Un secolo di Consolazione con l’Allamano:

100 anni di Tanzania

Indice

Introduzione

21 aprile 1919, ore 21

Affascina di più il
sole o la luna? Meglio il sole che illumina il giorno o la luna che rischiara
la notte? L’Africa di ieri gradisce soprattutto l’astro del giorno e assai meno
il pianeta della notte. All’alba si esce per zappare il campo, condurre pecore
e capre al pascolo, raggiungere il mercato. Al tramonto ci si rifugia in casa
attorno al fuoco, compresi i mariti un po’ brilli di ritorno dall’osteria.

Non fa eccezione il Tanzania, anche
perché la tenebra è il tempo dei ladri, del leopardo e della iena, nonché degli
stregoni con i loro traffici loschi.

E, tuttavia, i primi missionari
della Consolata misero piede in Tanganyika/Tanzania proprio di notte, alle ore
21 del 21 aprile 1919. Però, il giorno successivo, eccoli nel sole glorioso,
pronti a «rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte e
dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Luca 1, 78-79).

Da Dar Es Salaam, «porto della
pace», iniziò l’avventura missionaria dei nuovi arrivati: i padri Giovanni Ciravegna, Giacomo Cavallo, Gaudenzio Panelatti
e Domenico Vignoli. Missionari
italiani, ma provenienti dal Kenya.

Perché dal Kenya? Perché dal Kenya ci «fu un atto di
carità che noi missionari della Consolata abbiamo compiuto», scrisse monsignor
Filippo Perlo, vicario apostolico in quel paese, sul numero di agosto del 1922
di «La Consolata».

Perlo aveva ricevuto un appello da
parte di Thomas Spreiter, vicario apostolico in Tanganyika, di rimpiazzare con
i missionari della Consolata i Missionari Benedettini tedeschi, costretti ad
abbandonare la colonia del Tanganyika dopo la sconfitta della Germania nella
Prima guerra mondiale.

Perlo spiegò quell’«atto di carità»
precisando: «Pare una contraddizione che siano dei poveri a fare la carità,
mentre questo sarebbe un naturale affare dei ricchi. Dobbiamo arrabattarci per
far fronte alle esigenze presenti senza riuscirci. Ciò nonostante troviamo del
personale per “imprestare” ad altri»1.

Imprestare? Il termine non centrava
in pieno il valore del gesto dei missionari, perché la loro «carità» non sarà ad tempus, bensì totale. E dura tuttora a 100 anni di distanza.

F. B.

Inizia l’Avventura:
I quattro, dell’Ave Maria

I protagonisti di questa storia sono i missionari della Consolata: padri,
fratelli e suore, con i fedeli, i catechisti, i religiosi, i sacerdoti e i
vescovi del Tanzania. Una storia che inizia 100 anni fa, quasi per caso. Come
tutte le belle storie. E poi prende corpo e si consolida. Fino ad arrivare a
oggi, tempo nel quale i missionari tanzaniani partono per i cinque continenti.

Arrivati da
pochi giorni a Dar Es Salaam, la capitale, il 4 maggio 1919 i quattro
missionari partirono alla volta della cittadina di Iringa: il primo tratto in
treno fino a Kilosa e poi in carovana con 60 portatori, soprattutto pedibus calcantibus fra sassi e
acquitrini. «Partiamo a cuor contento – scrisse padre Ciravegna -, risoluti con
l’aiuto di Dio di assecondare con tutte le nostre forze la divina grazia
nell’opera di resurrezione morale delle missioni, prive da tempo dei loro
pastori»2.

Giunsero a Iringa il 19 maggio, dove si fermarono alcuni
giorni. Ogni sera, all’ora dell’Ave Maria, lodavano la Consolata. Poi si
stabilirono nelle missioni di Tosamaganga e Madibira, «ereditate» dai
missionari Benedettini. Missioni distanti da Iringa, rispettivamente, 20 e 150
chilometri.

Tosamaganga sorge su un territorio collinoso e roccioso,
popolato dai Wahehe, gruppo etnico che vanta l’eroe nazionale del Tanzania, il
sultano Mkwawa.

Costui per due anni aveva eluso la caccia dei tedeschi
decisi di conquistare il Tanganyika. Nel 1898, probabilmente tradito da uno dei
suoi, il sultano si era suicidato per non essere preda dei nemici invasori. I
tedeschi gli avevano mozzato la testa e l’avevano portata come trofeo in
Germania. Decenni dopo, il nipote Adam Sapi Mkwawa, presidente del parlamento
del Tanzania, sarebbe andato a riprendere il teschio del nonno.

Adam, musulmano e padre di 10 figli avuti da una sola
moglie, è ricordato oggi come amico dei missionari della Consolata, come anche
il padre Sapi Mkwawa.

Madibira è terra dei Wasangu, Wabena e Wahehe, tre gruppi
etnici che vivono in armonia e si esprimono in un buon swahili. Intelligenti,
estroversi, coltivatori di mais, riso e arachidi, i madibiresi non disdegnano
di cacciare il bufalo e l’elefante. I loro nemici sono la zanzara e la mosca
tzetze, che stermina pecore e vacche.

I quattro missionari (due a Tosamaganga e due a Madibira)
si misero subito all’opera, ossia «al grande bucato per ripulire le missioni»,
per dirla con l’arguto padre Ciravegna3.

In termini più prosaici e concreti: i missionari
ripararono dispensari medici, aule scolastiche, abitazioni e chiese; chiamarono
a raccolta catechisti, cristiani e catecumeni; riaprirono i registri dei
battesimi e dei matrimoni. Il tutto fra dubbi e difficoltà.

«Però, a poco a poco, numerosi cristiani sperduti
ritornarono al Pastore. La campanella della missione riprese a suonare nel
giorno del Signore, e, di nuovo, la preghiera saliva al Padre che è nei cieli»4.

Onore a monsignor Cagliero

Il risultato di tanta evangelizzazione fu la creazione,
nel 1922, della Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsignor Francesco
Cagliero, pure lui proveniente dal Kenya, ma non più «imprestato».

Nel 1923 il personale missionario si arricchì di nuovi padri,
alcuni fratelli coadiutori e diverse suore. Uomini e donne, zelanti e
gagliardi, che consentirono la riapertura delle missioni di Bihawana e
Padangani fra i Wagogo, e non solo.

Però attenti alla salute! Al riguardo, le raccomandazioni
di monsignor Cagliero sono pertinenti e fraterne. Per esempio: obbligo di usare
la zanzariera, perché «siamo tutti più o meno malarici»; coltivare l’orto per
procurarsi frutta e verdura; «il cibo sia conveniente, abbondante e pulito». E
poi: «Mi dicono che all’Iringa vi sono i migliori scrittori dell’Istituto.
Perciò mano alla penna. Scriviamo articoli, relazioni, lettere per farci
conoscere e avere sussidi»5.

Nel 1939, dopo 20 anni di missione, la situazione era la
seguente: cattolici 14.211, catecumeni 1.519, studenti della scuola elementare
5.151, studenti della Central
School 107, scuole magistrali per ragazze
28, allievi delle scuole professionali 21.

Degna di nota è la Secondary School di Tosamaganga (tutt’oggi in esercizio). Padre Francesco Sciolla vi dediò 40 anni, portandola alle soglie di università.

Ma «l’evento più avvenimento» risale al 1932: la
fondazione dell’Istituto delle suore missionarie di Santa Teresa di Gesù
Bambino, religiose tanzaniane, dette «Teresine». Secondo la cultura africana,
una donna non è tale se non diventa madre di figli. Ebbene era ipotizzabile,
nel 1932, che alcune donne rinunciassero volontariamente alla maternità per
essere «suore»? Non lo era, a meno che non ci fosse «lo zampino dello Spirito
Santo».

Onore al coraggio evangelico di monsignor Cagliero,
fondatore delle Teresine, oggi circa 400, operanti anche in Italia.

Però che peccato che questo missionario pioniere se ne sia andato così fretta. Aveva 60 anni quando trovò la morte, il 22 ottobre 1935, in un incidente d’auto. Prima di partire per il safari (viaggio, ndr), monsignor Cagliero disse: «Quando sarò di ritorno, vivo o morto, suonate le campane»6.
E le suonarono. A morto.

In residenza coatta

Le campane suonarono ancora il 1 aprile 1936, ma questa
volta a festa: la Prefettura apostolica di Iringa, quel giorno, ebbe un nuovo
pastore. Si chiama Attilio Beltramino, di 35 anni. E, manco a farlo apposta,
anch’egli veniva dal Kenya, come i «quattro dell’Ave Maria» e il compianto
monsignor Cagliero.

Ora, però, non si parli più di «prestito», bensì di
«investimento». Investire nell’annunciare «la consolazione del Signore»
attraverso nuovi missionari e missionarie. Lo si fece aprendo le parrocchie di
Kaning’ombe nel 1937, di Ilula, Pawaga e Mtandika nel 1939. Nomi ostici per il
lettore italiano, che dicono e non dicono. Ma per il missionario significano
lacrime e sangue.

E, come se questo non bastasse, ecco la stramaledetta
Seconda guerra mondiale. L’Italia si ritrova contro la Gran Bretagna.

Il 16 giugno 1940 in Tanganyika scattò il rastrellamento. «Tutti i nemici stranieri italiani» della Prefettura apostolica di Iringa (missionari e missionarie) dovettero subito ritrovarsi a Tosamaganga.
La deportazione era quasi certa.

Sennonché intervenne monsignor Edgar Maranta, missionario
cappuccino, vicario apostolico di Dar Es Salaam e amico della Consolata.
Parlava la lingua di Dante, ma non era italiano, bensì svizzero.

Circa «i nemici italiani» dichiarò: «Sui missionari della
Consolata garantisco io. Signori di sua maestà la Regina, vi do la mia parola
d’onore: i missionari staranno ai vostri patti, ma voi non allontanateli dalle
loro sedi»7. E così fu.

L’intesa raggiunta venne formalizzata sulla «parola
d’onore» del vicario svizzero. Ma era da sottoscrivere da ciascun missionario
italiano ogni sei mesi. Altre clausole dell’accordo erano: proibito
allontanarsi dalla missione oltre un miglio; vietati gli spostamenti di
personale; censura di ogni lettera spedita e ricevuta; nessun discorso politico
con la gente locale.

Le limitazioni non erano una bazzecola. Meglio, comunque,
«la residenza coatta» che la deportazione in qualche landa di sua maestà la
Regina, come avvenne per i missionari della Consolata del Kenya, confinati in
Sudafrica.

Coraggio e strategia

A peste, fame et bello: tutti i missionari conoscevano queste parole latine. Le avevano pure
cantate in chiesa. Soprattutto avevano sperimentato sulla loro pelle le
conseguenze della peste, della fame e della guerra. E non potevano che
concludere: libera nos Domine.

Tuttavia non si scoraggiarono, nonostante i momentanei
fallimenti.

La missione esige costante coraggio e sempre nuove
strategie di crescita umana e religiosa. Non fa eccezione il Tanganyika dei
missionari della Consolata, i quali nella conferenza di Tosamaganga del 22-26
aprile 1937 stabilirono:

1. Azione pastorale. Far crescere le comunità con iniziative appropriate, quali: formazione
dei catechisti, spina dorsale della evangelizzazione; durante la Settimana
Santa esercizi spirituali anche per i fedeli; avviare l’Azione cattolica.

2. Scuola. È un
obiettivo da cui non si può deflettere. Fare sì che le scuole di missione siano
riconosciute dall’Amministrazione britannica, anche per ottenere un sussidio
per lo stipendio dei maestri.

3. Attenzione alla cultura, incominciando dallo studio degli idiomi locali, oltre
che dello swahili. Raccogliere informazioni sugli usi e costumi del paese, sul
fenomeno della poligamia e della circoncisione8. Dare vita ad una «biblioteca di famiglia», archiviando
documenti e schedando riviste e libri.

4. Africanizzazione. Termine sconosciuto nel 1937. Il progetto è far crescere la chiesa
locale con preti e suore autoctoni. Si prospetta la fondazione di «fratelli
religiosi» tanzaniani. Ma pare un’utopia.

5. Promozione umana. Oltre a Tosamaganga «cittadella di Dio», anche altrove operano
strutture di promozione umana, ma con scarsa incidenza. Occorre qualificare i
dispensari medici, aprire scuole di economia domestica e centri di formazione
umana e religiosa.

6. Ecumenismo. Il Concilio
ecumenico Vaticano II è ancora nell’iperuranio. I cattolici e i protestanti si
contendono il campo con corse sfrenate. Chi primo arriva, comanda. Urge un
rapporto di amicizia e buon vicinato.

7. Amministrazione. Un
missionario aprì un conto personale in banca senza permesso. «Dovetti
rimproverare questi sotterfugi di amministrazione», intervenne monsignor
Beltramino9. Quindi: trasparenza economica.

Grazie ai campi di… tabacco

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e
tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» (Matteo 6, 33). Ma è pure sacrosanto
il detto: aiutati che il ciel ti aiuta.

I missionari vivevano nella povertà, la quale non sempre
è «perfetta letizia». Però non si piangevano addosso. Per disporre di qualche
soldo in più, qualcuno prospettò la coltivazione di tabacco.

La prima prova del 1941 fu una delusione. La seconda
dell’anno successivo destò speranze. Però il terreno disponibile era scarso e
da disboscare. E poi: guai a cercare un terreno migliore altrove, «sconfinando
oltre il miglio», imposto dagli inglesi durante la guerra maledetta!

Sbocciò la pace, e la musica cambiò. L’evangelico «tutto
il resto in aggiunta» prese consistenza proprio grazie al tabacco.

Fuori metafora: il 13 gennaio 1948 Lord Chesham,
anglicano, ma amico dei missionari della Consolata, abbracciò la fede
cattolica. Chesham era un anziano e ricco inglese che donò ai missionari due
vasti appezzamenti di terra a Makalala e a Ulete.

Si riprese a coltivare tabacco con successo. I campi di
tabacco non sono «sani», perché il fumo uccide: questo col senno di poi.
Tuttavia, grazie ai proventi del tabacco (come pure a quelli del mais, riso,
arachidi, piretro, ecc.), i missionari poterono finalmente costruire scuole a
norma, ambulatori efficienti e chiese capaci, senza più stendere il cappello
per elemosinare quattrini. Il modello era, ed è, il missionario Paolo di Tarso,
il quale affermava: «Alle necessità mie e di quanti erano con me hanno
provveduto queste mie mani. In tutti i modi ho dimostrato che, lavorando, si
devono soccorrere i poveri» (Atti degli Apostoli 20, 34-35). L’apostolo Paolo
era un tessitore di tende e stuoie.

«Suo padre è musulmano»

Nel frattempo la Prefettura apostolica di Iringa divenne
«Vicariato apostolico». In termini più accessibili: ora Attilio Beltramino non
è solo «monsignore», ma anche «vescovo».

L’insediamento del nuovo presule avvenne il 27 maggio 1948. Il suo motto era: In Deo meo transgrediar murum (Salmi 17, 30), cioè: «Con il mio Dio scavalcherò il muro».

Un motto che sa di battaglia in ogni angolo del mondo,
Italia compresa. Un motto contro le schedature dei rom, le chiusure dei porti
ai migranti, i reticolati tra paese e paese. Abbasso «i muri della vergogna»,
come quello tra Messico e Stati Uniti voluto da Donald Trump.

Con «sua eccellenza» monsignor Beltramino, la chiesa
locale di Iringa crebbe, specie in qualità.

Un «salto di qualità» lo si ebbe, nel 1945, con
l’ordinazione al sacerdozio del primo tanzaniano, padre Titus Fumbe.

Un altro salto di qualità (o «traguardo vittorioso», come
scrisse padre Alessandro Di Martino) fu la nascita nel 1949 dell’Istituto
religioso dei Fratelli africani. Come per la fondazione delle «Suore Teresine»,
valeva l’espressione evangelica «farsi eunuco a motivo del regno dei cieli»,
con l’aggiunta (non di poco conto): «Chi può capire capisca» (Matteo 19, 12).
Perché si trattava di un pugno nella pancia della cultura africana.

Ma il salto forse «più qualitativo» non era ancora
avvenuto. Nel seminario di Tosamaganga studia un certo Mario Abdallah Mgulunde.
Sì, Abdallah, figlio di un musulmano. E come non guardarlo con sospetto.

Però Mario Abdallah superò tutti gli esami. Nel 1963 è sacerdos in aeternum. Poi partì
per Roma per laurearsi in Diritto canonico.

«Cari superiori, scusate! Questo non è troppo? Che farà
poi questo nero di genitore islamico?». Chi vivrà vedrà.

Missionari della Consolata al Capitolo generale del 1999 in Kenya con Julius Nyerere

Tre passi indietro

A questo punto, la storia dei 100 anni dei missionari
della Consolata in Tanganyika-Tanzania ha compiuto un balzo in avanti
eccessivo. Quindi si torni indietro, per ricordare tre eventi significativi.

• Indipendenza del paese

La magica ora dell’indipendenza del Tanganyika scoccò a
mezzanotte tra l’8 e il 9 dicembre 1961. Si ammainò la bandiera dell’Impero
Britannico, mentre le stelle si compiacevano di quella inedita del Tanganyika
indipendente. Il nuovo stendardo armonizzava il nero del volto dei cittadini
con l’azzurro dell’Oceano Indiano, il verde della foresta con il giallo
dell’oro delle miniere.

Fu una indipendenza pacifica. Il che non è poco, se si
pensa alla indipendenza «insanguinata» di tanti altri paesi africani.

I missionari della Consolata, in tutte le loro sedi,
salutarono l’evento anche con il fragore beneaugurante dei mortaretti.

• Concilio Ecumenico Vaticano II

Per
la Chiesa cattolica fu l’evento più innovativo del XX secolo. Si svolse a Roma
dal 1962 al 1965 con tutti i vescovi del mondo. 
Papa Giovanni XXIII (oggi santo), nel discorso di apertura del Concilio,
11 ottobre 1962, dettò le nuove regole del «gioco» dichiarando: «La Chiesa si è
sempre opposta agli errori. Ora tuttavia preferisce usare la medicina della
misericordia piuttosto che quella della severità. Essa ritiene di venire
incontro ai bisogni di oggi, mostrando la validità della sua dottrina,
piuttosto che rinnovando condanne». Da quel momento i pastori luterani e i
parroci cattolici non si sarebbero contesi più la piazza con corse sfrenate,
onde arrivare primi. Questo fu un grande traguardo del Concilio.

Consultado vecchi documenti d’archivio risalenti ai tempi dei Benedettini.

• Da un vescovo all’altro

Al Concilio Vaticano II partecipò anche il vescovo
Attilio Beltramino. Aveva già le valigie pronte per l’ultima assise, il cui
inizio era previsto per il 28 ottobre 1965. Ma il 3 ottobre morì. Aveva 64
anni. Lo sconcerto fu inimmaginabile.

Fedele al suo motto «con il mio Dio scavalcherò il muro»,
il vescovo Attilio si era donato alla Chiesa di Iringa anima e corpo per 30
anni. Missionario instancabile, religioso fedele, vescovo paterno quanto
risoluto.

Dopo una pausa di assestamento, ecco un mhehe (etnia Hehe, ndr) di
Tosamaganga a indossare la mitria. Ed è proprio lui, Mario Abdallah Mgulunde,
il primo vescovo africano di Iringa, consacrato il 15 febbraio 1970. Una
«eccellenza» giovane per una Chiesa ormai adulta.

Alla consacrazione episcopale di Mgulunde partecipò pure
il giornalista Beppe Del Colle, il quale mi confidò: «Quando il vescovo si
prostrò per terra per le Litanie dei Santi, notai che le sue scarpe erano
bucate…». Data l’emozione, il neo vescovo aveva sbagliato scarpe. Ma le calze
erano rigorosamente rosse.

Il cerchio si allarga

Già nel 1968 la diocesi di Iringa era troppo estesa, e
venne smembrata. Nacque la diocesi di Njombe. Sette missionari passarono armi e
bagagli alla nuova diocesi. Erano tutti sereni, eccetto quando dovevano
affrontare un viaggio.

«La notte precedente un safari non chiudo occhio, perché vivo in
anticipo l’incubo di quelle strade a strapiombo, che nella stagione delle piogge
sembrano lastricate di sapone. Tu non guidi l’auto, ma è l’auto che guida te
dove assolutamente non vuoi», mi confidò una volta padre Luis Arrieta Zubia,
spagnolo.

