COMMOZIONE DI POPOLO

A Brasilia, la capitale del futuro,
la gente semplice vive la sua fede
con profondo sentimento
e partecipazione.
Come in occasione della festa
della Consolata
e la processione in suo onore.
A Brasilia, la capitale del futuro,
la gente semplice vive la sua fede
con profondo sentimento
e partecipazione.
Come in occasione della festa
della Consolata
e la processione in suo onore.

Brasilia è una delle poche città al
mondo (insieme con Washington)
ad essere stata totalmente
decisa e pianificata da un gruppo di
architetti e urbanisti. In effetti, a metà
degli anni Cinquanta, essendo diventata
insufficiente Rio de Janeiro, il governo
brasiliano decretava che una
nuovissima capitale doveva essere costruita
al centro del paese; una città,
simbolo del futuro del Brasile e dell’umanità.
La sua costruzione diventò
una sfida, dal momento che la più vicina
strada asfaltata si trovava a 600
chilometri e la più vicina ferrovia a
125 chilometri.
Dopo una serie di lavori titanici,
Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960
alla presenza di 150 mila invitati.
Fin dal 1964 i missionari della
Consolata avevano voluto partecipare
all’avventura di Brasilia con la
costruzione della parrocchia «Nostra
Signora della Consolata», una
delle prime aperte nella nuova città.
Attualmente vi lavorano tre missionari:
Giuseppe Galantino, Oreste
Ghibaudo e Serafino Marques; gli
ultimi, due sono «giovanotti» di 84
e 77 anni. Con loro vi è un diacono
permanente, José Luiz de Oliveira
Jesus, uno dei pilastri della pastorale,
che interessa ben 20 mila fedeli.
Ed è proprio nella modeissima
e avveniristica Brasilia che, il 20 giugno
scorso, ho celebrato la festa della
Consolata. Ma ero ben lontano dall’immaginare
ciò che avrei vissuto.

LA «VISITA» DI MARIA
La festa della Consolata, a Brasilia,
si comincia a preparare un mese prima,
grazie a un centinaio di volontari
che lavorano insieme agli agenti pastorali.
Catechesi speciali vengono
proposte soprattutto ai ragazzi, perché
possano meglio comprendere il
ruolo di Maria nella storia della salvezza.
Durante la novena, poi, ai parrocchiani
è data la possibilità di approfondire
la loro vita cristiana.
La chiesa (ma anche i quartieri della
parrocchia) viene addobbata con
bandierine, fiori e nastri. Io stesso ho
visto sul muro di un palazzo di 12 piani
un’immensa corona del rosario,
fatta di palloncini bianchi e blu. La vigilia
della festa, i catechisti vanno in
ogni quartiere a incontrare i giovani
e parlare loro della Madonna.
Ma la cosa più straordinaria (o più
curiosa) deve ancora arrivare: è «la visita
» che la Consolata compie in tutti
i quartieri della parrocchia.
Sono le ore 15, e padre Galantino
incomincia ad inquietarsi: «Dov’è il
diacono?». È lui, infatti, che ha organizzato
l’insieme delle celebrazioni
con altri volontari. Mi confida il parroco:
«Non ho mai visto una parrocchia
simile; qui davvero non sono i
preti a tirare la carretta, ma i laici! Ve
ne sono centinaia che portano avanti
la maggior parte del lavoro pastorale.
E che organizzazione!».
La polizia (due vetture e otto moto)
arriva alle 15,20. La radio è pronta,
dal momento che tutte le celebrazioni
saranno trasmesse in diretta dall’emittente
Nova Aliança de Brasilia.
Puntualmente, alle 15,25, le tre macchine
della scorta sono nel cortile.
Arriva anche mons. Geraldo de Espirito
Santo Avila, vescovo dell’esercito
brasiliano. A questo punto il carro
della Madonna «esce» solennemente
dal cortile delle missionarie
della Consolata, dove è stato preparato
e ornato: su una vettura, coperta
di paramenti bianchi e blu e di fiori,
troneggia la statua della patrona.
Oggi Maria va a visitare i suoi fedeli!
Mi avevano detto che i brasiliani
non brillano per la puntualità. Ebbene:
o gli abitanti di Brasilia non sono
brasiliani o io devo rivedere i miei
pregiudizi… La visita doveva cominciare
alle 15,45; dopo essere passati
negli otto quartieri della parrocchia,
si ritornava nella chiesa centrale per
la messa solenne delle 19. «Ma questo
– mi dicevo – non succederà prima
delle 20. Invece alle 19,05 la messa iniziava!
La processione si mette in marcia
e ci fermiamo nel primo quartiere.
Vedendo arrivare la statua, la gente
canta e grida: «Viva la Madonna! Viva
la Consolata!». In ogni quartiere
c’è un’orchestra, formata da giovani,
che suona e intona il primo canto alla
Vergine. La gente risponde in coro.
Il vescovo, assistito dal parroco,
scende dalla vettura, mentre fuochi
artificiali e petardi scoppiano nel parco
vicino. Si avvicina al carro della
Madonna ed inizia una preghiera:
con lui la gente pregherà per i bambini
e genitori, per gli ammalati e sofferenti
e sempre chiederanno a colei
che è «la stella dell’evangelizzazione»
di inviare ancora missionari per annunciare
la Buona Novella ai quattro
angoli del mondo.
Dopo le invocazioni, il vescovo benedice
gli oggetti religiosi e chiede a
Maria di proteggere le persone e i loro
beni, coloro che sono in viaggio…
Si sa che violenza, criminalità e incidenti
stradali sono frequenti in Brasile!
Poi termina con una benedizione,
aspergendo tutti con acqua santa.
Uno degli animatori, allora, prende
il microfono e la celebrazione viene
nuovamente «riscaldata» da preghiere,
cori e canti. Scoppiano ancora
petardi e fuochi d’artificio, mentre
tutti seguono il carro della Madonna.
E così verso il prossimo quartiere.
Anche qui centinaia di persone aspettano
la loro madre e patrona; anche
qui canti e applausi, petardi e benedizioni…
Poi, sempre in marcia, si
raggiunge un altro quartiere.
Maria li ha visitati tutti, in questa
grande parrocchia di Brasilia, la città
costruita come un’«anticipazione»
del futuro. Maria, salita al cielo, gloriosa
presso Dio, non è forse il simbolo
più vero di ciò che Egli desidera
per l’umanità tutta?…
Non siamo lontani dall’Equatore.
Pertanto, verso le 18, la notte scende
quasi di colpo. È all’imbrunire che si
visitano gli ultimi due quartieri. Ma
c’è ancora più confusione: la statua
della Madonna è illuminata e, mentre
arriva nella semioscurità del quartiere,
sembra proprio un’apparizione…
Tutto ad un tratto si accendono
centinaia di candele. Anche per l’arrivo
nell’ultimo quartiere decine di
giovani agitano stelline luminose, come
fosse una grande festa di compleanno.

LACRIME DI COMMOZIONE
Quando la processione arriva nella
chiesa parrocchiale centrale, questa
è già stracolma. Sotto la direzione
animata ed entusiasta di padre Oreste,
la gente canta e accoglie la statua
con un bornato di applausi. Non ho mai
visto niente di simile nella mia vita
missionaria! L’esaltazione è al culmine.
Il parroco fatica a calmare l’assemblea
ed iniziare la messa.
Dopo la comunione, entrano in
processione un centinaio di bambini
e bambine, rivestiti di bianco e con alucce
che li trasformano quasi in angeli
del cielo: circondano la statua,
posta su di un piedistallo, alla sinistra
del presbiterio. Mentre si canta un inno
mariano, decine di lampade illuminano
il viso della Madonna; poi un
ragazzo depone sulle sue spalle un
manto blu e una ragazza una bianca
corona sulla sua testa. Scoppia un applauso
fragoroso, e non si sa bene se
gli adulti applaudono i loro figli o la
Vergine. Molti hanno le lacrime agli
occhi e anch’io…
Tutto questo mi rimanda alle processioni
del Corpus Domini della mia
infanzia, nel Québec (Canada), quando
la fede era ancora forte… In Brasile
la gioia, l’esaltazione e l’entusiasmo
mi ricordano numerose celebrazioni
vissute in Africa. Ma, a Brasilia, ho avvertito
una qualità di fede tutta speciale.
Non so perché: ma gli occhi che
fissavano la statua della Madonna,
trasportata da un quartiere all’altro
della capitale brasiliana, i corpi che
danzavano e agitavano ogni sorta di
bandiere e drappi, mentre la Consolata
attraversava le strade della città
del futuro… tutto questo mi ha dato
un’impressione di freschezza e verità,
che non riuscirò a dimenticare.
Al momento del mio arrivo nella
capitale non sapevo cosa mi aspettava.
Però, nel giorno della Consolata,
credo proprio che il cielo si sia aperto
su Brasilia… Ora sono un po’ invidioso
di padre Galantino, parroco di
una porzione davvero eccezionale del
popolo di Dio. Non so se quello che
ho visto sia un raggio di cristianesimo
futuro; però so che quella sera, stanco,
non riuscivo a prendere sonno, a
causa delle immagini di fede che facevano
ressa nel mio cuore.
L’indomani ho chiesto al diacono
se tale festa della Consolata
facesse parte del cristianesimo
passato o futuro. Mi ha risposto che
era quello del passato. Lasciamo,
dunque, a Maria il compito
di preparare il futuro
del Brasile!

RIMANETE CON NOI!!
Maria merita il nome di Consolata con due significati: infatti
fu dapprima consolata per diventare la consolatrice
di tutto il genere umano.
Ragazza di 14-15 anni, Maria riceve un annuncio che la
riempie di spavento. Ma non deve temere perché, secondo
le parole dell’angelo, «il Signore è con lei». E per la «consolazione
» che riceve, potrà pronunciare una parola che
sarà principio di salvezza per noi tutti. Se non comprendiamo
il motivo di quel suo sgomento, non capiamo neppure
l’importanza della sua risposta: «Io sono la serva del
Signore».
Maria era figlia di ebrei, e una ragazza che rimaneva incinta
fuori del matrimonio metteva a repentaglio la propria vita.
Ai giorni nostri sentiamo dire che nei paesi musulmani
c’è gente, scoperta in adulterio, che viene lapidata: una prassi
normale, in passato, nel Medio Oriente e in Israele. Ma
poiché la Madonna era di grande fede, le bastarono poche
parole per ricevere consolazione, tanto da dare principio a
una nuova era nella storia dell’umanità; poiché questa è l’era
della grande «consolazione», il tempo di Gesù, salvatore
di tutti.
Carissimi missionari della Consolata, è per noi una grande
gioia avervi qui. Leggevo tempo fa un libro, scritto
da un vostro confratello, uno dei pionieri che raggiunsero il
Kenya. Raccontava della vita dura, specialmente nei primissimi
tempi, sperimentata dai missionari: stanchi, anneriti
dal fumo del treno, ma sempre avanti, fino alla meta. Erano
scesi in un posto sconosciuto e da lì avevano ripreso,
a piedi, il viaggio verso la meta; salirono montagne, ebbero
tanti malanni; qualcuno tra i portatori, durante la carovana,
morì anche per strada. Fino
a quando arrivarono…
Quello che vorrei dirvi è questo:
l’audacia di quei pionieri nasceva
da una fede enorme! E mi
vengono in mente quei benedettini
che furono i primi a venire
dalle nostre parti, in Tanzania;
non avevano neppure emessa la
prima professione religiosa e ricevettero
l’ordine di andare in
missione. Lasciarono il loro paese,
senza più tornare (non conobbero
neppure la loro casa
madre). Anche i missionari della
Consolata seguirono lo stesso
modo di evangelizzare: partirono
senza sapere dove andavano,
in paesi stranieri, poveri,
diversissimi dall’Italia; sapevano
della malaria, dei serpenti,
dei leoni… ma andarono.
E dove hanno trovato il tempo
per costruire dentro di sé la fede,
per essere missionari? Il motivo
è che avevano già la fede «succhiata
» dalla Consolata, la quale
ebbe il dono di trovare la consolazione
di Dio.
Tra i primi missionari, alcuni lasciarono poi il Kenya per venire
qui in Tanzania. Vennero per «kuziba pengo» («riempire
un vuoto lasciato da un dente estratto»; ma Pengo è
pure il cognome del cardinale che sta parlando; ndr): a
riempire il vuoto lasciato dai benedettini. Ereditarono parrocchie
non in una situazione normale, ma post-bellica, in
una ex colonia tedesca. «Io sono la serva del Signore, sia
fatto a me come l’Onnipotente vuole». Vennero qui da noi.
La loro opera la conosciamo e apprezziamo: un lavoro
grandioso e che ci riempie di meraviglia. Come hanno fatto
tutto questo, superando difficoltà e ristrettezze?
I nostri missionari, all’inizio del secolo scorso, erano pronti
a mettere la vita nelle mani dell’Onnipotente per eseguire
il mandato: far sì che anche per i tanzaniani (come prima
per i kenyani) sorgesse «l’ora di Dio», avessero la consolazione
di conoscere il Signore Gesù… Ma anche il nostro
mandato non è diverso dal loro. Poiché la presenza di Dio
tra gli uomini è necessaria, questo è il lavoro che riceviamo
da Maria Consolata, tramite i suoi missionari.
Figli della Consolata, vi faccio le mie felicitazioni: per la
festa di oggi e per il vostro grande lavoro fatto qui, nella
nostra chiesa. Vi siete dati senza risparmiarvi, come la
Madonna Consolata che disse: «Se c’è da rischiare la vita
non importa; se Dio vuole invece che viva, così sia, come
vuole l’Onnipotente!».
Grazie di cuore per averci dato la possibilità di avere Dio
con noi! Anche noi ora possiamo dire: «Emanuele! Dio è
con la sua gente!».
Dopo avervi ringraziati, vi preghiamo di continuare a inco-
raggiare noi, che siamo i vostri figlioli
e nipoti, perché lo spirito che ci avete
portato non venga mai meno. Siate con
noi, state con noi! Io penso che, umanamente
parlando, il periodo più duro
della missione sia passato, poiché se
qualcuno oggi desidera i maccheroni,
anche qui a Dar es Salaam li può trovare…
e anche le medicine!
Rimanete qui, restate qui! E, se qualcuno
è sfinito e non riesce più a lavorare,
non abbia paura, non pensi di essere
inutile e di tornare in Italia; ma vada
davanti all’eucaristia a pregare per
noi l’Onnipotente. Stia qui e preghi; preghi
insieme a noi, perché possiamo vedervi
e imparare. Vi promettiamo che
faremo tutto il possibile per portare avanti
lo spirito messo in noi, affinché il
nostro popolo possa sempre dire: «Emanuele!
Dio è con il suo popolo!».
Polikarp Pengo
(traduzione dallo swahili
di padre Giovanni Medri)

LA LUCE È RIMASTA NEI MIEI OCCHI
Caro direttore, le presento una testimonianza
sulla Madonna Consolata
di Agnese Capello, mia cugina.
Essa gradirebbe che fosse pubblicata
su una rivista con il nome
«Consolata». Agnese mi ha chiesto
di ritoccare lo scritto. Ma ho pensato
che non sarà, certo, la forma a togliere
interesse ad un testo già bello,
così come è nato da chi ha vissuto
la vicenda che racconta.
M.P. QUIRICO – TORINO

È con gioia che pubblichiamo la seguente
testimonianza proprio nel mese
della Consolata.

Quando una persona si ferma un
tantino a meditare sul senso della
vita, è facile che le vengano in
mente alcuni particolari molto significativi.
Un episodio che, iniziando dai nostri
vecchi, si è tramandato di padre
in figlio riguarda un affresco, che si
trova sulla facciata della nostra casa
in un paese della collina torinese.
L’affresco rappresenta la Consolata
e risale al 1856.
Venne eseguito per un «voto»,
fatto alla Consolata in un momento
penoso per la gente, quando serpeggiava un’epidemia che colpiva i
bambini dai 13 anni in giù. Ne erano
già morti parecchi, e i genitori
che vivevano nella casa avevano promesso
alla Consolata che, se salvava
i loro numerosi bambini, s’impegnavano
a far dipingere la sua effigie
sul fronte della loro abitazione.
Bisogna pure ricordare che, in tante
case, la fede consisteva anche nel recitare
ogni sera il santo rosario.
I genitori intensificarono le preghiere
finché, cessato il pericolo che
durò parecchi mesi, esaudirono il loro
voto, perché tutti i bambini erano
salvi. Fecero eseguire l’affresco, e
continuarono a pregare e ringraziare
la Madre Consolata mettendosi
sotto la sua protezione, poiché quell’avvenimento
fu considerato un miracolo.
Il pittore che eseguì l’affresco
fu un certo Nicolao Doria. Si presume
che fosse un ligure. In quella casa
nacque pure Demetrio Casola
(1851-1895), ricordato nelle enciclopedie
come pittore.
Tutti i genitori, che si sono succeduti
nella casa nel corso degli anni,
hanno sempre avuto una particolare
attenzione e il massimo riguardo
verso la Madre di Dio, che era considerata
una componente della famiglia.
La pittura è rimasta inalterata
nei colori, pur essendo esposta alle
intemperie.
Anche i miei genitori abitarono
nella casa. Nel 1956 (anno del centenario
dell’affresco) si prodigarono
per festeggiare l’anniversario. Era
prima del Concilio ecumenico Vaticano
II, e non si poteva celebrare la
santa messa. Però ci fu una grande
partecipazione di parenti e alcuni
sacerdoti, con preghiere, canti mariani
e il santo rosario.
Terminate le funzioni, ci fu un bel
rinfresco per tutti.
Nel 2006 saranno 150 anni di
«presenza matea» nella nostra
casa. Per l’occasione, se Dio vorrà, ci
sarà ancora un ricordo, perché è
sempre bene lodare la nostra Madre
Santissima Consolata.
AGNESE CAPELLO – TORINO

Alla Consolata sono riconoscente
fino dall’infanzia. Nel maggio
1945 (era da poco finita la guerra)
i miei genitori mi accompagnarono
in treno da Bra (CN) a Torino al santuario
della Consolata, per ringraziare
la Madonna. Il viaggio fu avventuroso,
perché eravamo in un carro-
bestiame, alla mercé del vento.
Ricordo Torino con tanti cumuli di
macerie, a causa dei bombardamenti
subiti.
Dunque la guerra era finita, ed io
ne ero uscita miracolata. Lo scoppio
di una granata mi aveva ferito il naso,
un orecchio e una gamba. Ma la
pioggia di schegge non mi colpì gli
occhi. Subito i miei genitori esclamarono:
«Questo è un miracolo della
Consolata!».
Fede semplice e viva quella dei
miei genitori, fede dettata da sofferenza,
senza perdere mai la fiducia
in Maria, Madre nostra in tutte le ore
della vita.
Così la luce è rimasta nei miei occhi.
CATERINA VIRANO – BRA (CN)

È un’altra testimonianza che calza
a pennello con il mese di giugno. Anche
la signora Giovanna Castellano
(di Torino) ringrazia pubblicamente la
Consolata «per grazia ricevuta in favore
del figlio».

Cari missionari, ho 17 anni e fin
da bambina conosco la Vergine
Consolata. Nella contrada in cui mia
madre è nata e cresciuta si venera la
Consolata da molto tempo. La sua figura
mi è rimasta impressa per il
racconto di un «miracolo».
Mia madre era una bambina di
quarta elementare e in quell’anno
si abbatté un terribile nubifragio
con una violenta tromba d’aria. Allora
a scuola si andava a piedi, e il
mattino seguente la tempesta ella,
in mano del nonno, si avviò tra
massi scivolosi, ciottoli fangosi e
grandi pozzanghere.
All’approssimarsi della scuola, vicino
alla chiesetta della Consolata,
mia madre non vide più l’edificio
sacro, ma un cumulo di macerie.
Un’ombra scese sul suo cuore e su
quello del nonno.
Erano ormai giunti e… sul mucchio
di rovine essi videro la statua
della Madonna, di fragile gesso,
dolcemente adagiata, illesa, eccetto
che in una mano. E illesi erano
tutti gli abitanti della contrada,
nonché le case, le stalle, gli animali.
In quella chiesa, ricostruita più
grande, ho frequentato il catechismo
e ho coltivato il mio spirito alla
luce del vangelo e nell’ascolto di
esperienze missionarie. Crescendo,
la scuola (frequento il liceo classico)
e gli amici mi hanno forse impoverito
il bagaglio religioso; ma
mi sono ripresa, per un incastro di
cose difficili da capire o spiegare.
Da tre anni, cioè da quando è
morto il nonno Nicola Gironimo, vostro
abbonato e devoto della Consolata,
seguo con particolare interesse
la vostra rivista, che vorrei
continuasse ad essere recapitata a
nome del nonno. Apprezzo il modo
limpido con cui voi, missionari, raccontate
la vita e, soprattutto, il vostro
impegno nell’alleviare la sofferenza
dei fratelli. L’offerta inviata
è a favore dell’ospedale di Neisu
(Congo), affinché l’opera di padre
Oscar Goapper non si arresti.
Infine questa lettera vuole essere
un grazie alla Vergine, madre di
ogni consolazione. Maria sostenga
tutti e mantenga viva nella mia e
in tutte le famiglie la luce della verità
fatta carne.
MARA CERVELLERA
MARTINA FRANCA (TA)

Carissima Mara, anche la tua testimonianza
è splendida, come lo sono
i tuoi 17 anni…
A tutti gli amici e sostenitori delle
missioni assicuriamo la preghiera
alla Vergine Consolata dei suoi missionari
sparsi nel mondo.

Jean Paré




GUERRA AFGHANA/ Incontro con Giulietto Chiesa

SEMPRE BUGIE ANCORA BUGIE

I taleban sono nati
con l’assenso del Pakistan e, di conseguenza, degli Stati Uniti. La guerra
afghana ha coperto le gravi responsabilità di Washington. Anche con la
connivenza del sistema mediatico mondiale, che ha lavorato per dimostrare
la «bontà» del conflitto. Diamo spazio      a una voce libera, forte e
preparata che non teme di parlare «contro». Non per partito preso, ma
prove alla mano.

Al termine della
conferenza abbiamo rivolto qualche domanda al giornalista e scrittore
genovese.

«Non abbiamo vinto
niente, nel senso che gli obiettivi che erano stati proclamati,
innanzitutto la cattura di Osama Bin Laden e del mullah Omar, non sono
stati raggiunti, ma questi sono dettagli secondari_ Io credo che Bin Laden,
prima o dopo, lo uccideranno.

Il resto è
completamente lasciato all’equilibrio delle potenze estee
all’Afghanistan , come è sempre accaduto. L’Afghanistan è sempre stato in
guerra in questi anni (1), perché dall’esterno si è imposta la guerra: 
questo per varie ragioni.

È vero che
l’Afghanistan era divenuto un covo terroristico internazionale. È vero che
Al Qaeda questo faceva; io ne sono testimone diretto; però non vi è il
minimo dubbio che i taleban siano stati costruiti con l’aiuto diretto,
senza equivoci, senza mediazioni, dei servizi segreti pakistani e di
quelli arabo-sauditi.

Ora, dato che non
si può neanche lontanamente dubitare che i servizi segreti americani
fossero a contatto diretto con i servizi segreti pakistani e
arabo-sauditi, si giunge alla conclusione induttiva che la nascita del
movimento dei taleban è avvenuto con il consenso degli Stati Uniti.

Certo, la
situazione gli si è rivoltata contro, ma loro l’hanno sfruttata il più
possibile finché gli conveniva. Per esempio, Al Qaeda e Osama Bin Laden
sono stati utilizzati per supportare i guerriglieri albanesi dell’UCK, che
(come si sa bene) è stata armata e finanziata dagli statunitensi. Insomma,
servivano per operazioni di sovversione e loro contavano di poterlo fare
tecnicamente. Tutte le tesi secondo cui bisogna colpire l’Afghanistan per
colpire il terrorismo sono tesi faziose, unilaterali, che nascondono la
verità.

La guerra afghana è
stata una grande, drammatica, terribile  cortina fumogena per nascondere
le responsabilità degli Stati Uniti».

Quindi, se non ci
fosse stato l’«Undici settembre», in Afghanistan nulla sarebbe cambiato?

«Assolutamente no.
Se non ci fosse stato l’11 settembre a costringere il presidente Bush a
fare “qualcosa”, non è escluso che avrebbero addirittura provato a
riutilizzare i taleban per fare passare attraverso l’Afghanistan il
petrolio del Caspio.

La califoiana
Unocal (il cui consulente principale è nientemeno che Henry Kissinger) e
Delta Oil (di proprietà della famiglia reale saudita) hanno lavorato per
questo fino al 1997-’98.

Non ci sono
riusciti, perché i russi hanno capito che questa era un’operazione contro
di loro. Far passare il petrolio attraverso l’Afghanistan era anche un
modo per dare un duro colpo alla presenza russa, privandola del controllo
sulla regione e di importanti royalties.

Ci sarà pace in
Afghanistan? Alla domanda si può rispondere dicendo che dovrà reggere una
politica di equilibrio tra Usa, Russia, Pakistan ed Iran».

È una guerra
keynesiana? (2)

«La linea americana
della totale deregulation del mercato non funziona più. Allora, un
neokeynesismo di guerra può essere la soluzione.

Duecento miliardi
di dollari da investire in campo militare (3), possono rimettere in piedi
le grandi compagnie industriali e la finanza americana. In questo modo è
possibile rilanciare anche la new economy, bisognosa di investimenti in
campo altamente tecnologico.

Sicuramente gli
Stati Uniti otterranno un risultato: un vallo enorme in campo tecnologico
con il resto del mondo. Nessuno potrà competere con gli Usa nel settore
della tecnologia fra dieci anni. Forse solo la Cina. La guerra serve anche
a questo».

Informazione,
disinformazione, non informazione: quale aspetto principale in questi mesi
di guerra?

«Io direi
soprattutto disinformazione. In questa guerra hanno contato di più i “B52”
dell’informazione mondiale che non i “B52” veri. Questa guerra, come
quella del Kosovo, non ci sarebbe stata se non esistesse un mondo
mediatico totalmente al servizio degli Stati Uniti. Se non ci fosse stata
una formidabile virtualizzazione di tutto quello che sta accadendo. A
partire dall’11 settembre.

Da questo momento
in poi possiamo dire che il sistema informativo mondiale sarà l’arma
numero uno di tutte le guerre future. Porto ancora un esempio: dopo la
presa di Kabul i giornali, le televisioni ci hanno bombardato con la
notizia che in Afghanistan le donne si erano tolte il burqa e gli uomini
tagliati le barbe.

Falso,
completamente falso. Le donne non potranno togliersi il burqa per molto
tempo ancora. Perché è una tradizione culturale vecchia di secoli, voluta
dagli uomini, anche dai mujaheddin.

Addirittura comica
poi la storia delle barbe. In Afghanistan la barba è un importante
indicatore di chi si è: la barba indica l’età, il ceto sociale, la
ricchezza, la povertà, l’istruzione, a quale etnia si appartiene. È
evidente quindi che in questo caso, oltre a fare una violenza
all’informazione, si è fatta violenza alla cultura di un popolo.

Perché queste
grossolane bugie? Per far vedere allo spettatore occidentale la “bontà”
della “guerra giusta”? Allora io mi domando: se ci hanno mentito su questi
aspetti d’immagine cosa sarà allora delle questioni serie?».

