Kenya: Ritorno alle origini della missione

Testo e foto di padre Jaime Carlos Patias |


La visita a Tuthu, in Kenya, la prima storica missione nella vita dei missionari della Consolata, serve da
ispirazione per rinnovare e reinventare lo stile delle loro presenze nel mondo.

In Kenya per una sessione di consiglio, la direzione generale dell’Istituto si reca in visita a Tuthu, provincia di Murang’a, nella regione centrale di quella nazione che è il primo amore dei missionari della Consolata. Questa piccola località, a 140 km da Nairobi, sui monti dell’Aberdare a oltre 2.500 metri, fu la destinazione finale dei primi quattro missionari della Consolata inviati in Africa dal beato Giuseppe Allamano.

I padri Tommaso Gay (31 anni) e Filippo Perlo (29), e i giovani fratelli missionari Luigi Falda (19) e Celeste Lusso (18) arrivarono in Kenya l’8 maggio 1902. A Nairobi, incontrarono Monsignor Allgeyer, superiore dei missionari dello Spirito Santo, che suggerì loro di recarsi tra il popolo kikuyu, in risposta all’invito del chief (capo) Karuri wa Gekure che voleva una scuola nel suo villaggio di Tuthu. Iniziò così l’evangelizzazione cattolica nel cuore del Kenya.

1903 – Capannone fatto erigere da Karoli (anche Karuri o Karori) a uso scuola. Karoli, in piedi, osserva alcuni dei suoi figli tra i quali sta seduto padre Vignoli

Nel villaggio di Karuri

La strada che porta a Tuthu si snoda tra verdissime piantagioni di tè distese sulle ripide colline che caratterizzano la zona, all’orizzonte le montagne dell’Aberdare che i primi missionari dovettero attraversare a piedi, partendo da Naivasha (dove arrivava la ferrovia) con un viaggio di due giorni accompagnati da portatori (per tutto il materiale necessario a impiantare la missione) e soffrendo le basse temperature di notte (a oltre duemila metri e a fine giugno, il periodo più freddo dell’anno).

Le difficoltà degli inizi, ci fanno comprendere l’insistenza dell’Allamano sull’importanza della preparazione e il motivo per cui voleva i suoi missionari «santi in modo superlativo», zelanti, disposti a sacrificare la vita, perché preferiva la qualità, al numero. «Prima santi, poi missionari», ripeteva spesso, sottolineando la santità come valore prioritario.

L’evangelizzazione e la promozione umana era il metodo proposto dal Fondatore e fu applicato puntualmente dai suoi missionari. Per prima cosa i missionari si dedicarono allo studio della lingua kikuyu e, dopo neppure un anno, iniziarono una piccola scuola in una capanna offerta da Karuri. Visitavano sistematicamente la gente nei villaggi con una particolare attenzione alla cura dei malati e ai bambini orfani o abbandonati. Lungimiranti e intraprendenti, portarono semi nuovi per l’agricoltura e installarono una segheria per le varie costruzioni necessarie per lo sviluppo delle missioni.

Gli errori commessi erano compresi e perdonati dalla gente che vedeva la buona volontà e la retta intenzione dei missionari dediti unicamente al servizio della popolazione che il Signore aveva loro affidato.

«Un albero secolare attorniato da liane e gettante le radici in due branche separate forma come un tunnel; ivi fu sepolta Suor Giordana morta nelle missione di Tusu. Due catechisti più coraggiosi si uniscono alle suore nelle preci di suffragio» (dida originale da MC 1907/11 p. 163)

Una croce nella foresta

Dal 1903 la missione di Tuthu ebbe la presenza delle Suore Vincenzine (quelle fondate da san Giuseppe Cottolengo), che lavorarono in Kenya a fianco dei missionari della Consolata per più di 20 anni. Una croce (un tempo di legno) con il nome di suor Giordana rimane nella foresta a pochi chilometri da Tuthu, a perenne memoria della loro presenza e del servizio per la gente.

La loro partenza da Tuthu nel 1909 diede un’ulteriore spinta al processo per la fondazione dell’Istituto delle suore missionarie della Consolata avvenuta nel 1910.

Appena arrivati a Tuthu, i missionari celebrarono la prima messa di ringraziamento, il 29 giugno 1902, ai piedi di un mugumo, albero sacro della tradizione kikuyu. Per ricordare tale evento e proprio sul luogo della celebrazione fu poi costruita la cappella della memoria. La struttura in metallo è adornata da pareti in vetro colorato. A fianco, al posto dell’albero, c’è una stele con una grande croce, su cui è scritta la data di arrivo, i nomi dei quattro missionari e il motto: «Annunceranno la mia gloria alle nazioni» (Is 66, 19). Due portici con i misteri del santo Rosario partono da entrambi i lati della cappella e si estendono lungo la piazza come per accogliere in un abbraccio i pellegrini che visitano quel luogo sacro da cui si è irradiato il dono delle fede.

Il battesimo del chief Karuri e della sua ultima moglie (scelta dopo aver onorevolmente sistemato le altre) con i nomi di Giuseppe e Consolata, suggellò un processo di avvicinamento e reciproca fiducia che con il tempo avrebbe trasformato Tuthu in un centro di irradiazione del cristianesimo in altre regioni fino a raggiungere il Nord del Kenya. Da Murang’a i missionari della Consolata raggiunsero Nyeri, Nanyuki, Isiolo, Meru e, più tardi, Embu. Oggi, la vitalità delle diverse comunità cristiane continua a dare un contributo decisivo alla società attraverso l’educazione, i centri sanitari e molte altre attività di carattere sociale ed economico.

Messa di ringraziamento

Il 2 marzo 2019, dopo 117 anni, la direzione generale celebra l’eucaristia nello stesso luogo. È presente anche padre Luigi Brambilla, attuale parroco del santuario della Consolata di Tuthu da cui sono nate ben altre 31 parrocchie nella sola diocesi di Murang’a.

Il superiore generale, padre Stefano Camerlengo, presiede l’eucarestia e nell’omelia ricorda che «questa è una visita storica, in quanto non capita spesso che la direzione generale al completo si rechi in una regione e tanto meno visiti una nostra comunità locale. Soprattutto perché la missione di Tuthu rappresenta l’inizio della nostra missione in terra africana. Non possiamo, come missionari della Consolata dimenticare questo, perché un popolo senza memoria non può vivere – insiste padre Stefano -. Lo stesso vale per un istituto: la memoria storica è garanzia per il futuro».

Durante l’Eucaristia sono richiamate le diverse situazioni di sofferenza e conflitto dove l’istituto è presente come in Venezuela, nella Repubblica Democratica del Congo e in Costa d’Avorio. Con la mente e la preghiera la direzione generale ricorda tutti i missionari che sono passati da Tuthu e tutti quelli che hanno evangelizzato il Kenya tra i popoli nomadi, i contadini delle campagne e gli abitanti delle città.

«Sotto la croce preghiamo per trovare la forza e il coraggio di reinventare lo stile missionario delle nostre comunità, consapevoli che guardando al passato si costruisce il futuro attraverso uno sforzo quotidiano, convinti che il meglio per il nostro istituto e per la missione deve ancora venire», conclude il padre generale.

L’atmosfera di sacralità che circonda i luoghi della memoria di Tuthu, fa sorgere spontaneamente suggestioni ed emozioni. Il consigliere generale per l’Africa, padre Godfrey Msumange, ricorda che «qui siamo nelle nostre radici. Mi piace immaginare 117 anni fa. Mi metto nella pelle dei primi missionari. Certamente erano decisi, coraggiosi, determinati e pieni di zelo missionario. In mezzo a mille sfide, animati dalla fede e amore di Dio, hanno superato tutto. Quanti sacrifici», esclama baba Godfrey. «Proprio per questo mi piace dire che il loro vero nome è passione missionaria, è amore, è coraggio, è dono. Sì, verso il Signore ma soprattutto verso i fratelli e sorelle desiderosi di conoscere il Signore».

Padre Mino Francesco Vaccari, da tanti anni missionario in Kenya, è arrivato dalla missione di Rumuruti per unirsi alla comunità. In un momento di condivisione, durante la preghiera delle lodi, dal profondo della sua esperienza, con emozione, ci confida che «questo posto è molto importante per l’Istituto e la storia della missione in Kenya, quindi dobbiamo tenerlo come il centro di irradiazione della fede. È la prima volta che incontro tutta la direzione generale riunita così. Sembra di essere al tempo degli Apostoli che erano uniti come in una sola famiglia. Sentire la vicinanza della direzione generale è una benedizione per me e per tutti».

Prendendo lo spunto da quella confidenza, padre Stefano aggiunge che «l’esempio dei primi missionari indica chiaramente che non siamo solo delle comunità per la missione, ma comunità in missione. Siamo strumenti dello Spirito, l’unico che muove i cuori ed è capace di trasformare le persone e la storia. Fare missione è ascoltare il cuore della gente… è trasmettere l’esperienza della tenerezza di Dio e della compassione di Gesù soprattutto a chi è debole e ai margini».

Parole sagge che traggono dall’esperienza di Tuthu insegnamenti per l’oggi della missione. Secondo il consigliere generale per l’Europa, padre Antonio Rovelli, «la memoria non deve diventare un semplice contenitore di ricordi ma, come Tuthu ci insegna, deve essere qualcosa che si custodisce a partire dal futuro. Il ricordo dell’eroismo dei primi missionari deve rivitalizzare la vita dei missionari della Consolata oggi e dare un rinnovato impulso al coraggio e all’entusiasmo per l’evangelizzazione e custodire la memoria di Tuthu significa farci tutti responsabili del nostro passato per gettarci in un movimento proteso in avanti verso altre tappe della missione universale». Al termine della visita, il superiore generale esprime un augurio per tutte le nostre comunità sparse nel mondo: «L’esempio dei primi quattro missionari di Tuthu ci sia di stimolo per reinventare l’arte del vivere insieme attraverso un esodo continuo da sé e i seguenti atteggiamenti fondamentali: l’accoglienza, il dialogo, la fraternità e la corresponsabilità in missione».

L’Istituto nato nel 1901 ai piedi della Madonna Consolata a Torino, in Italia, ha più di cento anni, e rimane fedele al carisma ereditato dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Seguendo le orme dei pionieri nella missione di Tuthu, continua a raggiungere nuovi popoli e culture. Prova di questo è l’inizio di una nuova presenza in Madagascar. I missionari dell’Allamano oggi sono 950 dei quali 463 sono africani. Sono presenti in 28 paesi in Africa, America, Asia ed Europa. La Consolata è la protagonista di tutto questo con il suo silenzio, il suo ascolto, la sua donazione.

Jaime Carlos Patias
Consigliere generale per l’America


Tuthu: umile inizio di una grande missione

«E tu Tuthu non sei il più piccolo insignificante villaggio del Kikuyu perché da te è iniziato l’annuncio di salvezza a tante genti…». Sono milioni i cristiani che in Kenya, devono a questo villaggio l’origine della loro fede: dalle zone poco a Nord di Nairobi fino ai confini dell’Etiopia e della Somalia.

Anche un fiume maestoso parte da una sorgente piccola e modesta: è l’inizio, è la nascita.

I cristiani che vengono in visita e in preghiera trovano il luogo ideale: bellezza della natura, tanta pace e silenzio, la bella chiesa, la cappella della memoria, il chiostro del rosario, la grotta di Lourdes, la cappella dell’adorazione. Poi intorno, posti suggestivi nella foresta. Il luogo dove i missionari impiantarono una storica segheria, o il posto del martirio del catechista Aloisio Kamau dove abbiamo eretto una croce a ricordo, meta di pellegrini e preghiere.

Qui storia e geografia si uniscono a fare di Tuthu un posto veramente suggestivo, testimone della grandezza del Fondatore e dei primi missionari.

Non deve succedere che perdiamo questa storia e questa testimonianza. Nelle dovute proporzioni, sarebbe come se Assisi rimanesse senza Francescani! Torino e Tuthu dovrebbero gemellarsi: la radice dell’istituto e la radice delle nostre missioni.

La porta della chiesa

Fu voluta da padre Tommaso Biasizzo che costruì l’attuale chiesa. Si rivolse a fratel Filippo Abbati, autore di altari, porte, tabernacoli intagliati in legno, sparsi in diverse nostre missioni «storiche».

Fratel Filippo chiese a me di disegnargli i «cartoni» con i soggetti suggeriti da padre Biasizzo.

Nel pannello in alto a sinistra sono rappresentati i simboli dei sacrifici kikuyu generalmente offerti sotto un mugumo (un maestoso ficus) considerato albero sacro. Su quello di destra, i simboli della nuova fede: la Croce e la Madonna Consolata.

Nei pannelli di mezzo è rappresentato l’incontro dei missionari, scesi dalle motagne dell’Aberdare, con il capo Karuri wa Gakure. In basso a destra è inciso il logo di quel tempo dei missionari della Consolata e, a sinistra, un simbolo del Kenya.

padre Luigino Brambilla
parroco della parrocchia santuario della Consolata a Tuthu

 




Kenya: Visita alla tomba della Beata Leonella Sgorbati, martire


Suor Leonella, missionaria della Consolata italiana è stato assassinata il 17 settembre 2006 da estremisti islamici in Somalia, mentre lasciava la scuola di infermiere per rientrare a casa.

Fu colpita da sette proiettili. In ospedale, prima di morire, sussurrò: “Io perdono, perdono, perdono”. La martire è stata beatificata il 26 maggio 2018 in una cerimonia presieduta dal Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, a Piacenza, Italia, luogo di nascita della missionaria.

La Beata è sepolta nella chiesa Nostra Signora dell’Universo, accanto alla Casa Regionale delle Suore Missionarie della Consolata a Nairobi, in Kenya.

