore
-. “Quello là” vuole restare al
potere fino alla morte e tenterà di farlo.
Vuole far credere al mondo che il
Togo è diventato democratico; ma
non è neppure uno stato a partito
unico: è un paese di un uomo solo, di
una famiglia sola. Con un esercito di
12 mila uomini ben pagati, per il 75%
kabyé, che lo riconoscono come unico
capo tribù e due figli in posizioni
chiave, addestrato in ogni tattica di
repressione da istruttori nordcoreani,
è difficile immaginare un rapido e pacifico
cambiamento».
«Più impensabile sarebbe una rivoluzione
– spiega un missionario -.
Il partito del presidente, che continua
a essere unico, è sempre in campagna
elettorale, con menzogne e
insulti all’opposizione e marce di sostegno
al dittatore. Gli stati confinanti
non hanno interesse a destabilizzare
il paese: Benin e Burkina
Faso sono governati da militari puri;
il Ghana è democratico, ma il suo
presidente è stato appena eletto e
accetta il Togo così com’è. Dell’opinione
internazionale il regime se ne
infischia, vomitando insulti da mattino
a sera, specialmente contro Amnesty
Inteational: si è permessa di
dire che “il Togo è uno stato di terrore“,
che esercito e polizia sono la
vera minaccia per la popolazione».
«Anche in Occidente ci sono troppe
forze interessate a lasciare le cose
come sono – aggiunge un altro
missionario -. Il giorno in cui perdesse
il potere, Eyadéma sarebbe messo
sotto accusa, trascinando sul banco
degli imputati potenze e governi stranieri
che lo hanno sostenuto».
Intanto a chi gli domanda se presenterà
per la terza volta la sua candidatura,
Eyadéma risponde che «rispetterà
scrupolosamente la Costituzione
». Ma quale? Il primo ministro
Kodjo getta pietre nello stagno, ventilando
la possibilità di cambiarla, per
dare al suo padrone altri cinque anni
di potere, e il parlamento ha tutti i
numeri per farlo.
Tale cambiamento, tuttavia, sarebbe
una sfida alla Comunità Europea,
che condiziona i suoi aiuti alla ripresa
della democrazia nel paese. Un altro
mandato presidenziale «si tradurrebbe
in un suicidio nazionale – afferma
l’americano Chris Fomunyoh,
direttore degli Affari africani presso
l’Istituto democratico nazionale – e
sarebbe terribile per la regione, per il
Togo e per il continente».

Superficie: 56.785 kmq.
Popolazione: 5,1 milioni di abitanti; è composta da 37 gruppi
etnici; i predominanti sono ewé-mina44%, kabyé27%,
gurma16%, tem4%, kebu3,8%, ana( yoruba) 3,2%, bianchi
0,3%. I brasileños(ex schiavi tornati dal Brasile) costituiscono
una «casta» molto influente sul piano economico e politico.
Lingua: francese (ufficiale) e vari idiomi etnici.
Istruzione: alfabeti 51%; maschi 67%; femmine 35%.
Religione: culti tradizionali 50%; cattolici 24%, musulmani
15%, protestanti 7%.
Capitale: Lomé.
Partiti politici: Raggruppamento del popolo togolese (Rpt), partito
unico fino al 1991; Unione democratica togolese (Udt); Comitato
d’azione per il rinnovamento (Car).
Forma di governo: repubblica presidenziale; presidente è Gnassingbé
Eyadéma dal 1967; primo ministro Koffi Sama dal 27-
6-2002, dopo la rimozione di Agbéyomé.
Moneta: franco C.F.A. (1 euro = 640 C.F.A.).
Debito estero: 1.448 milioni di dollari.
Crescita annua Pil: -1% (1998).
Economia: agricoltura con la produzione per il fabbisogno locale
(mais, miglio, riso, manioca, fagioli, arachidi e frutta) e
per l’esportazione (cotone, cacao, caffè, palma oleifera, cocco).
Minerali: fosfati, di cui il Togo è tra i primi paesi produttori
ed esportatori del mondo. Industrie chimiche, petrolchimiche,
tessili, alimentari e cemento.

Scheda storica politica e religiosa
12°-16° sec.: varie etnie si stabiliscono nell’attuale Togo: kabyéa
nord; ewé, mina, guinlungo le coste.
1470: navigatori portoghesi esplorano le coste dell’Africa occidentale
e iniziano il commercio dell’oro e prodotti esotici.
1482: costruzione del forte a La Mina (Elmina, Ghana).
16°-18° sec.: compagnie commerciali inglesi, olandesi, francesi
e danesi cacciano i portoghesi e monopolizzano il commercio degli
schiavi: Togo e Dahomey prendono il nome di «Costa degli
Schiavi».
1737-1771: la Società dei fratelli moravi (Giacomo Protte) opera
in Costa d’Oro e Togo.
19° sec.: abolizione dello schiavismo: famiglie di afro-brasiliani ritornano
in Togo.
1827: la Società evangelica di Basilea opera tra le popolazioni a
est del Volta.
1842: creazione del vicariato delle due Guinee. Metodisti ad Aneho.
1847: la Missione di Brema fonda missioni nell’interno del Togo.
1860: creazione del vicariato del Dahomey.
18 aprile 1861: primi missionari della Sma sbarcano a Ouidah.
1884: congresso di Berlino: le potenze europee si spartiscono l’Africa
in zone d’influenza; sorprendendo inglesi e francesi, i tedeschi
firmano un trattato di «protezione» col re togolese: per 20 anni sviluppano
infrastrutture e coltivazioni scientifiche.
1886: i padri Moran e Bauquis avvelenati.
1892: creazione della prefettura apostolica del Togo, affidata ai
missionari tedeschi dello Spirito Santo: il loro arrivo segna
la nascita ufficiale della chiesa togolese.
1914: il vicariato del Togo è elevato a prefettura apostolica.
Scoppia la prima guerra mondiale e il Togo è occupato
da inglesi e francesi.
1916: missionari tedeschi dichiarati prigionieri politici,
poi espulsi.
1918: la Società delle Nazioni (oggi Onu) affida due
terzi del Togo alla Francia, la parte occidentale all’Inghilterra.
1921: il Togo francese è affidato ai missionari di Lione
(Sma).
1923-45: mons. Cessou vescovo di Lomé.
1937: erezione della prefettura di Sodoké.
1939-45:2a guerra mondiale: soldati togolesi
nell’esercito francese.
1945: nascita di partiti indipendentisti:
Comitato dell’unione togolese (Cut) e
Partito togolese del progresso (Ptp).
1946: dal regime di mandato a quello
di tutela: il Togo diventa Territorio
d’Oltremare, con proprio parlamento e
deputati a Parigi.
1955: istituzione della gerarchia in Togo:
Lomé diventa arcidiocesi e Sodoké
diocesi.
1956: Togo diventa Repubblica autonoma:
esponente del Ptp, tendenze neocolonialiste.
1958: vince le elezioni Sylvanus Olympio, leaderdel Cut, ewédel
sud, indipendentista moderato.
27 aprile 1960: il Togo ottiene piena indipendenza. Olympio avvia
riforme nazionaliste, attirandosi le ire dei francesi. Si aggrava la tensione
con le etnie del nord.
1962: mons. Dosseh consacrato primo vescovo togolese di Lomé.
1963: colpo di stato guidato da Eyadéma; Olympio deposto e assassinato.
Grunitzky ritorna dall’esilio e guida il nuovo governo.
1964: mons. Atakpah, primo vescovo togolese di Atakpamé.
1965: mons. Bakpessi, primo vescovo togolese di Sodoké.
1967: nuovo golpe(incruento) di Eyadéma, che si autoproclama
capo dello stato e instaura un regime dittatoriale.
1969: movimenti operai riuniti in un’unica Federazione sindacale;
abolizione dei partiti politici e fondazione del partito unico: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
1970-80: nazionalizzazione della produzione ed esportazione dei
fosfati e processo di «autenticità» togolese; inizia il miracolo economico,
che merita al Togo il nome di «Svizzera dell’Africa».
1979: nuova costituzione instaura il presidenzialismo: Eyadéma
eletto presidente per sette anni.
1981: crollo del prezzo dei fosfati e recessione internazionale provocano
crisi economica e crescita del debito estero.
1986: Eyadéma presidente col 99,95% dei voti. Tumulti di sindacati
e movimenti di opposizione con scontri e morti.
Eyadéma è salvato dai paracadutisti francesi.
1989: la Francia preme per aperture democratiche.
1991: serie di scioperi e tumulti repressi nel sangue.
Eyadéma è costretto a concedere varie libertà
democratiche.
1991-92: convocazione della Conferenza
nazionale sovrana che avvia il processo democratico
e vara una nuova costituzione, sotto
la minaccia d’intimidazioni, attentati e mini
colpi di stato militari.
1993: elezioni farsa: Eyadéma eletto col 96,5%
di voti.
1994: elezioni parlamentari: l’opposizione ottiene
la maggioranza dei seggi, ma Eyadéma riesce
a imporre il suo governo. Comunità Europea,
Usa e organismi finanziari tagliano aiuti
e prestiti al Togo.
1998: votazioni presidenziali all’insegna di
brogli e terrore: il dittatore vince con il 52%
dei voti.
1999: elezioni parlamentari boicottate dai
partiti di opposizione: Eyadéma ottiene
quasi tutti i seggi in parlamento. Per rientrare
nelle grazie dell’Occidente il dittatore
promette di anticipare le elezioni presidenziali
al 2001: promessa non ancora
mantenuta.

Una chiesa nel cuore della società
PIÙ VOLTE RINATA
Ufficialmente iniziò nel 1892,
ma i precedenti tentativi di evangelizzazione
non sono da trascurare.
L’opera dei missionari ha forgiato
la società togolese, che ancora oggi
guarda alla chiesa come segno
di speranza, per una rinascita
nella giustizia e riconciliazione
nazionale.

Per oltre quattro secoli la storia
del Togo rimase legata a quella
della «Guinea», regione tra il
Senegal e l’equatore, esplorata dai
navigatori portoghesi a partire dal
1470. Per meglio commerciare oro e
prodotti esotici, essi stabilirono vari
insediamenti, ma scartarono le coste
del Togo, prive di porti naturali. Nel
1482 costruirono il forte a Elmina, poi
a Keta (Costa d’Oro, oggi Ghana) e a
Ouidah (Dahomey, oggi Benin).
L’espansione del cristianesimo era
una priorità dei conquistatori portoghesi.
Da ogni viaggio portavano a Lisbona
giovani «guineani» che, dopo
essere stati istruiti, venivano ricondotti
in patria per diffondere la fede
cristiana tra i connazionali. Gli insediamenti
portoghesi erano, quindi,
anche centri missionari, ma è difficile
dire fino a che punto tale irradiazione
abbia toccato il Togo.
0
LA COSTA DEGLI SCHIAVI
Un cronista di quei tempi, Diego
d’Alvarenga, racconta che a Elmina,
nel 1503, «furono battezzati il capo
di Afouto, 6 ufficiali e 100 persone».
Nel 1634 Propaganda fide assegnò
ai cappuccini inglesi l’evangelizzazione
della Costa d’Oro; 10 anni dopo
arrivò a Roma la notizia del battesimo
del capo di Komenda e altri
principi. Poi i calvinisti olandesi presero
Elmina e cancellarono ogni traccia
cattolica.
Nel Dahomey, a est del Togo, i cappuccini
bretoni fondarono una missione
a Ouidah nel 1644; ma gli stregoni,
sobillati da mercanti inglesi e
olandesi, incendiarono la cappella e
i missionari dovettero scappare. Sedici
anni dopo arrivarono i cappuccini
spagnoli, richiesti dal re d’Arda al
sovrano di Spagna, ma furono cacciati
dai portoghesi. Ritentarono nel
1674 tre domenicani francesi: stavano
per convertire il capo di Ouidah,
ma i mercanti di schiavi montarono
la testa ai locali e i missionari morirono
sulla costa, forse avvelenati.
L’evangelizzazione era impossibile:
la tratta degli schiavi portava ad
identificare cristianesimo e schiavismo;
gli schiavisti, indigeni ed europei,
non permettevano che i missionari
turbassero i loro affari. E dovevano
essere enormi, se la regione tra
Keta e Lagos fu per secoli conosciuta
come «Costa degli Schiavi».
I primi a portare il cristianesimo
tra le popolazioni del Togo furono i
missionari protestanti: il loro eroismo
merita tanto di cappello.
Iniziò la Società dei fratelli moravi
con Giacomo Protte, un mulatto
nato in Costa d’Oro da padre danese
e madre africana. Dopo aver studiato
a Copenaghen, nel 1737 fu inviato
a convertire i suoi paesani; quattro
anni dopo toò in Olanda; nel
1757 e 1769 tentò altre due imprese
solitarie. Nel frattempo fu raggiunto
da altri 5 fratelli, tre dei quali scesero
nella tomba nel giro di due mesi.
Nel 1770 altri quattro missionari raggiunsero
i due sopravvissuti: l’anno
dopo morirono tutti e sei senza lasciare
traccia.
Nel 1827 i missionari della Società
evangelica di Basilea arrivarono nel
forte danese di Christianborg. Per
fuggire al clima micidiale della costa,
si concentrarono nell’interno del paese
e cominciarono ad evangelizzare le
popolazioni ad est del Volta.
Nel 1842 i metodisti si stabilirono
a Lagos, Ouidah e Aneho, grazie a ex
schiavi americani, tornati ai paesi
d’origine. Tra i missionari metodisti
si distinse Thomas Freeman, pastore
infaticabile: di padre africano e madre
inglese, fu educato a Londra; in
due riprese (1843 e 1854) visitò tutta
la Costa degli Schiavi, spingendosi
nell’interno del Togo.
Nel 1847 la Società missionaria di
Brema (Germania) si unì agli evangelici
di Basilea. Stabilito il quartiere
generale a Keta, evangelizzarono
la popolazione ewé a est del Volta e
fondarono varie stazioni missionarie,
distrutte dalle guerre e puntualmente
ricostruite; esplorarono le regioni
di Atakpamé e Anfoin, nel cuore del
Togo. Nel giro di 40 anni si succedettero
circa 100 missionari, 54 dei
quali falciati da febbri malariche.

TEMPI EROICI
Con l’abolizione dello schiavismo,
la Costa degli Schiavi vide nascere le
prime comunità cattoliche, formate
da famiglie di afro-brasiliani (Olympio,
de Souza, da Silveira, Santos,
Campos, Sacramento, Paraiso) che
avevano abbracciato il cristianesimo
durante la schiavitù ed erano tornate
nelle terre di origine: mercanti intelligenti,
diventarono l’élite del Togo
e Dahomey.
Nel 1835 Vanessa de Jesus fece costruire
una cappella ad Aneho, la prima
in terra togolese. Distrutta da un
incendio, fu ricostruita da un gruppo
di bahiani, guidati da Joaquim
d’Almeida. Preti portoghesi venivano
da São Tomé per amministrarvi i sacramenti:
il primo battesimo in Togo
porta il nome di Marcos Francisco da
Massa e la data del 1844.
A quel tempo, il Togo era inglobato
nell’immenso vicariato apostolico
delle due Guinee, creato da Propaganda
fide nel 1842, da cui fu ritagliato,
nel 1860, il vicariato del Dahomey
(tra il Volta e il Niger) e affidato
alla Società delle missioni africane di
Lione (Sma). Il 18 aprile 1861 sbarcarono
a Ouidah i primi due missionari,
l’italiano Borghero e lo spagnolo
Feandez.
Senza trascurare i cristiani brasiliani,
i missionari Sma evangelizzarono
i nativi: nel 1963 battezzarono i primi
due togolesi; 10 anni dopo si stabilirono
ad Agoué, in territorio togolese,
e si spinsero nell’interno del
paese, fino a Atakpamé.
Nel 1892 il vicariato fu smembrato
in due prefetture, l’una con sede a
Lagos, l’altra ad Agoué, avendo per
confini i fiumi Ouémé e Volta. Due
anni dopo (1884) il Togo diventò
protettorato tedesco e, con la firma
di accordi con inglesi e francesi, cominciò
ad avere confini più definiti:
tra i fiumi Mono e Volta.
Intanto i missionari francesi continuarono
ad avanzare nell’interno, accolti
a braccia aperte dal cecuziente
re Abasa: all’inizio del 1886, i padri
Moran e Bauquis, fondarono ad Atakpamé
la prima vera stazione missionaria
del Togo. I due padri non stavano
nella pelle per la gioia, ma dovettero
fare i conti con gli stregoni,
che cercarono di avvelenarli insieme
al vecchio re. Dopo vari tentativi, ci
riuscirono (vedi riquadro). Nell’agosto
del 1887 la missione fu abbandonata
e totalmente saccheggiata.

PIONIERI E STRATEGHI
Intanto l’amministrazione tedesca
impose nelle scuole l’insegnamento
della lingua del padrone, pena la
chiusura delle missioni. I missionari
di Brema e Basilea giocavano in casa;
cattolici e metodisti dovettero
correre ai ripari.
La congregazione di Propaganda fide
eresse il territorio del protettorato
a prefettura apostolica del Togo,
e la affidò alla Società del verbo divino
(Svd), la più grande congregazione
missionaria tedesca: era il febbraio
del 1892, data ufficiale della
nascita della chiesa togolese.
Il 27 agosto dello stesso anno, 2
preti e 3 fratelli erano a Lomé e si misero
subito al lavoro; il 18 settembre
era pronta la cappella; il 20 dello
stesso mese apriva la scuola con 25
alunni; il 25 ottobre iniziava il catecumenato;
a natale i primi battesimi.
Alla fine del 1893, la relazione inviata
a Propaganda fide così riassumeva
i 15 mesi di lavoro: 3 missioni
con 5 preti, 8 fratelli e un volontario
laico; 135 alunni nelle scuole di
Lomé, Adidjo e Togoville; 150 cristiani
e 160 catecumeni; battezzati
50 adulti e un migliaio di morenti.
Le cifre non danno conto dei missionari
falciati da malaria e vaiolo, o
costretti a rimpatriare a pochi mesi
dall’arrivo. «Tutti malati! Stop. Aiuto!
» gridava il telegramma del prefetto
al superiore generale nel giugno
1896. Ma dalla casa madre, almeno
nei primi anni, arrivano pochi
soldi e tante critiche: si parlava d’infantilismo,
ambizioni e sprechi, anche
se, per sopravvivere, i missionari
si arrangiavano con artigianato e
agricoltura.
Anche sul campo abbondavano le
spine. Il manipolo di cristiani afrobrasiliani
trovati in Togo vivevano
«nelle condizioni dell’Antico Testamento
– scriveva il prefetto, padre
Schäfer -; molti sono tornati alla poligamia;
ma sono ben disposti verso
i missionari». Più dura era la lotta
con gli stregoni, che proibivano di
mandare i ragazzi a scuola e tentarono
di avvelenare un missionario.
Inoltre, bisognava sgomitare per
farsi largo tra i protestanti, arrivati
decenni prima. Il governo fu costretto
a dividere il territorio in zone
d’influenza e proibire invasioni di
campo. Solo nel 1913, i padri poterono
spingersi nell’estremo nord.
Autentici strateghi, i missionari tedeschi
si stabilirono nei centri popolosi,
mercati e incroci di vie di comunicazione.
Poiché il mondo degli
adulti resisteva alla penetrazione del
vangelo, a causa dell’attaccamento
alla religione tradizionale (vodoun e
feticismo) e poligamia, essi concentrarono
gli sforzi sui giovani, seminando
il paese di scuole primarie,
agricole e professionali.
Alla formazione umana e religiosa,
i verbiti univano lo studio di lingue
e culture locali, traduzioni e pubblicazioni
di libri religiosi. Studiarono i
problemi più spinosi, come la poligamia,
prospettando soluzioni audaci:
dare almeno il battesimo ai poligami
più aperti ai valori del vangelo.
I fratelli, spesso in numero superiore
ai padri, innalzarono le strutture
materiali (case, chiese, cappelle,
scuole e cattedrale di Lomé) e si immersero
nella formazione scolastica,
sfoando maestri, artigiani e catechisti.
Altrettanto preziosa, nella formazione
femminile, fu la presenza
delle suore, arrivate nel 1897.
Tale strategia lungimirante si dimostrò
vincente: la maggioranza dei
battezzati e famiglie cristiane nascevano
sui banchi di scuola. In 20
anni la chiesa in Togo era impiantata
e consolidata. Nel 1914 essa contava
quasi 20 mila battezzati, 6.425
catecumeni e 1.235 matrimoni religiosi;
47 padri, 15 fratelli e 25 suore
erano distribuiti in 15 missioni, attendevano
a un numero impressionante
di stazioni periferiche e gestivano
198 scuole con 8.463 alunni e
228 maestri e catechisti. C’erano più
alunni nelle scuole cattoliche del Togo
che in tutte le colonie francesi
dell’Africa occidentale.
«Se i tedeschi fossero rimasti, oggi
tutto il Togo sarebbe cattolico»
sospira un missionario italiano con
lunga esperienza nel paese.

SECONDA NASCITA
Con lo scoppio della prima guerra
mondiale (1914), il Togo fu occupato
dalle truppe inglesi e francesi, prima
vittima del conflitto. Inizialmente
tollerati, ma con le ali tarpate da
restrizioni d’ogni genere, i missionari
tedeschi vennero dichiarati prigionieri
politici nel 1916 e, nel giro
di un anno, erano tutti fuori del paese:
padri e fratelli deportati in Inghilterra,
le suore rimpatriate.
Per quattro anni i vescovi della Costa
d’Oro e Dahomey presero in consegna
il vicariato e inviarono alcuni
missionari per tenere aperte alcune
missioni e scuole. Finita la guerra, i
verbiti cercarono di ritornare nelle
amate missioni, ma Parigi e Londra
non ne vollero sapere. Nel 1921 Propaganda
fide affidò la parte francese
ai missionari di Lione; quella amministrata
dagli inglesi fu annessa al vicariato
di Keta.
La chiesa togolese cominciò a riprendersi,
ma molto lentamente: i
missionari arrivavano col contagocce,
sempre insufficienti a coprire tutte
le opere avviate dai verbiti: nel
1958 il numero dei missionari era di
poco superiore a quello del 1914.
Nonostante ciò, la chiesa togolese
sperimentò una nuova nascita, grazie
al sacrificio del personale missionario
e alla lungimiranza del vicario,
mons. Jean-Marie Cessou. Egli continuò
lo sviluppo delle scuole, aprì
nuove missioni nel centro e nord del
paese e, per neutralizzare l’influenza
islamica, facilitò la creazione della
prefettura di Sodoké (1937).
Grande merito di mons. Cessou fu
la promozione delle vocazioni indigene.
Nel 1922 fu ordinato il primo
prete africano nella zona britannica;
6 anni dopo un togolese nella zona
francese. Alla sua morte (1945) il vescovo
lasciava 23 preti europei e 4
togolesi, 26 suore e 292 catechisti,
191 scuole e 13 mila allievi, 88 mila
cristiani e 200 chiese e cappelle.