Può esistere
un’informazione indipendente dal basso, come, ad esempio, fanno Indymedia
o le Voci dell’Italietta? (4)

«Tutto può essere
utile a creare menti indipendenti. Io però non sono dell’opinione che la
controinformazione di per sé sia sufficiente.

Anzi potrebbe
essere pericolosa quanto un’illusione. Perché se resta tale, essa si sarà
ritagliata soltanto uno spazio di autonomia: una specie di “riserva
indiana” assediata, nella quale si potrà dire tutto.

Tutti coloro che
hanno a cuore la democrazia, il pluralismo, che hanno capito cosa sta
accadendo devono affrontare il problema di un’organizzazione per il
controllo democratico. Sarà un percorso molto difficile ma indispensabile.
Come? Ci sono tanti modi diversi: moltiplicando i centri studi, facendo
controinformazione, manifestando il dissenso, mobilitando gli
intellettuali ed i giornalisti nauseati da questa informazione.

Dobbiamo investire
il sistema mediatico con una pressione costante, coinvolgendo le reti dei
consumatori o del consumo equo e solidale. In poche parole, organizzando
delle lobby di pressione, nelle quali convergano realtà diverse e dove
nessuno dia ordini, ma vi sia un solo fine chiaro per tutti».

Come sta reagendo il
mondo cattolico in questo momento?

«Il mondo cattolico
è attualmente una delle realtà più vive in Italia. Io lo incontro ovunque
durante i miei spostamenti per il paese. Sono cadute tutte le barriere
ideologiche, non esiste una situazione che escluda qualcuno. Credo che la
vitalità intellettuale del mondo cattolico sia una delle novità più
interessanti, e in una prospettiva di rinascita esso sia decisivo».

Il piccolo
consumatore occidentale cosa può fare in questo momento storico?

«Il cittadino
consumatore può incominciare a consumare in modo alternativo e critico.

Noi non abbiamo
avuto, in Italia, un’esperienza come quella degli Stati Uniti, nella quale
gruppi di pressione (che possono pure sembrare marginali) hanno creato
molti problemi alle imprese multinazionali che dettano legge nella nostra
vita quotidiana.

Gli americani hanno
dimostrato che soggetti apparentemente inattaccabili, se sottoposti a
controllo popolare, tramite il consumo critico, risultano molto più
vincolati verso le questioni democratiche ed ambientali.

Io non sono
assolutamente contro il capitalismo. Semplicemente sono per una civiltà:
la civiltà degli uomini. Può esistere una civiltà degli uomini con questo
capitalismo che vìola i diritti e che è all’origine della minaccia della
democrazia?

Perché non unirsi
alla sfida di un grande movimento come quello di Porto Alegre, un
movimento che accerchia il sistema in maniera imprevedibile e pacifica,
facendo prevalere un’altra scala di valori?

La parola d’ordine
di Porto Alegre quest’anno (5) era: “Un altro mondo è in costruzione” ed è
questo che dobbiamo fare».


Note:

la
necessità dell’intervento pubblico nell’economia per incentivare lo
sviluppo.

 


Su pressione degli
Stati Uniti


Mary Robinson
licenziata (senza giusta causa)

Un
riquadrino sul quotidiano «La Repubblica». I media europei hanno ignorato
quella che, a buon diritto, si può considerare una delle notizie più
inquietanti, a livello mondiale, di questo già inquietante 2002.

Mary
Robinson non ripresenterà la propria candidatura alla carica di
responsabile dell’«United Nations High Commissioner for Human Rights» (UNHCHR),
l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani. Normale avvicendamento?
Stress? È bene ricordare chi sia Mary Robinson e soprattutto cosa abbia
fatto nella vita.


Irlandese, avvocato, ha coperto la carica di presidente della Repubblica
d’Irlanda dal 1990 al 1997, anno in cui è stata chiamata a presiedere
l’UNHCHR.

Dal
giorno della nomina Mary Robinson ha iniziato a battersi (con campagne di
pressione e denuncia) contro le gravi violazioni dei diritti umani in
moltissimi paesi del mondo. Ad esempio, in Sierra Leone e in Congo, dove i
signori della guerra erano colpevoli d’atrocità verso la popolazione
civile.

E poi
ancora le fortissime pressioni sul governo russo, accusato di portare
avanti, nel silenzio assoluto, una furiosa guerra etnica in Cecenia; i
richiami per il rispetto dei diritti umani in Cina; le denunce di violenze
e torture durante le elezioni presidenziali del 1999 in Messico; le
critiche al governo colombiano, colluso con le squadracce di paramilitari
che scorrazzano impunemente per il paese.

Luoghi
lontani, problemi lontani, dei quali in fretta si perdono le tracce nel
tourbillon di notizie da cui tutti i giorni lo spettatore occidentale
viene sommerso. Ma dichiarazioni di fuoco Mary Robinson non le ha usate
solo verso paesi sostanzialmente «innocui», ma anche nei confronti di «pesi
massimi», quali Stati Uniti ed Israele.


Dissenso e condanna verso gli Stati Uniti, che con le nuove leggi
antiterrorismo volute da Bush sarebbero autorizzati a prelevare
segretamente qualsiasi cittadino del mondo e, una volta portato in
territorio USA (inclusa una nave), a processarlo ed eventualmente
condannarlo a morte senza appello; e poi ancora uno scontro con il governo
statunitense, quando Mary Robinson ha richiesto la cessazione dei
bombardamenti sull’Afghanistan, causa di innumerevoli vittime fra i civili.

Da
ricordare, inoltre, i problemi sorti durante la Conferenza mondiale contro
il razzismo, svoltasi a Durban in Sud Africa nel settembre 2001 ed
organizzata dall’UNHCHR con la presenza di 160 paesi. Nelle bozze del
testo da usare come piattaforma programmatica Israele veniva definito,
senza giri di parole, come un paese «razzista colpevole di atti di
genocidio nei confronti del popolo palestinese».

Nel
medesimo documento si definiva la schiavitù come «crimine contro l’umanità»
e si chiedeva agli stati occidentali, in particolare ai membri del G7 «plasmati
da secoli di razzismo», di riconoscere le proprie colpe e di scusarsene.

La
sdegnata reazione da parte di Israele e Stati Uniti (ovvero il
boicottaggio dei lavori, definito deplorevole dallo stesso Kofy Annan,
segretario generale dell’Onu) ha portato all’annacquamento del documento
finale, con i paragrafi scomodi semplicemente cancellati.

«Sarò
la voce delle vittime», disse nel 1997 appena nominata responsabile
dell’UNHCHR. Ed ora Mary Robinson, voce dei senza voce, paga il conto.

«Non mi
aspetto di avere rapporti facili con i governi. Questo fa parte del mio
mestiere. Un ruolo difficile che richiede un approccio globale, perché
deve mantenere un equilibrio non solo tra le diverse regioni del mondo, ma
anche nei rapporti con i governi, con i quali bisogna lavorare senza però
aver paura di denunciare, quando necessario, le violazioni dei diritti
umani. È una delle sfide del mio mandato, ma ricompensa grandemente della
fatica», disse ai giornalisti che la intervistarono nel 1997 quando vinse
il premio «Europeo dell’Anno».

Oggi
gli Stati Uniti, facendo pressione direttamente sul segretario generale
Kofi Annan, hanno ottenuto la non-riconferma della Robinson, attraverso la
formula della «rinuncia volontaria» (!).

Una
sconfitta per tutti, non solo per la signora Mary Robinson.

Ma.Pa.

Sfogliando s’impara… da
«La rabbia e l’orgoglio»


«
Lo scontro
tra noi e loro
»

Dacché
i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli esperti dell’Islam non
fanno altro che cantarmi le lodi di Maometto… Ma in nome della logica:
se questo Corano è tanto giusto e fraterno e pacifico, come la mettiamo
con la storia dell’Occhio-per-Occhio-e-Dente-per Dente? Come la mettiamo
con la faccenda del chador anzi del burkah?… Come la mettiamo con la
poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei cammelli?…
Come la mettiamo con la storia delle adultere lapidate o decapitate?…

Io non
vado a rizzare tende a La Mecca. Non vado a cantare Pateostri e Ave
Marie dinanzi alla tomba di Maometto. Non vado a fare pipì sui marmi delle
loro moschee. Tanto meno a farci la cacca… E mentre l’immagine dei due
grattacieli distrutti [di New York] si mischia all’immagine dei due Buddha
ammazzati [in Afghanistan], ora vedo anche quella, non apocalittica ma per
me simbolica, della gran tenda con cui due estati fa i mussulmani [sic]
somali (paese in gran dimestichezza con Bin Laden, la Somalia, ricordi?)
sfregiarono e smerdarono e oltraggiarono per tre mesi e mezzo piazza del
Duomo a Firenze. La mia città…

Avrà
notato, signor cavaliere [Berlusconi], che io non Le rinfaccio la Sua
ricchezza… Io non Le rinfaccio neanche il particolare di possedere tre
canali televisivi… No, no: la colpa che Le rinfaccio è un’altra. Eccola.
Ho letto che sia pure in modo grezzo e inadeguato Lei mi ha, ahimé,
preceduto sulla difesa della cultura occidentale. Ma appena le cicale di
lusso Le sono saltate alla gola, razzista-razzista, ha fatto marcia
indietro. Ha parlato o lasciato parlare di «gaffe». Ha umilmente offerto
ai figli di Allah le Sue scuse. Ha inghiottito l’affronto del loro rifiuto.
Ha subìto senza fiatare le ipocrite rampogne dei Suoi colleghi europei
nonché la scapaccionata di Blair. Insomma s’è preso paura… Ammenoché,
signor cavaliere, Lei non si sia rimangiato la giusta difesa della nostra
cultura…

Oriana
Fallaci, «La rabbia e l’orgoglio», Rizzoli, Milano 2001, passim

Maurizio Pagliassotti




Lettere


Mosca:
dialogo tra

ortodossi e
cattolici

 Egregio
direttore,

quanto
fu affermato da Aleksej Uminskij, prete ortodosso a Mosca, su Missioni
Consolata di marzo 2001, è in contrasto con gli orientamenti del
patriarcato di Mosca. Allego un’intervista ad Ilarion Alfeev del
patriarcato.

Ho
scritto a padre Aleksej, ma la lettera è tornata indietro, perché è un
emerito sconosciuto… Tentate anche voi la rinascita della chiesa
cattolica del beato Leonida Fedorov, esarca bizantino russo.

don
Vito Tedeschi
,

Carife (AV)

 Nel
luglio del 2000 padre Ilarion Alfeev disse che la chiesa ortodossa russa
intende continuare il dialogo con quella cattolica. Ci auguriamo che sia
vero, nonostante qualche passo indietro (anche recente).


 


Pigmei,
come

le scimmie

 Cari
missionari,

per
continuare il discorso sulla Repubblica Centrafricana (Missioni Consolata,
gennaio 2002), aggiungo che nel paese vi sono altre persone che pagano un
tributo ancora più alto di quello denunciato: sono gli aka, un gruppo del
popolo pigmeo.

Autori
di abusi e discriminazioni non sono solo i bianchi, ma anche i neri.
Contro gli aka delle selve centrafricane congiurano un po’ tutti, perché
le foreste fanno gola a tanti, perché tante sono le ricchezze: dal legname
pregiato ai diamanti, dai principi terapeutici contenuti in radici, foglie
e cortecce agli animali; ad esempio, gli elefanti alimentano il traffico
dell’avorio, dei trofei, della bushmeat (selvaggina, che coinvolge pure
africani immigrati in Europa).

Se le
donne del Centrafrica sono vittime di una mentalità maschilista, quelle
aka lo sono di più, perché, per le etnie dominanti, gli aka non sono
esseri umani, come non lo sono i baka e bambuti che vivono in Camerun,
Gabon e nei due Congo.

Se
prostituzione, droga e alcornol sono piaghe per tutti, per i pigmei lo sono
maggiormente, perché la loro semplicità li rende più vulnerabili alle
insidie di chi, col pretesto della civiltà, vuole la loro rovina.

Se per
decine di milioni di africani l’accesso ai farmaci contro Aids,
tubercolosi, oncocercosi, meningiti e lebbra è difficile, per i pigmei lo
è maggiormente; infatti, per molti bantu, la morte di un pigmeo equivale a
quella di una scimmia. «Il primo uomo della nostra tribù – disse un pigmeo
ad un antropologo giunto nella foresta dell’Oubangui/Chari negli anni ’20
– nacque da una cagna, che partorì sotto le bastonate di un negro, suo
padrone».


Leggendo resoconti di missionari e volontari, mi pare che si sia fatto
poco per aiutare i pigmei a superare il loro senso di inferiorità e molto,
invece, per aumentarlo: persone, fiumi e foreste sono alla mercé di
devastatori e depravati.

Ha
ragione chi ritiene l’Aids un castigo di Dio? Non lo so. Ma so che, se
Aids e altre patologie letali (provocate dal virus Marburg o Ebola)
possono tanto, è anche perché alcuni uomini hanno osato molto
nell’alterare sia gli ecosistemi forestali (un tempo vergini) sia i
rapporti interpersonali.

Quanto
queste due realtà siano correlate è confermato anche da Richard Preston,
che inizia il libro Area di contagio con una storia di promiscuità,
consumata in un ambiente naturale… particolare, dal quale razionalità e
buon senso suggerivano di stare alla larga.


Francesco Rondina
,

Fano (PS)

 


Siamo grati al lettore di aver continuato il discorso sul Centrafrica,
portando alla ribalta anche i pigmei… A quelli della repubblica
democratica del Congo abbiamo dedicato recentemente due articoli (M C,
dicembre 2000; aprile 2001).

 



 Il «post scriptum»

 Spettabile
redazione,

mi
permetto di criticare il post scriptum dell’editoriale di febbraio 2002.
Alcuni dati, relativi allo stipendio e ai privilegi dei parlamentari, si
basano su una «bufala» che sta circolando da mesi su internet. Si possono
trovare molti dettagli a questa pagina: www.attivissimo.net/antibufala/stipendiparlamentari/htm

Con
questo non voglio negare che i nostri deputati guadagnino troppo o che non
abbiano troppi favori. Ma è giusto essere corretti e documentati.

don
Federico Cretti

(via
e-mail)

 


Era quanto si augurava l’autore dell’editoriale, il cui post scriptum era
uno sfogo.

 

 E
chi replica?

 Spettabile
redazione,

trovo
sconcertante che pubblichiate le «voci islamiche sul nuovo scenario
mondiale» (Missioni Consolata, dicembre 2001), senza un commento. Se è
possibile esprimere la propria opinione, è pure doveroso osservare come
essa sia confutata dalla realtà sotto gli occhi di tutti.

p
Stragi negli Stati Uniti: le folle arabo-palestinesi (e pakistane) hanno
dimostrato, con canti e balli, la loro approvazione agli attentati dell’11
settembre e alle folli missioni dei kamikaze.

p
Cristiani in paesi islamici: in quasi tutte le nazioni i cristiani sono
sottoposti a limitazioni, che vanno dal «semplice» impedimento fino
all’arresto e pena di morte per la professione di fede (non risulta che in
Occidente una legge dello stato punisca chi è di altra religione!).

p
Questione femminile: la frase «la donna ha grande dignità nella società
islamica» è smentita dalla realtà (adultere lapidate, donne sottoposte a
divieto di studiare e farsi curare, mogli e figlie dipendenti dalla
volontà insindacabile dell’uomo, ecc.).

Il
vostro compiacimento solleva dubbi su ciò che vi anima: compiacimento nel
dare largo spazio a opinioni antidemocratiche, antifemministe, reazionarie,
nostalgie di un mondo premoderno, tribale e feroce, senza concedere
analogo spazio a precisazioni e doverose confutazioni.

Il
cristianesimo ha il merito di aver permesso all’occidente la conquista più
grande: una società dove, pur tra disuguaglianze e mali, nessuno è ucciso
per le sue idee politico-religiose; dove la donna ha acquisito pari
diritti e dove c’è netta separazione tra religione e stato; dove è
permesso il dissenso, che si esprime nel voto e nel manifestare le proprie
opinioni. Non è così nei paesi arabo-islamici, che nutrono rancore, misto
ad invidia, verso il mondo moderno.

Silvia
Novarese
,

Torino

 



Riteniamo di avere risposto alla sua lettera, commentando quella di
Maurizio Altemani e una «lettera firmata» (MC, marzo 2002; aprile 2002).


Circa la «condizione femminile», il dossier di questo mese ci pare
eloquente.

  



Spaventevoli errori


 Gentile direttore,

sul
numero di gennaio 2002 Cinzia Vaccaneo, di Torino, ritorna sulla mia
lettera, che ho riletto e che, tolti due punti di sarcasmo, riconfermo.

Le
distanze sono al momento incolmabili: quando un’economista scrive che «spesso
le nuove aziende non nascono per dare nuovi posti di lavoro, ma per creare
nuovi ricchi», vuol dire che la malattia che v’ha preso e spargete a piene
mani è molto grave. Non altrimenti potrebbe spiegarsi come e perché, a
confronto di molte vostre tesi, Bertinotti appaia un tranquillo signore
con idee un po’ blasé.

Allora
non ha senso parlare, perché siamo su pianeti diversi; meglio tacere e
attendere. Molto meglio meditare con calma. Pacatezza ci vuole, che non
sussiste scrivendo sulla posta di un giornale o parlando in tivù, essendo
ognuno troppo preso dall’assillo di vincere il duello.


Ricordando certi vostri commenti sui fatti di Genova, allego «Profezie di
Genova», che cominciai un anno fa, presago e sicuro di quel che sarebbe
successo a luglio.

Da una
vita sono circondato da «compagni»… Ho la presunzione di conoscere bene
il vostro sentire, da dove viene, come è penetrato e s’è fatto forte, su
quali equivoci poggia. Ma conservo verso i vostri spaventevoli errori
tutta l’umanità e civile comprensione. Il mio prossimo lavoro metterà a
fuoco il rapporto tra comunismo e cattolici. Missioni Consolata mi è
indispensabile.

Saluti
e salute.


Luigi
Fressoia
,

Perugia

 


Salute pure a lei e grazie per «l’umanità e civile comprensione» verso i
nostri «spaventevoli errori». A proposito, forse ne ha commesso uno anche
lei, non spaventevole come i nostri: la citazione dell’economista Vaccaneo,
staccata dal contesto della lettera, ne inficia il pensiero.


Intanto continuiamo a pubblicare le sue lettere critiche, come quella nel
dossier di aprile.

 

 


I
benpensanti

che fanno?

 Cara
Missioni Consolata, non mollare! Trovo intrisi di valori cristiani, cioè
rispondenti a quanto dice Gesù, i tuoi articoli e le sagaci risposte a chi
ti accusa di essere una rivista fatta da «miscredenti»!


Criticare le multinazionali o il governo americano crea nemici, perché la
gente si aggrappa disperatamente a ciò che ha: teme che chi non ha niente
glielo possa togliere. E dire questo dà molto fastidio. Perciò ci si
trincera dietro l’essere dei «benpensanti»… che ben pensano, appunto, ma
niente fanno, arroccati nei propri averi e incattiviti contro chi fa loro
notare l’evidente ingiustizia.

Cara
rivista, un’altra cosa apprezzo molto di te (che non mi aspettavo essendo
tu cattolica): è il rispetto per le altre religioni. Anche per questa tua
mancanza di «evangelizzazione» alcuni ti criticano, come se si dovesse
aiutare il prossimo in cambio della sua conversione! Il tempo delle
crociate, di cui anche il papa si è scusato, è ancora vicino per troppi!

Che
cosa dovrebbe essere, allora, la solidarietà? Aiutare il prossimo, perché
non è giusto che chi ha avuto la fortuna di nascere nel ricco occidente
diventi sempre più opulento sulle spalle di chi vive in altre parti del
mondo. So che è brutto sentirselo dire. Ma sappiamo tutti che, se possiamo
avere il videoregistratore o la lavastoviglie, è perché in uno sperduto
villaggio africano qualcuno si fa a piedi decine di chilometri al giorno
per avere una tanica d’acqua e… prendersi il tifo o l’epatite, da cui
non può guarire perché non ha soldi: soldi, invece, che noi usiamo contro
la caduta dei capelli o smagliature.

Non è
giusto che la maggioranza delle persone si ammazzi di fatica per
sopravvivere (non dico «vivere»), mentre qui si parla di fitness e
cellulite, mentre si porta il cane a limarsi le unghie! E magari avendo
pure l’insolenza di pensare che la nostra religione (che è pure la mia e
mi ha fatto conoscere tanti valori inopinabili) sia migliore delle altre.
Questo è un pretesto per lavarsi i sensi di colpa.

Cara
rivista, accanto ai cattolici benpensanti che ti rifiutano, hai anche una
«non molto cattolica» che ti apprezza molto.

dott.
Silvana Rocchetti
,

Milano

  



Dalla città della Fiat

 Caro
direttore,

sono
abbonata a Missioni Consolata da molti anni. I suoi articoli fanno
riflettere. Commento la lettera «Lo struzzo e noi», di Teresa C. Frigieri
di Maranello (settembre 2001).

Abito a
Torino, la città della Fiat… che in questi tempi licenzia, non
apertamente, ma con prepensionamenti, cassa integrazione, mobilità e
mancato rinnovo dei contratti ai semestrali. Quante situazioni gravi in
questa parte d’Italia! C’è anche chi, sfiduciato, si è tolto la vita per
avere perso il posto di lavoro… Quando penso agli stipendi dei piloti di
Formula uno (e dei calciatori) e al costo dei loro bolidi (che durano così
poco), mi sento un pugno nello stomaco.

La
lettera della signora Teresa mi suggerisce l’interrogativo: è necessario
essere nel benessere per, poi, aiutare i poveri sfruttati? Non è più
giusto dare a ciascuno il giusto guadagno e permettergli di terminare la
carriera lavorativa?

Quanto
al parroco di Maranello, lodato dalla signora, che conosco solo per il
suono delle campane, mi augurerei che non dimenticasse quanto scritto dal
signor Rondina (MC, aprile 2001).


Giovanna Isacco
,

Torino

  



Più fiducia nel bene

 

Le
lettere di qualche abbonato sono come grida disperate: come se, dopo avere
dato tutto, non si ricevesse nulla… Bisogna avere più fiducia nel fare
il bene; credere che è l’unica soluzione per togliere le ingiustizie e
creare una democrazia. «Non c’è bene che non si faccia!» dice uno
scrittore tedesco.

Solo
con il buon esempio riusciremo ad educare; il resto lo dobbiamo accettare…
Durante una predica ho sentito che un vero cattolico va contro corrente e
io mi chiedo se abbiamo la forza necessaria… Vorrei che qualche lettore
conoscesse i missionari della Consolata un po’ più dal vero, per andare
contro corrente.

Flavio
Azzolini
,

Berlino (Germania)

  


Una figlia mi ha suggerito
l’abbonamento alla vostra rivista. Ora vi dico grazie.


Con i miei 85 anni, le
relazioni si sono ridotte all’osso; mi resterebbe la televisione, ma sto
imparando a fae a meno, tanto mi disgusta. Così il mio sguardo sul mondo
passa attraverso la vostra bella rivista. Non sono andata molto a scuola (però
ho fatto laureare i miei tre figli); così apprezzo la semplicità con cui
scrivete, le belle fotografie e, soprattutto, la carità con cui trattate
tutti gli uomini e le donne del mondo.


Un materno abbraccio a lei,
caro direttore, e a tutta la redazione.


Pia Montebelisciani


Fermo (AP)


 

Signora
Pia, ricambiamo confusi l’abbraccio… e riproduciamo in «
verde»
la sua lettera, perché ci carica di speranza.

Da noi
tutti grazie.

 

Pro e Contro una lettera



Ma nessuno è imbecille

In
merito alla lettera «Chi è imbecille?» e relativa risposta (Missioni
Consolata, febbraio 2002), esprimo due considerazioni.


L’autore indubbiamente è andato oltre le righe. È però evidente che il suo
limite di sopportazione, di fronte al dilagante masochismo (in ogni
aspetto della vita) e all’appannamento dell’identità cristiana, tesa forse
a capire più le altre identità che la propria, palesa una abbondante
saturazione. La lettera ha posto sul tappeto problemi non indifferenti, di
fronte a generale malessere ed apprensione.

La
risposta non fa onore al direttore, che si è defilato con battute di
dubbio gusto e che, forse, appaiono impertinenti. Che ne sa lui di chi fa
le offerte?… E sorridere sulle scuse (non dei mea culpa) del papa non mi
sembra tanto disdicevole, se penso alle strumentalizzazioni che sulle
stesse si sono imbastite e che, pure recentemente, dal rabbino capo di
Roma continuano ad essere oggetto di biasimo.

Luisa
Milani – Roma

 


I missionari ricevono offerte da chi è «povero davanti a Dio». Se tale
affermazione è stata impertinente, ce ne scusiamo… Mutatis mutandis
anche Giovanni Paolo II ha riconosciuto gli errori dei cristiani e della
chiesa e ha chiesto scusa. Il gesto non è stato gradito da alcuni, che
hanno «sorriso» o strumentalizzato il fatto. A noi non piacciono né i
sorrisi né le strumentalizzazioni.


Riteniamo «verbale» la distinzione tra «mea culpa» e «scusa»: infatti
entrambe, per essere salutari, esigono un comportamento diverso rispetto
al passato. È ciò che più conta.


Psicologicamente la «saturazione» è comprensibile; ma non lo è nello
spirito evangelico, soprattutto se diventa ritorsione. È necessario
credere nel dialogo. Il papa afferma: «Il modo appropriato e più consono
al vangelo, per affrontare i problemi che possono nascere nei rapporti tra
popoli, religioni e culture, è quello di un paziente, fermo quanto
rispettoso dialogo».

La
lettera dell’«imbecille» è vergognosa. L’autore offende il direttore della
rivista «sapendo che, da bravo prete, cestinerà schifato» il suo scritto;
ma si vanta di essere nipote di un grande prete, di avere una sorella e
una figlia missionarie.

Signor
direttore, lei ha avuto la discrezione di non rivelare il nome del
mittente… altrimenti zio, sorella e figlia arrossirebbero di vergogna;
se defunti, certamente si rivoltano nella tomba di fronte agli
sragionamenti del loro parente.

Carlo
Mannino – Brindisi

 


Signor Carlo, non cada in trappola usando gli stessi toni dell’«imbecille».
Anche perché nessuno lo è del tutto.

 

 Apprezzo
Missioni Consolata fin dal 1955. Caro direttore, continui così, con una
rivista sempre più ben fatta e ricca di articoli documentati, con
informazioni pacate ed obiettive, che consentano ai lettori di
controbilanciare una «civiltà» basata solo sull’apparenza, sui sondaggi e
sulla ricchezza.

Un
plauso anche per essere diventati Missioni Consolata Onlus; così le
offerte ai missionari si possono detrarre nella denuncia dei redditi.

Da
ultimo, un commento alla lettera «Chi è imbecille?». Mi sembra che
l’autore ritenga che la storia si sia fermata all’Antico Testamento… con
l’osservanza formale della legge. Egli forse dimentica che sono passati
2000 anni da quando un certo Gesù ha insegnato e dimostrato con la vita
che ciò che conta è amare Dio e i fratelli.