Il luogo è stato visitato mercoledì, 13 marzo, dalla Direzione Generale dei Missionari della Consolata in occasione di un incontro di condivisione e comunione con le missionarie. Ricordando che la Beata Leonella Sgorbati è la Protettrice e modello per l’anno 2019 sia delle missionarie che dei missionari.

Attraverso la sua intercessione, chiediamo la protezione del Signore per i nuovi percorsi missionari intrapresi dalle due congregazioni fondate dal Beato Giuseppe Allamano.

Chiesa Nostra Signora dell’Universo della casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi

Chi è la beata Leonella Sgorbati?

Leonella è nata il 9 dicembre 1940 a Rezzannella di Gazzola (Piacenza). Fu battezzata nella parrocchia di San Savino di Gazzola, proprio il giorno della sua nascita con il nome di Rosa. Riceve la sua prima comunione e confermazione il 26 maggio 1947. Entra nella congregazione il 5 maggio 1963, e il 22 novembre 1965, emette la sua prima professione religiosa. Fa gli studi infermieristici in Inghilterra e in Kenya, dove ha emette la professione perpetua il 19 novembre 1972. Lavora poi per molti anni negli ospedali del Kenya, in particolare a Nkubu nel Meru, e nella formazione di giovani infermieri e infermiere.
Nel 1993 è stata nominata Superiora Regionale MC del Kenya. Nel 2002, alla fine di questa missione, Suor Leonella parte per Somalia, in un momento in cui il paese sta attraversando una convulsione politica, e l’influenza islamica estremista sta guadagnando terreno. Nonostante ciò, vede con entusiasmo la possibilità di gestire il centro di formazione per infermieri, preparando professionisti per l’unico ospedale in Somalia. Tra i fondamentalisti islamici serpeggia il sospetto che Suor Leonella, attraverso la scuola, faccia fatto proselitismo, per formare dei cristiani. Per questo è stata brutalmente uccisa con la sua guardia del corpo.

Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per l’America

Nella casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi la direzione generale dei missionari in visita della sorelle missionarie.

Alla tomba di suor beate Leonella Sgorbati nella chiesa Nostra Signora dell’Universo della casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi




Elezioni 2017 in Kenya – cronologia


Elezioni in Kenya, giorno dopo giorno dal 27 luglio al 12 agosto 2017

Aggiornamento del: 13 Agosto 2017 alle ore 9.00

Seggi elettorali che hanno inviato i risultati: 40.762 su 40.883
Partecipazione: 79.26 % (86% nel 2013)
Elettori registrati: 19.611.423
Voti validi: 15.142.783
Voti controversi: 5.191
Voti rifiutati: 401.1981
Fonte: https://public.rts.iebc.or.ke/results/results.html

Stato dei voti per il posto di presidente:

Uhuru Kenyatta JP 8.208.373 voti (54.21%)
Raila Odinga ODM 6.799.850 voti (44.9%)

Per che cosa si è votato

Ogni elettore doveva dare sei voti diversi:

  • – a livello nazionale: presidente, membro del parlamento (Assemblea Nazionale), senatore, rappresentante delle donne;
  • a livello di contea (47 contee): governatore e membri dell’assemblea di contea

CRONOLOGIA

27 luglio 2017, assassinio di Christopher Msando presidente della Independent Electoral and Boundaries Commission (IEBC).

In preparazione alle elezioni c’è un diffuso timore che si ripetano le violenze del 2007 che causarono circa 1.100 morti e 600mila rifugiati interni. In tutte le chiese si intensifica la preghiera e gli inviti alla calma e alla partecipazione responsabile.

8 agosto 2017
Votazioni (dalle 7 alle 17, e in molti posti anche oltre viste le lunghe code). La polizia e dispiegata in forze (circa 180mila uomini) per prevenire disordini. Partecipazione altissima senza particolari tensioni.

9 agosto 2017
escono i primi risultati parziali che proiettano la vittoria di Huhuru Kenyatta, il presidente uscente, del partito Jubilee del Kenya ;
Raila Odinga (che corre per la quarta volta al posto di presidente), del Nasa – National Super Alliance – accusa di imbroglio dicendo che il sistema computerizzato dei voti controllato dalla ICBC è stato manomesso e hakerato.
Scoppiano tafferugli a Mathare (uno slum di Nairobi noto come roccaforte del partito di Odinga) e Kisumu. Ci sono almeno cinque morti.

10 agosto 2017
l’Iebc (Independent Electoral and Boundaries Commission) invita alla calma e ad attendere i risultati finali rifiutando l’accusa che i dati siano stati manipolati e hakerati usando il password del suo defunto presidente assassinato.
Anche altre voci autorevoli invitano alla calma e ad attendere i risultati.

In giornata il capo della Pubblica Amministrazione invita tutti i dipendenti della stessa a ritornare al lavoro.

Nel pomeriggio l’on. Odinga e i suoi, in una conferenza stampa,  insistono che i risultati riguardanti il presidente sono stati manipolati e che la vittoria sarebbero ampiamente in favore di Odinga.

Interviene la Law Society of Kenya (Lsk) che in una dichiarazione afferma che le elezioni sono andate bene, che occorre attendere i risultati finali e che se qualcuno ha di che lamentarsi vada in corte.

Gli osservatori internazionali (l’Elections Observation Group – Elog – composto da membri della Comunità Europea, Unione Africana, Commonwealth, East African Community e il Carter Centre, con 8.300 osservatori sul campo) elogiano lo svolgimento delle elezioni e non trovano irregolarità di rilievo nel processo elettorale e nel rilascio dei risultati.

11 agosto 2017
L’onorevole Raila Odinga del Nasa accusa gli osservatori internazionali di aver avvallato un processo elettorale che per lui è bacato e manipolato.
Continuano ad essere resi pubblici i risultati, man mano che i voti vengono certificati, circa i governatori, la rappresentante della donne e i vari parlamentari e senator e i membri delle assemblee di Contea.
Alle 9.00 ca., l’Iebc informa che mancano ancora pochi risultati per poter dare l’annuncio ufficiale sul presidente.
Alle 15 ca. (ora italiana) il partito di Odinga nega di aver dichiarato Odinga come vincitore e invita la Iebc a dare l’annuncio ufficiale solo quando tutti i documenti relativi sono arrivati e verificati.
Allo stesso tempo la Iebc comunica che mancano solo i documenti di due circoscrizioni elettorali e invita di nuovo alla pazienza.
In serata la Iebc annuncia la rielezione del Presidente Huhuru Kenyatta con William Ruto come suo vice presidente.
Alle ore 23.00 (ora italiana) in un messaggio televisivo il presidente rieletto si rivolge all’opposizione ricordando che “siamo tutti cittadini della stessa repubblica” e ha invitato alla pace.
Ma l’opposizione continua a contestare i risultati e denunciando brogli, scoppiano disordini negli slum di Mathare e Kibera e a Kisumu.

12 agosto 2017
I vescovi cattolici, (Kenya Conference of Catholic Bishops – KCCB)

pubblicano un comunicato stampa in cui

  • Lodano il popolo del Kenya per il modo calmo e sobrio in cui ha partecipato alle elezioni.
  • Fanno le congratulazioni al presidente eletto Huhuru Kenyatta e agli altri candidati alla presidenza, riconoscendo la loro condotta sobria (conducting themselves with sobriety) durante la campagna elettorale.
  • Congratulano la Iebc per il modo con cui ha gestito un processo elettorale oggettivamente difficile.
  • Poi, però, sottolineano i seguenti punti:
    • un appello al presidente eletto e al suo governo a muoversi velocemente per guarire e unire la nazione divisa dopo un periodo elettorale emotivo: i vescovi si augurano che nessuna comunità venga emarginata o esclusa per il modo con cui ha sostenuto e scelto i candidati;
    • un invito urgente a tutti i politici a usare un linguaggio che promuova unità, pace e riconciliazione;
    • invitano le forze di sicurezza a non usare forza eccessiva nel controllo delle folle e a rispettare la santità della vita; i vescovi sono particolarmente dispiaciuti per le notizie di morti e distruzioni di proprietà;
    • i vescovi prendono atto che anche dopo l’annuncio ufficiale dei risultati ci sono molte lamentele circa la correttezza di tutto il processo elettorale, per questo implorano e urgono (implore and urge) le parti interessate a usare i mezzi legali offerti dalla Costituzione per risolvere i problemi.
  • Concludendo assicurano i Keniani della loro vicinanza, sostegno e preghiera, invitano a mantenere pace e tolleranza sempre (maintain peace and tolerance at all times) e a ritornare alla vita normale lasciando alle Istituzioni incaricate il compito di risolvere le questioni legate alle elezioni.

Violenze morti, rapporti contraddittori.
In serata Nasa, la coalizione dell’opposizione, accusa le forze di sicurezza di brutalità e violenza annunciando che ci sono già altre 100 morti, molti dei quali uccisi da pallottole sparate a bruciapelo dalla polizia.  La notizia è riportata con rilievo anche dai giornali italiani.
Ma la Kenya National Commission on Human Rights (KNCHR) dichiara che ha l’evidenza documentata di 24 morti (di cui 17 a Nairobi, tra cui la bambina di 10 anni) in relazione ai disordini connessi con le elezioni dell’8 agosto.




Kenya: Stampa 3D per «piedi felici»


In Kenya è nata una piccola compagnia che si occupa di stampa tridimensionale. L’African Born 3D printing (Ab3D) è la prima start up africana che stampa oggetti in materiali plastici, produce stampanti 3D e fa formazione al loro uso. La società progetta, disegna e costruisce i suoi prodotti usando materiale elettronico riciclato, parti meccaniche reperibili localmente e software open source. La sua mission è quella di usare la tecnologia per migliorare la vita.

All’origine della Ab3D c’è la fantasia e l’ingegno di Roy Ombatti. Roy, un giovane keniano di 27 anni, proviene da una famiglia cattolica della classe media che però fa fatica a pagargli gli studi fino a completare l’università a causa della severa crisi economica che in Kenya, nei primi anni del 2000, colpisce in particolare il ceto medio. Conscio di questo, Roy fa tesoro dei suoi studi anche più di molti suoi coetanei e si impegna a fondo per realizzare il sogno coltivato fin da bambino di diventare un ingegnere meccanico e creare oggetti meravigliosi, usando e sfidando le leggi della fisica e della matematica, e di portare cambiamenti positivi nella società attraverso il suo lavoro.

Dopo aver fatto la scuola primaria nella Consolata School di Nairobi, ha frequentato la secondaria alla Strathmore School e ottiene l’ammissione nell’Università di Nairobi, la più antica del paese, fondata nel 1956, ben prima dell’indipendenza del Kenya. Nell’attesa di cominciare il corso di Ingegneria meccanica cui si è iscritto, Roy coglie l’occasione offertagli da un suo zio, volontario di una Ong, e va in Malawi a condividerne l’esperienza con bambini orfani a causa dell’Aids o Hiv positivi. Un’esperienza traumatica per lui, come ricorderà in seguito, perché «oggi sono lì a giocare con uno di loro, e domani mi dicono che è morto».

Vedendo di persona lo stato pietoso del sistema sanitario del Malawi, non diverso dallo stato in cui versano quelli di molte altre nazioni nel continente, Roy sente che deve fare qualcosa e non solo stare a guardare. Ritorna in Kenya per iniziare l’università e comincia a tenere gli occhi aperti sulla sua stessa comunità per individuarne i bisogni e capire cosa lui possa fare per cambiare la situazione. Scopre presto che molti bambini delle famiglie più povere – quelli che vivono negli slum, le periferie degradate di Nairobi dove manca acqua, non ci sono fogne e nelle case non ci sono reti antizanzara – soffrono a causa di molte malattie che potrebbero essere facilmente curabili, anzi, anche evitate con un’adeguata prevenzione. Purtroppo la gente degli slum non ha le risorse per uscire da quella situazione.

Il salto nella stampa 3D

All’università ha un’occasione unica: partecipare ad una competizione internazionale di stampa 3D, la 3D4D (3D for Development) organizzata dalla Techfor Trade, una onlus inglese impegnata a «cercare, promuovere e sostenere un’innovazione tecnologica rispettosa dell’ambiente che aiuti gli scambi commerciali e allevi la povertà». Roy vi partecipa con un progetto che gli è caro: stampare delle scarpe su misura per piedi resi deformi dalle pulci penetranti, quegli stessi piedi che aveva visto in troppi bambini degli slum. Chiama il suo progetto «Happy Feet», Piedi felici.

Le pulci penetranti sono terribili, perché si infilano sotto la pelle dei piedi e lì si installano facendovi il nido che diventa sempre più grosso. Di solito è facile toglierle se sono in superficie, ma se trascurate (come può succedere ai bambini non curati attentamente dai loro genitori o da famigliari) possono causare infiammazioni dolorose fino a impedire una deambulazione corretta o a lasciare piedi deformi. Per rimuovere le pulci si usano spine, lame, spilli o aghi che, non disinfettati o usati su diverse persone, aumentano il pericolo di trasmettere e/o ricevere l’Hiv. Il fatto di camminare a piedi nudi espone poi al rischio di essere infestati di nuovo dalle pulci.

Il progetto è bello e fa sognare, ma per realizzarlo Roy ha bisogno di poter usare stampanti 3D che siano alla portata delle sue tasche di studente universitario. Questo in Kenya non è facile, visto che sono tutte importate dall’estero e costano molto.

Roy capisce allora che se vuole realizzare il suo sogno di «Piedi felici» deve risolvere il problema fondamentale: l’accesso facile alle stampanti 3D e alla relativa tecnologia. Convinto della potenzialità del mezzo per migliorare la vita della gente comune, si concentra allora sulla nuova sfida, riesce a ottenere dei finanziamenti e così fonda la sua start up per la produzione e uso di stampanti 3D.