CHIESA MAGGIORENNE
Dopo il secondo conflitto mondiale,
che aveva richiamato sotto le armi
i missionari più giovani, arrivarono
una quindicina di congregazioni
maschili e femminili di diverse nazionalità
e la chiesa togolese fu rivitalizzata.
Furono promesse numerose
associazioni, confrateite religiose
e istituzioni varie: collegi, seminari,
noviziati di suore indigene, per rispondere
ai venti nuovi che soffiavano
sulla società del Togo.
Nel 1955 il vicariato di Lomé fu
elevato ad arcidiocesi e la prefettura
di Sodoké a diocesi; pochi anni dopo
la chiesa cominciò a passare nelle
mani della gerarchia togolese: nel
1962 Robert Dosseh fu consacrato
vescovo di Lomé; due anni dopo Beard
Ogouki-Atakpah guidava la diocesi
di Atakpamé; l’anno seguente
Chretien Bakpessi quella di Sodoké.
Il Togo è stato definito «figlio primogenito
della chiesa». Non è retorica.
Con le solide strutture e organizzazioni,
qualità delle scuole, formazione
di quadri ed élites, strutture
sanitarie e ospedaliere, opere agricole
e idrauliche, sociali o di beneficenza
sviluppate prima e dopo l’indipendenza
(1960) la chiesa cattolica
ha modellato la nascita e la crescita
della società togolese.
Nel 1958, per esempio, alle votazioni
per il parlamento della Repubblica
autonoma, 37 deputati su 46 e
8 ministri su 10 erano cattolici, tra
cui il primo ministro, Sylvanus Olympio,
padre del Togo indipendente.
Oggi, su una popolazione di circa 5
milioni di abitanti, la chiesa conta
quasi un milione e mezzo di cattolici
(25%) e 65 mila catecumeni, 7 diocesi
guidate da altrettanti vescovi autoctoni,
oltre 300 preti diocesani
(erano 170 nel 1990) e 200 seminaristi,
160 religiose di origine straniera
e più di 400 religiose autoctone,
appartenenti a una trentina di istituti
missionari; quattro istituti locali
che contano oltre 300 suore.

SFIDE DEL TERZO MILLENNIO
Nell’ultima visita ad limina (1999),
i vescovi togolesi hanno sentito dal
papa queste parole: «Auguro che una
vera solidarietà si manifesti tra le
diocesi, attraverso una ripartizione
adeguata di personale apostolico,
che permetta di aiutare generosamente
quelle più povere».
Di fatto, la chiesa del Togo sembra
spaccata in due: al sud è ultracentenaria,
tradizionalista e clericalizzata,
ricca di clero, suore e risorse finanziarie;
al nord è appena cinquantenne,
povera d’organizzazione e totalmente
dipendente dalla chiesa universale
in quanto a personale e aiuti
materiali. Il cammino verso la solidarietà
della «chiesa famiglia», ideale
del sinodo per l’Africa, in Togo è
ancora ai primi passi.
La sfida più lacerante viene dalla situazione
politica e sociale del paese.
Se all’inizio della dittatura la chiesa
si era appiattita sulle posizioni del regime,
scegliendo il male minore, ben
presto ha recuperato il suo ruolo profetico:
nel 1976 il vescovo di Atakpamé
fu costretto a dimettersi per
aver osato criticare il dittatore. Questi
diede ordine all’esercito d’impedie
la consacrazione del successore,
mons. Kpodzro: il giorno prima
dell’ordinazione fu cambiato il luogo
e i soldati arrivarono alla fine della
cerimonia. Ma il vescovo rimase sequestrato
a Lomé per cinque anni,
prima di entrare nella sua diocesi.
Nel passaggio alla democrazia la
chiesa c’era: comunità cristiane e preti
erano contro la dittatura e mons.
Kpodzro fu chiamato a guidare la
Conferenza nazionale (1991-92). Il
prestigio che gode nella società togolese
è uno stimolo in più per impegnarsi
nella promozione della giustizia
e riconciliazione nazionale.
Alcune lettere pastorali presentano
diagnosi inequivocabili dei mali della
società: paura, violenze, vendette,
corruzione, impunità. «Come missionari
– afferma uno di essi – vorremmo
dai vescovi un po’ più di interventismo
in occasione delle elezioni, nel
campo sociale e dei diritti umani».
La chiesa rimane una spina nel
fianco del regime, che reagisce con
meccanismi diabolici e, per tagliarle
l’erba sotto i piedi, strizza l’occhio alle
sètte, massoneria, Rosa Croce e
mondo islamico soprattutto.
Presenza percettibile solo nel centro-
nord, l’islam è passato dal 5% del
1960 all’11% nel 1970, al 16% nel
2001. Da un decennio si assiste a una
fioritura di moschee, centri islamici
e scuole coraniche in tutto il paese,
soprattutto da quando il Togo è diventato
membro dell’Organizzazione
della conferenza islamica nel 1997.
Tale adesione non è disinteressata:
i paesi islamici aprono la borsa dei loro
petrodollari; in compenso, il regime
concede spazio ai musulmani nella
stanza dei bottoni, amministrazione
e uso di radio e televisione.
«L’islam fa breccia anche tra i più
poveri – afferma mons. Kpodzro -.
Promesse di denaro e promozione sociale
sono forti tentazioni per farsi
musulmano. Malgrado tutto, la chiesa
intrattiene buone relazioni con i
musulmani. Ma come arginare tale
offensiva legata essenzialmente alla
potenza del denaro?».
Alla domanda il vescovo di Lomé
ha già trovato la risposta: nella sua
diocesi ha aperto la «Scuola cristiana
della fede», che opera su tre direttive:
formazione dei laici, studi biblici
e Forum fede e vita, destinata a
incontri e dibattiti ad alto livello sulla
dottrina sociale della chiesa.
«C’è bisogno di una rinascita nella
catechesi, sia a livello popolare, per
aiutare i cristiani a difendersi dall’aggressività
delle sètte e dell’islam,
sia a livello di élites cristiane, poiché
hanno una cultura religiosa rudimentale.
Con la nostra “Scuola” vogliamo
dare loro una formazione dottrinale,
spirituale e morale, per avere
una classe dirigente ancorata ai
valori cristiani e pienamente impegnata
nella promozione della pace,
giustizia, bene comune e un’autentica
democrazia. E che Dio ci aiuti!».

PRIMI MARTIRI

Due donne stavano raccogliendo legna.
Sbadatamente raccattarono
frasche di un albero sacro. Era un crimine
meritevole di morte, anche se
commesso inavvertitamente: furono
avvelenate. L’una morì, l’altra fu portata
ai missionari, che riuscirono a salvarla.
Gli stregoni le diedero un’altra
porzione di veleno; e i missionari la salvarono
una seconda volta.
I fattucchieri erano infuriati: quei due
stranieri erano più forti di loro. Il sabato
santo del 1886 li avvelenarono, non
si sa come, insieme al re. Questi morì
all’istante; i missionari se la cavarono;
ma erano così indeboliti che dovettero
andare a riposarsi sulla costa.
Toati ad Atakpamé, padre Moran
si guadagnò la simpatia di alcuni
capi e stregoni, distribuendo regali, e
ottenne il permesso di esercitare la medicina.
Per qualche mese i missionari
furono lasciati in pace. La gente accorreva
alla missione, disertando le
pratiche feticiste, provocando rabbia e
gelosia tra vari fattucchieri.
Questi studiarono i movimenti dei missionari
e videro che, ogni giorno, un ragazzo
andava a comperare una zucca
di vino di palma per i padri; avvicinarono
il mercante, avvelenarono il vino
e raccomandarono al ragazzo di non
berlo, perché sarebbe stato un furto.
Appena i missionari bevvero il vino,
sentirono subito gli effetti del veleno.
Presero immediatamente dei rimedi e
vomitarono anche l’anima: era il 7
agosto 1887. Padre Bauquis si salvò;
ma padre Moran spirò tra atroci contorsioni,
senza medico e senza prete,
poiché il confratello era troppo debilitato
per assisterlo. Aveva solo 28 anni.
I nemici della missione avevano raggiunto
lo scopo: un missionario morto
e l’altro in fin di vita. Padre Bauquis dovette
ritirarsi sulla costa, dove morì nel
1891.
Nel 1939 si venne a sapere che il
calice di padre Moran era stato
usato come feticcio in una festa pagana
ufficiale. I missionari lo reclamarono
energicamente. Ma i fattucchieri ricorsero
di nuovo ai veleni. Il vescovo
dovette ritirare i preti perché non rischiassero
la vita.
La storia riemerse nel 1951: per l’ordinazione
del primo prete di Atakpamé
i giovani gli offrirono un calice «per
cancellare l’onta dell’avvelenamento di
padre Moran».

Vodoun: religione tradizionale del Togo
NEL MONDO DEI GRI-GRI
Per capire una cipolla bisogna sfogliarla. Così il
vodoun: non esistono definizioni; per comprenderlo
bisogna guardare le sue manifestazioni.

Gli europei li chiamano feticci; i locali tolegba (spirito
del paese); è una testa di terra, con occhi spalancati,
piantata al suolo. Impossibile non notarli: sono posti ai
crocicchi, all’entrata dei villaggi e nei luoghi più frequentati.
A Fiata ce ne sono due a poca distanza: uno accanto
alla strada, protegge il paese; l’altro nel mercato, sotto una
pianta, aiuta la gente a fare buoni affari.
Spesso ci si imbatte in tempietti, altarini, simulacri, oamenti
e altri feticci di vario genere e forma: tutti simboli
del vodoun, la religione tradizionale praticata dalla
maggioranza della popolazione del Togo e del Benin.
«In principio Mawu (Dio) viveva fra gli uomini – racconta
un mito degli ewé -. Il cielo era così basso che
lo si poteva toccare con la mano. Un giorno una donna stava
cuocendo la polenta e, non potendo girare il mestolo
perché il cielo era troppo vicino, s’indispettì e gettò la polenta
contro il cielo. Mawu si arrabbiò e disse: “D’ora in poi
non voglio più stare fra gli uomini!”. E tirò su anche il cielo».
Mawu, il Dio creatore e trascendente, è inteso lontano e
irraggiungibile, impassibile alle preghiere e vicende umane:
ma per compensare il suo allontanamento, affida la cura
della creazione a divinità minori: i vodoun. Il termine,
infatti, nella lingua fon (Benin) significa «cosa misteriosa,
nascosta, sacra», tra le popolazioni togolesi «messaggero
del profondo». Tale parola sta a indicare, quindi, l’insieme
delle forze da cui dipende l’uomo, nel bene e nel male,
e la religione che ne deriva.
Nessuno sa quanti siano i vodoun; i più informati dicono
che possono essere quasi duemila. I più antichi e importanti
sono identificati
con le forze della natura (fulmine,
vaiolo, mare, terra, foresta,
animali, serpenti), altri
si rifanno a personaggi
storico-mitici e antenati; ne
esistono di modei, inventati
per far fronte a potenze
occulte (magia e violenza) e
ottenere favori «immediati»:
protezione, benessere o maledizioni
per i nemici.
I vodoun cosmici e degli
antenati hanno propri templi
e conventi, sacerdoti, sacerdotesse
e adepti, ai quali
vengono trasmessi i relativi
poteri. Tale iniziazione dura tre anni: novizi e novizie apprendono
tutto lo scibile e la saggezza religiosa ricevuta
dagli antenati: storia, leggende, miti, erbe medicinali e arte
divinatoria… una vera e propria enciclopedia orale.
Nella natura e nella vita umana non si muove foglia che
il vodoun non voglia. Esso, di per sé non è né buono
né cattivo: tutto dipende dal comportamento dell’uomo.
Perciò i fedeli, attraverso giochi divinatori, devono conoscere
il proprio destino e imparare come comportarsi e soprattutto,
mediante preghiere e danze, sacrifici animali e
libagioni di olio di palma, offerte di farina di mais e altri
doni di vario genere, devono convincere i vodoun a elargire
favori e protezione.
I vodoun, inoltre, sono «energie vitali» presenti dappertutto
e che si concretizzano in diverse forme del regno
animale, vegetale e minerale. Tale forza vitale può essere
controllata, aumentata o diminuita mediante offerte e sacrifici.
Più le offerte sono abbondanti, più le divinità hanno
forza e migliori sono le loro intenzioni; se esse diminuiscono,
i vodoun s’indeboliscono.
Tale interdipendenza tra
l’uomo e le forze cosmiche e
ancestrali presenta una visione
altamente positiva
dell’universo: il mondo è
un’immensa manifestazione
del sacro, mistero «tremendo
e fascinoso», che permea
tutta l’esistenza quotidiana;
la relazione tra vita e pratica
religiosa è così stretta che
rende impossibile stabilire
una netta divisione tra sacro
e profano.
I l mondo visto dal vodoun
è solidarietà, unità, totalità,
eloquentemente tradotto in simbolo dal serpente che
si morde la coda; ma presenta pure aspetti patologici. Lungo
le rive del Volta, in Ghana, per esempio, esistono vari
templi in cui vivono le trokosi o schiave di Tro: donne che,
fin da bambine, sono state offerte alla divinità in riparazione
di colpe commesse dai genitori; in pratica sono proprietà
dei sacerdoti e passano la loro vita in stato di schiavitù,
soggette a ogni genere di abuso.
Inoltre, i confini tra religione e magia sono incerti; anzi,
spesso entrano in cortocircuito. Mentre la religione cerca di
onorare e propiziarsi la divinità, la magia cerca, con precisi
e vincolanti rituali, di sottomettere al proprio potere spiriti
e forze della natura e sfruttae la potenza per provocare
effetti benefici (magia bianca) o malefici (magia nera).
Tutto dipende dagli addetti ai lavori: indovini, curatori,
maghi, stregoni, uomini e donne, che praticano
la magia con abilità, turlupinando la gente. Non
per nulla la popolazione del Benin chiama il bokono
(sacerdote di fa, lo spirito dell’oracolo) awono: bugiardo.
Un esempio di magia nera è il chakata, chiamato «fucile
africano»: serve ad avvelenare o a infiggere nel corpo
della vittima, distante anche vari chilometri, chiodi,
aghi, sassi, lamette, pezzi di vetro e simili, provocando
atroci dolori, fino alla morte. Per prevenire
o liberarsi da simili disgrazie, si ricorre a stregoni
più potenti, capaci di diagnosticare il maleficio
e rimuoverlo con medicine, incantesimi, sacrifici,
dietro lauta ricompensa.
Esistono anche mezzi fai-da-te: amuleti o grigri.
E sono innumerevoli. Si può richiederli
agli stregoni: basta pagare. Ma li si può
comprare anche al mercato:
sono di ogni forma e grandezza,
pezzi di legno o di ferro,
statuette di creta, tutti decorati
da piume, denti di rettili, pesci
e uccelli. Per farli agire basta pronunciarvi
una formula oscura e il gri-gri è confezionato,
pronto da portare a casa.
I primi missionari videro nel vodoun una religione politeista,
simile a quella dell’antica Roma, opera del diavolo,
e come tale da combattere frontalmente, bruciando
feticci e distruggendo idoli e altarini. Oggi il loro atteggiamento
è cambiato: i vodoun non sono dèi, al pari di
Mawu, ma semplici creature; non più lo scontro, ma la cristianizzazione
degli aspetti cultuali più significativi.
Ne è un esempio il santuario della Madonna del Lago,
costruito nel 1973
a Togoville, cuore
del feticismo. Qui
risiede il capo dei
sacerdoti vodoun, il
quale ha rappresentato
la religione
tradizionale africana
all’incontro interreligioso
di preghiera
per la pace,
tenuto ad Assisi nel
1986. Qui la gente
viene per sottomettersi
a riti di purificazione
individuali
e collettivi.
Oggi il tempio
mariano è diventato
santuario nazionale,
meta di pellegrinaggi
provenienti da tutte le
parti del Togo: così la purificazione
continua, ma in senso cristiano.
Nel febbraio 1993, Giovanni Paolo
II, in visita al Benin, incontrò i
capi del vodoun e, nel suo discorso,
insistette sulla «necessità del
dialogo tra tutti i credenti in
Dio». I vescovi presenti masticarono
amaro, timorosi
che le parole papali potessero
accrescere la confusione
tra i cristiani, già così
facili a conciliare le due
religioni.
Alcuni cristiani, infatti, si
comportano come tali la
domenica; ma nelle case
conservano i soliti feticci e
amuleti; varie donne sgranano
il rosario inginocchiate davanti
alla Vergine; poi si abbandonano
alle danze più sfrenate in
preda alla possessione. Non sono
pochi coloro che si fanno contemporaneamente
cristiani e musulmani,
considerando Allah e Cristo
alla stregua dei vodoun
tradizionali. Non si sa mai: se
uno non funziona si ricorre all’altro.

RESTITUIRE DIGNITÀ
Da una decina d’anni, le Figlie di S. Gaetano sono
presenti in Togo e, secondo il loro carisma, si
occupano «dei più poveri tra i poveri», curando
ammalati, assistendo handicappati, aiutano la
gente a camminare con le proprie gambe.
Èancora scuro a Fiata, ma la
gente è già in strada per recarsi
nei campi, sfruttando le
ore fresche del mattino. Quando il
sole è alto e il caldo troppo forte, lavorare
diventa più faticoso. Anche il
guardiano della casa delle suore è già
in azione: pulisce il cortile, annaffia
i fiori, apre il portone che immette al
dispensario e subito si forma la lunga
fila di pazienti.
I PIÙ POVERI TRA I POVERI
È così ogni mattina. Suor Fatima,
brasiliana, responsabile della direzione
del dispensario, comincia ad
accogliere i malati e, coadiuvata da
suor Alfonsa e un’infermiera locale,
riempie le schede sanitarie, ascolta
le sofferenze della gente, prescrive e
distribuisce medicine. Malaria e
malnutrizione infantile sono le patologie
più frequenti, insieme alle
infezioni e malanni vari causati dal
clima tropicale e dalla miseria. Negli
ultimi tempi si è aggiunto il flagello
dell’Aids.
Il dispensario è la prima struttura
che le Figlie di San Gaetano, arrivate
in Togo una decina di anni fa,
hanno costruito per rispondere al
loro carisma: amare «i più poveri tra
i poveri». E la povertà è visibile e
tangibile, scolpita nel viso di bimbi
scheletriti soprattutto.
La struttura è semplice, ma dignitosa
ed efficiente, attrezzata per sfidare
le necessità della gente e le precarietà
della situazione del paese: un
sistema di pannelli solari, realizzato
di recente, permette ai frigoriferi di
conservare vaccini e medicine deperibili,
anche quando la rete elettrica
nazionale non funziona; il che
capita spesso.
L’elettricità solare ha reso possibile
attivare un laboratorio di analisi.
Lo hanno organizzato Donato ed
Elena Calocero, due volontari torinesi
che, ottenuto un anno di aspettativa
dall’ospedale delle Molinette
di Torino, hanno montato le strutture,
messo in funzione il laboratorio
e passato le consegne a suor Innocence,
infermiera togolese della
stessa famiglia gaetanina.
Fiore all’occhiello di tutta la diocesi
di Aneho, il dispensario di Fiata
è un’autentica testimonianza di
carità e la gente vi accorre con fiducia,
sia perché vi trova le medicine di
cui ha bisogno, sempre scarse o inesistenti
nelle strutture statali, sia perché
si sente trattata con amore e rispetto
della propria dignità.

I CIECHI VEDONO
GLI ZOPPI CAMMINANO…

Tra i poverissimi le missionarie
hanno incontrato gli handicappati,
con alle spalle storie di degrado ed
abbandono, come quella di Ekoué
Kankoé. Colpito da malformazione
congenita, orfano di madre, rifiutato
dal padre passato in seconde nozze,
il ragazzo conduceva una vita
randagia quando fu scoperto dalle
suore: si trascina a fatica con mani e
piedi; incapace perfino di tirare l’acqua
dal pozzo, era sopravvissuto
grazie alla compassione della gente
e qualche furtarello.
Dopo aver rintracciato un cugino,
che lasciò la scuola per assisterlo all’ospedale,
le suore provvidero a farlo
operare. Quando Ekoué ritoò
al villaggio, la gente non credeva ai
propri occhi, vedendolo ritto sulle
proprie gambe; il padre rimase impietrito,
in un misto di stupore e
rabbia, e continuò a ignorarlo.
Per alcuni mesi il cugino lo portò
a scuola sulle spalle, finché il ragazzo,
con la forza di volontà, riuscì a
recarvisi da solo, con l’aiuto delle
stampelle. Nel frattempo, gli fu trovata
una sistemazione in una famiglia
che, oltre ai propri figli, si prende
cura di quattro orfani.
Oggi Ekoué frequenta la quinta
elementare; nella nuova famiglia ha
trovato la gioia di vivere e ottenuto
tutti i documenti di un normale cittadino.
Anche Yawo Missadjo, detto Tata,
è stato rifiutato dai genitori, ma
è stato accolto da una zia. «È il pri-
mo dramma degli handicappati –
continua suor Luciana -: i genitori li
considerano un castigo divino, una
vergogna da tenere nascosta il più
possibile; quando non sono abbandonati
a se stessi, tali figli vengono
affidati a nonni o zii».
Per 16 anni Yawo non aveva alzato
le mani da terra più di un palmo.
Ma riusciva a fare qualche lavoretto,
intrecciando la paglia. Sottoposto
all’operazione, è riuscito a rimettersi
in piedi. Quindi fu iscritto
alla scuola di alfabetizzazione, ma
con scarso successo: riesce appena
a scrivere il suo nome. Ma ha molte
doti pratiche e alcuni stregoni lo
hanno ingaggiato per fare collane e
altri oggetti artigianali; con i guadagni
riesce a badare a se stesso, anche
se per rinnovare gli apparecchi ortopedici
dipende ancora dall’aiuto
della missione.
Gloria Kankoé è cieca dalla nascita.
Anche lei abbandonata dai genitori,
è stata raccolta dalle suore e
affidata a un istituto per non vedenti,
dove ha imparato a impagliare sedie,
fare stuoie e tappeti. Ha incominciato
a studiare e già maneggia
una macchina da scrivere braïlle.
Il caso di Missan Afli fa eccezione:
fu il padre in persona a portare
la figlia alla missione, quando seppe
che le suore si prendevano cura degli
handicappati. L’esempio delle
suore ha risvegliato in lui l’amore
paterno, offrendo tutta la collaborazione
possibile per restituire alla
figlia la sua dignità.
La bambina camminava con mani
e piedi, ma l’attenzione delle suore
e l’amore del padre le hanno dato
tale forza di volontà per reagire
al suo handicap, finché è
riuscita a camminare senza bisogno
di alcuna operazione. Nonostante
una mano ancora gravemente menomata,
ha imparato a scrivere. La
domenica, mentre procede danzando
in processione con le offerte
della messa, non manca di dare una
sbirciata alla suora, per esprimere la
felicità di camminare come le compagne.
Storie di «ciechi che vedono e
storpi che camminano» ce ne sono
altre 130, racchiuse in un faldone
che suor Luciana sfoglia con la reverenza
dovuta a un messale. Sono
schede con fotografie scattate prima
e dopo l’operazione, dati anagrafici,
situazioni familiari, progressi di
riabilitazione, resoconti contabili,
relazioni aggiornate e spedite regolarmente
al Lilian Fonds, un’associazione
olandese che si occupa del
recupero di handicappati.
«È un lavoro che assorbe energie
fisiche e mentali – confessa sorridendo
suor Luciana, responsabile
di fronte all’associazione dei progetti
di recupero -. Ma procura soddisfazioni
impareggiabili: rimettere
in piedi questi infelici significa reintegrarli
nell’umanità, restituire loro
la dignità umana. Oggi, nel raggio
30-40 km, non si vedono più handicappati
chiedere l’elemosina per
strada. Alcuni di essi hanno raggiunto
la piena indipendenza».
È il caso di Ekoué Gakpea: rimesso
in piedi, ha imparato a fare il sarto;
ha ricevuto una macchina da cucire
e con il suo lavoro mantiene se
stesso e tutta la famiglia. Anzi, è diventato
tanto esperto di macchine
da cucire che va in giro ad aggiustare
quelle degli altri.

