Dimenticate le Olimpiadi, il Brasile è tornato ai problemi di questi ultimi anni: crisi economica e crisi morale. Il governo Temer, nato da un golpe parlamentare ed espressione dell’oligarchia, non ha in agenda la difesa dei diritti dei popoli indigeni. Al contrario, accentuerà la loro erosione, spinto da un Congresso dominato dagli «uomini BBB» (pallottole, vacche, Bibbia). Ne abbiamo parlato con dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, la combattiva organizzazione indigenista contro la quale il governo del Mato Grosso del Sud ha addirittura istituito una Commissione d’inchiesta. Per aver difeso i popoli indigeni dalle violenze dei propri latifondisti.
Dopo dieci anni e mezzo come vescovo di Boa Vista, nello stato di Roraima, dal dicembre 2015 mons. Roque Paloschi è arcivescovo di Porto Velho, capitale di Rondonia. Alcuni mesi prima del suo trasferimento, il prelato – nato nella cittadina di Progresso, nello stato di Rio Grande do Sul, da una famiglia di origine italiana – era stato nominato presidente del Conselho indigenista missionário (Cimi), l’organizzazione creata nel 1972 per appoggiare la lotta dei popoli indigeni del Brasile. A fine luglio il Cimi ha ottenuto lo status di consulente per la tematica indigena nel Consiglio economico e sociale (Ecosoc) delle Nazioni Unite.
Questo momento storico
Mons. Paloschi, il Brasile sta vivendo un periodo storico molto particolare.
«Sicuramente. È un momento che nasce anche da una lotta contro le conquiste sociali ottenute negli ultimi anni. Il nuovo governo (vedere tabella di pagina 53, ndr) è composto da corrotti, come dimostra la situazione di vari ministri».
Nel corso dell’ultimo anno, lei è passato dalla diocesi di Boa Vista a quella di Porto Velho. È diventato anche presidente del Consiglio indigenista missionario (Cimi). Quale dei due compiti ritiene che sarà più difficile?
«Sono due sfide nuove che esigono molto impegno. Tuttavia, non c’è dubbio che la questione indigena è oggi una tematica cruciale in Brasile».
Parliamo allora del Cimi, l’organismo della Conferenza episcopale brasiliana.
«È stato creato negli anni Settanta per accompagnare il cammino dei popoli indigeni. Dopo otto anni con alla guida mons. Erwin Kräutler1, da un anno io ne ho assunto la presidenza. Oggi l’organismo sta vivendo un momento molto impegnativo a causa della difficile condizione degli indigeni. In Mato Grosso do Sul è stata addirittura creata una commissione (Comissão parlamentar de inquérito, Cpi) per investigare sul suo comportamento (vicenda raccontata nel riquadro di pagina 54, ndr)».
Il Cimi ha da poco reso pubblico, come fa ogni anno, il rapporto sulle violenze perpetrate ai danni dei popoli indigeni in Brasile. Che quadro ne è uscito?
«Che anche nel corso del 2015 i popoli indigeni hanno subito un gran numero di violenze. Il nostro rapporto annuale – Violência contra os povos indígenas no Brasil – è un lavoro riconosciuto a livello internazionale. Con esso noi denunciamo la violenza delle imprese minerarie, di quelle dell’agroindustria e del legno, ma anche del governo con le sue repressioni poliziesche».
A fine dicembre un bambino di etnia Kaingang è stato ucciso alla stazione dei bus davanti agli occhi della mamma. Come ha reagito il paese?
«L’assassinio di Vitor2, un bambino di 2 anni, dimostra che la società è discriminatoria, spesso alimentata dai grandi media del Brasile. La sua morte ha provocato, evidentemente, una certa commozione, ma non c’è un atteggiamento di accettazione della società brasiliana verso gli indigeni e la loro cultura. È violenta».
I popoli indigeni e la politica «Bala, Boi, Bíblia»
Provi a farci un elenco dei principali problemi dei popoli indigeni del Brasile.