Nasce così la Ab3D per costruire stampanti 3D usando materiale elettronico riciclato, software open source e parti meccaniche reperibili sul mercato locale. Questo abbatte i costi e facilita manutenzione e riparazioni. Una stampante 3D usa meno energia di un frigorifero e come materia prima per stampare oggetti può riutilizzare plastica dai rifiuti. «L’uso della plastica riciclata non costituisce un rischio, anzi risolve un problema, e i filamenti ottenuti permettono di stampare gli oggetti utili alla comunità», dice oggi Roy spiegando che fino a quando useremo derivati dal petrolio avremo sempre a che fare con la plastica. Tanto vale allora usarla in modo positivo. Le statistiche provano che la plastica è uno dei maggiori elementi inquinanti nel mondo. Oltre otto milioni di tonnellate ne sono riversate negli oceani ogni anno. Di questo passo entro il 2050 sarà un disastro, nel mare ci sarà più plastica che pesci, questo è l’allarme lanciato al World Economic Forum del 2016.

Promuovere una coltura 3D

A questi primi passi Roy ne aggiunge un altro: promuovere la stampa 3D nelle scuole di modo che le future generazioni di giovani lavoratori possano imparare a pensare la tecnologia a servizio di uno sviluppo che non aumenti i problemi, ma li risolva. Tale formazione aumenterebbe la possibilità dei ragazzi di trovare impiego e le loro capacità imprenditoriali.

Secondo Roy è importante applicare il 3D all’apprendimento pratico nelle scuole. «Avessimo meno teoria e più pratica sia nelle scuole che nelle nostre università, avremmo studenti che finirebbero i loro studi con capacità reali, più gente capace di soluzioni nuove per risolvere i problemi globali». Secondo lui troppi giovani finiscono l’università con la testa piena di teorie ma incapaci di tradurle in pratica nel mondo vero del lavoro.

Tre prestigiose scuole private in Kenya hanno già comperato le stampanti dell’Ab3d: Makini School, Banda School e Nova Academia, seguite a ruota anche da tre scuole di informatica. Tra le università, quella di Gondar in Etiopia e quella di Bristol in Inghilterra. L’obiettivo è quello di diffondere le stampanti nel maggior numero di scuole possibile, anche se sembrano più apprezzate all’estero che in patria. Mentre i giovani studenti sono aperti alle novità e al futuro, i dirigenti scolastici sono ancora della vecchia generazione e, purtroppo, sono loro che tengono i cordoni della borsa.

La stampa 3D può essere applicata in molti campi diversi, le sue possibilità sono ancora tutte da scoprire. L’Ab3D sta stampando ora microscopi per laboratori nel settore della sanità e per le scuole, protesi per chi ne ha bisogno, siringhe speciali per uso medico e ovviamente le scarpe «Happy Feet». «Sono tutte iniziative orientate al bene della comunità», sottolinea Roy, «ma stiamo cercando nuove strade per aiutare in modo più diretto ed efficace». Per questo Roy e il gruppo dei suoi collaboratori stanno cercando di essere sempre più propositivi e attenti ai bisogni di ogni giorno. Un dialogo più serrato tra «i tecnici» e la comunità con le sue necessità concrete è importante per tutti. La gente si apre ai benefici del progresso tecnologico e i tecnici imparano dalla gente ad affrontare e risolvere problemi reali.

Katya Nyangi Mwita*

*Giovane russo-keniana che dopo aver insegnato inglese a Mosca e lavorato come giornalista della stessa lingua in un’agenzia di informazione russa, ora, in Kenya, lavora in un centro specializzato in educazione e comunicazione.

Vedi su Youtube (in inglese) African Born 3D Printing
e Intermission with 3D Printing Innovators Carl & Roy




Kenya lago Turkana vento di sviluppo


La zona intorno al lago Turkana è la più povera e lasciata a se stessa del Kenya. Da qualche anno a questa parte, però, qualcosa è cambiato: un giacimento di petrolio, il progetto dell’impianto eolico più grande d’Africa, la diga sul tratto etiope del fiume Omo, un enorme bacino sotterraneo d’acqua hanno portato l’area al centro dell’attenzione. E davanti a una sfida decisiva.

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Quando si cerca di descrivere Loiyangalani, villaggio «dalle molte piante» sulle rive del lago Turkana, è facile venire colti dall’ansia da prestazione. D’istinto, viene voglia di cercare una combinazione di parole originale, unica e definitiva per un posto che non ha niente di già visto, per un posto che somiglia solo a se stesso. Qualcuno parla di paesaggio lunare, altri dell’angolo remoto di mondo dove Dio ha accatastato tutti i sassi che erano avanzati dalla creazione, altri ancora di tempo sospeso, promemoria per un’umanità che dovrebbe ricordarsi da dove viene.

Forse l’unica operazione davvero onesta è quella della semplice elencazione: montagne di pietre nere, colline di roccia marrone, sabbia ocra, sassi bianchi, l’acqua del lago: turchese la mattina, verde petrolio a mezzogiorno, blu turbante di tuareg la sera. Donne turkana coperte di rosso e di collane di perline, pochissimi uomini, almeno durante il giorno, perché la gran parte sono fuori dal villaggio col bestiame. Capanne a forma di igloo di paglia gialla, ghiaia grigia, chiazze di erba cresciuta dove il sole s’è distratto, dimenticandosi di seccarla. Capre, cammelli, zebù, qualche asino. Le acacie, quelle sì identiche ovunque, capaci di crescere anche fra i sassi, testarde e indifferenti. L’antenna  bianca e rossa della rete cellulare, rare casette squadrate di cemento.

Un elenco, certamente non completo, per descrivere un luogo speciale.

Le piaghe: siccità, conflitti, analfabetismo

Quel che è certo, invece, è che la zona intorno al lago Turkana è la più povera del Kenya. Tanto per cominciare, è collegata malissimo con il resto del paese: da Nairobi a Loiyangalani, occorrono tre giorni di 4×4, due per i più audaci; gli abitanti della zona parlano di «andare in Kenya» quando si accingono a uscire dal loro distretto.

La parte a Ovest del lago, la Turkana County, e quella a Est, la Marsabit County, hanno tassi di povertà del 94 e del 91 per cento. Seicentomila persone vivono con meno di 1.562 scellini keniani al mese (circa 15 euro) nelle zone rurali, e 2.913 (circa 30 euro) nelle zone urbane. Con trenta gradi d’inverno e quarantacinque d’estate, frequenti ondate di siccità e qualche rara ma devastante inondazione, la popolazione della zona vive prevalentemente di pastorizia, integrata con la pesca. Il tasso di analfabetismo è intorno all’85 per cento (96 per le donne), quello di infezione da HIV oltre l’undici per cento, circa il doppio di quello nazionale. Gli scontri fra gruppi etnici, connessi principalmente ai furti di bestiame e alle conseguenti rappresaglie, non hanno mai assunto le dimensioni di un conflitto su ampia scala, ma hanno accompagnato la storia della convivenza nell’area da tempo immemorabile, con tutti i morti e i feriti che inevitabilmente si contano in un luogo dove anche una banale ferita come un taglio può essere fatale, vista la carenza di centri sanitari. Qualcuno calcola che ogni maschio, dai 17 anni in su, abbia un AK47 e il banditismo è un fenomeno tutt’altro che sconosciuto.

Questo è il contesto, già di suo non certo facile, sul quale si sono innestate negli anni Dieci di questo secolo una serie di scoperte e di eventi che mettono il Turkana davanti a un bivio: da una parte la strada del salto di qualità, dall’altra quella della distruzione senza appello.

Acqua che viene, acqua che va

Nel 2013 il governo del Kenya e l’Unesco hanno annunciato che la ricerca da loro condotta con finanziamenti giapponesi ha portato alla scoperta nella Turkana county (dall’altra parte del lago rispetto a Loiyangalani) di un enorme riserva sotterranea di acqua. Si tratta di due bacini, uno vicino alla città di Lotikipi e l’altro, molto più piccolo, a Lodwar (capitale della county e sede della diocesi). Solo Lotikipi dispone, a una profondità di circa trecento metri, di oltre duecento miliardi di metri cubi, pari a circa nove volte le riserve totali del Kenya. Lo sfruttamento delle risorse idriche, una volta portata l’acqua in superficie, sarebbe anche sostenibile, perché il bacino ha un rifoimento annuale spontaneo più che sufficiente – 3,4 miliardi di metri cubi – grazie all’acqua proveniente dalle montagne dell’Etiopia. A fronte di un consumo annuale di acqua pari a 2,7 miliardi di metri cubi all’anno per tutto il paese, la stima è che il bacino garantirebbe acqua all’intero Kenya per settant’anni.

Ma il condizionale è ancora d’obbligo. Intanto perché il trovare l’acqua e il renderla disponibile, con tutto l’investimento in perforazioni e infrastrutture connesso, sono due cose molto diverse. E poi perché nel marzo 2015 alcuni test su pozzi scavati a Lotikipi hanno rivelato che l’acqua è troppo salina per il consumo umano, almeno secondo il Rift Valley Water Services Board, e dovrebbe quindi subire un lungo e costoso processo di desalinizzazione. Altre fonti suggeriscono invece che i rapporti basati sui test sono troppo pessimistici, che in altri pozzi il grado di salinità sarebbe molto inferiore e che comunque l’acqua sarebbe adatta almeno per usi agricoli e per abbeverare il bestiame.

Mentre le ricerche per stabilire la fruibilità di quest’acqua sono ancora in corso, gli effetti di un altro mega-progetto idrico, stavolta in un paese confinante, rischiano invece di essere drammatici. La diga Gibe III sul fiume Omo, in Etiopia, è entrata in funzione lo scorso ottobre. Secondo Addis Abeba, la diga dovrebbe aumentare del 234 per cento la produzione elettrica etiope: 1.870 megawatt che andranno ad alimentare le ambizioni industriali nazionali e ad aumentare l’esportazione di energia all’estero. Regolando il flusso del fiume, inoltre, la diga servirà i progetti di irrigazione su larga scala che il governo etiope intende realizzare nella vallata dell’Omo.

Ma, avverte Survival inteational, l’Omo fornisce al lago Turkana circa il novanta per cento delle sue acque e l’irrigazione in Etiopia potrebbe ridurre della metà l’afflusso idrico facendo abbassare il Turkana di venti metri. Il danno per l’ecosistema sarebbe pesantissimo, inducendo non solo una drastica riduzione della disponibilità di pesce ma anche un inasprirsi della siccità che porterebbe a ulteriori conflitti, anche transfrontalieri, fra le migliaia di pastori della zona in cerca di acqua per gli animali.

Le promesse non mantenute del petrolio

A complicare ulteriormente il quadro è arrivata, nel 2012, la scoperta di un giacimento di petrolio – dalla capacità quantificata in seicento milioni di barili – fra Lokichar e Lodwar, nell’area a Ovest del lago.

La multinazionale anglo-irlandese Tullow Oil, insieme alla compagnia partner canadese Africa Oil e, più di recente, alla danese Maersk, prevede di cominciare lo sfruttamento commerciale dei pozzi nel 2020 ma, a dar retta al quotidiano online Business Daily, il governo keniano sta spingendo per anticipare i tempi. In ballo, funzionale all’esportazione di petrolio, c’è la costruzione dell’oleodotto Lapsset (Lamu Port Southe Sudan-Ethiopia Transport), che collegherebbe il porto di Lamu (sull’Oceano Indiano), alla città di Isiolo, nel centro del Kenya, per biforcarsi poi in due bracci, uno diretto in Etiopia e l’altro in Sud Sudan e Uganda.

Mentre la Tullow Oil si è affrettata fin dal 2012 a pubblicizzare sul proprio sito i progetti di cooperazione che sostiene nell’area del giacimento e a istituire borse di studio per studenti keniani, sul campo le difficoltà non hanno tardato a manifestarsi. In un articolo dello scorso luglio, l’Economist raccontava delle diffidenze fra le compagnie petrolifere, che lamentano la difficoltà a trovare localmente personale qualificato, e la comunità locale, che teme di essere «scippata» degli impieghi migliori a favore di personale proveniente da altre aree, e minaccia ricorsi contro i possibili danni ambientali.

Nel 2013, un gruppo di quattrocento lavoratori ha attaccato gli impianti di trivellazione chiedendo più lavoro e più benefici, mentre nel 2014 il crollo del prezzo del petrolio ha indotto un altro ridimensionamento, almeno nell’immediato, delle speranze delle popolazioni del Turkana: finché il greggio resta sotto i 70 dollari al barile, stimano gli esperti, non è conveniente continuare le operazioni di estrazione. E infatti la Tullow negli ultimi mesi ha decisamente spinto sul freno.

Il vento dello sviluppo

Se il petrolio frena, il vento accelera: il mega-progetto della wind farm, il parco eolico, sarà completato entro ottobre 2016, annuncia la Kenya Electricity Transmission Company (Ketraco), che sta supervisionando i lavori di costruzione. La Lake Turkana Wind Power Limited, consorzio titolare del progetto prevalentemente composto da aziende private nordeuropee, prevede di produrre i primi 50 megawatt a settembre, mentre i 310 megawatt totali dell’impianto a pieno regime saranno immessi nella rete elettrica kenyana entro luglio 2017.

