«Ho smesso di fumare» e…

Cari missionari,
mi presento: ho 65 anni e
qualche acciacco (colpa
della «gioventù»). Però la
vita va vissuta e… «perché
– mi sono detta – non adotti
un bambino?».
Così, senza pensarci
molto, ho smesso di fumare
e… ho raccolto la somma
di 104,00 euro, che vi
ho spedito. Scrivo queste
righe non pretendendo
nulla, ma semplicemente
perché conosciate un pochino
anche me.
Sono vedova e pensionata.
Sono stata accanto a
mio marito finché Dio
non ha deciso di riprenderselo
e posso dire di essere
stata con una persona
stupenda. Abbiamo avuto
due belle e brave figlie e adesso
faccio la nonna a
tempo pieno a tre nipoti.
Il desiderio di curare la
crescita culturale di un
bambino, in qualche paese
povero, spero che venga
accolto, anche se ho
un’età avanzata. Se Dio
mi dà una mano, perché
non provare?
Se me lo permettete, vi
abbraccio tutti con affetto,
specialmente padre
Stefano Camerlengo, missionario
in Congo e mio
conterraneo.

Ecco una lettera (ne riceviamo
tante!) che rinfranca
il cuore. Grazie.

Lettera firmata




SEIMEIZAN (GIAPPONE) dialogo interrreligioso

PAZIENZA E SILENZIO
Esperienza di un giovane italiano
in un centro giapponese,
dove s’impara l’arte
dell’ascolto e del dialogo.

Sulla cima del Narutaki, una
delle innumerevoli colline della
parte meridionale dell’isola
di Kyushu, tra verdi abetaie sorge il
centro di dialogo interreligioso Seimeizan,
termine che in giapponese
significa «Montagna della vita». Da
questa altura si ha una visione incantevole:
dalla vallata sottostante lo
sguardo si spinge sulla penisola di
Shimabara, sul mare di Ariake, fino
a toccare il monte Unzen, il più grande
cratere vulcanico del pianeta.
A Seimeizan tutto invita a guardare
lontano, non solo con gli occhi, e,
al tempo stesso, a scrutare dentro se
stessi.

TRE PERCORSI
Alla guida del Seimeizan c’è padre
Franco Sottocornola, 67 anni, missionario
saveriano, liturgista, poliglotta,
in passato docente di teologia al seminario
di Parma. Arrivato in Giappone
25 anni fa, ha fondato il Seimeizan
nel 1987 con un religioso buddista,
scomparso lo scorso anno.
Della comunità fanno parte suor
Maria De Giorgi, 55 anni, missionaria
saveriana, teologa, studiosa del
buddismo, in Giappone da quasi 12
anni, che segue le relazioni inteazionali
del centro; suor Shoji, giapponese,
70 anni, orsolina, che si occupa
dei rapporti tra il centro e l’amministrazione;
padre Yoshioka, 31 anni,
conventuale francescano, che cura tre
parrocchie della provincia rimaste
senza parroco; da ultimo sono arrivato
anch’io, discepolo alle prime armi.
La nostra vita è ritmata da un programma
che prevede quasi tre ore di
preghiera comunitaria giornaliera. Il
mattino inizia con lo zazen (meditazione);
seguono lodi e messa. Nel
primo pomeriggio abbiamo una breve
preghiera; prima di cena i vespri;
la giornata si conclude con la preghiera
di compieta.
Lodi e vespri sono recitati all’aperto,
rispettivamente nell’esatto
momento dell’alba e del tramonto;
di conseguenza i nostri orari variano
ogni tre o quattro settimane, seguendo
il ritmo del sole.
Parte della giornata è impiegata
nella manutenzione del centro. In
questo periodo mi occupo della pulizia
del parco: alberi cresciuti storti
da tagliare, con mio grande dispiacere;
sottobosco da ripulire e
quintali di foglie da raccogliere e
bruciare. Sto anche completando il
lavoro di veiciatura dell’ultimo edificio:
una casetta a due piani in legno,
costruita secondo lo stile tradizionale,
con un sistema di incastri
senza utilizzare un solo chiodo. A
tali occupazioni si aggiunge l’impegno
degli ospiti.
Oltre al lavoro e preghiera, mi dedico
allo studio in tre diverse direzioni.
Prima di tutto la lingua giapponese:
un ottimo libro mi aiuta a
memorizzare rapidamente gli ideogrammi;
lo studio della grammatica
e la conversazione coi membri della
comunità mi permettono le conversazioni
più elementari.
La seconda direttiva riguarda lo
studio del buddismo giapponese, attraverso
la lettura di libri, conversazioni
con padre Franco e suor Maria
e periodi di condivisione di vita. Ho
da poco trascorso quattro giorni in
un tempio zen, su una montagna a
un paio d’ore da qui. Ci si alzava alle
tre del mattino, si stava sempre a
piedi nudi e si praticava lo zazen
quattro ore e mezza al giorno. A parte
il dolore alle gambe, sono tornato
molto soddisfatto: ho imparato cose
nuove sulla meditazione e la vita
quotidiana nel tempio; ho fatto amicizia
con un aspirante bonzo giapponese.
Spero di ripetere una simile
esperienza in un tempio di Nagasaki.
Il terzo percorso consiste nella lettura,
sotto la guida di suor Maria, dei
documenti della chiesa riguardanti il
dialogo interreligioso, a partire dal
Concilio Vaticano II.

INCONTRI
In questo periodo abbiamo compiuto
una serie di visite particolarmente
interessanti: a un sito archeologico
dell’età del bronzo, un tempio
shintornista e monastero buddista, nel
quale abbiamo avuto un incontro
con un bonzo della scuola Tendai.
Altrettanto significativi sono gli
incontri con gli ospiti. Abbiamo avuto
12 seminaristi e giovani preti,
appartenenti a vari istituti missionari,
per un corso di introduzione alla
cultura e spiritualità giapponesi, con
conferenze tenute da padre Franco,
suor Maria e padre Sonoda.
In un altro incontro abbiamo invitato
al centro una maestra della cerimonia
del tè (cha-do) e della disposizione dei fiori (ka-do) per offrire ai
nostri ospiti un primo approccio a
queste arti tradizionali. Con grande
sorpresa ho notato che i giovani missionari
provenivano tutti da paesi del
sud del mondo: Filippine, Indonesia,
Messico, Congo e Vietnam.
Un momento particolare l’abbiamo
vissuto quando sono venuti al
centro 24 membri di un’organizzazione
protestante di Kyoto, in maggioranza
giapponesi, con alcuni tedeschi,
inglesi e un finlandese. Tale
organizzazione è stata la prima, in
Giappone, a occuparsi di dialogo interreligioso:
ora vorrebbe creare un
proprio centro sul modello del Seimeizan.
Per alcuni giorni si è parlato
della storia, organizzazione e spirito
del nostro centro. Tutti hanno
partecipato ai nostri momenti di
preghiera.
Spesso tutta la comunità si reca a
celebrare la messa domenicale nella
cittadina di Tamana, una delle tre
parrocchie che seguiamo. La chiesetta
è piccola e, come ovunque in
Giappone, bisogna togliersi le scarpe
prima di entrare. La comunità
parrocchiale è molto unita; prevalgono
le donne di una certa età; mentre
i giovani, una ventina, frequentano
solo raramente.
La domenica, infatti, le scuole organizzano
saggi e gare sportive, alle
quali gli alunni sono praticamente
obbligati a partecipare. Gli studenti
degli ultimi anni di scuola superiore,
invece, la domenica frequentano
corsi speciali di preparazione agli esami
di ammissione all’università.
Tempo fa, la parrocchia ha orga-

nizzato un bazar, cioè una serie di
bancarelle per la raccolta di fondi.
Sono finito nel reparto cucina e mi
sono distinto nel preparare la soba,
una pasta simile agli spaghetti che,
dopo essere lessata, viene grigliata alla
piastra con pancetta, insalata, carote,
germogli di soia e salsa.
Ciò che maggiormente ci procura
gioia e fiducia è il cammino delle persone
che si preparano al battesimo.
Suor Maria sta seguendo una signora
sposata, di 40 anni, e un ragazzo
di 18. Ogni mese teniamo un ritiro
di preghiera. Vi partecipano i fedeli
delle tre parrocchie e vari non cristiani
in ricerca.
Al «nucleo storico» dei partecipanti
a questi ritiri appartiene una signora
simpatica e attiva, splendido
esempio di laicato missionario: fin
dalla fondazione del Seimeizan ha
portato a questi ritiri amiche e conoscenti
non cristiane. Alcune di esse
hanno intrapreso il cammino dei catecumeni.
Alla messa domenicale nella parrocchia
di Tamana arriva pure, a piedi
e da sola, una signora di 90 anni.
È una maestra di sho-do, l’arte tradizionale
della calligrafia; alla sua veneranda
età, ha incominciato a
prendere lezioni di inglese. È interessata
al cristianesimo; per questo
ha iniziato a frequentare la messa
domenicale. Personaggi così non
sono rari qui in Giappone.
Non è facile entrare nell’animo
giapponese e cogliee le infinite
sfumature. Ma ciò che
è bello è l’atteggiamento che si vuole
instaurare nel confronto degli altri
credenti: rispetto, ascolto, armonia,
attenzione e… tanta pazienza.
Perché da tutto ciò nasca
in tutti la ricerca sincera
della verità.

Fabio Limonta, di Oggiono (LC), 30 anni,
è laico missionario della Consolata:
ha frequentato il nostro Centro di Bevera
e ha alle spalle alcune esperienze di
volontariato in Kenya, India e Giappone
(proprio presso il Seimeizan).

BUDDISMO
GIAPPONESE

Idea chiave del buddismo è che tutti
gli esseri viventi sono imprigionati in
un ciclo infinito di reincarnazioni; il
continuo nascere-e-morire è sperimentato
come sofferenza; da qui lo
scopo di questa religione: liberare
l’uomo da tale ciclo di rinascite, culminante
nell’«illuminazione».
Al di là di questa unità dottrinale, il
buddismo si presenta in un’infinità di
correnti con profonde differenze. In
Giappone esistono 13 denominazioni
o correnti, ulteriormente divise in
un centinaio di scuole. Tali differenze
sono di carattere storico, filosofico e
cultuale.
Dal punto di vista filosofico, alcune
denominazioni ritengono l’illuminazione
raggiungibile con le proprie
forze, con lo studio delle scritture,
ascesi, pratiche di tipo magico, meditazione.
A questa categoria appartiene,
il famoso zen.
Per altre correnti l’iIluminazione è raggiungibile
solo grazie all’intervento di
un’entità superiore. Elemento caratterizzante
di queste denominazioni è la
fede in una divinità chiamata Budda
Amida(da non confondere col Budda
storico, Siddharta Gautama), da cui il
nome del movimento: amidismo.
Attualmente, la denominazione più
numerosa è la nichiren(dal nome del
fondatore), che conta più di 30 milioni
di fedeli. Si distingue per una forte
impronta nazionalista e, contrariamente
alla tradizione buddista, manifesta
forti critiche nei confronti di altre
religioni e correnti buddiste.
Solidamente organizzata, è tesa al
proselitismo esasperato, fino a teorizzare
l’uso della violenza per diffondere
il proprio credo.
Benché in Occidente si parli di
«monaci e monasteri buddisti»,
nel buddismo giapponese non esiste
niente di equiparabile alla nostra tradizione
monastica. Quello del monaco
è, in molti casi, un mestiere che si tramanda
di padre in figlio. I «monaci»,
infatti, sono quasi tutti sposati e vivono
gestendo il tempio ereditato dalla
famiglia; i «monasteri» sono luoghi di
formazione dei giovani aspiranti, la
quale può durare da pochi mesi, per i
laureati in una università buddista, a
due anni per chi ha un titolo di studio
inferiore.

CRISTIANESIMO IN GIAPPONE
La prima evangelizzazione del Giappone risale alla metà del 1500, con l’arrivo
di san Francesco Saverio e altri gesuiti. Il cristianesimo conobbe subito una
rapida espansione, con centinaia di migliaia di battezzati, tra cui molti nobili e
signori locali. Ma alla fine di quel secolo sorse il timore che la diffusione del cristianesimo
potesse favorire propositi di conquista del paese da parte delle grandi
potenze cattoliche dell’epoca, Spagna e Portogallo. Iniziò, quindi, un’epoca di
tremende persecuzioni, con torture e crocifissioni di massa. Uno degli episodi più
noti ha per protagonisti san Paolo Miki e 25 compagni, religiosi e laici, crocifissi
a Nagasaki il 5 febbraio 1597.
L’apice della persecuzione fu raggiunta nel 1637: 37.000 contadini, in gran
parte cristiani, furono massacrati nella fortezza di Shimabara per essersi ribellati
alle vessazioni dei feudatari locali.
Per più di 200 anni l’intero paese rimase isolato dal resto del mondo, ma i cristiani
scampati alle persecuzioni conservarono di nascosto la propria fede.
Dopo l’apertura forzata dei porti del Giappone nel 1853, a Nagasaki si formarono
alcune comunità di europei e i francesi costruirono una cappella. Nel 1865,
un gruppo di «cristiani nascosti», riconosciuti i simboli della propria fede, si presentò
al sacerdote e si venne così a sapere dell’esistenza di queste antiche comunità
cristiane. La chiesetta fu ribattezzata «chiesa del ritrovamento» ed è uno dei
pochissimi edifici di Nagasaki sopravvissuti alla bomba atomica.
Gli editti contro il cristianesimo, però, erano ancora in vigore e, dal 1867 al
1873, i cristiani dovettero subire una nuova persecuzione con imprigionamenti e
deportazioni. Solo nel 1889, con la promulgazione della nuova costituzione, fu
garantita la libertà di culto.
Oggi il cristianesimo gode piena libertà, ma vari problemi ne impediscono l’espansione.
Prima di tutto l’idea che si tratti di una religione occidentale e,
come tale, estranea. Lo stesso buddismo, prima di essere completamente accettato,
ha impiegato secoli e subito un processo di «giapponesizzazione».
In secondo luogo il cristianesimo, anche dal punto di vista storico e culturale, è
quasi sconosciuto. Meno dell’1% della popolazione è cristiana e i libri di scuola
dicono pochissimo dell’evangelizzazione del XVI secolo. La chiesa cattolica è
conosciuta come ente filantropico, che gestisce scuole e ospedali. L’aspetto propriamente
religioso e spirituale è quasi ignorato.
Tra le difficoltà maggiori ci sono alcune peculiarità culturali. Per esempio, i giapponesi
privilegiano un tipo di pensiero concreto, rispetto a quello astratto a noi
familiare. Soprattutto non esiste l’idea del peccato come è inteso nel cristianesimo:
l’etica giapponese non è fondata sull’obbedienza a una legge morale, ma
piuttosto sul rispetto di un complesso sistema di convenzioni sociali. In altre parole,
il male non è violare un comandamento di Dio, ma rompere l’armonia all’interno
del gruppo d’appartenenza.
Infine, il processo di secolarizzazione e, in certa misura, una vera e propria decadenza
sta portando la
società giapponese all’indifferenza
verso i valori
spirituali, anche quelli
insiti nelle religioni tradizionali,
come il buddismo
e lo shintornismo. La
grave recessione economica
di questi anni sta
modificando molti aspetti
della vita sociale, dal
mondo del lavoro a quello
della scuola, per avvicinare
il paese al modello
occidentale, facendo così
crescere individualismo e
competizione.

Fabio Limonta




Se acquisti il cellulare…

Cari missionari,
è proprio vero quel che ha
scritto SILVIA BATTAGLIA a
proposito dei mobilieri italiani
e dello sfruttamento
non sostenibile delle
foreste tropicali (Missioni
Consolata, marzo 2002).
Nonostante le numerose
iniziative, tese a rassicurare
i consumatori più
sensibili, i bulldozer continuano
a farsi beffe di
tutte le raccomandazioni
delle Ong e di tutti gli appelli
del papa (ribaditi
con particolare intensità
in occasione della Giornata
giubilare del mondo
agricolo) contro la deforestazione
e la desertificazione.
Nonostante sia ampiamente
risaputo che lo
sfruttamento sostenibile,
alla lunga, è più produttivo
anche da un punto di
vista economico (non è
forse l’industria farmaceutica
a premere perché le
specie vegetali e animali
delle giungle tropicali non
scompaiano prima ancora
di essere state scoperte e
non si portino nella tomba
segreti chimici che potrebbero
essere utilizzati
per la messa a punto di
nuovi farmaci?), le compagnie
del legname continuano
imperterrite nei loro
programmi di annientamento
della natura nel
nome del progresso, nel
nome della competitività,
nel nome dell’impegno
per la creazione degli ormai
leggendari nuovi posti
di lavoro.
Quando l’intervento
delle compagnie avviene
in concertazione con bande
criminali e centri di
potere occulto, che controllano
l’estrazione e il
commercio di diamanti,
oro, uranio e coltan (la
pregiata combinazione di
tantalite e colombite che i
produttori di telefonini e
personal computer considerano
una materia prima
assolutamente indispensabile),
allora anche il termine
«deforestazione» diventa
un eufemismo: la
foresta subisce un vero e
proprio sventramento.
Se sono veri i dati diffusi
dall’associazione britannica
Global Witness, i nostri
connazionali che operano
nel settore
dell’arredamento danno
un contributo tutt’altro
che trascurabile alla spirale
della violenza e della
guerra, all’escalation della
corruzione, alla crescita
del degrado ambientale e
sociale in paesi come Liberia,
Congo (R.D.), Camerun.
L’Italia figura al 5° posto
nella classifica delle
nazioni che approfittano
della tragedia della guerra
civile in Liberia per importare,
a prezzo stracciato,
legname di primissima
qualità; e, checché ne dica
Mondo Legno (la rivista
dei mobilieri italiani), partecipa
in maniera significativa
alla desertificazione
del Camerun, dove, nel
90% dei casi, le operazioni
di taglio vengono effettuate
in modo illegale.
Quando allestiscono saloni
del mobile, esposizioni
di nuovi modelli di
telefonini e personal computer,
mostre di oro, perle
e diamanti, i nostri imprenditori,
managers e
mecenati vari non si sognano
neppure lontanamente
di dire una parola
sulle tragedie ecologiche
e umanitarie che hanno
reso possibile un nuovo
«24 carati», la fabbricazione
di un arredo sofisticato
e la realizzazione di
un cellulare della III o IV
generazione…

«Negli ultimi spazi verdi
dell’Africa occidentale
e centrale – scrive ancora
il dottor Rondina – vivono
alcune minoranze etniche,
uomini e donne di
piccola statura. Li abbiamo
sempre chiamati
“pigmei”, ma in realtà sono
dei “giganti” quanto a
conoscenza di piante e animali
(non a caso gli antropologi
li considerano
vere biblioteche viventi).
Per i pigmei la foresta
è acqua, cibo, riparo, casa.
Ricordiamocelo
quando, per abbellire la
nostra casa, ci viene voglia
di ordinare un nuovo
parquet, una nuova
cucina, una nuova camera
da letto. O, per paura
di “rimanere indietro”,
sentiamo l’impulso di
comprare un altro cellulare
o un altro personal
computer».