Ecco un’altra bella novità. A partire dagli anni ‘70, ai
missionari italiani si aggiunsero gli spagnoli e i portoghesi, i colombiani e i
brasiliani. Idem per le missionarie delle Consolata.

Inoltre trovarono spazio i missionari Fidei donum provenienti
da Agrigento, Bologna e Spalato in Croazia10. E, fra le
suore, anche le Religiose Camaldolesi.

Il cerchio missionario si allargò pure geograficamente.
Così nel 1973 sorsero le missioni di Ubungo e Kigamboni nella diocesi di Dar Es
Salaam. Kigamboni era a maggioranza islamica.

Nel 1986 e negli anni successivi i missionari si
insediarono a Heka e Sanza (diocesi di Singida), poi a Manda (diocesi di
Dodoma). Siamo nella Rift Valley dei Wagogo, una regione flagellata da una
siccità endemica. Gente più povera e meno istruita dei Wahehe di Iringa o dei
Wabena di Njombe.

«Manda è una missione di frontiera, di prima
evangelizzazione, come erano quelle di 60 anni fa – mi raccontò nel 2017 suor
Maria Loreta -. I cristiani sono pochi e per di più divisi in sètte. Molti,
inoltre, sono i seguaci delle religioni tradizionali, in balia della
stregoneria. Non poche ragazze a 14 anni sono già incinte. I divorzi sono
all’ordine del giorno. Ma non ci perdiamo d’animo»11.

Padre Antonio Zanette

Da Manda a Sanza

Tempo fa a Manda fui ospite di padre Toni Zanette, da 51
anni in Tanzania. Con lui visitai alcuni villaggi e, tra un luogo e l’altro,
raccolsi le sue riflessioni. «Ho girato questa zona in lungo e in largo,
dicendo a tutti: la religione di Gesù Cristo non è un imbroglio, ma rivela la
politica di Dio per costruire una società giusta e approdare allo sviluppo
vero».

«E la gente ti ha creduto?», domandai. «Non lo so –
rispose -. Fra i Wagogo il cristianesimo è ancora un fattore nuovo, ma
l’interesse sta crescendo».

A pranzo padre Toni mi offrì i funghi. E citò il detto
africano: «Oggi piove, ma i funghi non li trovi domani». Per dire che a Manda
bisogna saper attendere.

Nel pomeriggio andai con lui nella cappella di un
villaggio per alcuni battesimi. Ad un tratto avvertii un mormorio: stava
entrando una capra al guinzaglio di un musulmano. Silenzio assoluto. Il nuovo
arrivato ne approfittò per dire: «Padre Toni, sono qui per ringraziarti. Tu ci
hai portato l’acqua scavando 10 pozzi in questa terra desertica. Accetta il
dono di questa capra».

Applauso di tutti, mentre la capra acconsentiva al
passaggio di proprietà con un garrulo belato.

Il primo keniano

«Oggi lavoro a Sanza, a 50 chilometri da Manda –
esordisce padre Isaac Mbuba -. Mi si permetta di notare: i primi missionari
della Consolata in Tanzania erano bianchi e venivano dal Kenya, mentre io sono
il primo missionario della Consolata nero, proveniente pure dal Kenya».

Seguì la risata mia e sua. Eravamo in cucina,
sorseggiando il tè.

Padre Isaac oggi ha 65 anni ed è in Tanzania da 34. Agli
inizi avvertì un’aria di sospetto nei suoi confronti, perché proveniva dal
Kenya capitalista di Jomo Kenyatta, mentre in Tanzania vigeva il socialismo di
Julius Nyerere. Ma non ci badò.

Lavorò in varie parrocchie. A Kigamboni incontrò un vento
di perplessità, «perché ero il primo parroco nero, mentre tutti i precedenti
erano bianchi». Inoltre c’era tensione fra i musulmani in maggioranza e i
cristiani in minoranza. «Però la Consolata mi ha dato saggezza per non
schierarmi contro nessuno».

La conversazione toccò l’argomento scottante dei soldi.
«Noi africani dobbiamo impegnarci maggiormente con iniziative concrete, per
essere economicamente autosufficienti», rileva il missionario.

Faccio notare: «Oggi l’evangelizzazione non è più in mano
ai missionari europei, bensì a quelli africani. Padre Isaac, dopo 34 anni di
Tanzania, quali sono le tue raccomandazioni ai confratelli africani?».

«Le raccomandazioni sono tre:

• la prima, maggiore attenzione ai catechisti, che sono i
primi evangelizzatori del paese; senza catechisti la chiesa è morta;

• la seconda, maggiore collaborazione con i laici; i
laici fanno crescere la chiesa, non solo i padri; spesso noi preti siamo
separati dalla gente, i laici no;

• la terza, che non è una raccomandazione, bensì una
dichiarazione: ringrazio il Signore per essere missionario e missionario della
Consolata».

Padre Giovanni Giorda

Epilogo

A Iringa ho completato il dossier sul Centenario dei
missionari della Consolata in Tanzania. Poco fa ho sostato davanti al monumento
dell’Indipendenza della nazione, con la sua fiaccola.

Anche i missionari della Consolata, in preparazione al loro Centenario, hanno accesa una fiaccola, che è passata in pellegrinaggio in tutti i loro centri di evangelizzazione.
Ennesima luce per illuminare e consolare.

Francesco Bernardi

La date più importanti

  • 21 aprile 1919 – I primi missionari della Consolata approdano in Tanganyika. Si stabiliscono a Tosamaganga e Madibira.
  • 1922 – Nasce la Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsgnor Francesco Cagliero.
  • 1932 – Fondazione dell’Istituto delle Suore Missionarie di S. Teresa di Gesù Bambino, dette «Teresine».
  • 22 ottobre 1935 – Monsignor Cagliero muore in un incidente stradale. Ha 60 anni. Gli succede monsignor Attilio Beltramino.
  • 22-26 aprile 1937 – Conferenza programmatica di Tosamaganga su: pastorale, scuola, attenzione alla cultura e altro.
  • 16 giugno 1940 – I missionari sono costretti alla «residenza coatta» durante la Seconda guerra mondiale.
  • 1948 – Si coltiva tabacco. Con i proventi si costruiscono scuole, dispensari e chiese.
  • 27 maggio 1948 – Monsignor Attilio Beltramino è nominato vescovo di Iringa, il primo.
  • 1949 – Fondazione dell’Istituto religioso dei Fratelli Africani da parte di mons. Beltramino.
  • 9 dicembre 1961 – Indipendenza del Tanganyika.
  • 26 aprile 1964 – Il Tanganyika diventa Tanzania con l’unione di Zanzibar.
  • 28 ottobre 1965 – Il vescovo Beltramino muore di infarto. Ha 64 anni.
  • A partire dal 1968 – Ai missionari italiani si aggiungono quegli spagnoli, portoghesi, kenyani, congolesi, colombiani, ecc.
  • 15 febbraio 1970 – Padre Mario Abdallah Mgulunde è consacrato vescovo di Iringa. È il primo tanzaniano.
  • A partire dal 1973 – I missionari operano anche a Dar Es Salaam, Singida, Morogoro, Dodoma, oltre che a Njombe (1968).
  • 1997 – Centenario della diocesi di Iringa. Il cuore delle celebrazioni sono Tosamaganga e Madibira, missioni della Consolata.
  • 2011 – Padre Salutaris Massawe è eletto superiore dei missionari della Consolata in Tanzania. È il primo tanzaniano.

I missionari della
Consolata in Tanzania sono 54, di cui 17 tanzaniani, 15 italiani e gli altri di
varie nazionalità. Complessivamente i missionari della Consolata tanzaniani nel
mondo sono 66.

F.B.

Il primo missionario del Tanzania

Per decenni i missionari della Consolata in Tanzania sono stati tutti
italiani. Ma, a partire dal 1970, si sono aggiunti missionari di altre
nazionalità. E chi è stato il primo tanzaniano?

Mi chiamo Evaristo Chengula. Sono
nato a Mdabulo, diocesi di Iringa. Non ho specificato la data di nascita,
perché non la so. Comunque, secondo il registro dei battesimi, sono nato l’1
gennaio 1941.

In
famiglia eravamo in sette, fra fratelli e sorelle, oggi rimasti in quattro. Una
sorella è suor Albertina, delle suore Teresine fondate da monsignor Francesco
Cagliero, al quale è dedicata anche una scuola secondaria a Tosamaganga.

Con
i genitori vissi poco tempo, perché già all’età di quattro anni entrai nell’utawani
della missione di Mdabulo.

L’utawani
era un sistema di educazione dei ragazzi e delle ragazze, ideato e promosso dai
missionari della Consolata. Scopo primario: frequentare la scuola elementare. I
ragazzi non potevano farlo abitando in famiglia, lontani dai centri scolastici.
Io ero il più piccolo dell’utawani di Mdabulo.

Oltre
che nell’istruzione scolastica, venivamo formati nella fede cattolica vivendo
insieme nella missione, che ci garantiva gratis vitto, alloggio e divisa
scolastica. Dopo la scuola, lavoravamo nei campi, essendo il lavoro parte
integrante del sistema educativo dell’utawani. Ogni nove mesi ritornavamo in
famiglia per le vacanze.

Nell’utawani di Mdabulo si contavano circa 200 ragazzi e 300 ragazze. Tutti felici12. Noi
ex ragazzi dell’utawani degli anni 1950-1960, se ci capita di incontrarci,
ricordiamo con gioia e riconoscenza quel tempo, e ognuno dice all’altro
scherzando: «Amico, non ti sei ancora stancato di pregare?».

Veramente
la preghiera era tanta, sotto la direzione di padre Paolo Gianinetto,
responsabile dell’utawani e parroco di Mdabulo.

Poiché
rimasi orfano in tenera età, la missione fu la mia casa.

Sei solo un ragazzo!

Avevo
11 anni quando dissi a padre Gianinetto: «Baba (babbo), io voglio diventare
sacerdote».

«Figlio
mio, tu sei solo un bambino!». «Anche tu lo eri quando hai rivelato il
proposito di farti prete», risposi senza paura.

Da
quel giorno padre Gianinetto è stato per me un vero papà.

Dopo
la quarta elementare, il missionario mi accompagnò a Tosamaganga. Qui incontrai
il rettore del seminario, padre Vincenzo Ramello, il quale mi squadrò da capo a
piedi e, indicando qualcosa con la mano, esclamò: «Vedi quei libri di filosofia
e teologia? Piccolo come sei, sarai capace di imparare tutte le cose scritte in
quei volumi?».

«Come
le hai imparate tu, le imparerò anch’io», risposi senza scompormi.

Poi,
notando sopra la scrivania del padre un calice per la Messa, dissi a me stesso:
«Anch’io un giorno alzerò un calice come questo».

Però
non volevo diventare «solo prete», bensì «prete e missionario della Consolata»,
perché ero attratto dalla loro vita, padri, fratelli e suore. Programmavano e
lavoravano insieme, mangiavano, giocavano e ridevano insieme. Le «discussioni»
non mancavano, ed erano pure aspre. Ma si ritrovava l’accordo e la pace.

Ero
già avanti negli studi del seminario, allorché rivelai al vescovo Attilio
Beltramino la mia vocazione missionaria. «Prima diventa prete diocesano, poi si
vedrà!», rispose secco.

Missionario in Congo

Nel
1970 venni ordinato sacerdote e quasi subito diventai missionario della
Consolata, il primo del Tanzania.

Per
sei anni mi occupai dei giovani di Iringa in parrocchia e nella Secondary
School. Poi fui mandato a Roma a studiare Spiritualità. Ritornato in Tanzania,
fui professore e «padre spirituale» nel seminario teologico maggiore di
Peramiho. Dovevo starci un anno, ma la permanenza si protrasse a cinque anni.

Partii
per il Congo (Rdc) negli anni ‘80, nella diocesi si Wamba, dove si parla
swahili. Un swahili assai diverso da quello del Tanzania. Conclusione: non ci capivamo.

Si
parla pure francese. Ma il mio francese rassomigliava a un vecchio camion in
salita, che arranca, sbuffa e sembra implorare: «Vieni a darmi una spinta! O,
meglio, spegni il motore».

Quando
padre Giuseppe Inverardi13,
superiore generale, venne in visita al Congo, manifestai il mio disagio. Al che
lui rispose: «Come missionario, non sei in Congo per parlare le lingue, ma per
testimoniare il Vangelo con la tua vita». Un messaggio che mi porto nel cuore
tutt’oggi.

In
Congo dovevo restare tre anni, ma ne trascorsi dieci. Le difficoltà erano
ingenti, politicamente e socialmente. Tuttavia la vita comunitaria era la stessa
che mi attirò, tempo addietro, a entrare nell’Istituto della Consolata.

Ora vescovo

Ritornato
in Tanzania, nel 1997 fui consacrato vescovo di Mbeya. Ma non ho mai scordato
di «essere della Consolata». Raggiunti i 75 anni di età, nel 2016 presentai le
canoniche dimissioni. Ma sono ancora in attività.

Ho
scritto questa testimonianza per il Centenario dei missionari della Consolata
in Tanzania.

In
conclusione, sottolineo l’«eredità» lasciataci dal fondatore, il beato Giuseppe
Allamano, che diceva: «Ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un
seminario, ma una famiglia. Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme,
prepararvi assieme per poi lavorare assieme per tutta la vita»14.

I
giovani, se avvertiranno questo spirito di famiglia, busseranno sempre alla
nostra porta per stare con noi missionari.

Se
entri in una congregazione che non è famiglia, ne uscirai prestissimo. I voti
di povertà, castità e obbedienza si tramuteranno in un giogo opprimente, in un
carico insopportabile.

Al
contrario, in un Istituto-famiglia, il giogo è veramente dolce e il carico
leggero (cfr. Matteo 11, 30). E la gioia regnerà sovrana in quella casa.

Mons. Evaristo Chengula,
missionario della Consolata, vescovo di Mbeya (Tanzania)

Nota: mons. Evaristo Chengula è andato alla Casa
del Padre lo scorso 21 novembre 2018. Lo apprendiamo, non senza emozione,
mentre stiamo lavorando a questo dossier.

I fratelli missionari:
Più in alto dei preti

I «fratelli coadiutori» sono stati fondamentali in questi primi 100 anni di
vita dei missionari della Consolata in Tanzania. Grazie alla loro fraternità e
al loro essere missionari al servizio degli altri, hanno dato un contributo che
ha reso possibile questa fantastica e solida avventura. Vediamo alcune storie.

I missionari della Consolata, al
maschile, sono «sacerdoti» e «fratelli coadiutori». Nell’immaginario collettivo
il coadiutore è spesso considerato una figura di serie B. Però il fondatore,
beato Giuseppe Allamano, si indignava quando sentiva dire: «Oh, sei solo un
coadiutore!»15.

I
fratelli sono protagonisti della missione come i padri, e anche di più. Certo,
non dicono Messa, non confessano. Ma sono fratelli! Attraverso la loro
fraternità, servono Dio e il prossimo con generosità, umiltà e competenza.

L’Allamano
ebbe il coraggio di dire: «Anche se solo coadiutore missionario, in Paradiso
sarà sopra gli altri sacerdoti»16.

Michele e Felice

I
primi fratelli missionari della Consolata giunsero in Tanganyika nel dicembre del
1922. Si chiamavano Michele Mauro e Felice Crespi.

Ero
a Madibira, il 22 Agosto 1973, allorché padre Rambaldo Olivo, parroco della
missione, mi comunicò la morte di fratel Michele Mauro.

Padre
Rambaldo era baldo di nome e di fatto. Sbrigativo come un faccendiere, roccioso
come le montagne del suo Friuli, insofferente come un rivoluzionario… ma quel
pomeriggio Rambaldo, allorché mi disse «fratel Michele è mancato», scoppiò in
un pianto dirotto.

Fratel
Michele Mauro trascorse in missione 51 anni, segando e piallando assi,
inchiodando, incollando e intarsiando scaffali, vetrine, armadi e comò di ogni
foggia. Nonché migliaia e migliaia di sgabelli, sedie, tavole e tavolini.

Fu
il falegname di tutte le parrocchie della diocesi di Iringa. Falegname come
Giuseppe, quello di Nazaret.

A
Madibira scorre un fiumiciattolo. La popolazione vi si tuffa anche per lavarsi.
Lo stesso fanno i missionari, ma pompando l’acqua in casa attraverso un motore
a diesel.

Una
notte una forte pioggia fece tracimare il torrente, che sommerse e arrestò la
pompa. E noi, missionari, ci trovammo in mutande a fare il bagno nel
fiumiciattolo, mentre i bambini nascosti fra gli arbusti ridevano divertiti nel
vedere quei bianchi in costume semiadamitico.

Dopo
15 giorni di attesa, arrivò fratel Felice Crespi. Smontò la pompa, pulì il
motore, e noi ritornammo a fare la doccia in casa.

Fratel
Felice è della provincia di Milano. Da ragazzo venne a Torino, conobbe i
missionari della Consolata e si unì a loro come fratello coadiutore. A Torino
imparò il piemontese e dimenticò il lombardo.

Ascoltarlo
di sera, alla luce tremolante della lampada a petrolio, era affascinante, a
dispetto dell’incessante ronda delle pestifere zanzare.

«Dalle
carovane con i portatori siamo alle carovane con carri tirati da diverse paia
di buoi – raccontava -. C’era di tutto su quei carri: vino da messa, chiodi,
pentole, attrezzi di falegnameria, meccanica, sartoria ecc. La carovana
procedeva di notte, perché il calore del giorno fiaccava i buoi. In testa e in
coda ardeva una lanterna, per tener lontano il leopardo. Io recitavo il
rosario, dato che non avevo avuto tempo durante il giorno…».

Negli
anni 1965-1970 arrivarono i gruppi elettrogeni: si accendevano solo per saldare
e per mangiare un boccone alla sera in compagnia, prima di andare a letto.
Fratel Felice ne curava la manutenzione, avvalendosi di manuali in inglese,
lingua che non sapeva. Ma, leggi e rileggi, l’inglese gli divenne meno ostico.

Conciava
pure pelli per confezionare scarpe e scarponi. Un giorno uno spruzzo d’acido
finì nei suoi occhi, e quasi lo accecò. Ma continuò a montare e smontare
motori, aiutato dai suoi operai. Con le sue mani esperte, divenute dure come
l’acciaio, riusciva a controllare ingranaggi e bulloni.

Al
termine di quei racconti serali, mentre la luce della lampada si affievoliva,
fratel Felice era solito chiedere: «Domani mattina la Messa è sempre alle
6,30?».

E tanti altri…

Ricordo
anche Angelo Invitti, il mago del tornio. Poiché i pezzi meccanici di ricambio
erano spesso irreperibili in Tanzania, Angelo li fabbricava lui stesso
lavorando con precisione al tornio.

Lavorava
e insegnava meccanica. Al termine del lavoro e della scuola, c’era ancora
un’ora di religione per ricordare che Dio è misericordia.

Fratelli
missionari come Modesto Zeni, con un nasone da proboscide. Ma che «fiuto
finissimo» nella sua vita! Costruì la cattedrale di Kihesa (Iringa), un po’
chiesa, un po’ pagoda e un po’ moschea, per dire che la casa di Dio è di tutti.

Eresse,
nella rotonda principale di Iringa, il monumento all’indipendenza della nazione
con la fiaccola che arde. Ed era pure il designatore degli arbitri nelle
partite di calcio della città. Tanto era accetto a tutti.

Fratelli
missionari come Gianfranco Bonaudo, imponente, extra large dalla testa ai
piedi. Soprattutto costruttore. Ristrutturò e ampliò il Consolata Hospital di
Ikonda (Njombe), sperduto fra le montagne dell’Ukinga. Un’eccellenza sanitaria
in Tanzania con 400 posti letto. Gli ammalati vi accorrono da ogni angolo del
paese, persino da Zanzibar.

Terminati
i lavori, fratel Gianfranco commentò: «Sono felice di aver messo in piedi un
ospedale dove i bambini e i poveri non pagano».

Fratelli
missionari della Consolata a decine e decine. Di loro il Beato Giuseppe
Allamano soleva dire: «Voi siete i miei beniamini».

