Foresta pluviale e fiumi, ma anche 2,5 milioni di specie animali, 40mila specie floreali, almeno 375 popoli indigeni e 35 milioni di persone che vivono in aree rurali e urbane. Questa è l’Amazzonia che nove paesi del Sud America hanno la fortuna e l’onere di condividere.
Un mondo in pericolo. Anzi, secondo gli scienziati molto vicino a un punto di non ritorno. Per parlare di questo dal di dentro, nel 2001 è stato creato il Foro social panamazonico (Fospa), che dal 12 al 15 giugno si è riunito per l’undicesima volta, quest’anno a Rurrenabaque e San Buenaventura, in Bolivia.
Nei quattro giorni del convegno si sono affrontati i principali problemi che affliggono l’Amazzonia.
Il dettagliato comunicato finale ha un lungo preambolo politico che può essere riassunto in tre imperativi: la lotta per il futuro si fa ora; non ci sono soluzioni se non si consultano i popoli indigeni; nessun governo può rivendicare il diritto di parlare a nome dei popoli. Date queste premesse, il Fospa elenca 46 punti programmatici e rivendicativi per quattro grandi aree tematiche: popoli indigeni e popolazioni amazzoniche, Madre terra, estrattivismo (attività di prelievo di risorse naturali, ndr) e alternative, resistenza delle donne.
Le comunità native (popoli indigeni, ma anche afrodiscendenti e comunità tradizionali dei fiumi), radicate nel territorio, vogliono esercitare l’autonomia secondo le proprie regole e procedure, separandosi dalla tutela statale che ha finora segnato la storia. La ricerca dell’autogoverno e dell’autodeterminazione per intraprendere la strada di uno sviluppo autonomo è, dunque, un obiettivo prioritario.
L’Amazzonia – viene affermato nel comunicato – ha raggiunto il punto di non ritorno e si trova in emergenza climatica. Il collasso che deriva dalla deforestazione e dall’estrattivismo mette a rischio la sua sopravvivenza, quella delle comunità che lo abitano e la vita dell’intero pianeta. I paesi responsabili del riscaldamento globale dovrebbero assumersi la responsabilità del loro debito ecologico contribuendo alla rigenerazione dell’Amazzonia mentre tutti i paesi panamazzonici dovrebbero adottare il paradigma sociale del «Buen vivir».
Il Fospa elenca poi quelle che, a suo giudizio, sono false soluzioni alla crisi climatica: i crediti di carbonio, i meccanismi di compensazione della biodiversità, i megaprogetti di transizione energetica, la geoingegneria, l’energia nucleare e altre proposte basate sulla logica della compensazione e della mercificazione della natura. Si tratta – viene spiegato – di meccanismi commerciali per le grandi aziende e gli Stati storicamente responsabili della crisi climatica globale.
Il punto 26 è una richiesta tanto fondamentale quanto di difficilissima realizzazione: viene richiesto un accordo internazionale per dichiarare la regione amazzonica zona vietata a tutte le forme di estrattivismo minerario.
Gli ultimi punti del documento sono dedicati alle donne panamazzoniche perché esse sono in prima linea nella lotta e nella difesa della sovranità dei propri corpi, della Madre natura e dei territori. Contro il patriarcato, il colonialismo, il capitalismo e l’estrattivismo.
Gran parte delle prese di posizione del Foro social panamazonico appaiono totalmente giustificate e condivisibili. Occorre capire quanto le sue affermazioni di principio possano tradursi in applicazioni pratiche in una realtà complessa qual è l’Amazzonia. E, soprattutto, in quanto tempo visto che la variabile temporale è determinante.
Paolo Moiola
Dieci anni di Isis/Daesh. Che non è morto
Sono passati dieci anni da quando l’Isis issò la bandiera nera sulla città di Mosul, in Iraq, attirando l’attenzione di tutto il mondo. Era il 10 giugno del 2014 quando il gruppo terroristico dichiarava l’istituzione di un califfato introducendo la legge islamica nei territori occupati.
I cristiani furono costretti a scegliere: lasciare la città, pagare l’esosa tassa di protezione o vedere la confisca delle loro proprietà.
Qualche giorno dopo le porte delle case dei cristiani vennero segnate con la lettera «n» in arabo, «marchiati» perché «nazareni», ovvero seguaci di Gesù. Fu la premessa di quella grande fuga, avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 agosto dello stesso anno, di circa 120mila persone dalla Piana di Ninive in direzione del più sicuro Kurdistan, dove si stabilirono soprattutto nel quartiere di Ankawa a Erbil.
Fuggirono con ogni mezzo a disposizione, la maggior parte a piedi, portando con loro soltanto quanto avevano indosso.