Francesco Rondina




Lettere

Daniela e la nonna
Caro direttore,
nel torpore della stampa cattolica sui temi ecologici, resto positivamente stupita di Missioni Consolata. Ho letto infatti sul suo sito internet il diario del Vertice di Johannesburg Rio+10 su «lo sviluppo sostenibile».
Una considerazione: è stato un bluff. Il vostro inviato lo ha scoperto lentamente: all’inizio egli era sospettoso verso i rappresentanti del Controvertice, ritenuti «pacifisti»; poi ne ha riportato i lavori. I pacifisti sono stati gli unici a dire qualcosa di serio; e, se qualcuno sperava che arrivasse il black block a spaccare tutto (e coprire il disastro dei lavori ufficiali), è rimasto deluso.
Sono contenta che affrontiate il tema «ambiente» in modo esaustivo. La bibbia in questo è profetica e ha anticipato quanto sta succedendo oggi.
Sono una studentessa di biologia, credente, con gli occhi aperti sulla realtà. La cultura scientifica, unita alla fede, mi obbliga a riflettere su quanto sta accadendo. Siamo tutti figli di Dio: Egli ci dà la possibilità di dominare il creato, ma non di distruggerlo. Invece, stiamo rovinando il piano divino.
Leggo Missioni Consolata da mia nonna: le rubo la rivista, anche perché lei si rifiuta di leggerla e minaccia di disdire l’abbonamento. Ho notato un inasprirsi della vis polemica contro la vostra linea editoriale, che io condivido. Non mollate!
Il vero cristiano ha la misericordia in cuore, è aperto di spirito, ma necessita sempre di stimoli per cogliere la verità. Una promessa: se la nonna straccerà l’abbonamento, il mio ragazzo ed io prenderemo il suo posto!
Daniela (via e-mail)


Daniela, convinci la nonna a leggere la rivista e… «voi due» abbonatevi (bastano 22 euro). Missioni Consolata è «la rivista missionaria della famiglia»; ma è tale, se viene letta da nonni e nipoti, genitori e figli, pur con idee diverse. E guai se non ci fossero! Nel caso contrario, i lettori sarebbero «già tutti allineati». Allora, addio pluralismo! E la rivista sarebbe inutile.
Il diario del Vertice di Johannesburg è stato curato da padre Rocco Marra, missionario in Sudafrica, ed è apparso su www.missioniconsolata.it, il sito della rivista.

La Mole antonelliana «violentata»
Cari missionari,
i miei 72 anni non mi permettono di essere superficiale. Vi esprimo un grazie e tanta stima.
Poiché voi, missionari, siete anche uomini, potete accettare un consiglio: quando trattate i diritti umani, riflettete bene prima di scrivere. Ci vuole rispetto pure per il corpo (che è «tempio»), specie se si accenna al sesso femminile.
Ndr: l’autrice allude al tema «scabroso» dell’infibulazione (cfr. Missioni Consolata, maggio 2002).
Nessuno di noi si presenterebbe in Piazza Duomo in bichini o con il cappotto sulla spiaggia. Ogni cosa va fatta bene, secondo il tempo e il luogo.
Affronto pure il tema «discariche». È un problema grande e attuale, specie nelle grandi città. Ne sappiamo qualcosa mio marito ed io, che lavoriamo nei servizi ambientali. Tutti i giorni siamo sommersi dalle «monnezze» di Milano.

Ma, chissà perché, Missioni Consolata di settembre ha «violentato» la Mole antonelliana… con una massa di rifiuti. La colpa è dell’uomo… Io, al posto della Mole (sommersa da rifiuti), avrei messo un individuo nudo, con la barba lunga che lo copre e un pancione pieno di ogni ben di Dio (il ricco epulone del 2002); e gli avrei affiancato un piccolo individuo, magro come uno spaventapasseri, con in mano un bicchiere di plastica, che chiede l’elemosina…

Occorre un’educazione a monte delle persone: in famiglia, nelle scuole, negli ambienti civili e religiosi; se necessario, con cartelloni «non imbrattare», «non sputare», «non bestemmiare»… (come ai tempi del Duce).

In Germania, oltre 20 anni fa, mi colpirono le strade pulite: i tedeschi riciclavano (già allora) i rifiuti. Inoltre mi stupirono i quadei degli scolari, dove si leggeva pure: «Non compriamo la fettina di vitello, ma continuiamo a mangiare carne di maiale! I vitelli alleviamoli per gli italiani, abituati a spendere i loro pochi soldi in modo diverso da noi».

Altri consigli: a scuola sostituire le «merendine» con un frutto; non usare sacchetti di plastica per la spesa, ma di stoffa; esigere bottiglie di vetro per l’acqua minerale…

Coraggio, amici, e uniamoci in queste lotte! I vantaggi si vedranno domani. Se questa lettera, non è degna di pubblicazione, leggetela almeno a tavola. Forse servirà per un commento o una risata.
Cherubina Lorusso Milano


L’idea della Mole antonelliana, «violentata» da rifiuti, è della Provincia di Torino per stimolare, con un’immagine ad effetto, la riduzione delle discariche e incoraggiare la raccolta differenziata.
Compare anche la domanda: «Secondo voi, cosa manca a questa pubblicità per essere perfetta?». Forse mancano proprio «un epulone» e «tanti lazzaro» spaventapasseri.

Infibulazione e diritti umani
Spettabile redazione,
chiarisco quanto ho detto sull’infibulazione (Missioni Consolata, maggio 2002).
La rabbia ci porta a rispondere che «l’infibulazione è affare nostro», specie quando l’occidente si avvale del potere o diritto di togliere usi e costumi di altri popoli. È risaputo inoltre che il mondo occidentale, ricco e opulento, non ha fatto quasi niente per aiutare i popoli a risolvere i problemi più gravi: povertà, sanità, scuola…

L’occidente tira fuori in ogni occasione l’infibulazione, chiedendo la sua abolizione. Non sarà l’ennesimo pretesto per lavarsi la coscienza di fronte a quanto non ha fatto e continua a non fare al cospetto delle gravi condizioni economiche dei popoli?

Si può non condividere l’infibulazione, ma nessuno deve ritenere che sia un vero problema per i popoli interessati. L’eventuale decisione di abolirla spetta alle donne: esse decideranno solo dopo aver avuto la possibilità di accedere all’istruzione scolastica e sanitaria. In secondo luogo: bisogna educare gli uomini a frenare i loro impulsi bestiali.

Ma che dire dell’Italia (che si ritiene evoluta, emancipata e rispettosa delle leggi e dei diritti umani), quando mette in discussione la violenza sessuale subita dalla donna… solo perché la vittima indossa i jeans?

Alia Sharif Aghil Torino


Dal 1948 vige la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», oggi sottoscritta da tanti paesi sia occidentali che orientali. Se l’infibulazione ne è una violazione (come, ad esempio, hanno dichiarato la Convenzione dell’Onu sui diritti dei bambini nel 1989 e l’Unicef nel 1996), la pratica va abolita: certamente con il ruolo protagonista delle donne.

«Due terre, una missione»
Cari missionari,
ho conosciuto Luigi Santa, vescovo di Rimini, in occasione dello «spostamento» della chiesa parrocchiale, distrutta dalla seconda guerra mondiale, dal colle di San Patrignano alla borgata di Ospedaletto. Egli, nei primi anni ’50, si portò sul luogo, osservò con attenzione e, dopo una breve riflessione, disse: «Qui sorgerà la nuova chiesa». La decisione, a distanza di anni, si dimostrò lungimirante… Per me mons. Santa fu una figura patea straordinaria.
Grazie, pertanto, del graditissimo libro che ne illustra la vita prima come missionario della Consolata e poi come vescovo.

Dalla scrittura tremolante capite che devo essere molto vecchio: infatti ho 92 anni. E si vedono!

Don Martino Vari Ospedaletto (RN)


Il libro di cui parla don Martino è del giornalista Angelo Montanati; è intitolato Due terre, una missione, Emi, Bologna 2002. Le «due terre» sono l’Etiopia, dove Luigi Santa fu missionario e vescovo dal 1923 al 1943, e la diocesi di Rimini.
Il volume è acquistabile presso la libreria «Missioni Consolata»
(tel 011/447.66.95;
e-mail: libmisco@tin.it).

Una chiesa da 8 milioni di euro
Caro direttore,
che pensare di una nuova chiesa a Modena da 8 milioni di euro? È un’opera santa o un’offesa all’evangelica opzione per i poveri?

«Se il cibo prodotto nel mondo fosse diviso equamente, tutti potrebbero consumare 2.760 chilocalorie al giorno» ha dichiarato Jacques Diouf, direttore della FAO. La diseguaglianza distributiva fa sì che, pur avendo abbastanza cibo per sfamare tutti, 800 milioni di persone sono alla fame. Di fronte a tale realtà, in Italia c’è chi pensa ugualmente di avere diritto a strutture plurimiliardarie.

La chiesa è chiamata ad una riflessione critica: non elemosina, ma condivisione… «Spezza il tuo pane con l’affamato» (Is 58, 7). «Se un fratello o una sorella sono nudi e hanno bisogno del pane quotidiano e uno di voi dice “andate in pace, riscaldatevi e nutritevi” senza dar loro il necessario, a che giova?» (Gc 2, 15 ss)…

«Gesù prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, li benedisse, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e portarono via 12 ceste piene dei pezzi avanzati» (Mt 14, 19-20). Con questo testo si ricorda il miracolo della moltiplicazione dei pani. In realtà è il miracolo della «condivisione». Gesù rifiuta di congedare la folla, ne sente compassione e… spezza i pani, invita i discepoli a distribuirli a tutti: è la condivisione che opera il miracolo, cui siamo chiamati a credere.

Una volta superato l’egoismo (pensare a noi per primi), avviene il miracolo: non solo tutti mangiano, ma portano via anche 12 ceste di pane avanzato. Vangelo è pure questo: il superfluo non deve essere frutto dell’egoismo, ma della generosità di Dio.

«Modena Amica dei Bambini Onlus» Modena


La domanda iniziale, più che rivolta a noi (che, ignari della situazione locale, non possiamo rispondere), coinvolge i fedeli della diocesi di Modena (e non solo), che hanno il «polso» della scena e del retroscena.

Dante consiglia…
Caro direttore,
riferendomi ai giudizi avventati e ai consigli non richiesti, rivolti a lei e ai redattori della rivista, mi vengono in mente i versi di Dante: «Or tu che se’ che vuo’ sedere a scranna/
per giuducar di lungi mille miglia/
con la veduta corta
d’una spanna?»
(«Paradiso», XIX, 79).
Lettera firmata Torino


Ottima citazione. Però il consiglio, dono dello Spirito Santo, è sempre gradito.

«Multirazziale» o «multietnico»?
Caro direttore,
complimenti per Missioni Consolata, sempre più bella. Nel numero di settembre è stato interessantissimo il «Diario di un extracomunitario».
Però sono pignolo e faccio due piccole contestazioni linguistiche (il linguaggio tuttavia è importante, specialmente nei titoli). La prima: essendo Snezana Petrovic una donna, ritengo che il titolo della sua rubrica andrebbe modificato in «Diario di “un’extracomunitaria”».

La seconda contestazione è più profonda: scrivere «Italia multirazziale» fa pensare che nel nostro paese esistano tante razze; invece oggi nessuno scienziato serio lo sostiene, anche perché si rischia di cadere nel «razzismo».

Dunque: il termine «multirazziale» andrebbe sostituito con «multietnica». Non vi pare?

Daniele Barbieri Imola (BO)

Sì, ci pare. Infatti gli uomini e le donne del pianeta appartengono, sì, a «popoli diversi», ma costituiscono «un’unica razza»: quella umana.

Nonostante la caduta del muro
Egregio direttore,
la lettera del signor Francesco Rondina (Missioni Consolata, luglio/agosto 2002) lascia perplessi.

L’argomentare dello scrivente ignora la storia degli ultimi 15 anni. È caduto il muro di Berlino e il socialismo reale. Il comunismo è stato così disastroso per l’Europa dell’Est (e per i popoli sovietici) che la pressione popolare di quei paesi ha rovesciato i governi locali. In 45 anni, mentre il resto dell’Europa progrediva economicamente e democraticamente, il comunismo teneva i popoli dell’Est in miseria e sotto governi autoritari e feroci.

Il signor Rondina non ha letto bene Marx, strenuamente avverso alla religione, ritenuta «oppio dei popoli». Inoltre il lettore sembra ignorare che, quando un’utopia filosofica si rivela fonte di miseria, despotismo, massacri, il giudizio è drastico: il marxismo è tutto intrinsecamente errato.

Ma ciò che lascia più perplessi è l’argomentare confuso del signor Rondina, che sembra riecheggiare il terzomondismo, utopie sociali comunistiche e altro ancora. Non si possono affrontare argomenti seri (come gli attuali problemi economico-sociali) con vaghezza e frasi fatte. Perché giudizi così negativi sul riformismo? Nell’Europa dell’Ovest, durante gli ultimi 50 anni, si è rivelato fonte di progresso socio-economico?

O il signor Rondina nega che oggi, in Europa, si sta meglio (sotto tutti i punti di vista) di come si stava subito dopo la seconda guerra mondiale?

Silvia Novarese Torino


Il dottor Francesco Rondina non nutre alcuna simpatia verso un comunismo oppressore, materialista e ateo…

Buon natale
Leggo con interesse la corrispondenza con i lettori della rivista (prima non lo facevo) e ammiro il direttore che pubblica le lettere denigratorie. Missioni Consolata è straordinaria per contenuti e foto. Buon natale.

p. Luigi Duravia Colombia

Croci d’oro di vescovi e… Marylin Monroe
Ho riflettuto su «Crocifissi con diamanti» di Missioni Consolata di luglio/agosto 2002. La giusta conclusione è che tali crocifissi non sono secondo lo spirito del vangelo. E si porta l’esempio del cardinale Van Thuan, che aveva una croce pettorale di legno e ferro, che egli stesso si costruì durante la dura prigionia in Vietnam durante il comunismo.

Come cristiano (pur con difetti e contraddizioni), pongo una domanda: è coerente la chiesa quando offre a tutti i prelati, vescovi e cardinali, sontuosamente vestiti, croci d’oro e anelli con diamanti?… Parlai di tale sfarzo con un dottore della chiesa, che mi rispose: «Se lei fosse invitato dal suo principale, non si presenterebbe ben vestito?». Certo che sì!

Io però non pretendo che il clero vada stracciato; tuttavia una maggiore sobrietà non farebbe male. «I preti ci insegnano povertà e carità, e guarda loro come sono agghindati!»: è una critica che si sente.

Un’altra cosa: in chiesa non sopporto di trovare ceri da 50 centesimi e ceroni da… 5-10 euro! Dio farà forse la grazia più grande in proporzione alla misura delle candele? Queste lasciamole vendere alle baracche fuori! Ma in chiesa ognuno faccia l’elemosina che si sente e si può permettere. Mi pare, invece, che si mercanteggi un po’ troppo. Ora si sta persino arrivando al pagamento per entrare in certe chiese…

Gaetano Covezzi – Ferrara

«Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando è nudo. Non rendergli onore nel tempio con stoffe di seta per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità. A che serve che la tavola eucaristica sia carica di calici d’oro, quando lui muore di fame? Comincia a saziare lui affamato e poi, con quello che resta, potrai oare il suo altare…»: parole di san Giovanni Crisostomo (347-407).
Né si scordi Paolo VI che offre il triregno d’oro ai poveri. Lo stesso papa, al termine del Concilio ecumenico Vaticano II, dona a tutti i partecipanti «un anello semplicissimo». Ma non tutti hanno capito la lezione.

Oggi vescovi e cardinali hanno sostituito le croci d’oro e diamanti con altre più modeste. Ma dove sono finite quelle vecchie? Non tutte sono andate ai no global e non consumisti, ma sono ben custodite in robusti forzieri, insieme ai tesori della chiesa.
Certamente non pubblicherete questa nota.
Lettera anonima

Essendo anonima, potremmo non pubblicarla!… S. Ambrogio, morto nel 397, disse: «Se la chiesa ha oro, non è per custodirlo, ma per darlo a chi ne ha bisogno». E Giovanni Paolo II: «Potrebbe essere necessario alienare i beni (preziosi) per dare pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo».

Ho letto «Crocifissi con diamanti» nei giorni in cui tivù e tantissimi giornali (anche «socialmente» impegnati) facevano a gara a chi dava più spazio al 40° della morte di Marylin Monroe, riconosciuta da tanti come «l’unico vero mito americano del XX secolo».
In un film Marylin canta: «I diamanti sono i veri amici delle ragazze»; e in tantissime foto diamanti e perle sono i protagonisti. Sono questi (non occorre essere esperti di comunicazione per capirlo) il vero obiettivo del comunicatore.
In altre parole: dopo essere stata da viva (spesso suo malgrado) al centro di intrighi, la Monroe continua ad essere usata anche da morta, alla faccia delle più elementari norme di buon gusto. Moltissime persone si sono lasciate persuadere che Marylin non era semplicemente una bella donna, ma «la» bellezza; non un’attrice di cinema, ma «il» cinema; non una persona elegante, ma «l»’eleganza.

Occorre ricordare a tutti che la costruzione di miti del genere ha costi elevatissimi, sia per chi li incarna sia per chi vive nelle terre che hanno fornito la materia prima per la realizzazione di collier, braccialetti, anelli o (come ha mostrato anche Missioni Consolata) di certi crocifissi.

l – Non è vero che «i diamanti sono i migliori amici». Il diamante (ma anche oro, platino, ferro, ecc.) appartiene al regno delle cose inanimate: a differenza di uomini, animali e piante, non ha alcuna capacità di relazione: men che meno di stabilire un’amicizia con chicchessia. Può far piacere vedere un diamante o riceverlo in dono, ma l’affetto eccessivo ad esso nuoce alla crescita dell’uomo e del cristiano di entrambi i sessi. Anche quando il diamante viene appiccicato a un crocifisso.

2 – La mania dei diamanti è tanto più intollerabile quanto più tragici sono i conflitti che, ad esempio, in alcuni paesi africani si scatenano tra le bande che si contendono il controllo delle regioni diamantifere. Chi ama, compra o accetta preziosi dovrebbe, innanzitutto, valutare l’impatto che il prelievo della loro materia prima ha avuto sul rapporto tra esseri umani e su quello uomo-natura in una montagna dell’Afghanistan, in una foresta del Congo o in uno sperduto angolo del bacino amazzonico.

3 – Per una «venere» europea o americana che diventa star del cinema ci sono centinaia di «veneri spezzate» (donne molto belle, che perdono occhi, gambe e braccia) a causa di mine e guerre, alimentate dal commercio internazionale dei diamanti: lo ricordava anni fa Carla Peruzzo di Medici senza frontiere. In Angola un immenso patrimonio di bellezza femminile se ne va, perché in Italia, Francia, Stati Uniti… donne già belle e imbottite di giornielli vogliono diventare ancora più attraenti e uomini già sposati si mettono in testa che, regalando perle e pellicce, possono «conquistare» altre donne belle.