Siamo ora sulla riva orientale del lago Turkana, a una quarantina di chilometri da Loiyangalani. Qui verranno installate 365 turbine con una capacità di 850 kilowatt ciascuna su una superficie di circa 160 chilometri quadrati, per un costo complessivo vicino ai 700 milioni di dollari: l’investimento privato più consistente nella storia del Kenya indipendente, capace di fornire al paese circa un quarto dell’energia di cui ha bisogno. Il Turkana è particolarmente indicato per lo sfruttamento dell’energia eolica, poiché il vento in questa zona permette di raggiungere un fattore di capacità – cioè il rapporto fra l’energia effettivamente prodotta e quella che l’impianto è capace di produrre in condizioni ottimali costanti – del 62 per cento, contro il 25-35 per cento degli altri impianti. La Banca Mondiale, all’inizio fra i sostenitori del progetto, si è sfilata nel 2012 dopo avere sollevato dubbi sulla capacità del sistema kenyano di assorbire davvero tutta quell’energia, sottolineando il rischio per i consumatori di pagare annualmente l’equivalente di cento milioni di dollari per elettricità di fatto non utilizzata.

Nessuno dei membri del consorzio, per la verità, ha fatto una tragedia del ritiro della Banca, anzi, pare che alla Ketraco qualcuno abbia perfino commentato: meglio così, tanto creava solo inutili ostacoli. Tanto più che, se ancora c’erano dubbi sull’affare rappresentato dal parco eolico, ci ha pensato Google a fugarli, buttando sul piatto quaranta milioni di dollari per riservarsi il 12,5 per cento delle quote una volta che l’impianto sarà funzionante. Il colosso statunitense ha così voluto ribadire il suo interesse per le energie sostenibili e, ovviamente, anche per l’opportunità di aumentare i propri clienti, dal momento che elettricità e Inteet vanno a braccetto.

Pro e contro

Anche nel caso del parco eolico non mancano le perplessità e i contrasti, a cominciare dalle difficoltà di comprensione del progetto da parte della popolazione locale nella fase iniziale delle consultazioni. In più ci sono anche ricorsi legali da parte dei rappresentanti comunitari contro le violazioni del diritto alla terra (soprattutto per garantire il diritto di pascolo) nelle aree dove saranno installate le turbine. A questo si aggiungono poi – come per gli impianti petroliferi – le aspettative non sempre soddisfatte delle comunità riguardo alla creazione di nuovi posti di lavoro (i locali non sono preparati per un lavoro così diverso dalla pastorizia e dalla pesca), l’arrivo di personale esterno e l’incremento del flusso turistico grazie a strade migliori, con tutto quello che ne consegue in termini di aumento dei prezzi, incidenza di malattie sessualmente trasmissibili e impatto complessivo su una comunità finora fortemente isolata.

Da ultimo, a complicare la situazione, ci sono i contrasti sulla spartizione dei benefici tra la Marsabit county (con i Turkana e altre etnie) e la Samburu county (prevalentemente Samburu) che condividono gli incerti confini proprio nell’area del wind park.

Progetti come questi, come minimo inducono un miglioramento dal punto di vista delle infrastrutture, a cominciare dalla costruzione delle strade e, come dice un  leader comunitario citato dal Guardian, «offrono ai bambini una scelta che i loro padri e nonni non hanno avuto». Ma è proprio su questo che si gioca la partita: se non ci sarà una chiara ed equa ripartizione dei benefici e un coinvolgimento reale delle comunità, il Turkana non sarà un modello di sviluppo per tutta l’Africa ma un incubo fatto di sfruttamento, devastazione degli ecosistemi e migrazione forzata di migliaia di persone verso le già affollate e dolenti periferie urbane.

Chiara Giovetti

 




Cent’anni donati di cuore Le Missionarie della Consolata in Kenya

Il passaggio
del testimone: è un attimo di concentrazione, di precisione, di passione.
Mentre scrivo, sento di essere io chiamata al passaggio di testimone alle
giovani generazioni, per due motivi. Primo: molto di quello che scrivo l’ho sentito
dalla viva voce di madre Margherita De Maria, la missionaria della prima ora
che nelle belle serate di ricreazione a Sanfré ci raccontava, vibrante di
passione, le prime ore, i primi giorni, le prime spedizioni delle suore
missionarie della Consolata in Africa, in Kenya.

Secondo motivo è quello di
contribuire alla celebrazione del centenario dell’arrivo delle nostre sorelle
in Kenya, io che per anni ho chiamato quella terra «mia patria di adozione».
Con
queste righe voglio rendere omaggio alle tante sorelle conosciute e amate che
ora riposano nei cimiteri di quella terra benedetta.

L’evento

In questa foto (l’originale in bianco e nero è stato
rielaborato da Fraser) ci sono le prime 15 suore missionarie della Consolata
accolte dai missionari della Consolata, dalle suore del Cottolengo (tre,
riconoscibili dalla loro mantellina bianca e lunga) e dai primi cristiani, lavoratori
e bambini della missione di Limuru (probabilmente). Eccole (da sinistra): sr. Rosa Margarino (Portacomaro, At), sr. Filomena Moresco (Barge, Cn), sr. Agnese Gallo (Caramagna, To),
sr. Teresa Grosso (Buttigliera d’Asti, At), sr. Caterina Gemello
(Candiolo, To), sr. Domenica Drudi (Misano, Forlì), sr. Candida
Sandretto (Sparone, To), sr. Margherita De Maria (Dronero, Cn), sr.
Serafina Drudi (Misano, Forlì), sr. Paolina Bertino (Montevideo,
Uruguay), sr. Cristina Moresco (Barge, Cn), sr. Carolina Crespi
(Pogliano, Mi), sr. Costanza Golzio (Castiglione, To), sr. Cecilia
Pachner (Torino), sr. Lucia Monti (Almenno S. B., Bg).

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1913

L’Istituto ha tre anni di
vita. Le suore professe sono 18, le novizie 24, le postulanti 12. Dall’Africa,
e precisamente dal Kenya dove oramai da dieci anni i missionari della Consolata
lavorano, si fa pressione sul Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, nostro
comune Padre, perché mandi le missionarie. Così ecco il 1913 con l’incalzare di
eventi per il giovane Istituto: vestizioni religiose a gennaio, ad aprile, a
maggio, a settembre. In aprile, il giorno 5, le prime professioni religiose
nell’Istituto. «Questo giorno, dice il Fondatore nella conferenza, è da
scriversi a caratteri d’oro».

Dieci sorelle, all’altare,
emettono la loro professione religiosa. Sono le pietre angolari sulle quali si è
innalzato l’edificio delle missionarie della Consolata.

1913, l’anno scorre veloce. Dopo
il traguardo delle prime professioni, il Fondatore annuncia la partenza per le
missioni. Da questo momento, nel Fondatore c’è un solo desiderio: formare le
sue figlie più direttamente a quello spirito missionario di cui Lui aveva tutto
acceso il suo grande cuore.

Madre Margherita De Maria viene
scelta come superiora del primo gruppo delle partenti. Il tempo vola: corsi speciali di
medicina, di inglese, di gekoyo (la lingua dei Kikuyu, come si scriveva
allora, ndr.), di musica; le sorelle visitano regolarmente gli ospedali
della città e non mancano di fare lunghe camminate per allenarsi alla vita
missionaria.

1913, 28 ottobre, le prime 15
missionarie della Consolata destinate al vicariato del Kenya, ricevono
solennemente il Crocifisso, il Compagno del loro pellegrinare in missione,
dalle mani del cardinale Agostino Richelmy, assistito dal Fondatore e dal
Canonico Camisassa. È il momento dell’invio, del mandato «ad gentes» da parte
della diocesi e della Chiesa. Da quel giorno in poi, le missionarie partiranno
dalla Consolata e andranno in tutto il mondo. «Ricevi la Croce di Gesù Cristo.
Ti sia sostegno nelle fatiche
dell’apostolato». È la voce del Vescovo che «manda» i nuovi operai nella messe.

Sono pronte per partire. Eccole:
suor Agnese Gallo, suor Candida Sandretto, suor Carolina Crespi, suor Caterina
Gemello, suor Cecilia Pachner, suor Costanza Golzio, suor Cristina Moresco,
suor Domenica Drudi, suor Filomena Moresco, suor Lucia Monti, suor Margherita
De Maria, suor Paolina Bertino, suor Rosa Margarino, suor Serafina Drudi, suor
Teresa Grosso.

Le prime Missionarie della Consolata nel 1913. Tra loro le suore professe (col crocifisso), le novizie (con la medaglia) e le postulanti (velo nero)

Le prime impressioni

L’Africa. Il Kenya. Un mondo
nuovo per le nostre sorelle. L’immensità dello spazio che si apre davanti a
loro, il cammino difficile, povero, sacrificato; il pericolo dell’isolamento,
la lontananza, lo scoraggiamento, potrebbero intaccare la generosità e la
serenità delle figlie dell’Allamano.

Ma davanti ai loro occhi la
figura del Cristo missionario del Padre, della Consolata, che quale madre
dolcissima le seguiva, il ricordo del Fondatore, il suo sorriso, il suo «Coraggio,
avanti!» diventano il sostegno nei duri inizi.

Partono. Sono 15 e provengono da
otto diocesi: Torino, Saluzzo, Ivrea, Asti, Bergamo, Milano, Rimini e
Montevideo. Alla stazione di Porta Nuova a Torino, il Fondatore commosso dà
loro la sua benedizione.

Partono. Dà loro grande fiducia
il sapere che andranno a lavorare accanto ai missionari della Consolata, figli
dello stesso Fondatore, espressione di uno stesso carisma. Le sorelle ripongono
altrettanta fiducia nel fatto che in Kenya da una decina d’anni lavorano le
Cottolenghine (le suore del Cottolengo) della Piccola Casa di Torino; sotto la
loro guida il tirocinio missionario sarà più facile e sicuro.

Partono. Non hanno con sé il
biglietto di ritorno, hanno salutato tutti, per sempre. Vanno. Quando il
bastimento «Catania» leva le ancore da Genova e le coste della patria si
allontanano, le 15 si stringono l’una all’altra: piangono, sorridono e pregano.
Vanno verso l’ignoto piene di fiducia, sorrette dalla benedizione del
Fondatore. Con sé portano una lettera del
Padre Allamano, da leggersi durante il viaggio: è
un prezioso compendio di quanto era stato loro insegnato durante la
preparazione.

Gruppo di Missionarie della Consolata in Kenya attorno a madre Margherita Maria, la lor superiora.

Da Limuru a Nyeri

Dopo un lungo viaggio, le
missionarie raggiungono il porto di Mombasa in Kenya e il piccolo treno a
scartamento ridotto che porta in Uganda le lascia alla stazione di Limuru: è il
28 novembre 1913. A Limuru, una ventina di km oltre Nairobi, i missionari
avevano posto la loro casa procura da cui poi mandare, attraverso le valli
dell’Aberdare, i rifoimenti alle missioni di Muranga (allora Fort Hall), di
Nyeri e di Meru.

Il cuore è pieno di gioia:
finalmente le missionarie sono nella terra dei loro sogni. Alla stazione sono
ad attenderle monsignor Perlo Filippo, vicario apostolico di Nyeri, le suore
Cottolenghine, vari missionari della Consolata, alcuni dei primi cristiani e i
catecumeni.

Il giorno successivo molti
vengono a salutarle e chiedere notizie del papa, dei superiori, degli italiani.
Il terzo giorno le missionarie iniziano un «corso di orientamento» con le suore
del Cottolengo visitando i villaggi attorno a Limuru e un corso intensivo di
lingua kikuyu in modo di rendersi capaci di comunicare in modo diretto con la
gente.

Il rodaggio dura solo pochi mesi,
poi inizia l’avventura. Le nuove missionarie lasciano Limuru e partono in
carovana per raggiungere Nyeri. I buoi trascinano carri carichi di tutto: le
tende per ripararsi durante le notti del lungo viaggio di quattordici giorni,
il cibo, gli attrezzi e il necessario per mettere su casa una volta arrivate a
destinazione. Dopo la lunga camminata le suore raggiungono Nyeri senza essere
accolte da speciali cerimonie di benvenuto. Solo i circa 75 bambini
dell’orfanatrofio (raccolti dai missionari e dalle suore del Cottolengo perché
abbandonati alle iene nella foresta) le guardano con gli occhi sgranati.

Così ha inizio la nuova missione
Nyeri-Mathari (dove i missionari sono presenti dal 1904). Lo stile di vita è
veramente povero a livello materiale, ma ricco di ogni sorta di attività. Tutti
i giorni riservano il tempo per il catechismo agli operai della grande fattoria
agricola. Con loro lavorano, per produrre il necessario per se stesse e le varie
missioni già aperte dai missionari della Consolata.

È un’avventura anche il ritmo di
lavoro dalla domenica alla domenica. Scuola per tutti quelli che giungono alla
missione dai villaggi intorno; attenzione particolare per le giovani che sono
educate e vivono alla missione; visita agli ammalati nell’ospedale governativo,
cura di quelli che arrivano all’improvvisato dispensario della missione
collocato sotto un albero o in una capanna per proteggere il paziente e la
suora dal sole implacabile; visite regolari ai vicini villaggi, in cerca di
malati da curare; e la cura dei 75 orfani, che vivono ancora in costruzioni
molto provvisorie. E il lavoro massacrante nella immensa piantagione di caffè e
in quella di orchidee; l’attendere agli oltre 500 buoi e mucche (la fattoria
aveva moltissimi buoi per tirare i carri usati nel trasporto del caffè da Nyeri
a Nairobi e per le carovane da una missione all’altra; ndr.) che bisogna
contare al sorgere e al tramonto del sole e accudire giorno dopo giorno.

Missionarie della Consolata impegnate nella visita ai villaggi.

Ma per tutto questo lavoro non
tutte le 15 missionarie rimangono a Nyeri: quattro partono immediatamente per
Tuthu (la prima missione fondata nel 1902 dai missionari nelle valli
dell’Aberdare a oltre 2300 m), dove giungono dopo tre giorni di cammino (il
viaggio oggi richiede poche ore di macchina!). Suor Agnese è la superiora, suor
Paolina Bertino è destinata alla visita ai villaggi e all’insegnamento
nell’incipiente scuola, suor Serafina Drudi per la visita ai villaggi e suor
Rosa Margarino per la cucina di tutta la comunità maschile e femminile della
missione. Così le missionarie iniziano la seconda missione.

