INDIA – Il vaccino di Sabin arriva a domicilio


In India, Pakistan, Afghanistan, Nigeria, Niger, Egitto e Somalia, la malattia è ancora endemica. Ma…

È partita all’inizio dell’anno una delle più grandi campagne di vaccinazione della storia: il nemico è il virus della poliomielite. Quest’anno il vasto territorio indiano, e soprattutto lo stato dell’Uttar Pradesh, epicentro dell’epidemia del 2002, verrà percorso in lungo e in largo da migliaia tra volontari e operatori sanitari che andranno porta a porta a trovare e vaccinare tutti i bambini con meno di cinque anni: ben 165 milioni.
Già nel mese di gennaio e di febbraio oltre 33 milioni di bimbi hanno inghiottito le famose goccine del vaccino orale, il Sabin (vedi box). Un’altra massiccia spedizione è partita ad aprile, per raggiungee altri 98 milioni in 10 stati indiani, un’altra a giugno e altre due sono previste per i mesi di settembre e ottobre. Sei giorni dunque, chiamati National Immunisation Days, giornate nazionali di immunizzazione, nel corso del 2003, in cui i genitori hanno la possibilità di portare i loro figli in luoghi predisposti per sottoporli alla vaccinazione, seguiti nelle settimane successive da visite a casa delle famiglie che non si sono presentate.
Saranno raggiunti villaggi sperduti e affollate periferie urbane, né verranno dimenticati aeroporti, ferrovie e stazioni di pullman. Altrettante giornate sono previste per il 2004, il tutto per interrompere la diffusione del temibile virus responsabile della malattia (vedi box).
Nei primi mesi di quest’anno anche in Iraq, sulla bocca di tutti purtroppo per ben altri motivi, è partita una campagna di vaccinazione contro la poliomielite, che ha coinvolto oltre 14.000 operatori sanitari impegnati nel raggiungere 4 milioni di piccoli iracheni. L’Iraq ha avuto il maggior numero di casi di malattia nel 1999, riportati a zero l’anno successivo grazie agli sforzi dell’Unicef e dell’Oms.

«POLIO FREE»?
Una imponente organizzazione di uomini e di mezzi era l’unica risposta possibile di fronte ai numeri sconcertanti che hanno segnato l’anno passato e messo in allarme tutte le strutture sanitarie di controllo a livello mondiale. L’India infatti, contrariamente al resto del mondo e soprattutto a realtà come l’Europa (dichiarata l’estate scorsa polio free, libera cioè dalla malattia), ha visto impennarsi il numero di casi sul suo territorio, passati da 268 nel 2001 a sei volte tanto nel 2002; ad aprile di quest’anno se ne contavano già 55. Ma pur coprendo oltre l’80 per cento dei nuovi casi di poliomielite nel mondo, ha al suo fianco altri sei paesi dove la malattia non è ancora sotto controllo: con l’India, Pakistan, Afghanistan e Nigeria coprono oltre il 95 per cento dei casi mondiali, ma i restanti si dividono tra Niger, Egitto e Somalia. Non è ancora il momento dunque di cantare vittoria, e l’esperienza indiana ne è la triste prova.
L’Uttar Pradesh, che conta una popolazione di 170 milioni di abitanti, rappresenta la zona cruciale, da cui l’epidemia di poliomielite si è diffusa alle altre parti del paese e a cui è stato attribuito circa il 65 per cento dei nuovi casi di poliomielite del 2002. In questo stato del nord dell’India nascono ogni mese 300.000 bambini, ma solo il 23 per cento veniva regolarmente vaccinato, per il gran numero di parti avvenuti a domicilio e quindi sfuggiti al controllo sanitario.

VACCINAZIONE DI MASSA
La sfida alla poliomielite, per relegarla a malattia del passato come è successo per il vaiolo dopo il 1979, è stata lanciata nel 1988 con la partenza della Global Polio Eradication Iniziative (Gpei). L’iniziativa procede grazie all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), al Rotary Inteational, all’Unicef e ai Centers for Disease Control statunitensi insieme con i ministri della salute degli stati membri dell’Oms, donazioni governative, fondazioni, Banca mondiale, Unione europea, donazioni private, altre agenzie delle Nazioni Unite e Organizzazioni non governative. L’obiettivo finale, da raggiungere entro il 2005, è la scomparsa della malattia, e quindi la protezione di tutti i bambini dalle conseguenze invalidanti e talora mortali dell’infezione (vedi box). Per meglio capire le dimensioni dell’intervento, basti pensare che nel 2001 circa 10 milioni di volontari hanno aiutato a vaccinare 575 milioni di bambini.
Rispetto alla partenza dell’iniziativa, nel 1988, i paesi dove la poliomielite è endemica sono passati da 125 a 7, come si è detto prima, mentre tre delle sei regioni dell’Oms (America, Europa e Pacifico occidentale) sono state certificate come libere dalla malattia.
È decisamente un buon risultato, ma non basta. Non è pensabile che nel 2002, con la disponibilità ormai da svariati anni di un vaccino efficace che ha permesso la scomparsa della poliomielite nella maggior parte del mondo, circa 1.900 persone siano state infettate, con il possibile corteo di disturbi permanenti: paralisi di gambe o braccia, atrofia di diversi muscoli e così via finanche alla morte. Sono ancora troppi i bambini vaccinati in modo incompleto (cioè con tre dosi o meno, quando ne sono necessarie quattro). La causa più importante di questo aumento di casi indiani registrato lo scorso anno è dunque da imputare a un fallimento delle politiche vaccinali, che non hanno portato a una vaccinazione completa della popolazione a rischio, primi fra tutti i più piccini, che non sono stati protetti in modo adeguato dal virus.
Ma la situazione non è semplice, soprattutto in Uttar Pradesh, e il gruppo di vaccinatori potrà incontrare diversi ostacoli sul suo cammino: non solo la dispersione dei bimbi indiani sul territorio, da cercare fin nei più piccoli villaggi o nelle grandi città, ma anche l’idea presente nelle comunità musulmane che il vaccino possa essere pericoloso per la salute dei loro piccoli, che possa renderli sterili o impotenti. Si era infatti diffuso il timore che il vaccino facesse parte di un piano del governo, di una sorta di programma di controllo delle nascite per limitare la popolazione musulmana in una nazione a maggioranza indù. Questo sembra aver portato ad avere in Uttar Pradesh ben il 60 per cento di nuovi casi di poliomielite proprio fra le comunità musulmane, nonostante rappresentino solo il 17 per cento della popolazione di questo stato indiano. Ma vi sono esempi positivi nel mondo che, pur di fronte a innegabili difficoltà, fanno ben sperare (vedi box).

IL DILEMMA
DEI LABORATORI
La Commissione Globale per la Certificazione dell’eradicazione della poliomielite (Global Commission for the Certification of the Eradication of Poliomyelitis) dichiarerà il mondo «polio free», libero dalla polio, quando non saranno registrati nuovi casi di malattia per almeno tre anni consecutivi in tutte le parti della Terra e quando i laboratori in possesso dell’agente infettivo responsabile della malattia avranno predisposto misure di protezione appropriate.
Allora il virus selvaggio (da tenere ben distinto da quello attenuato utilizzato per la preparazione del vaccino orale tipo Sabin), cioè capace di dare la poliomielite con tutto il suo terribile corteo di disturbi e menomazioni, dovrà essere presente solo in laboratorio. E seguirà, forse, la storia già percorsa e non ancora conclusa, anzi da poco tornata alla ribalta, dal virus del vaiolo, per il quale ci siamo tutti posti diversi interrogativi: siamo di fronte a un microrganismo da eliminare completamente dalla faccia della terra o da conservare almeno in laboratorio per un aspetto culturale, di conservazione di una forma di vita, o magari di sicurezza mondiale nel caso sia necessario nuovamente il vaccino. Non vi è certezza infatti su quali e quanti siano i laboratori che possiedono questi ceppi virali, e quindi in quali mani possano eventualmente cadere.

UN TUFFO NEL PASSATO

Benché già su una stele egizia vi fosse una testimonianza degli effetti dell’infezione poliomielitica, la prima descrizione clinica ufficiale della malattia risale al 1789, ad opera del medico britannico Michael Underwood. Dovranno però passare altri cinquant’anni prima che venga formulata una teoria sulla contagiosità del morbo, e quindi sulla sua trasmissione da una persona all’altra; addirittura un secolo perché negli Stati Uniti venga documentata la prima comparsa significativa di “paralisi infantile”, poi identificata come poliomielite.
Nel 1908 due medici austriaci ipotizzarono l’origine virale dell’infezione, ma bisognerà aspettare Jonas Salk, nel 1955, per avere il primo vaccino, utilizzando il virus della poliomielite ucciso, da somministrare con un’iniezione intramuscolare. Sei anni dopo Albert Sabin propose il vaccino orale in gocce, preparato con virus vivi attenuati, diventato rapidamente quello di scelta per i programmi nazionali di immunizzazione.
Va.Co.
LA VITTORIA È POSSIBILE

Una speranza di fronte a numeri che non vorremmo leggere e a situazioni che ci fanno scuotere la testa con una sensazione di impotenza c’è, e viene dalla Repubblica Democratica del Congo. È infatti lì che tutti coloro che si stanno impegnando nella battaglia contro la poliomielite in India (e negli altri sei Pesi in cui la malattia è ancora presente) possono guardare con fiducia. La Repubblica Democratica del Congo, nonostante il prolungato stato di guerra che si spera concluso con l’accordo di pace firmato il 2 aprile di quest’anno, sta infatti percorrendo la strada verso la dichiarazione di paese libero dall’incubo della poliomielite; l’ultimo caso risale al 29 dicembre del 2000 ed è quindi passato da poco il secondo anno senza malattia.
Questa vittoria è importante perché ottenuta in uno stato che, seppur con difficoltà e povertà diverse dall’India, presenta certo più affinità di un qualsiasi paese occidentale. Non solo. La positiva esperienza percorsa per l’eradicazione della poliomielite viene adesso sfruttata per una nuova campagna di vaccinazione contro il morbillo, tuttora causa di decessi prevenibili col vaccino, sostenuta dall’Unicef e dall’Organizzazione mondiale della sanità, che sembra aver già raggiunto oltre tre milioni di bambini (che si stima rappresentino il 96% di quelli da proteggere).

NESSUNA TERAPIA, SOLO PREVENZIONE

La poliomielite è una malattia molto infettiva causata da un virus che invade il sistema nervoso. Viene trasmessa per via fecale-orale: il virus viene eliminato con le feci della persona infetta e può così infettare altri soggetti, soprattutto in condizioni di scarsa igiene e di sovraffollamento, certamente comuni in India. Può essere trasmessa anche per via respiratoria o dalla mamma al figlio subito dopo la nascita.
Non esistono terapie e gli effetti invalidanti della malattia sono irreversibili; è possibile soltanto prevenirla con la vaccinazione, che stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi specifici contro il virus che proteggono dall’infezione.
Il poliovirus attacca in particolare le cellule nervose che controllano il movimento dei muscoli. In un caso ogni 200-250 la malattia porta a una paralisi, più spesso alle gambe, con perdita della possibilità di movimento volontario. Quando vengono colpiti i muscoli che controllano la respirazione, l’infezione può causare la morte o costringere il paziente in un polmone d’acciaio per tutta la vita per poter respirare (condizione certo improbabile nei paesi in via di sviluppo).

Valeria Confalonieri



UNA SOFFERENZA «IMPOSTA»

Julien Andavo Mbia vescovo di Isiro-Niangara (Congo R. D.)
Nato nel 1950 a Faradje (Isiro) da famiglia cristiana,
sacerdote dal 1979, mons. Julien Andavo
Mbia ha conseguito la licenza in teologia alle
Facoltà cattoliche di Kinshasa e il dottorato
in teologia morale a Fribourg (Svizzera). Viceparroco,
economo alle Facoltà cattoliche, professore
di morale al Teologato di Bunia, rettore
del Filosofato interdiocesano di Kisangani, è
stato nominato vescovo di Isiro-Niangara il 19
dicembre 2002 e consacrato il 19 marzo 2003.