«Il primo grande problema è l’indifferenza della società brasiliana. Un’indifferenza storica, che parte dai colonizzatori che vedevano nei popoli indigeni una cultura arretrata. Come non fossero persone con una dignità. Il secondo problema è l’aggressione ai diritti che, a costi altissimi, furono introdotti nella Costituzione del 1988. Oggi c’è un tentativo di de-costruzione di questi diritti attraverso tante proposte di modifiche costituzionali (Proposta de emenda constitucional, Pec). C’è poi l’invasione delle terre demarcate per mano di vari soggetti: le compagnie minerarie, le imprese del legno, le compagnie per le grandi opere del governo. Possiamo qui ricordare le centrali di Belo Monte, Balbina, Jirau3 e molte altre. C’è infine il grande problema della salute indigena, che versa in un caos generalizzato: le sue prospettive sono molto difficili».
Prima di essere esautorata, la presidenta Dilma non aveva fatto molto per la questione indigena. Basti pensare che, come ministra dell’agricoltura, aveva Kátia Abreu, nota ruralista e anti-indigena.
«Per i popoli indigeni il governo Temer costituirà una prova ben più difficile rispetto al governo Dilma. L’obiettivo di questo governo è eliminare i diritti dei popoli indigeni. È di aprire l’accesso alle loro terre. È tagliare tutte le politiche di promozione indigena: dall’educazione differenziata alle università. Noi non ci facciamo illusioni sul governo Temer. Come non ce ne facciamo sul Congresso nazionale, sempre più ostile verso la causa indigena e verso quella afro. È un Congresso estremamente conservatore e interessato soltanto al capitale internazionale».
Dom Roque, lei dunque conferma che il Congresso brasiliano è dominato da partiti avversi ai popoli indigeni?
«Confermo. Nel Congresso nazionale noi abbiamo tre schieramenti (bancadas) anti-indigeni: la bancada della Bibbia (Bíblia), quella della pallottola (bala) e quella della vacca (boi)4. Anche il potere giudiziario ha un atteggiamento completamente contrario. Insomma tutti i poteri dello stato mostrano una grande insofferenza nei confronti dei popoli indigeni».
L’illusione dello sviluppo
Dom Roque, una delle obiezioni che si fanno alle politiche indigeniste può essere riassunta in una frase: troppa terra per pochi indigeni.
«È una obiezione infondata. In primis, perché tutta la terra del Brasile era loro. Essi l’abitavano da tanto tempo. Secondo, gli indigeni hanno un usufrutto della terra e non la proprietà. Terzo, è generalmente riconosciuto, anche dallo stesso governo brasiliano, che le terre indigene sono meglio conservate delle altre. Non mostrano la distruzione della natura come le altre. I fiumi in terra indigena, quelli non inquinati dai garimpos (miniere), sono di acqua cristallina. Da ultimo, non è che la terra appartenga agli indigeni, sono gli indigeni che appartengono alla terra. Appartenere alla terra invece che essee proprietario è ciò che definisce un indigeno. Questa è una differenza che, a prima vista, ai nostri occhi pare incomprensibile».
Un’altra obiezione riguarda la necessità dello sviluppo economico, soprattutto ora che il paese è passato dal miracolo economico alla crisi.
«Il paese deve trovare un equilibrio. Tutti questi progetti servono? Noi dobbiamo chiederci che sviluppo vogliamo. Uno sviluppo dove pochi hanno molto e molti non hanno niente? Oppure uno sviluppo equilibrato in cui ci sia una relazione corretta con l’ambiente e la creazione? Questa Casa comune – come la chiama il papa – è amministrata molto male. I popoli indigeni sono quelli che possono insegnarci come curarla e mantenerla. Secondo: con questo ritmo di sviluppo non ci potranno essere risorse per tutti. È necessario un percorso di austerità, una vita più sobria invece dell’attuale che prevede il consumo per il consumo».
È un fatto che in?Amazzonia si stia facendo di tutto. In modo legale e illegale.