Avventure di tempi eroici!
Aggiungiamo quella di inserirsi nell’ambiente vincendo la sfida della lingua,
dei lunghi viaggi, delle malattie come la malaria, le piaghe, la dissenteria,
del cibo scarso: tutto contribuisce a rendere difficile la vita. Ma il Signore è
loro accanto, e interviene anche con i miracoli.

Le sorelle rimaste a Torino,
seguono con amore fraterno le loro missionarie, nell’attesa di raggiungerle, e
pregano:

«Vergine, piena d’amore,
consolatrice d’ogni nostro pianto.
Reggili sugli oceani,
nell’orror delle foreste
e dei deserti ardenti,
Quando spira la furia
dei torrenti,
quando spossati cadono per via,
quando li assale stanchezza e nostalgia,
posati loro accanto!».

E
davvero, come per altre volte a molte di noi, il cielo si fa vicino.

Suore Serafina Drudi in visita a capanne attorno al villaggio di Thusu.

Avventura e grazia

Ed è un’avventura anche uno dei
tanti viaggi fra Tetu (missione fondata nel 1903) e Nyeri. Protagoniste suor
Teresa e suor Candida, le quali, dopo una mattinata spesa nella funzione dei
battesimi, nel pomeriggio si incamminano in carovana per il ritorno alla
missione. La notte si avvicina: vescovo, padri, suore, cristiani e non, tutti
in fila ritornano al Mathari. Tra loro suor Candida, appena giunta in missione,
non allenata alle lunghe marce. A poco a poco tutti sorpassano le due sorelle
che alla fine si trovano isolate, nella solitudine e nel silenzio della notte
africana senza luna. Hanno perso il sentirnero. La paura si fa strada. Un
improvviso fruscio le allarma ancor più. Un serpente, una iena, un leone?
Invece ecco un giovane con una bianca tunica si avvicina e le invita a seguirlo
per raggiungere la carovana. Nel dialogo con suor Teresa si presenta e dice il
suo nome: «Wa Ngai» (di/da Dio). Suor Teresa ribatte che tutti veniamo
da Dio e insiste per sapere il suo nome: «Wa Ngai – dice -, e vengo da molto
lontano». Della giornata dei battesimi il giovane dice che è stata molto bella
ed è piaciuta anche a Dio. Egli precede le sorelle mentre il camminare si fa più
facile e anche suor Candida ha la sensazione che la stanchezza sia scomparsa.
Finalmente, a discesa terminata (perché c’è una valle tra Tetu e Mathari e
bisogna scendere al fiume e risalire), il paesaggio si allarga, si cominciano a
sentire le voci del gruppo. Sono salve! Suor Teresa chiede ancora: «Vuoi dirmi
il tuo nome?». Dopo un istante di sospensione, con voce chiara il giovane
risponde: «Sono Raffaele. Vengo da Dio». E scompare.

In senso orario: suora della Consolata e del Cottolengo tra i bambini orfani dell’orfanotrofio di Nyeri; suora con giovani mamme;
bambini dell’orfanotrofio di Nyeri e la stessa foto ritoccata con al presenza delle suore.

Avventure missionarie: quante! Di
quanti piccoli miracoli in questi cento anni di Kenya, siamo testimoni! Le
piccole scatole-case, le capanne, i primitivi improvvisati dispensari, poco a
poco hanno lasciato il posto a case vere, scuole, ospedali, orfanotrofi,
dispensari. Cento anni per seminare l’Amore, la Consolata e il Padre Fondatore
nel cuore della nostra gente del Kenya, obbedendo all’invito dell’Allamano: «Coraggio
e vanti!».

Gesù, il missionario del Padre ci
ha sempre precedute e ci ha rese anche capaci di cedere nelle mani responsabili
della Chiesa locale quello che con tanto sacrificio è stato costruito (la
maggior parte degli ospedali, scuole e altre attività iniziate nelle missioni
della Consolata, sono ora nelle mani delle Chiesa locale, avendo i missionari e
le missionarie finito il loro compito da dare inizio ad una nuova comunità ndr.).

Ora abbiamo raggiunto il deserto,
di nuovo come agli inizi, forse con meno fatica. Tocca sempre a noi andare e
partire per testimoniare, per passare il testimone ad altre sorelle, alle
giovani di oggi, anche a nome delle 157 missionarie che riposano nei cimiteri
del Kenya: 47 al Mathari-Nyeri, 8 a Meru, 95 al Nazareth Hospital-Nairobi e 7
in altri cimiteri.

Sr. Pier Rosa Campi

Pier Rosa Campi




Kenya, uniti per la pace: ripartire dai giovani

Cooperando

Riunire migliaia di giovani perché possano discutere e confrontarsi, liberare il campo dagli odi fra
etnie, cercare le reali cause del conflitto e trovare una soluzione comunitaria. Questi gli obiettivi del progetto «Giovani uniti per la pace in Kenya» lanciato dai missionari della Consolata e dall’Associazione Africa Rafiki. Affinché la tragedia degli scontri post-elettorali del 2007 e 2008 non si ripeta e prevalgano il dialogo e la riconciliazione.

Era da poco passato Natale quando l’opinione pubblica internazionale fu bruscamente strappata alla tranquillità delle feste dai primi notiziari che parlavano di centinaia di morti e migliaia di sfollati in tutto il Kenya, risucchiato in una tanto inspiegabile quanto cruenta spirale di odio e violenza interetnica all’indomani delle elezioni politiche del 27 dicembre 2007. Increduli, con il disastro ruandese del 1994 ancora negli occhi, gli osservatori cercavano di spiegare come potesse essere successo quello che unanimemente era ritenuto impossibile: che, cioè, un paese come il Kenya, non certo estraneo alle tensioni fra etnie ma dimostratosi fino a quel momento capace di gestirle, stesse sperimentando la stessa follia collettiva che si era vista all’opera in altri paesi africani e che si sperava superata e irripetibile.
La crisi si chiuse il 28 febbraio del 2008, con l’accordo fra i due contendenti, il presidente uscente Mwai Kibaki e l’oppositore Raila Odinga e la formazione di un governo di coalizione. Rimaneva da far luce sulle violenze perpetrate in quei due lunghissimi mesi di conflitto, il cui drammatico bilancio registrava più di mille morti e seicentomila sfollati costretti ad abbandonare le proprie case nel timore di essere attaccati e massacrati da quelli che, fino a poche settimane prima, erano stati i loro vicini di casa.
Oggi, a quattro anni di distanza, il Paese si prepara a una nuova consultazione elettorale, prevista per la fine del 2012-inizio 2013, in un contesto certamente più disteso e pacificato nel quale però i cittadini keniani rimangono guardinghi. Sebbene il forte desiderio del paese di gettarsi alle spalle i traumi del 2008 nutra un ottimismo tutto sommato abbastanza diffuso, nessuno si sente di escludere del tutto che lo spettro del conflitto inter-etnico torni ad aleggiare non appena la campagna elettorale dei candidati alla presidenza entri nel vivo. Contraddittori sono stati anche i segnali in arrivo dal Kenya dal 2008 ad oggi: se, da un lato, il paese ha accolto in maniera tutto sommato equilibrata la recente decisione del Tribunale Penale Internazionale di incriminare quattro esponenti politici keniani – fra i quali il figlio dell’ex-presidente Jomo Kenyatta, Uhuru – per omicidio, crimini contro l’umanità, deportazione e persecuzione sulla base di affiliazione politica, dall’altro diverse fonti, fra le quali un report della BBC, hanno segnalato circa due anni fa un tentativo di armarsi che alcuni gruppi della Rift Valley avrebbero perseguito acquistando fucili d’assalto AK 47 e G3.
In questo contesto di fiducia prudente si inserisce l’iniziativa «Giovani Uniti per La Pace in Kenya», un progetto della durata di ventinove mesi che prevede l’organizzazione di forum per la riconciliazione in undici località del Kenya. L’obiettivo è quello di coinvolgere circa sedicimila giovani dei gruppi etnici che si sono scontrati nel 2008, in un processo di valutazione e riflessione comunitario sul conflitto post-elettorale per demistificare l’elemento etnico, riconoscere e individuare le reali cause del conflitto e cercare di rimuoverle attraverso la collaborazione e il dialogo all’interno della comunità.

Presi alla sprovvista
«We were caught unaware», (siamo stati presi alla sprovvista). Padre Jacob Ndong’a non si dava pace, e con lui tutti i missionari presenti in Kenya, anche quando nel 2009 la situazione intea era in corso di normalizzazione e la «Commissione per la verità, la giustizia e la riconciliazione», istituita dal nuovo governo, era al lavoro per investigare sui crimini commessi durante gli scontri. La mediazione internazionale dell’ex-presidente ghanese John Kufuor e dell’ex-segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, insieme alle pressioni della comunità internazionale, avevano portato già nel febbraio del 2008 a un accordo fra Mwai Kibaki e Raila Odinga, che avevano formato un governo di coalizione nel quale i due rivali erano, rispettivamente, presidente della repubblica e primo ministro, ma, al di là degli accordi politici di stabilizzazione, il paese era ancora profondamente traumatizzato.
I segni della violenza, d’altronde, erano tutt’altro che cancellati: a Kisumu, città del Kenya occidentale sulle rive del lago Vittoria, in pieno centro città gli edifici dati alle fiamme durante il conflitto rimanevano, neri di fuliggine e sventrati, come cicatrici non ancora rimarginate e pronte a riaprirsi al primo strappo.
Il senso di frustrazione implicito nelle parole di padre Ndong’a derivava principalmente dalla consapevolezza, condivisa dalla maggior parte dei missionari e degli operatori umanitari attivi in Kenya, che gli scontri post-elettorali del 2007 – 2008 avevano cause molto più profonde della semplice contrapposizione etnica, cause che però erano state ampiamente sottovalutate nel loro potenziale distruttivo.
Ad essere preso alla sprovvista è stato in effetti un Paese intero, chiesa cattolica compresa, che pure da anni nei suoi documenti segnalava la gravità della situazione e l’urgenza di risolvere una volta per tutte il problema della terra. La speranza di elezioni pacifiche aveva fatto sottovalutare la campagna di odio etnico messa in atto nei mesi immediatamente prima delle elezioni con ampio uso di radio locali e cellulari. Questo ottimismo «a tutti i costi» aveva lasciato campo libero a quella parte di classe dirigente che aveva volutamente strumentalizzato l’elemento etnico per fomentare tensioni da capitalizzare come merce di scambio nell’arena politica. Nella maggior parte dei casi, le violenze sono state perpetrate da giovani frustrati dalla mancanza di prospettive occupazionali che avevano accettato, in cambio di una manciata di scellini offerti dagli emissari di politici di diversi schieramenti – ben organizzati già da mesi -, di impugnare la panga (il tipico coltellaccio usato dai contadini per far di tutto, dal tagliare alberi al pulire la terra dalle erbacce, dal macellare un animale al farsi uno stuzzicadenti) e diventare giustizieri e difensori del proprio gruppo etnico.

Il conflitto e le sue cause
Proprio questo disagio giovanile è una delle chiavi di volta per comprendere i fatti del 2007 – 2008. Il tasso di disoccupazione, in Kenya, è intorno al 40%: circa sedici milioni di keniani non hanno un lavoro. Di questi, dieci milioni sono giovani fra i 18 e i 30 anni. «L’assenza di prospettive e la difficoltà a garantirsi la sussistenza», commentava padre Gigi Anataloni, missionario della Consolata e direttore della rivista The Seed di Nairobi all’epoca degli scontri, «si trasformano velocemente in mancanza di fiducia in se stessi e nel futuro. Giovani in questa condizione, che vivono di espedienti e che covano una rabbia e una frustrazione profonde, non sono difficili da coinvolgere in azioni violente in cambio di denaro».
Al disagio giovanile si aggiungono altri fattori, primo fra tutti quello dell’iniqua distribuzione della terra. «È un problema che affonda le sue radici nel colonialismo», precisa padre Michael Njagi da Mombasa, dove particolarmente serie sono le conseguenze del mancato riconoscimento del diritto alla terra. «Fu durante l’epoca coloniale che i nativi di zone di particolare interesse agricolo furono sfollati verso aree meno fertili per poter assegnare le loro terre ai coloni europei, sulla base di quanto sancito dal leggi come il Crown Lands Ordinance del 1902 poi rimpiazzato dal Govement Land Act del 1915. Il principio di gestione comunitaria delle terre andò perduto, accantonato in favore del modello occidentale di possesso privato.
A peggiorare la situazione furono le ridistribuzioni successive all’indipendenza, spesso attuate dai nuovi governi in maniera poco chiara a favore di individui potenti e ben introdotti, in grado di corrompere le autorità preposte all’assegnazione delle terre. Si calcola che circa il 60% di tutte le terre arabili sia nelle mani di pochi latifondisti, tra cui molti membri di governi passati e presenti.
Infine, ed è il fatto più di recente, le multinazionali straniere si stanno accaparrando i pezzi di terra migliori e, secondo le stime del Ministero della terra del Kenya, una serie di proprietari assenti, keniani e stranieri, posseggono oltre settantasette mila ettari di terra solo nella zona costiera fra Malindi e Mombasa dove le comunità locali sono costrette a vivere pagando affitti mensili e rischiando costantemente di essere sfrattate e allontanate».
Ulteriore elemento da tenere in considerazione, se si vogliono ricercare le cause reali del conflitto, è l’elevato tasso di corruzione, presente a tutti i livelli della società keniana, che in un contesto di risorse scarse o scarsamente utilizzate limita ulteriormente i margini di ridistribuzione della ricchezza. Se il modo più efficace e diffuso per garantirsi un impiego o un incarico è quello di corrompere chi è nella posizione di concederlo, è evidente che la stragrande maggioranza dei keniani è esclusa dalle dinamiche del mercato del lavoro. «È da questo insieme di fattori», riflette Josephat Khamasi Bandi, responsabile della ong keniana Yupk – Youth United for Peace in Kenya, «che si deve partire per tracciare un quadro realistico delle tensioni alla base del conflitto post-elettorale. La rivalità interetnica ha certamente aggravato queste tensioni ma non le ha causate e, senza queste ingiustizie di fondo, le rivalità tribali da sole non avrebbero potuto causare scontri su larga scala come quelli del 2008».