Francesco Bernardi

Quattro esperienze di missione:
Oggi e domani strada facendo

Nel paradiso terrestre, le suore aprono la «Stella del mattino». Un
ospedale per i dimenticati, che è diventato un’eccellenza nella Sanità.
Professori e studenti, preti e catechisti, utilizzano il centro missionario di
Bunju, il «volto nuovo della missione». Una rivista per dire la verità: Andate.
Aiuta a capire chi è il tuo prossimo. Oggi e domani, strada facendo «annunciate
che il regno dei cieli è vicino» (Matteo 10, 7). Annunciarlo a chi? Ai giovani
a rischio, per esempio.

Una scuola per bocciati

Così le missionarie della Consolata nel 1999 aprirono il
Centro di formazione Stella del mattino.

Sorge in una vallata da eden. Questo paradiso terrestre
si estende fino al villaggio di Ilamba, diocesi di Iringa. Paradiso solo
terrestre, perché i ragazzi non hanno futuro. Frequentano la scuola, ma sono
stati bocciati.

Parecchi hanno cercato lavoro a Dar Es Salaam. Ma sono
finiti tra coetanei dediti al furto, allo spaccio di droga, e le ragazze alla
prostituzione. Sono tornati al villaggio per morire di Aids.

«Apriamo una Secondary
School per i bocciati», si dissero allora
suor Cecilia, keniana, suor Artura, brasiliana, d’accordo con tutte le altre
consorelle. Ieri era un sogno fumoso, oggi una realtà palpabile. E i bocciati
di ieri, oggi emergano fra i migliori.

Studiano e lavorano per una vita diversa, iniziando dalla
«polenta quotidiana»: coltivano campi e orti, allevano capre e maiali, spaccano
legna. Oltre 200 ragazzi e ragazze insieme: cattolici, luterani e musulmani.

È in atto un cambiamento culturale. Si sta scardinando
«la mentalità che l’uomo è sempre quello che comanda e deve essere servito,
mentre la donna deve solo obbedire e servire»17.

È spuntata davvero una nuova stella sul firmamento di
Ilamba e dintorni.

L’ospedale di Ikonda

Una stella polare

Oggi e domani, strada facendo «guarite gli infermi»
(Matteo 10, 8).

L’attenzione agli ammalati è una «stella polare»
nell’evangelizzazione missionaria. Lo conferma anche il Consolata Hospital Ikonda, diocesi di Njombe.

Però quanta fatica, pure psicologica! I luterani,
numerosi in quella regione, ostacolarono l’ospedale in tutti i modi. Eravamo
nel 1964-65, quando l’ecumenismo era una chimera.

L’ospedale nacque nel 1968, con l’applauso di Julius
Nyerere, presidente della nazione, che inaugurò la struttura con 60 posti
letto.

Oggi i posti letto rasentano i 400, senza contare i bimbi
nati prematuri e le donne in attesa di partorire. Le corsie sono dieci, tre le
sale operatorie, due le sale parto, un laboratorio ortopedico, il
«delicatissimo» reparto per sieropositivi (Aids), la ricca farmacia, la tac, la
risonanza magnetica.

Realtà che in Italia sono normali, come il caffè al bar.
Ma a Ikonda, dove i denari li maneggi con il contagocce, dove le strade sono
più insidiose dei serpenti, dove l’elettricità costante è solo una speranza
remota (e quindi, per rendere efficienti le sale operatorie, necessiti di
costose turbine che i fulmini mettono a ko
a ogni piè sospinto), non sono realtà scontate. Allora l’ospedale di Ikonda
cade e si rialza ogni mattina. Il suo sviluppo ricorda il detto africano: il
maestoso baobab è stato una foglia seminata dal vento.

«Perché avete costruito l’ospedale fuori dal mondo –
chiesi a padre Sandro Nava, direttore della struttura -. Altrove, gli ammalati
lo raggiungerebbero con maggiore facilità e minore spesa, non ti pare?».

Il missionario mi guardò stupito, come se avessi scoperto
l’acqua calda. Poi rispose: «Certo, un ospedale a Makambako o Njombe sarebbe
più comodo e, per noi, più redditizio. Però sarebbe un ospedale per gente di
città, non per poveri sperduti su queste vallate come pecore senza pastore. Un
ospedale così sarebbe ancora un ospedale missionario?».

Lasciai padre Sandro e sostai nell’ingresso, dove
campeggia la scritta: «Il bene va fatto bene». È l’impegno dell’ospedale di
Ikonda, alla scuola del Beato Giuseppe Allamano. 

Un centro per… centrare

Incontro di missionari della Consolata con padre Stefano Camerlengo, superiore generale, a Bunju (maggio 2013)

Oggi e domani, strada facendo «insegnate tutto ciò che vi ho comandato» (Matteo 28, 20). Qui entra in azione il Consolata Mission Centre di Bunju, a 35 chilometri da Dar Es Salaam.

Sul pavimento della sua chiesa spicca la data «2008»,
l’anno in cui il Centro aprì i battenti: la porta istoriata a fisarmonica della
stessa chiesa; le porte del salone-conferenze a onde marine; quelle ariose
della sala da pranzo; l’ingresso delle camere degli ospiti.

Al Consolata Mission Centre dormono 80 persone, 250
siedono davanti alla tradizionale polenta e 300 partecipano a dibattiti con il
cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam, o con altri relatori.
Costoro intrattengono l’uditorio con dibattiti, scritti e immagini in power point.

Il Centro è «un faro che illumina presente e futuro».
Tutti ne usufruiscono: uomini e donne a livello personale o raccolti in
movimenti, professori e studenti, catechisti e seminaristi, vescovi e preti.
Tantissimi i giovani, a prezzi scontatissimi.

Il Centro è «il volto nuovo della missione», che ha
aperto i suoi cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, musulmani.
Non mancano ecologisti, operatori di giustizia e pace, politici.

Il Centro è «esigente», anche economicamente, con i
prezzi in costante ascesa e 14 lavoratori da retribuire ogni mese. Qui
risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese,
chiedono un anticipo di stipendio, perché sono alla fame. Ma nell’Africa che
canta e danza, non bastono i tamburi e le nacchere. Bisogna studiare, pensare e
«formarsi». Guerre, carestie e Aids sono emergenze crudeli. Ma passano.

La «formazione» è prevenzione contro ogni miseria. I
missionari della Consolata ne sono convinti, e hanno inventato il Consolata
Mission Centre, un Centro per «centrare» la vita.

Chi è stato «prossimo»?

Padre Francesco Bernardi, autore di questo dossier, direttore in Tanzania della rivista Enendeni. ex direttore di Missioni Consolata

Oggi e domani, strada facendo domandatevi: chi è stato
«prossimo» del bisognoso? (cfr. Luca 10, 36 ).

È la domanda che Enendeni (Andate), rivista in lingua swahili, pone a tutti. Vi scrivono anche i missionari della Consolata del Tanzania presenti in Venezuela, Colombia, Brasile, Mozambico, ecc. Affrontando i temi dell’emarginazione e dello sfruttamento.

Chi è «prossimo» degli abbandonati nei suddetti (e altri)
paesi, compreso il Tanzania?

Un giorno a Dar Es Salaam incontrai un giovane.
Trascinava un sacco pieno di bottiglie di plastica, nella speranza di ricavare
qualche soldo. Ebbi l’ardire di chiedergli: «Guadagni abbastanza con questo
lavoro?». Dopo un istante, l’interessato rispose: «Tanti soldi dei tanzaniani
vengono spesi dal governo per parate militari, balli e canti nelle feste
nazionali, o per acquistare aerei per passeggeri benestanti, mentre io raccolgo
bottiglie di plastica».

Quando si voltò per proseguire per la sua strada, sulla
t-shirt lacera che indossava lessi: «Dio aiuta»18. Ma Dio esige soprattutto giustizia e dignità per tutti, specialmente
per i poveri. Per Enendeni è un dovere morale ribadirlo.

La rivista rilancia pure la voce coraggiosa dei
«Cristiani Professionisti del Tanzania», che hanno dichiarato: «In Tanzania c’è
il sospetto fondato sul cattivo uso del denaro da parte dello stato, il
sospetto di furto di voti nelle elezioni e di corruzione nelle commissioni
elettorali. I giovani vengono plagiati con false promesse. Il prodotto interno
lordo annuo cresce del 7 per cento, però esiste un abisso tra ricchi e
poveri…»19.

Qui il lettore italiano replica subito: «Nel nostro paese
le cose non vanno meglio».

Già, ma con una differenza: in Italia puoi parlare, in
Tanzania meno, molto meno.

Mentre «il prossimo», incappato nei briganti della
politica che l’hanno spogliato di tutto, non trova nemmeno il conforto di «un
buon samaritano».

Francesco Bernardi

Note

  • (1) Cfr. rivista La Consolata, agosto 1922.
  • (2) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Carteggio di un prestito per il Regno, Tanganyika 1919-1935, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1987, p. 45.
  • (3) Alessandro Di Martino, ivi, p. 51.
  • (4) I missionari della Consolata nella Diocesi di Iringa, 1919-1969 (a cura di padre Riccardo Ossola), Tosamaganga 1969, p. 2 (ciclostilato).
  • (5) Alessandro Di Martino, op. cit., pp. 73-74.
  • (6) Ivi, p. 262.
  • (7) Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno (I Missionari della Consolata nel Tanganyika-Tanzania: 1936, 1964, 1969), Edizioni Missioni Consolata, Roma 1995, pp. 50-51.
  • (8) Circa l’iniziazione femminile dei Wahehe, pregevole è la documentazione fotografica raccolta da padre Alessandro Di Martino. Inoltre c’è il catechismo in kihehe di padre Egidio Crema, che scrisse anche la monografia Wahehe, un popolo bantu, Emi, Bologna 1987 (con traduzione in inglese di padre Marco Bagnarol).
  • (9) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno, op.cit., p. 26.
  • (10) I Missionari «Fidei donum» sono nati in seguito all’omonima enciclica di Pio XII, del 1957, che esortava le diocesi ad essere missionarie inviando alcuni loro sacerdoti.
  • (11) Enendeni, Machi/Aprili 2017. «Enendeni» (Andate) è la rivista missionaria prodotta dai Missionari della Consolata in Tanzania.
  • (12) L’utawani era presente in numerosi centri dei Missionari della Consolata: da Tosamaganga a Madibira, da Wasa a Kipengere ecc. Il termine utawani deriva da mtawa, persona consacrata a Dio e che vive in comunità.
  • (13) Padre Giuseppe Inverardi, Superiore generale dei Missionari  della Consolata per 12 anni, oggi opera in Tanzania nel Consolata Mission Centre di Bunju, Dar Es Salaam.
  • (14) Giuseppe Allamano, Così vi voglio, Emi, Bologna 2007, p. 187.
  • (15) Il Fondatore e i Fratelli, Edizioni Missioni Consolata, Roma 2014, p. 18.
  • (16) Ivi.
  • (17) «I care» Tanzania (Storie di vita donata), p. 87.
  • (18) Cfr. Enendeni, Mei/Juni 2017, p. 4.
  • (19) Cfr. Enendeni, Novemba/Desemba 2016, p. 18.



Centocinquant’anni di evangelizzazione in Tanzania


Non reportage da Bagamoyo, ma racconto per ricordare la celebrazione dei 150 anni della evangelizzazione del Tanzania.

Testo di Marianna Micheluzzi – foto padre Francesco Bernardi

Manca circa una mezzora (sono le 9, 30 del mattino) all’inizio della grande celebrazione all’aperto nella enorme spianata di Bagamoyo, che guarda di rimpetto l’oceano. Proprio quello stesso oceano che, nel lontano 1868, consentì a padre Antornine Horner, un tedesco, missionario della Congregazione del Santo Spirito, di raggiungere la terra ferma provenendo da Zanzibar.

E noi siamo fermi, sotto un cielo azzurro e un sole cocente, a pochi metri dalla croce commemorativa che ricorda, appunto, la prima missione, la più antica, di Tanzania, fondata un secolo e mezzo fa.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, folla alla celebrazione

Una folla enorme, coloratissima e molto varia, anche per le fogge originali degli abiti, in particolare quelli femminili, comincia ad accalcarsi. Ci sono uomini e donne di tutte le età. Anziani, bambini e giovani. E ci sono pure i giovanissimi. Quelli, adolescenti, amanti dell’hip hop, che le mamme hanno tirato giù dal letto perché ci fossero anche loro alla festa. Si prevede una presenza di pubblico intorno alle circa 250 mila persone. L’evento, importante per il paese, era stato pubblicizzato a sufficienza in anticipo e nelle parrocchie e dai media. In particolare dalla radio, che arriva quasi ovunque, e ne ha dato notizia circa un mese prima.

Così il popolo di Tanzania, il popolo cattolico, che non vuole mancare all’appuntamento, c’è. C’è tutto e si fa sentire. È una festa, una festa grande. Qui si amano i raduni festosi dove, dopo l’ascolto è possibile anche cantare e ballare in segno di gioia condivisa. Non mancherà il rullo dei tamburi e neppure il suono del corno secondo la tradizione (anche biblica).

La gioia del Vangelo di cui si racconterà questa mattina ha cambiato, infatti, con la presenza missionaria, la vita di moltissime persone. È avvenuto nelle città e nelle campagne. Il Vangelo con le sue parabole, con i suoi insegnamenti mirati, ha accompagnato la gente nei momenti felici e pure in quelli un po’ meno felici. Il Vangelo è stato un autentico volano di promozione umana e sociale, e quindi di sviluppo. Nel paese e per il paese. Un paese dove c’è ovviamente ancora tantissimo da fare ma che, per la più parte, dati alla mano, ha iniziato da tempo ormai un buon cammino. E di certo lo continuerà.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, il coro

Risultati di grazia

Un percorso, quello della presenza missionaria cattolica, le cui tappe fondamentali traccerà questa mattina agevolmente l’oratore, e cioè padre Faustine Kamugisha, sacerdote cattolico della diocesi di Bukoba, noto negli ambienti cattolici e non solo, incaricato della celebrazione dalla Tec, la Conferenza episcopale del Tanzania. Padre Kamugisha, tra l’altro, ha scritto un libro che ha proprio per titolo: «I 150 anni di Evangelizzazione del Tanzania: la gioia del Vangelo». Un testo che ci dirà molto altro ancora sull’impegno missionario in Tanzania in quanto redatto da un tanzaniano, che ha scelto per la sua vita la strada del sacerdozio.

Logo dei 150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania

Ecco alcuni dati per comprendere l’impegno della Chiesa cattolica in Tanzania, che emergono dagli allegati acclusi al programma della celebrazione.

  • La Conferenza episcopale del Tanzania (Tec) comprende attualmente ben 34 Diocesi. Di strada, dagli inizi, possiamo dire che se ne è fatta davvero tanta anche se tanta altra ne resta ancora da fare.
  • 235 Scuole secondarie sono oggi il numero di istituti gestiti direttamente dalla Tec.
  • 75 sono, invece, i centri di formazione professionale, molto utili per la gioventù e perciò molto frequentati.
  • 4 sono le Università cattoliche a pieno titolo.
  • 55 sono gli Ospedali, sempre afferenti alla Tec così come 94 i Centri sanitari e 338 i Dispensari. Degli ospedali del Tanzania merita, per la sua eccellenza, d’essere ricordato in particolare l’ospedale di Ikonda, retto e gestito dai missionari della Consolata di Torino. Con un reparto apposito, unico nel territorio, dove sono ospitati i malati di Aids, purtroppo ancora dolente piaga d’Africa.

Tutto questo, uomini, cifre, risultati, è opera delle Missioni cattoliche, che tanto hanno dato in termini di accompagnamento e crescita alla popolazione locale. Popolazione che, di rimando, ha sempre ricambiato (va detto) e ricambia con riconoscenza e generosità. Il Tanzania, infatti, è uno dei paesi dell’Africa che, con il Kenya, conta tra l’altro un buon numero di vocazioni sacerdotali. Lo stesso dicasi per le vocazioni al femminile. E va anche ricordato l’impulso dato alla nascita di congregazioni locali.

Assieme alla presenza certa del presidente del Tanzania, John Pombe Magufuli, ai ministri locali e agli ambasciatori esteri, compreso quello italiano, nella concelebrazione lo spazio dell’omelia sarà riservato al presidente dell’assemblea. E cioè al cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi, in rappresentanza di Papa Francesco.

Bagamoyo, dalla schiavitù alla libertà

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, arrivo dei vescovi

Bagamoyo sappiamo che, storicamente, come città fu fondata alla fine del ‘700 (XVIII sec.) ma in precedenza, già nel 1400, era un territorio oggetto dell’occupazione araba (lo ricorda moltissimo infatti, ancora oggi, nelle sue architetture) e, purtroppo, fu porto di transito nei secoli successivi, quando divenne dominio dell’Oman (1750). Un porto idoneo al trasferimento degli schiavi nelle terre d’Arabia e dell’Asia. Schiavi che altro non erano che uomini e donne e bambini, rastrellati in paesi dell’Africa occidentale, nei numerosi villaggi rurali, trasferiti successivamente a Bagamoyo, imprigionati poi in una fortezza e infine venduti. Un Museo in Bagamoyo ne ricorda l’immane tragedia. La parola Bagamoyo significa nella lingua locale: «Uccidi il tuo cuore». Ovvero: «Perdi ogni speranza».

I missionari cattolici, quando arrivarono, costruirono il «Villaggio della libertà», dove poter ospitare appunto quegli schiavi che riuscivano a riscattare. Fu un’iniziativa che, in qualche modo, concorse poi a dare forza, gradualmente negli anni, al movimento abolizionista della schiavitù.

A ricordare i 150 di Missione cattolica, sempre in Bagamoyo, c’è anche un gigantesco baobab cresciuto in centocinquanta anni (1868-2018), che è ancora lì maestoso nel cortile della missione. E che merita d’essere visitato. Come lo merita anche il cimitero locale, che ricorda, con delle lapidi, i 50 missionari morti giovanissimi per malaria o altre malattie tropicali. Cosa che accadeva sovente, specie agli inizi della missione, perché non esisteva conoscenza adeguata di queste malattie, né tanto meno rimedi idonei a guarire chi ne fosse colpito.

Resta il fatto che il seme piantato da tanti missionari e missionarie, che si sono avvicendati negli anni in terra di Tanzania, ha dato senza dubbio i suoi frutti, se oggi il paese può guardare innanzi, agli anni che verranno, con una certa fiducia e un discreto ottimismo.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, fedeli da tutto il paese

Non sappiamo se padre Faustine Kamugisha oppure il cardinale Njue citeranno Nyerere, il grande presidente cattolico, il padre dell’Ushamàa, che tanto ha dato al suo Paese e alla sua gente, privilegiando da subito per il suo popolo quali priorità urgenti: il lavoro, l’istruzione, la salute, perché si potesse vivere tutti, ma proprio tutti, un’esistenza dignitosa.

E lo ha fatto, Nyerere, non va dimenticato, giorno dopo giorno, affiancando e condividendo sempre, in tutti gli anni della sua presidenza, il lavoro dei tanti missionari.

Il prossimo appuntamento in Tanzania, dopo quello odierno, sarà quello che celebrerà, tra pochi mesi, il giubileo di 100 anni dell’arrivo dei missionari della Consolata, nel 1919.

Testo di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, musicista




Tanzania: Maria e Consolata sono tornate a Casa

Carissimi, Carissime,

Due anni fa in occasione della festa della Consolata inviai un articoletto dal titolo ‘Maria…Consolata.’ Scrivevo: ‘Non pensate che intenda parlare della Madonna. Mi riferisco a due sorelle siamesi nate al Consolata Mission Hospital di Ikonda il 19 novembre 1997. Non solo erano unite, ma intrecciate in modo anomalo mai visto. Tutti pensavano che sarebbero morte subito, per cui Sr. Magda le battezzo’ con i nomi di Maria e Consolata.’

Ebbene, ieri sera 2 giugno le due sorelle sono ritornate a Casa. Prima Maria e un’ora dopo Consolata, che non aveva notato la dipartita della sorella. Attorno a loro si era creata una catena di solidarieta’ per assisterle. Si prepararano spiritualmente e chiesero perdono per il disturbo recato durante la loro vita. Erano studenti di Legge all’Universita’ Cattolica di Iringa. La loro morte era annunciata. Da dicembre avevano avuto varie complicazioni.