MANAGER DELLA…
PROVVIDENZA

Fino a quando non è raggiunta la
piena autonomia, il processo di riabilitazione
è lungo e faticoso: bisogna
seguire caso per caso, controllare
se gli apparecchi sono in buono
stato o troppo stretti, riportarli all’ospedale
per eventuali riparazioni
o adattamenti.
Speciale attenzione è rivolta alle
famiglie degli handicappati, per esigere
la loro collaborazione, specialmente
quando i figli incontrano delle
difficoltà, rifiutano gli apparecchi
ortopedici, si buttano per terra e ritornano
a una situazione peggiore
di quella precedente l’operazione.
«Il mio lavoro consiste nel cornordinare
iniziative e progetti – continua
la missionaria, sentendosi quasi in
colpa per mancanza d’umiltà -. Va-
do a visitare i genitori solo quando
essi rifiutano di essere coinvolti nel
recupero dei figli. Il grosso del lavoro
è fatto da collaboratori, due
uomini e due donne, che scovano i
casi più pietosi, visitano regolarmente
i 130 ragazzi e ragazze, ne seguono
da vicino il processo di riabilitazione
e fanno i rapporti sulla situazione.
Uno dei collaboratori è il mio
braccio destro: battezzato otto anni
fa insieme a tutta la famiglia, macina
chilometri e chilometri, sostenuto da
fede granitica e tanta passione per gli
handicappati, che mi sembra di toccare
con mano la misericordia del Signore
per questa popolazione, povera
e sofferente da fare pietà».
Un’altra iniziativa intrapresa dalle
suore è quella delle adozioni a distanza.
Anche questa attività è racchiusa
in grossi faldoni e gestita da
suor Luciana. «L’adozione dura cinque
anni – spiega la missionaria -: oltre
500 adottati ne hanno beneficiato
e concluso il ciclo elementare; altre
900 sono ancora in corso. Spesso
devo fare le ore piccole per compilare
e aggioare le schede degli
adottati e inviare relazioni ai padrini
e madrine sulla situazione dei figliocci».
Il lavoro più delicato consiste nel
vagliare i casi da aiutare, poiché tutti
sono poveri, ed evitare di creare
dipendenze e, soprattutto, gelosie
tra le famiglie del villaggio. In questo
campo i collaboratori africani si
rivelano indispensabili: una bianca
darebbe troppo nell’occhio. E se la
cavano da veri 007, sia nello scoprire
le reali situazioni familiari, sia nell’evitare
la curiosità dei vicini, sia
nello scattare le fotografie senza che
gli interessati se ne accorgano.
Inoltre, non si parla mai di «adozione
», affinché i genitori non avanzino
pretese, ma il denaro viene distribuito
in tre rate annuali, sotto
forma di prestiti, aiuti di emergenza
o pagamento diretto alla scuola dalla
quale gli alunni sono stati cacciati,
perché i genitori non hanno pagato
la tassa scolastica.
Secondo il sistema proposto dalle
Figlie di San Gaetano, la cifra di
adozione è assai modesta (100 mila
lire, ora portata a poco più di 80 euro);
sbriciolata in tre rate, appare ancora
più esigua, ma non in Togo,
dove tali briciole equivalgono allo
stipendio mensile di molti maestri
di scuola elementare.

A PICCOLI SOGNI
Dopo il ciclo elementare, non c’è
speranza di continuare gli studi: le
tasse per accedere alle scuole superiori
e liceali sono proibitive. Ragazzi
e ragazze cercano di imparare un
mestiere e, magari, mettersi in proprio.
Per realizzare tale sogno occorre
prima di tutto avere un diploma,
senza il quale è impossibile ottenere
la licenza dal governo, e i soldi per
procurarsi strumenti e materiali.
Quando un falegname del luogo,
diplomato in Nigeria, ha presentato
a suor Luciana il progetto di avviare
una falegnameria, con scuola
per giovani apprendisti, e le hanno
chiesto una spinta per avere attrezzi
e rifoirsi di legname, la missionaria
non ha saputo dire di no: ha
scritto alla Caritas di Montegranaro
(Ascoli Piceno), suo paese di residenza,
e sono arrivati alcuni macchinari
e i fondi necessari.
Les Olivieres, così si chiama la
nuova società, è in piena attività: costruisce
e vende mobili di vario genere
e dimensione, preparano assi e
travi per fabbricare case. Mentre i
tre falegnami che gestiscono tale iniziativa
si guadagnano da vivere onestamente,
i quattro giovani imparano
il mestiere e, alla fine dei due anni
di apprendistato avranno il
diploma e potranno realizzare il sogno
di mettersi in proprio.
Ma poiché l’appetito viene mangiando,
suor Luciana ha presentato
alla Caritas marchigiana i progetti
per allargare la società con officine e
relativi corsi di formazione per elettricisti,
fabbri e meccanici. «Les Olivieres
si appoggiano ancora su di me,
ma spero che presto diventino autonomi
e camminino con le proprie
gambe», conclude la missionaria.
Un progetto diventato autonomo
è quello dei mulini per aiutare le madri
di famiglia. Il processo è molto
semplice: un gruppo di donne hanno
chiesto un prestito per comperare
il frantornio, costruire la struttura
muraria, acquistare granoturco, manioca,
palme da olio; una volta macinati
questi prodotti vengono ven-
duti al minuto; il ricavato viene diviso
in v

Benedetto Bellesi




IL BENE SENZA RUMORE di quattro generazioni insieme

Nella quaresima di quest’anno i bambini e i ragazzi
delle scuole elementari e medie di Corti
Sant’Antonio in Costa Volpino hanno raccolto una
somma, che intendono devolvere ai missionari. Di
questi ragazzi, che frequentano la catechesi, non
molti sanno dell’esistenza dei missionari della Consolata;
però ciò che conta è il messaggio che proviene
dal loro cuore, diffuso anche con l’impegno
generoso che hanno dimostrato.
Non sempre ci rendiamo conto del sacrificio dei
missionari, testimoni della fede, che offrono interamente
la vita per gli altri; ma siamo certi che la
preghiera che innalziamo per essi sia la
massima espressione della nostra solidarietà;
e, se talvolta ce ne dimentichiamo,
i nostri don Gianfranco e
don Endrio riaccendono la fiamma.
La somma che inviamo serva a
sostenere l’operato dei padri Rinaldo
Do (Congo) e Sandro Moreschi
(Kenya), che vivono realtà diverse,
ma entrambe difficili.
Cari missionari, nelle vostre preghiere
alla Madonna Consolata ricordatevi
anche della comunità di Corti
Sant’Antonio, perché sia sempre unita nella
fede e nell’amore.
LUIGI COCCHETTI – CORTI SANT’ANTONIO (BG)

Cari missionari, siamo un gruppo di giovani dai
16 ai 25 anni. Tutti gli anni, nel mese di maggio,
facciamo un pellegrinaggio in pullman ad un
santuario che dista 10 chilometri da casa nostra…
L’anno scorso, invece di prendere il pullman, siamo
andati a piedi; inoltre abbiamo fatto pranzo al sacco
e non al solito ristorante.
È stata un’esperienza bellissima, soprattutto
perché, con i soldi risparmiati, abbiamo potuto adottare
un bambino in Brasile. È stata pure una
grande gioia aiutare chi è meno fortunato di noi.
Alcuni ragazzi (che non si sono uniti a noi, ma
sono andati in pullman pensando che si sarebbero
stancati), vedendoci così felici, hanno deciso per il
prossimo anno di fare con noi la stessa camminata.
Facciamo conoscere l’esperienza ad altri giovani
sperando che seguano il nostro semplice esempio.
IL «GRUPPO GIOVANI» – BUSSETO (PR)

Siamo 10 anziani, abitanti in un paesino dell’alta
Val Tidone. Da quando è venuto a trovarci un padre
missionario (che ci ha parlato del terzo mondo),
abbiamo sentito il desiderio di adottare a distanza
un bambino; però non sapevamo come fare,
perché la nostra pensione ci consente ben poco.
Ma ecco che Tina Paulat, catechista dei nostri nipoti
(una santa donna!), ci ha dato un’idea: bere
qualche caffè in meno e destinare gli euro risparmiati
al progetto dell’adozione.
Da allora sono passati tre anni. Oggi siamo molto
orgogliosi di quanto stiamo facendo. Senza atteggiarci
ad eroi, ci sentiamo di dire: «C’è più gioia nel
dare che nel ricevere».
DIECI ANZIANI DI PIANELLO – VAL TIDONE (PC)

Spettabile redazione, fino a qualche tempo fa, una
volta alla settimana ci riunivamo per giocare
a carte; e, fra una partita e l’altra, ci rimpinzavamo
di torte e pasticcini, con l’immancabile spumante.
Siamo un gruppetto di amiche di mezza età.
Tempo fa la nipote di una di noi (missionaria
in Africa) è ritornata al paese per un
breve periodo di riposo. Una sera ci
ha fatto vedere una videocassetta,
che illustra la sua missione. Vedendo
alcuni lebbrosi anziani che
vivono in condizioni precarie (solo
una ciotola di cibo al giorno),
ci siamo sentite un po’ colpevoli.
Pertanto abbiamo deciso di non
mangiare più dolci (che ci fanno anche
male alla salute). Così, quando ci
ritroviamo per la solita partita, ci accontentiamo
di una tazza di caffè. I soldi (che
prima spendavamo per i dolci) li mettiamo in un
salvadanaio e, quando abbiamo raccolto una certa
cifra, li spediamo a quei poveri lebbrosi.

«LE AMICHE DELLA BRISCOLA»
POST SCRIPTUM
Non ci firmiamo, né riveliamo il nome del nostro
paese, perché non vogliamo metterci in mostra e
nemmeno farci intervistare da Emilio Fede.
Quello ci farebbe una telenovela.

Un «bravo» speciale alle «amiche della briscola»,
che rifuggono dai paparazzi della pubblicità. «Il bene
va fatto bene, e senza rumore»: affermano da sempre i
missionari della Consolata…
Le lettere ci propongono modi semplici e concreti di
fare il bene. È un bene che ci piace per tre ragioni:
– coinvolge quattro generazioni (bambini, giovani, adulti,
anziani);
– supera il «privato» ed entra nel «pubblico»: cioè è
fatto insieme; in altre parole (usando la celebre favola
dello scrittore e politico irlandese Jonathan Swift), la
generosità imprigiona il «mostro dell’indifferenza» con
la strategia di «tanti esili fili»… che diventano una
«rete» fitta e robusta;
– c’è pure l’invito a fare altrettanto…
Recita un noto principio etico-filosofico bonum diffusivum
sui: il bene si propaga di per sé… e contagia.

vari




ASSASSINO PER STRADA

Da Mombasa al Congo
(ex Zaire) e ritorno,
i camionisti trasportano
anche… l’Aids.
Salgaà, fermata quasi
obbligatoria per autocarri,
ne è diventato un focolaio
di diffusione, dove
centinaia di donne
vi consumano storie
di miseria
e disperazione.

Entrambe le rotte, che da Nairobi
portano agli altipiani del
Uasin Gishu, offrono bellissimi
panorami. Su quella alta, di ultima
costruzione, non è consigliabile
fermarsi se non si è in un gruppo sostenuto:
la zona ospita la più forte
concentrazione di ladri e banditi del
Kenya. Imbocchiamo quella bassa,
antica, costruita dai prigionieri italiani
dell’ultima guerra mondiale.
Tutto sembra sereno: le panoramiche
sono straordinariamente varie
e belle. La visione della Rift Valley
è meravigliosa. I turisti si fermano
per godersi lo spettacolo e sono
subito assediati dai venditori di souvenirs,
che sbucano dalle numerose
baracche impiantate sulla strada.
Una di esse, chiamata «Milano Curious
», è specializzata nella vendita
di lance «originali» dei maasai, da loro
usate per uccidere i leoni. In realtà
vengono da un’officina alla periferia
di Nairobi; altre, più rudimentali,
dalle forge di fabbri kikuyu abitanti
nella zona. Solo i turisti troppo ingenui
si lasciano convincere.
Nonostante la serenità, il viaggio è
accompagnato da tristi ricordi per le
centinaia di persone che hanno perso
la vita in orrendi incidenti stradali
sulla rotta Nairobi-Nakuru. Al primo
cavalcavia dopo Limuru, anni
orsono, un missionario irlandese,
mio caro amico, venne ucciso in circostanze
sospette, ma ufficialmente
si parlò di «tentativo di sequestro di
vettura».
Appena oltre Naivasha una semplice
croce di legno segna il posto
dove fu trovato morto il missionario
americano padre Kaiser. Gli investigatori,
statunitensi dell’Fbi (che si fecero
rubare le pistole) e le autorità
locali affermarono trattarsi di suicidio;
ma nessuno vi ha creduto: l’ex
marine americano avrebbe dovuto
compiere centinaia di chilometri,
dalla sua missione tra i maasai, per
commettere il suicidio lungo una
strada a lui sconosciuta, a tre chilometri
da una stazione di servizio in
cui aveva fatto il pieno di benzina.
Oltre Nakuru, 25 km a nord,
all’incrocio per Rongai, s’incontra
Salgaà, una fermata
per autocarri che dal Kenya vanno in
Congo (ex Zaire), attraverso Uganda
e Rwanda. La località non compare
sulle mappe del paese, tanto
meno sulle brochures delle agenzie di
viaggi; ma è tristemente famosa per
i frequenti incidenti stradali. Fino a
cinque anni fa vi si fermavano solo la
polizia, per ragioni di lavoro, e i matatu
(taxi superaffollati) che, per evitare
rischi e pericoli, viaggiano in
compagnia.
Da qui, infatti, comincia la lunga
salita che, dal fondo della Rift Valley,
sale verso gli altipiani. Gli autocarri,
sempre sovraccarichi, viaggiano a
passo di lumaca, facilitando gli attacchi
dei banditi, a volte senza fermare
gli automezzi: tagliano i lucchetti
di cassoni e container e gettano
la mercanzia sulla strada, mentre
i complici seguono con i camioncini
e ricuperano la refurtiva.
Da alcuni anni, con l’aggravarsi di
tali fatti, i camionisti hanno paura di
affrontare di notte la salita: la sosta
nottua è praticamente obbligatoria.
Così Salgaà è nata ed esiste solo
per i soldi che i camionisti vi spendono
ed è diventato tristemente famoso
anche come centro di propagazione
dell’infezione di Aids.
Salgaà non è altro che una piccola
«Sodoma e Gomorra», un grande
postribolo. Un agglomerato di baracche
con una popolazione di circa
2 mila persone; 21 bar e vari hotel,
oltre 300 prostitute e quattro cliniche
per malattie veneree. Nessun distributore
di benzina, né botteghe,
né un servizio sanitario, come drenaggi
e fogne; l’acqua è sempre insufficiente.
Al calare delle tenebre i camionisti
parcheggiano gli autotreni
in doppia fila, formando
una solida muraglia in entrambi i
lati della strada. Bar e rosticcerie entrano
in azione. Arrivano le donne;
atmosfera e locali si riempiono degli
odori di birra, carne arrostita, spezie
varie, sapone e sudori umani.
In tempo di piogge, Salgaà è un
mare di fango nero, tipico della terra
locale chiamata cotton soil (terreno
da cotone), che entra nelle scarpe
e le risucchia via dai piedi; si attacca
dappertutto, scivoloso come
sapone. Poche ore di sole e diventa
dura come cemento. E ricomincia il
polverone.
Ma nessuno si lamenta. Se tutti si
adattano al fango o polverone, le
prostitute cercano di premunirsi al
pericolo d’infezione dell’Hiv-Aids,
ma non riescono ad evitarla: nel giro
di sette anni sono raggiunte dalla
sentenza di morte.
Tutti in Kenya sono al corrente di
tale epidemia: è stata ufficialmente
dichiarata «stato di emergenza nazionale
». Ma negli ospedali governativi
non vi sono più posti letto.
Quelli privati si sbarazzano dei pazienti,
a meno che non siano in grado
di pagare un prezzo esorbitante
per una cura che non esiste. I dati ufficiali
del 2001 dicono che in Kenya,
su una popolazione di circa 30 milioni
di persone, ne sono morte 250
mila. Il numero è molto più alto.
Tra la gente comune raramente si
parla di tale sindrome: significherebbe
un’implicita aberrazione sessuale.
Gli annunci per radio o sui
giornali parlano di «lunga malattia
coraggiosamente sopportata». In
modo figurativo si usano frasi come
slim o kauzi (magro come un filo),
mikingo (lenta foratura) e altre colorite
espressioni dei dialetti locali.
«Sono venuta qui per disperazione
– spiega Jane G. -.
Non mi piace quel che faccio,
ma non ho altra scelta. Rischiamo
la vita senza nessun profitto».
Tutte le donne che arrivano a Salgaà,
sfidando un rischio così alto per
un prezzo irrisorio (due-tre dollari,
un vestito o un pezzo di stoffa), sono
spinte da miseria e destituzione dal
lavoro. Le statistiche, per quel che
valgono, dicono che il reddito medio
dei kenyani è di 290 dollari per anno,
meno di un dollaro al giorno. L’esplosione
demografica continua; cresce
il tasso di disoccupazione.
Ultima nata in una famiglia numerosa,
condannata fin dalla nascita a
vivere nella miseria, Jane era rimasta
orfana dei genitori quando frequentava
la scuola media. Accolta dalla
nonna, anch’essa povera in canna, rimase
incinta a 17 anni e fu espulsa
dalla scuola. Abbandonato il villaggio
natio, trovò rifugio e qualche lavoro
presso un convento di suore cattoliche.
A 19 anni è finita a Salgaà.
Con la figlia di quattro anni, vive
in una piccola baracca di legno. I
muri della stanza sono coperti di vecchi
giornali, che servono a tenere
fuori vento e pioggia. Una tendina
divide la stanza in «soggiorno» e «camera
da letto». In un angolo sono
ammucchiati gli utensili da cucina. Il
focolare a legna si trova nel cortile.
La stanza è mantenuta scrupolosamente
pulita.
La baracca di Jane è in un angolo
del cortile, sul quale se ne affacciano
altre 15. Vi è un rubinetto dell’acqua,
che spesso non funziona; due cosiddette
docce e quattro latrine comuni
sono in uno stato pauroso: il tutto
per 30 persone.
In una capanna di fango, dietro al
Good Time Bar, troviamo Monica
M., 32 anni, Aids all’ultimo stadio.
Sta adagiata su un sofà mezzo scassato,
la pelle giallastra, marcata da segni
d’infezioni cutanee, il corpo deperito.
Da un anno soffre di polmonite
e tubercolosi. Sembra arrivata a
pochi giorni dalla morte.
All’improvviso arriva Peter, fratello
di Monica. Insiste nel dire che la
sorella soffre di tubercolosi e sta «migliorando
». Ma Jane, che mi accompagna,
m’informa che Peter è appena
ritornato dal villaggio natio, dove
si era recato per informare la parentela
dell’imminente trapasso della sorella.
Anche lui è disperato: ultimo adulto
della famiglia rimasto in salute,
deve provvedere a tutto; ma per le
cure mediche non ci sono più soldi.
Da Mombasa al Congo e ritorno, i
camionisti trasportano nel loro sangue
il morbo dell’Hiv e lo distribuiscono.
Salgaà è diventato un amplificatore
della tragedia dell’Aids, che
infetta circa il 14% della popolazione
kenyana.
In questa stagione non c’è il fango;
ma il polverone pervade l’atmosfera.
La zona appare desolata
come sempre e le storie di disperazione
provocano un attacco di
depressione. Neppure i verdi e freschi
altipiani del Uasin Gishu riescono
totalmente a far dimenticare
le sordide realtà
di Salgaà.

Giorgio Ferro




DA BABELE A PENTECOSTE

Fondata negli anni ’60 dai missionari della Sma
(Società missionaria per l’Africa), la missione
di Grand Béréby è stata affidata ai missionari
della Consolata che, oltre a continuare
il lavoro dei predecessori, affrontano
nuove sfide nel campo
dell’evangelizzazione,
sanità e promozione umana.

Dall’alto della collina, dove
sorge la missione di Grand
Béréby, l’oceano sembra a
portata di mano e lo sguardo si estende
all’infinito. Ma tra l’altura e il
mare il panorama non è affatto entusiasmante:
un agglomerato di abitazioni
sgangherate e tetre, come l’asfalto
che le spacca in due, è reso ancora
più triste da un velo di vapori
tropicali che il sole non riesce a
perforare. L’unico edificio che rompe
la monotonia del paesaggio è il
municipio, che spicca con prepotente
dignità per il pulito giallo ocra
della sua tozza mole.
Prima che il sole sparisca nelle acque
dell’oceano, il congolese Rombaut
Ngaba, missionario fratello, mi
accompagna a visitare il paese.

QUASI UN PRESEPIO
Dieu est grand (Dio è grande) recita
la scritta sui parabrezza di scassatissimi
pulmini e taxi, posteggiati ai
bordi della strada. La leggo con devozione,
come una giaculatoria, finché
mi sovviene che è la traduzione
dell’arabo Allah akbar. Continuo a ripeterla
mentalmente, con spirito ecumenico,
ma meno devozione,
mentre osservo botteghe e bottegucce
tuttofare che costeggiano l’asfalto.
L’abbigliamento dei gestori non lascia
dubbi: sono musulmani.
«Commerci e trasporti sono quasi
tutti in mano loro – spiega la mia guida
-. L’amministrazione è appannaggio
dei locali kru; togolesi e beninesi
gestiscono rudimentali ristoranti; ad
altri gruppi stranieri sono riservati lavori
più pesanti o rifiutati dai locali».
«I pescatori vengono dal Ghana»,
continua il fratello, mentre arriviamo
al porto. Alcuni uomini nerboruti
rattoppano le reti; altri, con grosse
ceste sulla testa e acqua alla cintura,
scaricano il pesce dalle barche e lo
ammucchiano sulla terra ferma. I
bambini guardano curiosi e festanti,
mentre un nugolo di donne vocianti
acquistano la merce; altre sono già
al lavoro: puliscono e friggono grossi
pesci per rivenderli al minuto su
banchetti traballanti.
Il sole è tramontato; la notte scende
veloce. Le fioche lampadine penzolanti
nei negozi e le candele delle
bancarelle trasformano il paese in un
presepio. Lo spettacolo è suggestivo,
ma la realtà non cambia. La vita è dura
a Grand Béréby, specie per le donne,
che rimarranno fino a notte fonda
accanto alle loro mercanzie, in attesa
di racimolare qualche centesimo
per sfamare la famiglia.
Altra gente, invece, comincia a divertirsi.
Due discoteche, pomposamente
chiamate «ministeri della cultura
», hanno aumentato il volume
dei giradischi e richiamano i clienti
che, essendo stagione di raccolti,
hanno qualche franco in tasca e tante
cose da dimenticare.
Per i missionari, invece, arriva l’ora
di andare a riposare. Cerchiamo
di chiudere occhi e orecchi, perché
la musica durerà tutta la notte.