Monsignor Julien, lei è il vescovo
eletto di Isiro. In questa città
è stato consacrato, il 19 marzo
scorso, dal card. Frédéric Etsou-
Nzabi Bamungwabi, arcivescovo
di Kinshasa. Date le difficoltà
del momento, perché far venire
a Isiro proprio l’arcivescovo di
Kinshasa?
È stato previsto che il card. Etsou
come primo consacrante, affiancato
da mons. Laurent Monsengwo Pasinya,
arcivescovo di Kisangani e dal
nunzio apostolico, mons. D’Aniello
Giovanni.
Vi sono molteplici ragioni per la
presenza del cardinale. È il presidente
della Conferenza episcopale del
Congo. La sua venuta a Isiro vuole
sottolineare l’unicità e l’unità del
paese e della nostra chiesa. Manifesta
la preoccupazione e la sollecitudine
della chiesa universale per una
chiesa locale che soffre. Diventa così
un momento di solidarietà e di incoraggiamento
per i cristiani di Isiro e
anche per me, loro giovane vescovo.
La presenza del cardinale, presidente
della Conferenza episcopale, dell’arcivescovo
Monsengwo, presidente
della Secam, e del nunzio, rappresentante
del papa nella R.D. del Congo,
vuole essere anche un appello alla
coscienza dei nostri dirigenti politici,
che sono molto incerti sul da
farsi. Penso che la questione dell’incoraggiamento
da parte della chiesa
sia veramente importante.
Situazione di crisi. Come la vive
e come sopravvive la gente della
sua diocesi?
C’è una crisi molto acuta sul piano
economico, sociale, e politico. Vi sono
da noi uomini che pretendono di
fare politica, ma non hanno né la capacità,
né i mezzi per farla; non sanno
che cosa sia la politica, arrivano
al potere senza essere eletti e pretendono
di vivere a spese della popolazione.
Una volta il paese stava
bene. Aveva risorse. C’era la coltivazione
del caffè. Ora non esiste più
nulla. La gente si sposta in bicicletta,
anche per lunghe distanze. Ha bisogno
di essere incoraggiata, spinta
a darsi da fare. Perciò è importante
che la chiesa sia sul posto, che io rimanga
tra la gente.
Qual è la consistenza numerica
dei cattolici nella sua diocesi e
che rapporti mantiene con i seguaci
delle altre religioni?
Dal punto di vista numerico, non
ho molto da dire. Non ho le cifre sotto
mano. Ma posso affermare che i
cattolici sono la maggioranza. Ci sono
i protestanti e i kibamguisti, che
però recentemente hanno cominciato
a fare delle affermazioni su Gesù
Cristo e sullo Spirito Santo che li mettono
fuori dal Consiglio ecumenico
delle chiese. Il problema sono le sètte,
le chiese indipendenti
che sorgono
un po’ ovunque.
Vorrei sottolineare
la vitalità della
comunità ecclesiale.
Tutti gli aspetti
della vita sociale,
economica e culturale
sono più o meno
segnati dal cristianesimo,
incluse
le cerimonie funebri,
tanto importanti
nella vita socio-
culturale e
religiosa dell’africano.
Nei funerali
è la famiglia ecclesiale che si confronta
con la morte. Le cerimonie si
svolgono in un contesto cristiano. È
un momento di grazia, per cercare di
radicare ancora di più il vangelo nel
tessuto vivo del popolo.
È necessario che i cristiani siano
aiutati a perseverare nella loro adesione
a Cristo. Bisognerebbe, per
esempio, fare più leva sulla presenza
della beata Clementine Anuarite sepolta
nella cattedrale di Isiro, sviluppae
la devozione, sottolineare i
valori che essa ha rappresentato con
la sua vita. Nei miei giri per il paese,
ho potuto constatare che tutti hanno
desiderio di venire in pellegrinaggio
ad Isiro, per venerare la beata.
L’islam? Per il momento non è un

vero problema. È presente, ma non
ha una reale influenza. Non ha peso
sulla fede in quanto tale. Le poche
conversioni sono per interessi politici
o economici.
Quali sono le linee pastorali che
intende seguire nel suo ministero
apostolico?
La priorità, per me, è principalmente
legata agli agenti pastorali, a
tutti i livelli: sacerdoti, suore, laici,
persone consacrate, sia congolesi che
provenienti dall’estero. Attraverso il
mio ministero, intendo infondere loro
fiducia, contare su di loro e dire
che, benché vescovo, non tocca solo
a me condurre il gregge.
Oggi, l’episcopato congolese parla
della chiesa-famiglia: famiglia che,
come comunità domestica e come comunità
ecclesiale, parrocchiale e diocesana,
rifletta i valori evangelici.
Anche questo vuol dire inculturazione
del messaggio a tutti i livelli. Il
vangelo deve dire qualcosa di concreto
nella vita personale, nella famiglia
e nella società, indicarci cosa
significhi essere salvati da Gesù. Bisogna
quindi portare la gente a fare
una lettura contestualizzata del vangelo,
affinché possiamo essere evangelizzati
integralmente.
Cosa si aspetta dai missionari e
missionarie?
Per quanto riguarda il rapporto con
i missionari, vorrei far notare che il
processo di evangelizzazione non è
finito, non è mai finito; finché l’uomo
vive, vi sarà evangelizzazione. È
in questo senso che la chiesa è universale.
Non è la chiesa della mia famiglia
o della mia società, o di Isiro:
è la chiesa di Gesù che chiama tutti
gli uomini, di ogni colore, a vivere la
vita di Dio là dove si trovano; una vita
di carità, di comunione, al di là di
ogni frontiera. È così che i missionari
conservano sempre il loro posto,
anche quando i cristiani sono molti.
Perché l’evangelizzazione è permanente
ed è sempre da riprendere. La
presenza del missionario è fonte di

coraggio, perché si tratta di un uomo,
di una donna venuti da lontano,
condotti qui solo dalla fede. Il missionario,
quindi, non deve supplire
soltanto a una mancanza, per cui
quando questa mancanza viene colmata,
ha finito il suo compito. Il missionario
è un testimone di Gesù e tutti
noi ne abbiamo bisogno.
Il Congo è devastato dalla guerra.
La gente di Isiro come vede
la guerra? Ha qualche speranza
che presto finisca?
La guerra è imposta alla gente. Non
è voluta. La gente vuole la pace. Tutti
si augurano che la guerra finisca
presto. Ma si ha l’impressione di trovarsi
in una tragica impasse (vicolo
cieco) e non si sa come uscie. Per
farla finire, è importante tagliare i legami
che essa ha con i paesi esteri.
I mezzi per fare la guerra, infatti,
vengono dall’estero, dall’Uganda, dal
Rwanda. Questi paesi, purtroppo,
hanno una stampa efficiente, pronta
a mostrare come essi non c’entrino
con la guerra, ne sono fuori. Ma la
realtà è diversa.
E la società civile?
La società civile, purtroppo, non è
bene organizzata. A questo proposito,
faccio di nuovo un richiamo alla
stampa che può svolgere un ruolo
molto importante, soprattutto sostenendo
la volontà della popolazione e
incoraggiandola.
La chiesa congolese è una chiesa
di martiri. Si fa qualche cosa
per conservae la memoria?
È importante salvaguardare la memoria
dei martiri, a livello parrocchiale,
diocesano e nazionale. Per
questo sono importanti gli archivi
storici. Ci dovrebbe essere un gruppo
incaricato di raccogliere dati e
fatti che costituiscono la storia di
uomini e donne che hanno dato la
vita per Cristo e per i loro fratelli e
sorelle. Non vi è niente di peggio che
ignorare la memoria, perdere le tracce
del proprio passato. Bisognerebbe
che, a tutti i livelli, si potessero
avere le testimonianze che possono
incoraggiarci nella fede e meritano
di essere messe in evidenza. Per il
centenario dell’inizio del cristianesimo
nella diocesi, intendiamo prendere
delle iniziative in questo senso.
Avremmo voluto farlo in condizioni
più felici. Ma non siamo noi i padroni
della storia.

Giovanni Battista Antonini




Dall’«asiatica» alla «Sars»


In queste pagine Guido Sattin ricorda Carlo Urbani ripercorrendo la sua vita attraverso gli eventi della storia e della medicina.

Noi che siamo nati alla metà degli anni ’50, che abbiamo visto arrivare nelle nostre case i primi elettrodomestici, che siamo cresciuti con la Tv dei ragazzi in bianco e nero e che andavamo a dormire dopo Carosello; noi che abbiamo frequentato le scuole superiori nei turbolenti anni successivi al 1968 e le Università nel cupo decennio degli anni ’70 e ’80; noi che siamo cresciuti nei grandi ideali di quegli uomini che, al di là delle diverse ideologie e fedi, volevano cambiare il mondo, che abbiamo pianto la morte di Gandhi, Che Guevara, Luther King, John Kennedy, papa Giovanni, Salvador Allende; noi che abbiamo visto crescere e cadere l’Unione Sovietica, la Cina di Mao, che abbiamo visto sconfitta l’apartheid del Sud Africa, morire con Franco l’ultimo fascismo d’Europa, cadere i colonnelli greci; noi che, nati nel pieno della tragedia dell’Ungheria, abbiamo vissuto poi quelle del Vietnam, della Cecoslovacchia, del Cile e dell’Argentina, della Cambogia dei Khmer Rossi, le guerre in Palestina, il terrore di Sendero Luminoso in Perú; noi che abbiamo vissuto le bombe fasciste degli anni Settanta in Italia e poi la pazzia del brigatismo rosso; noi che, credenti o non credenti, abbiamo però creduto insieme nella possibilità di un mondo migliore fatto di pace, libertà e giustizia sociale; noi che in quegli anni, e con la storia che correva intorno a noi, siamo diventati medici e poi siamo andati a lavorare in Africa, in Asia ed in America Latina, lo sapevamo. Noi sapevamo che un certo tipo di progresso umano si scontrava con l’ambiente che ci circonda e lo comprometteva con l’acqua contaminata, con l’aria appestata dai fumi, con le medicine mal utilizzate, con la concentrazione degli abitanti nelle città e l’abbandono delle campagne, con la manipolazione della natura, con la nostra ricchezza e con la nostra povertà. Èil 19 ottobre del 1956 e a Castelpiano, in provincia di Ancona, nasce Carlo Urbani. Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie infettive che di più uccidono nel mondo in quegli anni. Nel 1957 vengono isolati in Cina i primi casi di «influenza asiatica», un’altra pandemia che però, grazie al progresso medico, non provoca i danni della «spagnola» del 1918.  È il 1965. Carlo frequenta le scuole elementari e, con 4 anni di ritardo (è del 1961 la scelta dell’American Medical Association), viene introdotta in Italia la vaccinazione antipolio con il vaccino di Sabin. Dal 1966 è resa obbligatoria. Nel 1967 il vaiolo è ancora endemico in 31 paesi del mondo. Solo in quell’anno tra 10 e 15 milioni di persone furono colpite dalla malattia. Di queste, circa 2 milioni morirono e, tra coloro che erano sopravvissuti, milioni rimasero sfigurati o ciechi. Carlo Urbani finiva le scuole medie e sicuramente anche lui portava su di un braccio il segno della vaccinazione antivaiolosa.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti continuano ad essere le malattie infettive che di più uccidono nel mondo. Nel 1968 si scatena l’ultima grave pandemia, l’influenza di Hong Kong che provoca in Europa decine di migliaia di morti (20.000 nella sola Francia) fra le persone anziane o già debilitate da altri disturbi. Nel 1969 Piero Sensi, ricercatore della Lepetit, scopre le rifamicine e da queste nel 1969 mette a punto la rifampicina, antibiotico attivo contro la tubercolosi. È l’ultimo dei grandi antibiotici scoperti e tutt’ora utilizzati nella terapia della tubercolosi; evidentemente la ricerca sulla tubercolosi, ha smesso, d’allora, di essere una priorità per l’industria farmaceutica.  Nel 1973 la pandemia di colera coinvolge anche l’Italia toccando Napoli. Carlo frequenta il liceo a Jesi.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono sempre le malattie infettive che di più uccidono nel mondo.  Nel 1976 viene isolato per la prima volta il virus Ebola. L’Ebola è un virus in grado di provocare gravi febbri emorragiche e deve il suo nome al fiume della repubblica democratica del Congo, dove fu isolato per la prima volta. Probabilmente il contagio alla nostra specie è avvenuto dalle scimmie e da qualche altro mammifero della foresta africana, ma l’origine e la modalità di trasmissione rimangono un mistero. A oggi si sono registrate quattro epidemie di Ebola: nello Zaire, nel Sudan, nel Gabon e nella Costa d’Avorio. La mortalità ha raggiunto l’88% dei casi rilevati. La morte sopraggiunge dopo circa 72 ore dall’insorgenza dei primi sintomi. Attualmente non si conosce una cura all’infezione di Ebola, né un vaccino. L’Ebola è stata elencata dalla Nato tra i 31 agenti potenzialmente utilizzabili nelle azioni di bioterrorismo.  Nel 1976 a Filadelfia, tra i partecipanti ad un convegno della legione americana, si manifesta un’epidemia che per questo viene denominata la malattia del legionario. Si tratta di una forma di polmonite che successivamente viene chiamata «legionella » e che si sviluppa nell’acqua, distribuendosi con gli impianti di condizionamento. Continua tutt’ora ad essere una malattia pericolosa e silente, ed interessa particolarmente hotels ed ospedali. Il 26 ottobre 1977 l’ultimo caso conosciuto di vaiolo viene registrato in Somalia, quando Carlo sta frequentando l’Università di Ancona ed iniziava a formarsi come medico. Nel 1981 vengono descritti i primi casi di Aids. La «peste del secolo» è iniziata. In questi anni Carlo si laurea in medicina e chirurgia all’Università di Ancona. Ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  L’«encefalopatia spongiforme bovina» (ESB), una malattia neurologica degenerativa che colpisce i bovini in maniera costantemente fatale, fa la sua comparsa come nuova malattia nel Regno Unito nel 1985. Viene descritta ufficialmente nel novembre 1986, ma ancora non si immagina il coinvolgimento umano. Carlo si specializza in malattie infettive presso l’Università di Messina. Il 31 maggio 1988, come ogni altro giorno, 1.000 bambini sono paralizzati dalla polio. La maggior parte di loro vive nei paesi più poveri. Nello stesso giorno, a Ginevra i leaders sanitari del mondo hanno deciso di eradicare la poliomielite per sempre.  È il 1989 quando viene individuato il virus dell’epatite C (Hcv). Contrariamente agli altri virus dell’epatite (A, B, D ed E), questa infezione porta, in un numero straordinariamente alto di casi, alla malattia epatica cronica. Si perfezionano i controlli sul sangue e si scopre che, negli anni anteriori, migliaia di persone sono state infettate da questo virus, trasmesso con le trasfusioni e con la dialisi.  Carlo lavora come medico presso l’Ospedale di Macerata. Nel 1991 la pandemia di colera per la prima volta arriva in America Latina, contagiando migliaia di persone in Perù.  Nel 1994 le Americhe sono certificate libere da polio.  La nuova variante della malattia di Creutzfeld-Jakob ha fatto la sua comparsa nel Regno Unito nel 1995. Il ministro della sanità inglese successivamente (marzo 1996) ammette che 14 persone sono decedute in seguito a questa nuova forma della malattia e che probabilmente si sono ammalate per aver assunto tessuti bovini infetti da Esb. Le dichiarazioni del ministro della sanità inglese Stephen Dorrell nel marzo 1996 e la pubblicazione dei risultati di queste ricerche nel 1997 scatenano una crisi economico-sociale con notevoli conseguenze sulla zootecnia europea; la crisi è dovuta ad una marcata perdita di fiducia da parte dei consumatori nei confronti del prodotto carne. Carlo entra in «Medici senza frontiere » (Msf) e parte per la Cambogia con la famiglia. Lavora in un progetto per la lotta alla «schistosomiasi», una malattia parassitaria intestinale.  Hong Kong, 1997: l’influenza aviaria provoca la morte di 6 persone. L’anno seguente l’Organizzazione mondiale della sanità la inserisce tra le malattie determinate da nuovi microrganismi capaci di provocare infezioni nell’uomo e invita ad aumentare la sorveglianza. Il 26 novembre 1998 viene segnalato l’ultimo caso di poliomielite nella regione europea. Si tratta di un bambino di nome Melik Milas di 33 mesi, che viveva in un piccolo villaggio della provincia di Agri, in Turchia al confine con l’Iran. Non aveva ricevuto nessuna vaccinazione contro la polio ed è stato colpito da un poliovirus di tipo 1.  Nel 1999 Carlo Urbani viene eletto presidente di «Medici senza frontiere» – Italia (e trova anche il tempo d’inventare questa rubrica per Missioni Consolata).  Nel gennaio 2000, dopo poco più di 10 anni dal lancio dell’iniziativa di eradicazione, sono soltanto 30 i bambini che ogni giorno nel mondo sono paralizzati dalla polio. Ma ancora 30 tutti i giorni.  Tre interi continenti sono già liberi da polio e sempre nel 2000, la regione del Pacifico orientale, che comprende la Cina, viene certificata come libera dalla poliomielite. Nell’anno 2000, 3,8 milioni di persone si sono infettate con l’Hiv nell’Africa a sud del Sahara e 2,4 milioni di persone sono morte per Aids. Nello stesso anno 30.000 persone si sono infettate in Europa occidentale e 45.000 nell’America del Nord. Dall’inizio della pandemia di Aids sarebbero morte 21.800.000 persone.  È il 2000 ed ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  Carlo inizia la sua collaborazione con l’«Organizzazione mondiale della sanità» (Oms) e con la famiglia parte per Hanoi, in Vietnam. Da 10 anni se ne parla, ma il primo caso italiano di «mucca pazza» scoppia a gennaio 2001. Crollano i consumi di carne, psicosi tra i banconi dei supermercati e delle macellerie, caccia a prodotti alternativi. Partono i controlli che portano a trovare decine di mucche italiane infette. Le autorità prima minimizzano, poi, sull’onda emotiva di un’opinione pubblica sempre più preoccupata, prendono i primi drastici provvedimenti.