Riccardo Cignetti – Caluso (TO)

 

Solidarietà,
solidarietà, solidarietà a lei, direttore, e «pollice giù» verso «Chi è
imbecille?». L’autore ha tanti missionari in famiglia e vi attacca
duramente. Io ne ho uno solo e faccio parte di un gruppo di azione
missionaria.

Insegno
anche italiano ai giovani extracomunitari che arrivano in città privi di
tutto, persino di manifestare il desiderio di condizioni di vita più umane
rispetto a quelle che hanno lasciato. Senza retorica, la gioia che provo
con questi ragazzi, la ricchezza che mi danno sono difficilmente
raccontabili. La scorsa lezione eravamo 13, di 13 nazioni e 4 continenti.


Religione? Non chiedo mai quale sia la loro. Ci sono anche Rachid e Adel:
durante lo scorso ramadan, al tramonto, mi hanno chiesto con esitazione di
uscire un attimo per mandar giù un boccone.

Anche a
nome dei miei amici immigrati, non le dico «resista, resista, resista»,
perché potrebbe sembrare partigiano. Dico semplicemente «grazie!».

Rita
Viozzi – Ancona

 

Penso
che Missioni Consolata sia sempre un appuntamento con l’umanità. Ogni
numero porta con sé un carico di  gioia e dolore, di speranza e angoscia
che allarga gli orizzonti e va oltre i soliti circuiti di notizie: le
patinate serie di ovvietà e le ciniche ricerche di questa o quella verità
cui, i media «tradizionali» ci hanno abituato.

Non ci
sono giudizi, sentenze, né posizioni integraliste nei vostri articoli, ma
piccole-grandi storie, che possono essere definite «micromodelli di
universalità»: parlano di persone e fanno parlare le persone.

Uno dei
vostri pregi è quello di rendere ordinaria (non occasionale) la voce dei
semplici, di coloro che non hanno spazio nei network, senza per questo
costruire barricate ideologiche contro ricchi e potenti. I paradigmi
conflittuali non vi appartengono e chi li intravvede ha forse gli occhi
appannati.

La
scelta dei semplici non è ideologia. Ricordarlo è un dovere della
comunità-umanità cristiana.

Amici,
andate avanti così…


Gianmarco Machiorlatti

Albano
(RM)

 


Il signor Gianmarco termina con la seguente citazione: «Le giornie e le
speranze, i dolori e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti quelli che soffrono, sono pure le giornie e le
speranze, i dolori e le angosce dei discepoli di Cristo» (Gaudium et Spes,
1).


Straordinario!

 

 


Il buon
samaritano



non
è… comunista

 Su
Missioni Consolata di gennaio 2002 leggo con amaro disappunto la lettera
di Giancarlo Telloli, che strumentalizza in chiave marxista la parabola
del buon samaritano. Il direttore, sempre compiacente in questi casi,
avrebbe dovuto avere il buon senso di non pubblicarla o farla seguire dal
commento di un sacerdote preparato, che chiarisse la portata spirituale e
temporale della parabola ben diversa da quanto scritto, che offende Nostro
Signore e ogni credente.

Il
signor Telloli ignora la storia (o finge di farlo). I comunisti Lenin,
Stalin, Mao, Pol Pot, Milosevich… hanno tanto «amato» il prossimo da
causare decine di milioni di vittime con i campi di concentramento e di «rieducazione»
(iniziati da Lenin nel 1918, e continuati da Stalin e da emulatori), lo
sterminio di intere popolazioni, le fosse comuni, le deportazioni in
Siberia (anche di sacerdoti e credenti), ecc. Esistono molteplici prove
storiche inoppugnabili: basti pensare ad Arcipelago Gulag di A. Solzenicyn,
alle opere dello studioso di statistica I. Kurgemov e ai documenti di
molti altri.

Mi
fermo per non stimolare l’autornironia del direttore, che, alle domande dei
lettori che inchiodano vescovi, preti e fanatici o interessati esaltatori
del marxismo, non risponde mai.

Dove
vuole arrivare? Ad una chiesa come quella di stato cinese o quella
ortodossa di Mosca del periodo comunista? Diventare così funzionari di
partito e di chiesa con stipendio e pensione? Siamo in molti a sperare di
meglio.

Per la
regola dell’alternanza, non sarebbe meglio che direttore e compagni
lasciassero la redazione ad altri, per andare o ritornare nelle missioni?

Con
amore per la verità

Piero
Gonella – Torino

 


Al «buon samaritano… comunista» abbiamo risposto su Missioni Consolata
di aprile. Abbiamo riflettuto un po’ sulla coerenza.


Circa il nostro giudizio su Lenin, Stalin e Mao, forse il lettore non ha
avuto modo di leggere i nostri numeri monografici su Urss e Cina (ottobre
1988 e aprile 1981). Ci siamo pure ricordati di Pol Pot (aprile 1983),
dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (dicembre 1989 e febbraio 2002)
e dell’Est europeo (marzo 1990). Né abbiamo scordato Milosevich (luglio
1999).


Ogni lettera (e sono tante) trova spazio, cui rispondiamo (talora) con
poche righe. La ragione è semplice: lo spazio è ridotto e, pertanto,
preferiamo lasciarlo il più possibile ai lettori, che tra l’altro
dimostrano di sapersi rispondere molto bene…


Pienamente d’accordo sulla «regola dell’alternanza»… E magari avessimo
autornironia! Autornironia, che il martire inglese san Tommaso Moro
(1477-1535), vittima del potere, chiedeva ogni giorno al Buon Dio come
grazia.

AAVV




INFERNO VERDE

Situata
nel cuore
della foresta tropicale,
diventata parrocchia nel 1997,
Sago presenta tutti i problemi
degli inizi; ma la cordialità della gente
incoraggia missionari e suore a raccogliee
le sfide: clima caldo umido e zanzare
in abbondanza, carenze scolastiche e sanitarie,
babele di lingue e culture, con costumi che fanno
a pugni col vangelo… E qualcosa sta cambiando.

«Sago è un villaggio avviato
a diventare città – attacca
con enfasi Raphael, capo
tradizionale e maestro della scuola
locale -. È un villaggio cosmopolita.
Buona parte della popolazione viene
dall’estero: Burkina Faso, Mali,
Guinea, Liberia, Ghana, Togo, Benin
e perfino dal Congo. Posta all’incrocio
delle strade di collegamento
a varie città della regione, e ai
villaggi minori della zona, Sago è stata
scelta come sede della sotto-prefettura
ed è destinata a diventare una
città pilota. Ma non abbiamo nulla:
il prefetto non è ancora arrivato; le
strade non sono asfaltate, non c’è elettricità,
né telefono, né acqua corrente.
Dei quattro pozzi solo due sono
in funzione».

EPPUR SI MUOVE…
Senza tante parole, basta un colpo
d’occhio per capire che Sago è un
paese scalcinato: una serie interminabile
di catapecchie di fango, col
tetto di paglia o frasche, circondato
da un mare di verde, composto da
un intrigo di liane e varie piantagioni,
su cui svettano alberi secolari. Unici
edifici in muratura sono la scuola
e la missione: chiesa, casa dei padri
e convento delle suore.
Fino al 1997, anno in cui fu istituita
la parrocchia, la missione di Sago
dipendeva da Sassandra, 60 km distante.
Una volta all’anno, un prete
ne visitava alcuni villaggi, sparsi nella
foresta per un raggio di una cinquantina
di chilometri, limitandosi a
qualche catechesi e amministrazione
dei battesimi.
Oggi la parrocchia è servita da tre
missionari africani: il kenyano Zaccaria
King’aru, parroco e superiore
del gruppo dei missionari della Consolata
in Costa d’Avorio, coadiuvato
dal congolese Victor Kota e dal
kenyano Joseph Omondi. Tutti e tre
formano una comunità affiatatissima,
in cui ho vissuto giorni indimenticabili
di frateità e amicizia.
Da due anni sono presenti anche
tre suore di s. Gemma Galgani: l’italiana
Maria Pia e le congolesi Monique
e Veronique. Benché impegnate
ancora nella costruzione del convento,
collaborano a pieno ritmo
nelle attività religiose e formative
della parrocchia e gestiscono un dispensario
che supplisce all’inefficienza
di quello governativo.
«Fino a quattro anni fa, nessuno
conosceva Sago – afferma il capo
Raphael -. Appena vi si è stabilita la
chiesa cattolica, il governo ha deciso
di sceglierlo come sede della sottoprefettura:
ora il nome di Sago appare
su tutte le cartine geografiche.
Grazie alla chiesa cattolica esso è diventato
il centro religioso a cui fanno
riferimento decine di villaggi;
presto lo diventerà anche sotto l’aspetto
amministrativo».
La costruzione della chiesa e la
promozione del villaggio a sotto-prefettura
aveva innescato una serie di iniziative
destinate a cambiare il volto
del luogo: fu spianato il terreno e
scavate le fondamenta della sede amministrativa;
ma tutto è stato risucchiato
da abbondante vegetazione.
Qualcuno cominciò a fare blocchi di
cemento, ben presto anneriti dalle
piogge e coperti dalle erbacce, perché
a nessuno è venuta la voglia di costruire
abitazioni in muratura.
Sotto l’aspetto religioso, invece, i
cambiamenti sono già evidenti. Oggi
la parrocchia di Sago conta oltre
2.000 fedeli, 600 dei quali battezzati
in questi anni. Le 35 comunità sparse
nella foresta si sono rianimate: la
domenica le piccole cappelle di fango
sono insufficienti a contenere i fedeli,
costretti a seguire la messa sotto
il sole. Si moltiplicano dappertutto
i catecumenati, anche se si trova
difficoltà a reperire personale idoneo
per il regolare svolgimento dei tre
anni di preparazione al battesimo.
Bisogna fare i conti col personale
disponibile. Alcuni catechisti sono
pieni di buona volontà, ma mancano
d’istruzione. «Mesi fa – racconta
padre Joseph – mandai una lettera a
una comunità per comunicare la data
della celebrazione della messa; ma
quel giorno non trovai nessuno. Domandai
al catechista se avesse ricevuto
il mio messaggio ed egli rispose
seraficamente: “Ecco la lettera,
padre; l’uomo che sa leggere è andato
ad Abidjan”».
«Un altro – aggiunge padre Zaccaria
– sa leggere, ma è poligamo incallito;
è orgoglioso del suo lavoro, anche se spesso gli dico che non è un catechista,
ma un pagano che insegna
agli altri a diventare cristiani».

FRATELLI… IN ADAMO
In compenso tutta la gente è cordialissima
e apprezza la presenza e il
lavoro dei padri e delle suore. Mentre
padre Zaccaria mi guida per le
strade del villaggio, uomini e donne,
vecchi e bambini, cristiani e musulmani
salutano da lontano o accorrono
per darmi il benvenuto, stringerci
la mano, augurarci buon giorno,
chiedere notizie o scambiare quattro
chiacchiere.
Dopo il capo tradizionale, padre
Zaccaria mi fa conoscere l’iman dei
musulmani nord-avoriani: ci accoglie
con solenne cortesia e m’invita a sedermi
su uno scanno simile a un trespolo
più che a una sedia. Preferisco
una modesta panca, per rimanere
con i piedi per terra.
«Qui niente male» esordisce l’iman
in francese stentato: vuole dire che, a
differenza di altre zone del paese, a
Sago non esistono tensioni etniche o
religiose. «Siamo tutti uguali – continua
masticando inglese, quando il
padre gli dice che vengo dall’Italia -.
Tutti discendiamo da Adamo e apparteniamo
allo stesso Dio. Non si
deve mescolare la religione con la politica.
Cristiani e musulmani dobbiamo
lavorare insieme».
Padre Zaccaria conferma le relazioni
amichevoli esistenti tra cristiani
e musulmani e continuiamo la visita
al villaggio. Non c’è molto da vedere,
ma tanto da scoprire: prima di
tutto, quanto sia lontana la parentela
in Adamo. Il paese cosmopolita è
diviso in varie zone: al centro vivono
gli autoctoni godié; attorno gli avoriani
provenienti da altre regioni del
paese; in un estremo i burkinabé, che
costituiscono la maggioranza della
popolazione; in quello opposto altri
gruppi stranieri.
«I godié – spiega padre Zaccaria –
si ritengono padroni della foresta e
lavorano poco: hanno affittato le loro
terre agli immigrati, che si dedicano
alla coltivazione di cacao, caffè,
palma da olio e altri prodotti agricoli
». A guardare le case e il tenore di
vita, non c’è alcuna differenza tra padroni
e immigrati.
Sotto l’aspetto religioso la distinzione
è palpabile: i godié sono in
maggioranza di religione tradizionale;
i musulmani sono divisi in tre o
quattro gruppi, con relativi iman e
moschee, si fa per dire, trattandosi di
costruzioni più scalcinate delle abitazioni.
Ce n’è una per gli avoriani
provenienti dal nord del paese,
un’altra per i burkinabé, altre ancora
per i differenti gruppi stranieri.
Solo i cristiani sono sparsi dappertutto,
come il lievito evangelico, destinato
a fermentare tutta la massa.
Ma le diversità linguistiche e culturali
costituiscono un’altra sfida per
l’evangelizzazione.

BABELE DI LINGUE E CULTURE
È domenica. Accompagno padre
Victor nella comunità di Chartier, a
una ventina di chilometri dal centro.
Alle nove inizia la messa. Il padre mi
presenta alla piccola comunità, parlando
in francese; i catechisti Alfonso
e Beard traducono rispettivamente
in godié, per i fedeli locali, e in
moré, per quelli del Burkina Faso. La
celebrazione procede con lo stesso
ritmo per quasi tre ore: letture, omelia
e avvisi finali in tre lingue; gli
stessi idiomi si alternano nei canti.
Alle 12 ci sediamo davanti a un
pentolone di riso e un tegamino di
salsa e pesce, insieme ai responsabili
della comunità: una dozzina di uomini
e due donne. L’atmosfera è cordialissima.
Si ride e si scherza. Mi
sforzo di sorridere anche quando
non capisco. Ma non posso fare a
meno di ammirare e ringraziare la
gentilezza della gente, quando mi
viene offerto un bel gallo ruspante,
come segno di ospitalità.
«Le due signore sedute assieme a
noi sono godié – mi bisbiglia a un certo
punto padre Victor, per farmi notare
un dettaglio culturale -. Le donne
del Burkina, invece, dopo aver
servito cibo e bevande, sono scomparse
per mangiare tra di loro. Ciò
avviene anche il giorno delle nozze
dei burkinabé: lo sposo mangia e beve
con gli amici; la sposa fa festa insieme
alle altre donne: è il risultato
dell’influsso che l’islam ha esercitato
per secoli in quel paese, ma non
ancora penetrato nella società avoriana».

COSTRUIRE LA FAMIGLIA
Per costruire l’unità della famiglia,
i missionari insistono che genitori e
figli mangino insieme. A forza di battere,
qualcosa sembra cambiare, come
posso constatare a Bobodou, una
piccola comunità a 25 km da Sago,
dove si celebra il matrimonio di tre
coppie burkinabé: al momento del
pranzo, sposi e spose mangiano alla
stessa mensa. Padre Zaccaria gongola
di gioia, anche se le mogli sembravano
sedere sulle spine. A renderlo
ancora più felice è il matrimonio
del catechista. «È
la prima volta che
due giovani vengono
all’altare direttamente
dalle proprie case,
senza previa coabitazione
e prole appresso» mi confida.
Formare famiglie
cristiane, una sfida in
tutta l’Africa, è una
priorità per i tre missionari,
che sfruttano
ogni occasione a tale
scopo. Così, le coppie
regolarmente sposate
con rito cristiano della
comunità di Sago,
appena una dozzina,
diventano centro di
attenzione nella festa
della Famiglia di Nazaret,
la domenica
dopo natale: ben vestiti
e fiori all’occhiello,
gli sposi entrano in chiesa in processione
e si siedono in prima fila;
dopo l’omelia ogni coppia si scambia
anelli e promesse di amore e fedeltà,
come il giorno delle nozze, tra
gli applausi dei presenti.
Anche dopo la messa si continua a
celebrare: la comunità ha preparato
il pranzo per tutti i membri delle famiglie
festeggiate e si prosegue sino
a tardo pomeriggio con giochi, canti
e danze. Finalmente anche le donne
burkinabé si sbloccano, improvvisando
danze tradizionali, in cui
perfino suor Maria Pia azzarda qualche
piroetta.

CAPRETTI «A DUE ZAMPE»
«Siamo in un ambiente di prima evangelizzazione
», afferma padre Victor.
«Anzi, di pre-evangelizzazione –
incalza padre Joseph sorridendo -,
almeno per quanto riguarda la popolazione
locale».
La maggior parte dei cattolici e catecumeni
della missione di Sago, infatti,
sono di origine burkinabé; mentre
gli autoctoni, pur simpatizzando
per la chiesa, sono lenti ad abbracciare
i valori del vangelo. A frenarli è
un groviglio di superstizioni che sfocia
in sacrifici umani, offerti agli spiriti
della foresta per placarne l’ira o
attirae i favori a beneficio della comunità
o del singolo individuo.
Quando Sago fu promossa sottoprefettura,
la gente iniziò a sognare
strade asfaltate, elettricità, telefono…
e gli anziani dissero che, prima di avviare
tali progetti, bisognava fare sacrifici
agli spiriti. E si sentì raccontare
di scomparse misteriose. Padre
Flavio Pante, allora parroco di Sago,
e padre Zaccaria tuonarono dentro e
fuori della chiesa.
A innescare la reazione dei missionari
fu anche l’avventura di Rebecca,
una gemellina cristiana di 4 anni, vittima
designata per favorire il successo
di un commerciante. La bimba fu
rapita da uno sconosciuto; ma la tempestività
della ricerca da parte di parenti
e vicini non diede tempo al rapitore
di allontanarsi e permise alla
bambina di approfittare del trambusto
per fuggire e tornare in braccio a
sua madre.
Pochi giorni dopo, lo sconosciuto
era seduto al chiosco gestito dalla
madre di Rebecca per consumare alcune
frittelle; la bambina cominciò a
strillare: «Mamma, è quello l’uomo».
Il cliente non capiva la lingua della
bimba e la madre ebbe tutto il tempo
per farlo arrestare; ma, portato in
tribunale, il rapitore fu assolto per
mancanza di testimoni.
Per vari mesi non si registrarono altre
scomparse. L’estate scorsa, dopo
che padre Flavio ebbe lasciato Sago,
gli anziani tornarono alla carica. «Ho
avuto in mano la lista di 40 giovani,
di vari villaggi, candidati al sacrificio
– racconta padre Zaccaria -. Dodici di
essi erano di Sago. Sono fuggiti per
scampare al pericolo. Appena avuto
sentore di ciò che si stava macchinando,
abbiamo ripreso a martellare
tutte le comunità. Ora non si sente
più parlare di questo barbaro costume.
Ma fino a quando?».
La pressione sociale e culturale degli
anziani, custodi accaniti delle tradizioni,
è così forte che anche i cristiani
stentano a scrollarsi di dosso tale
mentalità. «La prima volta che il
vescovo venne a Sago per le cresime
– continua padre Zaccaria – uno dei
fedeli gli domandò come dovesse
comportarsi un cristiano di fronte al
sacrificio del capretto. E si sforzava
di chiarire il suo pensiero, finché il vescovo
disse: “Ho capito, ho capito!
Parli d’un capretto a due zampe”».
Nel marzo del 1993, a Béoumi, nella
regione natale del presidente Boigny,
il 55enne missionario francese
Adrien Jeanne fu trovato morto con
la gola squarciata: gesto rituale dei sacrifici
umani. Corse voce che il delitto
fosse legato alla salute del presidente,
ormai spacciato da un tumore:
uno stregone avrebbe sentenziato
che solo il sangue di un uomo bianco
e vergine avrebbe potuto salvare
la vita al presidente.
Inutile ricordare che il presidente
morì lo stesso anno. Tuttavia la diceria
dimostra che, nonostante tali fatti
siano condannati dalla legge come
crimini, la mentalità è radicata su
scala nazionale, nella polizia e nelle
istituzioni che dovrebbero difendere
la vita, fino ai livelli più alti della
società avoriana.

PARTIRE DAI GIOVANI
Cosa fare per liberare la gente da
paura, superstizione, magia e altri elementi
culturali negativi?
I missionari s’interrogano e propongono
qualche priorità. «Bisogna
cominciare dai giovani: sono loro il
futuro della chiesa e del paese» afferma
padre Victor, incaricato della
formazione giovanile in tutta la parrocchia.
«Fin dai primi incontri nelle
comunità e nei raduni qui al centro
– racconta il padre – ho incontrato
difficoltà enormi: moltissimi
giovani non sanno né leggere né scrivere.
Ho deciso di cominciare da zero,
dalle cose più semplici, coniugando
formazione religiosa e alfabetizzazione».
Le statistiche riportano che il 60%
della popolazione della Costa d’Avorio
è analfabeta. La percentuale è
ancora più elevata nelle zone rurali
come Sago, dove esiste solo la scuola
elementare per 300 alunni, mentre
la maggioranza dei bambini sono
abbandonati a se stessi o costretti a
lavorare nelle piantagioni.
Per chi volesse continuare gli studi,
la scuola secondaria più vicina è
a Sassandra, 60 km da Sago. Quei
pochi che tentano l’avventura, tornano
a casa frustrati, poiché a Sassandra
non ci sono possibilità di alloggio
né famiglie disposte ad assumersi
la responsabilità di seguire i
giovani studenti.
«Ormai speriamo solo nella chiesa;
il governo promette molto, ma non
realizza niente» confessa il capo
Raphael e, rivolgendosi a me, continua:
«Ti prego perché, come esponente
della stampa, faccia conoscere
in Europa le nostre necessità e inviti
i superiori del tuo istituto a pensare a
una scuola cattolica qui a Sago. È vitale
per il nostro futuro: i quadri esistenti
qui e a livello nazionale, io
compreso, provengono tutti da scuole
cattoliche».
Padre Zaccaria sorride sotto i baffi
e mi fa una strizzatina d’occhio:
promettiamo tutti e due di fare il
possibile per mantenere vivo tale sogno
e di pregare perché possa presto
realizzarsi.
Intanto, padri e suore continuano
a soddisfare speranze più modeste:
nel centro e in varie cappelle hanno
già organizzato corsi di alfabetizzazione
per giovani e adulti; tra qualche
mese, quando sarà terminata la
costruzione del convento, alcune
sale a pianterreno accoglieranno i
bambini dell’asilo. Sono iniziative
rasoterra, ma indispensabili
per volare un po’ più
alto.

Benedetto Bellesi




altri «trentatre»

Il 2001 ha portato con sé un terribile bagaglio di violenza
e disprezzo verso l’uomo e verso Dio. È stato l’anno
dell’attacco alle Torri Gemelle, della campagna militare in
Afghanistan, delle violenze fondamentaliste in Pakistan,
Nigeria, Indonesia, India. I faeticanti messaggi di Bin Laden, che assaporavano come un gioco la distruzione dell’altro, rischiano di essere l’immagine dominante di questo inizio di millennio…
La lista dei martiri cattolici che presentiamo va controcorrente. Per motivi contingenti non abbiamo aggiunto ad essa i 16 protestanti uccisi a Bahawalpur (Pakistan), le
centinaia di uccisi a Jos e Kano in Nigeria, i trucidati nelle Molucche o nelle città palestinesi. La lista è sempre stilata per difetto. I 33 nomi che riportiamo sono i rappresentanti di un lungo esercito dell’Agnello, che in tutto il mondo sono pronti a dare la vita per il loro Signore e per gli uomini.
I mesi trascorsi (con le rovine fumanti di «Ground Zero
») ci hanno messo sotto gli occhi la capacità dell’uomo
di uccidere sé e gli altri, magari in nome di Dio. I 33 che
presentiamo (sacerdoti, suore, seminaristi e laici) sono invece morti in nome di Dio, ma per donare la vita. Erano
andati in missione per predicare il vangelo, edificare comunità, aiutare giovani, difendere i diritti umani. Il loro slancio d’amore è stato apparentemente stroncato. La maggior parte di loro sono morti proprio a causa del fondamentalismo religioso o etnico.
Alcuni di loro sono morti per «cause banali»: rapina,
furto. Ma spesso l’apparenza nasconde motivi più profondi.
Per esempio: suor Barbara Ann Ford, americana, lavorava
in difesa degli indios ed era stata stretta collaboratrice
di Juan Gerardi, vescovo guatemalteco assassinato
3 anni fa; padre Ettore Cunial, italiano, cercava di strappare i giovani alla mafia albanese, per salvarli dal commercio di droga e organi. Anche questo è un fatto che segna una tendenza.
Fino a 10-15 anni fa i missionari erano amati per essere
i rappresentanti di valori spirituali. Oggi si vede in essi
solo prede inermi, facili da colpire, perché (si sa) non
portano armi e non rispondono con la vendetta.
In tutto il mondo, anche in Irlanda o negli Stati Uniti, vi
è un oscuramento dell’orizzonte spirituale, una crescita di
materialismo che vede le persone come oggetti da spogliare,
strumenti di possesso.
I l fondamentalismo religioso e il fondamentalismo del
possesso sono le cause profonde del martirologio di
quest’anno. A differenza della morte di un giornalista, un
capo di stato o un terrorista, l’uccisione di questi martiri
non suscita scalpore. Ma essi sono come l’humus della
terra: non lo si nota, ma rende fecondo il campo per nuove
semine e raccolti.
La loro cocciutaggine, nel voler vivere e morire per amore
di Gesù fra le piaghe del pianeta, sostiene la speranza
anche per il 2002.
Questi martiri sono il segno che l’amore è possibile e
che la terra appartiene a Cristo, non alla violenza e al terrore.

MARTIROLOGIO DELL’ANNO 2001
1. Sr. Dionitia Mary (indiana) India – 21/1
2. P. Pietro De Franceschi (italiano) Mozambico -1/2
3. P. Tom Manjaly (indiano) India – 2/2
4. P. Nazareno Lanciotti (italiano) Brasile – 21/2
5. P. Jan Franzkevic (polacco) Siberia – 15/4
6. Sr. Barbara Ann Ford (Usa) Guatemala – 5/5
7. P. Raymond M. Gamach (canadese) Perù – 7/5
8. P. Raphael Paliakara (indiano) India -15/5
9. P. Andreas Kindo (indiano) India -15/5
10. Sem. Joseph Shinu (indiano) India – 15/5
11. P. Henryk Dejneka (polacco) Camerun – 17/5
12. Sr. Claire (burundese) Burundi – 11/6
13. P. Leonardo Alzate (colombiano) Colombia – 14/6
14. P. Martin Royackers (canadese) Giamaica – 21/6
15. P. Fabian Thom (australiano) Papua NG -16/8
16. P. Galeano Buitrago (colombiano) Colombia – 27/8
17. P. Emil Jouret (belga) R.D.Congo – 28/8
18. P. Rufus Halley (irlandese) Filippine – 29/8
19. P. Héctor Fabio Vélez (colombiano) Colombia – 2/9
20. P. John Baptist Crasta (indiano) India – 6/9
21. Vol. Giuliano Berizzi (italiano) Rwanda – 6/10
22. P. Ettore Cunial (italiano) Albania – 8/10
23. P. Eesto Martearena (argentino) Argentina – 8/10
24. P. Gopal (indiano) India – 12/10
25. P. Celestino Digiovambattista (ital.) Burkina F. – 13/10
26. Sr. Lita Castillo (peruviana) Cile – 29/10
27. P. Simeon Coly (senegalese) Senegal – 7/11
28. P. Hubert Hofmans (olandese) Papua N. G. – 23/11
29. P. Peter Obore(sudanese) Uganda – 24/11
30. Sarita Toppo (indiano) India – 28/11
31. P. Michele D’Annucci (italiano) Sudafrica – 8/12
32. P. Michael Mac (Usa) USA – 8/12
33. Sr. Philomena Lyons (irlandese) Irlanda – 15/12
(Fonte: «Fides»)

Beardo Cervellera




Lettere


Anna, 98
anni…

la vostra
rivista, letta in famiglia da moltissimi anni, è sempre graditissima. La
mamma Anna, di 98 anni, fisicamente invalida, ma lucidissima, vi legge
tutti i mesi e prega…

Ci piace
il vostro dialogo e la vostra apertura: date spazio a tutti con rispetto e
comprensione, ma senza connivenza.