4 – Bene ha fatto A. Piersanti a contrapporre i crocifissi di Jennifer Aniston e Naomi Campbell, tempestati di oro e platino, a quello umilissimo di mons. Van Thuan, uomo-simbolo della cristianità vietnamita, dilaniata dalla guerra e poi oppressa da un regime materialista, opportunista e ateo. Il Vietnam è uno dei paesi più indebitati del mondo; per pagare il debito, sta svendendo il suo patrimonio naturale, anche perché, nel Sudest asiatico, non si tiene in debito conto la «questione estetica».

Se continuerà a imperare l’idea che i giornielli di una diva sono belli e ricchi, mentre le foreste del Vietnam (con animali e piante fantastici che rischiano di estinguersi) sono brutte e possono essere rimpiazzate da piantagioni di caffè (per mantenere il Vietnam su elevati livelli di competitività, «stracciando» la concorrenza di altri paesi, altrettanto indebitati), significa che non abbiamo capito che cos’è la bellezza.

Un capo indigeno messicano, nel giubileo del 2000, ha detto che il suo paese è in credito con il colonialismo di 185 tonnellate d’oro e 16.000 d’argento, elevate alla potenza di 300 (cfr. Missioni Consolata, maggio 2001): e ha ragione. Ma è altrettanto vero che il debito estetico (che epuloni, spreconi e celebratori di giubilei hanno contratto con la moltitudine di giubilati e diseredati) è incalcolabile nel senso matematico del termine. Vi sono pubblicazioni e libri che lo provano: per esempio il rapporto Nunca mas, Emi, Bologna 1986.

Maria Weistroffer – Bordeaux (Francia)

Ci scusiamo con la signora Maria per aver sunteggiato la sua lettera, come pure quelle di altri lettori. Cari amici, poiché lo spazio è tiranno, aiutateci con interventi più concisi. Grazie.

AAVV




MOZAMBICO: un cammino di pace che dura da dieci anni

UNA DOMENICA AL MARE, E NON SOLO
Dopo 16 anni di guerra civile, il paese ha imboccato la via della pace. Una pace operosa, che dura da un decennio, sia pure con qualche «sbandamento».
Non è un risultato di poco conto in Africa…
Su questo ed altro interviene un missionario della Consolata

Maputo, ore 7,30. L’aria nella capitale del Mozambico è frizzante. Sul cielo terso resiste ancora un quarto di luna calante: appare con un’esile sagoma in negativo bianco su un fondo azzurro intenso.

È domenica, e sto per andare in chiesa. «Prendi anche la macchina fotografica – mi ricorda padre Manuel Tavares (*) -, perché ci sarà una messa speciale». Una messa non in chiesa però, bensì nella cappella di un imponente liceo.

All’epoca del colonialismo portoghese l’istituto scolastico era retto con successo dai Fratelli maristi, religiosi. Dopo l’indipendenza del Mozambico (1975), come altre opere missionarie, la struttura venne nazionalizzata dalla Frelimo, il partito unico al potere di rigida fede marxista: e la cappella fu trasformata in magazzino. Dal 1978, nella guerra civile tra Frelimo e Renamo (il partito di opposizione clandestina), il liceo è divenuto un triste simbolo del paese, abbandonato al degrado, alla disperazione.

Con la pace è riaffiorata la speranza. E la cappella del liceo è ritornata ad essere «casa di preghiera». Questa mattina festeggia 10 anni di vita nuova, mentre in tutta la nazione si celebra il 10° anniversario degli accordi di pace, siglati a Roma il 4 ottobre 1992 presso la Comunità di sant’Egidio.

La celebrazione è davvero «speciale», con canti possenti e danze fantasiose al ritmo di tamburi e nacchere. Le parole più ricorrenti sono «fede giorniosa, speranza incrollabile, carità generosa». Non un accenno agli scontri armati, terribili, tra gli allora «comunisti al potere» e i «banditi dell’opposizione», alle tragedie subite e inferte. Forse perché entrambi i «nemici» sono ora in… ginocchio.

Mentre scatto le ultime foto della processione finale, mi vengono in mente due versi del poeta swahili Robert Shaaban:

«Ricordare è un dovere, dimenticare è un sollievo».

Durante il pranzo

Nel rincasare a piedi, mi perdo. Finisco in Avenida O Chi Ming ed anche in Avenida Mao Tze Tung. Finalmente (dopo qualche richiesta di informazioni) incrocio l’Avenida 24 de Julho, dove al numero 496 risiedono i missionari della Consolata. Padre Manuel Tavares mi accoglie con una smagliante risata di comprensione e, guardando l’orologio (sono le 12 abbondanti), mi invita subito a pranzo.

Le vie della capitale dedicate a O Chi Ming e Mao Tze Tung ricordano il recente passato marxista-leninista del paese. Però, come mai non è stato cambiato il nome coloniale 24 de Julho? «Forse perché questa data non significa niente per nessuno» risponde padre Manuel con un briciolo di ironia. Intanto mi scodella un saporito minestrone di verdura.

Portoghese, padre Tavares ha operato in Mozambico anche durante il colonialismo, non condividendo però le scelte della madre patria. Oggi analizza pure lo spirito missionario del tempo e afferma: «Durante il potere coloniale noi, portoghesi, ci sentivamo padroni. Anche altri missionari, di nazionalità diversa, difendevano il regime. C’era la convinzione di avere un messaggio assolutamente indiscutibile da portare alla gente; ci si riteneva salvatori del popolo, il quale doveva soltanto accettare le nostre parole per migliorare umanamente e spiritualmente. Questo era l’atteggiamento, sia pure inconscio, nel colonialismo. Poi…».

Poi è divampata la lotta al regime coloniale e il Mozambico ha raggiunto l’indipendenza. «Questi eventi sono serviti a purificare il nostro pensiero; hanno fatto rientrare in proporzioni più giuste anche l’azione missionaria».

Con l’indipendenza, tutto è mutato: il potere politico, ma anche quello ecclesiastico; prima i vescovi erano portoghesi, poi (dal mattino alla sera) quasi tutti mozambicani, e con una mentalità africana.

«Oggi la chiesa vuole essere sempre di più mozambicana. Questo esige da noi missionari un atteggiamento molto diverso rispetto al passato».

Se la lotta al colonialismo, l’indipendenza nazionale e il successivo regime marxista-leninista non fossero bastati a mettere in crisi il missionario, il colpo fatale gli è stato inferto da 16 anni di guerra civile… Al presente nella nazione è in atto «la costruzione della pace».

Padre Manuel, come sta sviluppandosi il processo? «Bene, pur nelle difficoltà. Mi riferisco, in particolare, alle elezioni del 2000, che sarebbero state vinte dal partito di opposizione Renamo. Ma la Frelimo avrebbe imbrogliato nella conta dei voti e così ha conservato il potere. Non sono mancate accuse; però, di colpo (data anche l’emergenza dell’alluvione), sono cessate. Il che fa supporre che la maggioranza abbia concesso qualcosa all’opposizione».

Cosa… non si sa.

Un altro scontro violento tra governo e opposizione si verificò l’anno scorso, allorché a Maputo una manifestazione di protesta della Renamo fu caricata dalla polizia, con un centinaio di vittime. E altrettanti furono i morti per asfissia in una prigione dello stato. Nemmeno su questo si saprà mai la verità.

Vi furono anche omicidi di singoli «eccellenti»: quello del giornalista Carlos Cardoso, per esempio; stava smascherando la corruzione, che alligna fra gli stessi politici… e pagò con la vita.

Eppure questi fatti gravi non hanno impedito a maggioranza e opposizione di dialogare, di accordarsi con taciti compromessi, certamente discutibili in una democrazia compiuta. In Mozambico, però, tutto è subordinato alla comune costruzione della pace, per la quale si sacrifica tutto. «E forse non a torto, specialmente se si ricordano (e tutti lo fanno) gli interminabili 16 anni di guerra civile, gli innumerevoli profughi, le immani distruzioni e oltre un milione di cadaveri straziati…».

Padre Manuel mormora le ultime parole sottovoce, come se parlasse a se stesso. Segue una pausa di silenzio. Di botto, quasi per un comune accordo, lasciamo il refettorio. Non ci dispiace una siesta. Fa caldo. L’aria fresca del mattino è un ricordo.

Sul Lungomare

Al risveglio, padre Manuel propone una passeggiata sul pittoresco lungomare del porto di Maputo. La conversazione continua seduti su una panchina del molo della città, lo sguardo sull’infinito.

Il missionario, pur essendo stato critico del regime coloniale del Portogallo, ha tuttavia sofferto per il patatrac politico della sua nazione. Subito dopo l’indipendenza, i bianchi in Mozambico hanno corso il pericolo di sommarie cacce all’uomo. Drammatica, tragica, è divenuta la situazione quando diversi missionari di varia nazionalità sono stati sequestrati, feriti, uccisi.

Oggi, padre Manuel, come ti senti quale portoghese? «Mi sento bene, perché l’attuale potere politico non fa discriminazioni. In Mozambico c’è un piccolo gruppo di bianchi che teme lo spauracchio del passato. In realtà c’è poco da temere; lo dimostra il fatto che alcuni portoghesi, costretti ad andarsene al tempo delle nazionalizzazioni, ora sono ritornati e fanno ottimi affari… Però noi missionari non dobbiamo dimenticare che siamo in casa d’altri. Come europei, vorremmo che il governo e la chiesa fossero diversi. Ma occorre fare i conti con la realtà. Bisogna rispettare le sensibilità culturali locali e lo stile africano».

«Stile africano» anche fra gli stessi missionari della Consolata, che ormai sono anche kenyani e congolesi, brasiliani e colombiani. Questo genera problemi d’intesa?

«Non vedo in Mozambico grossi problemi al riguardo, a parte qualche caso particolare, che però interessa anche i missionari europei. La diversità culturale è sicuramente un arricchimento per la missione, o può diventarlo».

Si dice che il missionario europeo prediliga le opere sociali (centri sanitari, scuole, ecc.), mentre quello africano o latinoamericano si dà alla pastorale pura…

«Non esageriamo!… C’è un missionario italiano dedito esclusivamente alla pastorale, come vi sono missionari africani e latinoamericani assai impegnati nel sociale: dipende dai progetti e dai mezzi che dispongono per realizzarli. Ritengo che dobbiamo condividere fra tutti noi (europei e non europei) anche le iniziative di promozione umana. Quando l’abbiamo fatto, i risultati sono stati ottimi».

Come vengono accolte dalla popolazione gli aiuti stranieri? Favoriscono l’intraprendenza del mozambicano o lo relegano nella passività del mendicante?

«Il popolo mozambicano non ha ancora preso in mano le sorti del proprio sviluppo. Questo è un grave problema, perché obbliga ancora il paese a dipendere dall’estero. D’altro canto il Mozambico, talora, è costretto a fronteggiare improvvise emergenze (come l’alluvione di due anni fa o la siccità di quest’anno), che ritardano lo sviluppo di decenni: in questi casi gli aiuti estei sono necessari».

Pertanto è necessario trovare un equilibrio tra il «facciamo da soli» e il «tendiamo la mano ad altri», puntando però con maggiore forza sulla prima strategia. Dopo la guerra, per circa due anni il paese è sopravvissuto grazie solo agli aiuti esteri; ma quando la gente è ritornata a lavorare, tutto è rifiorito e si è raggiunta persino l’autonomia alimentare. Peccato che, nel 2000, sia arrivata quella tremenda alluvione!

«Occorre anche lavorare con un occhio rivolto a possibili catastrofi, immagazzinando scorte alimentari in silos: questo i missionari l’hanno sempre fatto. Oltre a scongiurare la fame, tale azione preventiva frena i prezzi degli alimenti, che salgono alle stelle nelle emergenze…».

Abbandoniamo la panchina del molo. Camminiamo scortati da una maestoso filare di palme, accarezzate da una dolce brezza. Al cospetto di un bar, entriamo senza esitare: una bibita ci sta bene. Non c’è anima viva nel modesto locale. Forse proprio per questo mi lascio andare ad una domanda indiscreta: «Manuel, si dice che tu sia un vescovo mancato; o hai ancora una possibilità?».

La risposta dell’interlocutore è una risata così sonora da attirare la curiosità dello stesso barista… che ride divertito anche lui senza sapere la ragione. «Se devo essere schietto – commenta tosto il missionario -, le calze rosse dei vescovi non mi sono mai piaciute. La mia preoccupazione è stata sempre un’altra».

E cioè? «Lavorare senza protagonismi, sentirci tutti fratelli. Ciò che conta non è quanto facciamo, ma lo spirito con cui lo facciamo…». Scuote la testa padre Manuel. Un raggio di sole ne illumina il volto, mentre dichiara quasi con solennità: «Eppoi, mio caro, l’era dei vescovi stranieri è tramontata per sempre!».

Sta tramontando anche il sole sull’Oceano Indiano. Sprazzi di luce morbida vivacizzano le onde increspate dalla brezza, e dilatano l’orizzonte.

Ci avviamo in auto al 496 dell’Avenida 24 de Julho. Lungo le vie O Chi Ming e Mao Tze Tung sono ancora attivi i mercatini… Due giorni fa, nella città di Beira, mi aggiravo incuriosito tra le chiassose bancarelle di un «mercato informale». Mi è piaciuto molto il suo nome Chunga moyo, ossia «fatti coraggio».

«Chunga moyo» è stato anche il tacito programma del popolo mozambicano nel trascorso decennio, dopo la guerra. E lo sarà ancora.

Francesco Beardi




Il mondo del «non profit»

Cari missionari,
esiste un mondo, dove si
lavora in sordina, senza
pretendere «posti al sole»,
un mondo criticato da chi
non lo conosce ed elogiato
da chi vi opera. Un «mondo
sommerso», che tuttavia
sostiene l’economia
vera con ideali veri, come
quello del «non profit».
È il mondo delle cornoperative
e dei consorzi sociali,
che si inseriscono nel lavoro
dei «grandi» con
«pietre scartate» dal «sistema
». È il mondo di chi
affronta i problemi senza
puntare esclusivamente al
tornaconto personale e investe
tempo come pochi
altri. È il mondo anche dei
«disgraziati»: carcerati,
handicappati, drogati, sieropositivi.
Comunità, cornoperative e
consorzi sociali stanno lavorando
con buoni esiti e
con persone qualificate,
che sentono il lavoro come
vocazione, e non solo
come fonte di guadagno.
Come sono strutturate
queste realtà? Le comunità-
alloggio offrono un
supporto psico-educativo
e un lavoro nella stessa comunità
(tui di pulizia, di
cucina e interventi specifici
di sostentamento). Le
cornoperative e i consorzi,
oltre al supporto educativo,
offrono un lavoro secondo
la specializzazione
professionale di chi vi opera
(si va dal settore agricolo
a quello informatico).
Economicamente come
sono gestite? Da convenzioni
regionali o comunali,
ma soprattutto si reggono
su lavori che gli utenti
del gruppo svolgono: lavori
scartati dal «nostro
mondo lavorativo», perché
umili, poco rimunerativi;
lavori che non si offrono
a nessuno, perché
troppo costosi per aziende
professionalmente preparate.
Tuttavia se un datore di
lavoro, quando la mano
d’opera è costosa, la cerca
in una cornoperativa sociale…
può anche trovarsi
soddisfatto.
Terminando l’anno in
attivo, s’investe una parte
dell’utile per migliorare la
comunità o cornoperativa
(strumenti tecnici più modei
per rendere il lavoro
meno faticoso, oppure educatori
laureati in scienze
dell’educazione, che seguono
gli utenti).
I direttori di questo
mondo, se prendono il loro
lavoro come una vocazione,
possono scoprire
nuovi orizzonti e nuove
mete da raggiungere. Allora
sì che si fa qualcosa di
socialmente utile…
Oggi tutti lamentano uno
stress, la malattia della
presente civiltà meccanica.
Già negli anni Cinquanta
esisteva una bevanda pubblicizzata
come il rimedio
«contro il logorio della vita
modea».
Nel lessico quotidiano
lo stress ha assunto una
connotazione generica;
più che ad una malattia,
allude ad una disposizione,
che con varie sfumature
passa dal «viola» del
soggetto (un po’ nervoso)
al «nero» del «malato»
(chiuso nel cerchio della
sofferenza).
Viviamo tempi che mettono
a dura prova l’animo
di tutti. I motivi per alzarsi
dal letto la mattina diventano
sempre più difficili
da intrecciare; il senso
del dovere (che in passato
agiva da farmaco), sembra
essersi perso, lasciando il
posto ad un’«autorealizzazione
» di cui tutti parlano,
ma che nessuno sa esattamente
mostrare.
Non intendo fare l’apologia
del mondo sotterraneo:
anche in questo, infatti,
esistono «nodi» irrisolti.
Tuttavia chi vive in
questo mondo appare meno
esposto allo stress.
Non è poco.

Siamo grati all’amico
Giovanni, già volontario
in Zaire (oggi Congo) con
i missionari della Consolata,
per la sua riflessione
sul mondo «non profit».
Un mondo meno «stressato
», dove non si esclude
il profitto. Un mondo
«socialmente utile».

Giovanni Fumagalli




Viaggio in Togo: paese del vodoun

Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.
Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.

Storia di un dittatore «dinosauro»
L’INNOMINATO
Da secoli il Togo vive nel limbo della storia (vedi
scheda). Pochi saprebbero indicarne la posizione
geografica; meno ancora ne conoscono la
situazione della gente, violentata da una
dittatura che dura da 35 anni, senza sapere come
e quando potrà liberarsene

I pannelli con la sua faccia ossessionano
il paese; spille e distintivi
con la sua immagine sono
su tutti i petti d’impiegati governativi;
nugoli di donne lo accolgono
danzando ogni volta che visita un
villaggio; la sera, la televisione racconta
come ha speso la giornata…
Parlando con la gente, però, il suo
nome non lo sento pronunciare mai.
Anche i più coraggiosi usano i pronomi:
lui, costui, quello lì, quello là.
I sostenitori lo chiamano: timoniere,
padre della nazione, salvatore
della patria; i più prudenti: vecchio,
dinosauro; gli avversari gridano: assassino,
bufalo, elefante, lupo mannaro,
demonio di Pya, suo paese natale,
nel nord del Togo.
«Lui» è Gnassingbé Eyadéma, da 35
anni presidente del Togo, il più longevo
dittatore di tutti i paesi dell’Africa
post-coloniale. E resterà ancora
a lungo sulla scena, secondo diplomatici
e analisti politici.