A distanza di dieci anni, solo una minoranza di loro è tornata, nonostante il messaggio di incoraggiamento, lanciato proprio a Mosul, da papa Francesco nel suo storico viaggio in Iraq del 2021 (vedi Luca Lorusso, Papa Francesco in Iraq. Sui fiumi di Babilonia, MC aprile 2021).
Sembra un secolo fa. Oggi il mondo è alle prese con nuove emergenze, tra le quali un conflitto nel cuore dell’Europa e la guerra in Medio Oriente. Eppure l’Isis, che ha dovuto abbandonare il sogno della fondazione di un sedicente Stato islamico tra Iraq e Siria, continua a esistere, a fare stragi, a mietere vittime. Accade soprattutto in alcune zone dell’Africa, troppo spesso lontane dai riflettori, con cellule locali che rispondono a quella stessa filosofia del fondamentalismo islamista. Si contano sempre più adepti anche nel Sud Est asiatico, soprattutto nelle Filippine, in Indonesia e Malaysia.
Non solo: il recente attacco terroristico al Crocus City Hall di Mosca, costato la vita a oltre 140 persone, è stato rivendicato proprio dall’Isis.
I jihadisti hanno minacciato anche gli Europei di calcio che si giocano in questi giorni in Germania. Un arresto di un presunto fiancheggiatore dell’Isis è stato eseguito dalla polizia federale tedesca qualche settimana prima dell’inizio del campionato.
Le immagini delle tante stragi che si sono consumate negli anni scorsi anche nelle grandi città europee, potrebbero quindi non essere solo un ricordo del passato.
Cellule dormienti, dunque, ma non troppo. È recente la creazione di un notiziario nell’ambito di un nuovo programma multimediale lanciato dal Daesh governato dall’intelligenza artificiale. I video, pubblicati settimanalmente, sono realizzati per assomigliare a un qualsiasi telegiornale e forniscono informazioni sulle «attività» dello Stato islamico nel mondo. «Per l’Isis, l’intelligenza artificiale è un punto di svolta», ha affermato Rita Katz, cofondatrice del Site intelligence group. «Sarà un modo rapido per diffondere e parlare dei loro attacchi sanguinosi in ogni angolo del mondo».
L’Isis dunque «non è morto», come sottolinea la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre. E se i cristiani sono stati in Iraq e Siria il «target» privilegiato del gruppo terrorista, non si può dimenticare che sotto attacco sono state, e sono tuttora, anche le altre minoranze religiose come quella degli yazidi. Nei loro confronti è stato perpetrato un vero e proprio «genocidio», l’ultimo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Quasi tremila donne e ragazze sono state rapite, hanno subito stupri e altre forme di violenza sessuale e molte sono ancora disperse. I ragazzi sono stati separati dalle loro famiglie e reclutati con la forza nell’Isis. «Molti bambini yazidi sono ancora sfollati dalle loro comunità. Molti vivono in ambienti non sicuri», sottolineava un rapporto di Save the children due anni fa.
Questi dieci anni sono stati costellati anche dagli eccidi contro i musulmani, soprattutto sciiti. Una carneficina che ha visto saltare in aria moschee a Mosul in Iraq, a Shiraz in Iran, a Kunduz in Afghanistan. Ogni volta si è presentato lo stesso scenario con decine di morti e feriti e i luoghi di preghiera ridotti in macerie.
Oggi l’Isis sembra si stia riorganizzando. Secondo i dati diffusi dal responsabile dell’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov, ad agosto 2022 si contavano almeno 10mila miliziani ancora operativi tra Siria e Iraq. Ma è l’Africa la nuova centrale delle cellule terroristiche che, pur portando altri nomi, sono affiliate, o comunque si ispirano, al Daesh. Le sigle sono diverse ma i metodi sono gli stessi: eccidi, stupri, rapimenti, case bruciate, dalla Repubblica democratica del Congo al Kenya, dal Mozambico all’Uganda. Tutto questo nell’apparente affanno di una comunità internazionale alle prese con quella «terza guerra mondiale a pezzi» di cui da anni, profeticamente, parla Papa Francesco.
Manuela Tulli
Mondo. Pena di morte: sempre attuale
Sempre più paesi decidono di abolire la pena capitale, ma il numero di esecuzioni nel mondo continua a crescere a causa di pochi governi. Spesso è uno strumento di paura e di controllo, ce lo racconta il rapporto 2023 di Amnesty International.
Il 29 maggio Amnesty International ha condiviso il rapporto sull’uso della pena di morte nel mondo nel 2023. Quello che ne esce è un quadro complesso, di una situazione generale in miglioramento, visto che sempre meno paesi applicano la pena capitale, ma le situazioni di alcuni Stati sono invece molto gravi e in peggioramento. Il risultato è un numero di esecuzioni che non si vedeva da diversi anni.