29 marzo 2003: Carlo Urbani, medico italiano dell’Organizzazione mondiale della sanità, muore in un ospedale di Bangkok a causa della Sars («Sindrome respiratoria acuta grave»). La notizia si diffonde e provoca grande emozione. «Il dottor Urbani ha lavorato in programmi di salute pubblica in Cambogia, Laos e Vietnam. La sua sede di lavoro era ad Hanoi. Aveva 46 anni. Carlo Urbani era stato il primo medico dell’Oms ad identificare la nuova malattia in un uomo d’affari americano ricoverato all’ospedale di Hanoi. La sua segnalazione precoce della Sars ha messo in allarme il sistema di sorveglianza globale ed è stato possibile identificare molti nuovi casi e isolarli prima che il personale sanitario ospedaliero venisse contagiato. Ad Hanoi, il focolaio di Sars sembra sulla via di essere messo sotto controllo». «Carlo era una persona meravigliosa e siamo tutti costernati – ha detto Pascale Brudon, il portavoce dell’Oms in Vietnam -. Era soprattutto un medico, il suo primo obiettivo era quello di aiutare le persone. Carlo è stato il primo ad accorgersi che c’era qualcosa di molto strano. Mentre in ospedale le persone diventavano sempre più preoccupate, lui era là ogni giorno, raccogliendo campioni, parlando con il personale dello staff e rafforzando le procedure di controllo dell’infezione». È il 2003. È appena terminata la guerra «preventiva» contro l’Iraq ed ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  La storia la facciamo noi uomini con le nostre guerre, i nostri interessi economici, ma anche con i nostri ideali, le nostre scoperte, la nostra cultura e la nostra capacità di comunicare. Ma non solo.  La peste, la sifilide e la tubercolosi hanno segnato alcuni secoli della nostra umanità e perfino della nostra cultura.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti continuano a minare l’esistenza di milioni di individui nell’indifferenza generale. Della Sars si sa ancora poco, ma è un altro segnale di pericolo per il nostro mondo, così come poco prima lo è stato la variante umana della malattia di Creutzfeld-Jakob, Ebola o l’influenza aviaria.  L’Aids ha definitivamente cambiato i costumi sessuali della nostra società e sta tuttora cambiando la nostra umanità, incidendo profondamente in tante culture ed economie del mondo, in particolare dell’Africa. Le malattie infettive e parassitarie, causa e conseguenza di tanti passaggi della nostra storia, continuano ad essere protagoniste dell’umanità e delle sue scelte economiche, politiche e sociali.

Guido Sattin




I GRANDI MISSIONARI: padre Giovanni De Marchi

È scomparso l’1 gennaio 2003, ma non è troppo presto per annoverarlo tra
i grandi missionari: Giovanni De Marchi è uno di quei personaggi
carismatici che suscitano
simpatia, ammirazione e venerazione, per semplicità, naturalezza e
molteplicità di azione. Innamorato di Maria, pioniere di tre continenti,
fece cose straordinarie
«nell’ordinario», come voleva il beato Allamano.

<centermadonna e="" missione="" Nato ad Arsiè (Belluno) nel
1914, Giovanni De Marchi
entrò tra i missionari della
Consolata nel 1926 e fu ordinato prete
nel 1937. Licenziato in teologia e
sacra scrittura, insegnò tali materie
nel seminario teologico di Torino e,
nel 1941, fu nominato direttore della
casa di Roma. Riprese gli studi all’Istituto
biblico, ma non poté finirli,
perché fu inviato in Portogallo.
Nel 1940, il Concordato e l’Accordo
missionario tra Portogallo e
Santa Sede aveva allargato le porte
dei territori d’oltremare ai missionari
stranieri; un’enciclica di Pio XII esortò
i vescovi lusitani ad accogliere
nel paese ordini e istituti religiosi
stranieri, «per moltiplicare gli operai
dell’evangelo destinati alle colonie».
I missionari della Consolata furono
invitati ad approfittae e il vescovo
di Aveiro si dichiarò disposto
ad accoglierli. Dopo lunghe trattative
diplomatiche, il 10 giugno 1943,
in piena guerra mondiale, padre De
Marchi atterrò a Lisbona, con passaporto
vaticano, e iniziò la sua avventura
di missionario innamorato
di Maria.

COME UN PELLEGRINO
«Dopo quattro giorni di cammino
da Lisbona, giungo a Leiria – scriveva
padre De Marchi del suo “primo
pellegrinaggio” -. Ad ogni costo voglio
arrivare a Fatima prima di notte.
Ancora 25 km: 5 ore di cammino
». Trattenuto a lungo dal vescovo,
fu a destinazione a tarda sera, con
l’auto del prelato.
Era il 13 giugno: la spianata del
santuario brulicava di una marea di
pellegrini. Finita la cena, il padre si
diresse al santuario, per fare le sue
devozioni. Ma fu subito abbordato
da un gruppetto di pellegrini che gli
chiesero di confessarli. «Voi si» disse
agli uomini, lasciando le donne
costeate: a quei tempi era proibito
confessarle al calar della notte.
Pensava di cavarsela in fretta. Invece
si formò una coda che, quando
sembrava esaurirsi, si riproduceva
come file di formiche. Alle due di
notte poté entrare nel santuario. Avrebbe
voluto passare tutta la notte
in «veglia d’armi»; ma fu vinto dal
sonno e si ritirò nella sua stanza.
Il giorno dopo padre Giovanni si
sedette di nuovo nel confessionale,
per ascoltare le confidenze dei pellegrini,
mescolando spesso le sue lacrime
con quelle dei penitenti: alcuni
avevano le ginocchia sanguinanti;
tutti erano lì per adempiere un voto
per grazia ricevuta o chiedere un favore
per un familiare.
Il primo impatto col mistero di Fatima
restò indelebile; fu subito preso
da un impulso irresistibile: scrivere una
storia sulle apparizioni, diversa
dalle altre.
La signora Soledade Freitas, sua
insegnante di portoghese, cercò di
dissuaderlo o, almeno, convincerlo a
procrastinare, dato che masticava
appena la lingua lusitana. E gli riferiva
quanto Ti Marto, il padre dei
veggenti Francesco e Giacinta, diceva
a tutti i giornalisti: «È già tutto
contenuto nei libri». Alla fine fu anch’essa
travolta dal suo entusiasmo.
Padre Giovanni cominciò a leggere
i libri già scritti su Fatima; fece investigazioni
sui luoghi delle apparizioni;
raccolse informazioni sulla vita
dei tre pastorelli; ebbe frequenti
colloqui con Lucia, unica superstite
dei veggenti; interrogò ripetutamente
i testimoni più qualificati. Ridendo,
cantando e commuovendosi, si
metteva alla pari con i suoi interlocutori,
ne guadagnava la confidenza
e li faceva parlare.
Nacque così Era una signora più
splendente del sole, un’opera suggestiva
e completa sulle apparizioni di
Fatima, scritta con vivacità da reporter
e rigore storico, testimonianze
nella forma in cui le aveva ricevute e
fatti inquadrati nella coice dell’ambiente
e storia del paese.
Pubblicata in portoghese nel 1945,
l’anno seguente era già alla terza edizione;
oggi è alla 18a. Stesso successo
ebbero le traduzioni: 15 edizioni in italiano,
13 in inglese, 11 in spagnolo,
8 in francese e varie ristampe in altre
tre lingue. Analoga fortuna riscosse
la versione per ragazzi: La Madonna
parlò così ai tre pastorelli.

L’INFATICABILE
Ma lo scopo della venuta in Portogallo
era quello di aprire un seminario
per la formazione di missionari
della Consolata portoghesi. La meta
era chiara, il percorso tutto da
inventare, tanto più che si era nei
tempi difficili della guerra.
Era la prima congregazione religiosa
maschile che si stabiliva a Fatima.
Ma la calorosa accoglienza del
vescovo di Leiria e del rettore del
santuario furono per il missionario
un segno di speciale favore da parte
della Madonna, alla quale affidò tutti
i suoi progetti. E non restò deluso.
Padre De Marchi aveva fretta: a
quattro mesi dal suo arrivo, voleva
già iniziare l’anno scolastico con alcuni
aspiranti missionari. Ma il superiore
generale frenò il suo entusiasmo
giovanile, esortandolo a studiare
bene i piani.
Il padre comprò un terreno a un tiro
di scoppio dalla basilica, tracciò il
progetto di un grande seminario e
studiò i mezzi di finanziamento; fece
stampare cartoline e biglietti con
il bozzetto del progetto e li distribuì
a tutti coloro che credevano nella sua
avventura.
Al tempo stesso, per veicolare l’ideale
missionario, diede sfogo alla
sua vena letteraria. Sotto la guida
della signora Soledade, scrisse due
romanzi, Titìri e La figlia del Bramino,
il primo ambientato nel nord del
Mozambico, campo di apostolato
dei missionari della Consolata, l’altro
in India. Pubblicati a puntate su
due differenti mensili religiosi, videro
la luce come libri, rispettivamente
nel 1944 e 1946.
Tanta produzione letteraria non
deve far pensare che padre De Marchi
fosse un uomo da tavolino. Si
spostava da una parte all’altra del
Portogallo in treno, auto o una vecchia
bicicletta per allacciare contatti
e rastrellare fondi. La fama dei suoi
scritti lo precedeva; la rete di amici e
sostenitori si allargava sempre più,
tanto che la costruzione del seminario
non era più un’iniziativa venuta
dall’estero, ma sentita come una necessità
nazionale, per dare continuità
alla vocazione missionaria del popolo
portoghese. Riuscì perfino a ottenere
un sussidio dal governo.
Guerra e burocrazia diplomatica
non permettevano d’inviare rinforzi;
da solo aprì il seminario: il 3 ottobre
del 1944 accolse 11 ragazzi in una
casetta provvisoria. Per la scuola
si fece aiutare dalla signora Soledade
e da un seminarista imprestato
dalla diocesi di Aveiro.
L’anno seguente entrarono altri 12
aspiranti e arrivò il primo confratello;
altri sei nel 1946, segno che la direzione
generale dell’Istituto credeva
nel sogno del dinamico missionario.
Quello stesso anno fu benedetta
la prima pietra del nuovo seminario.
Aumentando gli studenti, nel 1947
furono affittati altri due edifici, per adibirli
a cappella, dormitorio e residenza
dei padri. I seminaristi più
grandi furono dislocati in una casa ad
Alenquer, a pochi chilometri da Lisbona.
Nel 1949 era pronta la prima
parte del grandioso seminario e gli
studenti tornarono tutti a Fatima.
Approfittando delle conoscenze di
pellegrini stranieri che transitavano
nel seminario, padre De Marchi si
spinge in Irlanda e Inghilterra e Stati
Uniti in cerca di sterline, dollari e
vocazioni.
Nel 1951, dopo sette anni infaticabili,
padre Giovanni vedeva consolidata
la presenza di missionari
della Consolata in Portogallo: il seminario
fu ufficialmente inaugurato;
la casa di Albuquer ospitava sei aspiranti
fratelli; a Fatima veniva aperto
il noviziato internazionale per
giovani di lingua inglese.