NAZIONE ALLO SFASCIO
«Radio e televisione presentano la
situazione del paese come la migliore
che possa esistere – afferma un
missionario, che per prudenza non
nominiamo -; “lui” rassicura che tutto
va bene. Ma la realtà è differente:
la povertà impera; manca il lavoro e
la gente sopravvive col piccolo commercio;
la terra disponibile è ancora
molta, ma rende poco, per arretratezza,
siccità o troppe piogge; maestri
e funzionari statali hanno stipendi
da fame, arretrati fino a 5-6
mesi e non tutti retribuiti».
In tali condizioni, non ci si può
aspettare che gli insegnanti siano
motivati e le scuole funzionino: quelle
elementari sono in tutti i villaggi,
ma il tasso di analfabetismo è al
50%, tra le donne soprattutto.
Il rendimento scolastico è in caduta
libera. Nelle superiori i programmi
non sono svolti per intero e, all’esame
di maturità, la percentuale dei
promossi non supera il 10%; in alcuni
licei il tasso è zero. I giovani ripetono
per più anni, finendo d’iscriversi
all’università a 30 anni. Molti abbandonano
gli studi e cercano di
scappare in Europa o America, perché
il paese non garantisce un avvenire
alla sua gioventù.
Il paese è ricco di fosfati; ha industrie
di cemento; produce cotone,
caffè, cacao; ma nessuno sa dove vadano
a finire i proventi di tali risorse,
poiché ormai tutto è privatizzato.
«È stato privatizzato anche l’acquedotto
– aggiunge il missionario -.
L’acqua potabile si paga; chi non può
permettersela attinge ai fiumi, con
deleterie conseguenze per la salute».
La gente non protesta?
«Resistenze e proteste sono frequenti
e nella legalità – continua il
missionario -. Uno sciopero generale,
protratto per molti giorni, ha paralizzato
il paese. Lomé, per esempio
sembrava una città fantasma: tutto
era chiuso e nessuno per strada. Per
ora il popolo è vincente, perché ha
grande forza di sopportazione; sa che
la violenza genera violenza. La pazienza
della gente rasenta il fatalismo;
vorremmo che avesse più iniziativa
e, da parte nostra, bisognerebbe
impegnarsi di più nell’opera di
coscientizzazione: non si può parlare
molto, altrimenti quello là…».

IL COLONNELLO
Di etnia kabyé, nato nel 1935, dopo
un breve curricolo scolastico
Etienne Eyadéma diventò sotto ufficiale
dell’esercito francese e militò
per 12 anni sotto tale bandiera in
Dahomey (attuale Benin), Algeria,
Niger e Indocina. L’esperienza militare
ha supplito alla mancanza di formazione
scolastica, facendo di lui un
grande lavoratore, che si corica a
mezzanotte e si alza alle 4 del mattino.
I vicini lo dipingono affabile, disponibile
all’ascolto, grande intrattenitore
che racconta fatterelli. Tutte
doti abilmente sfruttate per farsi
una buona reputazione all’estero e
interporsi come uomo di mediazione
in vari conflitti africani: Biafra,
Ciad, Niger e Congo (Zaire).
Scampato a vari incidenti e attentati,
veri o presunti, si è costruito
un’aureola d’immortalità
e la gente lo crede dotato di
poteri occulti. A tali credenti
egli dice che, a dargli
forza, c’è un «solo marabutto:
il caro popolo
togolese».
Eyadéma militava
ancora nell’esercito francese il 27
aprile del 1960, quando il Togo, terzo
paese a sud del Sahara, dopo
Ghana (1957) e Camerun (gennaio
1960), raggiunse la piena sovranità.
Artefice dell’indipendenza fu
Sylvanus Olympio, di etnia ewé del
sud, nazionalista moderato, vero
creatore del Togo moderno.
Il presidente, però, sottovalutò
le tensioni tra nord
e sud del paese: le popolazioni settentrionali, da lui definite
petits nordiques, si sentirono trascurate.
E quando, nel 1963, rifiutò d’integrare
nell’esercito nazionale 600
soldati, quasi tutti kabyé del nord, reduci
dal servizio sotto la bandiera
francese, il colonnello Eyadéma ne
approfittò per fare un golpe militare:
Olympio fu freddato mentre cercava
di rifugiarsi nell’ambasciata americana.
Eyadéma rivendica ancora a sé tale
assassinio, anche se altri dicono
che sia stato un soldato francese a
sparare al presidente.
Eyadéma fu il primo a innescare la
danza macabra di colpi di stato militari
che, in breve tempo, avrebbero
consegnato tanti paesi africani a dittatori
senza scrupoli come lui.
Promosso generale dell’esercito,
nel 1967 Eyadéma capeggiò un altro
colpo di stato, incruento, e si autoproclamò
capo dello stato.

IL DITTATORE
In due anni Eyadéma instaurò un
regime autoritario: fece confluire i
movimenti operai in un’unica federazione
sindacale; abolì i partiti politici
e fondò il suo: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
Nei paesi confinanti erano in corso
rivoluzioni marxiste (Ghana, Burkina
Faso e Benin); ma egli rimase legato
all’Occidente, pur senza rompere con
la Corea del Nord. E ne fu largamente
ricompensato con aiuti militari dai
francesi e benevolenza da Washington
e vari governi europei, che chiusero
gli occhi sui suoi eccessi.
Ciò non gli impedì qualche sterzata
nazionalista: nel 1972-76 nazionalizzò
la produzione ed esportazione
dei fosfati. Emulando l’amico Mobutu,
dittatore dello Zaire, si erse a
paladino dell’«autenticità»: ordinò ai
togolesi di rimpiazzare i nomi europei
con quelli africani e lui stesso
cambiò Etienne in Gnassingbé; costruì
uno dei più pervasivi culti della
personalità, circondandosi di uno
stuolo di leccapiedi e di donne festanti
in abiti tradizionali.
Nel 1974 uscì indenne da un incidente
aereo, da lui pubblicamente
attribuito a un complotto di «imperialisti
» stranieri, e diventò più irrazionale
e imprevedibile.
Per una decina d’anni (1970-80)
l’incremento del turismo e l’aumento
del prezzo dei fosfati fecero esplodere
un boom economico che meritò al
Togo l’appellativo di «Svizzera africana
». Eyadéma cavalcò il miracolo
per varare una nuova costituzione
(1979) che sanciva il presidenzialismo
e, manco a dirlo, fu eletto presidente
per sette anni.
La pacchia finì nel 1981: il prezzo
dei fosfati si dimezzò e la recessione
economica mondiale ridusse drasticamente
il turismo europeo; il deficit
della bilancia dei pagamenti fece
schizzare il debito estero a un miliardo
di dollari.
Per avere altri prestiti, Eyadéma dovette
adottare le misure imposte dagli
organismi finanziari mondiali:
congelare i salari, ridurre le spese statali,
aumentare le imposte fiscali, privatizzare
le aziende pubbliche e licenziare.
Il debito estero aumentava
e l’economia continuò a decadere.
Sindacati e movimenti di opposizione
alzarono la testa con scioperi
e pubbliche proteste. Ma alle elezioni
del 1986, il presidente fu rieletto
per altri sette anni col 99,95% dei
voti.
Di fronte al plebiscito fasullo, l’opposizione
scese di nuovo in piazza.
Nel settembre dello stesso anno un
gruppo di esuli in Ghana riuscì a entrare
nel palazzo presidenziale e in
un campo militare di Lomé. Ci furono
morti da ambo le parti; Eyadéma
stesso sparò parecchi colpi. Ma a salvarlo
furono 200 paracadutisti francesi,
prontamente inviati dal Gabon
e Centrafrica.
Il dittatore continuò a disfarsi degli
oppositori con ogni mezzo illecito,
finendo regolarmente sulla lista
nera di Amnesty Inteational.

SPERANZA STRANGOLATA
Finita la guerra fredda (1989), la
Francia cominciò a mollare Eyadéma
e fece pressione perché aprisse il paese
al multipartitismo, come stavano
facendo altre ex colonie francesi.
Per mettere in cattiva luce i sistemi
pluralisti, la televisione di stato
mostrava scioperi e violenze; ma ottenne
l’effetto contrario: all’inizio
del 1991 le forze favorevoli alla democrazia,
in maggioranza ewé e mina
del sud, iniziarono scioperi e tumulti,
repressi brutalmente: 28 corpi
furono ripescati nella laguna di
Lomé e scaricati sulla gradinata dell’ambasciata
americana.
Di fronte alle pressioni estee e
intee, Eyadéma dovette concedere
libertà di stampa, liberare i prigionieri
politici e convocare una Conferenza
nazionale sovrana (Cns), come
era avvenuto l’anno prima in Benin,
per decidere l’avvenire del paese.
Aperta nel giugno 1991 e presieduta
da mons. Philippe Kpodzro, vescovo
di Atapkamé, poi di Lomé, la
Cns spogliò il dittatore d’ogni potere,
formò un governo di transizione, guidato
da Kokou Koffigoh, già presidente
della Lega per i diritti umani, e
istituì l’Alto consiglio della repubblica
(Atr), massimo organo legislativo,
sempre presieduto dal vescovo.
Ma i militari disertarono subito
l’Assemblea: non ci stavano a perdere
i privilegi e sentirsi rinfacciare torture,
assassinii e carneficine. Quando
fu deciso lo scioglimento del partito
unico (Rpt), essi sequestrarono
e umiliarono i membri dell’Atr finché
non si rimangiarono il decreto; la
settimana seguente presero in ostaggio
il primo ministro, obbligandolo a
formare un governo d’unità nazionale,
cioè con uomini di Eyadéma.
Tattiche intimidatorie e mini colpi
di stato continuarono per tutto il
1992, costringendo Koffigoh a continui
rimpasti governativi, secondo
gli umori del dittatore. Diversi leaders
dell’opposizione subirono attentati,
tra cui Gilchrist Olympio, figlio
di Sylvanus e capo dell’Unione di forze
per il cambiamento (Ufc). Prontamente
ricoverato a Parigi, si salvò.
Più volte Koffigoh chiese alla Francia
di difendere la democrazia; ma
questa non mosse un dito, pur avendo
300 paracadutisti nel Benin, pronti
a evacuare i 3.500 connazionali
ancora in Togo.
In un anno Eyadéma riacquistò
quasi tutto il potere. Sindacati, organizzazioni
politiche e partiti d’opposizione
lanciarono uno sciopero
generale a oltranza, durato nove mesi:
la guardia presidenziale uccise un
centinaio di manifestanti; migliaia di
togolesi fuggirono in Ghana e Benin.
Eppure la Cns è stato un evento
storico: ha permesso alle forze democratiche
di emergere, guardarsi in
faccia; ha fatto il processo al regime,
costringendolo a gettare la maschera;
ha attirato sul paese l’attenzione
della comunità internazionale.
Inoltre la Cns ha varato la nuova costituzione
(1992), fissando la durata
del mandato presidenziale a cinque
anni, rinnovabile una sola volta:
un cavallo di Troia in mano alle forze
democratiche, che possono mobilitarsi
per esigee il rispetto.

FARSA CONTINUA
Ma le elezioni presidenziali del
1993, da tenersi secondo le regole
della nuova costituzione e sotto gli
occhi di osservatori africani e occidentali,
furono una farsa: il principale
oppositore, Gilchrist Olympio, fu
squalificato dalla competizione per
un cavillo burocratico; altri due candidati
si ritirarono. Gli osservatori tedeschi
e americani tornarono a casa;
restarono quelli francesi e del Burkina
Faso e avallarono le elezioni «democratiche
»: il dittatore fu eletto col
96,5% di suffragi; solo un terzo degli
aventi diritto si recò alle ue.
Le elezioni parlamentari del 1994
furono preparate da coprifuoco e sparatorie
giornaliere; ciò nonostante,
l’opposizione ottenne la maggioranza:
su 78 seggi, 34 andarono al Comitato
d’azione per il rinnovamento
(Car), guidato da Yao Abgoyibo, 6 all’Unione
democratica togolese (Udt)
di Edem Kodjo, 38 al partito di Eyadéma.
Ma il dittatore riuscì a dividere
l’opposizione: affidò a Kodjo la formazione
del governo con il suo partito
(Rpt) e il Car fu messo fuori gioco.
Di fronte alle frodi elettorali e violazioni
dei diritti umani, nel 1994 la
Comunità Europea, Stati Uniti e organismi
finanziari mondiali esclusero
il Togo da aiuti e prestiti. Eyadéma
cominciò a stringere rapporti col
Giappone, Arabia Saudita, Emirati
Arabi, Kuwait, Iran, Cuba…
Le elezioni presidenziali del 1998
si svolsero all’insegna «della legge
del terrore, in un clima d’impunità»
secondo Amnesty Inteational, che
portò davanti all’opinione mondiale
centinaia di uccisioni di oppositori e
testimoni. La rivelazione fece imbestialire
il dittatore, costretto ad accettare
una commissione d’inchiesta
internazionale.
La vittoria del dittatore arrivò con
la «frode sistematica», parole del Dipartimento
di stato americano: la
conta delle schede fu bloccata, quando
apparve chiaro che Eyadéma stava
perdendo; la commissione elettorale
fu costretta a dare i numeri: 52%
ad Eyadéma, 34% all’Udt, 9,5% al
Car: un altro plebiscito non era più
credibile.
Inutili furono le contestazioni, disperse
con pallottole e gas lacrimogeni.
Le elezioni parlamentari del
1999 furono boicottate da Car e Udt
e il partito di Eyadéma ottenne quasi
tutti i seggi: 78 su 81. Il governo
fu affidato ad Agbéyomé Kodjo, tuttora
in carica.

TOGO: STATO DI TERRORE»
Ora tutto sembra in pace, ma la povertà
aumenta di giorno in giorno. La
gente è stanca di protestare o, piuttosto,
è terrorizzata. L’opposizione è
imbavagliata: il suo leader principale,
Yao Abgoyibo, è appena uscito di
prigione; molti dirigenti di partiti sono
in esilio; altri cambiano ogni notte
domicilio; continuano la caccia ai
«democratici» e le sparizioni.
Per rientrare nelle grazie dell’Occidente
Eyadéma ha promesso di anticipare
le elezioni presidenziali al
2001: l’anno è passato e nessuno sa
dire se e quando si terranno. La scadenza
naturale è il 2003; si spera che
non si ricandidi: la Costituzione non
permette più di due mandati.
«Lo sanno tutti – afferma un oppositore
-. “Quello là” vuole restare al
potere fino alla morte e tenterà di farlo.
Vuole far credere al mondo che il
Togo è diventato democratico; ma
non è neppure uno stato a partito
unico: è un paese di un uomo solo, di
una famiglia sola. Con un esercito di
12 mila uomini ben pagati, per il 75%
kabyé, che lo riconoscono come unico
capo tribù e due figli in posizioni
chiave, addestrato in ogni tattica di
repressione da istruttori nordcoreani,
è difficile immaginare un rapido e pacifico
cambiamento».
«Più impensabile sarebbe una rivoluzione
– spiega un missionario -.
Il partito del presidente, che continua
a essere unico, è sempre in campagna
elettorale, con menzogne e
insulti all’opposizione e marce di sostegno
al dittatore. Gli stati confinanti
non hanno interesse a destabilizzare
il paese: Benin e Burkina
Faso sono governati da militari puri;
il Ghana è democratico, ma il suo
presidente è stato appena eletto e
accetta il Togo così com’è. Dell’opinione
internazionale il regime se ne
infischia, vomitando insulti da mattino
a sera, specialmente contro Amnesty
Inteational: si è permessa di
dire che “il Togo è uno stato di terrore“,
che esercito e polizia sono la
vera minaccia per la popolazione».
«Anche in Occidente ci sono troppe
forze interessate a lasciare le cose
come sono – aggiunge un altro
missionario -. Il giorno in cui perdesse
il potere, Eyadéma sarebbe messo
sotto accusa, trascinando sul banco
degli imputati potenze e governi stranieri
che lo hanno sostenuto».
Intanto a chi gli domanda se presenterà
per la terza volta la sua candidatura,
Eyadéma risponde che «rispetterà
scrupolosamente la Costituzione
». Ma quale? Il primo ministro
Kodjo getta pietre nello stagno, ventilando
la possibilità di cambiarla, per
dare al suo padrone altri cinque anni
di potere, e il parlamento ha tutti i
numeri per farlo.
Tale cambiamento, tuttavia, sarebbe
una sfida alla Comunità Europea,
che condiziona i suoi aiuti alla ripresa
della democrazia nel paese. Un altro
mandato presidenziale «si tradurrebbe
in un suicidio nazionale – afferma
l’americano Chris Fomunyoh,
direttore degli Affari africani presso
l’Istituto democratico nazionale – e
sarebbe terribile per la regione, per il
Togo e per il continente».

Superficie: 56.785 kmq.
Popolazione: 5,1 milioni di abitanti; è composta da 37 gruppi
etnici; i predominanti sono ewé-mina44%, kabyé27%,
gurma16%, tem4%, kebu3,8%, ana( yoruba) 3,2%, bianchi
0,3%. I brasileños(ex schiavi tornati dal Brasile) costituiscono
una «casta» molto influente sul piano economico e politico.
Lingua: francese (ufficiale) e vari idiomi etnici.
Istruzione: alfabeti 51%; maschi 67%; femmine 35%.
Religione: culti tradizionali 50%; cattolici 24%, musulmani
15%, protestanti 7%.
Capitale: Lomé.
Partiti politici: Raggruppamento del popolo togolese (Rpt), partito
unico fino al 1991; Unione democratica togolese (Udt); Comitato
d’azione per il rinnovamento (Car).
Forma di governo: repubblica presidenziale; presidente è Gnassingbé
Eyadéma dal 1967; primo ministro Koffi Sama dal 27-
6-2002, dopo la rimozione di Agbéyomé.
Moneta: franco C.F.A. (1 euro = 640 C.F.A.).
Debito estero: 1.448 milioni di dollari.
Crescita annua Pil: -1% (1998).
Economia: agricoltura con la produzione per il fabbisogno locale
(mais, miglio, riso, manioca, fagioli, arachidi e frutta) e
per l’esportazione (cotone, cacao, caffè, palma oleifera, cocco).
Minerali: fosfati, di cui il Togo è tra i primi paesi produttori
ed esportatori del mondo. Industrie chimiche, petrolchimiche,
tessili, alimentari e cemento.