PROBLEMI E PROBLEMI
Baciato dalla luce del mattino,
Grand Béréby appare meno scalcinato.
Ma a rituffarmi nella realtà del
luogo arriva Paul Ino, capo tradizionale
e presidente del consiglio parrocchiale.
Parla dell’isolamento della
regione, perché la strada asfaltata
è dissestata e quelle che si addentrano
nella foresta non meritano tal nome;
della vita sempre cara, dal momento
che, fuorché il pesce, Grand
Béréby deve importare tutto da lontano.
Si passa al problema dell’istruzione:
le scuole elementari sono insufficienti;
quella secondaria è praticamente
interdetta alla popolazione
dell’interno, a causa delle distanze e
alla mancanza di alloggi per studenti,
maestri e altri funzionari. Come altri
capi, anche il signor Ino prospetta
l’esigenza di una scuola cattolica.
«Il problema più grave è quello
della sanità – continua il capo -. Comune
di circa 5 mila abitanti e capitale
di regione che si estende per oltre
80 km verso la Liberia e altrettanti
nell’interno, Grand Béréby dispone
di un dottore e un dispensario, con
un reparto di mateità, per decine
di migliaia di persone. Mancano le
medicine essenziali e, per i casi gravi,
bisogna ricorrere a San Pedro, a più
di 50 km di distanza. Ma se i casi sono
più di uno, dato che disponiamo
di una sola ambulanza, la gente deve
servirsi di taxi, che costano un occhio
della testa».
Conoscendo un poco la situazione
creatasi negli ultimi mesi, stuzzico il
capo sul problema dei rapporti sociali.
«Grand Béréby è un paese cosmopolita» attacca il capo, ripetendo
un ritornello che mi ronza nelle orecchie
da parecchi giorni. Dopo aver
sciorinato la babele di etnie e lingue
sotto la sua giurisdizione, continua
imperterrito: «Da Grand Béréby
alla Liberia e oltre i confini, è terra dei
kru, da secoli popolazione di marinai.
Ora che tutto è automatizzato, essi
non hanno più lavoro e neppure i
campi da coltivare, da generazioni in
mano agli stranieri: i kru li rivogliono
indietro».

L’ALTRA CAMPANA…
Quella dei missionari ha un suono
differente: i kru sono sfaticati; per
questo hanno affittato la terra agli
stranieri. I burkinabé, invece, sono
grandi lavoratori: hanno sudato sangue
per dissodare la foresta e organizzare
belle piantagioni; proprio ora
che ne raccolgono i frutti e vedono
realizzarsi il sogno di una vita, si sentono
minacciati di espulsione: non ci
stanno a cedere su un piatto d’argento
tanti anni di fatica.
Se non ci fossero gli immigrati,
specie i burkinabé, l’economia della
Costa d’Avorio crollerebbe all’istante:
sono essi a fare i lavori più pesante
o rifiutati dai locali. «Anche la parrocchia
di Grand Béréby sarebbe ridotta
al lumicino» aggiunge padre
Willy, missionario della Consolata
congolese.
Tra i kru, infatti, i cristiani sono pochissimi:
alcuni sono arruolati nei
gruppi evangelici protestanti; la maggioranza
ha abbracciato l’harrismo,
un movimento sincretista affermatosi
lungo la costa avoriana all’inizio del
1990 (vedi riquadro). «La chiesa cattolica
è arrivata troppo tardi» sentenzia
il capo Ino. «Cultura e tradizioni,
specie la poligamia, ostacolano
la loro conversione al cristianesimo»
spiega invece padre Willy.
L’evangelizzazione della regione fu
avviata negli anni ’50 dai missionari
della Sma, provenienti da San Pedro;
essi si occuparono più di alcune zone
dell’interno che del centro. La
presenza di un missionario a Grand
Béréby è iniziata negli anni ’60.
Dall’aprile del 2000 la parrocchia
è affidata ai missionari della Consolata.
Essa conta oltre 5 mila cristiani,
distribuiti in 21 comunità sparse per
lo più nella foresta. Sotto l’aspetto
geografico il territorio è diviso in 7
zone, in cui i villaggi minori ruotano
attorno alle comunità più grandi. Il
centro di Dobo, per esempio, comprende
vari villaggi per un raggio di
30 km; ha una comunità bene organizzata,
una chiesa più bella di
Grand Béréby e potrebbe diventare
parrocchia indipendente.

MINISTERO DI CONSOLAZIONE
Alle 8 del mattino i primi clienti
sono in fila davanti al dispensario, sistemato
accanto alla chiesa. Dentro,
in maglietta e ventilatore al massimo,
fratel Rombaut, specializzato in infermieristica,
esamina gli occhi di un
uomo magro come un chiodo. Appena
mi vede, indossa il camice bianco
per la rituale fotografia; se lo toglie
e ritorna a interrogare il suo
cliente. «La tua malattia si chiama fame
» sentenzia sorridendo, mentre
ordina alla sua assistente di preparare
alcune confezioni di vitamine e
raccomanda alla moglie del paziente
di cucinargli tanto pesce.
«All’inizio la gente arrivava col
contagocce – racconta il fratello -.
Pensava che il dispensario si prendesse
cura solo dei cattolici. Poi una
mamma musulmana ha portato il
proprio figlio e la fama si è sparsa in
un baleno. Oggi abbiamo una ventina
di pazienti al giorno; il sabato raddoppiano,
attirati anche dal fatto che
diamo medicine a un prezzo più basso
che nelle farmacie e, quando qualcuno
non riesce a pagare tutto, chiudiamo
un occhio».
Il dispensario è parte del progetto
sanitario esteso a tutti i villaggi del
territorio parrocchiale. In ognuno di
essi c’è la «caisse pharmacie», una
specie di pronto soccorso, dotato di
medicinali di prima necessità e gestito
da due «agenti di sanità comunitaria
», appositamente preparati per
far fronte ai casi più frequenti: malaria,
diarrea, ferite e infezioni varie.
Ogni settimana fratel Rombaut visita
i villaggi, per continuare la formazione
degli agenti e fare «animazione
sanitaria» tra la gente, con corsi
d’igiene per mamme e levatrici
tradizionali. Ha iniziato pure una
campagna di vaccinazione dei bambini
contro la poliomielite, difterite,
morbillo, tetano. «Dovrebbe essere
un dovere dello stato – continua fratel Rombaut – ma i responsabili della
sanità non hanno mezzi o voglia di
spingersi nell’interno della foresta
per le vaccinazioni. Mi sono messo
d’accordo col centro sanitario di San
Pedro, offrendomi di fare il suo lavoro;
ho scoperto dei lebbrosi e foisco
medicine pure a loro».
Oltre al lavoro professionale, il fratello
dà una valida mano in quello
prettamente religioso. Il sabato pomeriggio
spiega il catechismo ai giovani
della scuola secondaria di
Grand Béréby; la domenica si reca
in uno dei villaggi per animare la comunità,
spiegare la parola di Dio,
portare l’eucaristia agli ammalati.
«Tale attività mi procura tanta soddisfazione
– conclude -. All’inizio il
lavoro con i giovani è stato duro; ma
ora il contatto è aperto e cordiale.
Nei villaggi, poi, non ci sono mai state
difficoltà: straniero tra stranieri, ci
capiamo di primo acchito».

INSEGNARE A «PESCARE»

«Il progetto sanitario ci fa conoscere
come evangelizzatori – aggiunge
padre Willy -. È un servizio di
consolazione concreta, anche se con
dei limiti, poiché per i casi più gravi
bisogna ricorrere all’ospedale. Molte
altre realtà umane sfidano la nostra
presenza, ma non possiamo abbracciarle
tutte. Siamo appena arrivati;
le domande su cosa fare sono
più delle risposte».
Nonostante la modestia, a Grand
Béréby c’è già molta carne al fuoco.
I missionari hanno avviato una scuola
di alfabetizzazione, dove i giovani
imparano a leggere e scrivere e qualche
parola di francese. «È umiliante
per un giovane dover dire di non saper
leggere, quando è invitato a fare
una lettura nei nostri incontri – continua
il padre -. E sono molti i ragazzi
analfabeti, perché la scuola costa
e i genitori non hanno la possibilità
di mandarvi i figli».
Le donne hanno chiesto di fare
qualche cosa anche per loro: nella sede
parrocchiale si tengono corsi di
taglio e cucito e maglieria, in cui un
gruppetto di signore imparano il mestiere
e, tornate nei propri villaggi, lo
insegnano ad altre donne, si aiutano
a vicenda e organizzano una piccola
cornoperativa. La missione, quando
può, fornisce lana e materiale che arriva
dai benefattori.

Buona parte del tempo è assorbito
dall’organizzazione delle comunità
di base e dalla formazione umana
e religiosa di animatori e catechisti.
Ogni anno si tengono tre corsi
sistematici. «È una formazione continua,
poiché la gente va e viene –
spiega padre Willy, incaricato di tale
compito -. A Grand Béréby abbiamo
già qualche catechista locale; ma
nei villaggi sono tutti immigrati dall’interno
del paese e da altre nazioni,
specie il Burkina Faso. Se un leader
torna a casa, bisogna procurare un
sostituto. Grazie a Dio, non è difficile
trovare persone motivate per
servire la comunità; resta sempre il
problema di prepararle adeguatamente.
Intanto la chiesa cresce. Ogni
anno abbiamo circa 400 battesimi
» sospira padre Willy.

IL SOFFIO DELLO SPIRITO
La catechesi è l’attività principale
della parrocchia; il catecumenato
quella dei singoli villaggi. I catecumeni
sono coinvolti in tutte le attività
comunitarie: s’incontrano, pregano,
cantano, giorniscono insieme agli
altri cristiani.
Una volta al mese le cappelle minori
si uniscono alla comunità più
grande, dove il padre si reca a celebrare
la messa. Così tutti gli animatori,
catechisti e comitati ecclesiali
della zona si ritrovano e discutono
tutto ciò che riguarda la loro vita cristiana:
catechesi, catecumenati, formazione
e altre attività.
Tutte le domeniche l’eucaristia diventa
un evento pentecostale. Anche
se il francese fa la parte del leone, le
letture vengono fatte anche in altri idiomi,
a seconda della consistenza
dei gruppi linguistici presenti. Così
pure l’omelia viene tradotta in tre o
quattro lingue.

Dopo la celebrazione, i vari gruppi
linguistici si radunano dentro e
fuori la chiesa e, sotto la guida del catechista,
riprendono e approfondiscono
quanto è avvenuto nella liturgia
domenicale. Così gli autoctoni ascoltano
il messaggio di Dio in lingua
kru; quelli del Burkina Faso in moré,
gourcy e dogary; i gruppi avoriani in
baoulé, bété, abron, koulango; i ghanesi
in fantis. «Non bisogna avere
fretta – conclude serafico padre Willy
-, perché si ripeta anche qui il miracolo
della pentecoste, quando tutti
i popoli “udirono annunciare nella
propria lingua le grandi
opere di Dio” (cfr Atti 2,
6-11)».

Benedetto Bellesi




COMMOZIONE DI POPOLO

A Brasilia, la capitale del futuro,
la gente semplice vive la sua fede
con profondo sentimento
e partecipazione.
Come in occasione della festa
della Consolata
e la processione in suo onore.
A Brasilia, la capitale del futuro,
la gente semplice vive la sua fede
con profondo sentimento
e partecipazione.
Come in occasione della festa
della Consolata
e la processione in suo onore.

Brasilia è una delle poche città al
mondo (insieme con Washington)
ad essere stata totalmente
decisa e pianificata da un gruppo di
architetti e urbanisti. In effetti, a metà
degli anni Cinquanta, essendo diventata
insufficiente Rio de Janeiro, il governo
brasiliano decretava che una
nuovissima capitale doveva essere costruita
al centro del paese; una città,
simbolo del futuro del Brasile e dell’umanità.
La sua costruzione diventò
una sfida, dal momento che la più vicina
strada asfaltata si trovava a 600
chilometri e la più vicina ferrovia a
125 chilometri.
Dopo una serie di lavori titanici,
Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960
alla presenza di 150 mila invitati.
Fin dal 1964 i missionari della
Consolata avevano voluto partecipare
all’avventura di Brasilia con la
costruzione della parrocchia «Nostra
Signora della Consolata», una
delle prime aperte nella nuova città.
Attualmente vi lavorano tre missionari:
Giuseppe Galantino, Oreste
Ghibaudo e Serafino Marques; gli
ultimi, due sono «giovanotti» di 84
e 77 anni. Con loro vi è un diacono
permanente, José Luiz de Oliveira
Jesus, uno dei pilastri della pastorale,
che interessa ben 20 mila fedeli.
Ed è proprio nella modeissima
e avveniristica Brasilia che, il 20 giugno
scorso, ho celebrato la festa della
Consolata. Ma ero ben lontano dall’immaginare
ciò che avrei vissuto.

LA «VISITA» DI MARIA
La festa della Consolata, a Brasilia,
si comincia a preparare un mese prima,
grazie a un centinaio di volontari
che lavorano insieme agli agenti pastorali.
Catechesi speciali vengono
proposte soprattutto ai ragazzi, perché
possano meglio comprendere il
ruolo di Maria nella storia della salvezza.
Durante la novena, poi, ai parrocchiani
è data la possibilità di approfondire
la loro vita cristiana.
La chiesa (ma anche i quartieri della
parrocchia) viene addobbata con
bandierine, fiori e nastri. Io stesso ho
visto sul muro di un palazzo di 12 piani
un’immensa corona del rosario,
fatta di palloncini bianchi e blu. La vigilia
della festa, i catechisti vanno in
ogni quartiere a incontrare i giovani
e parlare loro della Madonna.
Ma la cosa più straordinaria (o più
curiosa) deve ancora arrivare: è «la visita
» che la Consolata compie in tutti
i quartieri della parrocchia.
Sono le ore 15, e padre Galantino
incomincia ad inquietarsi: «Dov’è il
diacono?». È lui, infatti, che ha organizzato
l’insieme delle celebrazioni
con altri volontari. Mi confida il parroco:
«Non ho mai visto una parrocchia
simile; qui davvero non sono i
preti a tirare la carretta, ma i laici! Ve
ne sono centinaia che portano avanti
la maggior parte del lavoro pastorale.
E che organizzazione!».
La polizia (due vetture e otto moto)
arriva alle 15,20. La radio è pronta,
dal momento che tutte le celebrazioni
saranno trasmesse in diretta dall’emittente
Nova Aliança de Brasilia.
Puntualmente, alle 15,25, le tre macchine
della scorta sono nel cortile.
Arriva anche mons. Geraldo de Espirito
Santo Avila, vescovo dell’esercito
brasiliano. A questo punto il carro
della Madonna «esce» solennemente
dal cortile delle missionarie
della Consolata, dove è stato preparato
e ornato: su una vettura, coperta
di paramenti bianchi e blu e di fiori,
troneggia la statua della patrona.
Oggi Maria va a visitare i suoi fedeli!
Mi avevano detto che i brasiliani
non brillano per la puntualità. Ebbene:
o gli abitanti di Brasilia non sono
brasiliani o io devo rivedere i miei
pregiudizi… La visita doveva cominciare
alle 15,45; dopo essere passati
negli otto quartieri della parrocchia,
si ritornava nella chiesa centrale per
la messa solenne delle 19. «Ma questo
– mi dicevo – non succederà prima
delle 20. Invece alle 19,05 la messa iniziava!
La processione si mette in marcia
e ci fermiamo nel primo quartiere.
Vedendo arrivare la statua, la gente
canta e grida: «Viva la Madonna! Viva
la Consolata!». In ogni quartiere
c’è un’orchestra, formata da giovani,
che suona e intona il primo canto alla
Vergine. La gente risponde in coro.
Il vescovo, assistito dal parroco,
scende dalla vettura, mentre fuochi
artificiali e petardi scoppiano nel parco
vicino. Si avvicina al carro della
Madonna ed inizia una preghiera:
con lui la gente pregherà per i bambini
e genitori, per gli ammalati e sofferenti
e sempre chiederanno a colei
che è «la stella dell’evangelizzazione»
di inviare ancora missionari per annunciare
la Buona Novella ai quattro
angoli del mondo.
Dopo le invocazioni, il vescovo benedice
gli oggetti religiosi e chiede a
Maria di proteggere le persone e i loro
beni, coloro che sono in viaggio…
Si sa che violenza, criminalità e incidenti
stradali sono frequenti in Brasile!
Poi termina con una benedizione,
aspergendo tutti con acqua santa.
Uno degli animatori, allora, prende
il microfono e la celebrazione viene
nuovamente «riscaldata» da preghiere,
cori e canti. Scoppiano ancora
petardi e fuochi d’artificio, mentre
tutti seguono il carro della Madonna.
E così verso il prossimo quartiere.
Anche qui centinaia di persone aspettano
la loro madre e patrona; anche
qui canti e applausi, petardi e benedizioni…
Poi, sempre in marcia, si
raggiunge un altro quartiere.
Maria li ha visitati tutti, in questa
grande parrocchia di Brasilia, la città
costruita come un’«anticipazione»
del futuro. Maria, salita al cielo, gloriosa
presso Dio, non è forse il simbolo
più vero di ciò che Egli desidera
per l’umanità tutta?…
Non siamo lontani dall’Equatore.
Pertanto, verso le 18, la notte scende
quasi di colpo. È all’imbrunire che si
visitano gli ultimi due quartieri. Ma
c’è ancora più confusione: la statua
della Madonna è illuminata e, mentre
arriva nella semioscurità del quartiere,
sembra proprio un’apparizione…
Tutto ad un tratto si accendono
centinaia di candele. Anche per l’arrivo
nell’ultimo quartiere decine di
giovani agitano stelline luminose, come
fosse una grande festa di compleanno.

LACRIME DI COMMOZIONE
Quando la processione arriva nella
chiesa parrocchiale centrale, questa
è già stracolma. Sotto la direzione
animata ed entusiasta di padre Oreste,
la gente canta e accoglie la statua
con un bornato di applausi. Non ho mai
visto niente di simile nella mia vita
missionaria! L’esaltazione è al culmine.
Il parroco fatica a calmare l’assemblea
ed iniziare la messa.
Dopo la comunione, entrano in
processione un centinaio di bambini
e bambine, rivestiti di bianco e con alucce
che li trasformano quasi in angeli
del cielo: circondano la statua,
posta su di un piedistallo, alla sinistra
del presbiterio. Mentre si canta un inno
mariano, decine di lampade illuminano
il viso della Madonna; poi un
ragazzo depone sulle sue spalle un
manto blu e una ragazza una bianca
corona sulla sua testa. Scoppia un applauso
fragoroso, e non si sa bene se
gli adulti applaudono i loro figli o la
Vergine. Molti hanno le lacrime agli
occhi e anch’io…
Tutto questo mi rimanda alle processioni
del Corpus Domini della mia
infanzia, nel Québec (Canada), quando
la fede era ancora forte… In Brasile
la gioia, l’esaltazione e l’entusiasmo
mi ricordano numerose celebrazioni
vissute in Africa. Ma, a Brasilia, ho avvertito
una qualità di fede tutta speciale.
Non so perché: ma gli occhi che
fissavano la statua della Madonna,
trasportata da un quartiere all’altro
della capitale brasiliana, i corpi che
danzavano e agitavano ogni sorta di
bandiere e drappi, mentre la Consolata
attraversava le strade della città
del futuro… tutto questo mi ha dato
un’impressione di freschezza e verità,
che non riuscirò a dimenticare.
Al momento del mio arrivo nella
capitale non sapevo cosa mi aspettava.
Però, nel giorno della Consolata,
credo proprio che il cielo si sia aperto
su Brasilia… Ora sono un po’ invidioso
di padre Galantino, parroco di
una porzione davvero eccezionale del
popolo di Dio. Non so se quello che
ho visto sia un raggio di cristianesimo
futuro; però so che quella sera, stanco,
non riuscivo a prendere sonno, a
causa delle immagini di fede che facevano
ressa nel mio cuore.
L’indomani ho chiesto al diacono
se tale festa della Consolata
facesse parte del cristianesimo
passato o futuro. Mi ha risposto che
era quello del passato. Lasciamo,
dunque, a Maria il compito
di preparare il futuro
del Brasile!