«L’Amazzonia è stata sempre vista come il luogo dell’abbondanza. Per il Portogallo prima, per il Brasile poi, ma non per i popoli indigeni. Le sue risorse sono state messe al servizio del capitale, nazionale e internazionale. I progetti vengono calati dall’alto e non rispettano i modi di vivere di chi l’Amazzonia la abita da sempre. In altre parole, sono fatti per servire i grandi interessi e non certo i popoli amazzonici».
Come Cimi siete spesso accusati di fare politica. Come sono le vostre relazioni con il potere?
«La nostra è una relazione estremamente discreta. Il nostro lavoro non ha bisogno di presidenti. Noi seguiamo il Vangelo».
La missione istituzionale della Funai, organo ufficiale dello stato brasiliano, sarebbe quella di proteggere e promuovere i diritti dei popoli indigeni del paese. È un compito che essa assolve in modo adeguato?
«Storicamente il Brasile non ha mai svolto un lavoro di promozione indigena. La Funai è stata fondata dai militari e guidata per molto tempo secondo la filosofia della sicurezza nazionale5. Oggi è un organismo totalmente disorganizzato e limitato dalle stesse leggi brasiliane».
La Casa comune: distruttori e difensori
Dom Roque, cosa pensa dell’atteggiamento di papa Francesco rispetto ai popoli indigeni? E degli errori commessi in passato dalla Chiesa cattolica nei loro riguardi?
«Già nella Evangelii Gaudium il papa aveva parlato dei popoli indigeni. Nella Laudato si’ il papa è andato oltre scrivendo quasi un inno di riconoscenza verso la ricchezza dei popoli indigeni. Quanto al passato, in vari discorsi tenuti in Bolivia e in Messico Francesco ha riconosciuto i peccati commessi dalla Chiesa cattolica rispetto a loro. Noi aspettiamo la sua visita in Brasile nel 2017. Stiamo cercando di inserire una tappa nel Pará e in particolare nella regione del rio Tapajós, dove la costruzione delle dighe – ne sono previste ben 43 – sta mettendo a repentaglio l’esistenza di molti popoli, compresi alcuni incontattati6».
Da sempre i popoli indigeni vengono additati come popolazioni retrograde. Voi sostenete che le loro modalità di vita possono insegnare molto a noi occidentali.
«Da 500 anni i popoli indigeni hanno messo in discussione la rapina e la violenza contro la Madre Terra, imposta dall’Occidente con il suo modello economico e di sviluppo fortemente distruttivo. I popoli indigeni ci possono insegnare una relazione armoniosa con l’ambiente e la natura. Ci possono insegnare a vivere senza essere schiavi del denaro e dell’accumulazione».
Dom Roque, come presidente del Cimi come vede il futuro?
«La decisione è nelle nostre mani: o accogliere le grida dei popoli indigeni o distruggere la nostra Casa comune nel nome del profitto e del benessere di pochi».
Paolo Moiola
Note
1 – Il suo pensiero in: Ewin Kräutler, Ho udito il grido dell’Amazzonia, Prefazione di Leonardo Boff, Emi, Bologna 2015.
2 – Su questo fatto di cronaca e sugli assassini di indigeni in America Latina, si veda: Paolo Moiola, Una vita a buon mercato, MC, giugno 2016.
3 – Sulle dighe di Jirau e Santo Antonio rimandiamo a: Paolo Moiola, Le dighe della felicità, MC, ottobre 2012.
4 – Lo schieramento (bancada) della Bibbia è guidato dal pastore neopentecostale Marco Feliciano, quello della vacca dal medico e ruralista Ronaldo Caiado e quello della pallottola dal militare Jair Bolsonaro.
5 – La Funai è nata nel 1967, sostituendo il Serviço de proteção ao índio (Spi), che era stato creato da Candido Rondon, un militare di origini indigene.
6 – Sulle opere in terre indigene si veda: Cimi, Empreendimentos que impactam terras indígenas, Brasilia 2014. E sulle violenze: Cimi, Relatório. Violência contra os povos indígenas no Brasil. Datos de 2015, Brasilia 2016.