Scheda storica politica e religiosa
12°-16° sec.: varie etnie si stabiliscono nell’attuale Togo: kabyéa
nord; ewé, mina, guinlungo le coste.
1470: navigatori portoghesi esplorano le coste dell’Africa occidentale
e iniziano il commercio dell’oro e prodotti esotici.
1482: costruzione del forte a La Mina (Elmina, Ghana).
16°-18° sec.: compagnie commerciali inglesi, olandesi, francesi
e danesi cacciano i portoghesi e monopolizzano il commercio degli
schiavi: Togo e Dahomey prendono il nome di «Costa degli
Schiavi».
1737-1771: la Società dei fratelli moravi (Giacomo Protte) opera
in Costa d’Oro e Togo.
19° sec.: abolizione dello schiavismo: famiglie di afro-brasiliani ritornano
in Togo.
1827: la Società evangelica di Basilea opera tra le popolazioni a
est del Volta.
1842: creazione del vicariato delle due Guinee. Metodisti ad Aneho.
1847: la Missione di Brema fonda missioni nell’interno del Togo.
1860: creazione del vicariato del Dahomey.
18 aprile 1861: primi missionari della Sma sbarcano a Ouidah.
1884: congresso di Berlino: le potenze europee si spartiscono l’Africa
in zone d’influenza; sorprendendo inglesi e francesi, i tedeschi
firmano un trattato di «protezione» col re togolese: per 20 anni sviluppano
infrastrutture e coltivazioni scientifiche.
1886: i padri Moran e Bauquis avvelenati.
1892: creazione della prefettura apostolica del Togo, affidata ai
missionari tedeschi dello Spirito Santo: il loro arrivo segna
la nascita ufficiale della chiesa togolese.
1914: il vicariato del Togo è elevato a prefettura apostolica.
Scoppia la prima guerra mondiale e il Togo è occupato
da inglesi e francesi.
1916: missionari tedeschi dichiarati prigionieri politici,
poi espulsi.
1918: la Società delle Nazioni (oggi Onu) affida due
terzi del Togo alla Francia, la parte occidentale all’Inghilterra.
1921: il Togo francese è affidato ai missionari di Lione
(Sma).
1923-45: mons. Cessou vescovo di Lomé.
1937: erezione della prefettura di Sodoké.
1939-45:2a guerra mondiale: soldati togolesi
nell’esercito francese.
1945: nascita di partiti indipendentisti:
Comitato dell’unione togolese (Cut) e
Partito togolese del progresso (Ptp).
1946: dal regime di mandato a quello
di tutela: il Togo diventa Territorio
d’Oltremare, con proprio parlamento e
deputati a Parigi.
1955: istituzione della gerarchia in Togo:
Lomé diventa arcidiocesi e Sodoké
diocesi.
1956: Togo diventa Repubblica autonoma:
esponente del Ptp, tendenze neocolonialiste.
1958: vince le elezioni Sylvanus Olympio, leaderdel Cut, ewédel
sud, indipendentista moderato.
27 aprile 1960: il Togo ottiene piena indipendenza. Olympio avvia
riforme nazionaliste, attirandosi le ire dei francesi. Si aggrava la tensione
con le etnie del nord.
1962: mons. Dosseh consacrato primo vescovo togolese di Lomé.
1963: colpo di stato guidato da Eyadéma; Olympio deposto e assassinato.
Grunitzky ritorna dall’esilio e guida il nuovo governo.
1964: mons. Atakpah, primo vescovo togolese di Atakpamé.
1965: mons. Bakpessi, primo vescovo togolese di Sodoké.
1967: nuovo golpe(incruento) di Eyadéma, che si autoproclama
capo dello stato e instaura un regime dittatoriale.
1969: movimenti operai riuniti in un’unica Federazione sindacale;
abolizione dei partiti politici e fondazione del partito unico: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
1970-80: nazionalizzazione della produzione ed esportazione dei
fosfati e processo di «autenticità» togolese; inizia il miracolo economico,
che merita al Togo il nome di «Svizzera dell’Africa».
1979: nuova costituzione instaura il presidenzialismo: Eyadéma
eletto presidente per sette anni.
1981: crollo del prezzo dei fosfati e recessione internazionale provocano
crisi economica e crescita del debito estero.
1986: Eyadéma presidente col 99,95% dei voti. Tumulti di sindacati
e movimenti di opposizione con scontri e morti.
Eyadéma è salvato dai paracadutisti francesi.
1989: la Francia preme per aperture democratiche.
1991: serie di scioperi e tumulti repressi nel sangue.
Eyadéma è costretto a concedere varie libertà
democratiche.
1991-92: convocazione della Conferenza
nazionale sovrana che avvia il processo democratico
e vara una nuova costituzione, sotto
la minaccia d’intimidazioni, attentati e mini
colpi di stato militari.
1993: elezioni farsa: Eyadéma eletto col 96,5%
di voti.
1994: elezioni parlamentari: l’opposizione ottiene
la maggioranza dei seggi, ma Eyadéma riesce
a imporre il suo governo. Comunità Europea,
Usa e organismi finanziari tagliano aiuti
e prestiti al Togo.
1998: votazioni presidenziali all’insegna di
brogli e terrore: il dittatore vince con il 52%
dei voti.
1999: elezioni parlamentari boicottate dai
partiti di opposizione: Eyadéma ottiene
quasi tutti i seggi in parlamento. Per rientrare
nelle grazie dell’Occidente il dittatore
promette di anticipare le elezioni presidenziali
al 2001: promessa non ancora
mantenuta.

Una chiesa nel cuore della società
PIÙ VOLTE RINATA
Ufficialmente iniziò nel 1892,
ma i precedenti tentativi di evangelizzazione
non sono da trascurare.
L’opera dei missionari ha forgiato
la società togolese, che ancora oggi
guarda alla chiesa come segno
di speranza, per una rinascita
nella giustizia e riconciliazione
nazionale.

Per oltre quattro secoli la storia
del Togo rimase legata a quella
della «Guinea», regione tra il
Senegal e l’equatore, esplorata dai
navigatori portoghesi a partire dal
1470. Per meglio commerciare oro e
prodotti esotici, essi stabilirono vari
insediamenti, ma scartarono le coste
del Togo, prive di porti naturali. Nel
1482 costruirono il forte a Elmina, poi
a Keta (Costa d’Oro, oggi Ghana) e a
Ouidah (Dahomey, oggi Benin).
L’espansione del cristianesimo era
una priorità dei conquistatori portoghesi.
Da ogni viaggio portavano a Lisbona
giovani «guineani» che, dopo
essere stati istruiti, venivano ricondotti
in patria per diffondere la fede
cristiana tra i connazionali. Gli insediamenti
portoghesi erano, quindi,
anche centri missionari, ma è difficile
dire fino a che punto tale irradiazione
abbia toccato il Togo.
0
LA COSTA DEGLI SCHIAVI
Un cronista di quei tempi, Diego
d’Alvarenga, racconta che a Elmina,
nel 1503, «furono battezzati il capo
di Afouto, 6 ufficiali e 100 persone».
Nel 1634 Propaganda fide assegnò
ai cappuccini inglesi l’evangelizzazione
della Costa d’Oro; 10 anni dopo
arrivò a Roma la notizia del battesimo
del capo di Komenda e altri
principi. Poi i calvinisti olandesi presero
Elmina e cancellarono ogni traccia
cattolica.
Nel Dahomey, a est del Togo, i cappuccini
bretoni fondarono una missione
a Ouidah nel 1644; ma gli stregoni,
sobillati da mercanti inglesi e
olandesi, incendiarono la cappella e
i missionari dovettero scappare. Sedici
anni dopo arrivarono i cappuccini
spagnoli, richiesti dal re d’Arda al
sovrano di Spagna, ma furono cacciati
dai portoghesi. Ritentarono nel
1674 tre domenicani francesi: stavano
per convertire il capo di Ouidah,
ma i mercanti di schiavi montarono
la testa ai locali e i missionari morirono
sulla costa, forse avvelenati.
L’evangelizzazione era impossibile:
la tratta degli schiavi portava ad
identificare cristianesimo e schiavismo;
gli schiavisti, indigeni ed europei,
non permettevano che i missionari
turbassero i loro affari. E dovevano
essere enormi, se la regione tra
Keta e Lagos fu per secoli conosciuta
come «Costa degli Schiavi».
I primi a portare il cristianesimo
tra le popolazioni del Togo furono i
missionari protestanti: il loro eroismo
merita tanto di cappello.
Iniziò la Società dei fratelli moravi
con Giacomo Protte, un mulatto
nato in Costa d’Oro da padre danese
e madre africana. Dopo aver studiato
a Copenaghen, nel 1737 fu inviato
a convertire i suoi paesani; quattro
anni dopo toò in Olanda; nel
1757 e 1769 tentò altre due imprese
solitarie. Nel frattempo fu raggiunto
da altri 5 fratelli, tre dei quali scesero
nella tomba nel giro di due mesi.
Nel 1770 altri quattro missionari raggiunsero
i due sopravvissuti: l’anno
dopo morirono tutti e sei senza lasciare
traccia.
Nel 1827 i missionari della Società
evangelica di Basilea arrivarono nel
forte danese di Christianborg. Per
fuggire al clima micidiale della costa,
si concentrarono nell’interno del paese
e cominciarono ad evangelizzare le
popolazioni ad est del Volta.
Nel 1842 i metodisti si stabilirono
a Lagos, Ouidah e Aneho, grazie a ex
schiavi americani, tornati ai paesi
d’origine. Tra i missionari metodisti
si distinse Thomas Freeman, pastore
infaticabile: di padre africano e madre
inglese, fu educato a Londra; in
due riprese (1843 e 1854) visitò tutta
la Costa degli Schiavi, spingendosi
nell’interno del Togo.
Nel 1847 la Società missionaria di
Brema (Germania) si unì agli evangelici
di Basilea. Stabilito il quartiere
generale a Keta, evangelizzarono
la popolazione ewé a est del Volta e
fondarono varie stazioni missionarie,
distrutte dalle guerre e puntualmente
ricostruite; esplorarono le regioni
di Atakpamé e Anfoin, nel cuore del
Togo. Nel giro di 40 anni si succedettero
circa 100 missionari, 54 dei
quali falciati da febbri malariche.

TEMPI EROICI
Con l’abolizione dello schiavismo,
la Costa degli Schiavi vide nascere le
prime comunità cattoliche, formate
da famiglie di afro-brasiliani (Olympio,
de Souza, da Silveira, Santos,
Campos, Sacramento, Paraiso) che
avevano abbracciato il cristianesimo
durante la schiavitù ed erano tornate
nelle terre di origine: mercanti intelligenti,
diventarono l’élite del Togo
e Dahomey.
Nel 1835 Vanessa de Jesus fece costruire
una cappella ad Aneho, la prima
in terra togolese. Distrutta da un
incendio, fu ricostruita da un gruppo
di bahiani, guidati da Joaquim
d’Almeida. Preti portoghesi venivano
da São Tomé per amministrarvi i sacramenti:
il primo battesimo in Togo
porta il nome di Marcos Francisco da
Massa e la data del 1844.
A quel tempo, il Togo era inglobato
nell’immenso vicariato apostolico
delle due Guinee, creato da Propaganda
fide nel 1842, da cui fu ritagliato,
nel 1860, il vicariato del Dahomey
(tra il Volta e il Niger) e affidato
alla Società delle missioni africane di
Lione (Sma). Il 18 aprile 1861 sbarcarono
a Ouidah i primi due missionari,
l’italiano Borghero e lo spagnolo
Feandez.
Senza trascurare i cristiani brasiliani,
i missionari Sma evangelizzarono
i nativi: nel 1963 battezzarono i primi
due togolesi; 10 anni dopo si stabilirono
ad Agoué, in territorio togolese,
e si spinsero nell’interno del
paese, fino a Atakpamé.
Nel 1892 il vicariato fu smembrato
in due prefetture, l’una con sede a
Lagos, l’altra ad Agoué, avendo per
confini i fiumi Ouémé e Volta. Due
anni dopo (1884) il Togo diventò
protettorato tedesco e, con la firma
di accordi con inglesi e francesi, cominciò
ad avere confini più definiti:
tra i fiumi Mono e Volta.
Intanto i missionari francesi continuarono
ad avanzare nell’interno, accolti
a braccia aperte dal cecuziente
re Abasa: all’inizio del 1886, i padri
Moran e Bauquis, fondarono ad Atakpamé
la prima vera stazione missionaria
del Togo. I due padri non stavano
nella pelle per la gioia, ma dovettero
fare i conti con gli stregoni,
che cercarono di avvelenarli insieme
al vecchio re. Dopo vari tentativi, ci
riuscirono (vedi riquadro). Nell’agosto
del 1887 la missione fu abbandonata
e totalmente saccheggiata.

PIONIERI E STRATEGHI
Intanto l’amministrazione tedesca
impose nelle scuole l’insegnamento
della lingua del padrone, pena la
chiusura delle missioni. I missionari
di Brema e Basilea giocavano in casa;
cattolici e metodisti dovettero
correre ai ripari.
La congregazione di Propaganda fide
eresse il territorio del protettorato
a prefettura apostolica del Togo,
e la affidò alla Società del verbo divino
(Svd), la più grande congregazione
missionaria tedesca: era il febbraio
del 1892, data ufficiale della
nascita della chiesa togolese.
Il 27 agosto dello stesso anno, 2
preti e 3 fratelli erano a Lomé e si misero
subito al lavoro; il 18 settembre
era pronta la cappella; il 20 dello
stesso mese apriva la scuola con 25
alunni; il 25 ottobre iniziava il catecumenato;
a natale i primi battesimi.
Alla fine del 1893, la relazione inviata
a Propaganda fide così riassumeva
i 15 mesi di lavoro: 3 missioni
con 5 preti, 8 fratelli e un volontario
laico; 135 alunni nelle scuole di
Lomé, Adidjo e Togoville; 150 cristiani
e 160 catecumeni; battezzati
50 adulti e un migliaio di morenti.
Le cifre non danno conto dei missionari
falciati da malaria e vaiolo, o
costretti a rimpatriare a pochi mesi
dall’arrivo. «Tutti malati! Stop. Aiuto!
» gridava il telegramma del prefetto
al superiore generale nel giugno
1896. Ma dalla casa madre, almeno
nei primi anni, arrivano pochi
soldi e tante critiche: si parlava d’infantilismo,
ambizioni e sprechi, anche
se, per sopravvivere, i missionari
si arrangiavano con artigianato e
agricoltura.
Anche sul campo abbondavano le
spine. Il manipolo di cristiani afrobrasiliani
trovati in Togo vivevano
«nelle condizioni dell’Antico Testamento
– scriveva il prefetto, padre
Schäfer -; molti sono tornati alla poligamia;
ma sono ben disposti verso
i missionari». Più dura era la lotta
con gli stregoni, che proibivano di
mandare i ragazzi a scuola e tentarono
di avvelenare un missionario.
Inoltre, bisognava sgomitare per
farsi largo tra i protestanti, arrivati
decenni prima. Il governo fu costretto
a dividere il territorio in zone
d’influenza e proibire invasioni di
campo. Solo nel 1913, i padri poterono
spingersi nell’estremo nord.
Autentici strateghi, i missionari tedeschi
si stabilirono nei centri popolosi,
mercati e incroci di vie di comunicazione.
Poiché il mondo degli
adulti resisteva alla penetrazione del
vangelo, a causa dell’attaccamento
alla religione tradizionale (vodoun e
feticismo) e poligamia, essi concentrarono
gli sforzi sui giovani, seminando
il paese di scuole primarie,
agricole e professionali.
Alla formazione umana e religiosa,
i verbiti univano lo studio di lingue
e culture locali, traduzioni e pubblicazioni
di libri religiosi. Studiarono i
problemi più spinosi, come la poligamia,
prospettando soluzioni audaci:
dare almeno il battesimo ai poligami
più aperti ai valori del vangelo.
I fratelli, spesso in numero superiore
ai padri, innalzarono le strutture
materiali (case, chiese, cappelle,
scuole e cattedrale di Lomé) e si immersero
nella formazione scolastica,
sfoando maestri, artigiani e catechisti.
Altrettanto preziosa, nella formazione
femminile, fu la presenza
delle suore, arrivate nel 1897.
Tale strategia lungimirante si dimostrò
vincente: la maggioranza dei
battezzati e famiglie cristiane nascevano
sui banchi di scuola. In 20
anni la chiesa in Togo era impiantata
e consolidata. Nel 1914 essa contava
quasi 20 mila battezzati, 6.425
catecumeni e 1.235 matrimoni religiosi;
47 padri, 15 fratelli e 25 suore
erano distribuiti in 15 missioni, attendevano
a un numero impressionante
di stazioni periferiche e gestivano
198 scuole con 8.463 alunni e
228 maestri e catechisti. C’erano più
alunni nelle scuole cattoliche del Togo
che in tutte le colonie francesi
dell’Africa occidentale.
«Se i tedeschi fossero rimasti, oggi
tutto il Togo sarebbe cattolico»
sospira un missionario italiano con
lunga esperienza nel paese.

SECONDA NASCITA
Con lo scoppio della prima guerra
mondiale (1914), il Togo fu occupato
dalle truppe inglesi e francesi, prima
vittima del conflitto. Inizialmente
tollerati, ma con le ali tarpate da
restrizioni d’ogni genere, i missionari
tedeschi vennero dichiarati prigionieri
politici nel 1916 e, nel giro
di un anno, erano tutti fuori del paese:
padri e fratelli deportati in Inghilterra,
le suore rimpatriate.
Per quattro anni i vescovi della Costa
d’Oro e Dahomey presero in consegna
il vicariato e inviarono alcuni
missionari per tenere aperte alcune
missioni e scuole. Finita la guerra, i
verbiti cercarono di ritornare nelle
amate missioni, ma Parigi e Londra
non ne vollero sapere. Nel 1921 Propaganda
fide affidò la parte francese
ai missionari di Lione; quella amministrata
dagli inglesi fu annessa al vicariato
di Keta.
La chiesa togolese cominciò a riprendersi,
ma molto lentamente: i
missionari arrivavano col contagocce,
sempre insufficienti a coprire tutte
le opere avviate dai verbiti: nel
1958 il numero dei missionari era di
poco superiore a quello del 1914.
Nonostante ciò, la chiesa togolese
sperimentò una nuova nascita, grazie
al sacrificio del personale missionario
e alla lungimiranza del vicario,
mons. Jean-Marie Cessou. Egli continuò
lo sviluppo delle scuole, aprì
nuove missioni nel centro e nord del
paese e, per neutralizzare l’influenza
islamica, facilitò la creazione della
prefettura di Sodoké (1937).
Grande merito di mons. Cessou fu
la promozione delle vocazioni indigene.
Nel 1922 fu ordinato il primo
prete africano nella zona britannica;
6 anni dopo un togolese nella zona
francese. Alla sua morte (1945) il vescovo
lasciava 23 preti europei e 4
togolesi, 26 suore e 292 catechisti,
191 scuole e 13 mila allievi, 88 mila
cristiani e 200 chiese e cappelle.

CHIESA MAGGIORENNE
Dopo il secondo conflitto mondiale,
che aveva richiamato sotto le armi
i missionari più giovani, arrivarono
una quindicina di congregazioni
maschili e femminili di diverse nazionalità
e la chiesa togolese fu rivitalizzata.
Furono promesse numerose
associazioni, confrateite religiose
e istituzioni varie: collegi, seminari,
noviziati di suore indigene, per rispondere
ai venti nuovi che soffiavano
sulla società del Togo.
Nel 1955 il vicariato di Lomé fu
elevato ad arcidiocesi e la prefettura
di Sodoké a diocesi; pochi anni dopo
la chiesa cominciò a passare nelle
mani della gerarchia togolese: nel
1962 Robert Dosseh fu consacrato
vescovo di Lomé; due anni dopo Beard
Ogouki-Atakpah guidava la diocesi
di Atakpamé; l’anno seguente
Chretien Bakpessi quella di Sodoké.
Il Togo è stato definito «figlio primogenito
della chiesa». Non è retorica.
Con le solide strutture e organizzazioni,
qualità delle scuole, formazione
di quadri ed élites, strutture
sanitarie e ospedaliere, opere agricole
e idrauliche, sociali o di beneficenza
sviluppate prima e dopo l’indipendenza
(1960) la chiesa cattolica
ha modellato la nascita e la crescita
della società togolese.
Nel 1958, per esempio, alle votazioni
per il parlamento della Repubblica
autonoma, 37 deputati su 46 e
8 ministri su 10 erano cattolici, tra
cui il primo ministro, Sylvanus Olympio,
padre del Togo indipendente.
Oggi, su una popolazione di circa 5
milioni di abitanti, la chiesa conta
quasi un milione e mezzo di cattolici
(25%) e 65 mila catecumeni, 7 diocesi
guidate da altrettanti vescovi autoctoni,
oltre 300 preti diocesani
(erano 170 nel 1990) e 200 seminaristi,
160 religiose di origine straniera
e più di 400 religiose autoctone,
appartenenti a una trentina di istituti
missionari; quattro istituti locali
che contano oltre 300 suore.