RIMANETE CON NOI!!
Maria merita il nome di Consolata con due significati: infatti
fu dapprima consolata per diventare la consolatrice
di tutto il genere umano.
Ragazza di 14-15 anni, Maria riceve un annuncio che la
riempie di spavento. Ma non deve temere perché, secondo
le parole dell’angelo, «il Signore è con lei». E per la «consolazione
» che riceve, potrà pronunciare una parola che
sarà principio di salvezza per noi tutti. Se non comprendiamo
il motivo di quel suo sgomento, non capiamo neppure
l’importanza della sua risposta: «Io sono la serva del
Signore».
Maria era figlia di ebrei, e una ragazza che rimaneva incinta
fuori del matrimonio metteva a repentaglio la propria vita.
Ai giorni nostri sentiamo dire che nei paesi musulmani
c’è gente, scoperta in adulterio, che viene lapidata: una prassi
normale, in passato, nel Medio Oriente e in Israele. Ma
poiché la Madonna era di grande fede, le bastarono poche
parole per ricevere consolazione, tanto da dare principio a
una nuova era nella storia dell’umanità; poiché questa è l’era
della grande «consolazione», il tempo di Gesù, salvatore
di tutti.
Carissimi missionari della Consolata, è per noi una grande
gioia avervi qui. Leggevo tempo fa un libro, scritto
da un vostro confratello, uno dei pionieri che raggiunsero il
Kenya. Raccontava della vita dura, specialmente nei primissimi
tempi, sperimentata dai missionari: stanchi, anneriti
dal fumo del treno, ma sempre avanti, fino alla meta. Erano
scesi in un posto sconosciuto e da lì avevano ripreso,
a piedi, il viaggio verso la meta; salirono montagne, ebbero
tanti malanni; qualcuno tra i portatori, durante la carovana,
morì anche per strada. Fino
a quando arrivarono…
Quello che vorrei dirvi è questo:
l’audacia di quei pionieri nasceva
da una fede enorme! E mi
vengono in mente quei benedettini
che furono i primi a venire
dalle nostre parti, in Tanzania;
non avevano neppure emessa la
prima professione religiosa e ricevettero
l’ordine di andare in
missione. Lasciarono il loro paese,
senza più tornare (non conobbero
neppure la loro casa
madre). Anche i missionari della
Consolata seguirono lo stesso
modo di evangelizzare: partirono
senza sapere dove andavano,
in paesi stranieri, poveri,
diversissimi dall’Italia; sapevano
della malaria, dei serpenti,
dei leoni… ma andarono.
E dove hanno trovato il tempo
per costruire dentro di sé la fede,
per essere missionari? Il motivo
è che avevano già la fede «succhiata
» dalla Consolata, la quale
ebbe il dono di trovare la consolazione
di Dio.
Tra i primi missionari, alcuni lasciarono poi il Kenya per venire
qui in Tanzania. Vennero per «kuziba pengo» («riempire
un vuoto lasciato da un dente estratto»; ma Pengo è
pure il cognome del cardinale che sta parlando; ndr): a
riempire il vuoto lasciato dai benedettini. Ereditarono parrocchie
non in una situazione normale, ma post-bellica, in
una ex colonia tedesca. «Io sono la serva del Signore, sia
fatto a me come l’Onnipotente vuole». Vennero qui da noi.
La loro opera la conosciamo e apprezziamo: un lavoro
grandioso e che ci riempie di meraviglia. Come hanno fatto
tutto questo, superando difficoltà e ristrettezze?
I nostri missionari, all’inizio del secolo scorso, erano pronti
a mettere la vita nelle mani dell’Onnipotente per eseguire
il mandato: far sì che anche per i tanzaniani (come prima
per i kenyani) sorgesse «l’ora di Dio», avessero la consolazione
di conoscere il Signore Gesù… Ma anche il nostro
mandato non è diverso dal loro. Poiché la presenza di Dio
tra gli uomini è necessaria, questo è il lavoro che riceviamo
da Maria Consolata, tramite i suoi missionari.
Figli della Consolata, vi faccio le mie felicitazioni: per la
festa di oggi e per il vostro grande lavoro fatto qui, nella
nostra chiesa. Vi siete dati senza risparmiarvi, come la
Madonna Consolata che disse: «Se c’è da rischiare la vita
non importa; se Dio vuole invece che viva, così sia, come
vuole l’Onnipotente!».
Grazie di cuore per averci dato la possibilità di avere Dio
con noi! Anche noi ora possiamo dire: «Emanuele! Dio è
con la sua gente!».
Dopo avervi ringraziati, vi preghiamo di continuare a inco-
raggiare noi, che siamo i vostri figlioli
e nipoti, perché lo spirito che ci avete
portato non venga mai meno. Siate con
noi, state con noi! Io penso che, umanamente
parlando, il periodo più duro
della missione sia passato, poiché se
qualcuno oggi desidera i maccheroni,
anche qui a Dar es Salaam li può trovare…
e anche le medicine!
Rimanete qui, restate qui! E, se qualcuno
è sfinito e non riesce più a lavorare,
non abbia paura, non pensi di essere
inutile e di tornare in Italia; ma vada
davanti all’eucaristia a pregare per
noi l’Onnipotente. Stia qui e preghi; preghi
insieme a noi, perché possiamo vedervi
e imparare. Vi promettiamo che
faremo tutto il possibile per portare avanti
lo spirito messo in noi, affinché il
nostro popolo possa sempre dire: «Emanuele!
Dio è con il suo popolo!».
Polikarp Pengo
(traduzione dallo swahili
di padre Giovanni Medri)

LA LUCE È RIMASTA NEI MIEI OCCHI
Caro direttore, le presento una testimonianza
sulla Madonna Consolata
di Agnese Capello, mia cugina.
Essa gradirebbe che fosse pubblicata
su una rivista con il nome
«Consolata». Agnese mi ha chiesto
di ritoccare lo scritto. Ma ho pensato
che non sarà, certo, la forma a togliere
interesse ad un testo già bello,
così come è nato da chi ha vissuto
la vicenda che racconta.
M.P. QUIRICO – TORINO

È con gioia che pubblichiamo la seguente
testimonianza proprio nel mese
della Consolata.

Quando una persona si ferma un
tantino a meditare sul senso della
vita, è facile che le vengano in
mente alcuni particolari molto significativi.
Un episodio che, iniziando dai nostri
vecchi, si è tramandato di padre
in figlio riguarda un affresco, che si
trova sulla facciata della nostra casa
in un paese della collina torinese.
L’affresco rappresenta la Consolata
e risale al 1856.
Venne eseguito per un «voto»,
fatto alla Consolata in un momento
penoso per la gente, quando serpeggiava un’epidemia che colpiva i
bambini dai 13 anni in giù. Ne erano
già morti parecchi, e i genitori
che vivevano nella casa avevano promesso
alla Consolata che, se salvava
i loro numerosi bambini, s’impegnavano
a far dipingere la sua effigie
sul fronte della loro abitazione.
Bisogna pure ricordare che, in tante
case, la fede consisteva anche nel recitare
ogni sera il santo rosario.
I genitori intensificarono le preghiere
finché, cessato il pericolo che
durò parecchi mesi, esaudirono il loro
voto, perché tutti i bambini erano
salvi. Fecero eseguire l’affresco, e
continuarono a pregare e ringraziare
la Madre Consolata mettendosi
sotto la sua protezione, poiché quell’avvenimento
fu considerato un miracolo.
Il pittore che eseguì l’affresco
fu un certo Nicolao Doria. Si presume
che fosse un ligure. In quella casa
nacque pure Demetrio Casola
(1851-1895), ricordato nelle enciclopedie
come pittore.
Tutti i genitori, che si sono succeduti
nella casa nel corso degli anni,
hanno sempre avuto una particolare
attenzione e il massimo riguardo
verso la Madre di Dio, che era considerata
una componente della famiglia.
La pittura è rimasta inalterata
nei colori, pur essendo esposta alle
intemperie.
Anche i miei genitori abitarono
nella casa. Nel 1956 (anno del centenario
dell’affresco) si prodigarono
per festeggiare l’anniversario. Era
prima del Concilio ecumenico Vaticano
II, e non si poteva celebrare la
santa messa. Però ci fu una grande
partecipazione di parenti e alcuni
sacerdoti, con preghiere, canti mariani
e il santo rosario.
Terminate le funzioni, ci fu un bel
rinfresco per tutti.
Nel 2006 saranno 150 anni di
«presenza matea» nella nostra
casa. Per l’occasione, se Dio vorrà, ci
sarà ancora un ricordo, perché è
sempre bene lodare la nostra Madre
Santissima Consolata.
AGNESE CAPELLO – TORINO

Alla Consolata sono riconoscente
fino dall’infanzia. Nel maggio
1945 (era da poco finita la guerra)
i miei genitori mi accompagnarono
in treno da Bra (CN) a Torino al santuario
della Consolata, per ringraziare
la Madonna. Il viaggio fu avventuroso,
perché eravamo in un carro-
bestiame, alla mercé del vento.
Ricordo Torino con tanti cumuli di
macerie, a causa dei bombardamenti
subiti.
Dunque la guerra era finita, ed io
ne ero uscita miracolata. Lo scoppio
di una granata mi aveva ferito il naso,
un orecchio e una gamba. Ma la
pioggia di schegge non mi colpì gli
occhi. Subito i miei genitori esclamarono:
«Questo è un miracolo della
Consolata!».
Fede semplice e viva quella dei
miei genitori, fede dettata da sofferenza,
senza perdere mai la fiducia
in Maria, Madre nostra in tutte le ore
della vita.
Così la luce è rimasta nei miei occhi.
CATERINA VIRANO – BRA (CN)

È un’altra testimonianza che calza
a pennello con il mese di giugno. Anche
la signora Giovanna Castellano
(di Torino) ringrazia pubblicamente la
Consolata «per grazia ricevuta in favore
del figlio».

Cari missionari, ho 17 anni e fin
da bambina conosco la Vergine
Consolata. Nella contrada in cui mia
madre è nata e cresciuta si venera la
Consolata da molto tempo. La sua figura
mi è rimasta impressa per il
racconto di un «miracolo».
Mia madre era una bambina di
quarta elementare e in quell’anno
si abbatté un terribile nubifragio
con una violenta tromba d’aria. Allora
a scuola si andava a piedi, e il
mattino seguente la tempesta ella,
in mano del nonno, si avviò tra
massi scivolosi, ciottoli fangosi e
grandi pozzanghere.
All’approssimarsi della scuola, vicino
alla chiesetta della Consolata,
mia madre non vide più l’edificio
sacro, ma un cumulo di macerie.
Un’ombra scese sul suo cuore e su
quello del nonno.
Erano ormai giunti e… sul mucchio
di rovine essi videro la statua
della Madonna, di fragile gesso,
dolcemente adagiata, illesa, eccetto
che in una mano. E illesi erano
tutti gli abitanti della contrada,
nonché le case, le stalle, gli animali.
In quella chiesa, ricostruita più
grande, ho frequentato il catechismo
e ho coltivato il mio spirito alla
luce del vangelo e nell’ascolto di
esperienze missionarie. Crescendo,
la scuola (frequento il liceo classico)
e gli amici mi hanno forse impoverito
il bagaglio religioso; ma
mi sono ripresa, per un incastro di
cose difficili da capire o spiegare.
Da tre anni, cioè da quando è
morto il nonno Nicola Gironimo, vostro
abbonato e devoto della Consolata,
seguo con particolare interesse
la vostra rivista, che vorrei
continuasse ad essere recapitata a
nome del nonno. Apprezzo il modo
limpido con cui voi, missionari, raccontate
la vita e, soprattutto, il vostro
impegno nell’alleviare la sofferenza
dei fratelli. L’offerta inviata
è a favore dell’ospedale di Neisu
(Congo), affinché l’opera di padre
Oscar Goapper non si arresti.
Infine questa lettera vuole essere
un grazie alla Vergine, madre di
ogni consolazione. Maria sostenga
tutti e mantenga viva nella mia e
in tutte le famiglie la luce della verità
fatta carne.
MARA CERVELLERA
MARTINA FRANCA (TA)

Carissima Mara, anche la tua testimonianza
è splendida, come lo sono
i tuoi 17 anni…
A tutti gli amici e sostenitori delle
missioni assicuriamo la preghiera
alla Vergine Consolata dei suoi missionari
sparsi nel mondo.

Jean Paré




GUERRA AFGHANA/ Incontro con Giulietto Chiesa

SEMPRE BUGIE ANCORA BUGIE

I taleban sono nati
con l’assenso del Pakistan e, di conseguenza, degli Stati Uniti. La guerra
afghana ha coperto le gravi responsabilità di Washington. Anche con la
connivenza del sistema mediatico mondiale, che ha lavorato per dimostrare
la «bontà» del conflitto. Diamo spazio      a una voce libera, forte e
preparata che non teme di parlare «contro». Non per partito preso, ma
prove alla mano.

Al termine della
conferenza abbiamo rivolto qualche domanda al giornalista e scrittore
genovese.

«Non abbiamo vinto
niente, nel senso che gli obiettivi che erano stati proclamati,
innanzitutto la cattura di Osama Bin Laden e del mullah Omar, non sono
stati raggiunti, ma questi sono dettagli secondari_ Io credo che Bin Laden,
prima o dopo, lo uccideranno.

Il resto è
completamente lasciato all’equilibrio delle potenze estee
all’Afghanistan , come è sempre accaduto. L’Afghanistan è sempre stato in
guerra in questi anni (1), perché dall’esterno si è imposta la guerra: 
questo per varie ragioni.

È vero che
l’Afghanistan era divenuto un covo terroristico internazionale. È vero che
Al Qaeda questo faceva; io ne sono testimone diretto; però non vi è il
minimo dubbio che i taleban siano stati costruiti con l’aiuto diretto,
senza equivoci, senza mediazioni, dei servizi segreti pakistani e di
quelli arabo-sauditi.

Ora, dato che non
si può neanche lontanamente dubitare che i servizi segreti americani
fossero a contatto diretto con i servizi segreti pakistani e
arabo-sauditi, si giunge alla conclusione induttiva che la nascita del
movimento dei taleban è avvenuto con il consenso degli Stati Uniti.

Certo, la
situazione gli si è rivoltata contro, ma loro l’hanno sfruttata il più
possibile finché gli conveniva. Per esempio, Al Qaeda e Osama Bin Laden
sono stati utilizzati per supportare i guerriglieri albanesi dell’UCK, che
(come si sa bene) è stata armata e finanziata dagli statunitensi. Insomma,
servivano per operazioni di sovversione e loro contavano di poterlo fare
tecnicamente. Tutte le tesi secondo cui bisogna colpire l’Afghanistan per
colpire il terrorismo sono tesi faziose, unilaterali, che nascondono la
verità.

La guerra afghana è
stata una grande, drammatica, terribile  cortina fumogena per nascondere
le responsabilità degli Stati Uniti».

Quindi, se non ci
fosse stato l’«Undici settembre», in Afghanistan nulla sarebbe cambiato?

«Assolutamente no.
Se non ci fosse stato l’11 settembre a costringere il presidente Bush a
fare “qualcosa”, non è escluso che avrebbero addirittura provato a
riutilizzare i taleban per fare passare attraverso l’Afghanistan il
petrolio del Caspio.

La califoiana
Unocal (il cui consulente principale è nientemeno che Henry Kissinger) e
Delta Oil (di proprietà della famiglia reale saudita) hanno lavorato per
questo fino al 1997-’98.

Non ci sono
riusciti, perché i russi hanno capito che questa era un’operazione contro
di loro. Far passare il petrolio attraverso l’Afghanistan era anche un
modo per dare un duro colpo alla presenza russa, privandola del controllo
sulla regione e di importanti royalties.

Ci sarà pace in
Afghanistan? Alla domanda si può rispondere dicendo che dovrà reggere una
politica di equilibrio tra Usa, Russia, Pakistan ed Iran».

È una guerra
keynesiana? (2)

«La linea americana
della totale deregulation del mercato non funziona più. Allora, un
neokeynesismo di guerra può essere la soluzione.

Duecento miliardi
di dollari da investire in campo militare (3), possono rimettere in piedi
le grandi compagnie industriali e la finanza americana. In questo modo è
possibile rilanciare anche la new economy, bisognosa di investimenti in
campo altamente tecnologico.

Sicuramente gli
Stati Uniti otterranno un risultato: un vallo enorme in campo tecnologico
con il resto del mondo. Nessuno potrà competere con gli Usa nel settore
della tecnologia fra dieci anni. Forse solo la Cina. La guerra serve anche
a questo».

Informazione,
disinformazione, non informazione: quale aspetto principale in questi mesi
di guerra?

«Io direi
soprattutto disinformazione. In questa guerra hanno contato di più i “B52”
dell’informazione mondiale che non i “B52” veri. Questa guerra, come
quella del Kosovo, non ci sarebbe stata se non esistesse un mondo
mediatico totalmente al servizio degli Stati Uniti. Se non ci fosse stata
una formidabile virtualizzazione di tutto quello che sta accadendo. A
partire dall’11 settembre.

Da questo momento
in poi possiamo dire che il sistema informativo mondiale sarà l’arma
numero uno di tutte le guerre future. Porto ancora un esempio: dopo la
presa di Kabul i giornali, le televisioni ci hanno bombardato con la
notizia che in Afghanistan le donne si erano tolte il burqa e gli uomini
tagliati le barbe.

Falso,
completamente falso. Le donne non potranno togliersi il burqa per molto
tempo ancora. Perché è una tradizione culturale vecchia di secoli, voluta
dagli uomini, anche dai mujaheddin.

Addirittura comica
poi la storia delle barbe. In Afghanistan la barba è un importante
indicatore di chi si è: la barba indica l’età, il ceto sociale, la
ricchezza, la povertà, l’istruzione, a quale etnia si appartiene. È
evidente quindi che in questo caso, oltre a fare una violenza
all’informazione, si è fatta violenza alla cultura di un popolo.

Perché queste
grossolane bugie? Per far vedere allo spettatore occidentale la “bontà”
della “guerra giusta”? Allora io mi domando: se ci hanno mentito su questi
aspetti d’immagine cosa sarà allora delle questioni serie?».

Può esistere
un’informazione indipendente dal basso, come, ad esempio, fanno Indymedia
o le Voci dell’Italietta? (4)

«Tutto può essere
utile a creare menti indipendenti. Io però non sono dell’opinione che la
controinformazione di per sé sia sufficiente.

Anzi potrebbe
essere pericolosa quanto un’illusione. Perché se resta tale, essa si sarà
ritagliata soltanto uno spazio di autonomia: una specie di “riserva
indiana” assediata, nella quale si potrà dire tutto.

Tutti coloro che
hanno a cuore la democrazia, il pluralismo, che hanno capito cosa sta
accadendo devono affrontare il problema di un’organizzazione per il
controllo democratico. Sarà un percorso molto difficile ma indispensabile.
Come? Ci sono tanti modi diversi: moltiplicando i centri studi, facendo
controinformazione, manifestando il dissenso, mobilitando gli
intellettuali ed i giornalisti nauseati da questa informazione.

Dobbiamo investire
il sistema mediatico con una pressione costante, coinvolgendo le reti dei
consumatori o del consumo equo e solidale. In poche parole, organizzando
delle lobby di pressione, nelle quali convergano realtà diverse e dove
nessuno dia ordini, ma vi sia un solo fine chiaro per tutti».

Come sta reagendo il
mondo cattolico in questo momento?

«Il mondo cattolico
è attualmente una delle realtà più vive in Italia. Io lo incontro ovunque
durante i miei spostamenti per il paese. Sono cadute tutte le barriere
ideologiche, non esiste una situazione che escluda qualcuno. Credo che la
vitalità intellettuale del mondo cattolico sia una delle novità più
interessanti, e in una prospettiva di rinascita esso sia decisivo».

Il piccolo
consumatore occidentale cosa può fare in questo momento storico?

«Il cittadino
consumatore può incominciare a consumare in modo alternativo e critico.

Noi non abbiamo
avuto, in Italia, un’esperienza come quella degli Stati Uniti, nella quale
gruppi di pressione (che possono pure sembrare marginali) hanno creato
molti problemi alle imprese multinazionali che dettano legge nella nostra
vita quotidiana.

Gli americani hanno
dimostrato che soggetti apparentemente inattaccabili, se sottoposti a
controllo popolare, tramite il consumo critico, risultano molto più
vincolati verso le questioni democratiche ed ambientali.

Io non sono
assolutamente contro il capitalismo. Semplicemente sono per una civiltà:
la civiltà degli uomini. Può esistere una civiltà degli uomini con questo
capitalismo che vìola i diritti e che è all’origine della minaccia della
democrazia?

Perché non unirsi
alla sfida di un grande movimento come quello di Porto Alegre, un
movimento che accerchia il sistema in maniera imprevedibile e pacifica,
facendo prevalere un’altra scala di valori?

La parola d’ordine
di Porto Alegre quest’anno (5) era: “Un altro mondo è in costruzione” ed è
questo che dobbiamo fare».


Note:

la
necessità dell’intervento pubblico nell’economia per incentivare lo
sviluppo.

 


Su pressione degli
Stati Uniti


Mary Robinson
licenziata (senza giusta causa)

Un
riquadrino sul quotidiano «La Repubblica». I media europei hanno ignorato
quella che, a buon diritto, si può considerare una delle notizie più
inquietanti, a livello mondiale, di questo già inquietante 2002.

Mary
Robinson non ripresenterà la propria candidatura alla carica di
responsabile dell’«United Nations High Commissioner for Human Rights» (UNHCHR),
l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani. Normale avvicendamento?
Stress? È bene ricordare chi sia Mary Robinson e soprattutto cosa abbia
fatto nella vita.


Irlandese, avvocato, ha coperto la carica di presidente della Repubblica
d’Irlanda dal 1990 al 1997, anno in cui è stata chiamata a presiedere
l’UNHCHR.

Dal
giorno della nomina Mary Robinson ha iniziato a battersi (con campagne di
pressione e denuncia) contro le gravi violazioni dei diritti umani in
moltissimi paesi del mondo. Ad esempio, in Sierra Leone e in Congo, dove i
signori della guerra erano colpevoli d’atrocità verso la popolazione
civile.

E poi
ancora le fortissime pressioni sul governo russo, accusato di portare
avanti, nel silenzio assoluto, una furiosa guerra etnica in Cecenia; i
richiami per il rispetto dei diritti umani in Cina; le denunce di violenze
e torture durante le elezioni presidenziali del 1999 in Messico; le
critiche al governo colombiano, colluso con le squadracce di paramilitari
che scorrazzano impunemente per il paese.

Luoghi
lontani, problemi lontani, dei quali in fretta si perdono le tracce nel
tourbillon di notizie da cui tutti i giorni lo spettatore occidentale
viene sommerso. Ma dichiarazioni di fuoco Mary Robinson non le ha usate
solo verso paesi sostanzialmente «innocui», ma anche nei confronti di «pesi
massimi», quali Stati Uniti ed Israele.


Dissenso e condanna verso gli Stati Uniti, che con le nuove leggi
antiterrorismo volute da Bush sarebbero autorizzati a prelevare
segretamente qualsiasi cittadino del mondo e, una volta portato in
territorio USA (inclusa una nave), a processarlo ed eventualmente
condannarlo a morte senza appello; e poi ancora uno scontro con il governo
statunitense, quando Mary Robinson ha richiesto la cessazione dei
bombardamenti sull’Afghanistan, causa di innumerevoli vittime fra i civili.

Da
ricordare, inoltre, i problemi sorti durante la Conferenza mondiale contro
il razzismo, svoltasi a Durban in Sud Africa nel settembre 2001 ed
organizzata dall’UNHCHR con la presenza di 160 paesi. Nelle bozze del
testo da usare come piattaforma programmatica Israele veniva definito,
senza giri di parole, come un paese «razzista colpevole di atti di
genocidio nei confronti del popolo palestinese».

Nel
medesimo documento si definiva la schiavitù come «crimine contro l’umanità»
e si chiedeva agli stati occidentali, in particolare ai membri del G7 «plasmati
da secoli di razzismo», di riconoscere le proprie colpe e di scusarsene.

La
sdegnata reazione da parte di Israele e Stati Uniti (ovvero il
boicottaggio dei lavori, definito deplorevole dallo stesso Kofy Annan,
segretario generale dell’Onu) ha portato all’annacquamento del documento
finale, con i paragrafi scomodi semplicemente cancellati.

«Sarò
la voce delle vittime», disse nel 1997 appena nominata responsabile
dell’UNHCHR. Ed ora Mary Robinson, voce dei senza voce, paga il conto.

«Non mi
aspetto di avere rapporti facili con i governi. Questo fa parte del mio
mestiere. Un ruolo difficile che richiede un approccio globale, perché
deve mantenere un equilibrio non solo tra le diverse regioni del mondo, ma
anche nei rapporti con i governi, con i quali bisogna lavorare senza però
aver paura di denunciare, quando necessario, le violazioni dei diritti
umani. È una delle sfide del mio mandato, ma ricompensa grandemente della
fatica», disse ai giornalisti che la intervistarono nel 1997 quando vinse
il premio «Europeo dell’Anno».

Oggi
gli Stati Uniti, facendo pressione direttamente sul segretario generale
Kofi Annan, hanno ottenuto la non-riconferma della Robinson, attraverso la
formula della «rinuncia volontaria» (!).

Una
sconfitta per tutti, non solo per la signora Mary Robinson.

Ma.Pa.