Due anni fa scrivevo: “Maria e Consolata! Un mistero di vita. Un mistero di vita assieme: sempre assieme, tutto assieme. Ch potra’ mai scandagliare questo mistero? E guardando avanti: come sara’ il loro ritorno al Padre? Il Signore sara’ compassione. Credo ci sara’ perfetta comunione in morte, come in vita. Non riesco a immaginare che una possa soppravvivere all’altra anche solo per poco. Il Signore le accogliera’ come ‘martiri.’ Non sangue versato, ma una vita per noi! Dal Signore stesso avranno ricevuto risposta alla loro frequente domanda: ma perche’ noi siamo cosi’? Immagino la risposta: ‘Perche’ poteste essere salvezza per molti.’ Misteriosa verita’!

Senza piu’ ripetermi piu’ vicini alla festa della Consolata, il 20 giurgno, gia’ assicuro il mio grato e affettuoso ricordo. La Consolata terga le nostre lacrime. Ci sia consolazione nelle difficolta’. Ci accarezzi dolcemente. Interceda per noi maternamente.

In Lei un forte-forte abbraccio.

p. Giuseppe Inverardi (IMC)
3 giugno 2018

MC ha pubblicato la loro storia nel gennaio di questo 2018.

Padre Godfrey Msumange, tanzaniano e consigliere generale dei Missionari della Consolata, ha scritto:
“Grazie Signore per il dono di questa vita delle ragazze siamesi Maria e Consolata in mezzo a noi. Avevano 21 anni. Vostra vita è stata una testimonianza forte di santità, (proprio come dice il papa nel esortazione apostolica Gaudete Exsultate), una scuola di coraggio, di pazienza, non lamentarsi, di preghiera, di vita, di comunione, di gioia, di mitezza, di servizio nonostante tutto. Avete lasciato una eredità preziosa umana e spirituale per l’intera umanità. Li, al Gran Capo, pregate anche per noi”.

Baba Godfrey

Foto del 13 settembre 2017, rilasciata dalla Ruaha Catholic University (RUCU). Mostra le due gemelle siamesi Maria (a sinistra) e Consolata Mwakikuti nell’ostello dell’università a Iringa il giorno del loro arrivo per frequentare la stessa università. / AFP PHOTO / THE RUAHA CATHOLIC UNIVERSITY / Mwazarau Mathola




Tanzania: Maria e Consolata due sorelle in una


Testo di Marianna Micheluzzi MC A – Foto di Angelo Dutto |


L’università di Iringa, in Tanzania, da quest’anno 2017 ha due nuove studentesse eccezionali, Maria e Consolata. Due sorelle unite non solo dal sangue, ma dal fatto di condividere parte dello stesso corpo. Orfane dalla nascita e dotate di una brillante intelligenza, le due sorelle stanno sfidando il futuro e i pregiudizi con tanta voglia di vivere e il sorriso sulle labbra.

Una sera di vent’anni fa, in un villaggio rurale nei pressi di Ikonda, in Tanzania, una giovane donna in attesa della nascita del suo primo figlio, fu presa all’improvviso dalle doglie del parto. Il sospirato evento, in cui col marito aveva riposto tante aspettative, era ormai prossimo.

In Africa il parto è ancora l’avvenimento più naturale del mondo, se non ci sono complicazioni. Così però non fu per quella giovane mamma e le donne del vicinato se ne resero subito conto. L’istinto e, soprattutto, la consumata esperienza le aveva messe in allarme. Non era un travaglio normale, si presentava sin dall’inizio molto difficile tanto che le alte grida della partoriente arrivavano lontano, si può dire, fino in foresta.

Così le vicine si diedero subito da fare e cercarono un mezzo di fortuna, una specie di furgoncino di un commerciante che abitava nelle vicinanze. Tra sobbalzi ripetuti su una strada impossibile e con condizioni atmosferiche non ideali, l’uomo del camioncino e il marito della partoriente arrivarono all’ospedale di Ikonda con la puerpera che, per il troppo dolore patito, era ammutolita e con lo sguardo inespressivo.

L’ospedale di Ikonda, nato ad opera dei Missionari della Consolata e dalla collaborazione fattiva di tanti benefattori, era il più vicino e l’unico della zona attrezzato per situazioni complesse come, appunto, lo era questo parto. E di parti a Ikonda se ne affrontavano e se ne affrontano tanti. E quasi tutti, ieri come oggi, vanno a buon fine.

Non mancarono ovviamente le dovute attenzioni anche al nuovo ingresso nel reparto di ostetricia da parte del medico incaricato di assistere la donna e degli altri sanitari. Tutti, accoglienti e comprensivi, si diedero un grande da fare senza risparmio di forze e di mezzi. Era urgente un parto cesareo, pena la perdita di madre e figlio. Ma, incredibile e fuori da ogni immaginazione, dall’utero della donna uscirono nientemeno che due gemelle siamesi, unite in un corpo solo dallo stomaco in giù. Inseparabili.

Si fece tutto il possibile per tenere in vita le due piccole e la mamma. Ma quest’ultima, qualche giorno dopo, non ce la fece e lasciò orfane le sue creature che neanche aveva avuto modo di vedere. La prostrazione dopo il parto non le consentiva, su consiglio dei sanitari, di sopportare un’emozione troppo forte e, manco a dirlo, una vista straziante. Che poi straziante, diciamocelo in sincerità, lo sarebbe stato per chiunque, fosse stato pure in perfetta forma fisica, se non dovutamente preparato.

Così le due bimbe, senza mamma e con il papà senza i mezzi necessari per occuparsi di loro, una volta superate le primissime difficoltà, furono battezzate subito con i nomi di Maria e Consolata e vennero affidate a suor Magda, una generosa missionaria della Consolata. E suor Magda non solo le allevò amorevolmente rispondendo a tutti i loro bisogni come alimentazione e igiene (gestione nient’affatto semplice), ma provvide anche ai primi rudimenti della loro formazione come solo avrebbe potuto fare la loro mamma. Quando tuttavia gli impegni del servizio missionario per suor Magda aumentarono, com’era inevitabile che fosse, e le bambine cominciarono a essere grandicelle, si pensò di trovare una famiglia a cui affidarle. E non fu difficile, grazie a quella solidarietà molto diffusa in Africa per cui i bambini che non hanno genitori spesso trovano abbastanza facilmente una famiglia che si prende cura di loro. Una donna, una madre di famiglia, residente nei pressi dell’ospedale si offrì e Maria e Consolata furono affidate a lei.

Non poteva essere diversamente perché anche il papà delle due bambine, dopo un certo girovagare nelle città vicine (lui diceva di andare alla ricerca del lavoro), provato nel fisico per gli stenti e per il troppo bere, dopo qualche anno dalla perdita della moglie morì.

Per Maria e Consolata, coccolate e conosciute da tutti, missionari e missionarie e amici vari di servizio o passaggio nella missione, a Ikonda ci furono gli anni della scuola materna e delle elementari vissuti con buon profitto. Ormai pronte per la scuola secondaria si pensò che le due, date le buone premesse quanto a impegno, avrebbero potuto continuare gli studi a Ilamba, in un collegio retto anch’esso dalle missionarie della Consolata. E quindi ecco il primo trasferimento per le sorelle Mwikikuti, che non ci stavano nella pelle all’idea di poter proseguire negli studi.

Tanto Maria che Consolata sono sempre state molto vivaci intellettualmente e tenaci nel prefiggersi obiettivi e poi raggiungerli, collaborando in piena armonia e guardando al futuro sempre con grande ottimismo, nonostante gli inevitabili limiti della loro fisicità.

Il Signore prende ma dà pure. Quello che Maria e Consolata non hanno rispetto alle loro coetanee, lo hanno ricevuto in dono, senza merito alcuno, in intelligenza e cuore. Sono sempre sorridenti e ottimiste. È raro vederle tristi. E la Provvidenza ha fatto il resto per loro. Quella Provvidenza che si chiama benefattori. Ossia uomini e donne che testimoniano Cristo e nella preghiera e nel concreto perché aperti alla fratellanza universale e capaci di gettare ponti.

La bella notizia è che Maria e Consolata Mwikikuti, finita con successo la secondaria, quest’anno stanno frequentando a Iringa l’università nella facoltà di Scienze della Formazione e intendono conseguire, a completamento del ciclo di studi, la laurea. Proprio come altri loro coetanei. Era il loro sogno, anche se non osavano immaginare che sarebbe potuto un giorno divenire, a tutti gli effetti, realtà.

Se oggi si domanda loro come stanno vivendo questa esperienza universitaria, prima si scherniscono un po’, cioè si nascondono timidamente dietro un sorriso che muove a tenerezza, consapevoli che si tratta di un’impresa che richiede tantissimo impegno, ma, tenaci quali sono, fanno poi capire con chiarezza che non hanno nessuna intenzione di mollare.

Auguri, allora, a Maria e a Consolata. Saremo felici d’essere assieme a voi, al traguardo, per fare festa. Una festa più che meritata.

Marianna Micheluzzi

Il Consolata Hospital Ikonda

Si trova nel distretto di Makete, trenta chilometri prima di Makete sulla strada da Njombe. Si tratta di uno dei tre ospedali del distretto. Gli altri sono l’Ospedale luterano di Bulongwa (distante cinquanta chilometri) e il Makete District Hospital (trenta chilometri).

È posizionato sugli altopiani meridionali della Tanzania, a 2.050 metri sul livello del mare, con inverni molto freddi ed estati afose. È un istituto cattolico privato, che appartiene fin dalla sua origine (1963) ai missionari della Consolata, ai quali il 25 febbraio 1961 il capo Kiluswa, il capo dei capi di quell’area dell’Ukinga, chiese loro di aprire un ospedale nella zona.

E il 7 ottobre 1968, ampliato di necessità, l’ospedale fu inaugurato dall’allora presidente del Tanzania, Julius Nyerere. L’obiettivo prioritario era quello di ridurre la mortalità infantile e di supportare le mamme in gravidanza, che spesso morivano di parto. La missione del Consolata Hospital Ikonda oggi resta quella di fornire assistenza sanitaria generale alla popolazione della zona, anche attraverso una clinica mobile, e di promuovere l’accesso alle cure sanitarie per coloro che sono bisognosi, con una particolare attenzione per i bambini, le donne e le persone affette da malattie croniche. È registrato dal 1997 presso il Ministero della Sanità tanzaniano e fa parte della Cristian Social Services Commission (Cssc). Ma da piccolo ospedale con sessanta posti letto nel 1968, il Consolata Hospital è diventato una grande struttura con 322 posti letto e 274 membri del personale. Nel 2016 ha effettuato oltre 85 mila visite ambulatoriali. I parti effettuati sono stati 1.600, 14 mila le ospedalizzazioni, circa 6.500 gli interventi chirurgici. Gli esami di laboratorio sono stati oltre 220 mila, le visite effettuate dalla clinica Hiv/Aids poco meno di 24 mila.

M.M.

Morning Star School – Ilamba

A un’ora di macchina da Iringa, passando per Ipogoro e risalendo l’altopiano, il viaggiatore si trova immerso in un verde che più verde non si può. Paesaggi mozzafiato si susseguono allo sguardo.

L’aria è gradevole. E non ricorda affatto l’afa insopportabile e il sole impietoso cui si è avvezzi in terra d’Africa. In mezzo a queste colline, a Ilamba, c’è una scuola secondaria, la Morning Star, gestita dalle suore missionarie della Consolata.

Con l’aiuto di generosi benefattori e di alcune associazioni umanitarie italiane e non solo, qui è stato possibile realizzare, a piccoli passi, ma con tenacia, una scuola professionale per i ragazzi e le ragazze del posto, quelli con poche possibilità economiche.

Nella scuola secondaria di Ilamba ci sono vari rami di specializzazione. Per i maschi c’è falegnameria, agricoltura e allevamento; per le ragazze, invece, corsi di maglieria e poi di taglio e cucito. Professionalità utili e di certo spendibili al termine dei corsi.

Ma, oltre alla scuola secondaria professionale, ultimamente è nato un corso di liceo ben frequentato. E, nelle vicinanze, c’è pure un asilo per più piccini.

Il liceo, quello stesso che hanno frequentato negli anni Maria e Consolata Mwikikuti, è il fiore all’occhiello. Aver impiantato il liceo, tra le altre cose, ha avuto, in particolare per la zona, un significato ben preciso. Molti ragazzi e ragazze di Ilamba, pur impegnandosi, non riuscivano a conseguire il titolo di studio frequentando le normali scuole statali cittadine. Tanti, troppi intoppi e di natura differente.

In questo modo si veniva a creare quella che da noi per definizione è la piaga della dispersione scolastica e, soprattutto, a seguire tanta emarginazione.

Cose non buone in un contesto difficile quanto a opportunità d’inserimento nel mondo del lavoro.

Nel liceo della Morning Star c’è disciplina certamente, come deve esserci, e c’è serietà professionale da parte dei docenti ma c’è anche tanta disponibilità ad accogliere e affiancare nel percorso scolastico coloro che, sulle prime, possono incontrare delle difficoltà nell’apprendimento.

Di casi del genere con esito positivo le missionarie possono raccontarcene tanti. Ragazzi e ragazze all’inizio in difficoltà, ben guidati hanno imboccato in seguito il percorso giusto e, dopo il liceo, hanno frequentato persino l’università a Iringa e si sono laureati. Proprio come oggi è nelle aspettative delle sorelle Maria e Consolata Mwikikuti.

Un’ultima nota: il liceo è gestito interamente da personale tanzaniano, dal preside fino all’ultimo insegnante e al personale non docente.

Tuttavia le suore della Morning Star, donne che non mollano, sono comunque attente vigilatrici di tutto l’andamento, affinché ogni cosa vada per il verso giusto. E i «frutti», almeno finora, sono buoni.

M.M.

 




Cooperando: 3 realtà, 1 obiettivo: istruzione contro povertà


Quest’anno concentriamo la campagna di Natale su Venezuela, RD Congo e Tanzania. Sono tre realtà molto diverse fra loro che hanno però almeno due aspetti in comune: una situazione socio-economica difficile e contraddittoria, della quale fanno le spese le fasce più deboli della popolazione, e una carente e spesso fuorviante informazione internazionale su di essi.

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1. Venezuela, fra crisi e propaganda

Che il crollo del prezzo del petrolio abbia messo in ginocchio l’economia venezuelana sembra essere l’unico dato certo: su un paese che basa la propria economia su questa risorsa, la diminuzione del costo al barile dai 100 dollari del 2014 ai 50 attuali non poteva non avere ripercussioni pesanti. Ma su questo dato di fatto si contrappongono, sia all’interno del Venezuela che nel dibattito internazionale, visioni sideralmente lontane circa le responsabilità e le possibili soluzioni.

Tutta colpa della rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez, dicono i critici dell’ex presidente venezuelano – morto nel 2013 e sostituito dall’attuale capo di stato Nicolás Maduro -, e delle sue politiche socialiste, nazionalizzazione dell’industria petrolifera in testa. «Il Venezuela è una dittatura conclamata», scriveva lo scorso ottobre sul Washington Post Francisco Toro, che in un precedente articolo su The Atlantic indicava come «vero colpevole della crisi il chavismo, con la sua propensione alla cattiva gestione, agli investimenti folli, allo smantellamento delle istituzioni, alle politiche di controllo dei prezzi e del cambio e al ladrocinio puro e semplice». È vero che già all’inizio del 2014, cioè prima della caduta del prezzo del petrolio, l’economia venezuelana era entrata in recessione, risponde dalle pagine di Le Monde Diplomatique Marc Weisbrot, ed è vero che una profonda opera di riforma è necessaria, a cominciare da un riordino del mercato valutario: a oggi, ci sono tre tassi di cambio a cui si aggiunge quello applicato sul mercato nero, e vanno dai 10 bolivar (la valuta locale) contro un dollaro del cambio ufficiale ai 1.000 del mercato nero (un euro è quasi 700 bolivar con Weste Union dall’Italia).

Ma non bisogna dimenticare le ingerenze estee: il governo degli Stati Uniti promuove da quindici anni un «cambio di regime» a Caracas, ricorda ancora Weisbrot, e sta cercando di destabilizzae ulteriormente l’economia. Il Fondo Monetario è spesso particolarmente pessimista nelle stime sugli indicatori economici venezuelani e i media inteazionali fanno a gara a usare i termini più catastrofisti dimenticando di riportare anche i risultati ottenuti ad esempio dalle misiones, programmi governativi di lotta alla povertà lanciati nel 2003 da Chavez a sostegno dell’accesso alla salute, all’istruzione, al credito per la casa (vedi anche Le due piazze di Caracas di Paolo Moiola, MC 12/2015).

È degli ultimi giorni di ottobre la notizia della visita di Maduro a papa Francesco e dell’intenso lavoro della diplomazia vaticana per promuovere il dialogo tra le forze politiche ed evitare scontri e violenze.

La nostra proposta per il Venezuela

Al di là di queste diatribe, la situazione che i nostri missionari ci raccontano è davvero difficile: mai come quest’anno si sono resi necessari interventi per permettere alle persone di procurarsi cibo e farmaci. Nelle zone come Tucupita gli effetti della congiuntura attuale si accavallano a una situazione di povertà e marginalizzazione che da anni affligge la popolazione locale, appartenente per la maggioranza al gruppo indigeno warao.

La proposta dei nostri missionari è quella di impegnarsi in un progetto di contrasto all’abbandono scolastico dei bambini e adolescenti. Dal momento che il principale problema è l’acquisto del materiale scolastico, il cui prezzo è troppo alto per la maggior parte delle famiglie, il progetto prevede l’acquisto di penne, matite, quadei e altro materiale. Inoltre, coinvolge le famiglie a contribuire producendo esse stesse borse, astucci e piccolo mobilio per le classi come leggii e tavoli per lo studio, approfittando anche delle competenze acquisite dalla comunità warao grazie a iniziative realizzate in precedenza dai nostri missionari in ambito artigianale.


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2. Tanzania, fra Pil e ujamaa

La Tanzania cresce, eccome: le esportazioni fra il luglio 2015 e lo stesso mese del 2016 sono aumentate del 7,5% e lo scorso ottobre il paese ha firmato con il Marocco venti accordi di cooperazione bilaterale per poco meno di due miliardi di dollari nei settori energetico, minerario, tecnologico, agricolo, turistico, finanziario, sanitario e dei trasporti. Ma, come per altri paesi africani che stanno sperimentando simili espansioni, il rischio concreto è che larghe fasce della popolazione tanzaniana restino escluse dagli effetti della crescita. A differenza del turbolento vicino di casa congolese, in Tanzania – modellata dal mwalimu (maestro) Julius Nyerere, primo presidente e padre fondatore, sul principio dell’ujamaa (comunità-famiglia-fratellanza) – la pacifica convivenza fra gruppi etnici non è mai stata a rischio, ma le diseguaglianze sociali e le sacche di povertà sono tangibili, specialmente nelle aree rurali. Nel maggio di quest’anno, il Programma alimentare mondiale (Pam) ha pubblicato alcuni dati sul paese: nonostante la crescita economica, tre tanzaniani su dieci vivono nella povertà e uno su tre è analfabeta. L’ottanta per cento della popolazione vive di agricoltura di sussistenza e un terzo dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione cronica.

La nostra proposta per la Tanzania

In Tanzania il nostro programma di sostegno a distanza è attivo a Mgongo, Mafinga, Iringa, Morogoro, Ikonda e Tosamaganga. Inoltre, contribuiremo al Day Care Centre di Morogoro, un centro che fornisce a 252 bambini istruzione prescolare. Secondo numerosi studi, infatti, i bambini che hanno fatto un percorso educativo fra i tre e i sette anni ottengono poi migliori risultati nel prosieguo dei loro studi e hanno maggiori probabilità di terminare il ciclo primario. Inoltre, frequentare un centro come questo permette ai bambini di avere una nutrizione più adeguata in anni fondamentali per lo sviluppo psico-fisico.

In particolare, acquisteremo materiale ludico e didattico, cattedre, banchi e sedie, adegueremo il corpo docente alla sempre maggiore richiesta di iscrizioni e doteremo il centro di kit per il pronto soccorso.