SFIDE DEL TERZO MILLENNIO
Nell’ultima visita ad limina (1999),
i vescovi togolesi hanno sentito dal
papa queste parole: «Auguro che una
vera solidarietà si manifesti tra le
diocesi, attraverso una ripartizione
adeguata di personale apostolico,
che permetta di aiutare generosamente
quelle più povere».
Di fatto, la chiesa del Togo sembra
spaccata in due: al sud è ultracentenaria,
tradizionalista e clericalizzata,
ricca di clero, suore e risorse finanziarie;
al nord è appena cinquantenne,
povera d’organizzazione e totalmente
dipendente dalla chiesa universale
in quanto a personale e aiuti
materiali. Il cammino verso la solidarietà
della «chiesa famiglia», ideale
del sinodo per l’Africa, in Togo è
ancora ai primi passi.
La sfida più lacerante viene dalla situazione
politica e sociale del paese.
Se all’inizio della dittatura la chiesa
si era appiattita sulle posizioni del regime,
scegliendo il male minore, ben
presto ha recuperato il suo ruolo profetico:
nel 1976 il vescovo di Atakpamé
fu costretto a dimettersi per
aver osato criticare il dittatore. Questi
diede ordine all’esercito d’impedie
la consacrazione del successore,
mons. Kpodzro: il giorno prima
dell’ordinazione fu cambiato il luogo
e i soldati arrivarono alla fine della
cerimonia. Ma il vescovo rimase sequestrato
a Lomé per cinque anni,
prima di entrare nella sua diocesi.
Nel passaggio alla democrazia la
chiesa c’era: comunità cristiane e preti
erano contro la dittatura e mons.
Kpodzro fu chiamato a guidare la
Conferenza nazionale (1991-92). Il
prestigio che gode nella società togolese
è uno stimolo in più per impegnarsi
nella promozione della giustizia
e riconciliazione nazionale.
Alcune lettere pastorali presentano
diagnosi inequivocabili dei mali della
società: paura, violenze, vendette,
corruzione, impunità. «Come missionari
– afferma uno di essi – vorremmo
dai vescovi un po’ più di interventismo
in occasione delle elezioni, nel
campo sociale e dei diritti umani».
La chiesa rimane una spina nel
fianco del regime, che reagisce con
meccanismi diabolici e, per tagliarle
l’erba sotto i piedi, strizza l’occhio alle
sètte, massoneria, Rosa Croce e
mondo islamico soprattutto.
Presenza percettibile solo nel centro-
nord, l’islam è passato dal 5% del
1960 all’11% nel 1970, al 16% nel
2001. Da un decennio si assiste a una
fioritura di moschee, centri islamici
e scuole coraniche in tutto il paese,
soprattutto da quando il Togo è diventato
membro dell’Organizzazione
della conferenza islamica nel 1997.
Tale adesione non è disinteressata:
i paesi islamici aprono la borsa dei loro
petrodollari; in compenso, il regime
concede spazio ai musulmani nella
stanza dei bottoni, amministrazione
e uso di radio e televisione.
«L’islam fa breccia anche tra i più
poveri – afferma mons. Kpodzro -.
Promesse di denaro e promozione sociale
sono forti tentazioni per farsi
musulmano. Malgrado tutto, la chiesa
intrattiene buone relazioni con i
musulmani. Ma come arginare tale
offensiva legata essenzialmente alla
potenza del denaro?».
Alla domanda il vescovo di Lomé
ha già trovato la risposta: nella sua
diocesi ha aperto la «Scuola cristiana
della fede», che opera su tre direttive:
formazione dei laici, studi biblici
e Forum fede e vita, destinata a
incontri e dibattiti ad alto livello sulla
dottrina sociale della chiesa.
«C’è bisogno di una rinascita nella
catechesi, sia a livello popolare, per
aiutare i cristiani a difendersi dall’aggressività
delle sètte e dell’islam,
sia a livello di élites cristiane, poiché
hanno una cultura religiosa rudimentale.
Con la nostra “Scuola” vogliamo
dare loro una formazione dottrinale,
spirituale e morale, per avere
una classe dirigente ancorata ai
valori cristiani e pienamente impegnata
nella promozione della pace,
giustizia, bene comune e un’autentica
democrazia. E che Dio ci aiuti!».

PRIMI MARTIRI

Due donne stavano raccogliendo legna.
Sbadatamente raccattarono
frasche di un albero sacro. Era un crimine
meritevole di morte, anche se
commesso inavvertitamente: furono
avvelenate. L’una morì, l’altra fu portata
ai missionari, che riuscirono a salvarla.
Gli stregoni le diedero un’altra
porzione di veleno; e i missionari la salvarono
una seconda volta.
I fattucchieri erano infuriati: quei due
stranieri erano più forti di loro. Il sabato
santo del 1886 li avvelenarono, non
si sa come, insieme al re. Questi morì
all’istante; i missionari se la cavarono;
ma erano così indeboliti che dovettero
andare a riposarsi sulla costa.
Toati ad Atakpamé, padre Moran
si guadagnò la simpatia di alcuni
capi e stregoni, distribuendo regali, e
ottenne il permesso di esercitare la medicina.
Per qualche mese i missionari
furono lasciati in pace. La gente accorreva
alla missione, disertando le
pratiche feticiste, provocando rabbia e
gelosia tra vari fattucchieri.
Questi studiarono i movimenti dei missionari
e videro che, ogni giorno, un ragazzo
andava a comperare una zucca
di vino di palma per i padri; avvicinarono
il mercante, avvelenarono il vino
e raccomandarono al ragazzo di non
berlo, perché sarebbe stato un furto.
Appena i missionari bevvero il vino,
sentirono subito gli effetti del veleno.
Presero immediatamente dei rimedi e
vomitarono anche l’anima: era il 7
agosto 1887. Padre Bauquis si salvò;
ma padre Moran spirò tra atroci contorsioni,
senza medico e senza prete,
poiché il confratello era troppo debilitato
per assisterlo. Aveva solo 28 anni.
I nemici della missione avevano raggiunto
lo scopo: un missionario morto
e l’altro in fin di vita. Padre Bauquis dovette
ritirarsi sulla costa, dove morì nel
1891.
Nel 1939 si venne a sapere che il
calice di padre Moran era stato
usato come feticcio in una festa pagana
ufficiale. I missionari lo reclamarono
energicamente. Ma i fattucchieri ricorsero
di nuovo ai veleni. Il vescovo
dovette ritirare i preti perché non rischiassero
la vita.
La storia riemerse nel 1951: per l’ordinazione
del primo prete di Atakpamé
i giovani gli offrirono un calice «per
cancellare l’onta dell’avvelenamento di
padre Moran».

Vodoun: religione tradizionale del Togo
NEL MONDO DEI GRI-GRI
Per capire una cipolla bisogna sfogliarla. Così il
vodoun: non esistono definizioni; per comprenderlo
bisogna guardare le sue manifestazioni.

Gli europei li chiamano feticci; i locali tolegba (spirito
del paese); è una testa di terra, con occhi spalancati,
piantata al suolo. Impossibile non notarli: sono posti ai
crocicchi, all’entrata dei villaggi e nei luoghi più frequentati.
A Fiata ce ne sono due a poca distanza: uno accanto
alla strada, protegge il paese; l’altro nel mercato, sotto una
pianta, aiuta la gente a fare buoni affari.
Spesso ci si imbatte in tempietti, altarini, simulacri, oamenti
e altri feticci di vario genere e forma: tutti simboli
del vodoun, la religione tradizionale praticata dalla
maggioranza della popolazione del Togo e del Benin.
«In principio Mawu (Dio) viveva fra gli uomini – racconta
un mito degli ewé -. Il cielo era così basso che
lo si poteva toccare con la mano. Un giorno una donna stava
cuocendo la polenta e, non potendo girare il mestolo
perché il cielo era troppo vicino, s’indispettì e gettò la polenta
contro il cielo. Mawu si arrabbiò e disse: “D’ora in poi
non voglio più stare fra gli uomini!”. E tirò su anche il cielo».
Mawu, il Dio creatore e trascendente, è inteso lontano e
irraggiungibile, impassibile alle preghiere e vicende umane:
ma per compensare il suo allontanamento, affida la cura
della creazione a divinità minori: i vodoun. Il termine,
infatti, nella lingua fon (Benin) significa «cosa misteriosa,
nascosta, sacra», tra le popolazioni togolesi «messaggero
del profondo». Tale parola sta a indicare, quindi, l’insieme
delle forze da cui dipende l’uomo, nel bene e nel male,
e la religione che ne deriva.
Nessuno sa quanti siano i vodoun; i più informati dicono
che possono essere quasi duemila. I più antichi e importanti
sono identificati
con le forze della natura (fulmine,
vaiolo, mare, terra, foresta,
animali, serpenti), altri
si rifanno a personaggi
storico-mitici e antenati; ne
esistono di modei, inventati
per far fronte a potenze
occulte (magia e violenza) e
ottenere favori «immediati»:
protezione, benessere o maledizioni
per i nemici.
I vodoun cosmici e degli
antenati hanno propri templi
e conventi, sacerdoti, sacerdotesse
e adepti, ai quali
vengono trasmessi i relativi
poteri. Tale iniziazione dura tre anni: novizi e novizie apprendono
tutto lo scibile e la saggezza religiosa ricevuta
dagli antenati: storia, leggende, miti, erbe medicinali e arte
divinatoria… una vera e propria enciclopedia orale.
Nella natura e nella vita umana non si muove foglia che
il vodoun non voglia. Esso, di per sé non è né buono
né cattivo: tutto dipende dal comportamento dell’uomo.
Perciò i fedeli, attraverso giochi divinatori, devono conoscere
il proprio destino e imparare come comportarsi e soprattutto,
mediante preghiere e danze, sacrifici animali e
libagioni di olio di palma, offerte di farina di mais e altri
doni di vario genere, devono convincere i vodoun a elargire
favori e protezione.
I vodoun, inoltre, sono «energie vitali» presenti dappertutto
e che si concretizzano in diverse forme del regno
animale, vegetale e minerale. Tale forza vitale può essere
controllata, aumentata o diminuita mediante offerte e sacrifici.
Più le offerte sono abbondanti, più le divinità hanno
forza e migliori sono le loro intenzioni; se esse diminuiscono,
i vodoun s’indeboliscono.
Tale interdipendenza tra
l’uomo e le forze cosmiche e
ancestrali presenta una visione
altamente positiva
dell’universo: il mondo è
un’immensa manifestazione
del sacro, mistero «tremendo
e fascinoso», che permea
tutta l’esistenza quotidiana;
la relazione tra vita e pratica
religiosa è così stretta che
rende impossibile stabilire
una netta divisione tra sacro
e profano.
I l mondo visto dal vodoun
è solidarietà, unità, totalità,
eloquentemente tradotto in simbolo dal serpente che
si morde la coda; ma presenta pure aspetti patologici. Lungo
le rive del Volta, in Ghana, per esempio, esistono vari
templi in cui vivono le trokosi o schiave di Tro: donne che,
fin da bambine, sono state offerte alla divinità in riparazione
di colpe commesse dai genitori; in pratica sono proprietà
dei sacerdoti e passano la loro vita in stato di schiavitù,
soggette a ogni genere di abuso.
Inoltre, i confini tra religione e magia sono incerti; anzi,
spesso entrano in cortocircuito. Mentre la religione cerca di
onorare e propiziarsi la divinità, la magia cerca, con precisi
e vincolanti rituali, di sottomettere al proprio potere spiriti
e forze della natura e sfruttae la potenza per provocare
effetti benefici (magia bianca) o malefici (magia nera).
Tutto dipende dagli addetti ai lavori: indovini, curatori,
maghi, stregoni, uomini e donne, che praticano
la magia con abilità, turlupinando la gente. Non
per nulla la popolazione del Benin chiama il bokono
(sacerdote di fa, lo spirito dell’oracolo) awono: bugiardo.
Un esempio di magia nera è il chakata, chiamato «fucile
africano»: serve ad avvelenare o a infiggere nel corpo
della vittima, distante anche vari chilometri, chiodi,
aghi, sassi, lamette, pezzi di vetro e simili, provocando
atroci dolori, fino alla morte. Per prevenire
o liberarsi da simili disgrazie, si ricorre a stregoni
più potenti, capaci di diagnosticare il maleficio
e rimuoverlo con medicine, incantesimi, sacrifici,
dietro lauta ricompensa.
Esistono anche mezzi fai-da-te: amuleti o grigri.
E sono innumerevoli. Si può richiederli
agli stregoni: basta pagare. Ma li si può
comprare anche al mercato:
sono di ogni forma e grandezza,
pezzi di legno o di ferro,
statuette di creta, tutti decorati
da piume, denti di rettili, pesci
e uccelli. Per farli agire basta pronunciarvi
una formula oscura e il gri-gri è confezionato,
pronto da portare a casa.
I primi missionari videro nel vodoun una religione politeista,
simile a quella dell’antica Roma, opera del diavolo,
e come tale da combattere frontalmente, bruciando
feticci e distruggendo idoli e altarini. Oggi il loro atteggiamento
è cambiato: i vodoun non sono dèi, al pari di
Mawu, ma semplici creature; non più lo scontro, ma la cristianizzazione
degli aspetti cultuali più significativi.
Ne è un esempio il santuario della Madonna del Lago,
costruito nel 1973
a Togoville, cuore
del feticismo. Qui
risiede il capo dei
sacerdoti vodoun, il
quale ha rappresentato
la religione
tradizionale africana
all’incontro interreligioso
di preghiera
per la pace,
tenuto ad Assisi nel
1986. Qui la gente
viene per sottomettersi
a riti di purificazione
individuali
e collettivi.
Oggi il tempio
mariano è diventato
santuario nazionale,
meta di pellegrinaggi
provenienti da tutte le
parti del Togo: così la purificazione
continua, ma in senso cristiano.
Nel febbraio 1993, Giovanni Paolo
II, in visita al Benin, incontrò i
capi del vodoun e, nel suo discorso,
insistette sulla «necessità del
dialogo tra tutti i credenti in
Dio». I vescovi presenti masticarono
amaro, timorosi
che le parole papali potessero
accrescere la confusione
tra i cristiani, già così
facili a conciliare le due
religioni.
Alcuni cristiani, infatti, si
comportano come tali la
domenica; ma nelle case
conservano i soliti feticci e
amuleti; varie donne sgranano
il rosario inginocchiate davanti
alla Vergine; poi si abbandonano
alle danze più sfrenate in
preda alla possessione. Non sono
pochi coloro che si fanno contemporaneamente
cristiani e musulmani,
considerando Allah e Cristo
alla stregua dei vodoun
tradizionali. Non si sa mai: se
uno non funziona si ricorre all’altro.

RESTITUIRE DIGNITÀ
Da una decina d’anni, le Figlie di S. Gaetano sono
presenti in Togo e, secondo il loro carisma, si
occupano «dei più poveri tra i poveri», curando
ammalati, assistendo handicappati, aiutano la
gente a camminare con le proprie gambe.
Èancora scuro a Fiata, ma la
gente è già in strada per recarsi
nei campi, sfruttando le
ore fresche del mattino. Quando il
sole è alto e il caldo troppo forte, lavorare
diventa più faticoso. Anche il
guardiano della casa delle suore è già
in azione: pulisce il cortile, annaffia
i fiori, apre il portone che immette al
dispensario e subito si forma la lunga
fila di pazienti.
I PIÙ POVERI TRA I POVERI
È così ogni mattina. Suor Fatima,
brasiliana, responsabile della direzione
del dispensario, comincia ad
accogliere i malati e, coadiuvata da
suor Alfonsa e un’infermiera locale,
riempie le schede sanitarie, ascolta
le sofferenze della gente, prescrive e
distribuisce medicine. Malaria e
malnutrizione infantile sono le patologie
più frequenti, insieme alle
infezioni e malanni vari causati dal
clima tropicale e dalla miseria. Negli
ultimi tempi si è aggiunto il flagello
dell’Aids.
Il dispensario è la prima struttura
che le Figlie di San Gaetano, arrivate
in Togo una decina di anni fa,
hanno costruito per rispondere al
loro carisma: amare «i più poveri tra
i poveri». E la povertà è visibile e
tangibile, scolpita nel viso di bimbi
scheletriti soprattutto.
La struttura è semplice, ma dignitosa
ed efficiente, attrezzata per sfidare
le necessità della gente e le precarietà
della situazione del paese: un
sistema di pannelli solari, realizzato
di recente, permette ai frigoriferi di
conservare vaccini e medicine deperibili,
anche quando la rete elettrica
nazionale non funziona; il che
capita spesso.
L’elettricità solare ha reso possibile
attivare un laboratorio di analisi.
Lo hanno organizzato Donato ed
Elena Calocero, due volontari torinesi
che, ottenuto un anno di aspettativa
dall’ospedale delle Molinette
di Torino, hanno montato le strutture,
messo in funzione il laboratorio
e passato le consegne a suor Innocence,
infermiera togolese della
stessa famiglia gaetanina.
Fiore all’occhiello di tutta la diocesi
di Aneho, il dispensario di Fiata
è un’autentica testimonianza di
carità e la gente vi accorre con fiducia,
sia perché vi trova le medicine di
cui ha bisogno, sempre scarse o inesistenti
nelle strutture statali, sia perché
si sente trattata con amore e rispetto
della propria dignità.