L’INARRESTABILE
A partire dal 1948 padre De Marchi
fece vari viaggi negli Stati Uniti,
per parlare agli emigrati portoghesi
di Fatima, seminario e missioni. Poi
si rivolse a tutti i cattolici americani.
«Padre De Marchi percorre instancabilmente
le arterie degli Stati Uniti
– si legge nel notiziario dell’Istituto
-, illustrando con impareggiabile
competenza il messaggio di Fatima
e l’attività missionaria del nostro Istituto;
ultimamente ha tenuto conferenze
con largo successo a Detroit,
Pittsburg e Boston» (Da Casa Madre,
settembre 1951).
Tali incontri includevano la proiezione
di un documentario sulle apparizioni
di Fatima e diffusione dei
suoi libri: Fatima the Facts (traduzione
inglese di Era una signora più
splendente del sole), The Crusade of
Fatima e The Imaculate Heart, un
trattato teologico diventato subito
un best seller.
Nel 1952 egli si stabilì definitivamente
negli Stati Uniti. Con l’aiuto di
due scrittori americani migliorò la veste
letteraria dei suoi libri; girò un
nuovo film a colori sulle apparizioni
di Fatima; lanciò Rainbow (1954), rivista
in cui combinava il messaggio di
Fatima con le urgenze delle missioni
in Africa e America Latina.
La Madonna di Fatima apriva tutte
le porte, come scriveva lo stesso superiore
generale, padre Domenico
Fiorina: «Già alcune vocazioni missionarie
si affacciano e saranno una
consolante realtà, appena ci sia possibile
organizzare il nostro seminario
missionario. Fu la Madonna di Fatima
ad aprirci queste porte, attraverso
le conoscenze fatte in Portogallo»
(Da Casa Madre, agosto 1952).
L’anno seguente padre Giovanni
aprì un seminario a Washington; tre
anni dopo una casa di studi a Pittsburg
per giovani missionari che, in
vista dell’apostolato in Africa e America
Latina, frequentavano l’università.
Intanto scovava madrine disposte
a sostenere gli studi universitari
di seminaristi e padri. Una di
esse era la moglie di Ford, il padrone
della casa automobilistica.
Furono 10 anni di attività febbrile,
chiamato da un capo all’altro degli
Usa da comunità religiose e parrocchiali,
associazioni e collegi, centri di
trasmissione radiofonica e televisiva.
Si recò più volte in Kenya, Tanzania
e Colombia per girare cinque documentari
sui popoli e sulle missioni.
Alcuni ottennero premi a livello
nazionale; di un documentario la
marina americana acquistò 12 copie
per i suoi centri di addestramento.
Con l’entusiasmo missionario che
sprizzava da tutti i pori, padre Giovanni
ammaliava quanti lo avvicinavano
e li coinvolgeva nel suo ideale.
E quando ne adocchiava uno ben disposto,
lanciava il sasso: «Perché non
diventi missionario?». Così scovò i
primi missionari della Consolata statunitensi
e più di 100 volontari laici
che inviò nelle missioni in Africa.
Al tempo stesso portò negli Stati
Uniti decine di studenti africani, procurò
loro borse di studio e benefattori,
li accompagnò come se fossero
suoi figli, per poi rimandarli a lavorare
per il bene delle loro comunità.
Bussando a uffici governativi e agenzie
filantropiche, inviò alle missioni
del Kenya, durante la rivoluzione
dei mau mau, tonnellate di aiuti
(vestiti, medicine, libri…) e
convinse un organismo parastatale
canadese a spedire contenitori con
generi alimentari non deperibili in
Kenya e Tanzania.

UN SOGNO TIRA L’ALTRO
Ingolfato in tanti progetti e attività,
sembrerebbe che padre De Marchi
non avesse tempo né spazio per i sogni.
Invece, come i gatti sognano solo
topi, egli sognava le missioni, ma
di lavorarci direttamente. Nel 1963
fu destinato al Kenya. Il figlio di un
amico americano, ricordandogli come
alcuni missionari erano stati appena
uccisi in Congo, da poco indipendente,
gli domandò se non avesse
paura. «Certo – rispose il padre
ridendo -. Ma solo un poco. Sono più
felice che spaventato. Essere lì quando
kikuyu, masai e altre etnie, incontrate
nei film, saranno liberi di governare
il proprio paese, è per me la
più bella avventura».
Proprio quell’anno il Kenya raggiungeva
l’indipendenza; ma i problemi
ereditati dalla lunga rivoluzione
mau mau erano enormi. Padre De
Marchi fu chiamato a Nyeri, come
segretario del vescovo africano Cesare
Gatimu e direttore del Centro
sociale diocesano: lavoro e grattacapi
da tenere occupati una decina di
preti; ma padre De Marchi se la
sbrigò da solo. Procurava aiuti per i
poveri di tutte le missioni; realizzò il
progetto della casa per anziani nella
missione di Gaturi; la scuola-collegio
per sordomuti e la «città dei ragazzi
» al Mathari (Nyeri) per centinaia
di orfani sottratti dalla strada.
Questi furono i suoi prediletti: li sfamava,
vestiva, mandava a scuola e,
soprattutto, li circondava di affetto.
E continuava con le sue visioni di
avanguardia: formare catechisti per
lo sviluppo delle comunità nascenti;
promuovere scuole e creare i futuri
leaders africani, sostenendone la formazione
scolastica e accademica.
L’indipendenza aumentava la sete
d’istruzione. Le scuole gestite dalla
diocesi di Nyeri accoglievano 110 mila alunni: c’era bisogno di insegnanti.
Più di una volta padre De Marchi
si recò in Europa, Canada, Usa e tornava
con decine di professori.
Intanto si profilava all’orizzonte lo
stesso sogno del beato fondatore,
Giuseppe Allamano: evangelizzare
l’Etiopia. I missionari della Consolata
vi avevano lavorato con successo
per quasi 30 anni; ma erano stati espulsi
durante la 2a guerra mondiale
e, per 25 anni, non c’era stato verso
di ritornarvi.
Nel 1970, padre De Marchi riuscì
a ottenere il visto per entrare in quel
paese. A sbloccare la burocrazia, raccontava
lui, fu la sua presentazione
come «missionario della Madonna
di Fatima».
Così descriveva il primo impatto:
«Viaggiando in bus, per strade impraticabili,
la vista della povertà di migliaia
di persone, zoppi, ciechi, lebbrosi,
è insopportabile. Avessi la fede
e la fiducia del Cottolengo! Quando
ho un buon pasto e dormo in un comodo
letto mi sento in colpa».
Ma fu il periodo più fecondo e felice
della sua vita. Stabilitosi a Meki,
vicariato di Harrar, con padre Lorenzo
Ori e una suora americana, egli
cominciò il lavoro di evangelizzazione
e promozione umana. Intanto
cercò altro personale: suore etiopiche
e di altre congregazioni e nazionalità,
volontari laici e, naturalmente, missionari
e missionarie della Consolata.
Nel giro di tre anni funzionavano
quattro parrocchie, con relative opere
religiose e umanitarie: scuole elementari
e «laboratorio permanente»
di arti e mestieri, dispensario e scuola
matea a Meki; istituto professionale
maschile e femminile, collegio
per ciechi a Shashemane; casa per
bimbi handicappati, in maggioranza
colpiti da poliomielite, a Gighessa e
Asella; cura dell’ospedale di Gambo,
con annessi lebbrosario, scuola con
500 alunni e fattoria agricola; e poi
scuole elementari e 35 dispensari in
tutta la regione.
Sotto il regime marxista-leninista,
instaurato da Menghistu con la sua
rivoluzione (1973-74), i missionari
della Consolata poterono continuare
l’evangelizzazione in Etiopia grazie
alle opere di promozione umana
avviate in quei tre anni.
Nel 1978 padre De Marchi passò
il testimone della direzione a un confratello
più giovane, padre Giovanni
Bonzanino; ma continuò per altri
10 anni le operazioni di sussistenza:
più volte volò in America e vari paesi
europei in cerca di personale (suore,
laici, dottori, preti fidei donum…)
e aiuti materiali d’ogni genere, specialmente
nei momenti in cui le carestie
infierivano con più furore.

EVANGELICA COLOMBA
Professore, pioniere in tre continenti,
scrittore di best sellers, conferenziere,
direttore di rivista, produttore
di film, manager, organizzatore
e amministratore di soldi a palate,
procuratore di vocazioni e collaboratori,
frequentatore di uffici governativi
e organizzazioni inteazionali…
Chi non lo ha incontrato di persona,
potrebbe pensare a padre De
Marchi come a uno di quei personaggi
artificiali, cui ci si presenta a
occhi bassi e cappello in mano.
Niente affatto. Schivo, modesto,
mai preoccupato della propria immagine,
gli bastavano un sorriso e una
battuta ingenua per celare la sua
volontà di acciaio inossidabile, mettere
tutti a proprio agio, allacciare amicizie
indistruttibili.
Nessun missionario della Consolata
ha maneggiato tanto denaro come
lui: ma non un centesimo rimase
attaccato alle sue mani. Nessuno lo
ha mai visto con vestito e scarpe nuove,
eccetto le rare volte in cui, di passaggio
in Italia, faceva visita ai parenti:
lo mettevano a nuovo da capo
a fondo. A chi gli faceva i complimenti
per l’eleganza rispondeva ridendo:
«Mi hanno messo la camicia
di forza».
Sempre sereno e pronto alla conversazione,
alla battuta, allo scherzo,
padre De Marchi si interessava di tutti
e di tutto, specie con i confratelli,
fino a sembrare un ficcanaso; ma vedeva
solo il bene. «Semplice come una
colomba», senza la minima «astuzia
dei serpenti», un giorno confidò
a un confratello: «Quando vedo una
donna, mi viene voglia di inginocchiarmi
e baciarle i piedi, perché in
ogni donna vedo una Madonna».

RITORNO A CASA
«Ho fatto un patto con la Madonna
– confidava ancora -: quando non
potrò più lavorare, per età o salute o
perché cieco, voglio tornare a Fatima
e passare gli ultimi anni ascoltando le
confessioni dei pellegrini».
Non diventò cieco; ma per il resto
fu esaudito. Dopo 18 anni in Etiopia,
forze e memoria cominciarono a traballare:
chiese e ottenne di tornare a
Fatima. Ma il suo cuore continuava
a battere per i lebbrosi e i bambini
handicappati, per i quali chiedeva
continuamente aiuti ai pellegrini.
Finché le forze glielo permisero,
continuò ad aiutare i parroci vicini e
lontani, ascoltare le confessioni in casa
e nel santuario, ad accogliere e intrattenersi
con la gente, sempre col
rosario e breviario tra le mani.
Da novembre 2002 non poté più
camminare: un martirio per un «ficcanaso
» come lui. E si preparò all’ultimo
viaggio, «contrattando» con
la Madonna il definitivo appuntamento:
spirò l’1 gennaio
2003, festa di Maria SS.
Madre di Dio.

Benedetto Bellesi




«Ho smesso di fumare» e…

Cari missionari,
mi presento: ho 65 anni e
qualche acciacco (colpa
della «gioventù»). Però la
vita va vissuta e… «perché
– mi sono detta – non adotti
un bambino?».
Così, senza pensarci
molto, ho smesso di fumare
e… ho raccolto la somma
di 104,00 euro, che vi
ho spedito. Scrivo queste
righe non pretendendo
nulla, ma semplicemente
perché conosciate un pochino
anche me.
Sono vedova e pensionata.
Sono stata accanto a
mio marito finché Dio
non ha deciso di riprenderselo
e posso dire di essere
stata con una persona
stupenda. Abbiamo avuto
due belle e brave figlie e adesso
faccio la nonna a
tempo pieno a tre nipoti.
Il desiderio di curare la
crescita culturale di un
bambino, in qualche paese
povero, spero che venga
accolto, anche se ho
un’età avanzata. Se Dio
mi dà una mano, perché
non provare?
Se me lo permettete, vi
abbraccio tutti con affetto,
specialmente padre
Stefano Camerlengo, missionario
in Congo e mio
conterraneo.

Ecco una lettera (ne riceviamo
tante!) che rinfranca
il cuore. Grazie.

Lettera firmata




SEIMEIZAN (GIAPPONE) dialogo interrreligioso

PAZIENZA E SILENZIO
Esperienza di un giovane italiano
in un centro giapponese,
dove s’impara l’arte
dell’ascolto e del dialogo.