Sfogliando s’impara… da
«La rabbia e l’orgoglio»


«
Lo scontro
tra noi e loro
»

Dacché
i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli esperti dell’Islam non
fanno altro che cantarmi le lodi di Maometto… Ma in nome della logica:
se questo Corano è tanto giusto e fraterno e pacifico, come la mettiamo
con la storia dell’Occhio-per-Occhio-e-Dente-per Dente? Come la mettiamo
con la faccenda del chador anzi del burkah?… Come la mettiamo con la
poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei cammelli?…
Come la mettiamo con la storia delle adultere lapidate o decapitate?…

Io non
vado a rizzare tende a La Mecca. Non vado a cantare Pateostri e Ave
Marie dinanzi alla tomba di Maometto. Non vado a fare pipì sui marmi delle
loro moschee. Tanto meno a farci la cacca… E mentre l’immagine dei due
grattacieli distrutti [di New York] si mischia all’immagine dei due Buddha
ammazzati [in Afghanistan], ora vedo anche quella, non apocalittica ma per
me simbolica, della gran tenda con cui due estati fa i mussulmani [sic]
somali (paese in gran dimestichezza con Bin Laden, la Somalia, ricordi?)
sfregiarono e smerdarono e oltraggiarono per tre mesi e mezzo piazza del
Duomo a Firenze. La mia città…

Avrà
notato, signor cavaliere [Berlusconi], che io non Le rinfaccio la Sua
ricchezza… Io non Le rinfaccio neanche il particolare di possedere tre
canali televisivi… No, no: la colpa che Le rinfaccio è un’altra. Eccola.
Ho letto che sia pure in modo grezzo e inadeguato Lei mi ha, ahimé,
preceduto sulla difesa della cultura occidentale. Ma appena le cicale di
lusso Le sono saltate alla gola, razzista-razzista, ha fatto marcia
indietro. Ha parlato o lasciato parlare di «gaffe». Ha umilmente offerto
ai figli di Allah le Sue scuse. Ha inghiottito l’affronto del loro rifiuto.
Ha subìto senza fiatare le ipocrite rampogne dei Suoi colleghi europei
nonché la scapaccionata di Blair. Insomma s’è preso paura… Ammenoché,
signor cavaliere, Lei non si sia rimangiato la giusta difesa della nostra
cultura…

Oriana
Fallaci, «La rabbia e l’orgoglio», Rizzoli, Milano 2001, passim

Maurizio Pagliassotti




Lettere


Mosca:
dialogo tra

ortodossi e
cattolici

 Egregio
direttore,

quanto
fu affermato da Aleksej Uminskij, prete ortodosso a Mosca, su Missioni
Consolata di marzo 2001, è in contrasto con gli orientamenti del
patriarcato di Mosca. Allego un’intervista ad Ilarion Alfeev del
patriarcato.

Ho
scritto a padre Aleksej, ma la lettera è tornata indietro, perché è un
emerito sconosciuto… Tentate anche voi la rinascita della chiesa
cattolica del beato Leonida Fedorov, esarca bizantino russo.

don
Vito Tedeschi
,

Carife (AV)

 Nel
luglio del 2000 padre Ilarion Alfeev disse che la chiesa ortodossa russa
intende continuare il dialogo con quella cattolica. Ci auguriamo che sia
vero, nonostante qualche passo indietro (anche recente).


 


Pigmei,
come

le scimmie

 Cari
missionari,

per
continuare il discorso sulla Repubblica Centrafricana (Missioni Consolata,
gennaio 2002), aggiungo che nel paese vi sono altre persone che pagano un
tributo ancora più alto di quello denunciato: sono gli aka, un gruppo del
popolo pigmeo.

Autori
di abusi e discriminazioni non sono solo i bianchi, ma anche i neri.
Contro gli aka delle selve centrafricane congiurano un po’ tutti, perché
le foreste fanno gola a tanti, perché tante sono le ricchezze: dal legname
pregiato ai diamanti, dai principi terapeutici contenuti in radici, foglie
e cortecce agli animali; ad esempio, gli elefanti alimentano il traffico
dell’avorio, dei trofei, della bushmeat (selvaggina, che coinvolge pure
africani immigrati in Europa).

Se le
donne del Centrafrica sono vittime di una mentalità maschilista, quelle
aka lo sono di più, perché, per le etnie dominanti, gli aka non sono
esseri umani, come non lo sono i baka e bambuti che vivono in Camerun,
Gabon e nei due Congo.

Se
prostituzione, droga e alcornol sono piaghe per tutti, per i pigmei lo sono
maggiormente, perché la loro semplicità li rende più vulnerabili alle
insidie di chi, col pretesto della civiltà, vuole la loro rovina.

Se per
decine di milioni di africani l’accesso ai farmaci contro Aids,
tubercolosi, oncocercosi, meningiti e lebbra è difficile, per i pigmei lo
è maggiormente; infatti, per molti bantu, la morte di un pigmeo equivale a
quella di una scimmia. «Il primo uomo della nostra tribù – disse un pigmeo
ad un antropologo giunto nella foresta dell’Oubangui/Chari negli anni ’20
– nacque da una cagna, che partorì sotto le bastonate di un negro, suo
padrone».


Leggendo resoconti di missionari e volontari, mi pare che si sia fatto
poco per aiutare i pigmei a superare il loro senso di inferiorità e molto,
invece, per aumentarlo: persone, fiumi e foreste sono alla mercé di
devastatori e depravati.

Ha
ragione chi ritiene l’Aids un castigo di Dio? Non lo so. Ma so che, se
Aids e altre patologie letali (provocate dal virus Marburg o Ebola)
possono tanto, è anche perché alcuni uomini hanno osato molto
nell’alterare sia gli ecosistemi forestali (un tempo vergini) sia i
rapporti interpersonali.

Quanto
queste due realtà siano correlate è confermato anche da Richard Preston,
che inizia il libro Area di contagio con una storia di promiscuità,
consumata in un ambiente naturale… particolare, dal quale razionalità e
buon senso suggerivano di stare alla larga.


Francesco Rondina
,

Fano (PS)

 


Siamo grati al lettore di aver continuato il discorso sul Centrafrica,
portando alla ribalta anche i pigmei… A quelli della repubblica
democratica del Congo abbiamo dedicato recentemente due articoli (M C,
dicembre 2000; aprile 2001).

 



 Il «post scriptum»

 Spettabile
redazione,

mi
permetto di criticare il post scriptum dell’editoriale di febbraio 2002.
Alcuni dati, relativi allo stipendio e ai privilegi dei parlamentari, si
basano su una «bufala» che sta circolando da mesi su internet. Si possono
trovare molti dettagli a questa pagina: www.attivissimo.net/antibufala/stipendiparlamentari/htm

Con
questo non voglio negare che i nostri deputati guadagnino troppo o che non
abbiano troppi favori. Ma è giusto essere corretti e documentati.

don
Federico Cretti

(via
e-mail)

 


Era quanto si augurava l’autore dell’editoriale, il cui post scriptum era
uno sfogo.

 

 E
chi replica?

 Spettabile
redazione,

trovo
sconcertante che pubblichiate le «voci islamiche sul nuovo scenario
mondiale» (Missioni Consolata, dicembre 2001), senza un commento. Se è
possibile esprimere la propria opinione, è pure doveroso osservare come
essa sia confutata dalla realtà sotto gli occhi di tutti.

p
Stragi negli Stati Uniti: le folle arabo-palestinesi (e pakistane) hanno
dimostrato, con canti e balli, la loro approvazione agli attentati dell’11
settembre e alle folli missioni dei kamikaze.

p
Cristiani in paesi islamici: in quasi tutte le nazioni i cristiani sono
sottoposti a limitazioni, che vanno dal «semplice» impedimento fino
all’arresto e pena di morte per la professione di fede (non risulta che in
Occidente una legge dello stato punisca chi è di altra religione!).

p
Questione femminile: la frase «la donna ha grande dignità nella società
islamica» è smentita dalla realtà (adultere lapidate, donne sottoposte a
divieto di studiare e farsi curare, mogli e figlie dipendenti dalla
volontà insindacabile dell’uomo, ecc.).

Il
vostro compiacimento solleva dubbi su ciò che vi anima: compiacimento nel
dare largo spazio a opinioni antidemocratiche, antifemministe, reazionarie,
nostalgie di un mondo premoderno, tribale e feroce, senza concedere
analogo spazio a precisazioni e doverose confutazioni.

Il
cristianesimo ha il merito di aver permesso all’occidente la conquista più
grande: una società dove, pur tra disuguaglianze e mali, nessuno è ucciso
per le sue idee politico-religiose; dove la donna ha acquisito pari
diritti e dove c’è netta separazione tra religione e stato; dove è
permesso il dissenso, che si esprime nel voto e nel manifestare le proprie
opinioni. Non è così nei paesi arabo-islamici, che nutrono rancore, misto
ad invidia, verso il mondo moderno.

Silvia
Novarese
,

Torino

 



Riteniamo di avere risposto alla sua lettera, commentando quella di
Maurizio Altemani e una «lettera firmata» (MC, marzo 2002; aprile 2002).


Circa la «condizione femminile», il dossier di questo mese ci pare
eloquente.

  



Spaventevoli errori


 Gentile direttore,

sul
numero di gennaio 2002 Cinzia Vaccaneo, di Torino, ritorna sulla mia
lettera, che ho riletto e che, tolti due punti di sarcasmo, riconfermo.

Le
distanze sono al momento incolmabili: quando un’economista scrive che «spesso
le nuove aziende non nascono per dare nuovi posti di lavoro, ma per creare
nuovi ricchi», vuol dire che la malattia che v’ha preso e spargete a piene
mani è molto grave. Non altrimenti potrebbe spiegarsi come e perché, a
confronto di molte vostre tesi, Bertinotti appaia un tranquillo signore
con idee un po’ blasé.

Allora
non ha senso parlare, perché siamo su pianeti diversi; meglio tacere e
attendere. Molto meglio meditare con calma. Pacatezza ci vuole, che non
sussiste scrivendo sulla posta di un giornale o parlando in tivù, essendo
ognuno troppo preso dall’assillo di vincere il duello.


Ricordando certi vostri commenti sui fatti di Genova, allego «Profezie di
Genova», che cominciai un anno fa, presago e sicuro di quel che sarebbe
successo a luglio.

Da una
vita sono circondato da «compagni»… Ho la presunzione di conoscere bene
il vostro sentire, da dove viene, come è penetrato e s’è fatto forte, su
quali equivoci poggia. Ma conservo verso i vostri spaventevoli errori
tutta l’umanità e civile comprensione. Il mio prossimo lavoro metterà a
fuoco il rapporto tra comunismo e cattolici. Missioni Consolata mi è
indispensabile.

Saluti
e salute.


Luigi
Fressoia
,

Perugia

 


Salute pure a lei e grazie per «l’umanità e civile comprensione» verso i
nostri «spaventevoli errori». A proposito, forse ne ha commesso uno anche
lei, non spaventevole come i nostri: la citazione dell’economista Vaccaneo,
staccata dal contesto della lettera, ne inficia il pensiero.


Intanto continuiamo a pubblicare le sue lettere critiche, come quella nel
dossier di aprile.

 

 


I
benpensanti

che fanno?

 Cara
Missioni Consolata, non mollare! Trovo intrisi di valori cristiani, cioè
rispondenti a quanto dice Gesù, i tuoi articoli e le sagaci risposte a chi
ti accusa di essere una rivista fatta da «miscredenti»!


Criticare le multinazionali o il governo americano crea nemici, perché la
gente si aggrappa disperatamente a ciò che ha: teme che chi non ha niente
glielo possa togliere. E dire questo dà molto fastidio. Perciò ci si
trincera dietro l’essere dei «benpensanti»… che ben pensano, appunto, ma
niente fanno, arroccati nei propri averi e incattiviti contro chi fa loro
notare l’evidente ingiustizia.

Cara
rivista, un’altra cosa apprezzo molto di te (che non mi aspettavo essendo
tu cattolica): è il rispetto per le altre religioni. Anche per questa tua
mancanza di «evangelizzazione» alcuni ti criticano, come se si dovesse
aiutare il prossimo in cambio della sua conversione! Il tempo delle
crociate, di cui anche il papa si è scusato, è ancora vicino per troppi!

Che
cosa dovrebbe essere, allora, la solidarietà? Aiutare il prossimo, perché
non è giusto che chi ha avuto la fortuna di nascere nel ricco occidente
diventi sempre più opulento sulle spalle di chi vive in altre parti del
mondo. So che è brutto sentirselo dire. Ma sappiamo tutti che, se possiamo
avere il videoregistratore o la lavastoviglie, è perché in uno sperduto
villaggio africano qualcuno si fa a piedi decine di chilometri al giorno
per avere una tanica d’acqua e… prendersi il tifo o l’epatite, da cui
non può guarire perché non ha soldi: soldi, invece, che noi usiamo contro
la caduta dei capelli o smagliature.

Non è
giusto che la maggioranza delle persone si ammazzi di fatica per
sopravvivere (non dico «vivere»), mentre qui si parla di fitness e
cellulite, mentre si porta il cane a limarsi le unghie! E magari avendo
pure l’insolenza di pensare che la nostra religione (che è pure la mia e
mi ha fatto conoscere tanti valori inopinabili) sia migliore delle altre.
Questo è un pretesto per lavarsi i sensi di colpa.

Cara
rivista, accanto ai cattolici benpensanti che ti rifiutano, hai anche una
«non molto cattolica» che ti apprezza molto.

dott.
Silvana Rocchetti
,

Milano

  



Dalla città della Fiat

 Caro
direttore,

sono
abbonata a Missioni Consolata da molti anni. I suoi articoli fanno
riflettere. Commento la lettera «Lo struzzo e noi», di Teresa C. Frigieri
di Maranello (settembre 2001).

Abito a
Torino, la città della Fiat… che in questi tempi licenzia, non
apertamente, ma con prepensionamenti, cassa integrazione, mobilità e
mancato rinnovo dei contratti ai semestrali. Quante situazioni gravi in
questa parte d’Italia! C’è anche chi, sfiduciato, si è tolto la vita per
avere perso il posto di lavoro… Quando penso agli stipendi dei piloti di
Formula uno (e dei calciatori) e al costo dei loro bolidi (che durano così
poco), mi sento un pugno nello stomaco.

La
lettera della signora Teresa mi suggerisce l’interrogativo: è necessario
essere nel benessere per, poi, aiutare i poveri sfruttati? Non è più
giusto dare a ciascuno il giusto guadagno e permettergli di terminare la
carriera lavorativa?

Quanto
al parroco di Maranello, lodato dalla signora, che conosco solo per il
suono delle campane, mi augurerei che non dimenticasse quanto scritto dal
signor Rondina (MC, aprile 2001).


Giovanna Isacco
,

Torino

  



Più fiducia nel bene

 

Le
lettere di qualche abbonato sono come grida disperate: come se, dopo avere
dato tutto, non si ricevesse nulla… Bisogna avere più fiducia nel fare
il bene; credere che è l’unica soluzione per togliere le ingiustizie e
creare una democrazia. «Non c’è bene che non si faccia!» dice uno
scrittore tedesco.

Solo
con il buon esempio riusciremo ad educare; il resto lo dobbiamo accettare…
Durante una predica ho sentito che un vero cattolico va contro corrente e
io mi chiedo se abbiamo la forza necessaria… Vorrei che qualche lettore
conoscesse i missionari della Consolata un po’ più dal vero, per andare
contro corrente.

Flavio
Azzolini
,

Berlino (Germania)

  


Una figlia mi ha suggerito
l’abbonamento alla vostra rivista. Ora vi dico grazie.


Con i miei 85 anni, le
relazioni si sono ridotte all’osso; mi resterebbe la televisione, ma sto
imparando a fae a meno, tanto mi disgusta. Così il mio sguardo sul mondo
passa attraverso la vostra bella rivista. Non sono andata molto a scuola (però
ho fatto laureare i miei tre figli); così apprezzo la semplicità con cui
scrivete, le belle fotografie e, soprattutto, la carità con cui trattate
tutti gli uomini e le donne del mondo.


Un materno abbraccio a lei,
caro direttore, e a tutta la redazione.


Pia Montebelisciani


Fermo (AP)


 

Signora
Pia, ricambiamo confusi l’abbraccio… e riproduciamo in «
verde»
la sua lettera, perché ci carica di speranza.

Da noi
tutti grazie.

 

Pro e Contro una lettera



Ma nessuno è imbecille

In
merito alla lettera «Chi è imbecille?» e relativa risposta (Missioni
Consolata, febbraio 2002), esprimo due considerazioni.


L’autore indubbiamente è andato oltre le righe. È però evidente che il suo
limite di sopportazione, di fronte al dilagante masochismo (in ogni
aspetto della vita) e all’appannamento dell’identità cristiana, tesa forse
a capire più le altre identità che la propria, palesa una abbondante
saturazione. La lettera ha posto sul tappeto problemi non indifferenti, di
fronte a generale malessere ed apprensione.

La
risposta non fa onore al direttore, che si è defilato con battute di
dubbio gusto e che, forse, appaiono impertinenti. Che ne sa lui di chi fa
le offerte?… E sorridere sulle scuse (non dei mea culpa) del papa non mi
sembra tanto disdicevole, se penso alle strumentalizzazioni che sulle
stesse si sono imbastite e che, pure recentemente, dal rabbino capo di
Roma continuano ad essere oggetto di biasimo.

Luisa
Milani – Roma

 


I missionari ricevono offerte da chi è «povero davanti a Dio». Se tale
affermazione è stata impertinente, ce ne scusiamo… Mutatis mutandis
anche Giovanni Paolo II ha riconosciuto gli errori dei cristiani e della
chiesa e ha chiesto scusa. Il gesto non è stato gradito da alcuni, che
hanno «sorriso» o strumentalizzato il fatto. A noi non piacciono né i
sorrisi né le strumentalizzazioni.


Riteniamo «verbale» la distinzione tra «mea culpa» e «scusa»: infatti
entrambe, per essere salutari, esigono un comportamento diverso rispetto
al passato. È ciò che più conta.


Psicologicamente la «saturazione» è comprensibile; ma non lo è nello
spirito evangelico, soprattutto se diventa ritorsione. È necessario
credere nel dialogo. Il papa afferma: «Il modo appropriato e più consono
al vangelo, per affrontare i problemi che possono nascere nei rapporti tra
popoli, religioni e culture, è quello di un paziente, fermo quanto
rispettoso dialogo».

La
lettera dell’«imbecille» è vergognosa. L’autore offende il direttore della
rivista «sapendo che, da bravo prete, cestinerà schifato» il suo scritto;
ma si vanta di essere nipote di un grande prete, di avere una sorella e
una figlia missionarie.

Signor
direttore, lei ha avuto la discrezione di non rivelare il nome del
mittente… altrimenti zio, sorella e figlia arrossirebbero di vergogna;
se defunti, certamente si rivoltano nella tomba di fronte agli
sragionamenti del loro parente.

Carlo
Mannino – Brindisi

 


Signor Carlo, non cada in trappola usando gli stessi toni dell’«imbecille».
Anche perché nessuno lo è del tutto.

 

 Apprezzo
Missioni Consolata fin dal 1955. Caro direttore, continui così, con una
rivista sempre più ben fatta e ricca di articoli documentati, con
informazioni pacate ed obiettive, che consentano ai lettori di
controbilanciare una «civiltà» basata solo sull’apparenza, sui sondaggi e
sulla ricchezza.

Un
plauso anche per essere diventati Missioni Consolata Onlus; così le
offerte ai missionari si possono detrarre nella denuncia dei redditi.

Da
ultimo, un commento alla lettera «Chi è imbecille?». Mi sembra che
l’autore ritenga che la storia si sia fermata all’Antico Testamento… con
l’osservanza formale della legge. Egli forse dimentica che sono passati
2000 anni da quando un certo Gesù ha insegnato e dimostrato con la vita
che ciò che conta è amare Dio e i fratelli.


Riccardo Cignetti – Caluso (TO)

 

Solidarietà,
solidarietà, solidarietà a lei, direttore, e «pollice giù» verso «Chi è
imbecille?». L’autore ha tanti missionari in famiglia e vi attacca
duramente. Io ne ho uno solo e faccio parte di un gruppo di azione
missionaria.

Insegno
anche italiano ai giovani extracomunitari che arrivano in città privi di
tutto, persino di manifestare il desiderio di condizioni di vita più umane
rispetto a quelle che hanno lasciato. Senza retorica, la gioia che provo
con questi ragazzi, la ricchezza che mi danno sono difficilmente
raccontabili. La scorsa lezione eravamo 13, di 13 nazioni e 4 continenti.


Religione? Non chiedo mai quale sia la loro. Ci sono anche Rachid e Adel:
durante lo scorso ramadan, al tramonto, mi hanno chiesto con esitazione di
uscire un attimo per mandar giù un boccone.

Anche a
nome dei miei amici immigrati, non le dico «resista, resista, resista»,
perché potrebbe sembrare partigiano. Dico semplicemente «grazie!».

Rita
Viozzi – Ancona

 

Penso
che Missioni Consolata sia sempre un appuntamento con l’umanità. Ogni
numero porta con sé un carico di  gioia e dolore, di speranza e angoscia
che allarga gli orizzonti e va oltre i soliti circuiti di notizie: le
patinate serie di ovvietà e le ciniche ricerche di questa o quella verità
cui, i media «tradizionali» ci hanno abituato.

Non ci
sono giudizi, sentenze, né posizioni integraliste nei vostri articoli, ma
piccole-grandi storie, che possono essere definite «micromodelli di
universalità»: parlano di persone e fanno parlare le persone.

Uno dei
vostri pregi è quello di rendere ordinaria (non occasionale) la voce dei
semplici, di coloro che non hanno spazio nei network, senza per questo
costruire barricate ideologiche contro ricchi e potenti. I paradigmi
conflittuali non vi appartengono e chi li intravvede ha forse gli occhi
appannati.

La
scelta dei semplici non è ideologia. Ricordarlo è un dovere della
comunità-umanità cristiana.

Amici,
andate avanti così…


Gianmarco Machiorlatti

Albano
(RM)

 


Il signor Gianmarco termina con la seguente citazione: «Le giornie e le
speranze, i dolori e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti quelli che soffrono, sono pure le giornie e le
speranze, i dolori e le angosce dei discepoli di Cristo» (Gaudium et Spes,
1).


Straordinario!

 

 


Il buon
samaritano



non
è… comunista

 Su
Missioni Consolata di gennaio 2002 leggo con amaro disappunto la lettera
di Giancarlo Telloli, che strumentalizza in chiave marxista la parabola
del buon samaritano. Il direttore, sempre compiacente in questi casi,
avrebbe dovuto avere il buon senso di non pubblicarla o farla seguire dal
commento di un sacerdote preparato, che chiarisse la portata spirituale e
temporale della parabola ben diversa da quanto scritto, che offende Nostro
Signore e ogni credente.

Il
signor Telloli ignora la storia (o finge di farlo). I comunisti Lenin,
Stalin, Mao, Pol Pot, Milosevich… hanno tanto «amato» il prossimo da
causare decine di milioni di vittime con i campi di concentramento e di «rieducazione»
(iniziati da Lenin nel 1918, e continuati da Stalin e da emulatori), lo
sterminio di intere popolazioni, le fosse comuni, le deportazioni in
Siberia (anche di sacerdoti e credenti), ecc. Esistono molteplici prove
storiche inoppugnabili: basti pensare ad Arcipelago Gulag di A. Solzenicyn,
alle opere dello studioso di statistica I. Kurgemov e ai documenti di
molti altri.