Alberta
Popoli, Parma

Signora
Alberta, chieda a mamma Anna di pregare un po’ anche per noi.


Chi è
imbecille?

sono
nauseato dalla rivista, la quale potrebbe anche essere buona se non fosse
che, da anni, è diventata odiatrice dell’occidente ricco. È ora che la
smettiate di seminare odio e vi decidiate a dire chiaro che i popoli
dell’Africa, indipendenti da molti anni, e del Sudamerica devono
rimboccarsi le maniche e tirarsi fuori dalla melma in cui li costringono i
loro governanti.

Queste
nazioni stavano meglio quando erano colonie «sfruttate». Logicamente,
oltre a rimboccarsi le maniche, devono avere l’aiuto delle nazioni
«ricche» dell’Europa e degli «odiati» Stati Uniti. Pur riconoscendo che
tanti colonizzatori hanno commesso abusi e uccisioni, mi sa indicare lei,
direttore, dove ciò non sia avvenuto, non avvenga e non avverrà?

Tralascio
l’argomento «crociate», «compiute in nome di Cristo» da criminali
«cattolici». Però mi fanno anche sorridere le continue «scuse» del papa.
C’è mai stata una scusa da parte degli «altri» per gli infiniti massacri
di cattolici? Perché non alzate la voce (avete forse paura?) contro Arabia
Saudita, Sudan, Cina, ecc., nazioni dove è vietata o ostacolata la pratica
religiosa cattolica, quando non perseguitata?

Invece
difendete l’invasione in Italia di milioni di musulmani ed altri, che
foraggiate, pur senza avvedervi (o fate finta!). Così essi prendono sempre
più piede, diffondendo le loro pseudo religioni, che di fede non hanno
nulla, essendo atti di fanatismo.

Quello che
non riesco a capire è che voi, preti, andate anche in missione per
diffondere la fede di Cristo, e intanto difendete gli «invasori», vi
mischiate con loro senza rendervi conto (sarà poi vero?) che, invece di
convertirli, fate sì che moltissimi cattolici abiurino la loro fede per
passare all’altra sponda. Bravi!

Io non
sono un senza-Dio, anzi! Provengo da una famiglia nella quale i genitori
hanno allevato me e sette fratelli nella fede di Cristo più schietta; sono
nipote di un grande prete salesiano; sono fratello di una missionaria in
Burundi, fino a quando i miserabili governanti di tuo (africani, non
europei o statunitensi!) l’hanno cacciata con altre suore e preti; sono
papà di una suora salesiana, da tanti anni in Africa. Pertanto non sono un
mangiapreti.

Sono uno
che ritiene, come diceva Totò, che «ogni limite ha una pazienza»! Non si
possono solo e sempre scrivere accuse pesanti e gratuite, oppure fare di
ogni erba un fascio contro i «potenti» e i «ricchi», imputando loro ogni
responsabilità nelle loro ex colonie. Molti «padroni» africani e
sudamericani, quando non sono disonesti e criminali, sono quanto meno
inetti e, quindi, non meritevoli dei posti che occupano.

Invece di
propagandare (la vostra è spesso propaganda) le religioni di altri popoli,
dovreste diffondere unicamente la nostra religione, la sola e vera
religione! Qualora lei, direttore, contestasse tale affermazione, farebbe
meglio a spretarsi!

Quando mai
gli altri hanno parlato (non dico bene, ma semplicemente parlato) della
fede cattolica? Siamo solo noi gli unici imbecilli, al pari di chi vede
l’erba del vicino più verde della sua? Mi pare che il vangelo non insegni
a «vendersi» o a «leccare» i nostri «concorrenti»!

Aiutare i
popoli è un dovere di noi cattolici (non semplicemente cristiani), ma alla
tassativa condizione di non farci turlupinare o sedurre dalle loro
credenze (non fedi). Vi siete forse fatti preti per imboscarvi e trovare
una comoda sistemazione? Gli unici fratelli (a parte quelli di sangue)
sono i cattolici: tutti gli altri possono essere dei «bisognosi»,
meritevoli di aiuto e basta!

Avrei
ancora tanto da dire (immigrazione di farabutti, sfruttatori, prostitute),
ma smetto ben sapendo che lei, da bravo prete, cestinerà schifato la
presente lettera; oppure, nel migliore dei casi, mi risponderà con
arroganza e disprezzo.

Però
ancora una domanda: perché, nonostante tutte le cattiverie gratuite che
dite a riguardo dei paesi ricchi, accettate (eccome!) le elemosine degli
stessi e non le respingete al mittente? Io credo di saperlo: perché gli
aiuti (fossero anche di satana) sono sempre bene accetti!

Lettera
firmata, Torino

I
missionari non ricevono offerte dai «ricchi», ma da «quelli che sono
poveri davanti a Dio». (Mt 5, 7)… E sorridere di fronte ai mea culpa del
papa non ci pare un bel sorriso.

 

CCP
33.40.51.35

quando
posso, cerco di fare qualche offerta per i vostri interventi nei paesi
bisognosi. Le offerte potrebbero essere maggiori, se ci fosse il numero di
un conto corrente Onlus, in modo da detrarre l’importo dalla dichiarazione
dei redditi, rendendo così la cifra a mia disposizione maggiore.

Alberto
Ramagno M., Roma

Il conto
corrente postale è 33.40.51.35 (per altre informazioni, si veda l’ultima
pagina della rivista). Ringraziamo il signor Alberto e quanti sostengono
l’opera dei missionari.

 


Il circo
della «formula uno»


 Spettabile redazione,

avete
fatto bene a evidenziare le responsabilità della tivù per l’insensata
attenzione ai divi della formula uno. Anch’io ho l’impressione che
giornali e telegiornali esagerino nel dare la prima pagina alla Ferrari.
Anche se le «rosse» non hanno la pole position e a vincere sono MacLaren o
Williams, lo spazio per l’automobilismo è troppo.

Molti
parlano di «circo della formula uno», alludendo alla spettacolarità delle
corse, alla disinvoltura con la quale le principali case automobilistiche
si spostano da un punto all’altro del pianeta, all’efficienza con cui si
risolvono i problemi tecnici.

La parola
«circo» esprime l’incredibile docilità con cui piloti e tifosi ubbidiscono
ai loro ammaestratori (Montezemolo, Ecclestone, Williams, Briatore…).
Sono convinto che, quando M. Schumacher proclama «amo la rossa come mia
moglie» e «alla prima curva non ho parenti», lo fa soprattutto per
tranquillizzare i suoi padroni e non far nascere il sospetto che gli
affetti familiari possano condizionare negativamente il suo rendimento.

Una
conferma del rovesciamento della scala naturale dei valori è arrivata dal
circuito di Lausitzring. Costato 300 miliardi di lire e definito un
«giorniello di sicurezza», su questo circuito, dopo pochi mesi di attività,
è morto Alboreto, mentre Zanardi ha perso le gambe…

Venerdì,
14 settembre 2001, per commemorare le vittime delle Twin Towers e del
Pentagono, sul circuito di Monza c’è stato un minuto di silenzio, e non
tre; domenica 16, non c’è stato nessun rallentamento alla prima curva,
nessun accordo tra le scuderie per ridurre il rischio di collisioni.
Perché? Perché altrimenti Ecclestone si sarebbe arrabbiato.

Francesco
Rondina, Fano (PS)

Il signor
Rondina si riferisce alla nostra risposta ad un lettore (Missioni
Consolata, settembre 2001).


 Accendi il
motore

Da anni
collaboro con i salesiani nella formazione dei giovani, credendo nelle
parole «religione, ragione e amore». Ma consideravo solo i giovani che mi
circondavano fisicamente. Mai mi ero chiesta quali e quanti visi di uomini
e donne, sfruttati, vi fossero dietro le etichette dei prodotti acquistati
o quanto costasse, in termini di vite umane, la benzina.

Parlavo di
solidarietà, impegno e coscienza sociale del «buon cristiano e onesto
cittadino», ma in modo astratto. Poi ho cominciato a capire di esser parte
di una rete di ingiustizia e illegalità, di essere piccola, ma anche
potente da rendere «schiavi» altri esseri umani. Schiavi dei miei bisogni.
E ho cominciato a vedere «incarnato» in alcuni il senso di responsabilità
per chi ci è accanto.

Se ami
l’uomo e credi in lui, ami e credi in tutti. Se decidi di essere
consapevole di te stesso, decidi pure di essere responsabile dei tuoi
fratelli, chiunque e dovunque siano.

Nel mio
«viaggio di terra» ho iniziato a conoscere la bellezza delle persone: è la
capacità di riscatto, il dono di un cuore che non si stanca e di una mente
che può arrivare alle «radici» della terra e alle «cime» del cielo.

Ogni uomo
ha un «motore vitale», non inquinante, anzi rigenerante. Ogni persona
merita rispetto e ascolto: anche quelle che hanno nascosto il loro «motore
vitale» sotto logiche di mercato e profitto; anche quelle che ci vogliono
«comparse» nella vita. Ma chi ne è vittima e schiavo merita di più: merita
che il nostro «motore vitale» generi un movimento di coscienze, di piedi
che marciano, di mani che donano e scrivono e di parole che scuotono. Lo
sento come dovere, per guadagnarmi la «fortuna di essere».

Voi
missionari avete «acceso il motore»… Accendete una lampada e ponetela
sul lampadario, perché chi entra veda la luce (cfr. Lc 8, 16).

Anna
Salzano, Torino

 


Arrivederci Etiopia

Ci sono
tanti bambini senza i genitori (ma alcuni vengono adottati dai nostri
amici italiani). Ci sono ammalati senza ospedale, perché senza soldi; così
la sofferenza li fa morire. Ci sono tanti sfortunati, ma anche fortunati.
Fortunata sono anch’io. Ringrazio Dio di essermi stato vicino e aver avuto
la famiglia a consolarmi.

Ora sto
trascorrendo un bellissimo periodo con una famiglia italiana e voglio
ricordare anche padre Domenico Zordan, che è stato l’inizio della mia
fortuna. Sarei felice se lo avessi vicino, per ringraziarlo con tutto il
cuore.

Etiopia,
non ti dico addio, perché, se Dio vuole, toerò a rivedere la mamma, i
fratelli, gli amici. Arrivederci dunque.


Testimonianza pervenutaci attraverso la famiglia di Ivo Babolin, presso la
quale Zennash, etiope di 18 anni, è ospite per cure mediche.

Padre
Domenico Zordan, missionario della Consolata, è deceduto nel 1997.

 


 LA POLITICA DEL
DISPREZZO NO!

 


Problemi a
valanga

Su
Missioni Consolata di settembre, pagina 11, riportate cosa ha fatto il
vescovo di Kyoto, senza alcun commento. Chi tace acconsente! La cosa è di
una gravità eccezionale: come può un vescovo predicare l’odio politico e
religioso?


L’imperatore del Giappone è pure capo religioso per i suoi seguaci. Dov’è
il dettato di Gesù «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di
Dio»?

Come si
permette di criticare l’inno nazionale, che celebra l’imperatore come capo
dello stato (e non il popolo), quando anche il papa è capo di stato e, per
di più, assoluto e non democraticamente eletto dal popolo? Un vescovo può
sbagliare, ma un redattore non deve riportare un errore, come se fosse una
cosa bella.

A
pagina 64 dello stesso numero vi è uno dei soliti articoli contro le
multinazionali. Queste sono società di extraterrestri e vogliono
colonizzarci? Nelle multinazionali lavorano migliaia di persone (e molte
azioni sono del Vaticano): costoro sono anch’essi colpevoli, perché
eseguono gli ordini e interessi delle multinazionali?

Mi
sapete spiegare perché una multinazionale deve, a proprie spese,
stipendiare ricercatori, costruire laboratori con attrezzature costose e,
forse, scoprire ogni tanto qualche prodotto che fa bene all’umanità e poi,
sempre a proprie spese, deve darlo a poco prezzo ai poveri? Perché i
governi dei poveri (e non i governi dei «ricchi»), invece di spendere in
armamenti, non spendono nei medicinali delle multinazionali?

Se
l’Iraq avesse fatto controllare tutti i suoi siti industriali dagli
incaricati dell’Onu, non ci sarebbero state sanzioni e, quindi, potrebbe
spendere in medicinali e vitto per il proprio popolo. E il prete che va a
«Porta a Porta» (forse un missionario della Consolata?) non avrebbe da
lamentarsi per i bimbi iracheni che muoiono! La chiesa cattolica perché
non vende le sue proprietà immobiliari (i sacerdoti potrebbero vivere come
Gesù Cristo), per investire il ricavato in medicine per i poveri?

È bello
dire sempre «dovete dare» e mai… «diamo»!…

Sul
numero di ottobre, pagina 69, già il titolo fa ribrezzo. Gli «otto nani
miopi e prepotenti» sono stati eletti democraticamente dai loro popoli e,
quindi, non sono né nani né miopi. Questi titoli vanno bene per Paolo
Moiola e per il direttore che ne autorizza la stampa: l’uno e l’altro, non
eletti democraticamente, dimostrano di essere presuntuosi!

Sono
spiacente anche di verificare come, oggi, si dica che ogni religione è
valida: così pagani, buddisti, indù, maomettani, testimoni di Geova,
mormoni, luterani… saranno premiati come i cattolici, se si comportano
secondo il loro credo. Allora Gesù ha sbagliato a dire di convertire i
popoli e anche i missionari non hanno più scopo di esistere…

Io
faccio la carità perché, conoscendo Cristo, la tua anima si salvi; ma, se
la mia carità serve solo a darti da mangiare e tu rimani buddista o
maomettano, preferisco darla ai veri cristiani-cattolici.

Cesare
Verdi – Riva di Chieri (TO)

 


Del vescovo di Kyoto, Otsuka, si parla in «La chiesa nel mondo», una
rubrica che da sempre riporta fatti senza commenti. Ma la notizia non
accenna ad alcun «odio politico e religioso» da parte del vescovo.


Per rispondere alle altre questioni, l’intera rivista non basterebbe.

  


Marce
di pacifisti


e guerra

 Egregio
direttore, da anni leggo la sua rivista e, in varie occasioni, mi sono
irritato di fronte a posizioni parecchio oltranziste, sostenute dai
redattori nei confronti degli Stati Uniti d’America. Sicuramente non è
tutto oro quel che brilla oltreoceano; ma, quando la critica negativa è
continua, sistematica e totale, mi pare ovvio dedurre che c’è una grave
mancanza di obiettività.


Domenica, 10 novembre, alcuni di loro avranno sicuramente preferito
marciare con gli spaccatori di vetrine (certo, non tutti lo sono). Ma, se
lei ha visto la diretta di «Rai 1», avrà notato un’anziana donna che,
avendo avuto l’ardire di raccogliere da terra e baciare una malridotta
bandiera statunitense, è stata strattonata da alcuni giovani
eroi-marciatori e sicuramente pacifisti, per riprendersi il vessillo e
nuovamente calpestarlo. Sono fatti che non hanno bisogno di alcun commento.

Per
quanto riguarda le varie «etnie» di pacifisti, pongo a lei, che non vedo
mescolato ai «marciatori», la domanda: ritiene che la questione afghana si
sarebbe potuta risolvere (come pare stia accadendo) con marce e striscioni
contro la guerra tout court?

Guido
Laurenti – Isera (TN)

 


No, la questione afghana non si risolve con marce e striscioni. Ma si sta
risolvendo con le bombe?


 

 Povera

«Missioni Consolata»!

 Non di
soldi, ma di articoli. Quando la rivista per mesi (dico mesi) continua a
battere sul G 8 di Genova con articoli alla… Bertinotti, non solo è
povera, ma poverissima. Quando poi l’articolista Pa.Mo. (Missioni
Consolata di ottobre-novembre 2001) afferma di essere stato a New York a
ferragosto, io mi fermo.


Spariamo sul G 8, però andiamo a New York, abbiamo il telefonino, beviamo
coca-cola, mangiamo ai McDonald’s… Non vogliamo il G 8, però prendiamo
tutto ciò che il progresso ci dà e, se possibile, ancora di più.


Piangiamo per gli affamati in Iraq. Ma chi è che li ha portati alla fame,
se non Saddam stesso che investe capitali all’estero e spende a larghe
mani per avvelenare il mondo? Perché dovremmo essere noi a sfamare il suo
popolo? Lo stesso dicasi per Bin Laden e i vari sceicchi!

Caro
Pa.Mo., io non sono andato a New York, non ho il telefonino, non vado al
McDonald’s, non bevo coca-cola… ho solo una vecchia macchina da scrivere.
A Genova buona parte dei danni sono stati provocati dal sostegno dei
pacifisti, tipo Bettazzi (il vescovo Bettazzi, ndr) e compagni. Costoro
avrebbero fatto meglio a pregare. Se l’avessero fatto 10 mila dei 200 mila
presenti a Genova, le cose sarebbero andate diversamente. La preghiera,
dice la Madonna, ferma anche le guerre. Ma è più comoda una scampagnata a
Genova!

Tutte
le pagine del vostro articolo sono un inno alla violenza contro Bush,
Berlusconi e Israele… Voi sì che, con scritti del genere, portate la
guerra e non la pace.


Giovanni Viotto – Torino

 


Forse risulterà strano… Ma il nostro redattore non ha il telefonino, non
beve coca-cola, non mangia ai McDonald’s. A New York non è stato in
vacanza, ma per lavoro.

  



Il cervello all’ammasso

 Recentemente
Missioni Consolata è stata duramente attaccata da alcuni lettori, mentre
altri l’hanno apprezzata. Io apprezzo anche il pizzico di autornironia con
cui il direttore risponde ad offese assurde.

Noto
una grande differenza fra gli accusatori e i sostenitori della rivista: i
primi insultano, ricattano e ostentano scandalo (accusando persino
Missioni Consolata di avere abbattuto le Torri Gemelle); i secondi si
sforzano di capire, propongono e riflettono sui problemi che la rivista
pone.

Se
Missioni Consolata, per esempio, critica una multinazionale con nome e
cognome (perché disbosca in modo selvaggio o inquina), non basta dire: «Ragionate
da comunisti»; bisogna dimostrare che i fatti contestati non sono veri…
Se la rivista attacca la politica estera degli Stati Uniti (perché, ad
esempio, è implicata nella guerra civile del Congo), non basta dire: «Gli
Usa mandano sacchi di farina, mentre i capi africani pensano solo ad
arricchirsi». Il fatto che i presidenti africani siano corrotti scagiona
gli Usa dalla loro responsabilità, specie se corruttori e venditori di
armi? Un male non ne giustifica un altro.

In
Italia mi preoccupa «la politica del disprezzo», forte di una maggioranza
numerica. Mi preoccupa, perché schiavizza milioni di persone, che si
sottraggono al dialogo e riportano sempre la voce del padrone o fanno la
predica. Hanno portato il cervello all’ammasso: lo dimostra il fatto che
qualcuno disdice l’abbonamento alla rivista, rifiutando così il confronto
con una parola diversa dalla propria.

Trovo
poi assurdo che si critichi Missioni Consolata, perché non sarebbe
religiosa e cattolica. La rivista si avvale sempre dei documenti della
chiesa, oltre che del vangelo, e soprattutto invita all’attenzione verso
tutti i poveri in spirito… È invece cattolico don Baget Bozzo, che
critica il digiuno per la pace del 14 dicembre, osservato dal papa e da
tanti altri?

Se «religioso»
significa non scomodare nessuno, dovremmo prendere la bibbia e strappare
le pagine «non religiose». Alla fine ci troveremo, forse, solo con la
copertina.

Ancora
una riflessione. Le lettere a Missioni Consolata sono poche quando la
rivista parla dell’«altro mondo» (i 4 quinti dell’umanità), ma ne arrivano
tante quando parla dei fatti di casa nostra (guerra in Kosovo e
Afghanistan, G 8). Mi viene in mente Giovanni Battista, che diceva:
bisogna che l’interesse per me diminuisca e cresca l’attenzione per
l’altro… Giovanni era proprio una voce nel «deserto».

E
Missioni Consolata anche.

Guido
Brambilla – Milano

 


Tuttavia Giovanni Battista, il più grande di tutti (cfr. Mt 11, 11),
continuava la sua missione, e la gente andava da lui, compresi i farisei…
La nostra rivista, con semplicità, cerca di fare altrettanto… sperando
di non fare la fine del profeta.


A Missioni Consolata sono pervenute numerose lettere anche in altre
occasioni. Ad esempio: l’editoriale di luglio-agosto 1985 «Attenti al
cane» scatenò quasi… una cagnara. La nostra tesi era: vi sono uomini che
trattano i propri simili da cani e i cani da uomini. Comunque, sempre
fatti di «casa nostra».


Caro signor Guido, anche a lei raccomandiamo pacatezza e un pizzico di
autornironia.

 



L’«utile idiota»

 Caro
direttore, mi riferisco al numero di ottobre-novembre della sua rivista.
Ritengo patetico il tentativo di offrire una versione «cattolica» dei
fatti di Genova, senza analizzare quanto è avvenuto: la
strumentalizzazione a fini nazionali (da parte di un abile «politburo»)
delle associazioni cattoliche, che hanno svolto il ruolo dell’«utile
idiota».


L’articolo su «dopo l’11 settembre» mi ha disgustata per il tono e per il
contenuto: a me pare una semplicistica e retorica esibizione dei più
tristi luoghi comuni del terzomondismo; al di là delle buone intenzioni, è
pervaso da spirito manicheo ed integralista, assai vicino al
fondamentalismo islamico.

Non
credo che, con queste sparate verbali, si aiuti la gente a pensare e
capire.


Giuliana Piaia – Montebelluna (TV)

 


La signora ha pensato. Forse non ha capito. Succede anche a noi.

AAVV




Lettere: cari missionari


Il paradiso
è qui



attraverso Missioni Consolata
di settembre, il giornale Times of India rivela che, se si riducesse la
popolazione mondiale a 100 individui, ci sarebbero 57 asiatici, 21
europei, 14 americani, 8 africani. Il quotidiano fa conoscere altri dati
(probabilmente tratti da un sito internet), omettendo però che 89 persone
sarebbero eterosessuali e 11 omosessuali; 6 individui possiederebbero il
59% della ricchezza del mondo intero e tutti e sei sarebbero statunitensi.
Ancora, su 100 individui, 80 vivrebbero in case senza abitabilità, 70
sarebbero analfabeti, 50 soffrirebbero di malnutrizione e 1 solo sarebbe
laureato.


«Se avete soldi in banca, nel
vostro portafoglio e spiccioli in una ciotola, siete fra l’8% delle
persone più benestanti al mondo. Se i vostri genitori sono vivi ed ancora
sposati, siete persone veramente rare, anche negli Stati Uniti e nel
Canada».


Qualcuno ha detto: «Lavora come
se non avessi bisogno di soldi; ama come se nessuno ti abbia mai fatto
soffrire, balla come se nessuno ti stesse guardando; canta come se nessuno
ti stesse sentendo.Vivi come se il paradiso fosse sulla terra.


Giovanni Fumagalli


Casatenovo (LC)

E noi, a poche settimane dal
natale di Gesù Cristo, citiamo un canto:


No, non è rimasta fredda la
terra:
Tu sei rimasto con noi…
Sì, il cielo è qui su questa terra:
Tu sei rimasto con noi,
ma ci porti con Te…
No, la morte non può farci paura:
Tu sei rimasto con noi…
Sei Dio con noi,
sei Dio per noi,
Dio in mezzo a noi.

«Gratia
plena»

sono un giovane devoto
dellaVergine Maria, perché le devo moltissimo. Ho avuto da poco una totale
conversione, grazie ad un vostro missionario, padre Serafino, che mi ha
aperto la strada della salvezza facendomi incontrare la madre di Dio.

Padre Serafino mi ha raccontato
come ha cercato di rendere santa la sua vita donandola a Dio; lungo la
strada della carità e della povertà spirituale ha incontrato molti
bisognosi in Africa e in tutti quei posti in cui Dio lo ha inviato
nell’arco della sua missione. Prego affinché i suoi sacrifici non siano
vani. Il mondo avanzi sulla strada della pace che Dio ha dato a noi
uomini, forse anche grazie ai sacrifici di persone come padre Serafino.


Firma non leggibile,


località non espressa

Nessuna
sanità da «terzo mondo»


in questi giorni il Consiglio
dei ministri ha approvato il documento di programmazione economica e
finanziaria per gli anni 2002/2005.


Tra gli interventi in
programma, leggo che sono previsti 120 mila miliardi di privatizzazioni
(la Repubblica 17/7/01). Ho istintivamente collegato questa notizia alle
perplessità espresse da Gianni Vaccaro nella sua lettera «Se ospedali e
scuole diventano imprese», pervenuta dal Perù e pubblicata su Missioni
Consolata, luglio-agosto 2001.


Ho poche idee in materia
politica ed economica; però mi sono chiesta: si stanno preparando per il
nostro servizio sanitario nazionale tempi difficili, ovvero da terzo
mondo?


Diana Cassani


Milano

La lettrice, più che un
interrogativo, lancia un monito. Ben venga ogni progetto del governo che
elimini gli sprechi e renda il servizio sanitario più efficiente, ma non a
scapito degli ammalati che non possono usufruire di strutture alternative!
Inoltre la lotta agli sprechi deve investire ogni ambito, compreso quello
della produzione di armi. Ecco un altro punto su cui bisogna essere
«svegli». E ci preme dire con forza che sanità, scuola, posta, trasporto,
informazione… da «terzo mondo» non sono tollerabili né nel nord né nel
sud del mondo.


Uso delle
offerte



la lettera di padre Marco
Bagnarol, pubblicata sul numero di luglio-agosto, mi ha lasciata
sconcertata.


Che un missionario, in possesso
di così generose offerte, scriva quelle due-tre cose che gli sono passate
per il capo è veramente inammissibile!


Pensavo che i missionari
destinassero al meglio i soldi che le persone, magari rinunciando a
qualche legittimo desiderio, offrono in favore di un numero indescrivibile
di individui che necessitano, prima di tutto, di medicine per sopravvivere
ed anche cibo per vivere.


D’ora in poi, prima di fare
un’offerta, ci penserò ben bene.


Lettera anonima

I missionari impiegano le
offerte ricevute secondo il desiderio dei donatori: se il denaro è per la
costruzione di un dispensario medico o di una scuola, viene impiegato a
tale scopo. E l’ha fatto, scrupolosamente, anche padre Marco Bagnarol.