Sulla cima del Narutaki, una
delle innumerevoli colline della
parte meridionale dell’isola
di Kyushu, tra verdi abetaie sorge il
centro di dialogo interreligioso Seimeizan,
termine che in giapponese
significa «Montagna della vita». Da
questa altura si ha una visione incantevole:
dalla vallata sottostante lo
sguardo si spinge sulla penisola di
Shimabara, sul mare di Ariake, fino
a toccare il monte Unzen, il più grande
cratere vulcanico del pianeta.
A Seimeizan tutto invita a guardare
lontano, non solo con gli occhi, e,
al tempo stesso, a scrutare dentro se
stessi.

TRE PERCORSI
Alla guida del Seimeizan c’è padre
Franco Sottocornola, 67 anni, missionario
saveriano, liturgista, poliglotta,
in passato docente di teologia al seminario
di Parma. Arrivato in Giappone
25 anni fa, ha fondato il Seimeizan
nel 1987 con un religioso buddista,
scomparso lo scorso anno.
Della comunità fanno parte suor
Maria De Giorgi, 55 anni, missionaria
saveriana, teologa, studiosa del
buddismo, in Giappone da quasi 12
anni, che segue le relazioni inteazionali
del centro; suor Shoji, giapponese,
70 anni, orsolina, che si occupa
dei rapporti tra il centro e l’amministrazione;
padre Yoshioka, 31 anni,
conventuale francescano, che cura tre
parrocchie della provincia rimaste
senza parroco; da ultimo sono arrivato
anch’io, discepolo alle prime armi.
La nostra vita è ritmata da un programma
che prevede quasi tre ore di
preghiera comunitaria giornaliera. Il
mattino inizia con lo zazen (meditazione);
seguono lodi e messa. Nel
primo pomeriggio abbiamo una breve
preghiera; prima di cena i vespri;
la giornata si conclude con la preghiera
di compieta.
Lodi e vespri sono recitati all’aperto,
rispettivamente nell’esatto
momento dell’alba e del tramonto;
di conseguenza i nostri orari variano
ogni tre o quattro settimane, seguendo
il ritmo del sole.
Parte della giornata è impiegata
nella manutenzione del centro. In
questo periodo mi occupo della pulizia
del parco: alberi cresciuti storti
da tagliare, con mio grande dispiacere;
sottobosco da ripulire e
quintali di foglie da raccogliere e
bruciare. Sto anche completando il
lavoro di veiciatura dell’ultimo edificio:
una casetta a due piani in legno,
costruita secondo lo stile tradizionale,
con un sistema di incastri
senza utilizzare un solo chiodo. A
tali occupazioni si aggiunge l’impegno
degli ospiti.
Oltre al lavoro e preghiera, mi dedico
allo studio in tre diverse direzioni.
Prima di tutto la lingua giapponese:
un ottimo libro mi aiuta a
memorizzare rapidamente gli ideogrammi;
lo studio della grammatica
e la conversazione coi membri della
comunità mi permettono le conversazioni
più elementari.
La seconda direttiva riguarda lo
studio del buddismo giapponese, attraverso
la lettura di libri, conversazioni
con padre Franco e suor Maria
e periodi di condivisione di vita. Ho
da poco trascorso quattro giorni in
un tempio zen, su una montagna a
un paio d’ore da qui. Ci si alzava alle
tre del mattino, si stava sempre a
piedi nudi e si praticava lo zazen
quattro ore e mezza al giorno. A parte
il dolore alle gambe, sono tornato
molto soddisfatto: ho imparato cose
nuove sulla meditazione e la vita
quotidiana nel tempio; ho fatto amicizia
con un aspirante bonzo giapponese.
Spero di ripetere una simile
esperienza in un tempio di Nagasaki.
Il terzo percorso consiste nella lettura,
sotto la guida di suor Maria, dei
documenti della chiesa riguardanti il
dialogo interreligioso, a partire dal
Concilio Vaticano II.

INCONTRI
In questo periodo abbiamo compiuto
una serie di visite particolarmente
interessanti: a un sito archeologico
dell’età del bronzo, un tempio
shintornista e monastero buddista, nel
quale abbiamo avuto un incontro
con un bonzo della scuola Tendai.
Altrettanto significativi sono gli
incontri con gli ospiti. Abbiamo avuto
12 seminaristi e giovani preti,
appartenenti a vari istituti missionari,
per un corso di introduzione alla
cultura e spiritualità giapponesi, con
conferenze tenute da padre Franco,
suor Maria e padre Sonoda.
In un altro incontro abbiamo invitato
al centro una maestra della cerimonia
del tè (cha-do) e della disposizione dei fiori (ka-do) per offrire ai
nostri ospiti un primo approccio a
queste arti tradizionali. Con grande
sorpresa ho notato che i giovani missionari
provenivano tutti da paesi del
sud del mondo: Filippine, Indonesia,
Messico, Congo e Vietnam.
Un momento particolare l’abbiamo
vissuto quando sono venuti al
centro 24 membri di un’organizzazione
protestante di Kyoto, in maggioranza
giapponesi, con alcuni tedeschi,
inglesi e un finlandese. Tale
organizzazione è stata la prima, in
Giappone, a occuparsi di dialogo interreligioso:
ora vorrebbe creare un
proprio centro sul modello del Seimeizan.
Per alcuni giorni si è parlato
della storia, organizzazione e spirito
del nostro centro. Tutti hanno
partecipato ai nostri momenti di
preghiera.
Spesso tutta la comunità si reca a
celebrare la messa domenicale nella
cittadina di Tamana, una delle tre
parrocchie che seguiamo. La chiesetta
è piccola e, come ovunque in
Giappone, bisogna togliersi le scarpe
prima di entrare. La comunità
parrocchiale è molto unita; prevalgono
le donne di una certa età; mentre
i giovani, una ventina, frequentano
solo raramente.
La domenica, infatti, le scuole organizzano
saggi e gare sportive, alle
quali gli alunni sono praticamente
obbligati a partecipare. Gli studenti
degli ultimi anni di scuola superiore,
invece, la domenica frequentano
corsi speciali di preparazione agli esami
di ammissione all’università.
Tempo fa, la parrocchia ha orga-

nizzato un bazar, cioè una serie di
bancarelle per la raccolta di fondi.
Sono finito nel reparto cucina e mi
sono distinto nel preparare la soba,
una pasta simile agli spaghetti che,
dopo essere lessata, viene grigliata alla
piastra con pancetta, insalata, carote,
germogli di soia e salsa.
Ciò che maggiormente ci procura
gioia e fiducia è il cammino delle persone
che si preparano al battesimo.
Suor Maria sta seguendo una signora
sposata, di 40 anni, e un ragazzo
di 18. Ogni mese teniamo un ritiro
di preghiera. Vi partecipano i fedeli
delle tre parrocchie e vari non cristiani
in ricerca.
Al «nucleo storico» dei partecipanti
a questi ritiri appartiene una signora
simpatica e attiva, splendido
esempio di laicato missionario: fin
dalla fondazione del Seimeizan ha
portato a questi ritiri amiche e conoscenti
non cristiane. Alcune di esse
hanno intrapreso il cammino dei catecumeni.
Alla messa domenicale nella parrocchia
di Tamana arriva pure, a piedi
e da sola, una signora di 90 anni.
È una maestra di sho-do, l’arte tradizionale
della calligrafia; alla sua veneranda
età, ha incominciato a
prendere lezioni di inglese. È interessata
al cristianesimo; per questo
ha iniziato a frequentare la messa
domenicale. Personaggi così non
sono rari qui in Giappone.
Non è facile entrare nell’animo
giapponese e cogliee le infinite
sfumature. Ma ciò che
è bello è l’atteggiamento che si vuole
instaurare nel confronto degli altri
credenti: rispetto, ascolto, armonia,
attenzione e… tanta pazienza.
Perché da tutto ciò nasca
in tutti la ricerca sincera
della verità.

Fabio Limonta, di Oggiono (LC), 30 anni,
è laico missionario della Consolata:
ha frequentato il nostro Centro di Bevera
e ha alle spalle alcune esperienze di
volontariato in Kenya, India e Giappone
(proprio presso il Seimeizan).

BUDDISMO
GIAPPONESE

Idea chiave del buddismo è che tutti
gli esseri viventi sono imprigionati in
un ciclo infinito di reincarnazioni; il
continuo nascere-e-morire è sperimentato
come sofferenza; da qui lo
scopo di questa religione: liberare
l’uomo da tale ciclo di rinascite, culminante
nell’«illuminazione».
Al di là di questa unità dottrinale, il
buddismo si presenta in un’infinità di
correnti con profonde differenze. In
Giappone esistono 13 denominazioni
o correnti, ulteriormente divise in
un centinaio di scuole. Tali differenze
sono di carattere storico, filosofico e
cultuale.
Dal punto di vista filosofico, alcune
denominazioni ritengono l’illuminazione
raggiungibile con le proprie
forze, con lo studio delle scritture,
ascesi, pratiche di tipo magico, meditazione.
A questa categoria appartiene,
il famoso zen.
Per altre correnti l’iIluminazione è raggiungibile
solo grazie all’intervento di
un’entità superiore. Elemento caratterizzante
di queste denominazioni è la
fede in una divinità chiamata Budda
Amida(da non confondere col Budda
storico, Siddharta Gautama), da cui il
nome del movimento: amidismo.
Attualmente, la denominazione più
numerosa è la nichiren(dal nome del
fondatore), che conta più di 30 milioni
di fedeli. Si distingue per una forte
impronta nazionalista e, contrariamente
alla tradizione buddista, manifesta
forti critiche nei confronti di altre
religioni e correnti buddiste.
Solidamente organizzata, è tesa al
proselitismo esasperato, fino a teorizzare
l’uso della violenza per diffondere
il proprio credo.
Benché in Occidente si parli di
«monaci e monasteri buddisti»,
nel buddismo giapponese non esiste
niente di equiparabile alla nostra tradizione
monastica. Quello del monaco
è, in molti casi, un mestiere che si tramanda
di padre in figlio. I «monaci»,
infatti, sono quasi tutti sposati e vivono
gestendo il tempio ereditato dalla
famiglia; i «monasteri» sono luoghi di
formazione dei giovani aspiranti, la
quale può durare da pochi mesi, per i
laureati in una università buddista, a
due anni per chi ha un titolo di studio
inferiore.

CRISTIANESIMO IN GIAPPONE
La prima evangelizzazione del Giappone risale alla metà del 1500, con l’arrivo
di san Francesco Saverio e altri gesuiti. Il cristianesimo conobbe subito una
rapida espansione, con centinaia di migliaia di battezzati, tra cui molti nobili e
signori locali. Ma alla fine di quel secolo sorse il timore che la diffusione del cristianesimo
potesse favorire propositi di conquista del paese da parte delle grandi
potenze cattoliche dell’epoca, Spagna e Portogallo. Iniziò, quindi, un’epoca di
tremende persecuzioni, con torture e crocifissioni di massa. Uno degli episodi più
noti ha per protagonisti san Paolo Miki e 25 compagni, religiosi e laici, crocifissi
a Nagasaki il 5 febbraio 1597.
L’apice della persecuzione fu raggiunta nel 1637: 37.000 contadini, in gran
parte cristiani, furono massacrati nella fortezza di Shimabara per essersi ribellati
alle vessazioni dei feudatari locali.
Per più di 200 anni l’intero paese rimase isolato dal resto del mondo, ma i cristiani
scampati alle persecuzioni conservarono di nascosto la propria fede.
Dopo l’apertura forzata dei porti del Giappone nel 1853, a Nagasaki si formarono
alcune comunità di europei e i francesi costruirono una cappella. Nel 1865,
un gruppo di «cristiani nascosti», riconosciuti i simboli della propria fede, si presentò
al sacerdote e si venne così a sapere dell’esistenza di queste antiche comunità
cristiane. La chiesetta fu ribattezzata «chiesa del ritrovamento» ed è uno dei
pochissimi edifici di Nagasaki sopravvissuti alla bomba atomica.
Gli editti contro il cristianesimo, però, erano ancora in vigore e, dal 1867 al
1873, i cristiani dovettero subire una nuova persecuzione con imprigionamenti e
deportazioni. Solo nel 1889, con la promulgazione della nuova costituzione, fu
garantita la libertà di culto.
Oggi il cristianesimo gode piena libertà, ma vari problemi ne impediscono l’espansione.
Prima di tutto l’idea che si tratti di una religione occidentale e,
come tale, estranea. Lo stesso buddismo, prima di essere completamente accettato,
ha impiegato secoli e subito un processo di «giapponesizzazione».
In secondo luogo il cristianesimo, anche dal punto di vista storico e culturale, è
quasi sconosciuto. Meno dell’1% della popolazione è cristiana e i libri di scuola
dicono pochissimo dell’evangelizzazione del XVI secolo. La chiesa cattolica è
conosciuta come ente filantropico, che gestisce scuole e ospedali. L’aspetto propriamente
religioso e spirituale è quasi ignorato.
Tra le difficoltà maggiori ci sono alcune peculiarità culturali. Per esempio, i giapponesi
privilegiano un tipo di pensiero concreto, rispetto a quello astratto a noi
familiare. Soprattutto non esiste l’idea del peccato come è inteso nel cristianesimo:
l’etica giapponese non è fondata sull’obbedienza a una legge morale, ma
piuttosto sul rispetto di un complesso sistema di convenzioni sociali. In altre parole,
il male non è violare un comandamento di Dio, ma rompere l’armonia all’interno
del gruppo d’appartenenza.
Infine, il processo di secolarizzazione e, in certa misura, una vera e propria decadenza
sta portando la
società giapponese all’indifferenza
verso i valori
spirituali, anche quelli
insiti nelle religioni tradizionali,
come il buddismo
e lo shintornismo. La
grave recessione economica
di questi anni sta
modificando molti aspetti
della vita sociale, dal
mondo del lavoro a quello
della scuola, per avvicinare
il paese al modello
occidentale, facendo così
crescere individualismo e
competizione.