I CIECHI VEDONO
GLI ZOPPI CAMMINANO…

Tra i poverissimi le missionarie
hanno incontrato gli handicappati,
con alle spalle storie di degrado ed
abbandono, come quella di Ekoué
Kankoé. Colpito da malformazione
congenita, orfano di madre, rifiutato
dal padre passato in seconde nozze,
il ragazzo conduceva una vita
randagia quando fu scoperto dalle
suore: si trascina a fatica con mani e
piedi; incapace perfino di tirare l’acqua
dal pozzo, era sopravvissuto
grazie alla compassione della gente
e qualche furtarello.
Dopo aver rintracciato un cugino,
che lasciò la scuola per assisterlo all’ospedale,
le suore provvidero a farlo
operare. Quando Ekoué ritoò
al villaggio, la gente non credeva ai
propri occhi, vedendolo ritto sulle
proprie gambe; il padre rimase impietrito,
in un misto di stupore e
rabbia, e continuò a ignorarlo.
Per alcuni mesi il cugino lo portò
a scuola sulle spalle, finché il ragazzo,
con la forza di volontà, riuscì a
recarvisi da solo, con l’aiuto delle
stampelle. Nel frattempo, gli fu trovata
una sistemazione in una famiglia
che, oltre ai propri figli, si prende
cura di quattro orfani.
Oggi Ekoué frequenta la quinta
elementare; nella nuova famiglia ha
trovato la gioia di vivere e ottenuto
tutti i documenti di un normale cittadino.
Anche Yawo Missadjo, detto Tata,
è stato rifiutato dai genitori, ma
è stato accolto da una zia. «È il pri-
mo dramma degli handicappati –
continua suor Luciana -: i genitori li
considerano un castigo divino, una
vergogna da tenere nascosta il più
possibile; quando non sono abbandonati
a se stessi, tali figli vengono
affidati a nonni o zii».
Per 16 anni Yawo non aveva alzato
le mani da terra più di un palmo.
Ma riusciva a fare qualche lavoretto,
intrecciando la paglia. Sottoposto
all’operazione, è riuscito a rimettersi
in piedi. Quindi fu iscritto
alla scuola di alfabetizzazione, ma
con scarso successo: riesce appena
a scrivere il suo nome. Ma ha molte
doti pratiche e alcuni stregoni lo
hanno ingaggiato per fare collane e
altri oggetti artigianali; con i guadagni
riesce a badare a se stesso, anche
se per rinnovare gli apparecchi ortopedici
dipende ancora dall’aiuto
della missione.
Gloria Kankoé è cieca dalla nascita.
Anche lei abbandonata dai genitori,
è stata raccolta dalle suore e
affidata a un istituto per non vedenti,
dove ha imparato a impagliare sedie,
fare stuoie e tappeti. Ha incominciato
a studiare e già maneggia
una macchina da scrivere braïlle.
Il caso di Missan Afli fa eccezione:
fu il padre in persona a portare
la figlia alla missione, quando seppe
che le suore si prendevano cura degli
handicappati. L’esempio delle
suore ha risvegliato in lui l’amore
paterno, offrendo tutta la collaborazione
possibile per restituire alla
figlia la sua dignità.
La bambina camminava con mani
e piedi, ma l’attenzione delle suore
e l’amore del padre le hanno dato
tale forza di volontà per reagire
al suo handicap, finché è
riuscita a camminare senza bisogno
di alcuna operazione. Nonostante
una mano ancora gravemente menomata,
ha imparato a scrivere. La
domenica, mentre procede danzando
in processione con le offerte
della messa, non manca di dare una
sbirciata alla suora, per esprimere la
felicità di camminare come le compagne.
Storie di «ciechi che vedono e
storpi che camminano» ce ne sono
altre 130, racchiuse in un faldone
che suor Luciana sfoglia con la reverenza
dovuta a un messale. Sono
schede con fotografie scattate prima
e dopo l’operazione, dati anagrafici,
situazioni familiari, progressi di
riabilitazione, resoconti contabili,
relazioni aggiornate e spedite regolarmente
al Lilian Fonds, un’associazione
olandese che si occupa del
recupero di handicappati.
«È un lavoro che assorbe energie
fisiche e mentali – confessa sorridendo
suor Luciana, responsabile
di fronte all’associazione dei progetti
di recupero -. Ma procura soddisfazioni
impareggiabili: rimettere
in piedi questi infelici significa reintegrarli
nell’umanità, restituire loro
la dignità umana. Oggi, nel raggio
30-40 km, non si vedono più handicappati
chiedere l’elemosina per
strada. Alcuni di essi hanno raggiunto
la piena indipendenza».
È il caso di Ekoué Gakpea: rimesso
in piedi, ha imparato a fare il sarto;
ha ricevuto una macchina da cucire
e con il suo lavoro mantiene se
stesso e tutta la famiglia. Anzi, è diventato
tanto esperto di macchine
da cucire che va in giro ad aggiustare
quelle degli altri.

MANAGER DELLA…
PROVVIDENZA

Fino a quando non è raggiunta la
piena autonomia, il processo di riabilitazione
è lungo e faticoso: bisogna
seguire caso per caso, controllare
se gli apparecchi sono in buono
stato o troppo stretti, riportarli all’ospedale
per eventuali riparazioni
o adattamenti.
Speciale attenzione è rivolta alle
famiglie degli handicappati, per esigere
la loro collaborazione, specialmente
quando i figli incontrano delle
difficoltà, rifiutano gli apparecchi
ortopedici, si buttano per terra e ritornano
a una situazione peggiore
di quella precedente l’operazione.
«Il mio lavoro consiste nel cornordinare
iniziative e progetti – continua
la missionaria, sentendosi quasi in
colpa per mancanza d’umiltà -. Va-
do a visitare i genitori solo quando
essi rifiutano di essere coinvolti nel
recupero dei figli. Il grosso del lavoro
è fatto da collaboratori, due
uomini e due donne, che scovano i
casi più pietosi, visitano regolarmente
i 130 ragazzi e ragazze, ne seguono
da vicino il processo di riabilitazione
e fanno i rapporti sulla situazione.
Uno dei collaboratori è il mio
braccio destro: battezzato otto anni
fa insieme a tutta la famiglia, macina
chilometri e chilometri, sostenuto da
fede granitica e tanta passione per gli
handicappati, che mi sembra di toccare
con mano la misericordia del Signore
per questa popolazione, povera
e sofferente da fare pietà».
Un’altra iniziativa intrapresa dalle
suore è quella delle adozioni a distanza.
Anche questa attività è racchiusa
in grossi faldoni e gestita da
suor Luciana. «L’adozione dura cinque
anni – spiega la missionaria -: oltre
500 adottati ne hanno beneficiato
e concluso il ciclo elementare; altre
900 sono ancora in corso. Spesso
devo fare le ore piccole per compilare
e aggioare le schede degli
adottati e inviare relazioni ai padrini
e madrine sulla situazione dei figliocci».
Il lavoro più delicato consiste nel
vagliare i casi da aiutare, poiché tutti
sono poveri, ed evitare di creare
dipendenze e, soprattutto, gelosie
tra le famiglie del villaggio. In questo
campo i collaboratori africani si
rivelano indispensabili: una bianca
darebbe troppo nell’occhio. E se la
cavano da veri 007, sia nello scoprire
le reali situazioni familiari, sia nell’evitare
la curiosità dei vicini, sia
nello scattare le fotografie senza che
gli interessati se ne accorgano.
Inoltre, non si parla mai di «adozione
», affinché i genitori non avanzino
pretese, ma il denaro viene distribuito
in tre rate annuali, sotto
forma di prestiti, aiuti di emergenza
o pagamento diretto alla scuola dalla
quale gli alunni sono stati cacciati,
perché i genitori non hanno pagato
la tassa scolastica.
Secondo il sistema proposto dalle
Figlie di San Gaetano, la cifra di
adozione è assai modesta (100 mila
lire, ora portata a poco più di 80 euro);
sbriciolata in tre rate, appare ancora
più esigua, ma non in Togo,
dove tali briciole equivalgono allo
stipendio mensile di molti maestri
di scuola elementare.

A PICCOLI SOGNI
Dopo il ciclo elementare, non c’è
speranza di continuare gli studi: le
tasse per accedere alle scuole superiori
e liceali sono proibitive. Ragazzi
e ragazze cercano di imparare un
mestiere e, magari, mettersi in proprio.
Per realizzare tale sogno occorre
prima di tutto avere un diploma,
senza il quale è impossibile ottenere
la licenza dal governo, e i soldi per
procurarsi strumenti e materiali.
Quando un falegname del luogo,
diplomato in Nigeria, ha presentato
a suor Luciana il progetto di avviare
una falegnameria, con scuola
per giovani apprendisti, e le hanno
chiesto una spinta per avere attrezzi
e rifoirsi di legname, la missionaria
non ha saputo dire di no: ha
scritto alla Caritas di Montegranaro
(Ascoli Piceno), suo paese di residenza,
e sono arrivati alcuni macchinari
e i fondi necessari.
Les Olivieres, così si chiama la
nuova società, è in piena attività: costruisce
e vende mobili di vario genere
e dimensione, preparano assi e
travi per fabbricare case. Mentre i
tre falegnami che gestiscono tale iniziativa
si guadagnano da vivere onestamente,
i quattro giovani imparano
il mestiere e, alla fine dei due anni
di apprendistato avranno il
diploma e potranno realizzare il sogno
di mettersi in proprio.
Ma poiché l’appetito viene mangiando,
suor Luciana ha presentato
alla Caritas marchigiana i progetti
per allargare la società con officine e
relativi corsi di formazione per elettricisti,
fabbri e meccanici. «Les Olivieres
si appoggiano ancora su di me,
ma spero che presto diventino autonomi
e camminino con le proprie
gambe», conclude la missionaria.
Un progetto diventato autonomo
è quello dei mulini per aiutare le madri
di famiglia. Il processo è molto
semplice: un gruppo di donne hanno
chiesto un prestito per comperare
il frantornio, costruire la struttura
muraria, acquistare granoturco, manioca,
palme da olio; una volta macinati
questi prodotti vengono ven-
duti al minuto; il ricavato viene diviso
in v

Benedetto Bellesi




IL BENE SENZA RUMORE di quattro generazioni insieme

Nella quaresima di quest’anno i bambini e i ragazzi
delle scuole elementari e medie di Corti
Sant’Antonio in Costa Volpino hanno raccolto una
somma, che intendono devolvere ai missionari. Di
questi ragazzi, che frequentano la catechesi, non
molti sanno dell’esistenza dei missionari della Consolata;
però ciò che conta è il messaggio che proviene
dal loro cuore, diffuso anche con l’impegno
generoso che hanno dimostrato.
Non sempre ci rendiamo conto del sacrificio dei
missionari, testimoni della fede, che offrono interamente
la vita per gli altri; ma siamo certi che la
preghiera che innalziamo per essi sia la
massima espressione della nostra solidarietà;
e, se talvolta ce ne dimentichiamo,
i nostri don Gianfranco e
don Endrio riaccendono la fiamma.
La somma che inviamo serva a
sostenere l’operato dei padri Rinaldo
Do (Congo) e Sandro Moreschi
(Kenya), che vivono realtà diverse,
ma entrambe difficili.
Cari missionari, nelle vostre preghiere
alla Madonna Consolata ricordatevi
anche della comunità di Corti
Sant’Antonio, perché sia sempre unita nella
fede e nell’amore.
LUIGI COCCHETTI – CORTI SANT’ANTONIO (BG)

Cari missionari, siamo un gruppo di giovani dai
16 ai 25 anni. Tutti gli anni, nel mese di maggio,
facciamo un pellegrinaggio in pullman ad un
santuario che dista 10 chilometri da casa nostra…
L’anno scorso, invece di prendere il pullman, siamo
andati a piedi; inoltre abbiamo fatto pranzo al sacco
e non al solito ristorante.
È stata un’esperienza bellissima, soprattutto
perché, con i soldi risparmiati, abbiamo potuto adottare
un bambino in Brasile. È stata pure una
grande gioia aiutare chi è meno fortunato di noi.
Alcuni ragazzi (che non si sono uniti a noi, ma
sono andati in pullman pensando che si sarebbero
stancati), vedendoci così felici, hanno deciso per il
prossimo anno di fare con noi la stessa camminata.
Facciamo conoscere l’esperienza ad altri giovani
sperando che seguano il nostro semplice esempio.
IL «GRUPPO GIOVANI» – BUSSETO (PR)

Siamo 10 anziani, abitanti in un paesino dell’alta
Val Tidone. Da quando è venuto a trovarci un padre
missionario (che ci ha parlato del terzo mondo),
abbiamo sentito il desiderio di adottare a distanza
un bambino; però non sapevamo come fare,
perché la nostra pensione ci consente ben poco.
Ma ecco che Tina Paulat, catechista dei nostri nipoti
(una santa donna!), ci ha dato un’idea: bere
qualche caffè in meno e destinare gli euro risparmiati
al progetto dell’adozione.
Da allora sono passati tre anni. Oggi siamo molto
orgogliosi di quanto stiamo facendo. Senza atteggiarci
ad eroi, ci sentiamo di dire: «C’è più gioia nel
dare che nel ricevere».
DIECI ANZIANI DI PIANELLO – VAL TIDONE (PC)

Spettabile redazione, fino a qualche tempo fa, una
volta alla settimana ci riunivamo per giocare
a carte; e, fra una partita e l’altra, ci rimpinzavamo
di torte e pasticcini, con l’immancabile spumante.
Siamo un gruppetto di amiche di mezza età.
Tempo fa la nipote di una di noi (missionaria
in Africa) è ritornata al paese per un
breve periodo di riposo. Una sera ci
ha fatto vedere una videocassetta,
che illustra la sua missione. Vedendo
alcuni lebbrosi anziani che
vivono in condizioni precarie (solo
una ciotola di cibo al giorno),
ci siamo sentite un po’ colpevoli.
Pertanto abbiamo deciso di non
mangiare più dolci (che ci fanno anche
male alla salute). Così, quando ci
ritroviamo per la solita partita, ci accontentiamo
di una tazza di caffè. I soldi (che
prima spendavamo per i dolci) li mettiamo in un
salvadanaio e, quando abbiamo raccolto una certa
cifra, li spediamo a quei poveri lebbrosi.

«LE AMICHE DELLA BRISCOLA»
POST SCRIPTUM
Non ci firmiamo, né riveliamo il nome del nostro
paese, perché non vogliamo metterci in mostra e
nemmeno farci intervistare da Emilio Fede.
Quello ci farebbe una telenovela.

Un «bravo» speciale alle «amiche della briscola»,
che rifuggono dai paparazzi della pubblicità. «Il bene
va fatto bene, e senza rumore»: affermano da sempre i
missionari della Consolata…
Le lettere ci propongono modi semplici e concreti di
fare il bene. È un bene che ci piace per tre ragioni:
– coinvolge quattro generazioni (bambini, giovani, adulti,
anziani);
– supera il «privato» ed entra nel «pubblico»: cioè è
fatto insieme; in altre parole (usando la celebre favola
dello scrittore e politico irlandese Jonathan Swift), la
generosità imprigiona il «mostro dell’indifferenza» con
la strategia di «tanti esili fili»… che diventano una
«rete» fitta e robusta;
– c’è pure l’invito a fare altrettanto…
Recita un noto principio etico-filosofico bonum diffusivum
sui: il bene si propaga di per sé… e contagia.

vari




ASSASSINO PER STRADA

Da Mombasa al Congo
(ex Zaire) e ritorno,
i camionisti trasportano
anche… l’Aids.
Salgaà, fermata quasi
obbligatoria per autocarri,
ne è diventato un focolaio
di diffusione, dove
centinaia di donne
vi consumano storie
di miseria
e disperazione.