Il progetto «Giovani Uniti per la pace in Kenya»
È su questa serie di riflessioni che si è basata l’ideazione del progetto Giovani Uniti per la Pace in Kenya. Nato come movimento spontaneo di migliaia di giovani che, all’indomani degli scontri, si riunirono a Dagoretti, nella periferia di Nairobi, per discutere dell’accaduto e cercare risposte pacifiche e comunitarie alla violenza, il progetto attuale è l’ampliamento e l’estensione di quell’iniziativa quasi istintiva. Il responsabile di Yupk, Josephat Khamasi Bandi, è oggi il cornordinatore del progetto ed è impegnato in un intenso lavoro di organizzazione e supervisione dei forum.
«Nel 2008 abbiamo cominciato dalla zona della Rift Valley, dove gli scontri erano stati più aspri e sanguinosi», spiega Josephat, «e abbiamo organizzato forum di due giorni in ventisei parrocchie. A ogni forum partecipavano almeno cinquanta persone, molte delle quali erano proprio i perpetratori delle violenze. Il nostro obiettivo era quello di riunirle e permettere loro di confrontarsi: spesso il risultato erano scontri verbali piuttosto accesi, frutto di un risentimento ancora molto vivo. Ma, piano piano, grazie alla mediazione dei nostri moderatori, le persone trovavano la motivazione e le parole per aprire un dialogo e cominciavano a riconoscere che il problema non era essere kikuyu, luo, kalejin o samburu, bensì non avere a disposizione risorse che permettessero a tutti di garantirsi il sostentamento o il rispetto dei diritti più basilari, come il diritto al lavoro, alla terra, all’acqua. I risultati sono stati incoraggianti, per questo abbiamo deciso di cercare fondi che permettessero di allargare l’iniziativa a tutto il paese».
Oggi il progetto tocca undici località in tutto il Kenya e sono previsti centosessantacinque forum in ventinove che coinvolgeranno oltre sedicimila persone. Durante questi forum si replicheranno le modalità di invito al dialogo e al confronto già sperimentate nella Rift Valley, «naturalmente», aggiunge Josephat, «adattando l’iniziativa alla realtà locale e ai problemi prevalenti in quel contesto. Un conto è far comunicare kikuyu e kalejin che hanno come principale motivo di contesa la ripartizione della terra, altra cosa è aprire un dialogo fra Samburu e Pokot, che competono per l’accaparramento del bestiame e il controllo delle risorse idriche».
Le fasi del progetto sono essenzialmente due: la prima ha lo scopo di accompagnare i partecipanti dei forum fino alle prossime elezioni in un percorso di risanamento della memoria (healing of memories) e presa di coscienza dei propri diritti e doveri di cittadini. La seconda, che comincerà subito dopo le elezioni, darà una valutazione dei risultati ottenuti durante la prima fase – anche alla luce della reazione dei partecipanti a eventuali tensioni pre e post-elettorali – e getterà le basi per una gestione comunitaria dei conflitti e delle diatribe intee.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Dove va il Kenya?

Gravi incognite di un paese che sembrava ricco e felice

Dietro i disordini scoppiati in seguito ai controversi risultati elettorali del dicembre 2007, si celano gravi problemi irrisolti: possesso della terra, tensioni etniche, squilibri economici e sociali, corruzione…
I due contendenti leaders politici si sono messi d’accordo, ma cresce il malcontento della gente, mettendo a rischio il futuro del paese.

I più sprovveduti non se lo aspettavano, i più attenti sì. Il Kenya è oggi in fondo alla classifica della pace. Secondo il Global Peace Index, compilato dall’Istituto per l’Economia e la Pace in Australia, su 140 nazioni il Kenya è precipitato al 119° posto. Le cause principali della sua caduta nella classifica della pace sono state le violenze post-elettorali del gennaio scorso, le bande dei Mungiki e dei Sabaot nel distretto del monte Elgon al confine con l’Uganda, il crescente numero di rapine a mano armata e gli omicidi a contratto, l’abbondanza di armi da fuoco illegali, l’aumento delle razzie di bestiame e i sequestri di autoveicoli pubblici e privati.
Naturalmente questo non è tutto il Kenya; ma lo si credeva un paese ricco e felice, a differenza di molte altre nazioni africane. Sembravano sparite anche le divisioni etniche tra le numerose tribù che lo compongono. Oggi invece molti africani non kenioti che vengono in Kenya restano sorpresi da queste divisioni e si sentono spesso chiedere «a quale tribù appartieni?»; una domanda che sarebbe considerata scortese nelle loro nazioni di provenienza.
Il Kenya, le cui dimensioni territoriali sono all’incirca quelle della Francia, ha sette province. Quella di Nyanza, situata sulle rive del Lago Vittoria, è la patria della comunità etnica luo, il cui modo di vita tradizionale è strettamente legato alla pesca. All’epoca dell’indipendenza del paese, i luo erano la seconda comunità etnica del Kenya numericamente più grande. Insieme al gruppo maggioritario, i kikuyu, avevano combattuto per l’indipendenza dalla Gran Bretagna.
Al contrario dei luo, situati sul confine occidentale del Kenya lontano dalla capitale Nairobi, i kikuyu vivevano e vivono ancora oggi prevalentemente nella Provincia Centrale che circonda il monte Kenya. Al tempo del colonialismo britannico furono l’etnia maggiormente danneggiata dalle espropriazioni di terre, volute dalle autorità coloniali per permettere agli agricoltori bianchi di stabilirsi in zone vicine alla capitale. Ne derivò una violenta ribellione, quella dei Mau-Mau, repressa nel sangue dall’esercito britannico negli anni Cinquanta del secolo scorso.
Il Kenya ottenne l’indipendenza nel 1963 e tutte le comunità etniche del paese accolsero con entusiasmo l’elezione a primo presidente della giovane repubblica Jomo Kenyatta, un kikuyu imprigionato per anni nelle carceri inglesi perché favorevole all’indipendenza.
Nel 1978, dopo la morte di Kenyatta, fu scelto a succedergli Daniel Arap Moi, un candidato di compromesso, appartenente all’etnia kalenjin, che abita la provincia della Rift Valley, una depressione di grande bellezza naturale che attraversa il Kenya da nord a sud, tradizionalmente abitata da popolazioni dedite alla pastorizia, tra le quali emerge l’etnia dei kalenjin.
Fino a qualche tempo fa, la Rift Valley era considerata il granaio del Kenya, ma dal gennaio 2008, colpita da sanguinosi conflitti etnici e con quasi 300 mila rifugiati, l’agricoltura è stata quasi del tutto devastata e abbandonata.
Nello stesso tempo, in Kenya si era verificato un rapido incremento della popolazione e il governo si rese conto che un gran numero di piccoli agricoltori era in cerca di terra da coltivare. Si decise di risolvere il problema assegnando a questi agricoltori zone fuori dalla Provincia Centrale, a scarsa densità demografica, ma dotate di terre fertili. Tali terre furono trovate soprattutto nella provincia della Rift Valley e furono subito occupate da coloni kikuyu oltre che da etnie provenienti dall’altro lato della Rift Valley, come i luo. Ciò provocò il risentimento delle popolazioni che da secoli abitavano la Rift Valley. 
Negli anni ‘80 e ‘90 gli scontri per il possesso della terra avvennero soprattutto dove i kalenjin avevano cominciato a razziare il bestiame e a cacciare gli agricoltori di altre etnie. L’evento peggiore si verificò nel 1992, quando furono uccise 1.500 persone. Sembra che in questi atti di violenza fosse addirittura coinvolto lo stesso governo del presidente Moi di etnia kalenjin.

Tuttavia, dietro alle violenze avvenute in Kenya con un numero considerevole di morti e di profughi, non c’è solo il problema delle terre, ma anche il conflitto tra luo e kikuyu; questi ultimi oggetto di una spropositata politica di investimenti considerata dai luo sfavorevole nei loro confronti. Scoppiarono così rivolte in tutta la provincia e il leader politico luo di allora, Oginga Odinga, fu arrestato con l’accusa di fomentare le rivolte. Un altro luo, il ministro della pianificazione economica Tom Mboya, filoccidentale e moderato, fu ucciso in una serrata lotta con Odinga per la successione all’ormai vecchio Kenyatta.
Dietro le recenti violenze avvenute in Kenya permane dunque il conflitto tra luo e kikuyu. Forse il principale teatro di queste violenze fu il Kibera slum di Nairobi, un luogo periferico della capitale dove è evidente la disuguaglianza economica e dove coloro che provengono dai territori dei luo tendono a gravitare in cerca di una sistemazione economica migliore. Il Kenya ha uno dei più alti redditi pro capite fra i paesi africani, ma ha anche il maggior divario nella distribuzione delle ricchezze. Negli ultimi decenni le proporzioni raggiunte dalla corruzione politica hanno inoltre messo il paese in una posizione anche peggiore rispetto a quella dei suoi vicini e, inevitabilmente, i tassi di crescita economica sono rimasti indietro.
Non solo a Nairobi, ma in molte altre città keniote la disuguaglianza economica è evidente nell’architettura delle zone ricche e nell’architettura fatiscente di quelle povere. Una foto scattata dal satellite e reperibile su internet mostra come all’interno dei confini della città c’è una superficie occupata da una serie di campi da golf e un’altra uguale occupata dagli slums, in cui vivono fino a tre milioni di persone. La consapevolezza di questa disuguaglianza, unita al risentimento etnico, si è combinata in una miscela esplosiva con forti tensioni e violenze nei primi mesi di quest’anno.

I n tale situazione le elezioni del dicembre 2007, che portarono di nuovo al potere il kikuyu Mwai Kibaki, furono giudicate dagli osservatori inteazionali «molto irregolari». Buona parte di loro ritennero infatti che il presidente legittimamente eletto fosse il capo dell’opposizione, Raila Odinga, appartenente all’etnia luo, membro del Parlamento di Nairobi e rappresentante di un’area che include Kibera slum. È anche figlio di Oginga Odinga, il leader politico della comunità luo imprigionato durante i disordini del 1969.
Le violente proteste contro le irregolarità avvenute alle elezioni del dicembre scorso sono con ogni probabilità non un fatto marginale, ma piuttosto una risposta alle molte tensioni che aspettavano soltanto di esplodere. È perciò importante che ora tra il presidente kikuyu Mwai Kibaki e il luo Raila Odinga si sia raggiunto un accordo di pace e che tale accordo abbia successo.
L’accordo propone un’autentica condivisione del potere, considerato il primo passo verso il superamento di rancori profondamente e storicamente radicati, in modo da costruire uno stato riconciliato, dove prevalga il senso del bene comune. L’auspicio è che in questo frangente i cristiani, tra cattolici e protestanti in Kenya sono più della metà della popolazione, abbiano un ruolo significativo nella maturazione del paese verso un’autentica democrazia. La strada è senza dubbio difficile. I rancori storici si sono accumulati e non sono stati affrontati per tempo.
Nel maggio scorso nei campi dei circa 300 mila rifugiati a causa dei conflitti etnici è stata lanciata dal governo l’operazione «Toate a casa». A Eldoret, in uno dei campi di questi rifugiati, si è tenuta una cerimonia interreligiosa, con la partecipazione di parlamentari locali di etnia kalenjin che predicavano il perdono e la pace. Alcuni di questi leaders sono sospettati di aver incitato il massacro dei kikuyu nel gennaio scorso.
Le difficoltà sono comunque enormi. L’agricoltura è stata devastata. Molte zone sono rimaste incolte, il prezzo delle sementi, dei fertilizzanti e del carburante sono alle stelle e la pioggia tarda a venire. Per coloro che hanno perso casa, bestiame e tutto il resto «tornare a casa» è un grosso problema, circondati come sono dai vicini che non li potevano vedere e che hanno razziato tutto quello che potevano. Per coloro che possedevano solo una capanna e un piccolo negozio di beni di consumo, si troveranno invece un cumulo di ceneri. «Toare a casa» sarà difficile, molto difficile.