Fabio Limonta




Se acquisti il cellulare…

Cari missionari,
è proprio vero quel che ha
scritto SILVIA BATTAGLIA a
proposito dei mobilieri italiani
e dello sfruttamento
non sostenibile delle
foreste tropicali (Missioni
Consolata, marzo 2002).
Nonostante le numerose
iniziative, tese a rassicurare
i consumatori più
sensibili, i bulldozer continuano
a farsi beffe di
tutte le raccomandazioni
delle Ong e di tutti gli appelli
del papa (ribaditi
con particolare intensità
in occasione della Giornata
giubilare del mondo
agricolo) contro la deforestazione
e la desertificazione.
Nonostante sia ampiamente
risaputo che lo
sfruttamento sostenibile,
alla lunga, è più produttivo
anche da un punto di
vista economico (non è
forse l’industria farmaceutica
a premere perché le
specie vegetali e animali
delle giungle tropicali non
scompaiano prima ancora
di essere state scoperte e
non si portino nella tomba
segreti chimici che potrebbero
essere utilizzati
per la messa a punto di
nuovi farmaci?), le compagnie
del legname continuano
imperterrite nei loro
programmi di annientamento
della natura nel
nome del progresso, nel
nome della competitività,
nel nome dell’impegno
per la creazione degli ormai
leggendari nuovi posti
di lavoro.
Quando l’intervento
delle compagnie avviene
in concertazione con bande
criminali e centri di
potere occulto, che controllano
l’estrazione e il
commercio di diamanti,
oro, uranio e coltan (la
pregiata combinazione di
tantalite e colombite che i
produttori di telefonini e
personal computer considerano
una materia prima
assolutamente indispensabile),
allora anche il termine
«deforestazione» diventa
un eufemismo: la
foresta subisce un vero e
proprio sventramento.
Se sono veri i dati diffusi
dall’associazione britannica
Global Witness, i nostri
connazionali che operano
nel settore
dell’arredamento danno
un contributo tutt’altro
che trascurabile alla spirale
della violenza e della
guerra, all’escalation della
corruzione, alla crescita
del degrado ambientale e
sociale in paesi come Liberia,
Congo (R.D.), Camerun.
L’Italia figura al 5° posto
nella classifica delle
nazioni che approfittano
della tragedia della guerra
civile in Liberia per importare,
a prezzo stracciato,
legname di primissima
qualità; e, checché ne dica
Mondo Legno (la rivista
dei mobilieri italiani), partecipa
in maniera significativa
alla desertificazione
del Camerun, dove, nel
90% dei casi, le operazioni
di taglio vengono effettuate
in modo illegale.
Quando allestiscono saloni
del mobile, esposizioni
di nuovi modelli di
telefonini e personal computer,
mostre di oro, perle
e diamanti, i nostri imprenditori,
managers e
mecenati vari non si sognano
neppure lontanamente
di dire una parola
sulle tragedie ecologiche
e umanitarie che hanno
reso possibile un nuovo
«24 carati», la fabbricazione
di un arredo sofisticato
e la realizzazione di
un cellulare della III o IV
generazione…

«Negli ultimi spazi verdi
dell’Africa occidentale
e centrale – scrive ancora
il dottor Rondina – vivono
alcune minoranze etniche,
uomini e donne di
piccola statura. Li abbiamo
sempre chiamati
“pigmei”, ma in realtà sono
dei “giganti” quanto a
conoscenza di piante e animali
(non a caso gli antropologi
li considerano
vere biblioteche viventi).
Per i pigmei la foresta
è acqua, cibo, riparo, casa.
Ricordiamocelo
quando, per abbellire la
nostra casa, ci viene voglia
di ordinare un nuovo
parquet, una nuova
cucina, una nuova camera
da letto. O, per paura
di “rimanere indietro”,
sentiamo l’impulso di
comprare un altro cellulare
o un altro personal
computer».

Francesco Rondina




Lettere

Daniela e la nonna
Caro direttore,
nel torpore della stampa cattolica sui temi ecologici, resto positivamente stupita di Missioni Consolata. Ho letto infatti sul suo sito internet il diario del Vertice di Johannesburg Rio+10 su «lo sviluppo sostenibile».
Una considerazione: è stato un bluff. Il vostro inviato lo ha scoperto lentamente: all’inizio egli era sospettoso verso i rappresentanti del Controvertice, ritenuti «pacifisti»; poi ne ha riportato i lavori. I pacifisti sono stati gli unici a dire qualcosa di serio; e, se qualcuno sperava che arrivasse il black block a spaccare tutto (e coprire il disastro dei lavori ufficiali), è rimasto deluso.
Sono contenta che affrontiate il tema «ambiente» in modo esaustivo. La bibbia in questo è profetica e ha anticipato quanto sta succedendo oggi.
Sono una studentessa di biologia, credente, con gli occhi aperti sulla realtà. La cultura scientifica, unita alla fede, mi obbliga a riflettere su quanto sta accadendo. Siamo tutti figli di Dio: Egli ci dà la possibilità di dominare il creato, ma non di distruggerlo. Invece, stiamo rovinando il piano divino.
Leggo Missioni Consolata da mia nonna: le rubo la rivista, anche perché lei si rifiuta di leggerla e minaccia di disdire l’abbonamento. Ho notato un inasprirsi della vis polemica contro la vostra linea editoriale, che io condivido. Non mollate!
Il vero cristiano ha la misericordia in cuore, è aperto di spirito, ma necessita sempre di stimoli per cogliere la verità. Una promessa: se la nonna straccerà l’abbonamento, il mio ragazzo ed io prenderemo il suo posto!
Daniela (via e-mail)


Daniela, convinci la nonna a leggere la rivista e… «voi due» abbonatevi (bastano 22 euro). Missioni Consolata è «la rivista missionaria della famiglia»; ma è tale, se viene letta da nonni e nipoti, genitori e figli, pur con idee diverse. E guai se non ci fossero! Nel caso contrario, i lettori sarebbero «già tutti allineati». Allora, addio pluralismo! E la rivista sarebbe inutile.
Il diario del Vertice di Johannesburg è stato curato da padre Rocco Marra, missionario in Sudafrica, ed è apparso su www.missioniconsolata.it, il sito della rivista.

La Mole antonelliana «violentata»
Cari missionari,
i miei 72 anni non mi permettono di essere superficiale. Vi esprimo un grazie e tanta stima.
Poiché voi, missionari, siete anche uomini, potete accettare un consiglio: quando trattate i diritti umani, riflettete bene prima di scrivere. Ci vuole rispetto pure per il corpo (che è «tempio»), specie se si accenna al sesso femminile.
Ndr: l’autrice allude al tema «scabroso» dell’infibulazione (cfr. Missioni Consolata, maggio 2002).
Nessuno di noi si presenterebbe in Piazza Duomo in bichini o con il cappotto sulla spiaggia. Ogni cosa va fatta bene, secondo il tempo e il luogo.
Affronto pure il tema «discariche». È un problema grande e attuale, specie nelle grandi città. Ne sappiamo qualcosa mio marito ed io, che lavoriamo nei servizi ambientali. Tutti i giorni siamo sommersi dalle «monnezze» di Milano.

Ma, chissà perché, Missioni Consolata di settembre ha «violentato» la Mole antonelliana… con una massa di rifiuti. La colpa è dell’uomo… Io, al posto della Mole (sommersa da rifiuti), avrei messo un individuo nudo, con la barba lunga che lo copre e un pancione pieno di ogni ben di Dio (il ricco epulone del 2002); e gli avrei affiancato un piccolo individuo, magro come uno spaventapasseri, con in mano un bicchiere di plastica, che chiede l’elemosina…

Occorre un’educazione a monte delle persone: in famiglia, nelle scuole, negli ambienti civili e religiosi; se necessario, con cartelloni «non imbrattare», «non sputare», «non bestemmiare»… (come ai tempi del Duce).

In Germania, oltre 20 anni fa, mi colpirono le strade pulite: i tedeschi riciclavano (già allora) i rifiuti. Inoltre mi stupirono i quadei degli scolari, dove si leggeva pure: «Non compriamo la fettina di vitello, ma continuiamo a mangiare carne di maiale! I vitelli alleviamoli per gli italiani, abituati a spendere i loro pochi soldi in modo diverso da noi».

Altri consigli: a scuola sostituire le «merendine» con un frutto; non usare sacchetti di plastica per la spesa, ma di stoffa; esigere bottiglie di vetro per l’acqua minerale…

Coraggio, amici, e uniamoci in queste lotte! I vantaggi si vedranno domani. Se questa lettera, non è degna di pubblicazione, leggetela almeno a tavola. Forse servirà per un commento o una risata.
Cherubina Lorusso Milano


L’idea della Mole antonelliana, «violentata» da rifiuti, è della Provincia di Torino per stimolare, con un’immagine ad effetto, la riduzione delle discariche e incoraggiare la raccolta differenziata.
Compare anche la domanda: «Secondo voi, cosa manca a questa pubblicità per essere perfetta?». Forse mancano proprio «un epulone» e «tanti lazzaro» spaventapasseri.

Infibulazione e diritti umani
Spettabile redazione,
chiarisco quanto ho detto sull’infibulazione (Missioni Consolata, maggio 2002).
La rabbia ci porta a rispondere che «l’infibulazione è affare nostro», specie quando l’occidente si avvale del potere o diritto di togliere usi e costumi di altri popoli. È risaputo inoltre che il mondo occidentale, ricco e opulento, non ha fatto quasi niente per aiutare i popoli a risolvere i problemi più gravi: povertà, sanità, scuola…

L’occidente tira fuori in ogni occasione l’infibulazione, chiedendo la sua abolizione. Non sarà l’ennesimo pretesto per lavarsi la coscienza di fronte a quanto non ha fatto e continua a non fare al cospetto delle gravi condizioni economiche dei popoli?

Si può non condividere l’infibulazione, ma nessuno deve ritenere che sia un vero problema per i popoli interessati. L’eventuale decisione di abolirla spetta alle donne: esse decideranno solo dopo aver avuto la possibilità di accedere all’istruzione scolastica e sanitaria. In secondo luogo: bisogna educare gli uomini a frenare i loro impulsi bestiali.

Ma che dire dell’Italia (che si ritiene evoluta, emancipata e rispettosa delle leggi e dei diritti umani), quando mette in discussione la violenza sessuale subita dalla donna… solo perché la vittima indossa i jeans?

Alia Sharif Aghil Torino


Dal 1948 vige la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», oggi sottoscritta da tanti paesi sia occidentali che orientali. Se l’infibulazione ne è una violazione (come, ad esempio, hanno dichiarato la Convenzione dell’Onu sui diritti dei bambini nel 1989 e l’Unicef nel 1996), la pratica va abolita: certamente con il ruolo protagonista delle donne.

«Due terre, una missione»
Cari missionari,
ho conosciuto Luigi Santa, vescovo di Rimini, in occasione dello «spostamento» della chiesa parrocchiale, distrutta dalla seconda guerra mondiale, dal colle di San Patrignano alla borgata di Ospedaletto. Egli, nei primi anni ’50, si portò sul luogo, osservò con attenzione e, dopo una breve riflessione, disse: «Qui sorgerà la nuova chiesa». La decisione, a distanza di anni, si dimostrò lungimirante… Per me mons. Santa fu una figura patea straordinaria.
Grazie, pertanto, del graditissimo libro che ne illustra la vita prima come missionario della Consolata e poi come vescovo.

Dalla scrittura tremolante capite che devo essere molto vecchio: infatti ho 92 anni. E si vedono!

Don Martino Vari Ospedaletto (RN)


Il libro di cui parla don Martino è del giornalista Angelo Montanati; è intitolato Due terre, una missione, Emi, Bologna 2002. Le «due terre» sono l’Etiopia, dove Luigi Santa fu missionario e vescovo dal 1923 al 1943, e la diocesi di Rimini.
Il volume è acquistabile presso la libreria «Missioni Consolata»
(tel 011/447.66.95;
e-mail: libmisco@tin.it).

Una chiesa da 8 milioni di euro
Caro direttore,
che pensare di una nuova chiesa a Modena da 8 milioni di euro? È un’opera santa o un’offesa all’evangelica opzione per i poveri?

«Se il cibo prodotto nel mondo fosse diviso equamente, tutti potrebbero consumare 2.760 chilocalorie al giorno» ha dichiarato Jacques Diouf, direttore della FAO. La diseguaglianza distributiva fa sì che, pur avendo abbastanza cibo per sfamare tutti, 800 milioni di persone sono alla fame. Di fronte a tale realtà, in Italia c’è chi pensa ugualmente di avere diritto a strutture plurimiliardarie.

La chiesa è chiamata ad una riflessione critica: non elemosina, ma condivisione… «Spezza il tuo pane con l’affamato» (Is 58, 7). «Se un fratello o una sorella sono nudi e hanno bisogno del pane quotidiano e uno di voi dice “andate in pace, riscaldatevi e nutritevi” senza dar loro il necessario, a che giova?» (Gc 2, 15 ss)…

«Gesù prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, li benedisse, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e portarono via 12 ceste piene dei pezzi avanzati» (Mt 14, 19-20). Con questo testo si ricorda il miracolo della moltiplicazione dei pani. In realtà è il miracolo della «condivisione». Gesù rifiuta di congedare la folla, ne sente compassione e… spezza i pani, invita i discepoli a distribuirli a tutti: è la condivisione che opera il miracolo, cui siamo chiamati a credere.