Archivio MC e Video
Mato Grosso del Sud
Dove un indio non vale una vacca…
… o un campo di soia o di canna da zucchero o di eucalipto. È lo stato brasiliano dove si contano più violenze ai danni delle popolazioni indigene per mano dei proprietari terrieri (fazendeiros). Nel 2015 sono stati ammazzati 36 indigeni e 45 si sono tolti la vita.
Il Mato Grosso del Sud è uno stato brasiliano del centro-ovest. È esteso come la Germania, ma ospita soltanto 2,5 milioni di abitanti. I numeri che lo caratterizzano sono i seguenti: 21,7 milioni di bovini (9 vacche per abitante), 1,1 milione di ettari di terra coltivati a soia (per 5 milioni di tonnellate prodotte annualmente), 550 mila ettari di terra coltivati a canna da zucchero (soprattutto per il mercato dell’etanolo), 380 mila ettari coltivati ad eucalipto (per il mercato della cellulosa)1. Vi risiedono anche circa 77 mila indigeni, tra i quali i Kaingang e almeno 43 mila Guarani-Kaiowá, abitanti originari2. Un tempo erano i «padroni» di queste terre, poi – a partire dalla fine del XIX secolo – iniziarono a essee espulsi dai bianchi. Oggi vivono – letteralmente – in accampamenti ai margini delle strade (come la Br-290 e la Br-386) o in qualche angusto spicchio delle 63 terre indigene (Ti) ufficialmente esistenti nello stato secondo la Funai3. La gravità di questa condizione è riassunta in un dato impressionante: nel solo 2015, tra gli indigeni del Mato Grosso del Sud, sono stati registrati 45 suicidi4, con un tasso d’incidenza molto più elevato che nel resto della popolazione brasiliana.
In questi anni di aumento della domanda di prodotti, nel Mato Grosso del Sud la frontiera agricola ha continuato ad espandersi e a concentrarsi nelle mani dell’oligarchia fondiaria, sempre a discapito delle popolazioni indigene.
Quando si ribellano, magari riprendendosi (retomada, è il termine utilizzato dagli indigeni; invasão, è il termine utilizzato dai non-indigeni) parte delle terre (Tekoha, che in lingua guarani significa «il luogo del modo di essere guarani») che appartenevano ai loro avi, vengono vessati dalle autorità locali e soprattutto fatti oggetto di violenza da parte dei sicari (pistoleiros) dei locali produttori agricoli (fazendeiros), i quali mai pagano per le loro azioni delittuose. Da anni il Mato Grosso do Sul è lo stato brasiliano che registra il più alto numero di violenze e di omicidi ai danni delle popolazioni indigene. Nel 2015 sono stati 36 gli indigeni assassinati su un totale di 137 nell’intero Brasile5.
Una scia di omicidi (impuniti)
Per capire quanto il problema sia radicato, è utile ricordare i casi più eclatanti degli ultimi anni, iniziando dall’11 gennaio del 2003. Quel giorno viene ucciso Marcos Veron, un cacique guarani-kaiowá di 72 anni. Il suo gruppo di famiglie indigene si era installato su un piccolo appezzamento della fazenda Brasília do Sul, un latifondo di 9.972 ettari sorto in terra indigena, nel municipio di Juti. Nello sgombero violento attuato dalle forze di sicurezza dei fazendeiros l’anziano leader indigeno perde la vita.
Il 18 novembre 2011 viene ucciso Nizio Gomes, un altro cacique guarani-kaiowá. Un gruppo di indigeni aveva ripreso un piccolo pezzo della fazenda Nova Aurora, svilluppatasi su un’area indigena. A sgombrare l’accampamento arrivano gli uomini della Gaspem Segurança, un’impresa di sicurezza privata nota per i suoi metodi violenti. Nell’azione Nizio Gomes rimane ucciso.