Il totale calcolato da Amnesty è di 1.153, il più alto dal 2015, quando erano state 1.634. In entrambi i casi il numero è sottostimato, in quanto è spesso difficile, se non impossibile, arrivare a dati attendibili. La Cina è il più grande assente, Amnesty stima infatti abbia portato a termine migliaia di esecuzioni nel 2023.
Il dato positivo che emerge dal report è il numero di Stati che ha eseguito pene di morte ha raggiunto il suo minimo storico: solo 16. Questo dato, incoraggiante sull’orizzonte verso il quale si sta muovendo la comunità internazionale, fa però emergere il lato oscuro della medaglia: in diversi paesi, infatti, la situazione è nettamente peggiorata e le esecuzioni sono aumentate esponenzialmente.
Lo stato protagonista dell’incremento calcolato quest’anno è sicuramente l’Iran le cui autorità stanno usando la pena di morte come arma politica e per mantenersi stretto il potere. Le esecuzioni per reati di droga, ritenute illegali dal diritto internazionale, sono state il 56% del totale e sono quasi raddoppiate rispetto all’anno precedente. Sono 853 le persone messe a morte in Iran nel corso del 2023.
Dopo Cina e Iran, per numero di esecuzioni, si piazzano l’Arabia Saudita, dove la cifra si attesta a 172 con un leggero calo, la Somalia, dove sono sestuplicate arrivando a 38 e gli Usa dove si è visto un lieve aumento con un totale di 24 esecuzioni. Proprio negli Stati Uniti un piccolo numero di Stati continua a essere molto attaccato a questa pratica e le promesse del presidente Joe Biden di abolirla a livello federale, per ora, non hanno trovato riscontri nella realtà.
Ci sono diversi altri paesi di cui i dati sono tenuti segreti, oltre alla Cina si stima che anche Corea del Nord e Vietnam facciano largo uso della pena capitale pur non avendo nessun numero su cui trarre conclusioni. Restano comunque evidenze di come questi governi utilizzino la pena di morte come minaccia per tenere soggiogate le popolazioni con la paura.
Nonostante alcuni numeri scoraggianti il rapporto di Amnesty mostra che comunque i passi avanti continuano ad esserci, aumentano i paesi abolizionisti della pena di morte, sia quelli che l’hanno abolita nella prassi. E in diversi paesi ne sta venendo ridotto il suo campo di azione o se ne sta discutendo il completo superamento.
Mattia Gisola
India. Meno Modi, più laicità
Narendra Modi è stato ridimensionato. Il leader induista con ambizioni di autocrate ha vinto ma non stravinto le elezioni indiane. Salito al potere nel 2014, questo sarà il suo terzo mandato come primo ministro, ma il suo partito, il nazionalista Bharatiya janata party (Bjp), ha ottenuto molti meno seggi del previsto: 240 (63 in meno delle precedenti consultazioni), insufficienti per governare il paese in autonomia. Dovrà farlo in accordo con i partiti dell’Alleanza democratica nazionale di cui il Bjp è parte.
In prospettiva, una buona notizia e non la sola. Ce n’è una di carattere generale: il paese asiatico, il più popoloso del mondo (in luogo della vicina Cina), ha retto l’urto di elezioni extra large (lunghe 44 giorni e con la bellezza di 640 milioni di votanti) dimostrando di essere una democrazia, anche se fragile. La seconda buona notizia è internazionale: l’India ha mostrato al Sud globale (di cui è uno dei leader) che la strada corretta non è quella indicata da Mosca e Pechino.
Viste le tante variabili in gioco, è difficile dire con certezza perché Modi abbia perso per strada molti voti e seggi rispetto al 2019. Probabilmente hanno avuto un peso sia la sua deriva confessionale sia i problemi sociali ed economici di una parte della popolazione indiana.
Per quanto concerne la religione, nei suoi dieci anni di potere Modi ha spinto sempre più per un rafforzamento dell’identità induista (quasi un miliardo di persone) a scapito delle minoranze, in particolare di quella musulmana (200 milioni) e di quella cristiana (30 milioni), spesso fatte oggetto di violenza (con linciaggi e incendi).
Lo scorso gennaio, il primo ministro ha deciso di recarsi a Ayodhya, nello stato dell’Uttar Pradesh, a inaugurare un tempio indù (Ram Mandir, dedicato a Rama, una delle principali divinità dell’induismo) costruito sulle rovine della moschea Babri Masjid, distrutta nel 1992 da fanatici induisti. Inoltre, in una recente intervista televisiva, il leader del Bjp è arrivato ad affermare: «Paramatma (il dio della teologia induista, ndr) mi ha scelto e mi ha mandato per uno scopo». Con ciò cancellando il confine tra stato laico e stato confessionale.