Però padre Marco solleva un
altro problema; si domanda: perché è più facile raccogliere fondi per un
allevamento di animali che per la costruzione di una cappella? In altre
parole, il missionario sottopone la sensibilità evangelizzatrice dei
credenti ad un esame di coscienza. Un esame da non sottovalutare.


Se vince la
violenza

Gentile
direttore,


abbiamo vissuto un’estate
«calda», da stampare nella memoria nella sua nefasta realtà. L’estate 2001
(che ci attendeva per trascorrere nel silenzio della montagna e nel riposo
balneare o in un semplice stacco dalla realtà quotidiana) ha portato in
trionfo la violenza. Una violenza sorda e anarchica, disorganizzata e
spietata, disperata e inconcludente. Una violenza che deve farci
interrogare su dove nasce, perché riemerge con tutta la sua forza
distruttrice e contagia le giovani generazioni.


Sono ancora i fatti di
luglio-agosto (specie le vicende del G8 di Genova) che ci turbano e fanno
sobbalzare le coscienze.


A Genova perché la violenza ha
schiacciato le ragioni della protesta, del dialogo, del confronto tra
uomini e donne che vivono gli uni accanto agli altri?… Sono state messe
in soffitta le ragioni nobili di molti, che hanno partecipato non solo
alla manifestazione di sabato 21 luglio, ma anche alla settimana di
dibattito sulla globalizzazione, e che da anni lavorano con coerenza per
lo sviluppo dei paesi più poveri. Non una minoranza, ma un gruppo
consistente di giovani ha usato lo scontro per opporsi ai «grandi della
terra». La violenza, come mezzo per dire «ci siamo!», ha dimostrato ancora
una volta di essere il principio dell’autodistruzione. È scoccata la
scintilla… e l’incendio ha incenerito i buoni e sinceri, che animano la
parte sana e si impegnano per una globalizzazione al servizio dell’uomo.


I violenti hanno creduto di
vincere. In realtà hanno perso. Hanno provocato una reazione scomposta;
hanno evidenziato nel sistema la mancanza di prevenzione e tutela dei
cittadini genovesi; hanno portato a conseguenze tragiche il gioco dello
«spacca tutto», culminato con la morte di un giovane e la disgrazia per
un’altra giovane esistenza. Nelle settimane a venire è nato uno scontro
avvilente nel mondo politico: non una voce si è alzata, ferma,
intransigente, autorevole, per dire basta allo stillicidio, per indicare
un’altra strada a chi vuole perseguire valori umani, per chi deve tutelare
la sicurezza dei cittadini. Alla riflessione pacata si sono privilegiati
gli scambi di accuse e le violenze verbali, che producono solo danni,
spesso irreversibili. Della «non violenza» pochi hanno parlato. Della
capacità di opporsi all’ingiustizia, grazie all’opera silenziosa e
all’amore di coloro che vivono in prima persona i drammi nel Sud del
mondo, nulla. Solo risse verbali.


Allora la violenza dilaga,
penetra nel cuore dei deboli che si credono forti, annebbia menti e
coscienze, entra nelle giovani vite come un virus, una droga e agisce.
Attraverso la violenza si giustifica ogni azione, si chiedono protezioni
politiche, sociali, economiche e financo giustificazioni religiose.


Oggi non si può rimanere inermi
o chiedere solo ordine e repressione. È importante riportare al centro la
cultura della pace, per sradicare la violenza dai cuori, per allontanare
dalla storia l’idea che solo il male trionfa.


I cristiani e tutti gli uomini
di buona volontà sono pronti alla prova?


Luca Rolandi


Torino


Non basta la
parola

Caro
direttore,


«fare un salto» mi hanno
risposto in una banca. Significa che l’impiegato sarebbe stato assente per
tutta la mattinata… Le parole non riescono spesso a rendere il concetto
che ci frulla in testa, perché le giriamo come vogliamo.


Prendiamo, ad esempio, il
termine global. Per esso si azzuffano non solo i politici. Un bene, un
male, una novità?


Global è stato l’antico impero
di Roma, con il virgiliano imporre costumi di pace, usando clemenza a chi
cede e sgominando chi si oppone (Eneide, VI, 852-3). Anche per Marco Polo,
Cristoforo Colombo, Giuseppe Garibaldi o Guglielmo Marconi la realtà era
globale. Ma lo è stata pure nelle guerre modee e nelle epidemie antiche.
E lo è nell’economia. Dunque global non è un’invenzione di questi giorni.
Nel 1969 Marshall McLuhan scrisse sul «villaggio globale», cioè
elettronico. Oggi abbiamo quello telematico di internet. Ma i messaggi
sono destinati pure al bambino del Nepal, costretto a lavorare in una cava
di pietre, o a quello nostrano obeso per eccesso di merendine?


Global: l’esportazione che
arricchisce le nostre imprese, ma anche il lavoro minorile nei paesi «in
via di sviluppo» per prodotti destinati a noi.


Global: la nuova economia che,
ad esempio in Perù, fa rispuntare la TBC, perché gli ospedali (obbedendo
al Fondo monetario internazionale) sono ora imprese di mercato, e non
attuano prevenzione. Il Perù, dove si paga per donare il sangue ad un
malato; dove una donna muore con il figlio, perché senza soldi per il
taglio cesareo (cfr. Missioni Consolata, luglio-agosto 2001). In Gran
Bretagna hanno aggiunto a «capitalismo» l’aggettivo «compassionevole».
Sono parole povere quelle che necessitano di un abbellimento!


Antonio Montanari


Rimini

Avanti
così!

Egregio
direttore,


dopo quanto accaduto a Genova a
luglio e dopo i drammatici avvenimenti dello scorso 11 settembre negli
Usa, nel corso di frequenti discussioni con amici e conoscenti, ci siamo
ulteriormente convinti del valore che riviste come Missioni Consolata
possono assumere.


La vostra rivista garantisce la
qualità e l’originalità delle informazioni, che riescono a comunicare,
attraverso i servizi e le documentazioni che pubblicate, una testimonianza
diretta e continuativa delle culture mondiali e delle condizioni delle
economie nei singoli paesi considerati, evidenziando le contraddizioni che
emergono.


I motivi di riflessione che si
trovano aiutano anche a comprendere le ragioni che hanno spinto centinaia
di migliaia di persone a partecipare in maniera diretta, e molte di più a
condividere le ragioni di una manifestazione quale quella di Genova del 21
luglio. La prevalenza dei mezzi d’informazione ha poi fatto diventare
quanto accaduto una sola «questione di ordine pubblico», scrivendo una
valanga di inutili considerazioni, quando ben altro era il valore di ciò
che si voleva sostenere. Nel panorama dell’informazione nazionale, troppo
impegnato a fornire notizie sugli indici di borsa e sulle tendenze dei
mercati, solo in maniera sporadica trovano visibilità le realtà «altre»
dall’occidente, spesso strumentali a qualche campagna più o meno occulta.


Soprattutto in questi giorni,
in cui con leggerezza sono usate parole terribili, ci aspettiamo che
proseguiate, con il vostro lavoro, a trasmettere un messaggio di giustizia
sociale e di pace.


E questo per continuare a
«sognare un mondo diverso dall’attuale».


Aldo Da Boit


e Tamara Prest



Sorpresa,
stupore…


Spettabile
direzione,


ho letto con attenzione su
Missioni Consolata di settembre «Ai lettori» e «Battitore libero», scritti
da Paolo Moiola.


Mi ha molto stupito la
sicurezza (sicumera?) con cui il redattore individua la causa di tutti i
mali del mondo nella globalizzazione e nelle «violenze di certe
multinazionali», senza accennare alle enormi risorse sperperate in
armamenti convenzionali e no ed in guerre intee dai cosiddetti paesi
poveri (mentre, secondo notizie di stampa, l’ex-terrorista Gheddafi,
cambiando registro, ha ormai ultimato, impiegando utilmente i
petro-dollari, un imponente sistema di acquedotti per portare l’acqua dal
deserto alla costa).


Confesso, infine, sorpresa nel
trovare le tesi antiglobalizzazione e antiamericane, cavallo di battaglia
dell’estrema sinistra italiana, sostenute su Missioni Consolata da Paolo
Moiola, senza far parola su una possibile globalizzazione governata e non
selvaggia. Ancora sono sorpreso nell’apprendere la contiguità di certi
dimostranti a Genova (durante il «G 8») con tute bianche e no.


Chiedo a codesta direzione se o
in quale misura si riconosce nelle tesi del redattore Paolo Moiola.


La presente globalizzazione,
fondata sul neoliberismo economico, solleva forti perplessità nello stesso
«Rapporto delle Nazioni Unite sullo Sviluppo»: come è possibile, ad
esempio, che tre individui nel 1999 avessero ricchezze pari al reddito
complessivo di 42 paesi poveri? Come spiegare il crescente divario
economico fra paesi ricchi e poveri, rispettivamente di 11 a 1 nel 1913,
di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973, di 72 a 1 nel 1992?


Multinazionali.

Vale il discorso della non
demonizzazione. Ma è eloquente che la «Del Monte», ad esempio, sia stata
«processata» in Kenya e, alla fine, abbia accettato le richieste dei
lavoratori nelle piantagioni di ananas.


Guerre e armi.

Nel sud del mondo esistono conflitti assurdi, mancanza di rispetto dei
diritti umani e sprechi di risorse… che Missioni Consolata ha
denunciato. Ma, ancora una volta, sorge la domanda: chi produce e vende
armi? Chi ha addestrato i terroristi, responsabili delle stragi negli Usa
l’11 settembre?

In redazione il dottor
Moiola
ha le «sue» idee (come tutti), che rispettiamo, perché crediamo
nel pluralismo. Questo non significa che tutte le opinioni siano giuste,
ma che tutti possono esprimerle. Altri nostri collaboratori talora
sostengono tesi discutibili. L’invito a ciascuno è: sappi far credito
anche a chi non la pensa come te. Per tale ragione pubblichiamo anche le
lettere anonime (non siamo tenuti a farlo) e quelle che ci insultano.

Come missionari, non possiamo
dimenticare personaggi di chiesa, ieri condannati e oggi assolti: Ricci,
De Nobili, Rosmini… Grazie a Dio (è proprio il caso di affermarlo), la
chiesa cattolica (cioè universale) è quella di san Pietro e di san Paolo:
il missionario Paolo ha accusato Pietro, primo papa, di ipocrisia (cfr.
Gal 2, 11-14)… ed entrambi sono i pilastri della chiesa.

Ai nostri giorni il cardinale
Biffi «non è» il cardinale Martini. Però entrambi hanno diritto di parola,
e lo esercitano.

Complimenti
di «troppo»

Leggo
su Missioni Consolata, settembre 2001, p. 67: «… spero che il mondo che
lei difende un giorno o l’altro si frantumi sotto il peso delle proprie
contraddizioni. Con l’aiuto di quel “popolo di Seattle” (e di Porto Alegre)
che lei liquida con accademica sicumera»… Nell’attesa avete frantumato
le Twin Towers di New York e le persone che si trovavano al loro interno.
Complimenti!


A proposito, se quel mondo si
frantumerà, non ci saranno più antibiotici, aspirina, generosi oboli di
fedeli laboriosi che risparmiano.


A proposito bis, «George il
texano» si chiama George W. Bush ed è il presidente degli Stati Uniti;
merita rispetto come il suo paese che è democratico, generoso, ospitale.


A proposito tris, della «Tobin
tax» si pente persino l’ideatore Tobin, che si è reso conto di aver preso
una cantonata. A Genova non se n’è parlato, perché non funziona, non
serve, anzi fa danno.



Non si stigmatizza la
mercificazione della salute indicata dalla signora Bono, bensì quella
esemplificata da Gianni Vaccaro, che dovette pagare 20 dollari per donare
il sangue ad una ragazza con cancro terminale (cfr. Missioni Consolata,
luglio-agosto 2001).

Bis. Nell’articolo contestato,
alla riga 26 della seconda colonna, si riconosce il «presidente George W.
Bush».

Ter. Nel 1972 James Tobin
(premio Nobel per l’economia nel 1981) propose un’imposta dello 0,05%
sulle transazioni valutarie. Oggi non si riesuma la «Tobin tax» tout
court, ma qualcosa di analogo. È questo pure il parere della studiosa
Susan George,
nostra ospite il 18 settembre scorso (cfr. pagina 43).
Al riguardo, si legga: Alex C. Michalos, Un’imposta giusta: la Tobin Tax,
Gruppo Abele, Torino 1999.

Circa la «nostra» frantumazione
delle torri gemelle e l’assassinio dei residenti, i «complimenti» della
lettrice… li meritiamo davvero?

Usa,
il migliore di tutti?


essendo un lettore di Missioni
Consolata, di cui Paolo Moiola è tra i componenti la redazione, ho avuto
modo di leggere fondi o reportages di suo pugno e più volte sono stato
preso dall’impulso di scrivergli (come più volte sono stato tentato
d’invitare la direzione della rivista ad eliminare il mio nome dagli
abbonati).


Sul numero di settembre il
fondo riguardante i fatti di Genova non poteva essere che di Moiola. Il
livore che manifesta sempre verso gli Stati Uniti, per lui il Satana che
ha demonizzato il mondo occidentale (a proposito, quanto è diverso tale
livore da quello espresso dall’integralismo islamico?), appare anche in
queste righe riguardanti i fatti di Genova.


È ovvio che a Genova Moiola non
poteva non esserci e, ancora più ovviamente, per dimostrare in modo
pacifico, senza casco o mascherine e, men che meno, bastoni o spranghe. Ma
egli non ha mai dubitato che la sua «dimostrazione pacifica» avrebbe fatto
da paravento agli «spacca tutto» privi di qualsiasi motivazione se non
quella di fare disastri? O forse, sotto sotto, sperava che succedesse? Io
proprio non riesco a capire quali siano le origini del suo
antiamericanismo viscerale…


Possibile che, in tutti i suoi
redazionali, sia messo solo in evidenza l’aspetto negativo (che talvolta
esiste) dell’operato statunitense e mai ciò che di buono quel grande paese
compie a vantaggio dell’umanità? Negli anni ’40-50 Moiola non era ancora
nato; ma non gli è mai capitato di leggere qualcosa circa la storia di
quel tempo?


Io penso che il redattore sia
fondamentalmente onesto: purtroppo non si rende conto che il suo
atteggiamento (ancor più grave, perché il pensiero viene riportato da una
rivista cattolica) tende a creare un’immagine unicamente negativa di un
grande paese, non perfetto, ma sicuramente il migliore fra tutti quelli
esistenti sulla faccia della terra. Nelle sue vesti egli fa più danno dei
vari Fo, Santoro e Luttazzi, che neppure meriterebbero una citazione. Il
disprezzo, costantemente espresso e manifestato, alimenta sentimenti di
invidia, che sfociano poi in qualcosa di più grave per arrivare fatalmente
all’odio. Questa lettera viene scritta dopo i fatti di New York, che qui
non commento. Ma chiedo a me e a lui: quanta parte di responsabilità per
la tragedia può essere attribuita alle diffuse e infamanti accuse espresse
nel mondo occidentale verso gli Stati Uniti? Minima sicuramente, ma tale
da indirizzare le idee degli inconsapevoli e dei più violenti in una
direzione sbagliata, in grado di appoggiare (anche se inconsapevole) chi
intende realizzare un disegno perverso.


Che l’Italia sia «il ventre
molle» dell’Unione europea forse a Moiola farà anche piacere, confondendo
la nostra connaturata e opportunistica debolezza come una manifestazione
di non dipendenza dal «grande Satana» d’oltre oceano: non dipendenza che
esprime la solidarietà correlata sempre da «però».


Guarda caso Bush o il «texano»
(come forse Moiola preferisce), nel ringraziare i paesi che hanno
manifestato la loro solidarietà agli amici americani, ha dimenticato
l’Italia: un fatto che ha rattristato soprattutto la nostra comunità, che
si è sentita isolata e quasi emarginata in una fase storica così delicata.


Che gli Stati Uniti siano
«sicuramente il [paese] migliore fra tutti quelli esistenti sulla faccia
della terra»… signor Laurenti, provi ad affermarlo in America Latina o
nella repubblica del Congo, dove da tre anni è in corso una guerra che ha
seminato oltre 2 milioni di morti… con lo «zampone» anche degli Usa,
nonché della Francia! In ogni caso Paolo Moiola terrà conto delle
osservazioni. È stato lui a chiedere la pubblicazione della lettera,
nonostante alcuni passaggi offensivi.


Guide cieche
e sale senza sapore

Spettabile
rivista,


esprimo disappunto dopo aver
letto l’editoriale di Paolo Moiola. Non mi sarei mai aspettato di leggere
su una rivista missionaria un articolo di chiaro stampo anti-G8.


Anche il dossier di Igino
Tubaldo, sulla dichiarazione Dominus Jesus, era assai sgradevole per
alcune affermazioni di dubbio valore teologico ed ecclesiale.


Il vangelo pone un serio
interrogativo: «Può un cieco guidare un altro cieco?». Per noi cattolici
c’è una fortissima tentazione: seguire le mode di pensiero piuttosto che
la tradizione, la sacra scrittura e il magistero del papa e dei vescovi.


Assumendo categorie da altri
ambienti (per l’articolo anti-G8 da una certa sinistra e per il dossier
sulla Dominus Jesus dalla teologia protestante e del dubbio), si finisce
col diventare come il sale, che – afferma il vangelo – perde il suo
originale sapore e viene quindi buttato.


Così si diventa inutili alla
chiesa, cioè al progetto di Cristo, e al mondo! Scusate la franchezza. Mi
auguro che su queste cose ci si possa confrontare sulla rivista.


Da sempre crediamo nel
«confronto». Quindi abbiamo pubblicato anche la sua lettera.


«Dissenso»
non è «odio»



mia moglie è da decenni
abbonata a Missioni Consolata: crede nell’opera missionaria, che ha anche
visto la dedizione completa in Africa di un suo zio vescovo. Io leggo,
oltre alla vostra rivista, Corriere della Sera, di cui talvolta archivio
qualche articolo interessante ed incisivo; tra questi c’è proprio quello
del professor Panebianco del 23/6/01, che voi avete ferocemente attaccato
nel numero di settembre.


Io condivido il pensiero di
Panebianco e trovo scandaloso, sotto il profilo della faziosità e
ristrettezza di visione, quanto affermato nel vostro articolo, che ignora
almeno due cose semplicissime:




Non mi soffermo ad argomentare
perché i no global sono solo interessati, come dice Panebianco, a
sviluppare la loro identità e ideologia, e non argomenti razionali.


Resto, comunque, addolorato nel
vedere come gli articoli della vostra rivista, che vorrebbe essere
cattolica, contribuiscano a fomentare l’odio verso il mondo occidentale.


Antonio Filisetti (via e-mail)

Anche da parte nostra due
«cose»: – non ignoriamo affatto i problemi che il lettore ricorda (ma non
c’entrano con l’articolo di Panebianco); – il dissenso non è per forza
odio. Non lo è assolutamente in noi.


Il pane
bianco del professor Panebianco

Caro
direttore,


ho letto su Missioni Consolata
di settembre la critica di Paolo Moiola nei confronti del professor
Panebianco. Condivido pienamente i rilievi del vostro redattore.


Tra l’altro, il cognome del
professore mi ha ricordato che nel mio paese natale, la Serbia, il pane
bianco lo mangiano i ricchi e il pane nero o la polenta i poveri… Trovo
interessante il fatto che Panebianco difenda la società dei ricchi, la
società di coloro che mangiano pane bianco; anzi, tutte le mattine,
possono scegliere fra una ventina di pani diversi.


Il vostro giornalista è
arrabbiato, perché ha visto da vicino quelli che non hanno neanche il pane
nero, e io lo capisco. È sdegnato con quanti non vogliono né vedere né
assumersi le responsabilità di fronte alle sofferenze altrui, che egli ha
visto con i propri occhi e non riesce a cancellare dalla mente allorché
rientra nella «civiltà».


Signor direttore, sa come la
penso io? Se la globalizzazione garantisce a tutti benessere e democrazia,
io ci sto, eccome! Ma se aumenta il mio benessere e quello dei miei figli
a svantaggio delle creature di un’altra mamma, non ci sto più. Rinuncerei
al piatto pieno e ai 20 tipi di pane bianco, insieme ai miei figli;
rinuncerei ai tre pasti al giorno con molte persone che conosco… se
potessimo cancellare la morte per fame. E credo che lo farebbe anche il
professor Panebianco e, con lui, moltissimi «global», «antiglobal» e tutte
le persone che hanno un cuore nel petto.


Ma la fame nel mondo continua a
mietere numerose vittime, specialmente bambini. Se, pur con le nostre
rinunce, non eliminiamo il flagello, non significa che anche noi non ne
siamo responsabili. Non dobbiamo tranquillizzare le nostre coscienze; ma
trovare il modo che ci sia pane per tutti.


La nuova Europa e la sorella
America sono paesi meravigliosi, pieni di bellezze e ricchezze di vario
genere; ma, se avessero l’umiltà di riconoscere anche quelle degli altri,
se riconoscessero a tutti il diritto di vivere, respirare, lavorare,
studiare… se smettessero di misurare cose e persone con due misure
diverse… se dessero al mondo la parte più bella e sana della loro
civiltà… Purtroppo pochi lo fanno.


Allora ci sono quelli che non
vogliono accettare «tutto il pacchetto» della nostra civiltà, ma solo la
parte migliore. Sono i sognatori, gli utopisti. Sono anche coloro che si
ribellano, protestano, pregano. Sono quelli che Gesù chiama «sale del
mondo». Non sono terroristi e non seminano male e dolore. Possono essere
dei giornalisti, come Paolo Moiola e i suoi colleghi; sono i missionari
della Consolata e tutti quelli che combattono il dolore, la povertà e
l’ingiustizia. Che mondo sarebbe senza di loro?


Missioni Consolata rappresenta
per me un’«isola felice» nel mare delle informazioni quotidiane. Può
sembrare un paradosso: la rivista si occupa dei problemi più gravi del
mondo; eppure riesce a trasmettermi la bellezza e il valore della vita;
tiene sveglia la mia coscienza e mi fa sperare in un mondo migliore, per
il quale vale la pena di combattere e crescere i figli.


La signora Petrovic, sposata
con un medico italiano, è un’«operatrice interculturale» nelle scuole
della provincia di Trento. Ha pure una storia religiosa affascinante, che
i nostri lettori forse ricordano. Nata in Serbia sotto il regime ateo di
Tito, Snezana fu battezzata di nascosto dalla nonna… perché piangeva,
piangeva sempre. La bimba, una volta battezzata, non pianse più.  In un
post scriptum si rivolge pure ad Anna Turatello, invitandola a non avere
paura degli extracomunitari (cfr. Missioni Consolata, settembre 2001).


Scrive: Cara Anna, quell’extracomunitario
si è fermato, a differenza di altri (che non erano tali). Tu, però, non
buttarti sulla strada. E se i freni dell’auto non funzionassero?


Io ho una figlia di 16 anni,
come te. Questa estate siamo state a Belgrado. Lei ha passato delle
vacanze indimenticabili con gli «extracomunitari». Io però cancellerei
tale parola dal linguaggio della bella lingua italiana.


Sono stranieri di diversi
paesi. Ognuno ha un nome e cognome; può essere bello o brutto, onesto o
disonesto, educato o maleducato, pigro o diligente, stupido o
intelligente… Non aver paura, Anna. Anch’essi sono «il tuo prossimo».

Le
armi del «diavolo»

Cari
missionari,


temo di venire cestinato
scrivendo sull’orribile attentato negli Usa.


Il discorso di Bush, con la
parola «vinceremo», mi sa più di ragionamento di «vendetta» che di
giustizia; ancora una volta, dimostra che la civiltà civile siamo «noi» e
noi siamo nel giusto. Gli altri sono diavoli.


Lutto, minuti di silenzio,
trasmissioni sospese. Sono d’accordissimo: ci mancherebbe! Ma quando gli
Usa hanno attaccato Baghdad e Belgrado, quanti sono stati i minuti di
silenzio?


Il «diavolo» Bin Laden è stato
finanziato dalla Cia americana, finché ha fatto comodo, come i vari Saddam
(i nemici). Troppo comodo! Lo sbaglio, nella nostra epoca di popoli
civili, è stato ed è quello di vendere, vendere… senza pensare
minimamente che i «diavoli» le armi le comprano in casa nostra: non se le
sono create loro!


Il «mea culpa» è d’obbligo.


Gli Usa fanno una politica
estera dannatamente a loro favore, senza pensare ai popoli di «serie C».
Finché i palestinesi e i curdi non avranno una patria, ad esempio, e noi
continueremo a pensare solo al dio-denaro, al dio delle banche, non
stupiamoci se il diavolo prova invidia e odio nei nostri riguardi di
popolo occidentale santo. E con un nostro aereo ci condanna.



Diamo atto al presidente Bush
che, dopo le stragi dell’11 settembre, ha escluso la vendetta e persegue
la giustizia e la libertà. Ma come?


Una voce
fuori del coro


sono un ex allievo dei
missionari della Consolata. Dopo qualche anno di servizio in Mozambico,
sono ora responsabile del settore «cooperazione allo sviluppo» nella
provincia di Trento. In tale veste (ma anche e soprattutto a livello di
impegno personale), mi occupo di problemi legati allo sviluppo: diritti
fondamentali, pace, democrazia.


Ringrazio molto Missioni
Consolata, che rappresenta per me un valido strumento d’informazione,
analisi e riflessione, soprattutto in riferimento ai problemi degli
squilibri mondiali, della globalizzazione delle povertà, dei diritti dei
popoli colonizzati dai paesi occidentali, non più in senso classico, ma in
modo più subdolo e (se possibile) più pericoloso dalle logiche del
mercato.


Ogni mese leggo Missioni
Consolata, una delle poche voci fuori del coro, capace di leggere con
equilibrio e coraggio le contraddizioni dei nostri tempi, sempre con un
occhio attento ai diritti calpestati di milioni di persone, in nome di una
non ben definita libertà, che sempre più si rivela libertà di fare i
propri interessi a scapito di tutto e tutti.


Dopo le tragedie negli Stati
Uniti, mentre la violenza costringe a schierarsi senza «distinguo» né
capacità di riflessione, mantenere viva la fiamma della ragione e della
ricerca onesta rappresenta una scelta profetica, che solo chi è spinto
dalla passione e dalla generosità può fare.


Sono riconoscente ai missionari
della Consolata per la formazione ricevuta e mi complimento con la
rivista. Mi fa piacere vedere che i valori (che mi hanno sostenuto da
ragazzo) sono sempre la scelta degli ultimi, la giustizia, il rispetto,
l’equità, il pluralismo e rappresentino ancora oggi la linea direttrice
della rivista. Buon lavoro.

 



Chiesa e potere militare


 Gesù
non era cappellano di Erode

 


Cari missionari, il
dossier su «gli indios di Roraima/Brasile» è molto bello e ancora più
bella è la campagna di mobilitazione che avete lanciato per impedire la
costruzione della caserma nel villaggio di Uiramutã e arginare la
militarizzazione del territorio indigeno (Missioni Consolata,
luglio-agosto 2001).


Spero che da parte
di tutte le istituzioni cattoliche vi sia la medesima sollecitudine per
questa nobile causa o, quanto meno, non vi sia ostilità verso i vostri
progetti.


Dico questo perché
la presenza militare è molto radicata presso le alte sfere della chiesa
cattolica ed è una presenza pesantissima.