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3. RD Congo, la difficile via verso le elezioni

Quarantadue anni dopo il celebre incontro fra Muhammad Alì e George Foreman, il grido in lingua lingala che si alza dallo stadio di Kinshasa non è più «Alì, bomaye!», «Alì, uccidilo», ma «Kabila oyebela, mandat esili!», «Kabila, sappilo, il mandato è finito».

Il 19 dicembre termina infatti il secondo mandato di Joseph Kabila, il quarantacinquenne presidente congolese succeduto al padre Laurent Desiré nel 2001 e riconfermato alla presidenza nelle elezioni del 2006 e del 2011, una consultazione elettorale quest’ultima, molto discussa e giudicata irregolare da diversi osservatori fra cui l’Unione europea. Le elezioni erano previste per quest’anno, ma a ottobre un accordo tra il governo e una piccola parte dell’opposizione (nel dialogo intercongolese) ha acconsentito di rimandare il voto al più tardi ad aprile 2018. Si creerà un governo di unità nazionale affiancato da un comitato di accompagnamento, mentre Kabila potrà restare in carica per la transizione. Ma il grosso dell’opposizione politica e i movimenti sociali non sono d’accordo, così come i vescovi, che hanno abbandonato il «dialogo» a settembre. E, se il conflitto politico a Kinshasa non sempre si limita al confronto dialettico – lo scorso settembre almeno 47 persone sono morte negli scontri fra polizia e manifestanti anti Kabila -, l’Est del paese non ha conosciuto un minuto di vera pace dalla fine della guerra del 1997-2003. Lo scorso agosto i miliziani del gruppo islamista di origine ugandese Adf – uno dei circa settanta gruppi ribelli attivi in Congo – hanno decapitato o bruciato vive trentasei persone a Beni, Nord Kivu.

La nostra proposta per il Congo

I nostri missionari in Rd Congo lavorano da sempre per ampliare quanto più possibile l’accesso all’istruzione e per contrastare l’abbandono scolastico: secondo gli ultimi dati Unicef, i bambini che non vanno a scuola sono 13 su cento, dato che sale a 16 nelle aree rurali. Degli scolarizzati, inoltre, un quarto non arriva alla conclusione del ciclo primario. Le aree su cui ci concentriamo questo Natale sono Kinshasa e Bayenga. Nella capitale, è attivo un programma di sostegno a distanza per i 360 bambini che frequentano la scuola primaria san Giuseppe d’Arimatea, nel quartiere Sans Fils. Attraverso questo sostegno, la probabilità di abbandono scolastico si riduce drasticamente perché risolve a monte il principale problema delle famiglie, quello di coprire i costi per la retta, i libri, il materiale scolastico.

A Bayenga, villaggio in piena foresta pluviale nella provincia Orientale, i nostri missionari lavorano con la comunità dei pigmei Bambuti: qui l’iniziativa è quella di creare e rafforzare una scuola itinerante, che possa spostarsi da un campement (insediamento) all’altro e permettere agli oltre mille bambini non scolarizzati di avere un’istruzione che rispetti e valorizzi anche le specificità culturali del loro gruppo etnico, tuttora considerato, dalla maggioranza bantu, composto da cittadini di seconda categoria.

Chiara Giovetti

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Grazie perché

Ecco alcune delle iniziative (e non sono tutte!) per le quali ci avete aiutati in questo 2016.

Istruzione e sanità

Abbiamo scavato un pozzo a Guilamba, Mozambico, comprato le bici per gli insegnanti a Neisu, RD Congo, dotato di microscopio, centrifughe e altro materiale il laboratorio del dispensario di Mgongo, Tanzania, e messo nuovi banchi, sedie e pc portatili nel centro di formazione per bambini adolescenti e giovani di Tucupita, Venezuela.

Stiamo poi mettendo il fotovoltaico nella Secondary School Mary Mother of Grace di Rumuruti, Kenya, migliorando la cucina della scuola elementare di Blessoua, Costa d’Avorio, lavorando alla scuola di formazione in agricoltura e all’impianto di irrigazione a Maturuca, Brasile, continuando la formazione alla pace per i bambini e le loro famiglie a Cartagena de Chairá, Colombia, e sostenendo doposcuola e Day Care Centre a Arvaiheer, Mongolia.

Per questi nove progetti e altri 33 ringraziamo la famiglia della signora Piera Guaaschelli, che ha sostenuto i missionari della Consolata per lunghi anni.

Abbiamo attrezzato l’ospedale di Wamba, Kenya, per il servizio di dialisi, rinnovato il laboratorio, introdotto un sistema di gestione informatizzato, riattivato il servizio di cliniche mobili per i villaggi intorno all’ospedale, intensificato il programma nutrizionale e lanciato una campagna di iscrizione per i pazienti al fondo di assicurazione sanitaria keniano Nhif, che permette la copertura delle spese mediche sostenute. Per questo progetto, che ha concluso il primo anno e continuerà per altri due, ringraziamo la Conferenza Episcopale Italiana, che ci ha concesso un finanziamento totale di 232.233 euro.

Sostegno a distanza

Anche quest’anno abbiamo sostenuto a distanza circa duemiladuecento bambini, a cui abbiamo fornito istruzione, cibo, cure mediche. Il programma SaD è stato attivato o potenziato anche in Venezuela, Mozambico, Sudafrica, Kenya ed Etiopia.

Attività generatrici di reddito e formazione professionale

Continuiamo a sostenere il panificio a Kinshasa che, grazie alla generosità di donatori privati e di gruppi missionari, cammina sempre di più sulle sue gambe. Anzi, su quelle delle donne di Kin che vanno a vendere il pane prodotto dal panificio.

A Malindi, Kenya, abbiamo concluso il progetto agricolo per le donne e a Kinshasa, RD Congo, abbiamo completato l’ammodeamento del laboratorio di elettronica del Centro di formazione professionale per ragazzi non scolarizzati. Grazie a Caritas Italiana per questi e per gli altri microprogetti che ci hanno permesso di realizzare.

Acqua

Ringraziamo tutti quanti hanno dato il loro contributo per garantire un sempre più ampio accesso all’acqua per le persone di Mukululu, Kenya, dove si trova il Tuuru Water Scheme, un sistema idrico che serve 250 mila persone e 150 mila capi di bestiame.

Popoli indigeni

Ringraziamo i nostri donatori – organizzazioni e privati cittadini – per la loro sensibilità alla condizione dei popoli indigeni di
Roraima, da Catrimani a Raposa Serra do Sol, e il prezioso sostegno alla difesa dei loro diritti.

3.366 grazie

Vorremmo nominarvi e ringraziarvi tutti 3.366 – singoli privati, organizzazioni, associazioni, gruppi missionari, parrocchie, congregazioni, aziende, scuole – perché ci avete affidato il vostro denaro, magari togliendolo al budget per la spesa e passando i fine settimana a organizzare eventi per le missioni, ma, anche usando tutte le pagine di questa rivista, non ci sarebbe abbastanza spazio per descrivere che cosa ciascuno di voi ci ha permesso di realizzare.

Noi, però, conosciamo i vostri nomi uno per uno, e una per una rispettiamo le intenzioni che accompagnano la vostra donazione: quello che ci avete affidato è diventato quadei, pompe idriche, cibo, farmaci, microscopi, sementi, salari dei maestri, attrezzi agricoli, letti per il parto, avvocati che hanno difeso minoranze ingiustamente espropriate, cacciate, aggredite.

Grazie a voi, anche nel 2016 abbiamo scritto una bella storia: siamo pronti a scrivere insieme il prossimo capitolo.


Diamo i numeri

  • Con 6 euro regali 10 set scolastici (penna, matita, gomma, quaderno) agli alunni di Tucupita.
  • Con 40 euro doni un kit per il pronto soccorso al centro prescolare di Morogoro.
  • Con 120 euro copri per tre mesi i costi di spostamento della scuola itinerante a Bayenga.
  • Con 300 euro sostieni a distanza un bambino in Congo o Tanzania.

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Grazie.
Puoi anche usare PayPal e IlMioDono
(in alto a destra)




Cari Missionari

Avorio e Religiosità

Se è vero che ciò che accade nella Chiesa particolare
riguarda la Chiesa universale, dopo aver letto (M.C. n.10/2013, p.8) che
è stata la Chiesa filippina a convocare la Conferenza asiatica per la Nuova
Evangelizzazione, mi piacerebbe domandare al Primate S. E. Mons. Luis Antonio
Tagle, arcivescovo di Manila nonché cardinale elettore nel Conclave che ha
scelto Papa Francesco, se le scelte compiute dal nuovo pontefice per quanto
riguarda addobbi, decorazioni, suppellettili sono destinate a restare, in Asia,
lettera morta, oppure stimoleranno anche i cattolici dell’Estremo

Oriente, a cominciare da quelli delle Filippine, a
intraprendere un cammino di rinnovamento all’insegna della sobrietà, della
frugalità, della ragionevolezza.

Sono rimasto molto male, leggendo un non certo tenero ma
documentatissimo dossier del National Geographic (cfr. N. Geographic Italia Ottobre 2012), che «in
Asia la domanda di avorio è cresciuta», che «l’avorio sequestrato è ben poca
cosa rispetto a quello che arriva a destinazione», che nella cattolicissima
Manila «i principali clienti sono i preti», che «i principali fornitori sono
filippini musulmani che hanno legami con l’Africa o musulmani malesi», che «nell’isola
di Cebu il legame tra avorio e religione è così stretto che la parola garing
= avorio, significa anche statua sacra…», che «il Vaticano non ha mai firmato
la Cites – Convenzione internazionale
sulle specie in pericolo – dunque non è tenuto a rispettare il
bando del commercio dell’avorio», che persino i cattolici filippini
appartenenti ai ceti meno abbienti considerano il possesso di santi bambini
d’avorio, madonne d’avorio, crocifissi con Cristo d’avorio fondamentali per la
fede, per la preghiera, per la vita cristiana. Vorrei chiedere ancora a Mons.
Tagle: di quanti garing hanno ancora bisogno le chiese e le case
filippine? Se l’avorio è così importante per la liturgia e il culto, che
succederà alla cristianità delle Filippine quando di elefanti asiatici con le
zanne non ne sarà rimasto neppure uno e gli unici elefanti africani
sopravvissuti saranno quelli degli zoo e dei circhi?

Come fanno i vescovi, i preti e i laici filippini a non
sentire alcun senso di colpa quando apprendono di massacri di elefanti […]?
Come si fa a non capire che bisogna rivedere anche il rapporto con gli oggetti
di culto – e, segnatamente, quelli in avorio – se si vogliono salvaguardare i
diritti delle future generazioni. Invece di ambire al possesso di altri garing,
non sarebbe meglio accontentarsi di quelli che già si posseggono? Non sarebbe
più ragionevole e più cristiano riconoscere che sono già tanti?

Grazie
per l’attenzione.

Francesco Rondina
Fano, 19/10/2013

Caro Francesco,
poiché lo spazio è tiranno, ho dovuto tagliare parte della lettera, mantenendo
le questioni essenziali. Concordo con buona parte delle sue osservazioni e mi
auguro che lo stile di papa Francesco abbia un influsso positivo sul problema
da lei posto. Mi permetto però di sottolineare alcuni punti.

1. La relazione tra il fatto che il Vaticano non abbia firmato il
Cites e il «consumo» d’avorio dei filippini non è logica. La firma della
convenzione da parte dello stato del Vaticano avrebbe un peso esclusivamente
morale e non legale sui filippini. Più rilevante per loro è la firma della
convenzione da parte delle Filippine. Tocca infatti alle Filippine
regolamentare il commercio dell’avorio nel proprio territorio, non al Vaticano.
L’associazione del Vaticano (stato) con la Chiesa Cattolica, è un abbinamento
che va molto a orecchio, che può suonare bene per la stampa popolare, ma non
regge all’analisi obiettiva dei fatti.

2. Anche stabilire un rapporto di necessità
tra statue d’avorio e liturgia cattolica è arbitrario. Non è la religione
cattolica che ha creato il bisogno dei garing, anche se essa ha
accettato una tradizione culturale comune a quasi tutte le culture orientali
che da millenni fanno uso dell’avorio nella produzione di oggetti religiosi,
forse proprio per la qualità intrinseca del materiale stesso: raro, prezioso e «puro».
Che oggi si possa e si debba invitare i cattolici delle Filippine a un uso più
cosciente e ragionato di tali oggetti, è indubbio. Che ci sia un nesso tra la
forte richiesta di questi oggetti e lo sterminio degli elefanti, è un fatto che
non contesto. Ma le statue d’avorio non sono proprie né necessarie al culto
cattolico. Sono frutto di una religiosità popolare che si radica in una cultura
che esisteva ben prima dell’evangelizzazione di quelle isole nel XIV secolo.

Due euro per il mare

Leggendo il pregevole articolo di Paolo Bertezzolo (M.C.
n.11/2013, p.68-71
) sulla nuova moneta da 2€ dedicata ai Santi Cirillo e
Metodio, ho pensato che quello scoppiato tra Francia e Slovacchia non è solo un
contrasto tra due modi diversi di intendere il rapporto tra politica e
religione.

Nel
IX secolo Cirillo e Metodio furono dei formidabili evangelizzatori, mediatori e
unificatori che cercarono, riuscendoci, di prendere il meglio di ogni tradizione,
lingua e cultura. Lavorarono sodo per amalgamare germanici e latini, cristiani
d’Oriente e d’Occidente, genti slave del Nord e del Sud, popoli delle grandi
selve e popoli a vocazione marinara. Diedero un alfabeto e una scrittura agli
Slavi traducendo in una lingua nuova Bibbia e Liturgia Cattolica, difesero il
loro metodo di evangelizzazione dalle velleità egemoniche del clero tedesco
che, a un certo punto, si rivolse addirittura alla Santa Sede per togliere di
mezzo i due fratelli greci. Il Papa Adriano II però non solo frustrò le
aspettative di quei tedeschi superficiali e invidiosi, ma assicurò tutto il suo
sostegno all’opera di Cirillo e Metodio.

Agli
amici della Slovacchia, uno dei pochi paesi di Eurolandia a non avere sbocchi
sul mare, e a tutti coloro che hanno voce in capitolo quando si tratta di
ideare, approvare ed emettere nuovi conii, vorrei dare un suggerimento: in una
delle prossime monete da 2€ fate effigiare una tartaruga, un tonno, un pesce
luna, un delfino, uno squalo elefante…

Tale scelta potrebbe essere il segno di una rinnovata
volontà di tutti i popoli europei a procedere sulla strada della protezione
ambientale, rompendo con la linea seguita fin qui da Bruxelles per quel che
riguarda tutto ciò che ha a che fare con il mare, dalla pesca al turismo, dalla
balneazione alla pirateria, dal contrabbando al soccorso dei naufraghi, dalla
perforazione petrolifera al trasporto di sostanze tossiche.

È una
linea che non si concilia in alcun modo con le istanze di giustizia e di pace
ma neanche con quelle della serietà, dell’efficienza, del buon senso, del
rigore e del risanamento dei conti pubblici.

[…]
Vi ringrazio per l’attenzione e Vi saluto cordialmente.

Maria Weistroffer
Bordeaux, 24/11/2013

780.000 bottiglie di plastica

Carissimi,
forse lo avrete già dimenticato, ma il «Cristo de los Desterrados» (M.C.
n.1-2/2012, p.5
) continua a farsi strada e già si è incamminato e vuole
benedire, proteggere e farsi promotore di questo brandello di foresta dove «los
niños ecológicos en acción», contro vento e marea, vogliono dimostrare che una
spiaggia più pulita è un’alternativa al solito menefreghismo di molti e
scetticismo dei più, ed è la strada giusta per crescere senza perdere la
propria identità culturale indietreggiando come un gambero, e per continuare a
scavare come «armadillos».

Intanto 780.000 (settecentoottantamila) bottiglie sono già state
infilzate e circondano i 3000 m2 del
piccolo parco giochi dove la storia di Pinocchio con balena a dimensione
naturale (fatta di bottiglie) con Geppetto nel suo pancione saranno
l’attrazione principale. Intanto il parco sfoggia già il suo stupendo arco
d’ingresso. Direte: dove avete preso quelle 780.000 mila bottiglie? Sulla
spiaggia dell’Oceano Pacifico, naturalmente! E ce ne sono ancora di più. La
raccolta è stata fatta dai bambini e ragazzi, premiati con un centesimo di euro
a bottiglia, soldini che son loro serviti per comprarsi libri e quadei di
scuola oltre che i deliziosi dolci di noce di cocco per completare la loro
povera colazione. La cosa più bella è stata l’esclamazione spontanea di uno dei
ragazzi: «Questo me lo sono guadagnato io!». Che ve ne pare? Pinocchio comincia
a farsi uomo e a capire che in questo mondo «il sudore della fronte» aiuta a
crescere e che è vero ciò che afferma San Paolo quando dice ai suoi
Tessalonicesi fannulloni e molto indaffarati in chiacchiere «che chi non vuol
lavorare, neppure mangi».

Intanto
il piccolo parco ha già pure la sua minuscola cappella da dove un altro pezzo
di legno, lavorato da Ariel, il modesto artigiano tutto fare, sfoggia il Cristo
benedicente, portatore di pace e armonia.

P. Vincenzo Pellegrino
 Cali, Colombia

«Sono» troppi

Lampedusa:
ho visto qualche lettera sulla Rivista. Ma il dato essenziale non viene
evidenziato né lì né altrove. L’Africa contava circa 30 milioni di umani a metà
dell’Ottocento, ora ne ha un miliardo! E con un tempo di raddoppio di 30 anni.
Qui sta il vero problema a monte. Nel frattempo è stato distrutto il 90% degli
altri esseri senzienti (altri animali, piante, ecosistemi) e il processo
continua senza sosta. Se non cessa il mostruoso aumento della popolazione
umana, in quasi tutto il mondo, è evidente che tutti i problemi sono insolubili
e si aggravano sempre più. Non basta dare la colpa «alle multinazionali», al
colonialismo e simili, queste sono solo concause, aggravamenti di una
situazione e di un andamento assolutamente insostenibili. Vi allego un
interessante articolo pubblicato 20 anni fa (che non riportiamo per ragioni di
spazio, ma si può trovare sul sito de La Repubblica, 11/6/1994: Orazio della
Rocca, Guerra delle culle in Vaticano. In esso si sosteneva che anche
l’Accademia Pontificia raccomandava un rilassamento nell’opposizione totale al
problema del controllo delle nascite, ndr). In questo lasso di tempo la
popolazione umana nel mondo è aumentata di due miliardi di umani! Ma come
pensate che si possa andare avanti così? Inoltre, togliere lo spazio vitale
agli altri esseri senzienti è moralmente condannabile, è un delitto. Qui si sta
distruggendo la Terra. Distinti saluti.

Albino Fedeli
Brescia, 7/10/2013

Caro Albino,
su queste pagine abbiamo dibattuto più e più volte sul problema della (sovra)
popolazione (Vedi: M.C. n.1-2/2013, p.7; 3/2013, p.7). Qui mi permetto
di sottolineare alcuni punti circa la Chiesa, implicati dal riferimento
all’articolo de La Repubblica.

La Chiesa,
ritiene sì che i figli sono un dono e che ogni vita va rispettata fin dal
concepimento, ma non sostiene il principio che bisogna fare figli a tutti i
costi. Da anni (almeno 50), nella sua dottrina sociale, insiste su pateità e
mateità responsabile, promuovendo metodi e stili rispettosi della vita e
attenti all’ambiente. È vero che Essa si è sempre opposta all’aborto, alla
sterilizzazione, all’uso di pillole abortive e di altri strumenti che
favoriscano il sesso indiscriminato e irresponsabile fino dall’adolescenza
(ampiamente sostenuti invece da potenti e danarose lobby anche intee all’UE,
vedi ad esempio il documento «Standards for Sexuality Education in Europe»
promosso dalla sezione europea dell’OMS). Ma ritenere la Chiesa responsabile
della crescita demografica perché opposta ai preservativi, è fuori posto.
Sarebbe attribuire a Essa un’influenza che di fatto non ha (e non ha mai
avuto). I fatti sono semplici: la crescita demografica più accentuata è
avvenuta in Cina e in India, dove l’influenza della Chiesa è minimale. In
Europa e America del Nord, dove in teoria il suo influsso era più forte, si è
invece assistito al fenomeno contrario, addirittura alla decrescita della
popolazione. E noi italiani siamo proprio tra i primi al mondo nella decrescita
demografica!