Entrambe le rotte, che da Nairobi
portano agli altipiani del
Uasin Gishu, offrono bellissimi
panorami. Su quella alta, di ultima
costruzione, non è consigliabile
fermarsi se non si è in un gruppo sostenuto:
la zona ospita la più forte
concentrazione di ladri e banditi del
Kenya. Imbocchiamo quella bassa,
antica, costruita dai prigionieri italiani
dell’ultima guerra mondiale.
Tutto sembra sereno: le panoramiche
sono straordinariamente varie
e belle. La visione della Rift Valley
è meravigliosa. I turisti si fermano
per godersi lo spettacolo e sono
subito assediati dai venditori di souvenirs,
che sbucano dalle numerose
baracche impiantate sulla strada.
Una di esse, chiamata «Milano Curious
», è specializzata nella vendita
di lance «originali» dei maasai, da loro
usate per uccidere i leoni. In realtà
vengono da un’officina alla periferia
di Nairobi; altre, più rudimentali,
dalle forge di fabbri kikuyu abitanti
nella zona. Solo i turisti troppo ingenui
si lasciano convincere.
Nonostante la serenità, il viaggio è
accompagnato da tristi ricordi per le
centinaia di persone che hanno perso
la vita in orrendi incidenti stradali
sulla rotta Nairobi-Nakuru. Al primo
cavalcavia dopo Limuru, anni
orsono, un missionario irlandese,
mio caro amico, venne ucciso in circostanze
sospette, ma ufficialmente
si parlò di «tentativo di sequestro di
vettura».
Appena oltre Naivasha una semplice
croce di legno segna il posto
dove fu trovato morto il missionario
americano padre Kaiser. Gli investigatori,
statunitensi dell’Fbi (che si fecero
rubare le pistole) e le autorità
locali affermarono trattarsi di suicidio;
ma nessuno vi ha creduto: l’ex
marine americano avrebbe dovuto
compiere centinaia di chilometri,
dalla sua missione tra i maasai, per
commettere il suicidio lungo una
strada a lui sconosciuta, a tre chilometri
da una stazione di servizio in
cui aveva fatto il pieno di benzina.
Oltre Nakuru, 25 km a nord,
all’incrocio per Rongai, s’incontra
Salgaà, una fermata
per autocarri che dal Kenya vanno in
Congo (ex Zaire), attraverso Uganda
e Rwanda. La località non compare
sulle mappe del paese, tanto
meno sulle brochures delle agenzie di
viaggi; ma è tristemente famosa per
i frequenti incidenti stradali. Fino a
cinque anni fa vi si fermavano solo la
polizia, per ragioni di lavoro, e i matatu
(taxi superaffollati) che, per evitare
rischi e pericoli, viaggiano in
compagnia.
Da qui, infatti, comincia la lunga
salita che, dal fondo della Rift Valley,
sale verso gli altipiani. Gli autocarri,
sempre sovraccarichi, viaggiano a
passo di lumaca, facilitando gli attacchi
dei banditi, a volte senza fermare
gli automezzi: tagliano i lucchetti
di cassoni e container e gettano
la mercanzia sulla strada, mentre
i complici seguono con i camioncini
e ricuperano la refurtiva.
Da alcuni anni, con l’aggravarsi di
tali fatti, i camionisti hanno paura di
affrontare di notte la salita: la sosta
nottua è praticamente obbligatoria.
Così Salgaà è nata ed esiste solo
per i soldi che i camionisti vi spendono
ed è diventato tristemente famoso
anche come centro di propagazione
dell’infezione di Aids.
Salgaà non è altro che una piccola
«Sodoma e Gomorra», un grande
postribolo. Un agglomerato di baracche
con una popolazione di circa
2 mila persone; 21 bar e vari hotel,
oltre 300 prostitute e quattro cliniche
per malattie veneree. Nessun distributore
di benzina, né botteghe,
né un servizio sanitario, come drenaggi
e fogne; l’acqua è sempre insufficiente.
Al calare delle tenebre i camionisti
parcheggiano gli autotreni
in doppia fila, formando
una solida muraglia in entrambi i
lati della strada. Bar e rosticcerie entrano
in azione. Arrivano le donne;
atmosfera e locali si riempiono degli
odori di birra, carne arrostita, spezie
varie, sapone e sudori umani.
In tempo di piogge, Salgaà è un
mare di fango nero, tipico della terra
locale chiamata cotton soil (terreno
da cotone), che entra nelle scarpe
e le risucchia via dai piedi; si attacca
dappertutto, scivoloso come
sapone. Poche ore di sole e diventa
dura come cemento. E ricomincia il
polverone.
Ma nessuno si lamenta. Se tutti si
adattano al fango o polverone, le
prostitute cercano di premunirsi al
pericolo d’infezione dell’Hiv-Aids,
ma non riescono ad evitarla: nel giro
di sette anni sono raggiunte dalla
sentenza di morte.
Tutti in Kenya sono al corrente di
tale epidemia: è stata ufficialmente
dichiarata «stato di emergenza nazionale
». Ma negli ospedali governativi
non vi sono più posti letto.
Quelli privati si sbarazzano dei pazienti,
a meno che non siano in grado
di pagare un prezzo esorbitante
per una cura che non esiste. I dati ufficiali
del 2001 dicono che in Kenya,
su una popolazione di circa 30 milioni
di persone, ne sono morte 250
mila. Il numero è molto più alto.
Tra la gente comune raramente si
parla di tale sindrome: significherebbe
un’implicita aberrazione sessuale.
Gli annunci per radio o sui
giornali parlano di «lunga malattia
coraggiosamente sopportata». In
modo figurativo si usano frasi come
slim o kauzi (magro come un filo),
mikingo (lenta foratura) e altre colorite
espressioni dei dialetti locali.
«Sono venuta qui per disperazione
– spiega Jane G. -.
Non mi piace quel che faccio,
ma non ho altra scelta. Rischiamo
la vita senza nessun profitto».
Tutte le donne che arrivano a Salgaà,
sfidando un rischio così alto per
un prezzo irrisorio (due-tre dollari,
un vestito o un pezzo di stoffa), sono
spinte da miseria e destituzione dal
lavoro. Le statistiche, per quel che
valgono, dicono che il reddito medio
dei kenyani è di 290 dollari per anno,
meno di un dollaro al giorno. L’esplosione
demografica continua; cresce
il tasso di disoccupazione.
Ultima nata in una famiglia numerosa,
condannata fin dalla nascita a
vivere nella miseria, Jane era rimasta
orfana dei genitori quando frequentava
la scuola media. Accolta dalla
nonna, anch’essa povera in canna, rimase
incinta a 17 anni e fu espulsa
dalla scuola. Abbandonato il villaggio
natio, trovò rifugio e qualche lavoro
presso un convento di suore cattoliche.
A 19 anni è finita a Salgaà.
Con la figlia di quattro anni, vive
in una piccola baracca di legno. I
muri della stanza sono coperti di vecchi
giornali, che servono a tenere
fuori vento e pioggia. Una tendina
divide la stanza in «soggiorno» e «camera
da letto». In un angolo sono
ammucchiati gli utensili da cucina. Il
focolare a legna si trova nel cortile.
La stanza è mantenuta scrupolosamente
pulita.
La baracca di Jane è in un angolo
del cortile, sul quale se ne affacciano
altre 15. Vi è un rubinetto dell’acqua,
che spesso non funziona; due cosiddette
docce e quattro latrine comuni
sono in uno stato pauroso: il tutto
per 30 persone.
In una capanna di fango, dietro al
Good Time Bar, troviamo Monica
M., 32 anni, Aids all’ultimo stadio.
Sta adagiata su un sofà mezzo scassato,
la pelle giallastra, marcata da segni
d’infezioni cutanee, il corpo deperito.
Da un anno soffre di polmonite
e tubercolosi. Sembra arrivata a
pochi giorni dalla morte.
All’improvviso arriva Peter, fratello
di Monica. Insiste nel dire che la
sorella soffre di tubercolosi e sta «migliorando
». Ma Jane, che mi accompagna,
m’informa che Peter è appena
ritornato dal villaggio natio, dove
si era recato per informare la parentela
dell’imminente trapasso della sorella.
Anche lui è disperato: ultimo adulto
della famiglia rimasto in salute,
deve provvedere a tutto; ma per le
cure mediche non ci sono più soldi.
Da Mombasa al Congo e ritorno, i
camionisti trasportano nel loro sangue
il morbo dell’Hiv e lo distribuiscono.
Salgaà è diventato un amplificatore
della tragedia dell’Aids, che
infetta circa il 14% della popolazione
kenyana.
In questa stagione non c’è il fango;
ma il polverone pervade l’atmosfera.
La zona appare desolata
come sempre e le storie di disperazione
provocano un attacco di
depressione. Neppure i verdi e freschi
altipiani del Uasin Gishu riescono
totalmente a far dimenticare
le sordide realtà
di Salgaà.

Giorgio Ferro




DA BABELE A PENTECOSTE

Fondata negli anni ’60 dai missionari della Sma
(Società missionaria per l’Africa), la missione
di Grand Béréby è stata affidata ai missionari
della Consolata che, oltre a continuare
il lavoro dei predecessori, affrontano
nuove sfide nel campo
dell’evangelizzazione,
sanità e promozione umana.

Dall’alto della collina, dove
sorge la missione di Grand
Béréby, l’oceano sembra a
portata di mano e lo sguardo si estende
all’infinito. Ma tra l’altura e il
mare il panorama non è affatto entusiasmante:
un agglomerato di abitazioni
sgangherate e tetre, come l’asfalto
che le spacca in due, è reso ancora
più triste da un velo di vapori
tropicali che il sole non riesce a
perforare. L’unico edificio che rompe
la monotonia del paesaggio è il
municipio, che spicca con prepotente
dignità per il pulito giallo ocra
della sua tozza mole.
Prima che il sole sparisca nelle acque
dell’oceano, il congolese Rombaut
Ngaba, missionario fratello, mi
accompagna a visitare il paese.

QUASI UN PRESEPIO
Dieu est grand (Dio è grande) recita
la scritta sui parabrezza di scassatissimi
pulmini e taxi, posteggiati ai
bordi della strada. La leggo con devozione,
come una giaculatoria, finché
mi sovviene che è la traduzione
dell’arabo Allah akbar. Continuo a ripeterla
mentalmente, con spirito ecumenico,
ma meno devozione,
mentre osservo botteghe e bottegucce
tuttofare che costeggiano l’asfalto.
L’abbigliamento dei gestori non lascia
dubbi: sono musulmani.
«Commerci e trasporti sono quasi
tutti in mano loro – spiega la mia guida
-. L’amministrazione è appannaggio
dei locali kru; togolesi e beninesi
gestiscono rudimentali ristoranti; ad
altri gruppi stranieri sono riservati lavori
più pesanti o rifiutati dai locali».
«I pescatori vengono dal Ghana»,
continua il fratello, mentre arriviamo
al porto. Alcuni uomini nerboruti
rattoppano le reti; altri, con grosse
ceste sulla testa e acqua alla cintura,
scaricano il pesce dalle barche e lo
ammucchiano sulla terra ferma. I
bambini guardano curiosi e festanti,
mentre un nugolo di donne vocianti
acquistano la merce; altre sono già
al lavoro: puliscono e friggono grossi
pesci per rivenderli al minuto su
banchetti traballanti.
Il sole è tramontato; la notte scende
veloce. Le fioche lampadine penzolanti
nei negozi e le candele delle
bancarelle trasformano il paese in un
presepio. Lo spettacolo è suggestivo,
ma la realtà non cambia. La vita è dura
a Grand Béréby, specie per le donne,
che rimarranno fino a notte fonda
accanto alle loro mercanzie, in attesa
di racimolare qualche centesimo
per sfamare la famiglia.
Altra gente, invece, comincia a divertirsi.
Due discoteche, pomposamente
chiamate «ministeri della cultura
», hanno aumentato il volume
dei giradischi e richiamano i clienti
che, essendo stagione di raccolti,
hanno qualche franco in tasca e tante
cose da dimenticare.
Per i missionari, invece, arriva l’ora
di andare a riposare. Cerchiamo
di chiudere occhi e orecchi, perché
la musica durerà tutta la notte.

PROBLEMI E PROBLEMI
Baciato dalla luce del mattino,
Grand Béréby appare meno scalcinato.
Ma a rituffarmi nella realtà del
luogo arriva Paul Ino, capo tradizionale
e presidente del consiglio parrocchiale.
Parla dell’isolamento della
regione, perché la strada asfaltata
è dissestata e quelle che si addentrano
nella foresta non meritano tal nome;
della vita sempre cara, dal momento
che, fuorché il pesce, Grand
Béréby deve importare tutto da lontano.
Si passa al problema dell’istruzione:
le scuole elementari sono insufficienti;
quella secondaria è praticamente
interdetta alla popolazione
dell’interno, a causa delle distanze e
alla mancanza di alloggi per studenti,
maestri e altri funzionari. Come altri
capi, anche il signor Ino prospetta
l’esigenza di una scuola cattolica.
«Il problema più grave è quello
della sanità – continua il capo -. Comune
di circa 5 mila abitanti e capitale
di regione che si estende per oltre
80 km verso la Liberia e altrettanti
nell’interno, Grand Béréby dispone
di un dottore e un dispensario, con
un reparto di mateità, per decine
di migliaia di persone. Mancano le
medicine essenziali e, per i casi gravi,
bisogna ricorrere a San Pedro, a più
di 50 km di distanza. Ma se i casi sono
più di uno, dato che disponiamo
di una sola ambulanza, la gente deve
servirsi di taxi, che costano un occhio
della testa».
Conoscendo un poco la situazione
creatasi negli ultimi mesi, stuzzico il
capo sul problema dei rapporti sociali.
«Grand Béréby è un paese cosmopolita» attacca il capo, ripetendo
un ritornello che mi ronza nelle orecchie
da parecchi giorni. Dopo aver
sciorinato la babele di etnie e lingue
sotto la sua giurisdizione, continua
imperterrito: «Da Grand Béréby
alla Liberia e oltre i confini, è terra dei
kru, da secoli popolazione di marinai.
Ora che tutto è automatizzato, essi
non hanno più lavoro e neppure i
campi da coltivare, da generazioni in
mano agli stranieri: i kru li rivogliono
indietro».

L’ALTRA CAMPANA…
Quella dei missionari ha un suono
differente: i kru sono sfaticati; per
questo hanno affittato la terra agli
stranieri. I burkinabé, invece, sono
grandi lavoratori: hanno sudato sangue
per dissodare la foresta e organizzare
belle piantagioni; proprio ora
che ne raccolgono i frutti e vedono
realizzarsi il sogno di una vita, si sentono
minacciati di espulsione: non ci
stanno a cedere su un piatto d’argento
tanti anni di fatica.
Se non ci fossero gli immigrati,
specie i burkinabé, l’economia della
Costa d’Avorio crollerebbe all’istante:
sono essi a fare i lavori più pesante
o rifiutati dai locali. «Anche la parrocchia
di Grand Béréby sarebbe ridotta
al lumicino» aggiunge padre
Willy, missionario della Consolata
congolese.
Tra i kru, infatti, i cristiani sono pochissimi:
alcuni sono arruolati nei
gruppi evangelici protestanti; la maggioranza
ha abbracciato l’harrismo,
un movimento sincretista affermatosi
lungo la costa avoriana all’inizio del
1990 (vedi riquadro). «La chiesa cattolica
è arrivata troppo tardi» sentenzia
il capo Ino. «Cultura e tradizioni,
specie la poligamia, ostacolano
la loro conversione al cristianesimo»
spiega invece padre Willy.
L’evangelizzazione della regione fu
avviata negli anni ’50 dai missionari
della Sma, provenienti da San Pedro;
essi si occuparono più di alcune zone
dell’interno che del centro. La
presenza di un missionario a Grand
Béréby è iniziata negli anni ’60.
Dall’aprile del 2000 la parrocchia
è affidata ai missionari della Consolata.
Essa conta oltre 5 mila cristiani,
distribuiti in 21 comunità sparse per
lo più nella foresta. Sotto l’aspetto
geografico il territorio è diviso in 7
zone, in cui i villaggi minori ruotano
attorno alle comunità più grandi. Il
centro di Dobo, per esempio, comprende
vari villaggi per un raggio di
30 km; ha una comunità bene organizzata,
una chiesa più bella di
Grand Béréby e potrebbe diventare
parrocchia indipendente.

MINISTERO DI CONSOLAZIONE
Alle 8 del mattino i primi clienti
sono in fila davanti al dispensario, sistemato
accanto alla chiesa. Dentro,
in maglietta e ventilatore al massimo,
fratel Rombaut, specializzato in infermieristica,
esamina gli occhi di un
uomo magro come un chiodo. Appena
mi vede, indossa il camice bianco
per la rituale fotografia; se lo toglie
e ritorna a interrogare il suo
cliente. «La tua malattia si chiama fame
» sentenzia sorridendo, mentre
ordina alla sua assistente di preparare
alcune confezioni di vitamine e
raccomanda alla moglie del paziente
di cucinargli tanto pesce.
«All’inizio la gente arrivava col
contagocce – racconta il fratello -.
Pensava che il dispensario si prendesse
cura solo dei cattolici. Poi una
mamma musulmana ha portato il
proprio figlio e la fama si è sparsa in
un baleno. Oggi abbiamo una ventina
di pazienti al giorno; il sabato raddoppiano,
attirati anche dal fatto che
diamo medicine a un prezzo più basso
che nelle farmacie e, quando qualcuno
non riesce a pagare tutto, chiudiamo
un occhio».
Il dispensario è parte del progetto
sanitario esteso a tutti i villaggi del
territorio parrocchiale. In ognuno di
essi c’è la «caisse pharmacie», una
specie di pronto soccorso, dotato di
medicinali di prima necessità e gestito
da due «agenti di sanità comunitaria
», appositamente preparati per
far fronte ai casi più frequenti: malaria,
diarrea, ferite e infezioni varie.
Ogni settimana fratel Rombaut visita
i villaggi, per continuare la formazione
degli agenti e fare «animazione
sanitaria» tra la gente, con corsi
d’igiene per mamme e levatrici
tradizionali. Ha iniziato pure una
campagna di vaccinazione dei bambini
contro la poliomielite, difterite,
morbillo, tetano. «Dovrebbe essere
un dovere dello stato – continua fratel Rombaut – ma i responsabili della
sanità non hanno mezzi o voglia di
spingersi nell’interno della foresta
per le vaccinazioni. Mi sono messo
d’accordo col centro sanitario di San
Pedro, offrendomi di fare il suo lavoro;
ho scoperto dei lebbrosi e foisco
medicine pure a loro».
Oltre al lavoro professionale, il fratello
dà una valida mano in quello
prettamente religioso. Il sabato pomeriggio
spiega il catechismo ai giovani
della scuola secondaria di
Grand Béréby; la domenica si reca
in uno dei villaggi per animare la comunità,
spiegare la parola di Dio,
portare l’eucaristia agli ammalati.
«Tale attività mi procura tanta soddisfazione
– conclude -. All’inizio il
lavoro con i giovani è stato duro; ma
ora il contatto è aperto e cordiale.
Nei villaggi, poi, non ci sono mai state
difficoltà: straniero tra stranieri, ci
capiamo di primo acchito».

INSEGNARE A «PESCARE»

«Il progetto sanitario ci fa conoscere
come evangelizzatori – aggiunge
padre Willy -. È un servizio di
consolazione concreta, anche se con
dei limiti, poiché per i casi più gravi
bisogna ricorrere all’ospedale. Molte
altre realtà umane sfidano la nostra
presenza, ma non possiamo abbracciarle
tutte. Siamo appena arrivati;
le domande su cosa fare sono
più delle risposte».
Nonostante la modestia, a Grand
Béréby c’è già molta carne al fuoco.
I missionari hanno avviato una scuola
di alfabetizzazione, dove i giovani
imparano a leggere e scrivere e qualche
parola di francese. «È umiliante
per un giovane dover dire di non saper
leggere, quando è invitato a fare
una lettura nei nostri incontri – continua
il padre -. E sono molti i ragazzi
analfabeti, perché la scuola costa
e i genitori non hanno la possibilità
di mandarvi i figli».
Le donne hanno chiesto di fare
qualche cosa anche per loro: nella sede
parrocchiale si tengono corsi di
taglio e cucito e maglieria, in cui un
gruppetto di signore imparano il mestiere
e, tornate nei propri villaggi, lo
insegnano ad altre donne, si aiutano
a vicenda e organizzano una piccola
cornoperativa. La missione, quando
può, fornisce lana e materiale che arriva
dai benefattori.

Buona parte del tempo è assorbito
dall’organizzazione delle comunità
di base e dalla formazione umana
e religiosa di animatori e catechisti.
Ogni anno si tengono tre corsi
sistematici. «È una formazione continua,
poiché la gente va e viene –
spiega padre Willy, incaricato di tale
compito -. A Grand Béréby abbiamo
già qualche catechista locale; ma
nei villaggi sono tutti immigrati dall’interno
del paese e da altre nazioni,
specie il Burkina Faso. Se un leader
torna a casa, bisogna procurare un
sostituto. Grazie a Dio, non è difficile
trovare persone motivate per
servire la comunità; resta sempre il
problema di prepararle adeguatamente.
Intanto la chiesa cresce. Ogni
anno abbiamo circa 400 battesimi
» sospira padre Willy.

IL SOFFIO DELLO SPIRITO
La catechesi è l’attività principale
della parrocchia; il catecumenato
quella dei singoli villaggi. I catecumeni
sono coinvolti in tutte le attività
comunitarie: s’incontrano, pregano,
cantano, giorniscono insieme agli
altri cristiani.
Una volta al mese le cappelle minori
si uniscono alla comunità più
grande, dove il padre si reca a celebrare
la messa. Così tutti gli animatori,
catechisti e comitati ecclesiali
della zona si ritrovano e discutono
tutto ciò che riguarda la loro vita cristiana:
catechesi, catecumenati, formazione
e altre attività.
Tutte le domeniche l’eucaristia diventa
un evento pentecostale. Anche
se il francese fa la parte del leone, le
letture vengono fatte anche in altri idiomi,
a seconda della consistenza
dei gruppi linguistici presenti. Così
pure l’omelia viene tradotta in tre o
quattro lingue.

Dopo la celebrazione, i vari gruppi
linguistici si radunano dentro e
fuori la chiesa e, sotto la guida del catechista,
riprendono e approfondiscono
quanto è avvenuto nella liturgia
domenicale. Così gli autoctoni ascoltano
il messaggio di Dio in lingua
kru; quelli del Burkina Faso in moré,
gourcy e dogary; i gruppi avoriani in
baoulé, bété, abron, koulango; i ghanesi
in fantis. «Non bisogna avere
fretta – conclude serafico padre Willy
-, perché si ripeta anche qui il miracolo
della pentecoste, quando tutti
i popoli “udirono annunciare nella
propria lingua le grandi
opere di Dio” (cfr Atti 2,
6-11)».

Benedetto Bellesi