Ci siamo dimenticati
che Giovanni XXIII, prima di diventare papa, fu cappellano militare e che
l’attuale pontefice, tra gli altri titoli, detiene anche quello di
«vescovo militare»?


Il fatto potrebbe
funzionare se questi titoli e questa presenza fossero interpretati come un
servizio alla verità di Cristo, un servizio alla giustizia, alla pace,
alla salvaguardia del creato, e non una sovrastruttura finalizzata alla
legittimazione di strutture di peccato. Queste, sul piano morale e
religioso, non potranno MAI avere legittimità e autorevolezza (cosa ben
diversa da autoritarismo).


Io non so se e in
quale misura anche in Brasile sia presente una «chiesa in stellette», «in
anfibi» o un progetto di «caritas militare» e se i cappellani militari
italiani siano andati a Rio de Janeiro o Manaus a svolgere «pastorale
vocazionale militare» e addestrare in tale senso i loro confratelli per
far nascere una chiesa militare locale.


So che in paesi
latino-americani (in particolare Argentina e El Salvador) i cappellani
militari hanno avuto un ruolo assai importante nell’escalation delle
violenze contro la popolazione civile; e, se lo so, è perché ad ammetterlo
sono stati gli stessi autori delle atrocità e in qualche caso, sia pure a
distanza di anni, gli stessi cappellani.


Sono convinta che il
papa, a livello teorico, possa avere qualche ragione per tenere ancora in
piedi l’Ordinariato militare. A livello pratico, però, dovrebbe vigilare
di più su ciò che effettivamente i cappellani e vescovi militari insegnano
e fanno e, soprattutto, su ciò che omettono di insegnare e fare in prima
persona.


Gesù è andato nelle
case di tanti peccatori e ha usato misericordia con tanta gente che aveva
fatto del male. Ma non è stato né il cappellano di Erode né quello di
Pilato.


Rita Ferri – Fano
(PS)

 

Lettera che si
avvale di numerose fonti bibliografiche… Il papa non scende a patti con
la guerra. E lo sta dimostrando anche nel presente ed angoscioso frangente
mondiale, dopo l’«11 settembre 2001».

 

 

 



Abbiamo già tanti problemi, e voi…

 


Caro direttore,


per ragioni di
salute sto trascorrendo un po’ di tempo con i parenti, a contatto con la
gente, e raccolgo anche qualche parere su Missioni Consolata. In genere la
rivista piace per il taglio spigliato e non clericale, che – dicono – si
trova in pochissime riviste cattoliche. Quindi ringraziano te e la
redazione.


Permettimi anche di
riportare (senza offesa) due osservazioni critiche, abbastanza comuni.


1. Essendo Missioni
Consolata «la rivista missionaria della famiglia», si desidererebbe un
arti

AAVV




Giustizia infinita?

 

New York e Washington.
Mi è impossibile esprimere il dolore e l’orrore provati di fronte alle stragi, a
sette giorni dalla tragedia. È un evento che segna per sempre la storia di un individuo,
e non solo di una nazione. Non c’è chirurgia plastica che possa sanare la
coltellata-sfregio, inferta dall’atto terroristico dell’11 settembre. Un
abisso fisico e morale.
Presto avremo la conta definitiva delle vittime. Saranno
troppe: una cifra superiore alla capacità umana di sopportazione, come ha ricordato il
sindaco di New York, Rudy Giuliani.

Inizieremo a conoscere le storie di manager, commessi, pompieri,
poliziotti, donne delle pulizie, turisti… che si sono "persi"
nell’inferno di cristallo del World Trade Center. Che vigliaccheria schifosa è mai
questa? Eppure chi l’ha commessa vi ha sacrificato la vita! Ma ha ammazzato migliaia
di innocenti. Quale Allah è così sfrontato da richiedere tanto sacrificio?

Qualcuno pagherà il conto. Speriamo che si individuino i responsabili
giusti e non capri espiatori. Il timore è che a versare il dazio siano innocenti di altra
bandiera, di altro credo religioso. La parola "guerra" echeggia sempre più
forte nelle dichiarazioni dei politici americani. Ma contro chi? Si respira aria da
legge del taglione.

Perdono? Sembra irrispettoso oggi, a week after. Sembra
offendere la sensibilità di tanti che non hanno più lacrime. Giustizia… infinita
allora? La CNN ha mostrato un giovane prete che si aggirava fra le rovine delle torri
gemelle, sporco al punto da sembrare nudo. Girava come chi sa che quello era il posto in
cui Dio lo chiamava, senza capire la ragione. Era silenziosamente presente
nell’oceano della morte. "Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada;
se percorro la città, ecco gli orrori della fame. Anche il profeta e il sacerdote si
aggirano per il paese e non sanno che cosa fare" (Ger 14, 18). Ma padre Judge,
cappellano dei vigili del fuoco, sapeva cosa fare: si è sacrificato dando la vita nel suo
servizio sacerdotale.

I vescovi statunitensi hanno provato ad incoraggiare i cristiani alla
pace; invitano tutti a rinnovare la fiducia in Dio, a rifiutare la tentazione
dell’odio,
la vera causa della tragedia. Che la caccia ai responsabili
dell’atto scellerato non si tramuti in una spirale di violenza, in cui i poveri
pagano il prezzo più alto! Come sempre.

Leggo su internet che Francesco Cossiga avrebbe dichiarato:
"Adesso ci sarà certamente qualcuno che dirà: gli americani se la sono
meritata!".
Purtroppo qualcuno ci sarà, perché la madre dei cretini è
sempre gravida…
Preghiamo che i morti servano, almeno, a renderci conto del disagio
mondiale che i sistemi politici non controllano più. La politica statunitense non si è
dimostrata particolarmente illuminata sul rapporto Nord-Sud del mondo. Gli americani (che
ora chiamano a raccolta tutti gli alleati contro il terrorismo) dimenticano le loro prese
di posizione unilaterali,
che li hanno esposti a critiche anche da parte degli amici
europei. C’è stata arroganza nelle scelte riguardanti l’ambiente, il nucleare,
gli armamenti, per non parlare dell’embargo contro Iraq e Cuba. È davvero così
strano che qualcuno non ami l’America?

Tutti siamo consapevoli che molto, nell’immediato futuro del
mondo, è nelle mani degli Stati Uniti. Una leadership illuminata tiene conto di chi
lavora a fianco, lo promuove, lo guida per ottenere i risultati migliori nel bene comune.
Questa è la leadership che il mondo si aspetta dagli Usa a livello economico, politico e
militare. Tale è la leadership che potrà sconfiggere con successo ogni tentativo
terrorista di minare i valori della democrazia e libertà, di cui gli Stati Uniti si
dichiarano paladini.

A Washington e New York il mondo intero è stato colpito
l’11 settembre. Ciò che unisce tutti i popoli di fronte a quell’eccidio è il
male, che colpisce l’innocente. E quanti morti innocenti in ex Jugoslavia, Rwanda,
Burundi, Congo, Liberia, Sierra Leone, Timor Est, Sudan, Medio Oriente!…
Ad essi si
aggiungono le vittime del disinteresse o interesse di chi vuole mantenere
intatti i suoi privilegi.

Suggerirei agli amici statunitensi di cogliere l’esempio splendido
di alcuni loro giovani, che in questi sette giorni hanno offerto la vita per salvae
altre. Se chiamati alle armi, faranno anche la guerra. Ma quanto sarebbe più bello se
questi ed altri ragazzi, in ogni parte del mondo, avessero l’opportunità di provare
quanto valgono sul terreno della pace e della solidarietà internazionale!

La chiesa ha il difficile compito di creare ponti di pace fra
"distanze grandi" e "terreni impervi". Non si può prescindere da una
presenza di consolazione in questi giorni di disperazione. È necessario il
dialogo con le altre fedi religiose, in primis con la comunità islamica ed ebraica.

Preghiamo perché il mondo rifiuti ogni violenza e ognuno apra
(finalmente) mente e cuore. Che Dio accolga le vittime delle stragi di New York e
Washington, consoli le loro famiglie!

padre Ugo Pozzoli




Genova (1): prima del vertice degli “otto grandi” VOI NON SIETE I PADRONI DEL MONDO

Oggi chi scrive sul "G 8" di Genova, a quasi
tre mesi da fatti tristemente noti, rischia di incappare nel "senno di poi", di
cui sono piene le fosse.
Tuttavia resta valido il detto "l’esperienza insegna", per non cadere negli
errori di ieri. Come pure: "Chi sbaglia paga". Ma senza capri espiatori.
A noi il "G 8" interessa, soprattutto, per le ripercussioni nei paesi
impoveriti. Oltre ad alcune testimonianze dal Sud del mondo, diamo spazio a due documenti:
quello "propositivo" di numerosi istituti missionari e organizzazioni cattoliche
e quello "risolutivo" degli "otto grandi" (articolo successivo). Il
confronto fra le "attese" dei primi e i "risultati" dei secondi è
eloquente.

 

Genova, sabato 7 luglio, ore 8.30. Usciti dalla stazione
ferroviaria di Brignole, ci incamminiamo verso il teatro "Carlo Felice" in
piazza De Ferrari. Dopo pochi passi, un signore ci accosta: "Scusi, per favore mi sa
dire…".
– Ci sto andando anch’io!
– Per il convegno nazionale "Guardiamo il "G 8" negli occhi"?
– Esattamente.
– Allora la seguo. Buon giorno! Io sono Dino, dell’Azione Cattolica di Rovigo.

Giunti all’ingresso del teatro, Dino si ferma, per attendere
alcuni amici di Napoli. "Napoli?" esclamiamo incuriositi. "L’Italia
forse è divisa, ma gli italiani sono certamente uniti, alla faccia del senatùr…
voltagabbana" è la risposta.
Ci separiamo.

La storia di un crapulone

Il "Carlo Felice" è un teatro da 3 mila posti. Ma, al nostro
ingresso, contiamo solo due missionarie della Consolata davanti ad un cartellone, che
riporta i nomi del comitato promotore del convegno: circa 60 istituti e associazioni; in
ordine alfabetico, prime le Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) e ultimi
i Missionari Verbiti. Mentre carichiamo la macchina fotografica, scorgiamo anche diversi
ragazzi e ragazze scout, in pantaloni corti, camicia blu e fazzoletto verde al collo,
seguiti da un gruppetto della Coldiretti con un vistoso berretto giallo. Scattiamo le
prime foto. Poi puntiamo l’obiettivo su Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea
(sempre presente a "certi" appuntamenti), e don Andrea Gallo, della Comunità di
san Benedetto al porto. Notiamo Pierluigi Castagnetti, segretario del Partito popolare
italiano, e Aldo Bodrato, ex ministro della pubblica istruzione. Ma questi ed altri
personaggi non bastano a riempire il vasto teatro, che rischia un vuoto desolante.

Però alle 10 il "Carlo Felice" è zeppo: giovani e adulti,
mamme con bimbi in braccio, portatori di handicap in carrozzella, volontari,
sindacalisti, docenti, missionari, suore, preti.

Si inizia con lo sguardo rivolto ad un Cristo campesino del
Cile, mentre si legge la storia di un crapulone che banchetta ogni giorno lautamente… in
barba all’affamato e piagato Lazzaro, del quale solo i cani hanno pietà. Al termine
della loro vita, il primo finisce all’inferno e il secondo fra le braccia di Abramo,
il padre dei credenti.

Il crapulone supplica: "Abramo, manda Lazzaro dai miei fratelli:
che mutino subito comportamento, altrimenti finiranno con me nei tormenti!".
"Hanno già avuto la legge di Mosè e gli ammonimenti dei profeti – replica il
patriarca -, e tutto è stato inutile. Non si convertirebbero neppure se uno risuscitasse
dalla tomba" (cfr. Lc 16, 19-31).

"Incalzati da questo monito severo, riproposto anche dal Cristo campesino
– afferma Fabio Protasoni, cornordinatore del convegno – vogliamo riflettere sulle
situazioni di povertà dell’80 per cento dell’umanità, causate da ingiustizie
sociali e politiche, prima che sia troppo tardi, come per il crapulone del vangelo".

La parola al sud del mondo

Seguono tre testimonianze.

La prima è di Monica Espinosa, già impegnata in Ecuador
con "Rete del Giubileo 2000", che si domanda: "Cosa dobbiamo aspettarci
dall’America Latina? Sempre e solo guerriglieri arrabbiati? Assolutamente no. Ma
occorre fare subito giustizia, specialmente per le classi sociali emarginate. Mi auguro
che i "G 8" imbocchino con coraggio questa strada. La globalizzazione è come
una porta, che può essere chiusa o aperta. Finora non è stata una porta aperta ai
poveri".

Anche la giovane Monica ricorre ad un’icona. È quella di Pietro,
che si sente dire da Gesù Cristo: "Abbi cura delle mie pecore" (cfr. Gv 21,
15-19). L’ecuadoriana lancia un messaggio: "Io, voi, noi tutti siamo cristiani
nella misura in cui abbiamo a cuore i problemi della gente, di tutta la gente".

Sale sul palco Filomeno Lopez, della Guinea Bissau, che
rappresenta i problemi dell’Africa. È sorridente e scattante nei movimenti (poi si
scoprirà che è pure un eccellente danzatore). Il suo raffinato italiano gli consente di
maneggiare con arte anche il fioretto dell’ironia. "Amici, come mi devo
presentare? Certamente come un "fuori", un extra, un extracomunitario. Però
ieri qualcuno mi chiamava vu’ cumprà e, prima ancora, vu’ lavà… Amici, non
cadiamo negli stereotipi, frutto di ignoranza. Io credo nella riconciliazione, previo il
rispetto reciproco".

Anche Filomeno riflette sulla globalizzazione. Rigetta quella
"sbarcata sui porti africani con una risposta esclusivamente mercantile: la
globalizzazione intesa come extra mercatum nulla salus, che ha per fondamento
l’arte di vincere senza ragione".

La terza testimonianza è del direttore della rivista Missioni
Consolata
. Egli riporta alcune voci dal Sud del mondo: ad esempio, quella del
cardinale Evaristo As. L’arcivescovo di São Paulo (Brasile), in una intervista del
1988, affermava che il debito estero del suo paese è illegittimo e illegale:
"illegittimo, perché è già stato pagato tre volte con il versamento di 36 miliardi
di dollari di interessi; illegale, perché contratto da generali brasiliani senza
consultare il parlamento. E gli stati creditori sapevano che imprestavano soldi per
finalità militari…".

"Oggi, a 13 anni da quell’intervista, si discute ancora –
commenta il direttore di Missioni Consolata – sulla necessità o meno di cancellare
il debito dei paesi poveri. Non dovrebbe essere una questione scontata, com’è
scontata la caduta di… una mela matura?".

Un accenno anche alla protesta della gente in Congo (ex Zaire) contro
la guerra. "Nella chiesa di Pawa, durante la messa di pasqua dell’anno scorso, i
fedeli hanno gridato: "La guerra è peccato!". Ma la colpa è ancora più grave
se ad imbracciare il mitra sono ragazzi di 12 anni, come ho visto in Congo".

"Mkubwa haombi" (il capo non chiede permessi): è un detto
swahili, che spesso nasconde la strategia dell’intimidazione e, di conseguenza, della
sottomissione. "Ma oggi, grazie anche ai missionari, molti alzano la testa per dire
al presidente prevaricatore: "Signor no!"".

Ai fischi rimedia un po’ il Cardinale

È il clou del convegno: ovvero la presentazione del "Manifesto
delle Associazioni cattoliche ai Leaders del G 8
" (vedere il testo a parte). Fra
i suoi estensori spicca l’economista Riccardo Moro. Il quale, tuttavia, ci dichiara:
"Vedi questi sei ragazzi? Il Manifesto è soprattutto opera loro". E sono gli
stessi ragazzi che, un po’ emozionati, lo leggono in assemblea. L’applauso dei 3
mila vale l’approvazione.

Il Manifesto viene affidato a Umberto Vattani, segretario generale
della Faesina, perché a sua volta lo trasmetta al governo in carica. Invitato (per
deferenza) dal cornordinatore del convegno ad intervenire, Vattani prende la parola.

Non l’avesse mai fatto! O avesse parlato in termini diversi, non
si sarebbe beccato tre bordate di fischi: la prima un po’ leggera, la seconda più
pesante, la terza secca e arrabbiata, anche perché il politico continuava sicuro.

Il diplomaticoVattani esalta l’Italia, sesta potenza economica
mondiale grazie alla globalizzazione… "a differenza dell’Africa, che resterà
sempre povera se non entrerà nel processo". Ma i 3 mila cattolici del "Carlo
Felice" rifiutano questa visione del mondo.

Ad aggiustare (forse) le cose ci pensa Dionigi Tettamanzi, cardinale di
Genova (significativa, tra l’altro, la Lettera dei Vescovi liguri ai fedeli delle
loro Chiese in occasione del G 8
).

I cattolici non devono scordare che, secondo la dottrina della chiesa,
la proprietà dei beni ha una "funzione sociale comunitaria", e non solo
privata: di qui il dovere dell’attenzione all’altro. Questo però esige un
impegno politico professionale, perché il volontariato non basta più.

Infine il cardinale dichiara: "Oggi si parla del "G 8",
cioè del gruppo degli 8 paesi più ricchi; qualcuno sollecita che a parlare siano i
"G 20", ossia i 20 paesi più poveri… Io dico: facciamo un G TUTTI,
dove ognuno possa parlare, ma alla luce della parabola del ricco e del povero con il quale
abbiamo aperto il convegno".

 

Ore 14,35. Entriamo in uno snack bar di Genova, dove Dino e gli
amici di Napoli, Gennaro e Concetta, stanno addentando un panino.

– Volete favorire? – è l’invito dei napoletani.
  – Perché mi date del "voi"?

Risata generale.

Quando siamo tutti al caffè, Dino commenta: "Un bel convegno,
durante il quale ho apprezzato gli interventi dei rappresentanti del terzo mondo.
D’ora in avanti bisognerà sempre fare così. Molto interessante pure il
Manifesto…". "Noi a Napoli – s’intromette Gennaro – abbiamo un detto che,
nel caso presente, potrebbe suonare: passata la festa del "G 8", gabbati ancora
una volta i poveri". "No, guagliò – replica Concetta -. Passata la
festa, i poveri ritornano a lavorare".

 

 Noi, sentinelle del mattino

Manifesto delle associazioni
cattoliche ai leaders del G 8

 

La vita umana è valore universale. Garantirla nel suo esistere e
tutelarla nella sua dignità è responsabilità politica che la comunità internazionale,
insieme a ciascuno di noi, è chiamata ad esercitare per il raggiungimento del bene
comune.

Oggi la dignità della vita umana è violata. Molti sono gli ambiti in
cui questo accade, dalla guerra alla povertà, dal sapere privilegio di alcuni al potere
monopolio di pochi.

Noi sentiamo l’impegno di appartenere ad una famiglia, che va
oltre i confini nazionali e le logiche economiche. Crediamo che tutti siamo veramente di
tutti e non possiamo rimanere indifferenti di fronte a clamorose differenze.

Affermiamo che ogni uomo è una risorsa, un bene prezioso per gli
altri, e a sua volta chiede agli altri di essere aiutato nel suo cammino verso il
compimento definitivo. Nessuno può essere considerato solo un soggetto economico
passivo,
il cui valore è commisurato alla sua capacità di acquisto.

Noi siamo qui per ricordarvi che voi siete noi. Voi,
responsabili delle nostre nazioni, siete i nostri rappresentanti. Voi avete una grande
responsabilità. Voi non siete il governo del mondo, ma quanto decidete ha
inevitabili ripercussioni su molti, anche al di fuori dei confini dei nostri paesi.

Noi siamo qui perché abbiamo un sogno: non vogliamo essere i
ricchi che guardano ai poveri da aiutare. Vogliamo essere cittadini di una comunità
solidale che diano a tutti lo stesso diritto di avere necessità e offrire opportunità.

Per questo facciamo a voi, nostri rappresentanti, le richieste che
riteniamo punto di partenza perché ogni persona di oggi e domani possa vivere in
libertà, solidarietà e dignità.

 

La notte I conflitti / La guerra

La dignità della vita umana è offesa da conflitti che coinvolgono
popolazioni vulnerabili. Donne e uomini, bambini e anziani, in divisa o abiti civili, sono
attori spesso inconsapevoli di copioni scritti, più o meno intenzionalmente, da altre
mani, in altre lingue e in altri luoghi. Noi esigiamo che voi lavoriate con chiarezza e
determinazione per:

– bandire la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e
impegnarsi come Stati a non ricorrere alla forza per dirimere le controversie intee e
inteazionali;

– avviare un processo credibile e autentico di riforma delle Nazioni
Unite che ne rafforzi democrazia, autorevolezza ed efficacia, in particolare nella loro
responsabilità di principale attore in favore della pace nel mondo;

– in questo quadro, privilegiare gli approcci ‘locali’,
valorizzando anche i contributi non governativi, affrontando tutti i conflitti, anche
quelli interni quando violano la libertà delle popolazioni civili;

– combattere autenticamente il mercato delle armi, a partire
dall’informazione su tutte le operazioni di vendita e acquisto. Nessuna copertura
finanziaria pubblica deve essere data a chi le produce e le vende;

– non sprecare il denaro. Vogliamo che le risorse non vengano gettate
in progetti di difesa inutili, come lo scudo spaziale, ma siano utilizzate per eliminare
le cause che originano i conflitti, prima fra tutte la povertà.

 

Debito

Il peso del debito estero dei paesi del Sud compromette la dignità
della vita di milioni di persone. Tuttora risorse finanziarie, preziose e scarse, vengono
usate dai paesi impoveriti per pagare i creditori, cioè i governi del Nord, cioè noi! In
occasione del Giubileo vi abbiamo chiesto azioni coraggiose. Voi ci avete ascoltato solo
in parte. Ci inorridisce sapere che il denaro che ancora incassiamo, per quanto ridotto
rispetto agli anni scorsi, sia sottratto da interventi per dare case, cibo, medicine e
istruzione a persone che sono per noi come altri noi stessi.

Vi chiediamo perciò ancora con forza di:

cancellare tutto il debito accumulato sino al 19 giugno 1999, la data
della grande manifestazione di Colonia. Nel vostro linguaggio si tratta dello spostamento
della data che divide il debito cancellabile da quello non cancellabile;

cambiare i parametri che permettono di partecipare alla iniziativa
internazionale per i paesi gravemente indebitati (iniziativa Hipc). Vogliamo che nei paesi
indebitati siano assicurati beni e servizi fondamentali a tutti i cittadini. Solo il
denaro restante, dopo queste spese, può essere utilizzato per pagare il debito;

concordare con i paesi indebitati e i rappresentanti della società
civile del Sud e del Nord l’istituzione di un "Processo di arbitrato
internazionale equo e trasparente" per valutare in termini di giustizia
l’ammontare effettivo del debito delle nazioni. La remissione del debito è questione
di giustizia prima che di solidarietà.

 

Povertà

La dignità della vita umana è offesa dalla scandalosa differenza tra
la vita dei paesi ricchi e di quelli da questi impoveriti. Un bambino su venti in Africa
muore prima dei cinque anni. Un bambino su due non va a scuola. È una situazione che ci
fa orrore e di cui siamo e siete corresponsabili. Noi ci impegniamo a stili di vita nuovi,
più equi e solidali, ma nello stesso tempo, poiché rappresentate la nostra voce,
vogliamo che voi impegniate le nostre nazioni a:

– onorare da subito l’impegno, assunto e non mantenuto, di
finanziare l’aiuto allo sviluppo con lo 0,7% del PIL dei nostri paesi. Oggi la media
è minore della metà;

– promuovere e rafforzare, nelle sedi inteazionali, l’utilizzo
dei programmi di riduzione della povertà che prevedano un autentico coinvolgimento della
società civile;

– favorire con mezzi finanziari e assistenza tecnica l’azione dei
governi dei paesi impoveriti, perché sia garantito a tutte le popolazioni il diritto alla
salute e istruzione.

 

Una luce che sorge

Costruire il futuro: globalizzare la solidarietà e le responsabilità

La dignità della vita, a Nord come a Sud, può essere tutelata solo
attraverso un forte, condiviso e rispettato sistema di regole, in cui non il più forte
abbia maggiori diritti, ma il più debole. Non è questo ciò che accade oggi nel mondo. A
voi, nostri rappresentanti, chiediamo quindi di non nascondervi dietro facili
giustificazioni, ma di rispondere a queste richieste.

 

Il mercato fra libertà e responsabilità

– Vogliamo che sia creato un sistema di regole nel commercio
internazionale che permetta a tutti i paesi, in particolare ai più impoveriti, di offrire
sul mercato le proprie merci ad un prezzo equo, abolendo le barriere, a cominciare dalle
nazioni del G 8, e, per i prodotti agro-alimentari, prevedendo un meccanismo di
regolamentazione produttiva e distributiva che definisca quote produttive alle nazioni e
garantisca stabilità dei prezzi.

– Vogliamo una vera libertà di mercato, in cui tutti siano liberi di
acquistare conoscendo con precisione che cosa viene loro offerto e a tutti sia data
possibilità di vendere i propri prodotti. Non è quello che accade oggi.

– Vogliamo un impegno immediato e concreto di denuncia dei paradisi
fiscali e finanziari. Impegnatevi nelle diverse sedi inteazionali per la definizione e
pubblicazione delle liste dei paesi che permettono il riciclaggio di denaro sporco e
offrono riparo fiscale per speculazioni selvagge.

– Vogliamo, a cominciare dai nostri paesi, una tassa sulle transazioni
valutarie (del tipo della Tobin Tax) che renda costosi i trasferimenti inteazionali di
denaro a scopo speculativo e offra il ricavato per finanziare lo sviluppo.

 

Il lavoro strumento per la dignità della vita

– Vogliamo che sia migliorata e venga applicata la legislazione
internazionale che impedisce lo sfruttamento lavorativo delle persone. Costo del lavoro
più basso e competitivo non deve significare "umiliante".

 

L’ambiente dovere globale

– Vogliamo che siano riconfermati immediatamente gli accordi di Kyoto
in tema ambientale e che sia indicato in modo trasparente il percorso futuro di
rafforzamento dell’azione di tutela del Creato.

 

Libertà e democrazia economica

– Vogliamo un’economia libera in cui siano impedite posizioni di
monopolio, come quelle delle multinazionali in grado di alterare il mercato e
l’informazione sulla loro azione.

 

Un’informazione libera

– I paesi del G 8 promuovano leggi che garantiscano a livello nazionale
e internazionale la pluralità dei media e degli editori, vietando monopoli, per
permettere una libertà responsabile a tutti i cittadini.

– Vogliamo un’informazione trasparente anche sulle caratteristiche
dei prodotti alimentari in generale e in particolare degli organismi geneticamente
modificati (ogm).

 

La scienza per tutti

– Vogliamo che sia finanziata fortemente la ricerca pubblica in campo
sanitario, per rendere possibile la produzione di farmaci per le malattie diffuse tra le
popolazioni più povere.

In particolare vogliamo siano moltiplicati gli sforzi per rendere i
farmaci per la cura dell’AIDS accessibili a tutti coloro che sono infetti, in Africa
e ovunque, a cominciare dalle donne incinte prima e dopo il parto.

– Vogliamo regole che consentano produzione e distribuzione dei
medicinali a costi sostenibili per le popolazioni più povere. Questo significa affrontare
anche la questione della riforma della proprietà intellettuale.