Ben altre sono
le ragioni della crescita della popolazione mondiale, in primis il
grande e positivo sviluppo della medicina, che ha drasticamente ridotto la mortalità
infantile e allungato (anzi, quasi raddoppiato in molti paesi) la vita media. È
un male questo? Non credo proprio. È un fatto che ci chiama a maggior
responsabilità verso questo nostro fragile mondo. E questa responsabilità
comincia con la giustizia nell’uso delle risorse e dell’ambiente. Dio ha un
progetto di armonia per il creato: armonia tra «esseri umani», «esseri
senzienti» e natura. E Lui è il garante di questa armonia.

«Ferie» diverse a Ikonda

Fare
del «volontariato» in un ospedale missionario a Ikonda in Tanzania durante il
proprio periodo di «ferie». È quello che hanno fatto due giovani gambettolesi
dal 26 agosto al 19 settembre scorso, Nicolò Pistoni, ventottenne laureato in
Ingegneria Biomedica, e Sofia Pedrelli, ventenne laureanda in Educatore
Professionale. […] Conosciamoli attraverso il racconto dell’esperienza
vissuta nel continente africano.

Come e per quali ragioni avete deciso di fare un’esperienza
missionaria? Perché in Africa e in questo particolare ospedale?

«Da
tempo collaboro con i Missionari della Consolata che a Gambettola hanno un
centro missionario (ex seminario) con annesso Santuario – precisa Pistoni – per
organizzare raccolte fondi destinate al sostentamento dei diversi centri che
questo Istituto ha realizzato in tutto il mondo: dalle missioni in Colombia,
Venezuela e Mozambico gestite da Missionari miei compaesani all’Allamano
Special School di Wamagana (Kenya) in cui trovano ricovero decine di bambini
portatori di handicap mentali e fisici. L’input di
partire per questa destinazione è venuto da padre Sandro Faedi, allora
vicesuperiore in Italia e ora in Mozambico. Dopo avergli raccontato della mia
carriera universitaria, mi ha proposto di dare una mano concretamente in uno
dei tanti ospedali sparsi nel mondo nei quali, ogni giorno, si dà conforto e si
presta soccorso alle popolazioni più povere. Fra le tante possibili
destinazioni la scelta è ricaduta sul Consolata Hospital di Ikonda in Tanzania,
paese nel quale è stato per molti anni anche l’attuale superiore della casa di
Gambettola, padre Daniele Armanni. Quell’ospedale è ora una delle strutture più
grandi e attrezzate realizzate in Africa dall’Istituto Missioni Consolata. A
Ikonda ho prestato servizio come tecnico nel reparto di radiologia e ho messo a
disposizione le mie conoscenze a chi fa questo stesso lavoro e non ha avuto una
preparazione specifica e strutturata come la mia grazie al tirocinio prima e al
volontariato poi, fatti in gran parte nell’ospedale Bufalini di Cesena in tutti
i reparti di radiologia, a Rimini in Radioterapia e a Forlì in Medicina
Nucleare». «Contattata, ho deciso di condividere questa nuova esperienza di
volontariato – afferma Pedrelli -, che l’anno scorso ho svolto a Skutari
(Albania) in una casa famiglia dell’associazione Papa Giovanni XXIII. Ho
prestato aiuto nella farmacia intea e in alcune giornate ho fatto
l’animatrice presso l’asilo. Rimarrà indelebile il ricordo dello stupore dei
bambini quando ho fatto imprimere le impronte delle loro mani su un foglio di
carta dopo averle colorate».

Cosa vi ha lasciato questa esperienza?

«C’è un antico proverbio cinese che riesce a descrivere al
meglio questa missione umanitaria: “Dai a un uomo un pesce e lo avrai sfamato
per un giorno. Insegna a un uomo a pescare e lo avrai sfamato per tutta la vita”.
È quanto abbiamo fatto quotidianamente per affrontare il contatto con una realtà
tanto diversa – confermano all’unisono -, sia dal punto di vista culturale (lo
swahili è un ostacolo arduo da superare, segnando in un quaderno le parole
essenziali per svolgere il lavoro), sia dal punto di vista ambientale (a oltre
2000 metri di altezza in una delle aree più povere della Tanzania). Ostacoli
che sono stati superati donando per tre settimane tutto di noi, con il sorriso
negli occhi e nel cuore, tutti i giorni, condividendoli con tutti. Quanto
sperimentato ci aiuterà senzaltro a vivere meglio le realtà in cui siamo
inseriti».

Piero Spinosi
Gambettola (CE)

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Ancora tasse

Precedenti
puntate:
MC 7/2014 pag. 5 e
MC 10/2014 pag. 6.

1. Mi
riferisco al «pagare le tasse» del mese di luglio per una brevissima
osservazione. Il Vangelo riporta «Date a Cesare quello che è di Cesare» e non
(tutto) quello che egli pretende! Questo perché poi mi chiedo: «Come vengono
impiegati i nostri soldi?».

Saverio
Compostella
email, 18/07/2014

2. Ritengo che
un’ottima replica ai mugugni di Giovanni Besana sia la prolusione letta dal
cardinal Angelo Bagnasco, in qualità di Presidente della Conferenza Episcopale
Italiana, lo scorso 22 settembre al Consiglio permanente della Conferenza
stessa.

«L’occupazione difficile e il fisco predatorio, la
burocrazia asfissiante e la paura di fare passi sbagliati, tutto concorre a non
creare lavoro nei vari settori del pubblico e del privato, non stimola
l’inventiva, non trattiene i giovani nel paese».

Ritengo che l’aggettivo usato dal Cardinale, cioè «predatorio»,
calzi a pennello per il fisco locale, a cominciare da quello che riscuote tasse
come la Tasi sulla prima casa: questa nuova imposta infatti ha confermato il
peggio dell’Ici di Amato e dell’Imu di
Monti, togliendo in più quel pochissimo di buono che avevano, ossia la
detrazione, che consentiva almeno ai possessori di case più modeste – ovvero
quelle dalla rendita catastale più bassa – e a chi ha figli a carico, di
limitare e, in non pochi casi, di annullare l’importo dovuto al Comune di
residenza.

Consapevoli della porcheria fatta dal Goveo nazionale,
alcuni sindaci (i primi sono stati quelli di Ragusa, Positano e Olbia…) hanno
deciso l’azzeramento totale della Tasi sulla prima casa. Spero che, magari dopo
aver letto le parole del Presidente dei Vescovi Italiani – che certo non è un
estremista né uno che ha mai incitato chicchessia alla rivolta fiscale – gli
altri sindaci optino per questa soluzione invece di continuare a fare i Robin
Hood alla rovescia (togliere a chi ha di meno per dare a chi ha già tanto…).

Grazie per l’attenzione.

Mario
Pace
email, 26/09/2014

3.Caro padre
Gigi,
noto che la mia provocazione produce riflessioni condivise oppure critiche e mi
fa un immenso piacere.

L’affermazione era: «Il confessore non chieda più dei
peccati di sesso, ma che faccia una domanda secca: “paghi le tasse oppure
frodi?”» e mi è venuta dopo aver affrontato con un prete il discorso della
confessione. La sua tesi è stata: «Caro Giovanni, nella tua Brianza non c’è
nessun penitente che confessi un peccato di sesso e tanto meno di altre cose
molto importanti, tipo sul come si fanno i soldi; siamo tornati al punto delle
prime confessioni: “Ho rubato la marmellata alla mamma”». Questa è una cosa
molto seria che tutta la Chiesa deve approfondire.

Non mi sono permesso di affermare che la coscienza del
penitente debba rifiutare e non confessare i suoi pruriti sessuali, ma che è il
confessore oppure il padre spirituale che deve far capire l’importanza per un
cristiano della lealtà nei confronti dello stato e non nascondersi in
dietrologie senza costrutto in difesa dei propri egoismi. Mi sembra che se si
approfondissero seriamente questi concetti non avrei da rimproverarmi nessuna
deficienza al mio pensiero verso i più bisognosi delle nostre comunità
credenti.

Chi si appella alla Chiesa dando del «ladro» a chi è impegnato
sacrificando tempo e denaro per una società più giusta, con quale «misericordia»
si approccia al suo essere cristiano? Non tutti (quelli che si impegnano
nella politica
) hanno le mani nel sacco. Questi sono discorsi da bar.

Se ci sono tanti, troppi poveri nella nostra bella Italia
e nel mondo, la colpa non può essere data solo ai 150mila super ricchi che
detengono un patrimonio che equivale a quanto possiede la restante popolazione
mondiale. Ciascuno si deve prendere le sue responsabilità. Sono le nostre
azioni che ci renderanno colpevoli al di là di ogni giustificazione. Contano i
nostri comportamenti: dobbiamo saldare un debito e non ci facciamo fare la
fattura e paghiamo in nero perché soltanto così possiamo avere uno sconto e non
pagare l’Iva… Succede con il dentista, l’imbianchino, l’idraulico, il
carrozziere, il garagista e tanti altri professionisti e artigiani, che ci
prestiamo ad arricchire, pur di risparmiare.

E allora tutti siamo colpevoli! Essere cristiani è, come
dice Papa Francesco, credere al «valore della povertà», il che certamente non è
facile come non è facile accettare la frase evangelica: «è più facile che un cammello entri
nella cruna di un ago che un ricco in paradiso». Chi ha orecchi da intendere,
intenda.

Un caro saluto,

Giovanni
Besana
email, 4/10/2014

4.Alla luce
dei nuovi interventi letti sulla rivista di ottobre sottolineo che si tratta di
quanto chiede Cesare, non se ha diritto di chiedere. Anche gli schiavi davano
il lavoro a Cesare, ma molti hanno pensato che fosse troppo! Ultima
osservazione: quando vengono scoperti i grandi evasori (cantanti, corridori,
industriali…) lo stato si accorda sul 20% del dovuto. Che sia questo quanto
lo stesso stato pensa sia il giusto da pagare? Grazie dell’attenzione e
cordiali saluti.

Saverio
Compostella
email, 15/10/2014

Cari
amici,
credo che potremmo continuare all’infinito a parlare di tasse, ciascuno con le
sue buone ragioni, perché la situazione italiana è davvero complicata, con
situazioni di palese ingiustizia e corruzione diffusa. Non entro nei
particolari, penso basti già quanto ricordato dai nostri lettori. Due punti
vanno però salvati: non tutti gli italiani sono evasori, anche se la tentazione
di farlo è grande; e non tutti gli amministratori pubblici o i politici sono
dei corrotti o corruttori. La complessità della situazione, e i perversi
meccanismi economici nazionali e inteazionali, non aiutano certo. Secondo
fonti autorevoli, la prima causa d’ingiustizia (e quindi della grande
tassazione) è il debito pubblico, diventato ingestibile non per l’ammontare dei
soldi effettivamente usati, ma per il diabolico sistema di calcolo degli
interessi manovrati da grandi speculatori fuori da ogni controllo. Fino a
quando tutta la politica non si darà una mossa per riportare la finanza sotto
il controllo dei governi, i governi stessi (e le nazioni che rappresentano)
resteranno alla mercé di questi sistemi economici ormai sovranazionali, mentre
i normali cittadini saranno dissanguati dalle tasse. Gli stessi politici, poi,
devono smetterla di legiferare tenendo più conto degli indici di gradimento che
del vero bene comune, soprattutto dei giovani e di chi (troppi!) ormai vive
sotto il livello di povertà.

Grazie
per la partecipazione a questo dibattito, che, per ora, finisce qui.

 
Prostata

Posso dire la mia? Sono un lettore antico di MC, da
trent’anni con l’Associazione «S.O.S. Tanzania» che riunisce un centinaio di
famiglie e offre qualche aiuto con l’invio di farmaci e prodotti medicali
all’ospedale di Ikonda ed alla missione di Iringa. Fatta questa premessa che
nulla ha a che vedere con il tema in oggetto vorrei innanzi tutto
complimentarmi con la D.sa Rosanna Novara Topino per la professionalità, la
dotta, sintetica e chiara esposizione nel trattare la patologia in questione.

Sono anche il responsabile dell’Associazione «Missione
Vita» che opera presso l’Ospedale di Rivoli nel reparto di urologia diretto dal
Dott. Maurizio Bellina. Offriamo sostegno umano e psicologico, coadiuvati dalla
psicologa D.sa Piera Rosso, ai pazienti che, colpiti da neoplasia, sono
sottoposti a prostatectomia radicale. Sento in modo particolare il tema della
sofferenza e nel caso specifico il problema della prevenzione.

Quanti sono abbonati e leggono le riviste di medicina? Le
nostre Asl quanto investono nella prevenzione?

Ho la profonda convinzione che ogni atto, ogni mezzo
d’informazione, ogni pubblicazione laica o cattolica che abbia come obiettivo
la salute delle persone sia legittimo e non deve scandalizzare nessuno.

Mi pare di ricordare che Gesù proprio attraverso le
guarigioni del corpo arrivava a convertire i cuori. Forse che il primo pensiero
dei nostri missionari è limitato alla sola Parola di Dio? Non mi risulta. Per
quel poco che conosco, li ho visti impegnati a curare e alleviare prima di ogni
cosa le sofferenze umane. Lasciamo quindi che questa nostra rivista, letta da
migliaia di persone, offra questa opportunità e se qualche lettore è in
disaccordo pazienza, sicuramente ci saranno molti consensi a partire dal
sottoscritto.

Vincenzo
Misitano
email, 13/10/2014

La risposta alla lettera riguardo il servizio sulla
Prostata pubblicata sulla rivista Missioni Consolata di ottobre 2014 a pag. 5
mi induce al seguente commento: «Caro Direttore, la Sua risposta è
assolutamente condivisibile e azzeccata. Complimenti!».

Egizia
Angheben
email, 17/10/2014

Unità dei Cristiani

(Che onore) ricevere una risposta ampia e articolata da
un dotto biblista, che, in base allo stile, potrebbe addirittura essere il
mitico Don Farinella (vedi MC 8-9/2014, p. 5, L’eterno riposo). Allora,
siccome l’appetito vien mangiando, mi permetto di sottoporre altri due dubbi da
dilettante, senza alcuna fretta per la risposta.

Unità dei cristiani: il processo, più che lento, mi sembra cerimoniale, perché
obiettivamente penso sia dura parlare di unità con chi, in via preventiva, si è
proclamato infallibile. E poi, è sacrosanto chiedere il reciproco rispetto dove
si convive da secoli, superando rapporti tempestosi (per esempio Calvino a
Ginevra non era tenero né coi cattolici né con gli altri protestanti, e aveva
sempre il fiammifero in mano, che neanche l’inquisizione…). Mi sembra poco
gentile lanciarsi in «missioni» in terre dove non ci sono cattolici ma ci sono
chiese di cui accettiamo i sacramenti, come quella ortodossa. Insomma, Giovanni
Paolo II, lanciando la missione in Russia, mi è sembrato più polacco che
papa…

Un dubbio fantascientifico: guardando il cielo stellato, uno dubita che sia un po’
presuntuoso pensare che tutta questa meraviglia sia stata creata per dare un
panorama ai rissosi abitanti di un piccolo pianeta, e che da qualche parte
dovrebbero esserci degli altri esseri raziocinanti. Se è così, anche loro hanno
fatto la trafila del peccato originale? E hanno avuto un Salvatore? E come la
mettiamo con la Trinità e l’unigenito figlio di Dio del nostro Credo?

Claudio
Bellavista
email, 20/08/2014

Onorato
di essere paragonato all’impareggiabile Don Farinella. Per la breve risposta è
bastato l’aiuto di un solido dizionario biblico. Quanto alle altre due
questioni, provo solo ad accennare dei punti di riflessione.

Unità dei cristiani

L’esperienza
della divisione è antica quanto la Chiesa, come documentano le lettere di s.
Paolo e i testi attribuiti a s. Giovanni. Probabilmente il capitolo 17 del
Vangelo di Giovanni, dove Gesù prega per l’unità, è già una rilettura che la
Chiesa, ferita dalle divisioni che esistevano nel suo seno verso la fine del
primo secolo, ha fatto della Parola del Signore per ricordarsi che l’unità non è
frutto semplicemente degli sforzi umani ma è dono di Dio e risposta a una
precisa volontà del Signore.

Nella
situazione attuale la preghiera per l’unità non è fatta perché tutti entrino a
far parte della Chiesa cattolica e le altre Chiese spariscano. Si prega invece
perché tutti ci si converta al progetto di unità come è voluto da Dio.

Non
c’è qualcuno che sia a posto e qualcun altro che debba tornare nell’ovile
(gestito da chi si sente nel giusto). Bene o male un po’ tutti siamo ancora
fuori dell’ovile di Cristo o siamo in viaggio per raggiungerlo in modo definitivo.
L’unità, che è dono di Gesù, è molto di più di quanto si possa realizzare in
questo mondo e richiede conversione da tutti, noi cattolici compresi.

Allo
stesso tempo è importante già qui e ora che tutte le Chiese compiano passi
insieme verso l’unità. Benvenute allora tutte le iniziative di preghiera, di
dialogo e di collaborazione che aiutano a conoscersi meglio, a chiarire vecchi
pregiudizi, ad abbattere incomprensioni accumulate negli anni, ad aumentare il
rispetto reciproco, a lottare insieme per un mondo più giusto, per la pace e la
riconciliazione, e a testimoniare con più verità e umiltà il Vangelo.

L’unità
non è unificazione e appiattimento, ma conversione a Dio, apertura al suo
Regno. Grazie a Dio, nessuna Chiesa, neanche la nostra Cattolica, può dire di
essere al 100% la perfetta realizzazione in terra del progetto di Dio. In
questo cammino ha senso il rispetto e l’accoglienza reciproca delle varie
Chiese anche nelle nazioni dove una Chiesa per secoli ha creduto di avere un
quasi-monopolio. Nessuna Chiesa dovrebbe dire: «Questo pezzo di mondo
appartiene in esclusiva a me». Come in
Italia la Chiesa cattolica accoglie oggi – grazie al nuovo spirito del Concilio
Vaticano II – la presenza della Chiesa ortodossa russa o di altre Chiese, così
anche in Russia c’è ampio spazio per l’azione pastorale e missionaria dei
Cattolici. Questo perché ci sono significative minoranze cattoliche nel paese,
e poi non tutti i russi sono Ortodossi e l’eredità di quasi un secolo di
ateismo comunista ha lasciato ampio spazio per l’annuncio missionario.

Extraterrestri

Dubbio
fantascientifico o fantareligioso. A dir la verità mi sono trovato anch’io a
riflettere su quello che lei scrive, vista l’immensità dell’universo, il numero
delle galassie e la possibilità di tantissimi altri pianeti abitabili come la
Terra (secondo la Nasa sarebbero almeno 40 miliardi solo nella nostra
galassia). Ma, considerate le distanze in milioni di anni luce, dubito che
avremo mai la possibilità di verificare se esistano o meno altri «uomini» o
esseri «razionali». Il mio fantasticare mi ha fatto considerare che, se
esistono, devono essere anche loro «a immagine e somiglianza» di Dio, se
davvero si accetta che Dio è creatore dell’universo. Dovrebbero quindi avere
delle caratteristiche molto simili alle nostre, se non dal punto di vista
fisico, almeno dal punto di vista spirituale: capaci di intendere e volere, di
pensare e creare, di amare e fare scelte nella libertà, di gustare la bellezza
e di giornire, ridere e stare insieme. In ogni caso, non potrebbero essere più «mostri»
di quanto non siamo già noi con i nostri simili! Se poi abbiano fatto o no
l’esperienza del peccato come ribellione a Dio e quella della redenzione per
tornare a Lui… è davvero una pura speculazione che non porta da alcuna parte.

Probabilmente
la risposta a queste domande sarà
una delle sorprese che ci attendono in Paradiso.

Dio e Mammona

Mi permetto una domanda su cui forse avrà già detto,
ridetto e stradetto: «Ma la Chiesa nel corso dei secoli non si è resa complice
di un sistema immorale d’economia, mentre Cristo aveva detto “o Dio o mammona”?».
Probabilmente un san Francesco resta un mito che in pochi sono in grado di
imitare. Anche ai suoi tempi c’è stato chi nella Chiesa ha preferito stare con
il mondo.