Mi
fermo per non stimolare l’autornironia del direttore, che, alle domande dei
lettori che inchiodano vescovi, preti e fanatici o interessati esaltatori
del marxismo, non risponde mai.

Dove
vuole arrivare? Ad una chiesa come quella di stato cinese o quella
ortodossa di Mosca del periodo comunista? Diventare così funzionari di
partito e di chiesa con stipendio e pensione? Siamo in molti a sperare di
meglio.

Per la
regola dell’alternanza, non sarebbe meglio che direttore e compagni
lasciassero la redazione ad altri, per andare o ritornare nelle missioni?

Con
amore per la verità

Piero
Gonella – Torino

 


Al «buon samaritano… comunista» abbiamo risposto su Missioni Consolata
di aprile. Abbiamo riflettuto un po’ sulla coerenza.


Circa il nostro giudizio su Lenin, Stalin e Mao, forse il lettore non ha
avuto modo di leggere i nostri numeri monografici su Urss e Cina (ottobre
1988 e aprile 1981). Ci siamo pure ricordati di Pol Pot (aprile 1983),
dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (dicembre 1989 e febbraio 2002)
e dell’Est europeo (marzo 1990). Né abbiamo scordato Milosevich (luglio
1999).


Ogni lettera (e sono tante) trova spazio, cui rispondiamo (talora) con
poche righe. La ragione è semplice: lo spazio è ridotto e, pertanto,
preferiamo lasciarlo il più possibile ai lettori, che tra l’altro
dimostrano di sapersi rispondere molto bene…


Pienamente d’accordo sulla «regola dell’alternanza»… E magari avessimo
autornironia! Autornironia, che il martire inglese san Tommaso Moro
(1477-1535), vittima del potere, chiedeva ogni giorno al Buon Dio come
grazia.

AAVV




INFERNO VERDE

Situata
nel cuore
della foresta tropicale,
diventata parrocchia nel 1997,
Sago presenta tutti i problemi
degli inizi; ma la cordialità della gente
incoraggia missionari e suore a raccogliee
le sfide: clima caldo umido e zanzare
in abbondanza, carenze scolastiche e sanitarie,
babele di lingue e culture, con costumi che fanno
a pugni col vangelo… E qualcosa sta cambiando.

«Sago è un villaggio avviato
a diventare città – attacca
con enfasi Raphael, capo
tradizionale e maestro della scuola
locale -. È un villaggio cosmopolita.
Buona parte della popolazione viene
dall’estero: Burkina Faso, Mali,
Guinea, Liberia, Ghana, Togo, Benin
e perfino dal Congo. Posta all’incrocio
delle strade di collegamento
a varie città della regione, e ai
villaggi minori della zona, Sago è stata
scelta come sede della sotto-prefettura
ed è destinata a diventare una
città pilota. Ma non abbiamo nulla:
il prefetto non è ancora arrivato; le
strade non sono asfaltate, non c’è elettricità,
né telefono, né acqua corrente.
Dei quattro pozzi solo due sono
in funzione».

EPPUR SI MUOVE…
Senza tante parole, basta un colpo
d’occhio per capire che Sago è un
paese scalcinato: una serie interminabile
di catapecchie di fango, col
tetto di paglia o frasche, circondato
da un mare di verde, composto da
un intrigo di liane e varie piantagioni,
su cui svettano alberi secolari. Unici
edifici in muratura sono la scuola
e la missione: chiesa, casa dei padri
e convento delle suore.
Fino al 1997, anno in cui fu istituita
la parrocchia, la missione di Sago
dipendeva da Sassandra, 60 km distante.
Una volta all’anno, un prete
ne visitava alcuni villaggi, sparsi nella
foresta per un raggio di una cinquantina
di chilometri, limitandosi a
qualche catechesi e amministrazione
dei battesimi.
Oggi la parrocchia è servita da tre
missionari africani: il kenyano Zaccaria
King’aru, parroco e superiore
del gruppo dei missionari della Consolata
in Costa d’Avorio, coadiuvato
dal congolese Victor Kota e dal
kenyano Joseph Omondi. Tutti e tre
formano una comunità affiatatissima,
in cui ho vissuto giorni indimenticabili
di frateità e amicizia.
Da due anni sono presenti anche
tre suore di s. Gemma Galgani: l’italiana
Maria Pia e le congolesi Monique
e Veronique. Benché impegnate
ancora nella costruzione del convento,
collaborano a pieno ritmo
nelle attività religiose e formative
della parrocchia e gestiscono un dispensario
che supplisce all’inefficienza
di quello governativo.
«Fino a quattro anni fa, nessuno
conosceva Sago – afferma il capo
Raphael -. Appena vi si è stabilita la
chiesa cattolica, il governo ha deciso
di sceglierlo come sede della sottoprefettura:
ora il nome di Sago appare
su tutte le cartine geografiche.
Grazie alla chiesa cattolica esso è diventato
il centro religioso a cui fanno
riferimento decine di villaggi;
presto lo diventerà anche sotto l’aspetto
amministrativo».
La costruzione della chiesa e la
promozione del villaggio a sotto-prefettura
aveva innescato una serie di iniziative
destinate a cambiare il volto
del luogo: fu spianato il terreno e
scavate le fondamenta della sede amministrativa;
ma tutto è stato risucchiato
da abbondante vegetazione.
Qualcuno cominciò a fare blocchi di
cemento, ben presto anneriti dalle
piogge e coperti dalle erbacce, perché
a nessuno è venuta la voglia di costruire
abitazioni in muratura.
Sotto l’aspetto religioso, invece, i
cambiamenti sono già evidenti. Oggi
la parrocchia di Sago conta oltre
2.000 fedeli, 600 dei quali battezzati
in questi anni. Le 35 comunità sparse
nella foresta si sono rianimate: la
domenica le piccole cappelle di fango
sono insufficienti a contenere i fedeli,
costretti a seguire la messa sotto
il sole. Si moltiplicano dappertutto
i catecumenati, anche se si trova
difficoltà a reperire personale idoneo
per il regolare svolgimento dei tre
anni di preparazione al battesimo.
Bisogna fare i conti col personale
disponibile. Alcuni catechisti sono
pieni di buona volontà, ma mancano
d’istruzione. «Mesi fa – racconta
padre Joseph – mandai una lettera a
una comunità per comunicare la data
della celebrazione della messa; ma
quel giorno non trovai nessuno. Domandai
al catechista se avesse ricevuto
il mio messaggio ed egli rispose
seraficamente: “Ecco la lettera,
padre; l’uomo che sa leggere è andato
ad Abidjan”».
«Un altro – aggiunge padre Zaccaria
– sa leggere, ma è poligamo incallito;
è orgoglioso del suo lavoro, anche se spesso gli dico che non è un catechista,
ma un pagano che insegna
agli altri a diventare cristiani».

FRATELLI… IN ADAMO
In compenso tutta la gente è cordialissima
e apprezza la presenza e il
lavoro dei padri e delle suore. Mentre
padre Zaccaria mi guida per le
strade del villaggio, uomini e donne,
vecchi e bambini, cristiani e musulmani
salutano da lontano o accorrono
per darmi il benvenuto, stringerci
la mano, augurarci buon giorno,
chiedere notizie o scambiare quattro
chiacchiere.
Dopo il capo tradizionale, padre
Zaccaria mi fa conoscere l’iman dei
musulmani nord-avoriani: ci accoglie
con solenne cortesia e m’invita a sedermi
su uno scanno simile a un trespolo
più che a una sedia. Preferisco
una modesta panca, per rimanere
con i piedi per terra.
«Qui niente male» esordisce l’iman
in francese stentato: vuole dire che, a
differenza di altre zone del paese, a
Sago non esistono tensioni etniche o
religiose. «Siamo tutti uguali – continua
masticando inglese, quando il
padre gli dice che vengo dall’Italia -.
Tutti discendiamo da Adamo e apparteniamo
allo stesso Dio. Non si
deve mescolare la religione con la politica.
Cristiani e musulmani dobbiamo
lavorare insieme».
Padre Zaccaria conferma le relazioni
amichevoli esistenti tra cristiani
e musulmani e continuiamo la visita
al villaggio. Non c’è molto da vedere,
ma tanto da scoprire: prima di
tutto, quanto sia lontana la parentela
in Adamo. Il paese cosmopolita è
diviso in varie zone: al centro vivono
gli autoctoni godié; attorno gli avoriani
provenienti da altre regioni del
paese; in un estremo i burkinabé, che
costituiscono la maggioranza della
popolazione; in quello opposto altri
gruppi stranieri.
«I godié – spiega padre Zaccaria –
si ritengono padroni della foresta e
lavorano poco: hanno affittato le loro
terre agli immigrati, che si dedicano
alla coltivazione di cacao, caffè,
palma da olio e altri prodotti agricoli
». A guardare le case e il tenore di
vita, non c’è alcuna differenza tra padroni
e immigrati.
Sotto l’aspetto religioso la distinzione
è palpabile: i godié sono in
maggioranza di religione tradizionale;
i musulmani sono divisi in tre o
quattro gruppi, con relativi iman e
moschee, si fa per dire, trattandosi di
costruzioni più scalcinate delle abitazioni.
Ce n’è una per gli avoriani
provenienti dal nord del paese,
un’altra per i burkinabé, altre ancora
per i differenti gruppi stranieri.
Solo i cristiani sono sparsi dappertutto,
come il lievito evangelico, destinato
a fermentare tutta la massa.
Ma le diversità linguistiche e culturali
costituiscono un’altra sfida per
l’evangelizzazione.

BABELE DI LINGUE E CULTURE
È domenica. Accompagno padre
Victor nella comunità di Chartier, a
una ventina di chilometri dal centro.
Alle nove inizia la messa. Il padre mi
presenta alla piccola comunità, parlando
in francese; i catechisti Alfonso
e Beard traducono rispettivamente
in godié, per i fedeli locali, e in
moré, per quelli del Burkina Faso. La
celebrazione procede con lo stesso
ritmo per quasi tre ore: letture, omelia
e avvisi finali in tre lingue; gli
stessi idiomi si alternano nei canti.
Alle 12 ci sediamo davanti a un
pentolone di riso e un tegamino di
salsa e pesce, insieme ai responsabili
della comunità: una dozzina di uomini
e due donne. L’atmosfera è cordialissima.
Si ride e si scherza. Mi
sforzo di sorridere anche quando
non capisco. Ma non posso fare a
meno di ammirare e ringraziare la
gentilezza della gente, quando mi
viene offerto un bel gallo ruspante,
come segno di ospitalità.
«Le due signore sedute assieme a
noi sono godié – mi bisbiglia a un certo
punto padre Victor, per farmi notare
un dettaglio culturale -. Le donne
del Burkina, invece, dopo aver
servito cibo e bevande, sono scomparse
per mangiare tra di loro. Ciò
avviene anche il giorno delle nozze
dei burkinabé: lo sposo mangia e beve
con gli amici; la sposa fa festa insieme
alle altre donne: è il risultato
dell’influsso che l’islam ha esercitato
per secoli in quel paese, ma non
ancora penetrato nella società avoriana».

COSTRUIRE LA FAMIGLIA
Per costruire l’unità della famiglia,
i missionari insistono che genitori e
figli mangino insieme. A forza di battere,
qualcosa sembra cambiare, come
posso constatare a Bobodou, una
piccola comunità a 25 km da Sago,
dove si celebra il matrimonio di tre
coppie burkinabé: al momento del
pranzo, sposi e spose mangiano alla
stessa mensa. Padre Zaccaria gongola
di gioia, anche se le mogli sembravano
sedere sulle spine. A renderlo
ancora più felice è il matrimonio
del catechista. «È
la prima volta che
due giovani vengono
all’altare direttamente
dalle proprie case,
senza previa coabitazione
e prole appresso» mi confida.
Formare famiglie
cristiane, una sfida in
tutta l’Africa, è una
priorità per i tre missionari,
che sfruttano
ogni occasione a tale
scopo. Così, le coppie
regolarmente sposate
con rito cristiano della
comunità di Sago,
appena una dozzina,
diventano centro di
attenzione nella festa
della Famiglia di Nazaret,
la domenica
dopo natale: ben vestiti
e fiori all’occhiello,
gli sposi entrano in chiesa in processione
e si siedono in prima fila;
dopo l’omelia ogni coppia si scambia
anelli e promesse di amore e fedeltà,
come il giorno delle nozze, tra
gli applausi dei presenti.
Anche dopo la messa si continua a
celebrare: la comunità ha preparato
il pranzo per tutti i membri delle famiglie
festeggiate e si prosegue sino
a tardo pomeriggio con giochi, canti
e danze. Finalmente anche le donne
burkinabé si sbloccano, improvvisando
danze tradizionali, in cui
perfino suor Maria Pia azzarda qualche
piroetta.

CAPRETTI «A DUE ZAMPE»
«Siamo in un ambiente di prima evangelizzazione
», afferma padre Victor.
«Anzi, di pre-evangelizzazione –
incalza padre Joseph sorridendo -,
almeno per quanto riguarda la popolazione
locale».
La maggior parte dei cattolici e catecumeni
della missione di Sago, infatti,
sono di origine burkinabé; mentre
gli autoctoni, pur simpatizzando
per la chiesa, sono lenti ad abbracciare
i valori del vangelo. A frenarli è
un groviglio di superstizioni che sfocia
in sacrifici umani, offerti agli spiriti
della foresta per placarne l’ira o
attirae i favori a beneficio della comunità
o del singolo individuo.
Quando Sago fu promossa sottoprefettura,
la gente iniziò a sognare
strade asfaltate, elettricità, telefono…
e gli anziani dissero che, prima di avviare
tali progetti, bisognava fare sacrifici
agli spiriti. E si sentì raccontare
di scomparse misteriose. Padre
Flavio Pante, allora parroco di Sago,
e padre Zaccaria tuonarono dentro e
fuori della chiesa.
A innescare la reazione dei missionari
fu anche l’avventura di Rebecca,
una gemellina cristiana di 4 anni, vittima
designata per favorire il successo
di un commerciante. La bimba fu
rapita da uno sconosciuto; ma la tempestività
della ricerca da parte di parenti
e vicini non diede tempo al rapitore
di allontanarsi e permise alla
bambina di approfittare del trambusto
per fuggire e tornare in braccio a
sua madre.
Pochi giorni dopo, lo sconosciuto
era seduto al chiosco gestito dalla
madre di Rebecca per consumare alcune
frittelle; la bambina cominciò a
strillare: «Mamma, è quello l’uomo».
Il cliente non capiva la lingua della
bimba e la madre ebbe tutto il tempo
per farlo arrestare; ma, portato in
tribunale, il rapitore fu assolto per
mancanza di testimoni.
Per vari mesi non si registrarono altre
scomparse. L’estate scorsa, dopo
che padre Flavio ebbe lasciato Sago,
gli anziani tornarono alla carica. «Ho
avuto in mano la lista di 40 giovani,
di vari villaggi, candidati al sacrificio
– racconta padre Zaccaria -. Dodici di
essi erano di Sago. Sono fuggiti per
scampare al pericolo. Appena avuto
sentore di ciò che si stava macchinando,
abbiamo ripreso a martellare
tutte le comunità. Ora non si sente
più parlare di questo barbaro costume.
Ma fino a quando?».
La pressione sociale e culturale degli
anziani, custodi accaniti delle tradizioni,
è così forte che anche i cristiani
stentano a scrollarsi di dosso tale
mentalità. «La prima volta che il
vescovo venne a Sago per le cresime
– continua padre Zaccaria – uno dei
fedeli gli domandò come dovesse
comportarsi un cristiano di fronte al
sacrificio del capretto. E si sforzava
di chiarire il suo pensiero, finché il vescovo
disse: “Ho capito, ho capito!
Parli d’un capretto a due zampe”».
Nel marzo del 1993, a Béoumi, nella
regione natale del presidente Boigny,
il 55enne missionario francese
Adrien Jeanne fu trovato morto con
la gola squarciata: gesto rituale dei sacrifici
umani. Corse voce che il delitto
fosse legato alla salute del presidente,
ormai spacciato da un tumore:
uno stregone avrebbe sentenziato
che solo il sangue di un uomo bianco
e vergine avrebbe potuto salvare
la vita al presidente.
Inutile ricordare che il presidente
morì lo stesso anno. Tuttavia la diceria
dimostra che, nonostante tali fatti
siano condannati dalla legge come
crimini, la mentalità è radicata su
scala nazionale, nella polizia e nelle
istituzioni che dovrebbero difendere
la vita, fino ai livelli più alti della
società avoriana.

PARTIRE DAI GIOVANI
Cosa fare per liberare la gente da
paura, superstizione, magia e altri elementi
culturali negativi?
I missionari s’interrogano e propongono
qualche priorità. «Bisogna
cominciare dai giovani: sono loro il
futuro della chiesa e del paese» afferma
padre Victor, incaricato della
formazione giovanile in tutta la parrocchia.
«Fin dai primi incontri nelle
comunità e nei raduni qui al centro
– racconta il padre – ho incontrato
difficoltà enormi: moltissimi
giovani non sanno né leggere né scrivere.
Ho deciso di cominciare da zero,
dalle cose più semplici, coniugando
formazione religiosa e alfabetizzazione».
Le statistiche riportano che il 60%
della popolazione della Costa d’Avorio
è analfabeta. La percentuale è
ancora più elevata nelle zone rurali
come Sago, dove esiste solo la scuola
elementare per 300 alunni, mentre
la maggioranza dei bambini sono
abbandonati a se stessi o costretti a
lavorare nelle piantagioni.
Per chi volesse continuare gli studi,
la scuola secondaria più vicina è
a Sassandra, 60 km da Sago. Quei
pochi che tentano l’avventura, tornano
a casa frustrati, poiché a Sassandra
non ci sono possibilità di alloggio
né famiglie disposte ad assumersi
la responsabilità di seguire i
giovani studenti.
«Ormai speriamo solo nella chiesa;
il governo promette molto, ma non
realizza niente» confessa il capo
Raphael e, rivolgendosi a me, continua:
«Ti prego perché, come esponente
della stampa, faccia conoscere
in Europa le nostre necessità e inviti
i superiori del tuo istituto a pensare a
una scuola cattolica qui a Sago. È vitale
per il nostro futuro: i quadri esistenti
qui e a livello nazionale, io
compreso, provengono tutti da scuole
cattoliche».
Padre Zaccaria sorride sotto i baffi
e mi fa una strizzatina d’occhio:
promettiamo tutti e due di fare il
possibile per mantenere vivo tale sogno
e di pregare perché possa presto
realizzarsi.
Intanto, padri e suore continuano
a soddisfare speranze più modeste:
nel centro e in varie cappelle hanno
già organizzato corsi di alfabetizzazione
per giovani e adulti; tra qualche
mese, quando sarà terminata la
costruzione del convento, alcune
sale a pianterreno accoglieranno i
bambini dell’asilo. Sono iniziative
rasoterra, ma indispensabili
per volare un po’ più
alto.

Benedetto Bellesi




altri «trentatre»

Il 2001 ha portato con sé un terribile bagaglio di violenza
e disprezzo verso l’uomo e verso Dio. È stato l’anno
dell’attacco alle Torri Gemelle, della campagna militare in
Afghanistan, delle violenze fondamentaliste in Pakistan,
Nigeria, Indonesia, India. I faeticanti messaggi di Bin Laden, che assaporavano come un gioco la distruzione dell’altro, rischiano di essere l’immagine dominante di questo inizio di millennio…
La lista dei martiri cattolici che presentiamo va controcorrente. Per motivi contingenti non abbiamo aggiunto ad essa i 16 protestanti uccisi a Bahawalpur (Pakistan), le
centinaia di uccisi a Jos e Kano in Nigeria, i trucidati nelle Molucche o nelle città palestinesi. La lista è sempre stilata per difetto. I 33 nomi che riportiamo sono i rappresentanti di un lungo esercito dell’Agnello, che in tutto il mondo sono pronti a dare la vita per il loro Signore e per gli uomini.
I mesi trascorsi (con le rovine fumanti di «Ground Zero
») ci hanno messo sotto gli occhi la capacità dell’uomo
di uccidere sé e gli altri, magari in nome di Dio. I 33 che
presentiamo (sacerdoti, suore, seminaristi e laici) sono invece morti in nome di Dio, ma per donare la vita. Erano
andati in missione per predicare il vangelo, edificare comunità, aiutare giovani, difendere i diritti umani. Il loro slancio d’amore è stato apparentemente stroncato. La maggior parte di loro sono morti proprio a causa del fondamentalismo religioso o etnico.
Alcuni di loro sono morti per «cause banali»: rapina,
furto. Ma spesso l’apparenza nasconde motivi più profondi.
Per esempio: suor Barbara Ann Ford, americana, lavorava
in difesa degli indios ed era stata stretta collaboratrice
di Juan Gerardi, vescovo guatemalteco assassinato
3 anni fa; padre Ettore Cunial, italiano, cercava di strappare i giovani alla mafia albanese, per salvarli dal commercio di droga e organi. Anche questo è un fatto che segna una tendenza.
Fino a 10-15 anni fa i missionari erano amati per essere
i rappresentanti di valori spirituali. Oggi si vede in essi
solo prede inermi, facili da colpire, perché (si sa) non
portano armi e non rispondono con la vendetta.
In tutto il mondo, anche in Irlanda o negli Stati Uniti, vi
è un oscuramento dell’orizzonte spirituale, una crescita di
materialismo che vede le persone come oggetti da spogliare,
strumenti di possesso.
I l fondamentalismo religioso e il fondamentalismo del
possesso sono le cause profonde del martirologio di
quest’anno. A differenza della morte di un giornalista, un
capo di stato o un terrorista, l’uccisione di questi martiri
non suscita scalpore. Ma essi sono come l’humus della
terra: non lo si nota, ma rende fecondo il campo per nuove
semine e raccolti.
La loro cocciutaggine, nel voler vivere e morire per amore
di Gesù fra le piaghe del pianeta, sostiene la speranza
anche per il 2002.
Questi martiri sono il segno che l’amore è possibile e
che la terra appartiene a Cristo, non alla violenza e al terrore.