Alla fine di ottobre del 2009 scompaiono due professori indigeni guarani-kaiowá, Genivaldo Vera e Rolindo Vera, dopo essere stati attaccati dagli agenti di sicurezza della fazenda São Luiz, nel municipio di Paranhos. Il corpo di Genivaldo, che aveva 21 anni ed era professore di informatica, viene trovato dieci giorni dopo la sua sparizione.
Ancora più triste è l’omicidio di Denilson Barbosa, un ragazzo kaiowá di soli 15 anni. Il giovane viene ammazzato con un colpo di fucile alla testa il 17 febbraio 2013 dal fazendeiro Orlandino Caeiro Gonçalves. Denilson era stato colto a pescare in un laghetto della fazenda, sorta su un territorio indigeno.
Il 30 maggio 2013 muore Oziel Gabriel, indio del popolo Terena, il cui accampamento era stato montato sulla terra occupata dalla fazenda Buriti, sorta su un’area dichiarata indigena.
L’8 dicembre 2014, un gruppo armato attacca indigeni sistemati su una piccola area della fazenda Burana, sviluppatasi su un’area indigena. Una ragazza guarani-kaiowá di 17 anni, Julia Venezuela, scompare, dopo essere stata colpita e caricata su un fuoristrada dagli assalitori.
Il 29 agosto 2015 Semião Vilhalva, giovane kaiowá di 24 anni, viene assassinato nel municipio di Antônio João da un gruppo di fazendeiros accorsi per sgombrare le fazendas Barra e Fronteira da un gruppo di indigeni. A conferma di una storica impunità, poche settimane dopo l’omicidio di Vilhalva, nel settembre del 2015 l’Assemblea legislativa del Mato Grosso del Sud, sottomessa agli interessi dell’oligarchia rurale, elegge una Commissione parlamentare d’inchiesta (Comissão parlamentar de inquérito, Cpi) per indagare se il Consiglio indigenista missionario (Cimi) inciti e finanzi l’occupazione di proprietà private da parte delle popolazioni indigene.
L’ultimo assassinato in ordine di tempo è Clodiodi Aquileu Rodrigues de Souza, agente di salute indigena di 26 anni. Lo scorso 14 giugno un gruppo di una settantina di fazendeiros, accompagnati da uomini armati in uniforme e cappuccio, a bordo di decine dei consueti (e costosissimi) fuoristrada, attaccano un piccolo accampamento indigeno sistemato su un terreno occupato dalla fazenda Yvu, sorta su una terra indigena già ufficialmente riconosciuta e delimitata. Clodiodi rimane ucciso, molti altri feriti.
Il prezzo di una vita
Quelli sommariamente descritti sono soltanto alcuni episodi della cruenta guerra in corso nel Mato Grosso do Sul per il possesso della terra. Una guerra tra i proprietari di oggi e i proprietari di ieri, quei popoli indigeni ai quali non si riesce o non si vuole restituire dignità e giustizia6.
Per tutto questo e molto altro non è un’esagerazione giornalistica affermare che il Mato Grosso del Sud è uno stato dove la vita di un indio non vale quella di una vacca. O – a scelta – di un campo di soia, di canna da zucchero o di eucalipti.
Paolo Moiola
Note
(1) Dati Conab, www.conab.org.br.
(2) Ibge, Censo demografico 2010.
(3) L’elenco e la descrizione delle terre indigene è visibile sul sito della «Fundação nacional do índio» (Funai), www.funai.gov.br.
(4) Dato della «Secreteria especial de saúde indígena» (Sesai), organo del ministero della salute. In Brasile, nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni, il tasso d’incidenza è di 6,9 casi ogni 100 mila abitanti.
(5) Conselho indigenista missionário (Cimi), Violência contra os povos indígenas no Brasil – Ano 2015.
(6) Sulla situazione nel Mato Grosso do Sul: Reporter Brasil, Em terras alheias. A?produção de soja e cana em áreas Guarani no Mato Grosso do Sul, 2013; Cimi, As violências contra os povos indígenas em Mato Grosso do Sul. E as resistências do Bem Viver por uma Terra Sem Males, 2011. Entrambe le pubblicazioni sono reperibili sul web in formato Pdf.