 

A Tor Vergata abbiamo ascoltato le parole del Papa

Cari amici, vedo in voi le "sentinelle del mattino" in
quest’alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi
venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a
combattere gli uni contro gli altri. Oggi siete qui per affermare che, nel nuovo secolo,
non vi presterete a essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace,
pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri
esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la
vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di
rendere questa terra sempre più abitabile per tutti.

È esattamente quello che vogliamo fare.

Francesco Beardi




Dossier: TESTIMONIANZE DI MISSIONARI CON PERMESSO? Su culture, conflitti, scelte, annuncio del vangelo

Articolo 1

SEMPRE
"AL TROTTO"

 

Il beato Giuseppe Allamano affermava che, se vogliamo conoscere la
nostra identità, è sufficiente ricordare il nostro nome: "missionari della
Consolata". Missionari che egli ha sognato come persone che andassero incontro alla
gente, qualificate nel campo spirituale, scientifico, culturale e pastorale. Il fondatore
non voleva gente mediocre. Essendo i suoi missionari destinati ad avere come orizzonte il
mondo, esigeva che avessero un cuore aperto alle sue dimensioni, capace di ampie visioni e
di accoglienza verso tutti. Il missionario è colui che va, che cammina. L’Allamano,
però, diceva (con un tocco originalissimo) che non dobbiamo solo camminare, ma correre,
"trottare". Missionari che camminano sempre, come i "samburu" o come i
magi, che non si sono fermati di fronte alle difficoltà; come ha corso la Consolata, per
andare ad aiutare Elisabetta; come hanno corso i cristiani "atleti" ricordati da
san Paolo.

Persone che trottano, dice l’Allamano, come la Madonna faceva
"trottare Gesù" (non so dove l’abbia letto o saputo, ma lui lo dice!). In ogni
caso questo esprime il suo sentimento e il dinamismo richiesto ai missionari della
Consolata oggi. Allora il sogno è che, a 100 anni dalla fondazione dei missionari della
Consolata, quando si sente il peso del tempo, noi vinciamo la tentazione di adagiarci, di
non sapere più correre. Trottare con entusiasmo. Se non lo facciamo, diventiamo inutili.
L’Allamano, nonostante l’età, non è mai invecchiato, perché ha sempre avuto attenzione
a ciò che avveniva al di fuori della sua stanza, a quello che vedeva; ha sempre
conservato l’attenzione ai tempi, ai cambiamenti; non si è fossilizzato, non si è
accontentato di ripetere, non è stato contento delle mete raggiunte, ma ha cercato di
andare incontro alle situazioni, alle necessità. È anche il nostro compito: non
fossilizzarci, non accontentarci di quello che abbiamo compiuto, ma andare oltre, obbedire
al comando di Gesù, prendere il largo, affrontare le situazioni che sfidano la missione,
il vangelo, il bene dell’umanità. E non solo partire, ma partire in comunione.
"L’unità di intenti" è il principio vincente: o si lavora insieme o si
perde tempo. E questo diventa particolarmente evidente oggi in un mondo globalizzato.
Ricordo le parole che il fondatore scriveva, nel 1909, a fratel Benedetto Falda: "La
nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata.
Passeranno gli uomini, cadranno alcune foglie, cadranno i rami secchi, ma l’albero
prospererà e diventerà gigantesco. Io ne ho le prove in mano". Le prove ci sono
ancora. Ce lo conferma anche l’esperienza di tanti nostri fratelli e sorelle che, nel
silenzio di ogni giorno, continuano a portare la "consolazione di Dio tra i più
poveri del mondo". È con questo spirito che vanno accolte le testimonianze di alcuni
missionari della Consolata, rilasciate in occasione del centenario dell’Istituto e
riproposte dal presente "dossier".

 

p. Gottardo Pasqualetti,

superiore dei missionari della Consolata in Italia

 

Articolo 2

 

 

Mozambico

 

 

Tenacemente presenti

 

"Mi tempestavano di domande:

"Perché rimani? Perché ti preoccupi di noi?".

E poter rispondere nel cuore: "Perché sono cristiano"".

 

 

di Franco Gioda (*)

 

Racconto quello che ho visto in Mozambico, quello che abbiamo vissuto
insieme e si sta vivendo oggi, con il sogno che ci ha guidato in questi anni. Se
togliamo il sogno, non comprendiamo il significato della nostra presenza missionaria nel
paese.
Bisogna ricordare e comprendere la storia: il tempo coloniale portoghese,
l’inizio dell’indipendenza nazionale e la rivoluzione comunista, la guerra, la pace e
oggi l’oblio. Dopo il 1975, con la libertà concessa a malincuore dal Portogallo in
seguito ad una lunga lotta, il Mozambico è caduto in un sistema che ha gravato
pesantemente su tutto: il marxismo-leninismo nel suo modello più radicale. Sono seguite
le nazionalizzazioni affrettate, la paralisi del commercio, la fuga degli imprenditori,
l’indottrinamento socialista, la mancanza di libertà minime, il controllo generale
su tutto. Come se ciò non bastasse, ecco la tragedia della guerra civile tra Frelimo
(Fronte di liberazione del Mozambico) e Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), guerra
aggravata da siccità e fame. Di qui l’insicurezza totale. Nel 1992 la pace, firmata
a Roma, con una grande speranza di rinascita.

Oggi, però, il Mozambico rischia di essere dimenticato
dall’opinione pubblica mondiale. Ultimamente il paese è stato ancora oggetto di
attenzione, ma solo a causa dell’alluvione: un momento drammatico e isolato, nel senso che
ha toccato solo una parte della nazione.

 

 

Calati nelle situazioni

 

I missionari della Consolata, che arrivarono in Mozambico nel 1925,
avevano in cuore la formazione impartita dal beato Giuseppe Allamano: quindi una
spiritualità del concreto, del quotidiano.
I primi pionieri giunsero nel territorio
senza tanti progetti, ma con una fortissima carica umana e spirituale, con l’ideale di
vivere in mezzo alla gente.

Oggi sono ancora presenti nelle zone più sperdute, dove le persone
sono abbandonate da tutti. Direi che hanno quasi timore della città, anche perché si
cercano i più poveri, con l’idea chiara dello sviluppo-consolazione. Quando il
missionario si cala nella realtà, non fa distinzione tra sviluppo e consolazione:
non ci può essere l’uno senza l’altra, e viceversa.

Con queste premesse, è importante sottolineare alcuni aspetti del
nostro lavoro in Mozambico. Abbiamo sempre cercato di immergerci nelle situazioni
concrete, per dare risposte utili.

La prima è stata la formazione attraverso le scuole: scuole di
arti e mestieri per l’avvio professionale al lavoro. In questo i fratelli missionari
sono stati una benedizione enorme. Naturalmente lo stato portoghese ne ha approfittato:
concedendoci la libertà di insegnamento (nel 1942), si è creato un intenso sviluppo con
il moltiplicarsi di scuole, soprattutto in foresta.

Con il tempo si è capito che, dietro il permesso del Portogallo,
c’era una strategia (non troppo velata) di espandere e rafforzare la colonizzazione.
C’è stato, allora, un momento di ripensamento e di ribellione al sistema con la
tentazione, per i missionari, di abbandonare tutto. Ma, guardando all’interesse della
gente, si è deciso di restare, di non abbandonare le comunità, almeno finché si è
potuto, cioè fino alla rivoluzione marxista-leninista, allorché tutto si è bloccato:
scuole, ministero, attività sociali.

L’unico permesso concessoci era di "essere presenti":
condividere le sofferenze e attese del popolo, aiutare a non perdere la speranza. Questo
fino al momento della pace, della ricostruzione, delle nuove scelte: scelte diverse da
quelle precedenti. Anche per noi, missionari, non più proprietari e gestori, ma
"servi" in aiuto e sostegno alle scuole governative; collaboratori senza
potere, onesti e umili.

C’è stata, con la pace, l’intuizione formidabile dell’università
cattolica.
In Mozambico c’era una sola università nel sud. Nel remoto nord del paese,
persino a 3 mila chilometri dalla capitale Maputo, la scuola era solo quella elementare,
con pochissime scuole superiori. L’intuizione di qualche missionario della Consolata è
sfociata nel progetto di una università, che al presente può vantare 1.500 studenti, con
quattro facoltà in tre città del nord. Una carta vincente.

 

 

Con grande "nostalgia"

 

Un altro aspetto del nostro lavoro missionario attuato in questi anni,
ma soprattutto in quelli della rivoluzione e della guerra, è stato la vicinanza con la
gente.

La prima "strategia" del governo comunista fu di isolarci, di
tagliarci fuori, di fare sì che non avessimo più alcun contatto con la popolazione. Ecco
la concentrazione in determinati posti, con missionari derisi ed espulsi. Per visitare le
comunità dei cristiani (fatica e denaro a parte), erano necessari permessi su permessi,
controlli meticolosi, attese estenuanti, limitazioni. Da qui ancora l’interrogativo:
che facciamo? Abbiamo cercato di resistere e di non mollare, sfruttando ogni occasione che
ci veniva concessa. Le visite alle comunità avvenivano con il rappresentante del partito
comunista alle calcagna, che controllava tutto. Ma (fatto inaspettato) il rapporto con la
gente è diventato più forte, più coinvolgente. In alcune comunità dura tutt’oggi.

I missionari di Cuamba, ad esempio, facevano pervenire (attraverso
persone) delle schede catechetiche da compilare nei villaggi; gli animatori locali
rispondevano alle domande, descrivevano i fatti, segnalavano gli esempi, e inviavano tutto
per iscritto al missionario, che ci rifletteva e programmava il lavoro pastorale.

È nata così una chiesa "ministeriale", dove i catechisti e
gli animatori facevano quasi tutto. Grazie a loro, le comunità resistevano alla
propaganda atea, vivevano nella fede e, addirittura, si moltiplicavano. In luoghi dove le
comunità, prima della rivoluzione e della guerra, erano 10-15… sono diventate 20-25. Ne
è derivata anche una "purificazione" per i missionari troppo legati
ancora alle strutture, ai metodi del passato, forse pure al governo. In quel tempo si è
capito che l’unico "buon pastore" è il Signore: è Lui che pascola il
gregge, al di là del nostro molto o poco lavoro. Un terzo aspetto della nostra presenza,
oltre alla formazione e condivisione di vita, è stata la testimonianza. Il Mozambico, con
la guerra, ha avuto circa 1 milione di morti, 2 milioni di rifugiati all’estero (nei
campi-profughi del Malawi e dello Zimbabwe), 5 milioni di sfollati interni… Tutto il
paese era in gravissime difficoltà. Poi la guerriglia, che sequestrava, rubava e
bruciava, seminando morte e distruzione anche fra i missionari.

Ma siamo rimasti. Abbiamo incoraggiato, testimoniato la speranza,
nonostante continui segni di morte. Forse ho portato anch’io un po’ di
consolazione, e solo con la testimonianza della mia presenza. Quante volte, dopo aver
viaggiato in bicicletta di notte, arrivavo ad un villaggio e mangiavo quello che
c’era. Mi tempestavano di domande: "Padre, perché sei qui? perché rimani?
perché ti preoccupi di noi?". E poter rispondere nel cuore: "Perché sono
cristiano… Per amore e nel nome di Gesù Cristo".

Quello che ho fatto io l’hanno fatto molti altri missionari, ognuno nel
suo stile, ma tutti con la stessa passione, la stessa voglia di essere
"testimoni" di Qualcuno per cui abbiamo dato la vita. Un po’ come Maria, sotto
la croce e accanto al figlio in agonia, ma senza poter fare nulla. Solo esserci!

Oggi, dopo gli accordi di pace dell’ottobre 1992, lo sforzo è di
aiutare il paese a vivere gli ideali stupendi conquistati con sofferenza nel periodo buio
del passato. Ricordare i valori appresi, il volto nuovo delle comunità cristiane, la
voglia di continuare a crescere nella formazione umana e cristiana… Cercare di non
cadere nelle nuove trappole,
come quella degli aiuti facili, della delega in bianco,
dei miraggi del benessere occidentale che generano divisioni, gelosie, discriminazioni,
povertà umana e morale.

Se volessi riassumere tutto, potrei farlo con la parola portoghese "saudade",
che è intraducibile; indica nostalgia e rimpianto di alcune situazioni, anche di
sofferenza. Credo che la chiesa in Mozambico senta "saudade" del tempo di
persecuzione e guerra. Un tempo tragico, certo, ma durante il quale in cui i cristiani
erano aggrappati alla parola di Dio. Non avevano nulla, ma erano luce. Una comunità di
testimoni e martiri (come i 21 catechisti trucidati a Guiúa), presenza viva di Cristo.

 

(*) Padre Franco Gioda, missionario in Mozambico durante il
colonialismo, la rivoluzione comunista, la guerra civile e il raggiungimento della pace.
È stato anche superiore dei missionari della Consolata operanti nel paese.

 

 

Articolo 3

dossier Kenya

 

 

Dal Kenya all’Ecuador

 

 

Dialogo con le culture

 

 

"La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,

ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti".

 

 

di Giuseppe Ramponi (*)

 

Quando operavo in Kenya (nel distretto dei samburu, diocesi di
Marsabit), ho potuto dialogare con vari rappresentanti di etnie vicine, i frequentatori
della missione, maestri e anziani che diventavano amici. Avvertivo il bisogno di capire
"la vita samburu": come era organizzata la tribù negli aspetti sociali,
educativi e religiosi. Il popolo viveva la cultura senza essee protagonisti: la vita di
ogni giorno era guidata dal capo-famiglia, in comunione con gli altri che formavano la
manyatta, il recinto.

Gli sperimentati missionari dicevano che il dialogo era previo e
necessario per l’evangelizzazione. E si doveva cercare una piccola "crepa"
dove mettere il dito e, allargandola, cominciare la predicazione; poi, come fa la sonda,
esplorare e capire se c’era posto per la nostra fede. Se ci lasciavano entrare, era nostro
compito costruire subito la chiesa, con messe, preghiere, canti, sacramenti, catecumeni.
Era il metodo di allora. Oggi, dopo tanta riflessione e polemiche durate anche anni, non
si è d’accordo su tutto. Io sono disposto ad accettare tutti i punti di vista e guardo da
ogni angolo, escluso quello "ottuso".

 

 

La cultura della vita

 

Un cambio radicale nella diocesi di Marsabit avvenne all’inizio
del 1970, quando il vescovo Carlo Cavallera accettò il parere dei missionari, che
suggerivano più impegno per la cultura: ricerca e studio di usi e costumi e conoscenza
della lingua tribale, e non soltanto di quella nazionale (swahili). Io venni scelto per il
distretto dei samburu e, nello stesso tempo, mi nominarono responsabile delle scuole
(Education Secretary). Cominciava un sogno ad occhi aperti.

Nei due settori educativi comuni a tutti i popoli (cultura e
istruzione) c’era finalmente l’opportunità di lavorare ad un progetto che mi stava
molto a cuore: elevare a dignità la cultura e farla entrare nella scuola come
educazione-base (per divenire persone) e completarla con l’istruzione (per
diventare cittadini). La scuola a Maralal era diventata un modello e un centro per
sincerare, identificare e dare dignità alla cultura locale e, allo stesso tempo, dotare
la persona di tutte le qualità garantite dai diritti umani e dal vangelo. Speravo, in
quel contesto, che la persona avrebbe saputo parlare e chiedersi: perché, come, quando,
dove, con chi?… Mi piace inorgoglirmi e affermare che la scuola era un paradigma nel
progetto storico del popolo samburu.

Con la mia partenza, l’impostazione cambiò, perché i successori
erano pratici: non volevano teorie, ma fatti pieni di numeri e guadagni.

Lasciato il Kenya, raggiunsi la Colombia. Nel 1983 ero a Cartagena de
Indias. Pensavo di lavorare con i negri, per cercare i legami con l’antica cultura
africana e dare il brivido della dignità originale a chi era stato spogliato di tutto. La
casa accogliente e comprensiva doveva essere la chiesa.
Doveva essere pure un
laboratorio di ricerca e ricostruzione, partendo da qualsiasi calore ancora vivo,
nonostante l’immensa cenere. Era una sfida. Fallì, perché i responsabili locali si
sforzavano solo di credere nelle verità divine, non nella Verità.

Nel 1987, dopo due anni passati nel Caquetá (importantissimi, perché
mi introdussero nel mondo indigeno, che mi mancava), arrivai in Ecuador, con gli indios in
lotta, portabandiera delle rivendicazioni culturali e organizzative proprie di un popolo
oppresso. In Ecuador sono diventato "pellegrino" con gli indios di lingua
quichua nella loro solitudine, angustia, indignazione ed ira. La gente era ai margini già
al tempo degli incas, diventando solo lavoro bruto e a buon mercato dai conquistatori
spagnoli in poi. Ma quando a Riobamba arrivò il vescovo Leonida Proaño, incominciò il
cammino di riscatto ed emancipazione. Ora l’indio ha un suo progetto di vita e
rivendica la propria storia.

Ho imparato di nuovo tutto e ho abbandonato un po’ la cultura dei
libri per abbracciare quella della vita reale e quotidiana. Oggi mi dedico anima e corpo
alle scuole, dove studiano i bambini indios, e voglio rendere la sede bella, idonea e
qualificata. L’educazione offrirà le "armi" per la "riconquista".

Lavoro anche nella pastorale indigena, con un buon numero di
catechisti: tutti volontari e tutti della base, popolo-popolo. Con essi faccio la lettura
critica della realtà comunitaria in trasformazione, per decifrare gli "enigmi
culturali", proponendo e avviando l’aggancio con l’utopia del Regno di Dio,
l’unica ragione per essere missionari e risposta ancora sempre valida per dipingere di
speranza il progetto storico dei popoli.La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,
ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti. Mi piace ragionare con i
collaboratori, specialmente maestri: il discorso è sempre interessante. La lettura di
segni, immagini, miti, gesti e relazioni non si può fare alle spalle del gruppo
interessato. Però è vero che c’è bisogno dell’"osservatore esterno". E
sono ancora convinto che è indispensabile il cammino indicato da Gesù Cristo e, più che
mai, sono attuali i suoi segni: chiavi per aprire, occhi, orecchie, bocche, mani, cuori
e… sepolcri.

 

 

L’innesto sull’albero buono

 

La scena ecclesiale mondiale ci ha regalato parole "chiavi".
Il Concilio ecumenico Vaticano II ci ha dato la parola "dialogo"; la
Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellín (1968) "liberazione",
quella di Puebla (1979) "stare con i poveri" e, con la Conferenza
ecclesiale di Santo Domingo (1992), entra nella storia l’esigenza dell’"inculturazione".
In America Latina essa diventa un imperativo per seguire Gesù Cristo nella solidarietà
verso i volti umani sfigurati.

In Ecuador non parliamo di dialogo con le culture, ma di grido della
cultura
e clamore persistente che esige spazio e riconoscimento nel palazzo della
politica e nella chiesa. La cultura india vuole entrare nella chiesa in nome del
cristianesimo che, bene o male, è diventato suo e si presenta "inculturato"
nell’arco di 500 anni. E si vuole pensare, parlare e agire nella chiesa con una
lingua propria e categorie di pensiero proprie.

Non si accontenta di riti e segni, ma si chiede il diritto di studiare
la filosofia partendo dalla propria cosmovisione, di costruire una teologia muovendosi dal
proprio progetto storico. È un’inculturazione speciale, che richiede la caduta
della chiesa monoculturale
e reclama il diritto di sedersi accanto alle altre culture,
già canoniche, accedendo con diritto completo alla piena cittadinanza ecclesiale. Ora
sogno e lavoro per un "innesto culturale" nella chiesa, affinché questa capisca
e utilizzi tutte le cose buone che la cultura ha, rivedendo e rettificando la struttura
monoculturale che, finora, ha reso "visibile la grazia" con parole, concetti
espressioni liturgiche e dottrinali tratte da un solo vocabolario.

È l’idea sottile di san Paolo (Rom 11, 11-24). Di solito si innesta il
ramo buono nell’albero selvatico. Il missionario insegna, invece, ad innestare la parte
selvatica nell’albero buono. Quindi diventa logica l’azione di inculturare la chiesa,
ossia innestare la cultura indigena nella chiesa.

Paolo vedeva i "pagani selvatici" innestati nell’"albero
buono" del popolo dell’alleanza, cioè la chiesa. E mi diverte l’idea di innestare
gli indios nella chiesa. Mi fa ricordare i barbari, che sconsacrarono l’impero romano, e
immagino lo stupore nel vedere questi "rambo" entrare nelle basiliche, un
po’ chiassosi, e chiedere ascolto. Che cosa impedisce che nel 2001 gli indios entrino
nella loro chiesa, parlino, cantino, adorino e si salvino? E questo senza chiedere in
prestito simboli, ideogrammi, concetti di vita, definizioni di sapienza e conoscenza, di
intelletto e fortezza, di consiglio, pietà e timor di Dio? Passi più lunghi della gamba?
Non me ne sono mai invaghito. Ho sempre cercato di partire da quello che è possibile.
Prima di arrivare alla teologia, c’è la pastorale, che è un lavoro per costruire la
comunità di fede, speranza e carità. Dopo, basta un niente per dire: è la chiesa. Il
vangelo è spirito, forza, visione, una visione di vita che parte da Gesù. Ma gli hanno
dato corpo, segni, sensi, oratoria, logica, parola, ragionamento, mezzi comunicativi. Se
nel passato talora (per non dire spesso) c’è stato bisogno di discutere e disceere la
vera teologia, per definire che cosa si doveva insegnare e credere, ciò significa che
l’interpretazione non è stata subito unanime. E perché non oggi? Anche i popoli
dialogano, ragionano e cambiano. In Kenya i kikuyu (descritti da padre Costanzo Cagnolo in
una celebre monografia di 68 anni fa) sono cambiati; non operano più nei villaggi, nei
campi e nei mercati come allora. Anche in Ecuador l’impero inca non c’è più. Ma c’è
Pilatuña e ci sono io. Pilatuña vive la cultura e io predico il vangelo. Però con
questa differenza: Pilatuña vive la cultura e non sa predicarla; io so forse annunciare
il vangelo, ma faccio molta fatica a viverlo.

 

(*) Padre Giuseppe Ramponi, missionario in Kenya, Colombia e, oggi,
in Ecuador. Ha scritto: "Preghiere samburu", Consolata Fathers, Nairobi (pro
manuscripto); "Missionari e indios. Sentire la vita", Edizioni Siaca, Cento
(FE), 1999.

 

Articolo 4

dossier Congo

 

 

 

Repubblica democratica del Congo

 

Tra i fuochi della guerra

 

 

Una guerra con 2 milioni di morti dal 1998.

Alta la tensione: "Siamo tutti uguali, però loro…".

Ma, con il missionario, si dice pure: "Se tu resti…".

 

 

di Santino Zanchetta (*)

 

La mia è una piccola testimonianza, con qualche particolare
drammatico, che giustifichi perché siamo rimasti nella Repubblica democratica del Congo,
nonostante la guerra. Lo faccio a nome di tutti i missionari: quelli che sono rimasti per
scelta o perché costretti… e che hanno anche dato la vita. Parlo della guerra vissuta
(dalla gente e dai missionari), per rispondere alla domanda: perché restare in tale
contesto? Recentemente il Congo ha subìto due guerre successive; la seconda è scoppiata
nell’agosto del 1998 ed è tuttora in corso.

Per noi, missionari, guerra sono i bombardamenti con armi
pesanti, quando le bordate non sono mai precise, né indovinate, né tanto meno…
chirurgiche. Le bombe cadono ovunque, perché il nemico da perseguire non ha un campo
preciso e occupa generalmente i quartieri popolari. Noi abbiamo avuto la fortuna di
sopravvivere, mentre 2 milioni di persone sono state uccise.

Guerra sono gli scontri, quartiere per quartiere, con gente che fugge e
cerca disperatamente rifugio; con soldati che, aspettando l’evoluzione degli avvenimenti,
si danno al saccheggio, rubando tutto il possibile, forse per appagare la propria fame o
per rifarsi dei salari mai ricevuti.

Guerra è l’odio verso i nemici e i loro alleati: un odio
alimentato dalla stampa, dai discorsi, dai canti e ritoelli, ma anche dalla sofferenza
di chi ha dovuto patire fame, lutti, atrocità, privazioni di medicine, luce, acqua.
Guerra è pure l’Aids, trasmesso (consciamente e inconsciamente) dai soldati e vissuto con
terrore da parte delle vittime.

Guerra è la rabbia contro la povertà mal sopportata (e ciò
spiega i saccheggi e furti), sfogo del tribalismo in atto.

 

 

Tasselli di un mosaico

 

In questo quadro fosco, noi missionari abbiamo vissuto la guerra
insieme alla gente. Con tensione, per avvenimenti che non hanno mai fine; con terrore, per
ciò che potrà ancora capitare, senza sapere quando e come; con silenzio, ignorando
assolutamente cosa fare per proteggersi o proteggere la popolazione. Con paura incessante:
della morte, della tortura, del sequestro, dell’isolamento, della mancanza di
comunicazione e informazioni.

Guerra è stata anche, per noi, la partecipazione al dolore del popolo,
superando il voltastomaco nel vedere persone bruciate vive con la tecnica del
"pneumatico sui corpi", pestate con il mattarello del mortaio. E poi i
ripetuti saccheggi a missioni, parrocchie, seminari, conventi, sotto la minaccia delle
armi; obbligati a caricare tutto sulle autoblindo dei militari e vederle partire.

In guerra, però, non sono le lacrime che salvano, ma come si affronta
la situazione, soprattutto per noi missionari, divenuti punti di riferimento. Abbiamo
vissuto ogni sorta di sopruso; siamo stati anche feriti nei sentimenti più profondi: come
uomini, come stranieri, come sacerdoti, suore e consacrati. Sorgono tante domande, tutte
cariche di angoscia: perché restare nel paese? Perché amare la gente? Perché, dopo
tutto quello che abbiamo vissuto e visto, dobbiamo credere che la nostra presenza abbia
significato e valore?… Perché, invece, non partire, in attesa di tempi migliori e più
sicuri? La mia risposta (mentre la guerra continua) non è né definitiva né esaustiva:
è un insieme di piccoli tasselli, come in un mosaico.

Il primo motivo che, come missionari, ci fa rimanere è l’affetto,
la parte umana di noi. Siamo vissuti per tanti anni insieme: abbiamo pregato e partecipato
al dolore comune nei funerali, alle difficoltà materiali e spirituali; abbiamo
chiacchierato a lungo visitando le case e prendendo in braccio i bambini; abbiamo sognato
iniziative comuni di sviluppo. La nostra esistenza è intimamente legata a quella della
gente.

Date queste realtà, chi ha il coraggio di spezzare i legami,
abbandonare l’amico nel dolore o nella lotta per la sopravvivenza? La vicinanza fratea
infonde coraggio ad una comunità disorientata, la fa sentire amata e valorizzata.
"Se tu resti – mi sento dire -, significa che noi siamo importanti, ci vuoi
bene e sei uno di noi".

Il secondo tassello del mosaico è più profondo: dipende dalla stessa
missione che ci vincola, senza sconti, alle comunità cristiane. Quali che siano le
circostanze (abbondanza, penuria, gioia, pericolo, gratitudine o indifferenza), il vangelo
della carità (cioè il dono di sé) deve essere proclamato in ogni situazione. Pertanto la
missione non è una passeggiata occasionale,
una manciata di emozioni che passano, ma
condivisione di vita, costantemente e concretamente.