MARTIROLOGIO DELL’ANNO 2001
1. Sr. Dionitia Mary (indiana) India – 21/1
2. P. Pietro De Franceschi (italiano) Mozambico -1/2
3. P. Tom Manjaly (indiano) India – 2/2
4. P. Nazareno Lanciotti (italiano) Brasile – 21/2
5. P. Jan Franzkevic (polacco) Siberia – 15/4
6. Sr. Barbara Ann Ford (Usa) Guatemala – 5/5
7. P. Raymond M. Gamach (canadese) Perù – 7/5
8. P. Raphael Paliakara (indiano) India -15/5
9. P. Andreas Kindo (indiano) India -15/5
10. Sem. Joseph Shinu (indiano) India – 15/5
11. P. Henryk Dejneka (polacco) Camerun – 17/5
12. Sr. Claire (burundese) Burundi – 11/6
13. P. Leonardo Alzate (colombiano) Colombia – 14/6
14. P. Martin Royackers (canadese) Giamaica – 21/6
15. P. Fabian Thom (australiano) Papua NG -16/8
16. P. Galeano Buitrago (colombiano) Colombia – 27/8
17. P. Emil Jouret (belga) R.D.Congo – 28/8
18. P. Rufus Halley (irlandese) Filippine – 29/8
19. P. Héctor Fabio Vélez (colombiano) Colombia – 2/9
20. P. John Baptist Crasta (indiano) India – 6/9
21. Vol. Giuliano Berizzi (italiano) Rwanda – 6/10
22. P. Ettore Cunial (italiano) Albania – 8/10
23. P. Eesto Martearena (argentino) Argentina – 8/10
24. P. Gopal (indiano) India – 12/10
25. P. Celestino Digiovambattista (ital.) Burkina F. – 13/10
26. Sr. Lita Castillo (peruviana) Cile – 29/10
27. P. Simeon Coly (senegalese) Senegal – 7/11
28. P. Hubert Hofmans (olandese) Papua N. G. – 23/11
29. P. Peter Obore(sudanese) Uganda – 24/11
30. Sarita Toppo (indiano) India – 28/11
31. P. Michele D’Annucci (italiano) Sudafrica – 8/12
32. P. Michael Mac (Usa) USA – 8/12
33. Sr. Philomena Lyons (irlandese) Irlanda – 15/12
(Fonte: «Fides»)

Beardo Cervellera




Lettere


Anna, 98
anni…

la vostra
rivista, letta in famiglia da moltissimi anni, è sempre graditissima. La
mamma Anna, di 98 anni, fisicamente invalida, ma lucidissima, vi legge
tutti i mesi e prega…

Ci piace
il vostro dialogo e la vostra apertura: date spazio a tutti con rispetto e
comprensione, ma senza connivenza.

Alberta
Popoli, Parma

Signora
Alberta, chieda a mamma Anna di pregare un po’ anche per noi.


Chi è
imbecille?

sono
nauseato dalla rivista, la quale potrebbe anche essere buona se non fosse
che, da anni, è diventata odiatrice dell’occidente ricco. È ora che la
smettiate di seminare odio e vi decidiate a dire chiaro che i popoli
dell’Africa, indipendenti da molti anni, e del Sudamerica devono
rimboccarsi le maniche e tirarsi fuori dalla melma in cui li costringono i
loro governanti.

Queste
nazioni stavano meglio quando erano colonie «sfruttate». Logicamente,
oltre a rimboccarsi le maniche, devono avere l’aiuto delle nazioni
«ricche» dell’Europa e degli «odiati» Stati Uniti. Pur riconoscendo che
tanti colonizzatori hanno commesso abusi e uccisioni, mi sa indicare lei,
direttore, dove ciò non sia avvenuto, non avvenga e non avverrà?

Tralascio
l’argomento «crociate», «compiute in nome di Cristo» da criminali
«cattolici». Però mi fanno anche sorridere le continue «scuse» del papa.
C’è mai stata una scusa da parte degli «altri» per gli infiniti massacri
di cattolici? Perché non alzate la voce (avete forse paura?) contro Arabia
Saudita, Sudan, Cina, ecc., nazioni dove è vietata o ostacolata la pratica
religiosa cattolica, quando non perseguitata?

Invece
difendete l’invasione in Italia di milioni di musulmani ed altri, che
foraggiate, pur senza avvedervi (o fate finta!). Così essi prendono sempre
più piede, diffondendo le loro pseudo religioni, che di fede non hanno
nulla, essendo atti di fanatismo.

Quello che
non riesco a capire è che voi, preti, andate anche in missione per
diffondere la fede di Cristo, e intanto difendete gli «invasori», vi
mischiate con loro senza rendervi conto (sarà poi vero?) che, invece di
convertirli, fate sì che moltissimi cattolici abiurino la loro fede per
passare all’altra sponda. Bravi!

Io non
sono un senza-Dio, anzi! Provengo da una famiglia nella quale i genitori
hanno allevato me e sette fratelli nella fede di Cristo più schietta; sono
nipote di un grande prete salesiano; sono fratello di una missionaria in
Burundi, fino a quando i miserabili governanti di tuo (africani, non
europei o statunitensi!) l’hanno cacciata con altre suore e preti; sono
papà di una suora salesiana, da tanti anni in Africa. Pertanto non sono un
mangiapreti.

Sono uno
che ritiene, come diceva Totò, che «ogni limite ha una pazienza»! Non si
possono solo e sempre scrivere accuse pesanti e gratuite, oppure fare di
ogni erba un fascio contro i «potenti» e i «ricchi», imputando loro ogni
responsabilità nelle loro ex colonie. Molti «padroni» africani e
sudamericani, quando non sono disonesti e criminali, sono quanto meno
inetti e, quindi, non meritevoli dei posti che occupano.

Invece di
propagandare (la vostra è spesso propaganda) le religioni di altri popoli,
dovreste diffondere unicamente la nostra religione, la sola e vera
religione! Qualora lei, direttore, contestasse tale affermazione, farebbe
meglio a spretarsi!

Quando mai
gli altri hanno parlato (non dico bene, ma semplicemente parlato) della
fede cattolica? Siamo solo noi gli unici imbecilli, al pari di chi vede
l’erba del vicino più verde della sua? Mi pare che il vangelo non insegni
a «vendersi» o a «leccare» i nostri «concorrenti»!

Aiutare i
popoli è un dovere di noi cattolici (non semplicemente cristiani), ma alla
tassativa condizione di non farci turlupinare o sedurre dalle loro
credenze (non fedi). Vi siete forse fatti preti per imboscarvi e trovare
una comoda sistemazione? Gli unici fratelli (a parte quelli di sangue)
sono i cattolici: tutti gli altri possono essere dei «bisognosi»,
meritevoli di aiuto e basta!

Avrei
ancora tanto da dire (immigrazione di farabutti, sfruttatori, prostitute),
ma smetto ben sapendo che lei, da bravo prete, cestinerà schifato la
presente lettera; oppure, nel migliore dei casi, mi risponderà con
arroganza e disprezzo.

Però
ancora una domanda: perché, nonostante tutte le cattiverie gratuite che
dite a riguardo dei paesi ricchi, accettate (eccome!) le elemosine degli
stessi e non le respingete al mittente? Io credo di saperlo: perché gli
aiuti (fossero anche di satana) sono sempre bene accetti!

Lettera
firmata, Torino

I
missionari non ricevono offerte dai «ricchi», ma da «quelli che sono
poveri davanti a Dio». (Mt 5, 7)… E sorridere di fronte ai mea culpa del
papa non ci pare un bel sorriso.

 

CCP
33.40.51.35

quando
posso, cerco di fare qualche offerta per i vostri interventi nei paesi
bisognosi. Le offerte potrebbero essere maggiori, se ci fosse il numero di
un conto corrente Onlus, in modo da detrarre l’importo dalla dichiarazione
dei redditi, rendendo così la cifra a mia disposizione maggiore.

Alberto
Ramagno M., Roma

Il conto
corrente postale è 33.40.51.35 (per altre informazioni, si veda l’ultima
pagina della rivista). Ringraziamo il signor Alberto e quanti sostengono
l’opera dei missionari.

 


Il circo
della «formula uno»


 Spettabile redazione,

avete
fatto bene a evidenziare le responsabilità della tivù per l’insensata
attenzione ai divi della formula uno. Anch’io ho l’impressione che
giornali e telegiornali esagerino nel dare la prima pagina alla Ferrari.
Anche se le «rosse» non hanno la pole position e a vincere sono MacLaren o
Williams, lo spazio per l’automobilismo è troppo.

Molti
parlano di «circo della formula uno», alludendo alla spettacolarità delle
corse, alla disinvoltura con la quale le principali case automobilistiche
si spostano da un punto all’altro del pianeta, all’efficienza con cui si
risolvono i problemi tecnici.

La parola
«circo» esprime l’incredibile docilità con cui piloti e tifosi ubbidiscono
ai loro ammaestratori (Montezemolo, Ecclestone, Williams, Briatore…).
Sono convinto che, quando M. Schumacher proclama «amo la rossa come mia
moglie» e «alla prima curva non ho parenti», lo fa soprattutto per
tranquillizzare i suoi padroni e non far nascere il sospetto che gli
affetti familiari possano condizionare negativamente il suo rendimento.

Una
conferma del rovesciamento della scala naturale dei valori è arrivata dal
circuito di Lausitzring. Costato 300 miliardi di lire e definito un
«giorniello di sicurezza», su questo circuito, dopo pochi mesi di attività,
è morto Alboreto, mentre Zanardi ha perso le gambe…

Venerdì,
14 settembre 2001, per commemorare le vittime delle Twin Towers e del
Pentagono, sul circuito di Monza c’è stato un minuto di silenzio, e non
tre; domenica 16, non c’è stato nessun rallentamento alla prima curva,
nessun accordo tra le scuderie per ridurre il rischio di collisioni.
Perché? Perché altrimenti Ecclestone si sarebbe arrabbiato.

Francesco
Rondina, Fano (PS)

Il signor
Rondina si riferisce alla nostra risposta ad un lettore (Missioni
Consolata, settembre 2001).


 Accendi il
motore

Da anni
collaboro con i salesiani nella formazione dei giovani, credendo nelle
parole «religione, ragione e amore». Ma consideravo solo i giovani che mi
circondavano fisicamente. Mai mi ero chiesta quali e quanti visi di uomini
e donne, sfruttati, vi fossero dietro le etichette dei prodotti acquistati
o quanto costasse, in termini di vite umane, la benzina.

Parlavo di
solidarietà, impegno e coscienza sociale del «buon cristiano e onesto
cittadino», ma in modo astratto. Poi ho cominciato a capire di esser parte
di una rete di ingiustizia e illegalità, di essere piccola, ma anche
potente da rendere «schiavi» altri esseri umani. Schiavi dei miei bisogni.
E ho cominciato a vedere «incarnato» in alcuni il senso di responsabilità
per chi ci è accanto.

Se ami
l’uomo e credi in lui, ami e credi in tutti. Se decidi di essere
consapevole di te stesso, decidi pure di essere responsabile dei tuoi
fratelli, chiunque e dovunque siano.

Nel mio
«viaggio di terra» ho iniziato a conoscere la bellezza delle persone: è la
capacità di riscatto, il dono di un cuore che non si stanca e di una mente
che può arrivare alle «radici» della terra e alle «cime» del cielo.

Ogni uomo
ha un «motore vitale», non inquinante, anzi rigenerante. Ogni persona
merita rispetto e ascolto: anche quelle che hanno nascosto il loro «motore
vitale» sotto logiche di mercato e profitto; anche quelle che ci vogliono
«comparse» nella vita. Ma chi ne è vittima e schiavo merita di più: merita
che il nostro «motore vitale» generi un movimento di coscienze, di piedi
che marciano, di mani che donano e scrivono e di parole che scuotono. Lo
sento come dovere, per guadagnarmi la «fortuna di essere».

Voi
missionari avete «acceso il motore»… Accendete una lampada e ponetela
sul lampadario, perché chi entra veda la luce (cfr. Lc 8, 16).

Anna
Salzano, Torino

 


Arrivederci Etiopia

Ci sono
tanti bambini senza i genitori (ma alcuni vengono adottati dai nostri
amici italiani). Ci sono ammalati senza ospedale, perché senza soldi; così
la sofferenza li fa morire. Ci sono tanti sfortunati, ma anche fortunati.
Fortunata sono anch’io. Ringrazio Dio di essermi stato vicino e aver avuto
la famiglia a consolarmi.

Ora sto
trascorrendo un bellissimo periodo con una famiglia italiana e voglio
ricordare anche padre Domenico Zordan, che è stato l’inizio della mia
fortuna. Sarei felice se lo avessi vicino, per ringraziarlo con tutto il
cuore.

Etiopia,
non ti dico addio, perché, se Dio vuole, toerò a rivedere la mamma, i
fratelli, gli amici. Arrivederci dunque.


Testimonianza pervenutaci attraverso la famiglia di Ivo Babolin, presso la
quale Zennash, etiope di 18 anni, è ospite per cure mediche.

Padre
Domenico Zordan, missionario della Consolata, è deceduto nel 1997.

 


 LA POLITICA DEL
DISPREZZO NO!

 


Problemi a
valanga

Su
Missioni Consolata di settembre, pagina 11, riportate cosa ha fatto il
vescovo di Kyoto, senza alcun commento. Chi tace acconsente! La cosa è di
una gravità eccezionale: come può un vescovo predicare l’odio politico e
religioso?


L’imperatore del Giappone è pure capo religioso per i suoi seguaci. Dov’è
il dettato di Gesù «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di
Dio»?

Come si
permette di criticare l’inno nazionale, che celebra l’imperatore come capo
dello stato (e non il popolo), quando anche il papa è capo di stato e, per
di più, assoluto e non democraticamente eletto dal popolo? Un vescovo può
sbagliare, ma un redattore non deve riportare un errore, come se fosse una
cosa bella.

A
pagina 64 dello stesso numero vi è uno dei soliti articoli contro le
multinazionali. Queste sono società di extraterrestri e vogliono
colonizzarci? Nelle multinazionali lavorano migliaia di persone (e molte
azioni sono del Vaticano): costoro sono anch’essi colpevoli, perché
eseguono gli ordini e interessi delle multinazionali?

Mi
sapete spiegare perché una multinazionale deve, a proprie spese,
stipendiare ricercatori, costruire laboratori con attrezzature costose e,
forse, scoprire ogni tanto qualche prodotto che fa bene all’umanità e poi,
sempre a proprie spese, deve darlo a poco prezzo ai poveri? Perché i
governi dei poveri (e non i governi dei «ricchi»), invece di spendere in
armamenti, non spendono nei medicinali delle multinazionali?

Se
l’Iraq avesse fatto controllare tutti i suoi siti industriali dagli
incaricati dell’Onu, non ci sarebbero state sanzioni e, quindi, potrebbe
spendere in medicinali e vitto per il proprio popolo. E il prete che va a
«Porta a Porta» (forse un missionario della Consolata?) non avrebbe da
lamentarsi per i bimbi iracheni che muoiono! La chiesa cattolica perché
non vende le sue proprietà immobiliari (i sacerdoti potrebbero vivere come
Gesù Cristo), per investire il ricavato in medicine per i poveri?

È bello
dire sempre «dovete dare» e mai… «diamo»!…

Sul
numero di ottobre, pagina 69, già il titolo fa ribrezzo. Gli «otto nani
miopi e prepotenti» sono stati eletti democraticamente dai loro popoli e,
quindi, non sono né nani né miopi. Questi titoli vanno bene per Paolo
Moiola e per il direttore che ne autorizza la stampa: l’uno e l’altro, non
eletti democraticamente, dimostrano di essere presuntuosi!

Sono
spiacente anche di verificare come, oggi, si dica che ogni religione è
valida: così pagani, buddisti, indù, maomettani, testimoni di Geova,
mormoni, luterani… saranno premiati come i cattolici, se si comportano
secondo il loro credo. Allora Gesù ha sbagliato a dire di convertire i
popoli e anche i missionari non hanno più scopo di esistere…

Io
faccio la carità perché, conoscendo Cristo, la tua anima si salvi; ma, se
la mia carità serve solo a darti da mangiare e tu rimani buddista o
maomettano, preferisco darla ai veri cristiani-cattolici.

Cesare
Verdi – Riva di Chieri (TO)

 


Del vescovo di Kyoto, Otsuka, si parla in «La chiesa nel mondo», una
rubrica che da sempre riporta fatti senza commenti. Ma la notizia non
accenna ad alcun «odio politico e religioso» da parte del vescovo.


Per rispondere alle altre questioni, l’intera rivista non basterebbe.

  


Marce
di pacifisti


e guerra

 Egregio
direttore, da anni leggo la sua rivista e, in varie occasioni, mi sono
irritato di fronte a posizioni parecchio oltranziste, sostenute dai
redattori nei confronti degli Stati Uniti d’America. Sicuramente non è
tutto oro quel che brilla oltreoceano; ma, quando la critica negativa è
continua, sistematica e totale, mi pare ovvio dedurre che c’è una grave
mancanza di obiettività.


Domenica, 10 novembre, alcuni di loro avranno sicuramente preferito
marciare con gli spaccatori di vetrine (certo, non tutti lo sono). Ma, se
lei ha visto la diretta di «Rai 1», avrà notato un’anziana donna che,
avendo avuto l’ardire di raccogliere da terra e baciare una malridotta
bandiera statunitense, è stata strattonata da alcuni giovani
eroi-marciatori e sicuramente pacifisti, per riprendersi il vessillo e
nuovamente calpestarlo. Sono fatti che non hanno bisogno di alcun commento.

Per
quanto riguarda le varie «etnie» di pacifisti, pongo a lei, che non vedo
mescolato ai «marciatori», la domanda: ritiene che la questione afghana si
sarebbe potuta risolvere (come pare stia accadendo) con marce e striscioni
contro la guerra tout court?

Guido
Laurenti – Isera (TN)

 


No, la questione afghana non si risolve con marce e striscioni. Ma si sta
risolvendo con le bombe?


 

 Povera

«Missioni Consolata»!

 Non di
soldi, ma di articoli. Quando la rivista per mesi (dico mesi) continua a
battere sul G 8 di Genova con articoli alla… Bertinotti, non solo è
povera, ma poverissima. Quando poi l’articolista Pa.Mo. (Missioni
Consolata di ottobre-novembre 2001) afferma di essere stato a New York a
ferragosto, io mi fermo.


Spariamo sul G 8, però andiamo a New York, abbiamo il telefonino, beviamo
coca-cola, mangiamo ai McDonald’s… Non vogliamo il G 8, però prendiamo
tutto ciò che il progresso ci dà e, se possibile, ancora di più.


Piangiamo per gli affamati in Iraq. Ma chi è che li ha portati alla fame,
se non Saddam stesso che investe capitali all’estero e spende a larghe
mani per avvelenare il mondo? Perché dovremmo essere noi a sfamare il suo
popolo? Lo stesso dicasi per Bin Laden e i vari sceicchi!

Caro
Pa.Mo., io non sono andato a New York, non ho il telefonino, non vado al
McDonald’s, non bevo coca-cola… ho solo una vecchia macchina da scrivere.
A Genova buona parte dei danni sono stati provocati dal sostegno dei
pacifisti, tipo Bettazzi (il vescovo Bettazzi, ndr) e compagni. Costoro
avrebbero fatto meglio a pregare. Se l’avessero fatto 10 mila dei 200 mila
presenti a Genova, le cose sarebbero andate diversamente. La preghiera,
dice la Madonna, ferma anche le guerre. Ma è più comoda una scampagnata a
Genova!

Tutte
le pagine del vostro articolo sono un inno alla violenza contro Bush,
Berlusconi e Israele… Voi sì che, con scritti del genere, portate la
guerra e non la pace.


Giovanni Viotto – Torino

 


Forse risulterà strano… Ma il nostro redattore non ha il telefonino, non
beve coca-cola, non mangia ai McDonald’s. A New York non è stato in
vacanza, ma per lavoro.

  



Il cervello all’ammasso

 Recentemente
Missioni Consolata è stata duramente attaccata da alcuni lettori, mentre
altri l’hanno apprezzata. Io apprezzo anche il pizzico di autornironia con
cui il direttore risponde ad offese assurde.

Noto
una grande differenza fra gli accusatori e i sostenitori della rivista: i
primi insultano, ricattano e ostentano scandalo (accusando persino
Missioni Consolata di avere abbattuto le Torri Gemelle); i secondi si
sforzano di capire, propongono e riflettono sui problemi che la rivista
pone.

Se
Missioni Consolata, per esempio, critica una multinazionale con nome e
cognome (perché disbosca in modo selvaggio o inquina), non basta dire: «Ragionate
da comunisti»; bisogna dimostrare che i fatti contestati non sono veri…
Se la rivista attacca la politica estera degli Stati Uniti (perché, ad
esempio, è implicata nella guerra civile del Congo), non basta dire: «Gli
Usa mandano sacchi di farina, mentre i capi africani pensano solo ad
arricchirsi». Il fatto che i presidenti africani siano corrotti scagiona
gli Usa dalla loro responsabilità, specie se corruttori e venditori di
armi? Un male non ne giustifica un altro.

In
Italia mi preoccupa «la politica del disprezzo», forte di una maggioranza
numerica. Mi preoccupa, perché schiavizza milioni di persone, che si
sottraggono al dialogo e riportano sempre la voce del padrone o fanno la
predica. Hanno portato il cervello all’ammasso: lo dimostra il fatto che
qualcuno disdice l’abbonamento alla rivista, rifiutando così il confronto
con una parola diversa dalla propria.

Trovo
poi assurdo che si critichi Missioni Consolata, perché non sarebbe
religiosa e cattolica. La rivista si avvale sempre dei documenti della
chiesa, oltre che del vangelo, e soprattutto invita all’attenzione verso
tutti i poveri in spirito… È invece cattolico don Baget Bozzo, che
critica il digiuno per la pace del 14 dicembre, osservato dal papa e da
tanti altri?

Se «religioso»
significa non scomodare nessuno, dovremmo prendere la bibbia e strappare
le pagine «non religiose». Alla fine ci troveremo, forse, solo con la
copertina.

Ancora
una riflessione. Le lettere a Missioni Consolata sono poche quando la
rivista parla dell’«altro mondo» (i 4 quinti dell’umanità), ma ne arrivano
tante quando parla dei fatti di casa nostra (guerra in Kosovo e
Afghanistan, G 8). Mi viene in mente Giovanni Battista, che diceva:
bisogna che l’interesse per me diminuisca e cresca l’attenzione per
l’altro… Giovanni era proprio una voce nel «deserto».

E
Missioni Consolata anche.

Guido
Brambilla – Milano

 


Tuttavia Giovanni Battista, il più grande di tutti (cfr. Mt 11, 11),
continuava la sua missione, e la gente andava da lui, compresi i farisei…
La nostra rivista, con semplicità, cerca di fare altrettanto… sperando
di non fare la fine del profeta.


A Missioni Consolata sono pervenute numerose lettere anche in altre
occasioni. Ad esempio: l’editoriale di luglio-agosto 1985 «Attenti al
cane» scatenò quasi… una cagnara. La nostra tesi era: vi sono uomini che
trattano i propri simili da cani e i cani da uomini. Comunque, sempre
fatti di «casa nostra».


Caro signor Guido, anche a lei raccomandiamo pacatezza e un pizzico di
autornironia.

 



L’«utile idiota»

 Caro
direttore, mi riferisco al numero di ottobre-novembre della sua rivista.
Ritengo patetico il tentativo di offrire una versione «cattolica» dei
fatti di Genova, senza analizzare quanto è avvenuto: la
strumentalizzazione a fini nazionali (da parte di un abile «politburo»)
delle associazioni cattoliche, che hanno svolto il ruolo dell’«utile
idiota».


L’articolo su «dopo l’11 settembre» mi ha disgustata per il tono e per il
contenuto: a me pare una semplicistica e retorica esibizione dei più
tristi luoghi comuni del terzomondismo; al di là delle buone intenzioni, è
pervaso da spirito manicheo ed integralista, assai vicino al
fondamentalismo islamico.

Non
credo che, con queste sparate verbali, si aiuti la gente a pensare e
capire.


Giuliana Piaia – Montebelluna (TV)

 


La signora ha pensato. Forse non ha capito. Succede anche a noi.

AAVV