Una volta superato l’egoismo (pensare a noi per primi), avviene il miracolo: non solo tutti mangiano, ma portano via anche 12 ceste di pane avanzato. Vangelo è pure questo: il superfluo non deve essere frutto dell’egoismo, ma della generosità di Dio.

«Modena Amica dei Bambini Onlus» Modena


La domanda iniziale, più che rivolta a noi (che, ignari della situazione locale, non possiamo rispondere), coinvolge i fedeli della diocesi di Modena (e non solo), che hanno il «polso» della scena e del retroscena.

Dante consiglia…
Caro direttore,
riferendomi ai giudizi avventati e ai consigli non richiesti, rivolti a lei e ai redattori della rivista, mi vengono in mente i versi di Dante: «Or tu che se’ che vuo’ sedere a scranna/
per giuducar di lungi mille miglia/
con la veduta corta
d’una spanna?»
(«Paradiso», XIX, 79).
Lettera firmata Torino


Ottima citazione. Però il consiglio, dono dello Spirito Santo, è sempre gradito.

«Multirazziale» o «multietnico»?
Caro direttore,
complimenti per Missioni Consolata, sempre più bella. Nel numero di settembre è stato interessantissimo il «Diario di un extracomunitario».
Però sono pignolo e faccio due piccole contestazioni linguistiche (il linguaggio tuttavia è importante, specialmente nei titoli). La prima: essendo Snezana Petrovic una donna, ritengo che il titolo della sua rubrica andrebbe modificato in «Diario di “un’extracomunitaria”».

La seconda contestazione è più profonda: scrivere «Italia multirazziale» fa pensare che nel nostro paese esistano tante razze; invece oggi nessuno scienziato serio lo sostiene, anche perché si rischia di cadere nel «razzismo».

Dunque: il termine «multirazziale» andrebbe sostituito con «multietnica». Non vi pare?

Daniele Barbieri Imola (BO)

Sì, ci pare. Infatti gli uomini e le donne del pianeta appartengono, sì, a «popoli diversi», ma costituiscono «un’unica razza»: quella umana.

Nonostante la caduta del muro
Egregio direttore,
la lettera del signor Francesco Rondina (Missioni Consolata, luglio/agosto 2002) lascia perplessi.

L’argomentare dello scrivente ignora la storia degli ultimi 15 anni. È caduto il muro di Berlino e il socialismo reale. Il comunismo è stato così disastroso per l’Europa dell’Est (e per i popoli sovietici) che la pressione popolare di quei paesi ha rovesciato i governi locali. In 45 anni, mentre il resto dell’Europa progrediva economicamente e democraticamente, il comunismo teneva i popoli dell’Est in miseria e sotto governi autoritari e feroci.

Il signor Rondina non ha letto bene Marx, strenuamente avverso alla religione, ritenuta «oppio dei popoli». Inoltre il lettore sembra ignorare che, quando un’utopia filosofica si rivela fonte di miseria, despotismo, massacri, il giudizio è drastico: il marxismo è tutto intrinsecamente errato.

Ma ciò che lascia più perplessi è l’argomentare confuso del signor Rondina, che sembra riecheggiare il terzomondismo, utopie sociali comunistiche e altro ancora. Non si possono affrontare argomenti seri (come gli attuali problemi economico-sociali) con vaghezza e frasi fatte. Perché giudizi così negativi sul riformismo? Nell’Europa dell’Ovest, durante gli ultimi 50 anni, si è rivelato fonte di progresso socio-economico?

O il signor Rondina nega che oggi, in Europa, si sta meglio (sotto tutti i punti di vista) di come si stava subito dopo la seconda guerra mondiale?

Silvia Novarese Torino


Il dottor Francesco Rondina non nutre alcuna simpatia verso un comunismo oppressore, materialista e ateo…

Buon natale
Leggo con interesse la corrispondenza con i lettori della rivista (prima non lo facevo) e ammiro il direttore che pubblica le lettere denigratorie. Missioni Consolata è straordinaria per contenuti e foto. Buon natale.

p. Luigi Duravia Colombia

Croci d’oro di vescovi e… Marylin Monroe
Ho riflettuto su «Crocifissi con diamanti» di Missioni Consolata di luglio/agosto 2002. La giusta conclusione è che tali crocifissi non sono secondo lo spirito del vangelo. E si porta l’esempio del cardinale Van Thuan, che aveva una croce pettorale di legno e ferro, che egli stesso si costruì durante la dura prigionia in Vietnam durante il comunismo.

Come cristiano (pur con difetti e contraddizioni), pongo una domanda: è coerente la chiesa quando offre a tutti i prelati, vescovi e cardinali, sontuosamente vestiti, croci d’oro e anelli con diamanti?… Parlai di tale sfarzo con un dottore della chiesa, che mi rispose: «Se lei fosse invitato dal suo principale, non si presenterebbe ben vestito?». Certo che sì!

Io però non pretendo che il clero vada stracciato; tuttavia una maggiore sobrietà non farebbe male. «I preti ci insegnano povertà e carità, e guarda loro come sono agghindati!»: è una critica che si sente.

Un’altra cosa: in chiesa non sopporto di trovare ceri da 50 centesimi e ceroni da… 5-10 euro! Dio farà forse la grazia più grande in proporzione alla misura delle candele? Queste lasciamole vendere alle baracche fuori! Ma in chiesa ognuno faccia l’elemosina che si sente e si può permettere. Mi pare, invece, che si mercanteggi un po’ troppo. Ora si sta persino arrivando al pagamento per entrare in certe chiese…

Gaetano Covezzi – Ferrara

«Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando è nudo. Non rendergli onore nel tempio con stoffe di seta per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità. A che serve che la tavola eucaristica sia carica di calici d’oro, quando lui muore di fame? Comincia a saziare lui affamato e poi, con quello che resta, potrai oare il suo altare…»: parole di san Giovanni Crisostomo (347-407).
Né si scordi Paolo VI che offre il triregno d’oro ai poveri. Lo stesso papa, al termine del Concilio ecumenico Vaticano II, dona a tutti i partecipanti «un anello semplicissimo». Ma non tutti hanno capito la lezione.

Oggi vescovi e cardinali hanno sostituito le croci d’oro e diamanti con altre più modeste. Ma dove sono finite quelle vecchie? Non tutte sono andate ai no global e non consumisti, ma sono ben custodite in robusti forzieri, insieme ai tesori della chiesa.
Certamente non pubblicherete questa nota.
Lettera anonima

Essendo anonima, potremmo non pubblicarla!… S. Ambrogio, morto nel 397, disse: «Se la chiesa ha oro, non è per custodirlo, ma per darlo a chi ne ha bisogno». E Giovanni Paolo II: «Potrebbe essere necessario alienare i beni (preziosi) per dare pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo».

Ho letto «Crocifissi con diamanti» nei giorni in cui tivù e tantissimi giornali (anche «socialmente» impegnati) facevano a gara a chi dava più spazio al 40° della morte di Marylin Monroe, riconosciuta da tanti come «l’unico vero mito americano del XX secolo».
In un film Marylin canta: «I diamanti sono i veri amici delle ragazze»; e in tantissime foto diamanti e perle sono i protagonisti. Sono questi (non occorre essere esperti di comunicazione per capirlo) il vero obiettivo del comunicatore.
In altre parole: dopo essere stata da viva (spesso suo malgrado) al centro di intrighi, la Monroe continua ad essere usata anche da morta, alla faccia delle più elementari norme di buon gusto. Moltissime persone si sono lasciate persuadere che Marylin non era semplicemente una bella donna, ma «la» bellezza; non un’attrice di cinema, ma «il» cinema; non una persona elegante, ma «l»’eleganza.

Occorre ricordare a tutti che la costruzione di miti del genere ha costi elevatissimi, sia per chi li incarna sia per chi vive nelle terre che hanno fornito la materia prima per la realizzazione di collier, braccialetti, anelli o (come ha mostrato anche Missioni Consolata) di certi crocifissi.

l – Non è vero che «i diamanti sono i migliori amici». Il diamante (ma anche oro, platino, ferro, ecc.) appartiene al regno delle cose inanimate: a differenza di uomini, animali e piante, non ha alcuna capacità di relazione: men che meno di stabilire un’amicizia con chicchessia. Può far piacere vedere un diamante o riceverlo in dono, ma l’affetto eccessivo ad esso nuoce alla crescita dell’uomo e del cristiano di entrambi i sessi. Anche quando il diamante viene appiccicato a un crocifisso.

2 – La mania dei diamanti è tanto più intollerabile quanto più tragici sono i conflitti che, ad esempio, in alcuni paesi africani si scatenano tra le bande che si contendono il controllo delle regioni diamantifere. Chi ama, compra o accetta preziosi dovrebbe, innanzitutto, valutare l’impatto che il prelievo della loro materia prima ha avuto sul rapporto tra esseri umani e su quello uomo-natura in una montagna dell’Afghanistan, in una foresta del Congo o in uno sperduto angolo del bacino amazzonico.

3 – Per una «venere» europea o americana che diventa star del cinema ci sono centinaia di «veneri spezzate» (donne molto belle, che perdono occhi, gambe e braccia) a causa di mine e guerre, alimentate dal commercio internazionale dei diamanti: lo ricordava anni fa Carla Peruzzo di Medici senza frontiere. In Angola un immenso patrimonio di bellezza femminile se ne va, perché in Italia, Francia, Stati Uniti… donne già belle e imbottite di giornielli vogliono diventare ancora più attraenti e uomini già sposati si mettono in testa che, regalando perle e pellicce, possono «conquistare» altre donne belle.

4 – Bene ha fatto A. Piersanti a contrapporre i crocifissi di Jennifer Aniston e Naomi Campbell, tempestati di oro e platino, a quello umilissimo di mons. Van Thuan, uomo-simbolo della cristianità vietnamita, dilaniata dalla guerra e poi oppressa da un regime materialista, opportunista e ateo. Il Vietnam è uno dei paesi più indebitati del mondo; per pagare il debito, sta svendendo il suo patrimonio naturale, anche perché, nel Sudest asiatico, non si tiene in debito conto la «questione estetica».

Se continuerà a imperare l’idea che i giornielli di una diva sono belli e ricchi, mentre le foreste del Vietnam (con animali e piante fantastici che rischiano di estinguersi) sono brutte e possono essere rimpiazzate da piantagioni di caffè (per mantenere il Vietnam su elevati livelli di competitività, «stracciando» la concorrenza di altri paesi, altrettanto indebitati), significa che non abbiamo capito che cos’è la bellezza.

Un capo indigeno messicano, nel giubileo del 2000, ha detto che il suo paese è in credito con il colonialismo di 185 tonnellate d’oro e 16.000 d’argento, elevate alla potenza di 300 (cfr. Missioni Consolata, maggio 2001): e ha ragione. Ma è altrettanto vero che il debito estetico (che epuloni, spreconi e celebratori di giubilei hanno contratto con la moltitudine di giubilati e diseredati) è incalcolabile nel senso matematico del termine. Vi sono pubblicazioni e libri che lo provano: per esempio il rapporto Nunca mas, Emi, Bologna 1986.

Maria Weistroffer – Bordeaux (Francia)

Ci scusiamo con la signora Maria per aver sunteggiato la sua lettera, come pure quelle di altri lettori. Cari amici, poiché lo spazio è tiranno, aiutateci con interventi più concisi. Grazie.

AAVV




MOZAMBICO: un cammino di pace che dura da dieci anni

UNA DOMENICA AL MARE, E NON SOLO
Dopo 16 anni di guerra civile, il paese ha imboccato la via della pace. Una pace operosa, che dura da un decennio, sia pure con qualche «sbandamento».
Non è un risultato di poco conto in Africa…
Su questo ed altro interviene un missionario della Consolata

Maputo, ore 7,30. L’aria nella capitale del Mozambico è frizzante. Sul cielo terso resiste ancora un quarto di luna calante: appare con un’esile sagoma in negativo bianco su un fondo azzurro intenso.

È domenica, e sto per andare in chiesa. «Prendi anche la macchina fotografica – mi ricorda padre Manuel Tavares (*) -, perché ci sarà una messa speciale». Una messa non in chiesa però, bensì nella cappella di un imponente liceo.

All’epoca del colonialismo portoghese l’istituto scolastico era retto con successo dai Fratelli maristi, religiosi. Dopo l’indipendenza del Mozambico (1975), come altre opere missionarie, la struttura venne nazionalizzata dalla Frelimo, il partito unico al potere di rigida fede marxista: e la cappella fu trasformata in magazzino. Dal 1978, nella guerra civile tra Frelimo e Renamo (il partito di opposizione clandestina), il liceo è divenuto un triste simbolo del paese, abbandonato al degrado, alla disperazione.

Con la pace è riaffiorata la speranza. E la cappella del liceo è ritornata ad essere «casa di preghiera». Questa mattina festeggia 10 anni di vita nuova, mentre in tutta la nazione si celebra il 10° anniversario degli accordi di pace, siglati a Roma il 4 ottobre 1992 presso la Comunità di sant’Egidio.