Un terzo motivo: la nostra presenza deve diventare segno di una cultura
di pace contro ogni logica della guerra,
facendo capire che, nonostante la violenza,
è la frateità che deve reggere la vita… Attraverso riflessioni, incontri e gesti di
carità, il missionario approfondisce il vangelo con l’uomo della strada, provocando
(non senza fatica) pensieri di riconciliazione. Un esempio: furono fatti prigionieri dei
rwandesi, ed era "normale" insultarli, denigrarli e considerarli animali per
tutte le sofferenze che avevano provocato… Nella nostra riflessione, in missione,
abbiamo affrontato il tema della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che
supera l’appartenenza ad una tribù o stato. La riflessione ha incontrato molta
resistenza… perché "è vero che siamo tutti uguali, loro però…". Ciò
nonostante, dopo reazioni anche violente, siamo riusciti a raccogliere cibo e soldi per
andare a trovare i prigionieri "nemici", con un atteggiamento di pace e perdono.

 

 

Preparando il futuro

 

È importante rimanere e, soprattutto "come" si rimane. Non
è la presenza fisica che gioca il ruolo determinante, ma il significato che acquista e
l’azione quotidiana: cioè la vicinanza che faccia crescere la comunità cristiana,
che infonda speranza (ma anche soluzione) nei problemi concreti, che educhi alla non
violenza e al perdono.

In frangenti drammatici (come è avvenuto nelle nostre missioni del
Congo settentrionale) a volte è più utile la "partenza momentanea", perché il
missionario, restando, può mettere a repentaglio la vita della sua gente. Spesso,
infatti, "il bianco" è ricercato per quello che possiede o ha nascosto; e, per
sapere e trovare qualcosa (macchine, soldi, viveri), si può anche ricorrere alla tortura
delle persone. In questi casi, forse, la soluzione migliore è l’allontanamento
temporaneo, per permettere alla gente di vivere senza subire ulteriori pressioni e
violenze.

 

I missionari non sono eroi; non sono nati per questo (io, almeno);
però la presenza-missione li interpella e si esprime "con" la gente in tante
piccole cose.

Infine il nostro restare è un investimento per il futuro. La
situazione, anche pastorale, esige nuove visioni e prospettive; suppone che i missionari
lavorino non soltanto cercando di "sopravvivere" oggi, ma guardando alle
generazioni future. La guerra, purtroppo, non finirà domani e la ricostruzione del Congo
non avverrà dopodomani. I giovani, specialmente, devono saper convivere con la violenza,
stimolati però a cercare valori nuovi, umani e cristiani, per costruire un futuro di pace
per il paese. Ecco perché, in barba alla guerra (o, meglio, a motivo di essa), il nostro
gruppo missionario di Kinshasa ha voluto offrire un segno "forte". Prendendo lo
spunto dalla conferenza "Il coraggio dell’annuncio", abbiamo aperto una nuova
parrocchia nella "periferia più periferia" della capitale, dove bisogna
incominciare da zero. È una testimonianza di chiesa, di vicinanza missionaria, che
esprime, a dispetto della scarsità di mezzi e personale, la fiducia di poter dare un
volto nuovo al Congo. Noi siamo sempre "i missionari della Consolata".

 

 

(*) Padre Santino Zanchetta, missionario in Zaire-Congo. Il paese,
spaccato in due, è in guerra dal 1998: le vittime superano i due milioni. La separazione
incide anche sui missionari della Consolata, costituitisi in due gruppi che non possono
incontrarsi.

 

Articolo 5

 

dossier America Latina

 

 

America Latina

 

 

L’indio al centro

 

 

"Per gli indios, noi missionari non siamo importanti:

con la chiesa o senza la chiesa, faranno il loro cammino. Siamo noi che
abbiamo bisogno di loro".

 

di Antonio Bonanomi (*)

 

È importante chiarire subito un "dettaglio": l’indio non
esiste. Esiste come termine, non come realtà; nessuno degli indigeni dell’America si
riconosce come indio, perché è una parola sbagliata; è un "errore" di
Cristoforo Colombo,
che pensava di avere raggiunto le… Indie!

Pertanto meglio sarebbe parlare di popoli indigeni o, come si
dice in Argentina, di popoli aborigeni, che occupano un determinato territorio fin
dall’"inizio": quindi padroni della loro terra e storia. Tuttavia fare la
scelta degli indios non è una moda; significa incominciare a guardare il mondo non
dall’occidente, da noi, ma da loro. Non solo il mondo, ma anche la chiesa sarebbe
più povera senza la loro presenza, perché gli indios apportano una grande ricchezza, con
una saggezza, una storia e un progetto di vita diversi. Siamo noi che abbiamo bisogno di
loro, più che loro di noi. Qual è il panorama degli indigeni nell’America Centrale e
Meridionale? Sono circa 45 milioni coloro che si dichiarano indigeni, anche se credo che
siano il doppio, perché la maggioranza dei popoli che vivono in America hanno una
percentuale di sangue indi al 20-60%; quindi il volto indigeno è molto più comune di
quanto appare nelle nostre mappe. Essere indigeni in America è stato un motivo di
vergogna per tanto tempo e molti si sono mimetizzati per poter sopravvivere! Si passa dal
70-80% della Bolivia e del Guatemala, allo 0,2% del Brasile, all’1% del Venezuela, al 2%
della Colombia. Quindi c’è una diversità di presenza enorme.

C’è pure una diversità di situazioni: popoli che vivono ancora come
cacciatori, raccoglitori, pescatori e popoli che sono alle soglie della modeità con i
vantaggi e gli svantaggi che questo implica. Oggi questi popoli stanno facendo "la
riconquista" della loro storia, cultura, territorio.

Oggi il grande problema in America è il non riconoscimento della
propria identità.
Il futuro dirà chiaramente che, se l’America vorrà diventare un
continente con un volto, una storia e un progetto originali, dovrà necessariamente
riscoprirsi plurietnico e multiculturale: latina, india, nera. Una sfida enorme, ma
anche la ricchezza d’America.

 

 

Il quinto sole

 

Ci sono tre grandi tappe nella storia dei popoli indigeni. La prima è
il tempo che precede la conquista, e non è conosciuta. Tutti pensiamo che la storia
d’America sia incominciata quando è arrivato Colombo, ma quei popoli "scoperti"
avevano già migliaia di anni di civiltà, di cui è rimasto solo qualche rudere, alcune
iscrizioni e pochi reperti nei musei.

La seconda tappa della storia comincia con "la conquista".
Per noi il 1492 è una data gloriosa, perché spalanca all’Europa un mondo
sconosciuto; per gli indios è l’inizio della colonizzazione, del genocidio e della
"scomparsa", non solo fisica, ma soprattutto culturale, di identità.

Verso gli anni ’70 incomincia una terza tappa per i popoli
indigeni: è quella della "riconquista". Vissuti finora ai margini,
vogliono riappropriarsi della loro storia e identità; vogliono essere di nuovo
protagonisti e signori della loro terra espropriata. Per questo il terzo millennio, per
l’America, sarà il millennio degli indigeni e dei neri. Oggi il grande problema
americano è il non riconoscimento della propria identità, bensì l’essere un
continente senza identità.

La storia unisce i popoli indigeni, anche se la cultura a volte li
differenzia; e li unisce il progetto del futuro che sentono come proprio: gli indios
vivono dell’utopia, credono e sono convinti che sorgerà il "quinto sole", il
nuovo impero degli indios in America.

Se la società latinoamericana non accetta la sfida di assumere la
cultura e il progetto indigeno come radici della sua storia, difficilmente il continente
incontrerà la pace, perché non s’incontrerà con se stesso.

 

 

Alle radici

 

Noi missionari della Consolata in America Latina abbiamo compiuto un
lungo cammino per giungere alle… radici. Quando siamo partiti per il continente,
l’abbiamo fatto con un progetto particolare: incontrare l’America degli
emigranti e, quindi, la ricerca-scoperta di paesi o quartieri totalmente veneti, trentini,
siciliani, calabresi… tutta gente che era partita dall’Italia per cercare da
mangiare e sfuggire alla miseria.

La prima tappa dei nostri missionari è stata quella di stabilirsi dove
c’erano gli europei; arrivando, si sono sentiti più o meno a casa loro; non hanno
avvertito il cambiamento provato dai missionari in Africa, dove il "salto" era
più evidente.

Poi c’è stata la seconda tappa, a volte più lunga e a volte più
breve. Il fatto di essere missionari li ha resi inquieti e si sono, allora,
aperti alle zone più povere e abbandonate: il Chaco in Argentina, Roraima in Brasile, il
Caquetá in Colombia… Ma l’indio era sempre invisibile. Se si prendono in mano i
documenti ufficiali (come le Conferenze regionali) fino agli anni ’70, non si parla
mai di indios. È come se uno prima vede i rami, poi il tronco e, solo alla
fine, le radici.

Soltanto in una terza tappa i missionari e le missionarie della
Consolata sono arrivati agli indios. All’inizio è stato come giungere dal centro alla
periferia; poi si sono resi conto che giungere all’indio non è arrivare alla periferia
d’America, ma alle sue radici. A São Paulo, in Brasile, si contano 600-700 mila
giapponesi, una delle culture asiatiche più ricche; si trovano più cattolici giapponesi
in Brasile che nello stesso Giappone… In Colombia si incontrano pure turchi o colonie
libanesi. Le colonie sono come rami, che non hanno in sé la vita; questa viene dalle
radici. C’è anche il tronco, che è il mondo dei meticci, della colonizzazione: un
mondo inquieto, incerto, disposto a tutte le avventure. E, infine, le radici, che sono i
popoli indigeni.

Per gli indios, noi missionari non siamo importanti, né necessari: con
o senza la chiesa, essi faranno il loro cammino. Siamo noi che abbiamo bisogno di loro.
Non incontreremo mai le radici, né costruiremo una chiesa che sia davvero cattolica,
cioè con una pluralità di valori, senza gli aborigeni. Dobbiamo andare incontro agli
indios, perché sono "diversi"… La loro è una cultura che privilegia lo
spirito sulla materia. Per l’indio tutto è vita.

L’uomo può diventare animale o pietra… Noi occidentali non siamo il
centro di tutto, perché, avendolo fatto per ragioni di profitto, stiamo rovinando tutto.
È la tragedia dell’homo homini lupus, che si ripete.

 

Poi c’è la comunità. L’indio non esiste come
"individuo"; non dice "io", ma "noi"; si sente parte di un
corpo. Se volete annullare un indio, portatelo fuori dalla comunità: non esiste più, è
un uomo morto…

Come missionari, la nostra funzione è: stare con gli indios, sorretti
dal vangelo, per rafforzae l’identità. Nel momento presente essi devono
fronteggiare ad una sfida grande: unire, in una sintesi nuova, la loro storia e tradizione
con… altre realtà, in un processo di interculturalità. È questo il nostro compito di
missionari, membri di una famiglia ormai intercontinentale: non richiudere gli indios come
oggetti da museo, ma rafforzarli, aprendoli al dialogo interculturale; perché la loro
ricchezza non solo sia conosciuta, ma diventi valore per altri. Ricordo due figure
significative: la prima è quella di padre Giovanni Calleri, il primo missionario della
Consolata ucciso (nel 1968), per avere amato gli indios del Brasile; la seconda riguarda
un altro sacerdote, padre Alvaro Ulcué, colombiano, anch’egli ucciso (nel 1984),
perché si era schierato dalla parte degli indios. Questo dice qualcosa: che la scelta
degli indios in America Latina è anche scelta di martirio. Ciò vale pure per il nostro
istituto. È bello sapere che un missionario della Consolata colombiano, padre Ariel
Granada, sia morto martire in Mozambico e un italiano abbia avuto la stessa sorte in
Brasile… Questo "filo rosso", che caratterizza la storia delle missioni, lega
anche la storia dei popoli indigeni.

 

 

(*) Padre Antonio Bonanomi, missionario fra gli indios "nasa"
della Colombia. Dopo una significativa presenza in Italia come professore e formatore, ha
raggiunto l’America Latina.

 

Articolo 6

 

dossier Kenya nord

 

 

Kenya del Nord

 

 

Samburu a rischio

 

 

"Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca

di realizzarsi fuori della comunità… La popolazione

è "in guerra" per divenire più potente e ricca".

 

 

di James Lengarin (*)

 

Io sono un samburu. Appartengo ad un popolo nomade di pastori nel Kenya
del nord. I samburu sono un ramo dei masai (eravamo "cugini"): il 95% della
lingua, degli usi e costumi sono uguali, anche se non mancano le diversità. I samburu
sono circa 150 mila e vivono su una superficie di 20 mila chilometri quadrati. Un
territorio vasto, ma povero, perché senz’acqua. Quando ritorno a casa per trovare i
parenti, non li trovo mai sullo stesso luogo, perché, essendo pastori nomadi, devono
spostarsi alla ricerca di acqua e pascoli erbosi.

 

 

Mucche al centro

 

La società samburu è formata da otto clan (o insieme di famiglie), a
loro volta divisi in due: "vacche nere" e "vacche bianche". Il nome
non deve stupire, perché la nostra vita ruota attorno alle mucche. Con la loro pelle, ad
esempio, si confezionano vestiti, stuoie, tabacchiere, sandali: tutto proviene dalla
mucca. Essa è il centro di tutto, non la… new economy!

La nostra è anche una società gerontocratica, perché tutte le
decisioni vengono prese dal "Consiglio degli anziani": solo gli anziani, non
altre persone; nonne e mamme possono dire la loro, dare un parere, ma la decisione finale
spetta al Consiglio! È composto da tutti i capifamiglia, che devono dialogare e restare
uniti per il bene del popolo. La vita dell’individuo passa attraverso vari momenti di
crescita (classi di età) e diversa è la responsabilità sociale: il bambino deve restare
bambino e il guerriero… guerriero. I lavori sono organizzati secondo i ruoli: i ragazzi
pascolano i vitellini o le caprette; i guerrieri il bestiame più grosso e difendono la
società dai nemici; gli anziani guidano la vita attraverso il Consiglio, decidono su riti
ed iniziazione, controllano i matrimoni; le donne costruiscono le dimore, mungono il
bestiame, procurano acqua, legna e cibo per tutti; esse sono al centro della famiglia e
rispettate nel loro ruolo.

In ciò concee la vita religiosa tradizionale, i samburu credono in
un unico Dio, Ngai, che rimanda non solo ad un essere supremo, ma significa pure
"pioggia" e "cielo".
Nell’acqua c’è la vita. Il nostro
è un Signore che dona la vita attraverso la pioggia. E può manifestarsi in vari luoghi:
in una casa, sotto la pianta, sulla montagna, dove si prega, si offrono sacrifici, si
invocano le benedizioni (che sono quasi infinite). Si prega mattino e sera.

I samburu tradizionali sono molto lontani dalla fede in Gesù Cristo.
Il messaggio cristiano è di difficile accettazione. Un uomo-Dio: come è
possibile? I missionari devono faticare non poco per comunicare questa "buona
notizia", sconvolgente per i samburu.

La vita sociale è legata ai periodi di siccità e pioggia; quando
questa manca, la gente sta male, gli animali muoiono e la vita si ferma. Per questo Dio è
pioggia, cioè cibo, carne, sangue, latte: ciò che garantiscono gli animali.

Negli ultimi tempi i samburu sono cresciuti di numero, ma la qualità
dei pascoli è scaduta. Le frequenti siccità e carestie hanno costretto la gente ad una
maggiore dipendenza da cibi estei, come riso, polenta… Tutte cose che prima non
mangiavano; ora, invece, ne fanno uso per sopravvivere. Al presente dipendono anche dal
governo nazionale e dagli aiuti stranieri.

I samburu sono stati a lungo "fuori dal mondo". Quando in
Kenya c’erano i coloni inglesi, alla gente non era permesso di lasciare il territorio. È
rimasta, dunque, isolata per parecchio tempo, divenendo un problema per i colonizzatori,
che faticavano a concepire e dominare una società… senza capo, in quanto tutto è
determinato dal Consiglio degli anziani.

I missionari della Consolata ebbero i primi contatti con i samburu nel
1946, allorché padre Carlo Andrione giunse a Maralal per visitare alcuni amici kikuyu.
Così è iniziato l’avvicinamento, con qualche scuola.

La prima missione sorse a Baragoi nel 1951; vi era anche un centro per
ragazzi, una scuola, un dispensario; il tutto con la presenza delle suore. Fu un passo
molto importante per la nostra storia. I missionari osservavano, imparavano dalla gente,
dialogavano con gli anziani. La scuola è stata l’iniziativa più "utile",
come quella di Wamba e l’omonimo ospedale: un’oasi nel deserto, con medici che
arrivano dall’Italia.

Accennando ai missionari, è doveroso ricordare i confratelli martiri:
padre Michele Stallone ucciso nel 1965 e padre Luigi Graiff nel 1981. Nel 1998 cadde anche
padre Luigi Andeni. Missionari uccisi in un clima di "guerra", mentre essi
aiutavano in "pace" la gente e portavano cibo ai bisognosi.

 

 

L’antenna sulle capanne

 

Contese ce ne sono sempre state nel nord del Kenya, soprattutto fra le
tribù. Noi samburu, ad esempio, non mangiamo con i turkana, perché ce lo vieta la
tradizione che abbiamo ereditato dai nostri padri. Ricordo anche i bellicosi ngorokos e le
azioni di banditismo dei somali.

Ma ben altri sono gli scontri con operazioni tipicamente militari; sono
soldati che combattono altri soldati. E lo stato centrale ha le sue responsabilità.

Un proverbio recita: "Se chiudete la bocca al popolo, ne armate la
mano". Ecco allora che la lotta nel nord del Kenya è diventata una "guerra
civile". Lo stato, invece di garantire alla gente sicurezza e speranza di
vita, mette a disposizione fucili. Una nota preoccupante nei conflitti samburu è
la "giovinezza": la violenza è diventata un modo di vivere per i giovani; sono
ragazzi disoccupati che non hanno nulla da perdere e, di conseguenza, non posseggono né
etica né disciplina. Ma non si tratta di lotte tribali per impossessarsi di mucche o di
sorgenti d’acqua, bensì di banditi organizzati per un fine politico. Tra i rovi del
deserto si aggirano uomini con fucili a tracolla. In tale situazione la cultura samburu è
davvero a rischio. Finora i samburu, pur cambiando, hanno sostanzialmente conservato
l’identità culturale (tanto da essere subito riconosciuti) e il senso di libertà.
Invece altri gruppi hanno subìto in modo violento le spinte del cambiamento: coinvolti
nel processo di urbanizzazione, hanno perso le loro radici.

Quindi i samburu potrebbero rappresentare un esempio di mutamento
positivo (persino nella religione), conservando tuttavia i tratti culturali fondamentali.
Alcuni sono diventati cristiani, lavorano in città, dirigono piccole aziende, ma restano
samburu. Inoltre si sostengono a vicenda. Ognuno ha diritto alla propria libertà di
pensiero, purché non vada contro il bene comune. Al centro c’è la persona: tutto ruota
attorno ad essa e alla vita. Questo almeno fino a ieri.

Oggi però anche i samburu sono a rischio, perché c’è il miraggio
del benessere.
Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca di realizzarsi
fuori della comunità. Il problema grave è che, al presente, la popolazione è "in
guerra" per divenire più potente e ricca. Quando un giovane samburu lascia il
villaggio per motivi di studio o lavoro, al ritorno a casa non si trova più a suo agio,
non è più uno di "loro": non va ad attingere acqua con i compagni, non segue
il gregge al pascolo. Forse il nuovo comportamento è determinato dal fatto che il ragazzo
non ha ricevuto l’educazione tradizionale. Infatti alcuni giovani non ascoltano più gli
anziani (che sono emarginati); invece sono impegnati nell’ascolto della radio e,
possibilmente, della televisione.

Su alcune capanne svetta persino l’antenna parabolica. Solo
musica. La cultura tradizionale tace. Ha voce solo l’immediato, l’economico.

Questo è il rischio che stiamo vivendo: essere individui che cercano
solo di avere di più e a prezzi facili. E dove finiremo con i nostri traumi?

 

 

(*) Padre James Lengarin, primo missionario della Consolata
"samburu" (Kenya). Ha studiato a Londra e Roma. Oggi svolge animazione
missionaria a Galatina (LE).

 

Articolo 7

 

San Vicente/Puerto Leguízamo (Colombia)

 

Nell’inferno della coca

 

 

"Io vorrei maledire la coca. Invece i veri maledetti

siamo noi. Ci siamo lasciati ingannare

dal miraggio di quelle foglie…".

 

 

di Javier Francisco Múnera (*)

 

Mi sento sinceramente un po’ a disagio con il titolo
"nell’inferno della coca", perché io ci vivo. Ma per me non è un inferno,
anche se potrebbe apparire tale. Quindi mi permetto di cambiare il titolo con
"Colombia: tensione armata e coca; la sfida della pace e dell’armonia con il
creato".

In Colombia, in un conflitto sociale che dura da oltre 50 anni e che
non si riesce ancora a risolvere, la pace è la nostra sfida più grossa. Impegna le
migliori risorse anche nel vicariato apostolico di San Vicente/Puerto Leguízamo.

 

 

Intreccio di armi e droga

 

Il vicariato ricopre un’area di circa 100 mila chilometri quadrati, con
quattro comuni principali: Cartagena del Chairá, Solano, San Vicente e Puerto Leguízamo.
Un territorio che rivela l’assenza dello stato per tutto ciò che riguarda i servizi
e le infrastrutture, nonché per i costanti scontri. L’attuale popolazione proviene
da altre regioni della Colombia, colpite dalla violenza politica degli anni ’50-60:
ha cercato qui lavoro e rifugio. La nostra regione si caratterizza per la coltivazione
della coca, oltre che per la presenza della guerriglia. I contadini hanno incominciato
lentamente a piantare coca e a vendee le foglie raccolte; hanno imparato a trattarle,
per ricavare la "pasta basica"; questa viene poi raffinata in polvere bianca e
venduta ai commercianti che alimentano i mercati di cocaina in Europa e America del Nord.

Oggi in Colombia (nella nostra zona in particolare) il conflitto
armato e il traffico di stupefacenti si intrecciano,
condizionando la vita della
popolazione e, quindi, anche la nostra presenza pastorale. È un’incredibile sfida
missionaria. Siamo convinti che solo la via del negoziato può aiutarci ad uscire dal caos
in cui annaspa la nazione; non possiamo accettare alcuna soluzione militare, che rechi
altro sangue e sacrifichi nuove vite umane. Riteniamo utile, come male minore, una
"zona di distensione", per realizzare una intesa con i guerriglieri delle Forze
armate rivoluzionarie colombiane (Farc).

Tuttavia la guerriglia è divenuta ormai un "quasi stato",
che domina e controlla il territorio e le persone, non solo nella nostra zona, ma anche
altrove: vi sono tasse, leggi, punizioni, reclutamento di ragazzi e ragazze, lavori
forzati, abusi contro i diritti umani. La gente lo sa: o resta a tali condizioni o se ne
va; non c’è via di mezzo, anche perché il controllo è forte e si esercita maggiormente
nelle aree rurali.

Un esempio: quest’anno a Remolino non si è celebrato il natale,
nonostante che i padri Giacinto Franzoi e Beppe Cravero avessero preparato la comunità.
La comandante guerrigliera Jessica, infatti, aveva ordinato alla gente di rimanere in
piazza per il "carnevale", durato tre giorni. I missionari avevano chiesto due
ore per poter almeno celebrare la messa di natale; ma la richiesta non fu accolta…
L’aspetto peggiore dell’episodio è che la gente non ha avuto la capacità di
reagire,
di resistere al sopruso della guerriglia.

Come missionari, dobbiamo educare tutti alla pace e alla
riconciliazione. La popolazione ha fiducia nella chiesa, anche se conflitti armati e
traffici di coca hanno soffocato i valori di convivenza sociale tipici di un tempo. Si
vive in una situazione assai confusa di "legalità illegittima", e i riferimenti
ai valori umani e cristiani non sono all’ordine del giorno. Però io credo che ci sia
ancora spazio per continuare a seminare, con più capacità "profetica", tutti
insieme e come équipes ecclesiali.

Il problema rende necessaria la formazione per il coinvolgimento
sia nel processo di pace sia nella costruzione di nuove forme di convivenza sociale, per
divenire più responsabili. Pertanto abbiamo iniziato, con altre diocesi, le "scuole
di pace",
affrontando temi importanti e fondamentali: identità e appartenenza
(necessarie dove il tessuto sociale è molto fragile); conflitti sociali e il loro
ragionevole superamento; partecipazione politica. Il tutto illuminato dalla bibbia e dal
magistero sociale della chiesa.

 

 

A mani vuote

 

L’altro grande conflitto che colpisce la nostra regione è quello della
coca. È un fatto grave, che si inserisce nella storia e nell’economia di uno sfruttamento
selvaggio che ha ferito e ferisce l’Amazzonia, creando un profondo squilibrio tra
persone e "habitat".

Dalla coltivazione della coca, dal suo mercato e traffico
internazionale traggono grandi guadagni anche diversi gruppi armati. In particolare, nella
nostra regione, sono le Farc che controllano il commercio della polvere di coca; e non si
può negare che, nelle aree di loro dominio, è aumentato il numero degli ettari
coltivati. Sono loro che decidono i prezzi e a chi vendere la "neve bianca". Ma
c’è anche un versante positivo: le Farc hanno obbligato a seminare mais, riso,
platano, iucca, perché la gente pensava solo alla coca.

Tuttavia resta l’"economia illecita" della coca. Su di
essa si sono scaricate le politiche errate dello stato centrale, ricattato dagli Stati
Uniti, con metodi repressivi. Ma le fumigazioni dei campi di coca e i prodotti chimici non
sono serviti a nulla; anzi, hanno compromesso l’ambiente, favorendo la deforestazione
dell’Amazzonia. Da registrare anche danni irrimediabili alle acque.

C’è il probema della cocasa: pare che questo sottoprodotto
(un residuo della lavorazione delle foglie di coca) contenga un elevato tasso di piombo,
con il rischio che sia assimilato da altre colture, i cui frutti sono di largo consumo
(pomodori e verdure varie). L’impatto su donne e bambini, destinati alla raccolta e
soprattutto alla lavorazione degli avanzi di coca, è nefasto, perché sono a contatto
(senza alcuna protezione) con prodotti chimici nocivi alla salute.

Spesso la popolazione è coinvolta in tale lavoro più per necessità
che per volontà: praticamente viene costretta, altrimenti non potrebbe sopravvivere. Mancano
le condizioni per una economia sostenibile con altri prodotti:
la scarsità di vie di
comunicazioni e di centri di raccolta fanno sì che si perdano tanti prodotti, mentre i
contadini non trovano un appoggio statale valido per rendersi autonomi con altre risorse.
E i soldi che entrano nelle tasche dei coltivatori di coca non giovano a nulla, perché
non recano né benessere né sviluppo; invece aumentano gli alcornolizzati e i prodotti di
lusso, totalmente non necessari. La qualità di vita non è migliorata; al contrario,
tutti gli articoli di prima necessità costano cari. L’economia della coca si è riversata
come una maledizione sui nostri contadini.

Ecco la testimonianza di un’anziana: "Di fronte al dolor

Giacomo Mazzotti