E non è tutto finito qui! Come sempre succede in simili casi, i disordini di fine 2007 e inizio 2008 si sono trascinati dietro altri fatti incresciosi. Decine di piccoli commercianti, che avevano fornito del materiale a sostegno del partito del presidente Kibaki, non hanno ancora ricevuto alcun pagamento per un totale di 14 milioni di scellini (140 mila euro). Trattandosi per lo più di piccoli commercianti, ora rischiano la bancarotta. I dirigenti del partito del presidente, che avevano raccolto tale materiale, affermano di non avere nessuna responsabilità nel pagamento.
Inoltre, dopo parecchi mesi dai disordini elettorali, nei campi della Rift Valley vi sono ancora circa 20 mila rifugiati in precarie condizioni, malgrado gli aiuti dall’estero. A Timboroa il governo italiano ha costruito 200 piccole abitazioni per i più bisognosi; altre centinaia sono in costruzione da parte di diverse organizzazioni di assistenza umanitaria.
Ma succede anche qui come con i poveri polli di Renzo di manzoniana memoria: delle 2 mila stufe d’emergenza, donate dalla Germania, i rifugiati denunciano la sparizione di un certo numero; dove sono andate a finire? Non si sa! I rifugiati lamentano anche la scomparsa di vettovaglie, naturalmente vendute al pubblico dagli amministratori locali.
Infine, secondo la polizia, almeno 30 bambini sono stati abbandonati nelle vicinanze dei campi dei rifugiati di Eldoret e della tendopoli della Rift Valley. Tutto questo mentre il presidente Kibaki e il primo ministro Odinga discutono tra loro come punire gli arrestati responsabili delle violenze post-elettorali. Odinga chiede l’amnistia per tutti; Kibaki promette severe condanne. Odinga cerca il dialogo con i Mungiki; il capo della polizia promette severe repressioni finché la «setta» è fuorilegge.
Nel frattempo i parlamentari, già abbondantemente stipendiati dal governo, si rifiutano di pagare le tasse. «Ci vogliono ridurre alla miseria come i nostri elettori» diceva un parlamentare; e un altro: «Pagheremo le tasse quando ci aumenteranno lo stipendio che ci compensi di quanto abbiamo perso».
E non basta: la polizia avvisa che una nuova banda criminale, denominata «Siafu» (formiche caivore), sta operando negli slums di Nairobi, in conflitto con quelle già esistenti, ossia i Mungiki, i Talebani e i Kamjeschi. Queste bande raggruppano gruppi etnici diversi tra loro e si dividono determinate aree della baraccopoli di Nairobi.
Veramente a questo punto ci si può chiedere: «Dove va il Kenya?». 

Di Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi




Quale pace per il Kenya?

Dopo l’«indigestione» di notizie del mese scorso, per il Kenya c’è il rischio molto alto che i riflettori si spengano su questo come su altri paesi africani. Basti pensare alla copertura mediatica offerta un anno fa, sempre nel mese di gennaio, per il primo World Social Forum organizzato in Africa, proprio a Nairobi: un silenzio imbarazzante, interrotto da pochi lanci di agenzia disseminati qua e là fra le pagine dei maggiori quotidiani.
I fatti di violenza di un mese fa, scatenati dalla contestata elezione presidenziale, sono stati amplificati anche dal fatto che un buon numero di nostri connazionali fosse andato a svernare sulle spiagge del paradiso artificiale di Malindi. Grazie anche a un certo gusto del macabro, che sempre aiuta a vendere bene il prodotto, anche in Italia ci si è resi conto che il Kenya è ben di più che gli scorci da cartolina della sua costa. Si sono scoperte località ai più sconosciute, come Kisumu e Eldoret, e si è fatto capolino nelle periferie disagiate di Nairobi: Kibera, Korogocho.
Nel racconto delle violenze ci si è soffermati sulle lotte tribali che hanno insanguinato il paese: Luo, Luia, Kalenjin, gruppi che si sentono emarginati dalla vita politica ed economica del paese, che si trova invece saldamente nelle mani dei Kikuyu. Sicuramente questo è un elemento da tenere sempre presente e da approfondire quando si affrontano problemi africani: non si capiscono la storia e la vita politica di un paese se non si considerano i rapporti fra le diverse etnie che lo colorano demograficamente. L’errore, semmai, è quello di sdoganare la questione etnica come l’unica possibile ragione del fallimento post-coloniale della maggior parte degli stati africani.
Sicuramente, rimangono moltissimi punti interrogativi che l’analisi offerta dagli organi d’informazione occidentali, specie europei, non ha neppure sfiorato. Occorre, a mio giudizio, andare al di là del giudizio di colpevolezza attribuito in forma univoca all’odio tribale, facile da comprendere e di forte impatto emotivo per la nostra gente. Pensare, però, che le sommosse e le violenze siano da imputare solamente a questo fattore non solo non aiuta a spiegare il fenomeno nella sua complessità, ma serve a nascondere quelle che sono in realtà le nostre responsabilità in quanto occidentali ed europei.
I tumulti del mese passato sono infatti un atto di accusa all’atteggiamento aggressivo dei paesi industrializzati (e multinazionali che ne muovono le fila) nei confronti di un continente malato e volutamente lasciato in lungo-degenza da quelle stesse potenze occidentali che oggi cercano la mediazione politica fra le parti in conflitto. Ipocrisia bella e buona di chi finora si è solamente interessato del Kenya «utile»: quello delle località turistiche, regione oggetto di investimenti, paese delle «zone franche» per l’industria tessile e dei fiori. Facile battuta, ma in Kenya, per davvero, «non è tutto rose e fiori». Anche gli slums di Nairobi, dove alberga un’umanità di milioni di disperati, ci dice che l’odio tribale è una concausa (se non una scusa) del malessere di un intero continente. Lì dove la forbice tra ricchi e poveri è così tragicamente aperta, dove la sperequazione è troppo evidente per non sfociare nell’ingiustizia, fa molto più comodo una guerra fra poveri che non una coalizione, anche pacifica, dei poveri contro il sistema.

All’Africa delle nuove conquiste coloniali corrisponde, come conseguenza, l’Africa malata, il continente delle tragedie, dei profughi, degli interi villaggi decimati dalla guerra o Aids. La situazione che oggi si è venuta a creare in Kenya interpella moltissimi di noi, agenti di pastorale a vari livelli, esercito di «buoni samaritani», sempre pronti a mettere le bende lì dove le ferite sanguinano, ma forse non così decisivi nell’analizzare, informare e denunciare le cause di ciò che provoca tanta sofferenza nei più poveri, in coloro che sempre rimangono ai margini e non hanno voce in capitolo.
Questi fatti dovrebbero aiutarci a valutare il modo in cui, oggi, ci presentiamo nelle nostre attività di evangelizzazione e promozione umana, spingendoci a riflettere, per esempio, sul modo in cui formiamo le persone che inviamo in Kenya o in altri paesi africani, sia per brevi viaggi di conoscenza come per più lunghi periodi di volontariato a sostegno delle missioni. In che misura aiutiamo queste persone a leggere una realtà di disagio, molto più complessa di quella che si può cogliere in superficie e di come ci viene raccontata dai nostri mezzi di comunicazione?

Antonio Rovelli




DOSSIER KENYASETE DI ACQUA, PACE E GIUSTIZIASapori d’Africa

Studente di legge all’Università cattolica di Milano, l’autore ha passato un mese tra i missionari della Consolata a Gatunga, nella regione del Tharaka.
Ne è tornato affascinato dal mondo ivi scoperto e con una grande fame… d’Africa.

Prima che mi fosse offerta l’opportunità di un’esperienza in questo continente, la parola Africa mi evocava vaghe idee infantili e suggestive fantasie di avventura, natura, mistero.
Invece mi sono trovato a esplorare un paesaggio umano e reale di cui avevo sentito parlare solo in astratto da qualche rara inchiesta televisiva o dai resoconti di alcuni missionari. Ho potuto sperimentare sulla mia pelle odori e sapori dell’Africa vera, concreta, quotidiana; ho incontrato un’umanità sofferente per la povertà di mezzi materiali, ma serena, vitale, giorniosa, ricca di speranze.

UNA METROPOLI TERRIFICANTE
Nairobi è il mio primo bagno d’Africa: un’immersione superficiale, ma già ricca d’impressioni ed emozioni. È una città caotica, squallida, disordinata e altamente inquinata. Le immagini scorrono nella mente come rapidi flashes: grande affollamento per le vie e fiumi di persone accalcate sui marciapiedi o sdraiate su aiuole, un tempo verdi, che compongono un mosaico variopinto; mercatini che s’inseguono in modo confuso, deprimente e poco igienico ai bordi delle strade; pulmini scassati, senza portiere, traboccanti di gente pigiata come spiedini; traffico selvaggio (è «proibito» fermarsi col rosso) e assordante per i clacson che suonano a piacimento; incroci stradali dove le frecce manuali sopperiscono alla mancanza di quelle elettroniche; loculi sovrappopolati nell’estrema periferia…
Eppure, nella sordida miseria della periferia esiste un non so che di pittoresco, che si può assaporare solo passeggiando tra i mercatini, abbandonandosi alla loro atmosfera, ai sapori e odori dell’Africa autentica.
C’è qualcosa di addirittura edificante nella drammaticità di un incontro coi bambini malati di Aids in un centro del Cottolengo: dai loro occhi, sguardi e sorrisi catturo un’incontenibile gioia di vivere, un fuoco che arde impetuoso prima di spegnersi, purtroppo, per sempre.
In una casa-famiglia, invece, vedo rinascere la speranza: qui sono accolti bambini e giovani respinti dalla società e dalla famiglia, che hanno alle spalle vicende terrificanti di schiavitù, tortura, prostituzione, droga o accattonaggio.
Con quell’affetto e amore che non hanno mai ricevuto, essi sono aiutati a imparare un mestiere, per ricostruirsi una nuova vita e avere un futuro almeno decoroso. È confortante vedere come delle ragazze africane si adoperino con passione, per aiutare la propria gente ad aiutarsi a sua volta, a risollevarsi con le proprie forze, senza confidare solo su finanziamenti e aiuti dall’esterno.
L’Africa più nera, l’apice della miseria, la incontro a Giturai, un orrendo quartiere ai margini di Nairobi. Qui un gruppo di volontari di Olgiate Molgora (LC), sotto la guida di padre Luigi Brambilla, superiore dei missionari della Consolata in Kenya, sta lavorando con entusiasmo per costruire una scuola, la chiesa e annesso centro pastorale.
Nell’ambiente circostante la missione la povertà di beni essenziali, igiene, decoro e dignità raggiunge i livelli di un desolante degrado materiale e umano.
Ma Nairobi, in fin dei conti, non è l’Africa vera, è la classica e spaventosa metropoli del terzo mondo, in cui convivono in maniera confusa e contrastante quartieri residenziali esclusivi ed eleganti (come le faraoniche ville di magnati pakistani o indiani), centri affaristici o istituzionali con i loro edifici di rappresentanza, e tutt’intorno, senza confini o separazioni nette, si estendono i terrificanti slums di Nairobi.
Qui i ragazzi di strada ti stanno continuamente appiccicati, mentre cammini sui marciapiedi, nella triste speranza che dalle tasche dell’uomo bianco cada qualcosa, anche solo una briciola di quella ricchezza per loro irraggiungibile.

MAGICA GATUNGA
Lontano dalla capitale, comincio a respirare un altro modo di vivere, una dimensione umana e culturale totalmente diversa, un’Africa più intatta e affascinante: primitive capanne di argilla e paglia, tranquillità e aria sana, serenità e tanta dignità. Dopo cinque ore di viaggio, eccoci a Gatunga, terra arida e infeconda nella regione del Tharaka.
Il paesaggio non ha nulla di spettacolare: solo piccoli arbusti, sterpaglie, spine giganti, qualche solitario baobab e tanta polvere rossa. Ma è il paesaggio umano ad attrarre maggiormente. La gente è ospitale, cordiale, a suo modo persino cerimoniosa con noi estranei.
Ricordo con piacere una serata trascorsa a casa di Eduard, con sua moglie e i loro tre bambini dagli occhi e sorrisi di disarmante dolcezza: seduti su artigianali sgabelli di legno, assistiamo al calare delle tenebre, scherzando e ridendo in una quiete surreale, nel cuore della savana tharakese, nell’Africa più nera che ci sia.
In questa immensa distesa di terra rossa e bruciata, provo per un attimo un’ebbrezza indescrivibile, un condensato di contrastanti sentimenti di grandezza, maestosità, dominio, onnipotenza e, al tempo stesso, di soggezione, precarietà, miseria umana. In totale abbandono alla forza magica di questa terra, penso che soltanto questa sia l’Africa vera.
Al momento di congedarci, i padroni di casa, che tra l’altro vorrebbero condividere con noi il loro frugale pasto, ci sommergono con una valanga di regali (ciotole e mestoli di legno, frutta tropicale, borse, uova, legumi…). Vergognandoci di non potere contraccambiare, siamo costretti ad accettare per non ferire il loro senso di ospitalità.
È cosa abituale incrociarsi per gli stretti sentirneri che conducono al mercato o in aperta savana e salutarsi spontaneamente, scambiarsi due parole o tentare una stentata conversazione, e poi proseguire il cammino più contenti, soddisfatti di un contatto così naturale, libero e intenso; tutte cose a cui da tempo non siamo più abituati.
Ogni tanto, sviati dalla loro pacata e serena giovialità, dall’eleganza e pulizia dei loro vestiti di stampo occidentale, capita di dimenticarsi che ci troviamo in una regione tra le più povere al mondo e con un alto tasso di mortalità. È una povertà resa evidente nella mancanza di beni vitali, come l’acqua, ma meno angosciante di quella vista a Nairobi. Qui è più velata, con meno impatto, celata da una coltre di normale e dignitosa quotidianità.
Sono soprattutto i bambini, con la loro contagiosa allegria a farmi trascurare che qui si vive in scomodi capanni, senz’acqua e senza luce, che quasi si muore di fame, o si vive, finché si vive, di poche e povere cose.
Quanti ne ho visti di bambini, alcuni timorosi, altri decisamente più estroversi, stringersi intorno a me, assalirmi con la loro eccezionale carica di gioia, lieti di vedere qualcosa di diverso e «strano» come me!