Emanuela
email, 15/08/2014

Provo
a essere telegrafico. Molti uomini e donne che si dicono «di chiesa», e anche
ecclesiastici, si sono lasciati corrompere dal denaro nei secoli, a cominciare
dal famoso
Anania degli Atti degli Apostoli (5,1-11). Anche oggi ci sono Cristiani solo di
battesimo che in realtà sono servi del denaro e della ricchezza. Un esempio per
tutti, visto che lo citiamo più avanti (p. 78), è il re Leopoldo II del Belgio,
«buon cattolico», che non si fece scrupolo di sfruttare ignobilmente i
Congolesi. Non è raro poi che uomini di Chiesa, religiosi, preti e vescovi,
siano coinvolti in scandali economici. Il punto è: cosa si intende per Chiesa?
Mi pare troppo facile dire Chiesa e intendere Vaticano o Gerarchia (vescovi),
come se tutti i mali venissero da là, dimenticando che la Chiesa siamo tutti
noi, uomini e donne battezzati. Noi che con le nostre mille contraddizioni,
peccati e fatiche cerchiamo di camminare verso il Cielo, più o meno coscienti
di aver continuamente bisogno di conversione e spesso incapaci di vincere la
tentazione del denaro.

Risponde il Direttore




Cari Missionari

Esistono orfani in Africa?

Ho l’impressione
che si dicano un sacco di esagerazioni sulla vicenda degli orfani che non
vengono fatti partire dal Congo insieme ai genitori adottivi italiani. Per quel
che ne so, non esistono orfani nell’Africa nera, in quanto quando muore il
padre, oppure quando muoiono ambedue i genitori, i bambini non sono
abbandonati, ma vengono adottati dallo «zio», e pure da tutto il clan. Nel 1966
volevo adottare una bambina orfana di tre anni, Hélène, ma lo «zio» si oppose,
pur ringraziando, poiché in Congo non esistevano gli orfani. Ciò è stato
confermato sere fa in un dibattito pubblico a Corridonia da un missionario
della Consolata, da anni in Congo a Kinshasa.

Se le
autorità congolesi si oppongono, oppure ci vanno caute, è perché americani e
canadesi si stanno portando via i bambini congolesi senza alcun controllo. Ciò
sempre secondo quel missionario. Esiste, allora, una «tratta» dei bambini
congolesi, fatti passare per «orfani» da una organizzazione missionaria o
laica, o da burocrati governativi? Quanto è costato ai futuri genitori italiani
adottare un bambino congolese?

I bambini sono una ricchezza per l’Africa nera e in tale
maniera vengono considerati da quelle popolazioni. In questo caso gli Africani
si dimostrano più civili e umani di noi Occidentali.

Certe cose il ministro Kyenge dovrebbe
conoscerle; a meno che, stando nel mondo civilizzato, abbia dimenticato come la
pensano dalle sue parti.

Giorgio Rapanelli
Corridonia (Mc), 1/1/2014

Premesso che provo grande empatia e dispiacere per le coppie che si
trovano bloccate con le loro     
adozioni in Congo, anche perché ho avuto modo di vederle e sentire la
loro situazione. E che nell’incontro tenutosi a Corridonia, a cui fa
riferimento l’amico Giorgio, si è parlato di altri temi, e solo di sfuggita di
adozioni. Voglio qui condividere alcuni punti che ritengo importanti come
contributo alla riflessione:

1. È vero, almeno secondo la mia esperienza, che nella cultura africana è
inconcepibile affidare un bambino orfano a estranei, perché esiste la realtà
della famiglia
allargata, per cui
anche il parente più lontano ha una serie di diritti/doveri sul bambino, tanto
da rendere praticamente impossibile, per qualsiasi tribunale, dichiarare
l’adottabilità di un minore senza suscitare forte malcontento nella famiglia.
Purtroppo, a causa della povertà e delle guerre che assediano l’Africa, oggi
assistiamo anche a delle degenerazioni della questione, per cui c’è il caso, ad
esempio, degli orfani di guerra e dei bambini-stregoni. In quest’ultimo caso
essi sono considerati dei veri e propri rifiuti da parte delle famiglie che
addossano ai bambini tutte le colpe della loro triste situazione.

2. Le adozioni inteazionali sono disciplinate dalla Convenzione dell’Aja, cui hanno aderito quasi tutti gli stati
del mondo tranne quelli africani e musulmani. Anche il Congo non ha
sottoscritto tale convenzione e non ha neppure un trattato bilaterale con
l’Italia in merito. Perciò le poche pratiche che si fanno in Congo dipendono
dai giudici locali che cercano più di spillare soldi che di aiutare e sistemare
i bambini. L’ideale sarebbe sempre che uno possa fiorire dove è stato seminato.
Anche la Convenzione
dell’Aja vede
l’adozione come una scelta estrema e sostiene la volontà di garantire al
bambino la possibilità di rimanere nel suo mondo culturale. Un’associazione che
coinvolga una coppia nell’adozione di un bambino in uno stato che non abbia
aderito alla Convenzione
dell’Aja o che
non abbia sottoscritto un trattato bilaterale compie un atto temerario, assai
rischioso sia per i bambini che per gli aspiranti genitori. Non ci si dovrebbe
fidare facilmente.

3. Inoltre, per finire, l’intervento del governo Congolese, non è
direttamente contro le coppie italiane. è
dovuto al fatto che vogliono vederci chiaro su una situazione critica da anni
che ha favorito il commercio dei bambini da parte di funzionari, compagnie e
associazioni senza scrupoli. Per una volta che un governo si assume le sue
responsabilità lo facciamo passare come antiumano e crudele.

Grazie, auguri e buona riflessione! Coraggio e avanti in Domino!

P. Stefano
Camerlengo
Roma 09/01/2014

 

Caro Signor Giorgio,
ho scomodato il nostro padre generale per questa risposta, perché ha avuto una
lunga esperienza in Congo ed è anche suo compaesano. Da parte mia posso solo
aggiungere che la situazione degli orfani in Africa si è aggravata, oltre che
per le ragioni sopra riportate – povertà, guerre e malattie -, paradossalmente
anche grazie agli effetti positivi di quello che impropriamente chiamiamo
sviluppo: miglioramento degli standard di vita, diminuzione della mortalità
infantile e scolarizzazione. Un tempo, nella società pastorale o agricola, un
orfano era sì una bocca in più da sfamare, ma ben presto diventava anche un
soggetto che poteva contribuire alla vita della famiglia e del clan attraverso
il lavoro nei campi o nella cura del bestiame. Ora invece moltissime famiglie
sono impoverite, vivono nelle periferie delle grandi città senza campi né
bestiame; in più i bambini devono essere mandati a scuola. E la scuola non è
gratuita, ma costa, e tanto. E in città il cibo è caro, non si raccoglie nel
campo, si compra. E non bastano più le medicine tradizionali quando uno è
malato, le medicine si pagano. Per questo, nonostante la grande solidità della
famiglia allargata africana, gli orfani aumentano.

Oltre all’adozione vera e propria, che è una delle
risposte a questi problemi, c’è anche un altro modo di aiutare: l’adozione (o,
meglio, il sostegno) a distanza o a progetto, che permette ai bambini di
restare nel loro ambiente e aiuta una comunità a prendersi cura dei propri
figli.

Noi come missionari, da oltre un secolo stiamo seguendo
questa strada, per altro proposta oggi da tantissime organizzazioni, alcune
molto serie, altre anche fraudolente. Il dramma degli orfani è così grave da
esigere la collaborazione di tutti, senza sterili polemiche.

 
Verità sulla Siria

Se Natale è la festa della luce che scaccia le tenebre e
della verità che sconfigge la menzogna, quindi anche la cattiva informazione,
un regalo migliore dell’articolo sulla Siria, pubblicato proprio nel mese di
dicembre, non potevate farcelo.

Mi sembra superfluo aggiungere che condivido le critiche
da voi fatte ai grandi mezzi di comunicazione. Anche la nostra Rai, che molti
definiscono la maggiore industria culturale italiana, con pochissimi eguali in
Europa, poteva fare di più e di meglio: quella che ci ha raccontato finora
sulla Siria è una storia che lascia un po’ a desiderare. Eppure proprio la Rai,
con l’enfasi data a certi grandi eventi come la Fiera Aeronautica di Dubai di
metà novembre, ha confermato quanto pesino Arabia Saudita, Emirati Arabi e
Qatar nello scacchiere globale e quali ripercussioni abbiano le loro mosse
sull’economia, sulla finanza e, di riflesso, sulla politica.

Sono proprio i paesi arabi del Golfo, quegli stessi che
voi giustamente avete indicato come responsabili della catastrofe siriana, a
comprare le grandi società di calcio, a dare lavoro alle grandi imprese
dell’edilizia e dell’arredo, a ospitare i Gran Premi di Formula Uno, ad
acquistare compagnie aeree o parti di esse, e soprattutto a dare sbocchi di
mercato altrimenti introvabili ai grandi e costosissimi (anche in termini di
impronta ecologica e impatto ambientale…) consorzi dell’industria aeronautica
– l’americano Boeing e l’europeo Airbus -, dei quali è partner, specie per quel
che riguarda la realizzazione delle fusoliere, la nostra Alenia Aeronautica.

Quando, in appena due giorni, tre compagnie aeree arabe
riescono, da sole, ad acquistare duecento grandi aerei, tra cui i Boeing 787
Dreamliner («aereo dei sogni»…) e Airbus 380, facendo finire nelle casse di
Seattle, Tolosa, Amburgo, Londra, Madrid, Grottaglie e Nola la bellezza di
cento miliardi di dollari, possiamo farci un’idea di quale sia il potere
contrattuale degli Arabi e del grado di dipendenza del Pil mondiale dallo
shopping degli sceicchi. Possiamo farci un’idea però anche di quanto sia
urgente procedere a una drastica correzione dell’attuale modello di sviluppo,
affinché quello con gli Arabi non diventi un abbraccio mortale, per noi e per
loro.

La pace non può non essere il primo degli obbiettivi e il
primo dei sogni di paesi che si dicono civili, democratici, evoluti,
progrediti: pazienza se questo significherà qualche affare in meno con i
nababbi del Golfo Persico, pazienza se ci sarà qualche punto di Pil in meno e
qualche mugugno in più di industriali e sindacati.

Se poi anche Papa Francesco dice che «la pace è
artigianale» e quindi né industriale, né petrolchimica, né avionica, né
imprenditorial-finanziaria, né agrobusiness… Buon Natale e Buon Anno.

Francesco Rondina
Fano, 25/12/2013

L’età di Gesù

Alle pagine 30-32 della rivista del dicembre scorso ho
letto con grande interesse l’articolo di don Paolo Farinella. Ho una domanda:
che età poteva avere il Cristo quando è morto? Là trovo scritto 36 anni circa,
mentre ci hanno sempre insegnato che ne aveva 33. Posso contare su una risposta
sia pur telegrafica? Grazie

cav. Sergio
Gentilini
Roveredo in Piano (Pn)

A che età è
morto Gesù? A 33 anni o a 36? La questione è dibattuta da due mila anni e ancor
a oggi non ne veniamo a capo. Si possono solo fare ipotesi con i pochi dati che
abbiamo a disposizione. Non sappiamo quando Gesù sia nato perché la data del 25
dicembre è puramente convenzionale, come spiegammo nel numero di MC di
dicembre. Sappiamo che nel redigere un computo temporale Dionigi l’Aeropagita
fece un errore di calcolo, in base al quale considerò l’«anno 0» come data di
nascita, mentre oggi sappiamo, e tutti gli studi lo confermano, che Gesù nacque
tra il 7 e il 5 a.C. Ma cambiare il calendario, spostandolo indietro sarebbe
un’impresa ormai impossibile. Le notizie che abbiamo dai Vangeli e da altre
fonti non sono decisive a riguardo. I Vangeli affermano che Gesù morì un venerdì
sera antecedente la Pasqua ebraica, la quale cade nel mese di Nisan,
corrispondente al nostro metà marzo, metà aprile (dipende dalla luna). Per gli
Ebrei, il giorno comincia al tramonto del sole del giorno prima, quindi venerdì
sera, dopo il tramonto è già il giorno Sabato. Per Mc, Mt e Lc (Vangeli
sinottici), infatti, Gesù morì il giorno di Pasqua (Pesach, il sabato 15 del
mese di Nisan), mentre per Giovanni la morte sarebbe avvenuta la vigilia del
Sabato, cioè prima del tramonto. Lo scopo di Giovanni è fare coincidere la
morte di Gesù con l’ora (le ore 16,00) del sacrificio nel tempio di Gerusalemme
per presentare Gesù come «Agnello di Dio» sgozzato sulla croce.

Da tutta una serie di computi, confronti e studi, le date possibili
sono tre: il 7 aprile dell’anno 30, oppure il 27 aprile dell’anno successivo o
il 3 aprile dell’anno 33. Sia i Vangeli che lo storico ebreo Giuseppe Flavio ci
dicono che Gesù morì durante l’amministrazione del procuratore romano Ponzio
Pilato che gli studiosi fissano tra il 26 e il 36 dC. I Vangeli dal canto loro
aggiungono che Gesù fu condannato a morte durante il sommo sacerdozio di Caifa,
che era manovrato dal suocero Anna (a sua volta ex sommo sacerdote). Il
pontificato di Caifa si colloca tra l’anno 18 e il 36 dC, in concomitanza con
il procuratore Ponzio Pilato. Secondo Lc, Pilato per un atto politico inviò Gesù
a Erode Antipa che regnò per conto dei Romani sulla Galilea tra il 4 aC e il 39
dC. Da tutta questa ubriacatura di date, di anni e di nomi, la conclusione è
che la morte di Gesù deve essere avvenuta tra il 26 e il 36, logicamente dC. Se
fosse stato l’anno 26, tenuto conto che è nato circa 6 anni prima di quanto
crediamo noi, sarebbe morto all’età di 32/33 anni circa; se invece fosse stato
l’anno 36, tenuto conto dello stesso motivo, Gesù sarebbe morto dieci anni
dopo.

Come si vede
non possiamo chiedere ai Vangeli una «precisione» cronologica che non possono
darci, perché il loro scopo è catechetico e teologico, non storico (come
intendiamo noi questa valenza). Noi sappiamo che i primi cristiani hanno identificato
Gesù con Isacco, il figlio di Abramo che stava per essere sacrificato dal padre
sul monte Moria. Secondo la tradizione ebraica, Isacco incitava il padre a
compiere fino in fondo il suo dovere di obbedienza a Dio e quindi si offrì
liberamente al sacrificio. La stessa tradizione parla di Isacco «legato» alla
legna come Gesù fu «legato/inchiodato» alla croce. Poiché si suppone che
l’episodio del sacrificio d’Isacco sia avvenuto quando questi aveva 36 anni,
applicando a Gesù un’età simile, non si è lontani dalla realtà perché si resta
perfettamente tra i 32/33 anni e i 42/43. Ciò che conta per i Vangeli è che Gesù
nacque, visse e morì, offrendo la sua vita in dono e senza chiedere in cambio
nulla. Sì, tutta la sua vita fu un atto permanente di amore a perdere.

Paolo Farinella


Un brindisi
a padre Egidio (Crema)

In data 2 Gennaio 2014 padre Egidio Crema ha festeggiato
il suo 90esimo compleanno qui al Consolata Hospital di Ikonda dove si trova
ospitato. Vi inviamo due fotografie della cena conviviale a cui hanno
partecipato padre Sandro Nava, la dottoressa Manuela, la dottoressa Virginia
Quaresima, il dottor Gianpaolo Zara, il dottor Giuseppe Vasta e la sua badante
Rosy. Sarebbe bello che queste foto fossero pubblicate
per rendere onore a un missionario che dal
1950 ha lavorato in Tanzania e ora si è ritirato al Consolata Hospital che
funge anche da casa di riposo e cure per i missionari anziani e ammalati in
Tanzania.

Un saluto cordiale.

p. Sandro Nava e dott.ssa Manuela Buzzi
Ikonda, Tanzania

Risponde il Direttore




La cittadella della salute

Una cardiologa all’ospedale di Ikonda

L’ospedale di Ikonda  è una delle opere più care ai missionari della Consolata in Tanzania.
Ad esso hanno dedicato passione e competenza molti missionari e missionarie della Consolata e tantissimi volontari da ogni parte d’Italia, e non solo. Anna Gennari, cardiologa, è una di questi volontari. Scopriamo l’ospedale con i suoi occhi.

La prima impressione che ho provato arrivando all’ospedale di Ikonda è stata di meraviglia: nonostante avessi parlato con diversi medici che erano già stati là e avessi visto la documentazione  fotografica non ero davvero  preparata a quello che ho trovato. Dopo due giorni di viaggio, in mezzo a una regione bellissima, ma poverissima, che vive di agricoltura di sussistenza e un lungo percorso su una strada sterrata attraverso villaggi privi di acqua ed energia elettrica, davanti ai miei occhi è apparsa una struttura nuova, perfettamente curata e pulita con prati verdi, piante e fiori e vialetti di ghiaia. Al nostro arrivo ci riceve Padre Sandro Nava, anima e amministratore dell’ospedale, con una piccola festa di benvenuto.
L’ospedale, una struttura bianca ad un piano, è nuovissimo e perfetto sia come costruzione che come manutenzione; ha 270 letti per i ricoverati che, in certi periodi, possono diventare anche più di 300! All’ingresso un servizio di accettazione, svolto dalle infermiere che effettuano un primo triage (smistamento/selezione), e  controllano frequenza cardiaca, pressione arteriosa e temperatura di tutti i pazienti, che così vengono smistati ai vari ambulatori. Anche nei momenti di maggiore affluenza (i pazienti arrivano spesso a gruppi con i pulmini di pubblico servizio e, ovviamente, senza prenotare) questo lavoro si svolge con code ordinate di persone tranquille ed educate.
con gli occhi dell’ospite
Il giorno stesso del mio arrivo sono condotta a fare un giro di tutto l’ospedale dalla dott. Manuela Buzzi, che tutti chiamano familiarmente Manu, vero pilastro dell’organizzazione. Come farmacista ella svolge il lavoro di approvvigionamento di tutti i farmaci e i materiali di consumo e li smista quotidianamente alla farmacia intea e ai vari reparti secondo le esigenze. Questo lavoro già molto impegnativo è reso più difficile da diversi problemi: la lontananza dalla fonte di approvvigionamento che è, per quasi tutto, Dar es Salaam, le pessima condizioni delle strade soprattutto nella stagione delle piogge e la precarietà organizzativa dei distributori centrali che a volte rimangono sprovvisti di farmaci o ne danno in quantità inferiore alle richieste e anche alle promesse! Si rende perciò necessario fare delle scorte a lungo termine prevedendo i consumi. Il miracolo è che non manca quasi mai niente e poiché questo è ormai risaputo dalla popolazione, chi ha bisogno di un farmaco particolare chiede all’ospedale di Ikonda invece che a Dar es Salaam!
Visito così tutti i reparti di degenza: la pediatria, la mateità, la medicina e la chirurgia per donne e uomini, le malattie infettive. Le camere, grandi a tre letti, sono separate dai bagni con acqua corrente calda e fredda (a Ikonda, durante i mesi invernali – da giugno ad agosto – fa proprio freddo, con delle belle brinate). C’è persino un reparto a pagamento con camere singole per chi se lo può permettere. Completano il tutto il blocco operatorio con due sale ben attrezzate, la grande farmacia e il laboratorio di analisi. Due corridoi sono riservati agli ambulatori, radiologia ed ecografia. All’esterno dell’edificio principale ci sono l’ambulatorio per i malati di AIDS e tutti i servizi: la lavanderia e stireria, alla centrale termica, la centrale elettrica, la produzione dell’ossigeno, la casa dei missionari della Consolata, quelle degli infermieri, dei volontari e delle suore, l’asilo, i magazzini. Appena fuori dai cancelli dell’ospedale ci sono un ostello per le gestanti che vi sono accolte se provengono da molto lontano, e un grande un edificio per alloggiare i parenti dei ricoverati che devono provvedere il cibo per i rispettivi congiunti degenti. Una piccola città insomma dove la vita scorre tranquilla e organizzata.