La celebrazione è davvero «speciale», con canti possenti e danze fantasiose al ritmo di tamburi e nacchere. Le parole più ricorrenti sono «fede giorniosa, speranza incrollabile, carità generosa». Non un accenno agli scontri armati, terribili, tra gli allora «comunisti al potere» e i «banditi dell’opposizione», alle tragedie subite e inferte. Forse perché entrambi i «nemici» sono ora in… ginocchio.

Mentre scatto le ultime foto della processione finale, mi vengono in mente due versi del poeta swahili Robert Shaaban:

«Ricordare è un dovere, dimenticare è un sollievo».

Durante il pranzo

Nel rincasare a piedi, mi perdo. Finisco in Avenida O Chi Ming ed anche in Avenida Mao Tze Tung. Finalmente (dopo qualche richiesta di informazioni) incrocio l’Avenida 24 de Julho, dove al numero 496 risiedono i missionari della Consolata. Padre Manuel Tavares mi accoglie con una smagliante risata di comprensione e, guardando l’orologio (sono le 12 abbondanti), mi invita subito a pranzo.

Le vie della capitale dedicate a O Chi Ming e Mao Tze Tung ricordano il recente passato marxista-leninista del paese. Però, come mai non è stato cambiato il nome coloniale 24 de Julho? «Forse perché questa data non significa niente per nessuno» risponde padre Manuel con un briciolo di ironia. Intanto mi scodella un saporito minestrone di verdura.

Portoghese, padre Tavares ha operato in Mozambico anche durante il colonialismo, non condividendo però le scelte della madre patria. Oggi analizza pure lo spirito missionario del tempo e afferma: «Durante il potere coloniale noi, portoghesi, ci sentivamo padroni. Anche altri missionari, di nazionalità diversa, difendevano il regime. C’era la convinzione di avere un messaggio assolutamente indiscutibile da portare alla gente; ci si riteneva salvatori del popolo, il quale doveva soltanto accettare le nostre parole per migliorare umanamente e spiritualmente. Questo era l’atteggiamento, sia pure inconscio, nel colonialismo. Poi…».

Poi è divampata la lotta al regime coloniale e il Mozambico ha raggiunto l’indipendenza. «Questi eventi sono serviti a purificare il nostro pensiero; hanno fatto rientrare in proporzioni più giuste anche l’azione missionaria».

Con l’indipendenza, tutto è mutato: il potere politico, ma anche quello ecclesiastico; prima i vescovi erano portoghesi, poi (dal mattino alla sera) quasi tutti mozambicani, e con una mentalità africana.

«Oggi la chiesa vuole essere sempre di più mozambicana. Questo esige da noi missionari un atteggiamento molto diverso rispetto al passato».

Se la lotta al colonialismo, l’indipendenza nazionale e il successivo regime marxista-leninista non fossero bastati a mettere in crisi il missionario, il colpo fatale gli è stato inferto da 16 anni di guerra civile… Al presente nella nazione è in atto «la costruzione della pace».

Padre Manuel, come sta sviluppandosi il processo? «Bene, pur nelle difficoltà. Mi riferisco, in particolare, alle elezioni del 2000, che sarebbero state vinte dal partito di opposizione Renamo. Ma la Frelimo avrebbe imbrogliato nella conta dei voti e così ha conservato il potere. Non sono mancate accuse; però, di colpo (data anche l’emergenza dell’alluvione), sono cessate. Il che fa supporre che la maggioranza abbia concesso qualcosa all’opposizione».

Cosa… non si sa.

Un altro scontro violento tra governo e opposizione si verificò l’anno scorso, allorché a Maputo una manifestazione di protesta della Renamo fu caricata dalla polizia, con un centinaio di vittime. E altrettanti furono i morti per asfissia in una prigione dello stato. Nemmeno su questo si saprà mai la verità.

Vi furono anche omicidi di singoli «eccellenti»: quello del giornalista Carlos Cardoso, per esempio; stava smascherando la corruzione, che alligna fra gli stessi politici… e pagò con la vita.

Eppure questi fatti gravi non hanno impedito a maggioranza e opposizione di dialogare, di accordarsi con taciti compromessi, certamente discutibili in una democrazia compiuta. In Mozambico, però, tutto è subordinato alla comune costruzione della pace, per la quale si sacrifica tutto. «E forse non a torto, specialmente se si ricordano (e tutti lo fanno) gli interminabili 16 anni di guerra civile, gli innumerevoli profughi, le immani distruzioni e oltre un milione di cadaveri straziati…».

Padre Manuel mormora le ultime parole sottovoce, come se parlasse a se stesso. Segue una pausa di silenzio. Di botto, quasi per un comune accordo, lasciamo il refettorio. Non ci dispiace una siesta. Fa caldo. L’aria fresca del mattino è un ricordo.

Sul Lungomare

Al risveglio, padre Manuel propone una passeggiata sul pittoresco lungomare del porto di Maputo. La conversazione continua seduti su una panchina del molo della città, lo sguardo sull’infinito.

Il missionario, pur essendo stato critico del regime coloniale del Portogallo, ha tuttavia sofferto per il patatrac politico della sua nazione. Subito dopo l’indipendenza, i bianchi in Mozambico hanno corso il pericolo di sommarie cacce all’uomo. Drammatica, tragica, è divenuta la situazione quando diversi missionari di varia nazionalità sono stati sequestrati, feriti, uccisi.

Oggi, padre Manuel, come ti senti quale portoghese? «Mi sento bene, perché l’attuale potere politico non fa discriminazioni. In Mozambico c’è un piccolo gruppo di bianchi che teme lo spauracchio del passato. In realtà c’è poco da temere; lo dimostra il fatto che alcuni portoghesi, costretti ad andarsene al tempo delle nazionalizzazioni, ora sono ritornati e fanno ottimi affari… Però noi missionari non dobbiamo dimenticare che siamo in casa d’altri. Come europei, vorremmo che il governo e la chiesa fossero diversi. Ma occorre fare i conti con la realtà. Bisogna rispettare le sensibilità culturali locali e lo stile africano».

«Stile africano» anche fra gli stessi missionari della Consolata, che ormai sono anche kenyani e congolesi, brasiliani e colombiani. Questo genera problemi d’intesa?

«Non vedo in Mozambico grossi problemi al riguardo, a parte qualche caso particolare, che però interessa anche i missionari europei. La diversità culturale è sicuramente un arricchimento per la missione, o può diventarlo».

Si dice che il missionario europeo prediliga le opere sociali (centri sanitari, scuole, ecc.), mentre quello africano o latinoamericano si dà alla pastorale pura…

«Non esageriamo!… C’è un missionario italiano dedito esclusivamente alla pastorale, come vi sono missionari africani e latinoamericani assai impegnati nel sociale: dipende dai progetti e dai mezzi che dispongono per realizzarli. Ritengo che dobbiamo condividere fra tutti noi (europei e non europei) anche le iniziative di promozione umana. Quando l’abbiamo fatto, i risultati sono stati ottimi».

Come vengono accolte dalla popolazione gli aiuti stranieri? Favoriscono l’intraprendenza del mozambicano o lo relegano nella passività del mendicante?

«Il popolo mozambicano non ha ancora preso in mano le sorti del proprio sviluppo. Questo è un grave problema, perché obbliga ancora il paese a dipendere dall’estero. D’altro canto il Mozambico, talora, è costretto a fronteggiare improvvise emergenze (come l’alluvione di due anni fa o la siccità di quest’anno), che ritardano lo sviluppo di decenni: in questi casi gli aiuti estei sono necessari».

Pertanto è necessario trovare un equilibrio tra il «facciamo da soli» e il «tendiamo la mano ad altri», puntando però con maggiore forza sulla prima strategia. Dopo la guerra, per circa due anni il paese è sopravvissuto grazie solo agli aiuti esteri; ma quando la gente è ritornata a lavorare, tutto è rifiorito e si è raggiunta persino l’autonomia alimentare. Peccato che, nel 2000, sia arrivata quella tremenda alluvione!

«Occorre anche lavorare con un occhio rivolto a possibili catastrofi, immagazzinando scorte alimentari in silos: questo i missionari l’hanno sempre fatto. Oltre a scongiurare la fame, tale azione preventiva frena i prezzi degli alimenti, che salgono alle stelle nelle emergenze…».

Abbandoniamo la panchina del molo. Camminiamo scortati da una maestoso filare di palme, accarezzate da una dolce brezza. Al cospetto di un bar, entriamo senza esitare: una bibita ci sta bene. Non c’è anima viva nel modesto locale. Forse proprio per questo mi lascio andare ad una domanda indiscreta: «Manuel, si dice che tu sia un vescovo mancato; o hai ancora una possibilità?».

La risposta dell’interlocutore è una risata così sonora da attirare la curiosità dello stesso barista… che ride divertito anche lui senza sapere la ragione. «Se devo essere schietto – commenta tosto il missionario -, le calze rosse dei vescovi non mi sono mai piaciute. La mia preoccupazione è stata sempre un’altra».

E cioè? «Lavorare senza protagonismi, sentirci tutti fratelli. Ciò che conta non è quanto facciamo, ma lo spirito con cui lo facciamo…». Scuote la testa padre Manuel. Un raggio di sole ne illumina il volto, mentre dichiara quasi con solennità: «Eppoi, mio caro, l’era dei vescovi stranieri è tramontata per sempre!».

Sta tramontando anche il sole sull’Oceano Indiano. Sprazzi di luce morbida vivacizzano le onde increspate dalla brezza, e dilatano l’orizzonte.

Ci avviamo in auto al 496 dell’Avenida 24 de Julho. Lungo le vie O Chi Ming e Mao Tze Tung sono ancora attivi i mercatini… Due giorni fa, nella città di Beira, mi aggiravo incuriosito tra le chiassose bancarelle di un «mercato informale». Mi è piaciuto molto il suo nome Chunga moyo, ossia «fatti coraggio».

«Chunga moyo» è stato anche il tacito programma del popolo mozambicano nel trascorso decennio, dopo la guerra. E lo sarà ancora.

Francesco Beardi




Il mondo del «non profit»

Cari missionari,
esiste un mondo, dove si
lavora in sordina, senza
pretendere «posti al sole»,
un mondo criticato da chi
non lo conosce ed elogiato
da chi vi opera. Un «mondo
sommerso», che tuttavia
sostiene l’economia
vera con ideali veri, come
quello del «non profit».
È il mondo delle cornoperative
e dei consorzi sociali,
che si inseriscono nel lavoro
dei «grandi» con
«pietre scartate» dal «sistema
». È il mondo di chi
affronta i problemi senza
puntare esclusivamente al
tornaconto personale e investe
tempo come pochi
altri. È il mondo anche dei
«disgraziati»: carcerati,
handicappati, drogati, sieropositivi.
Comunità, cornoperative e
consorzi sociali stanno lavorando
con buoni esiti e
con persone qualificate,
che sentono il lavoro come
vocazione, e non solo
come fonte di guadagno.
Come sono strutturate
queste realtà? Le comunità-
alloggio offrono un
supporto psico-educativo
e un lavoro nella stessa comunità
(tui di pulizia, di
cucina e interventi specifici
di sostentamento). Le
cornoperative e i consorzi,
oltre al supporto educativo,
offrono un lavoro secondo
la specializzazione
professionale di chi vi opera
(si va dal settore agricolo
a quello informatico).
Economicamente come
sono gestite? Da convenzioni
regionali o comunali,
ma soprattutto si reggono
su lavori che gli utenti
del gruppo svolgono: lavori
scartati dal «nostro
mondo lavorativo», perché
umili, poco rimunerativi;
lavori che non si offrono
a nessuno, perché
troppo costosi per aziende
professionalmente preparate.
Tuttavia se un datore di
lavoro, quando la mano
d’opera è costosa, la cerca
in una cornoperativa sociale…
può anche trovarsi
soddisfatto.
Terminando l’anno in
attivo, s’investe una parte
dell’utile per migliorare la
comunità o cornoperativa
(strumenti tecnici più modei
per rendere il lavoro
meno faticoso, oppure educatori
laureati in scienze
dell’educazione, che seguono
gli utenti).
I direttori di questo
mondo, se prendono il loro
lavoro come una vocazione,
possono scoprire
nuovi orizzonti e nuove
mete da raggiungere. Allora
sì che si fa qualcosa di
socialmente utile…
Oggi tutti lamentano uno
stress, la malattia della
presente civiltà meccanica.
Già negli anni Cinquanta
esisteva una bevanda pubblicizzata
come il rimedio
«contro il logorio della vita
modea».
Nel lessico quotidiano
lo stress ha assunto una
connotazione generica;
più che ad una malattia,
allude ad una disposizione,
che con varie sfumature
passa dal «viola» del
soggetto (un po’ nervoso)
al «nero» del «malato»
(chiuso nel cerchio della
sofferenza).
Viviamo tempi che mettono
a dura prova l’animo
di tutti. I motivi per alzarsi
dal letto la mattina diventano
sempre più difficili
da intrecciare; il senso
del dovere (che in passato
agiva da farmaco), sembra
essersi perso, lasciando il
posto ad un’«autorealizzazione
» di cui tutti parlano,
ma che nessuno sa esattamente
mostrare.
Non intendo fare l’apologia
del mondo sotterraneo:
anche in questo, infatti,
esistono «nodi» irrisolti.
Tuttavia chi vive in
questo mondo appare meno
esposto allo stress.
Non è poco.

Siamo grati all’amico
Giovanni, già volontario
in Zaire (oggi Congo) con
i missionari della Consolata,
per la sua riflessione
sul mondo «non profit».
Un mondo meno «stressato
», dove non si esclude
il profitto. Un mondo
«socialmente utile».

Giovanni Fumagalli