COLORI, ODORI, SAPORI
Per completare il panorama umano di questo magico angolo d’Africa, non può mancare uno dei momenti tipici della vita africana: una giornata di mercato. Nel cuore del villaggio di Gatunga la gente arriva a sciami da tutto il Tharaka, dopo aver percorso decine di chilometri a piedi o in bicicletta. Per la gente è un’occasione per scambiarsi un’infinità di notizie e barattare le loro mercanzie.
Per me diventa un ottimo punto di osservazione per penetrare nei molteplici aspetti del macrocosmo africano. Passeggiando come un normale indigeno e abituale avventore, in un’affollatissima e quasi impenetrabile selva di bancarelle, sono impressionato dalla straordinaria varietà di prodotti, dalle numerose specie di frutta tropicale alle verdure, legumi, spezie e tuberi, dalle stuoie, vestiti e tovaglie (celebri le «getambà» made in Gatunga), agli aesi e utensili in ferro e persino sciabole made in China.
È un mercato ricco, vivace, colorato, con l’inconfondibile e indescrivibile sapore d’Africa. M’incuriosiva soprattutto l’enorme assembramento di capre, galline, vacche e asini, di cui non riuscivo ad afferrare il senso. Un missionario mi ha spiegato che gli asini sono i mezzi di trasporto per gli articoli del mercato (come i nostrani carrelli della spesa); capre, galline e vacche costituiscono la merce di scambio per altri articoli necessari alla sopravvivenza.
Già, vivere è il segreto insegnamento di questa terra: riuscire a campare con dignità e apparente serenità in mezzo a una natura che non ti regala niente, a un’immensa distesa di nulla, da cui non ricava che spine e polvere.
Ma mentre mi lascio contagiare dall’atmosfera di festa, mi accorgo di essere diventato io, unico bianco, l’attrazione principale dell’animato mercato. Tutti gli occhi si distolgono dalle usuali occupazioni per soffermarsi ora curiosi, ora magari infastiditi o addirittura intimoriti su di me con mio enorme imbarazzo.
Sono conteso dai venditori che cercano di approfittare del mio evidente disagio per propinarmi l’improponibile, persino una gallina, investendomi con fiumi di belle parole che non capisco. Mi limito, per quieto vivere, a comprare alcune banane, unica merce di facile e immediata utilità.
Continuo impassibile a osservare e inquadrare con la cinepresa, quei volti neri, che a loro volta mi squadrano da dietro le bancarelle e la vita continua a scorrere tranquilla, con la solita quotidianità normale e dignitosa, che pare prevalere, almeno per ora, sulla micidiale povertà.
Anche la vita nei giorni normali ha un suo tratto peculiare. È quello dei bambini di cinque o sei anni, che già guidano con fare sicuro le greggi di mucche o capre lungo i viottoli; delle vecchiette che, logore e curve, si trascinano per chilometri a tutte le ore del giorno, dall’alba al tramonto, sotto pesanti taniche d’acqua sporca, che vanno ad attingere in fiumi dislocati spesso anche a venti chilometri dalle loro case. Sul loro volto è dipinta la fatica, insieme alla serenità derivante dalla consapevolezza di un ineluttabile modo di vivere, radicato ormai da tanto tempo nel loro humus genetico.

L’UNIVERSO MISSIONARIO
Da decine di anni, i missionari si sono inseriti in questo pezzo d’Africa e ne fanno parte a tutti gli effetti. Costituiscono, assieme ai volontari laici che fanno da supporto tecnico o finanziario, l’unica possibile via d’uscita di queste popolazioni dal circolo vizioso del sottosviluppo.
Il loro impegno è orientato a colmare le carenze più gravi, a soddisfare i bisogni più urgenti e fondamentali, a migliorare, a poco a poco, la qualità della vita. Ma al primo posto c’è la formazione di una coscienza umana e cristiana, per costruire comunità autonome e attive.
Non avevo mai avuto a che fare con dei missionari; a Gatunga ho toccato con mano la loro dedizione totale, sincera, appassionata ai problemi della gente. Tra questi il più pressante è certamente quello dell’acqua.
Marimanti, cittadina a un quarto d’ora da Gatunga, diventata da poco capoluogo distrettuale, perciò sede di uffici statali e polizia, ospedale e scuola, è ancora sprovvista d’acqua, comprese le strutture che maggiormente ne hanno bisogno.
È terrificante vedere in quale stato di sporcizia e disagio sia ridotto un sanatorio senza acqua corrente: ho visto coi miei occhi dei bisturi immersi in bacinelle d’acqua mista a sangue, servizi «igienici» (anche se mi è difficile definirli tali) posti all’esterno dell’edificio ospedaliero, che costringono i pazienti a trasferimenti scomodi o difficoltosi, se non impossibili in alcuni casi.
I missionari hanno avviato il progetto di un acquedotto a Marimanti. Il luogo di prelievo, a un paio di chilometri dal paese, è il fiume Kathiga, che con le sue cascate dà vita a una vera oasi nel deserto tharakese. La canalizzazione partirà dalla sommità delle cascate, per sfruttare la caduta senza l’impiego di costose pompe. Unica difficoltà da superare è la distanza, poiché il percorso della tubazione dovrà sormontare una collinetta prima di scendere in città.
Tecnicamente il progetto è fattibile e sicuramente partirà: un gruppo di volontari di Torino e Roma è venuto sul posto, ha tracciato i rilievi e fatto i preventivi sui tempi e costi dell’operazione, per poi lanciare una campagna e avere finanziamenti necessari.
Osservando l’entusiasmo di questi ragazzi, si rinvigorisce la speranza in un futuro migliore per l’Africa. Se di giovani come loro, animati da grandi ideali e capaci di sacrificarsi, ce ne fossero di più, forse l’Africa non sarebbe così lontana.
Gli africani, da parte loro, non stanno a guardare. Nel caso di Marimanti, per esempio, la popolazione si offre per la mano d’opera e organizza le arambé (una specie di lotteria) per raccogliere fondi e contribuire, per quanto è possibile, al progetto dei missionari.
Ma il problema tecnico-finanziario non è tutto. Il lavoro dei missionari è molto più lungo e spinoso, ma decisivo: si tratta di sensibilizzare ed educare la gente al bene comune, un concetto non facile da inculcare dove si lotta per la sopravvivenza.
In un incontro, sempre sul problema dell’acqua, con alcune autorità locali, ho potuto constatare la difficoltà di taluni a comprendere l’utilità collettiva di un bene prezioso come l’acqua, l’importanza che essa riveste per uno sviluppo complessivo della vita. Trapelava, invece, la tendenza a considerarla una possibile ricchezza ad esclusivo vantaggio personale, come può esserlo un gregge di capre.
Tale mentalità potrebbe sfociare in gesti di illegalità, accaparramento e sfruttamento di pochi a danno della comunità, con conseguenze funeste per la civile convivenza. È evidente che il compito dei missionari è complesso e delicato, perennemente in bilico tra ciò che della cultura africana va conservato e valorizzato, perché in armonia col loro carattere e la loro terra, e ciò che deve essere corretto o gradualmente integrato con la modeità.
Se vogliamo veramente aiutare l’Africa, dobbiamo aiutare i missionari.

L’AFRICA CHE MI PORTO DENTRO
Nei miei pellegrinaggi tra missioni e cappelle, dentro e fuori del Tharaka, ho partecipato a decine di celebrazioni religiose, animate da vivaci e interminabili canti, danze e processioni, che conservano sapori ancestrali, un tempo usati forse per oscuri rituali, ma che i missionari hanno saputo trasformare per esprimere la gioia della fede cristiana.
Il rito del matrimonio, soprattutto, mi è sembrato una stupenda vetrina sulle più ataviche tradizioni africane. La messa solenne nella chiesa di Gatunga, prevista per le 9 del mattino, è iniziata rigorosamente 4 ore dopo e si è prolungata per tre altre ore, secondo l’usuale orologio africano, che dilata la dimensione del tempo e della vita.
Finita la funzione, si procede in processione lenta, ma sonoramente andante, dietro agli sposi fino al banchetto nuziale, al quale sono tutti invitati. In un’atmosfera di festa paesana e giorniosa comunione, parenti, amici e conoscenti partecipano alla felicità degli sposi.
Un’intrattenitrice ci stordisce per quasi un’ora. Finalmente (sono circa le cinque del pomeriggio) ha inizio il convito nuziale: prima gli sposi e la parentela, muniti di forchette e coltelli, poi tutti gli altri con le mani. Mentre li guardo mangiare, mi sento un intruso, finché una signora sorridente si avvicina per offrire anche a me la ciotola di riso, condito da una salsa di legumi e un pezzo di carne di gallina. Rifiuto cortesemente, ma apprezzo ancora una volta la calorosa ospitalità.
Al pasto segue il rituale simbolico della consegna dei doni agli sposi e lo scambio della dote tra i rispettivi genitori, che consiste in un buon numero, concordato in precedenza, di capre e galline schiamazzanti.
La giornata si chiude felicemente alle sette, quando d’improvviso le tenebre avvolgono quest’angolo di terra e comincia una lunga notte silenziosa, interrotta dai versi striduli delle scimmie.
Trascorro l’ultima settimana tra battesimi e cresime, al seguito del vescovo di Meru, nelle cappelle sparse per la vasta parrocchia di Gatunga. Sono giorni scanditi dai ritmi, suoni e colori, conditi dall’impareggiabile accoglienza da parte delle varie comunità cristiane, animate tutte da spirito e fervore inimmaginabili nelle nostre asfittiche parrocchie.

I ricordi più vivi di questa lunga esperienza sono proprio i momenti, anzi le ore, fino a tre o quattro, intensamente vissute in mezzo a queste comunità, nelle loro semplici e accoglienti chiese di legno, fango e lamiera, sperdute nella più raggelante miseria umana e ambientale, ma scaldate dal calore della gente, dalla voglia di stare insieme, dagli allegri e orecchiabili canti che accompagnano danze e processioni, dai cocktails entusiasmanti di suoni, colori, voci, sguardi e sorrisi meravigliosi.
Sono questi i sapori d’Africa che mi porto dentro; anzi, sapori di cui ho fame.

BOX 1

MEZZA CAROTA

Ho vissuto lo slum di Nairobi, come volontario. L’ho vissuto nella sua interezza, camminando tra le capanne di sterco e fango, con l’odore penetrante del liquame, spaventato dalla diossina che un’immensa discarica a cielo aperto, bruciando, consegna ai polmoni degli abitanti. Devastandoli.
Ho giocato con bimbi uguali a quelli di tutto il mondo, con la stessa voglia di correre e crescere, senza sapere che solo uno su dieci di loro diverrà adulto. Sono entrato in capanne dove persone malate riuscivano a sorriderti solo perché tenevi per mano il loro figlio: ho guardato e sono uscito, inutile nella mia impotenza. Sono stato alla messa che padre Luciano celebra nel capannone di legno: quattro ore di funzione e canti, con una potenza tale da farti paura, tanto Dio si avverte vicino. Tanto da farti capire l’assurda inutilità di oro e argento nelle case del Signore.
Sono stato crocifisso da un bambino che ha spezzato la sua carota in due, la sua merenda, forse anche cena, offrendomene metà, solo perché avevo giocato con lui.
A poche centinaia di metri i grattacieli di Nairobi diretti verso il cielo, strade piene di auto, uffici lussuosi: l’Occidente ricco e opulento a violentare la realtà che avevo attorno, la realtà dell’80% del mondo.
Ho vissuto lo slum di Nairobi e sono andato via, troppo vigliacco per restare in quel posto, dove mi era stato regalato il mondo in cambio di niente. Ma le stesse cose ho incontrato in Madagascar, Senegal, Camerun e altri posti, dove la sopravvivenza si cattura giorno dopo giorno, senza mai la certezza di possederla.
Lo slum di Nairobi: ci vivono oltre 2 milioni di persone. Ora hanno deciso di scacciarle. Gigantesche ruspe come demoni cattivi entreranno fra le case, scardineranno i sogni, la voglia di vivere ancora nonostante tutto.
Si dice che un’impresa americana, abbia deciso di costruire sulla collina un complesso per il golf, nobile gioco di nobili persone, che certo non possono avere sotto gli occhi lo spettacolo di una baraccopoli con le sue disgraziate vicende e pestilenziali odori. Già l’anno scorso si parlava di demolizione. In Kenya la terra appartiene interamente allo stato che può decidere in ogni momento la requisizione.

Io non credo a girotondi, appelli, preghiere alle autorità del mondo, per molte delle quali gli esseri umani senza risorse sono poco più che fastidiosi insetti. Non lo credo, anche se sono certamente importanti, come tutte le ribellioni a situazioni simili. Credo invece che colpire gli interessi economici ottenga risultati migliori, perché solo il denaro e l’interesse hanno valore per il potere. Perché allora non sensibilizzare tutte le agenzie di viaggio, boicottare le vacanze in terra kenyana, fino a quando una parte del salato visto d’ingresso non venga destinato alla costruzione di villaggi, strutture di accoglienza, di cura? Perché non far comprendere a chi sogna il sole dorato delle spiagge africane e i safari fra esotici animali, che questo avviene fra il dolore inimmaginabile di milioni di persone, devastate da fame e Aids?
Solo con la consapevolezza di tutti, l’assurda sperequazione nelle condizioni di vita del pianeta potrà, lentamente, ridursi. Solo con la voglia di capire che un semplice caso non ci ha portato a nascere e morire a solo poche ore d’aereo e che, in tale sfida per tutti noi, il piano divino prevede la voglia di lottare per dei fratelli privi di ogni cosa, potremo cercare di cambiare qualcosa.
L’ingiustizia atroce di quello slum non è la sua demolizione, ma la sua esistenza stessa. Anche se fra sterco e fango esiste un’umanità autentica, spesso dimenticata dal quotidiano vivere della nostra parte di mondo. Anche se la mezza carota di quel bambino possedeva e possiede la forza autentica della parola di Cristo, quella parola quasi sempre oscurata dal luccicante spettacolo del nostro tempo.

William Giusti

Angelo Croce