Subito al lavoro
Il primo giorno, durante la riunione del mattino alle 8 precise, ci sono le presentazioni e sono introdotta ai vari colleghi, medical officers e infermieri capi dei vari reparti e …inizio il mio lavoro vero e proprio. L’ambulatorio di Cardiologia ha già molte richieste perché del mio arrivo ha dato notizia anche il parroco del villaggio di Ikonda durante la messa della domenica, e perché altri tre colleghi mi hanno preceduto in questo lavoro. Mi affianca il dott. Abdon, tanzaniano, che ha già preso confidenza con i problemi di diagnosi e terapia dell’ipertensione, dello scompenso cardiaco, ce delle valvulopatie e inizia a familiarizzarsi con elettrocardiogramma ed ecografia, ma ha soprattutto un buon modo di parlare con i pazienti (ovviamente in kiswahili) ai quali traduce anche mie eventuali domande. Come tutte le persone che ho conosciuto durante il mio soggiorno a Ikonda è tranquillo e gentile in modo spontaneo, ciò che ha reso più facile il mio lavoro.
Durante la mattina, visitiamo un gran numero di persone, richiedendo, per alcune, esami supplementari (raggi-x, esami di laboratorio, …). Queste aspettano quindi di essere riviste se possibile nel pomeriggio, a volte anche il giorno dopo! Il problema del tempo è vissuto in un modo decisamente meno stressante che nel mondo occidentale. La difficoltà maggiore, soprattutto all’inizio, è affrontare delle patologie già avanzate senza documentazione di precedenti visite o esami: in effetti il ricorso all’ospedale è spesso visto come rimedio estremo di situazioni già molto gravi o per altri versi non rimediabili.
Il lavoro, specie nei primi giorni è stato intenso, ma sempre tranquillo perché a Ikonda si impara presto a non essere assillati dal tempo: si fa tutto con la necessaria calma e alla fine della giornata si trova sempre il tempo per fare una passeggiatina nei dintorni, per leggere un libro, ricevere e scrivere qualche e-mail o preparare qualche utile aggioamento di cardiologia per il personale locale che ne ha fatto specifica richiesta. La vita ad Ikonda trascorre serena, scandita dagli orari dei pasti che si consumano con i missionari e gli altri volontari che prestano la loro opera in ospedale. Dopo cena un appuntamento con le informazioni dall’Italia tramite la TV satellitare e poi una passeggiatina fino a casa sotto il magnifico cielo stellato dell’Africa .

La clinica mobile
Una mattina sono uscita con la clinica mobile: una fuoristrada con due infermiere che ogni giorno del mese visita un diverso villaggio della regione per un controllo dei bambini fino a cinque anni di età e delle loro mamme. Il viaggio, su strade sterrate piuttosto accidentate, richiede da una a due ore. Nel villaggio di tuo visitato si radunano tutte le mamme con i loro bambini che sono visti e pesati, mentre le mamme, riunite poi in un locale-consultorio, ricevono indicazioni sull’alimentazione e l’igiene. I nati da donne sieropositive sono seguiti secondo un preciso protocollo di controlli e sono registrati in un apposito libro. Il legame tra l’ospedale e le esigenze della popolazione è molto stretto, e il servizio sanitario offerto non viene somministrato dall’alto, ma è partecipato e apprezzato da tutta la popolazione. Durante la clinica l’atmosfera è serena e festosa: le mamme chiacchierano mentre i bambini giocano tutt’intorno.
Vi voglio raccontare un piccolo episodio che aiuta a capire la situazione: un pomeriggio, guidati dalla Dott. Manuela, siamo andati a visitare l’ospedale Regionale di Machete, organizzato e finanziato dal governo Tanzaniano, a circa 1 ora e mezza di strada. La sensazione è stata quella di abbandono e degrado, con pochissimi ricoverati di cui quattro puerpere. Chiediamo di fotografarle e loro acconsentono, ma chiedono di avere una copia della foto. Manuela dice: “Certo, ma dovete venire a prenderla a Ikonda” e una di loro: “Verrò la prima volta che sono ammalata!”.
La Tanzania gode di una situazione politica stabile e senza guerre da molti anni e la popolazione ha un atteggiamento veramente riconoscente nei riguardi di tutti coloro che si prodigano per la loro salute; un misto di gentilezza, rispetto e riconoscenza che rende più lieve il compito di fare i medici e più difficile il momento del commiato… molti (volontari) infatti tornano perché lasciano là un pezzetto di cuore.

Anna Gennari

Anna Gennari




Cari missionari

Ospedale di Wamba
Dopo 40 anni di missione, il medico Silvio Prandoni ha lasciato Wamba e aperto una Casa Famiglia a Mombasa. La diocesi di Maralal è una delle più povere del Kenya e l’attuale vescovo Virgilio Pante – missionario della Consolata – chiede aiuto agli Amici di Wamba per far quadrare i conti dell’ospedale. Con il dott. Prandoni noi abbiamo «fatto miracoli per 40 anni»… Salvo errore, l’Istituto Missioni Consolata finora non ha sostenuto finanziariamente il peso di questa opera grandiosa che versa in gravi difficoltà economiche. In Tanzania gli «Amici di Consolata Ikonda Hospital» affiancano l’Istituto Missioni Consolata di Torino nel sostegno finanziario di quest’opera grandiosa! Con la massima stima.
Associazione
 Amici di Wamba

L’ospedale di Wamba sta a cuore a tutti proprio per il prezioso e insostituibile servizio che offre alle popolazioni dell’area. Su questa rivista ne abbiamo parlato molte volte (non ultima, nel numero di settembre 2010), perché siamo molto vicini a quell’ospedale, anche se – a differenza di quello di Ikonda – non appartiene ai Missionari della Consolata, ma alla diocesi di Maralal. Ne conosco personalmente la qualità e il servizio, non solo perché vi sono stato curato all’inizio della mia esperienza missionaria, ma anche perché vi ho mandato innumerevoli pazienti sempre trattati con grande competenza e amore. Quanto al sostegno, l’Istituto ha sempre dato quanto ha potuto senza fae pubblicità, pur non avendone responsabilità diretta e senza tener conto di quanto i suoi missionari (che pure sono Istituto) hanno fatto (anche solo saldando i conti di molti, moltissimi pazienti insolventi). Gestire un ospedale non è facile, tanto più in Africa, e ancor più in un’area come il distretto Samburu. C’è bisogno di almeno mezzo milione di euro ogni anno. Per questo non servono le polemiche, ma, come ha scritto in una lettera a tutti gli amici dell’ospedale il vescovo mons. Virgilio Pante di Maralal, diretto responsabile e proprietario, occorre «lavorate con gioia e stima reciproca, evitando critiche, confronti, affermazioni inesatte, per non cadere nel protagonismo o forme di gelosie. Sottolineo questa ultima frase, anche se forte … L’ospedale deve continuare e non guardare indietro con rimpianti».
I bisogni sono tanti e c’è spazio per la collaborazione di tutti, rallegrandosi di trovare tante persone diverse e solidali in uno stesso progetto.

Un santino per
Siamo due genitori, molto rassegnati e preoccupati, con una figlia di 7 anni; simpatica, carina e vivace ma affetta da distrofia muscolare grave. Chiediamo un piacere per accontentarla: possiamo avere per posta, qualche santino con immagine sacra del Beato Giuseppe Allamano e della Ss.ma Vergine Consolata. Ne sarebbe tanto, ma tanto contenta. Che tristezza e che sofferenza dà il vedere nostra figlia ridotta in questo stato. Le amichette vengono a trovarla, lei si diverte ed è felice. A sera, dopo cena, prima di portarla a letto, preghiamo insieme la Beata Vergine, che la possa aiutare, consolare e guarire. Lo desideriamo tanto. Qualche volta la vediamo piangere, agitarsi nel sonno per i dolori allucinanti che ha alle deboli e fragili gambe.
In attesa, vi ringraziamo; perdonateci il disturbo. Porgiamo con affetto i nostri saluti. Ciao!
Paolo e Ada Turchetto
 Jesolo (VE)

La vostra sofferenza è la nostra, come nostra è la vostra speranza. Vi abbiamo mandato tutte le immagini a nostra disposizione, ma vi assicuriamo soprattutto la nostra vicinanza nella preghiera, sicuri che anche i lettori faranno catena di preghiera e amore con voi per la vostra piccola.

Missionari
e soldi

Caro Direttore,
mi sono portato sulla spiaggia il numero di luglio-agosto della sua rivista e ho letto con attenzione la lettera del signor Di Cosimo e la risposta che lei ha dato. Entrambe mi sono piaciute. Queste sono le lettere che mi piacciono e le risposte che fanno pensare. Aggiungerei che siete sempre contro Israele, ma non conoscendo bene la materia mi astengo da giudizi. Quello che desidero dirle è che mi sento sempre meno unito alla chiesa cattolica. Il fatto è che non esce uno scandalo finanziario nel quale non sia coinvolto sempre un qualche monsignore. Ne ho l’anima piena!
E perché lo dico a lei, aggiungendole magari un peso sullo stomaco invece che una soddisfazione? Perché voi missionari siete l’ultima frontiera della stima che ho per la chiesa cattolica. Dopo, il nulla. è per questo che ho provato veramente un senso di schifo quando ho conosciuto la vicenda del costruttore Anemone e dei suoi soci in imbrogli, tra i quali un certo padre bancomat, in quanto teneva nella sua cassaforte quattro milioni di euro in contanti, non ho capito se per attuare corruzioni oppure per trafficare questi soldi in vista di utili. Cosa vengo a scoprire? Che appartiene ad un ordine missionario come il vostro. […] Io spero tanto che voi Missionari della Consolata siate diversi, ma perché non indicate come impiegate i soldi di cui alla pagina dove sono descritte le forme di aiuto che vi si possono dare (cf. pag. 67, ndr)? I lasciti, siano essi appartamenti, ville, castelli, sottoscala, come li utilizzate? Sarebbe bello poterlo sapere e sicuramente vi farebbe onore, poiché non vi reputo disonesti e perché, come le ho detto in apertura, voi Missionari siete l’ultima linea di trincea che mi tiene ancora legato a questa chiesa dalla quale un disamore costante e progressivo mi allontana.
Con affetto. Sentivo proprio il bisogno di sfogarmi!
Alfredo Nagorìa
Torino

Ho omesso un bel pezzo della sua lettera, ma l’idea è chiara. Chi le risponde ora non è lo stesso direttore di allora, ma siamo in continuità. Commento qui solo sul tema soldi. Dall’inizio della Chiesa i soldi sono stati un fattore di rischio e corruzione. Anania e Saffira negli Atti degli Apostoli, sono il primo esempio. I più grandi monasteri hanno cominciato il loro declino quando sono diventati troppo ricchi. L’Allamano, nostro fondatore, ha sempre insistito che i suoi missionari fossero «canali e non conche» per quanto riguarda i soldi. Ma quante tentazioni!
Penso alla sofferenza dei confratelli di padre bancomat, messi alla gogna con lui. Ho visto con i miei occhi le loro bellissime missioni in Tanzania, prova che i soldi dei benefattori arrivavano a destinazione e che forse padre bancomat si è fatto prendere la mano proprio per amore delle missioni. Ho conosciuto missionari che si sono lasciati ingannare e strumentalizzare da presunti benefattori nella speranza di avere le somme necessarie per un ospedale, una scuola, una chiesa. Ingannati e usati in buona fede! E di falsi benefattori è pieno il mondo missionario. Approfittano del bisogno, della reale povertà, delle difficoltà che i missionari affrontano per far quadrare i conti, e, a volte, anche della loro inesperienza. La speranza di avere grosse somme risolutive da grandi benefattori è come la tentazione di giocare al lotto. Se vincessi i milioni del superenalotto, avrei già in mente una lista infinita di emergenze da risolvere e di bene da fare. Ma, mi viene un dubbio: se poi la tentazione (del potere dei soldi!) fosse troppo grande? Forse è meglio continuare ad arrancare con i 2, 5, 10 o 50 euro che i benefattori normali mandano con fedeltà e amore pur nelle loro difficoltà.
Dare conto sulla rivista di come spendiamo i soldi che riceviamo. Fin dalla sua fondazione questa rivista portava la lista delle offerte ricevute. Poi, negli anni ‘90, si è dovuto rinunciare a quell’informazione per le troppe complicazioni che insorgevano. Quello che le posso dire è questo: tutte le offerte che riceviamo vengono versate integralmente al missionario indicato, senza neppure caricare le spese che i nostri uffici si sobbarcano come personale, rivista, spese postali e/o bancarie – è per questo motivo che abbiamo cominciato a suggerire 5 euro extra per la rivista e spese postali!
Lasciti o altre donazioni (il cui fine non viene specificato) servono per la vita stessa dell’istituto: formazione di nuovi missionari, cure dei malati, assistenza agli anziani (che sono sempre di più), gestione di tutte le attività necessarie ad un’istituzione complessa come la nostra. Il bilancio dell’istituto è strettamente monitorato e, adempiuti gli obblighi di legge civile e canonica, non si può capitalizzare. L’utile di ogni anno (magro in questi anni di crisi) viene ridistribuito alle varie regioni dell’istituto per progetti specifici: fame, sviluppo, ospedali, scuole, progetti di riconciliazione e pace, giovani, rifugiati, catechesi, chiese …
Le assicuro che se noi avessimo attività apostoliche in Italia invece che nelle aree più povere del mondo, non avremmo bisogno di chiedere continuamente soldi ai nostri benefattori e potremmo vivere del nostro ministero. È l’amore per la gente, per i poveri, i piccoli e gli emarginati di questo mondo che ci rende mendicanti. È vero che qui in Italia oggi ci troviamo a vivere in grandi strutture nate in altri tempi, che danno un’impressione di ricchezza. I rapidi cambiamenti di questi anni, la diminuzione delle vocazioni (in Europa) e l’invecchiamento del personale, hanno costretto anche gli istituti missionari a prendere decisioni, a volte confuse, contraddittorie e non oculate. E poi non è così facile disfarsi di edifici carichi di storia. Per avere la certezza che i soldi mandati in missione non sono finiti nelle sue tasche, basterebbe andare ad accogliere un missionario che rientra dalla missione dopo 20/30/50/ 60 anni di servizio e vedere cosa si porta a casa: non un container (come fanno gli impiegati delle ambasciate o delle grandi compagnie), ma una sola valigia (perché ormai non ha più la forza di portae due) con pochi indumenti e tanti ricordi. E spesso, dalle sue mani sono passati miliardi per i poveri del mondo.
Certo, ci sono casi di cattivo uso del denaro da parte di missionari. Il denaro può essere come una droga e ha il potere di corrompere. Ma un caso, dieci casi non dovrebbero scoraggiare e indurre a generalizzare. Molti dei nostri lettori hanno visto con i loro occhi cosa han fatto i missionari con i soldi ricevuti dai benefattori e questo dovrebbe bastare a togliere i dubbi o almeno a non accusare tutta la categoria quando succedono degli scandali. D’altra parte, va considerato che neppure i missionari si stancano di benefattori che mandano uno e poi spendono tre per andare a vedere se il loro uno è stato speso bene. E neppure cacciano fuori di casa chi va a trovarli e sta due mesi a sbafo, (trasporto e traduzioni comprese) sempre a causa di quell’uno donato una volta.

Sbilanciati?

Egregio Direttore, Caro Dio (esageròma nen),
noto che ogni tanto qualche lettore, come il sig. Di Cosimo, si lamenta del vostro «fare politica», ossia schierarvi a sinistra. Ciò non dovrebbe stupire, chi ha un po’ di memoria e nozioni storiche sa che il grande dono divino dei sacerdoti e missionari è condizionato dallo «zeigest», lo spirito del tempo; per cui, in epoca risorgimentale alcuni preti progressisti combatterono in armi a fianco dell’esercito piemontese contro l’impero austroungarico, sotto il fascismo altri religiosi rivoluzionari fecero in talare il saluto romano, altri ancora inquieti seminaristi, a Rivoli nel «formidabile ‘68», accolsero il card. Pellegrino in visita al grido di «Mao Tze Tung» per poi diventare preti operai.
è difficile riempire un mensile di cose interessanti e voi, pur non dicendo tutta la verità, ve la cavate egregiamente. Non ho mai letto però quanto sia pesato nel mancato o ritardato sviluppo democratico del II e III mondo l’influenza nefasta del comunismo sovietico, che durante la guerra fredda combatteva con ogni mezzo per esportare la rivoluzione violenta sovvenzionando e incitando le masse povere. Avete parole di condanna per Israele, ma non per Hamas, organizzazione terroristica, che nel suo statuto dichiara di volere la distruzione fisica dello stato ebraico. Non dite nulla sull’Egitto che anch’esso blocca il suo tratto di frontiera con la striscia di Gaza da cui potrebbero transitare gli aiuti per i palestinesi, giunti con le mani semipacifiche. Tenete una rubrica con un titolo da religione animista primordiale «nostra madre terra», ma la terra è stata creata da Dio per l’uomo non perché gli fosse madre (c’è già la Consolata), ma come un dono prezioso da sfruttare al meglio. Vi opponete al nucleare facendo leva sulla paura provocata dall’insicurezza, ma nessuna fonte energetica è sicura e non inquinante, si tratta di scegliere con la testa e non con i sentimenti. Infine permettetemi un piccolo aneddoto su s. Giovanni Bosco, coevo dell’Allamano, a chi gli chiedeva come mai non prendesse posizione in quei tempi pericolosi e mutevoli che visse, rispose che attuava la politica del Padre Nostro. Sante parole.
Vittorio Mortarotti
 Savigliano (CN)

Quando il mio predecessore scrisse che «Dio rimane il vero direttore editoriale» non voleva certo garantirsi il marchio dell’infallibilità o darsi un’autorevolezza indebita. Ricordava solo che questa rivista non è una rivista di politica né di economia né di sociologia, né di destra né di sinistra, ma una rivista diretta da missionari che cercano di avere l’amore di Dio al centro della loro vita, del loro interesse e del loro modo di vedere la storia. Non potremmo fare diversamente: Dio deve essere al centro. Ma proprio per questo vediamo la realtà da sbilanciati verso i poveri, i deboli, gli emarginati e gli oppressi, dovunque essi siano. E diventiamo allergici a ingiustizie e bugie.
A rischio di antisemitismo? è vero che come rivista, Angela Lano in testa, siamo sulla lista nera di siti sionisti, ma scrivere della situazione degli ordinari palestinesi discriminati e oppressi e resi prigionieri di una situazione che ha rafforzato gli estremisti di Hamas e si trascina ormai da troppi anni, non è esaltare Hamas. ed essere tristi ed anche delusi perché uno stato di diritto come Israele si comporta come si comporta lasciandosi ricattare dai suoi estremisti, non è essere antisionisti. Quando Israele è nato, ci aveva fatto sognare cose ben diverse da quelle che vediamo oggi. Ricorda il film Exodus? Ma tra quello e il muro che oggi taglia e divide la Terra Santa ci sono anni luce. Intanto la gente normale soffre e gli estremismi prosperano nell’impotenza (o calcolo?) internazionale.
Lei, signor Vittorio, menziona poi diversi altri sbilanciamenti di cui noi saremmo colpevoli. Circa il non aver mai parlato contro i danni del comunismo, il mio predecessore, p. Gabriele Soldati, con cui ho lavorato agli inizi degli anni ‘80, si rivolterebbe nella tomba, lui che era un anticomunista militante.
La rubrica «nostra madre terra». Legga questa citazione: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, | la quale ne sustenta et governa, | et produce diversi fructi con coloriti flori et herba». L’autore è al di sopra di ogni sospetto: san Francesco.
Esprimere dubbi sul nucleare è legittimo, e non sponsorizziamo acriticamente altre fonti alternative, soprattutto quando corrono il rischio di finire nelle mani di enti che hanno solo fine di lucro e sono fuori dal controllo della gente comune (come si vuol fare con l’acqua).

Come una
goccia

Egregio Direttore,
sono un vostro “vecchio” lettore. Mi permetto di scriverVi per dirVi che l’articolo “Come una goccia di rugiada” (del Settembre 2010) è stato bello, uno dei più emozionanti che mi possa ricordare. Le scuole italiane dovrebbero adottarlo… Ancora grazie per il vostro lavoro.
Alfio T.
Cervia (Ra)