Con riferimento alla condizione socioeconomica degli indiani, i dati sono oggetto di controversia. Secondo i report governativi, la povertà si è infatti ridotta a un modesto 11 per cento con una caduta di ben 18 punti percentuali rispetto al periodo pre Modi (2013-’14). Questo significa che, negli ultimi nove anni, quasi 250 milioni di persone sono usciti dalla povertà (cosiddetta «multidimensionale» perché considera 12 parametri, dal tipo di nutrizione al conto bancario). Per converso, l’India si colloca al 111.esimo posto su un totale di 125 paesi nell’Indice globale della fame (Global hunger index, Ghi) del 2023. Il governo di Nuova Delhi contesta però questa classificazione.
Pur con meno potere, Narendra Modi si appresta a guidare il Paese per altri cinque anni. Di sicuro, l’India rimarrà centrale nel complicato scenario geopolitico del mondo odierno.
Paolo Moiola
Burkina Faso. Il capitano Traoré si rielegge presidente
Le «assises nazionali» – incontro di rappresentanti della società burkinabè –, tenute il 25 maggio scorso, hanno approvato il prolungamento di cinque anni della transizione in corso.
La riunione, che era prevista della durata di due giorni, con lo scopo di fare un bilancio del lavoro della giunta militare, ha votato in tutta fretta una nuova «Carta», che mantiene al potere il capitano Ibrahim Traoré, l’uomo forte del momento. Traoré non sarà più il «Presidente di transizione», ma il «Presidente della nazione», che è il nome ufficiale della carica elettiva. Resterà in carica fino al 2029 e potrà candidarsi a future elezioni.
Il capitano ha preso il potere il 30 settembre 2022, deponendo con la forza un altro militare, Paul-Henri Sandaogo Damiba, che aveva sua volta fatto un golpe nel gennaio dello stesso anno ai danni del presidente eletto Roch Marc Christian Kaboré.
Escluse le voci critiche
Alle assises, che dovrebbero raggruppare le diverse forze della società burkinabè per trovare un consenso durante un periodo crisi, in questo caso non sono stati invitati svariati movimenti della società civile, associazioni, sindacati con voci discordanti da quelle del regime.
Il giornalista Newton Ahmed Barry denuncia ha dichiarato ai microfoni di Radio France intérnationale che l’incontro non era dunque per riflettere, ma per dare ufficialità a un prolungamento della giunta al potere e che il Burkina è gestito da un regime militare, e non è più in una transizione.
In effetti, le voci non allineate con il regime sono messe a tacere. Come nel caso dell’avvocato Guy Hervé Kam, noto esponente del movimento della società civile, arrestato segretamente e tenuto nascosto per quattro mesi. Finalmente lo scorso 30 maggio, i suoi avvocati hanno potuto visitarlo in cella e capire il controverso capo di accusa.
Consenso popolare
Nonostante la deriva autoritaria del regime di Traoré e la stretta sui diritti civili, il presidente gode di una grande popolarità tra la popolazione.
Il pretesto della presa del potere con la forza erastata la situazione di grande insicurezza causata da gruppi jihadisti attivi in gran parte del Paese.
Il regime di Traoré, affiancato da milizie civili chiamate «Volontari della patria», difficilmente controllabili, non ha tuttavia migliorato le cose.
Campione di sfollati
Il Consiglio norvegese dei rifugiati (Nrc) ha pubblicato un rapporto nel quale classifica gli spostamenti di popolazione nel mondo a causa dei conflitti. Il Burkina Faso, nel 2023 per il secondo anno consecutivo, si trova al primo posto, seguito da Camerun, Repubblica democratica del Congo, Mali, Niger, Honduras, Sud Sudan, Centrafrica, Ciad e Sudan.
In Burkina si contano circa due milioni di persone sfollate interne, con oltre 707mila spostamenti solo nel 2023 (un incremento del 61% rispetto al 2022), su una popolazione di circa 23 milioni. I rifugiati burkinabè in altri paesi sono tra il 60 e i 150mila. Gli abitanti in fuga dagli attacchi degli islamisti sono dunque in aumento.
L’Alto rappresentati dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, il 31 maggio scorso, si è detto molto preoccupato sottolineando un incremento del 65% (tra novembre 2023 e aprile 2024) delle uccisioni di civili nel Paese. Vittime causate, oltre che dai gruppi armati jihadisti, anche dalle forze di sicurezza e dai Volontari della patria. Turk chiede un’inchiesta internazionale indipendente sulle violazioni e gli abusi, e che lo Stato assicuri la protezione dei propri cittadini.
Intanto il ministro degli Affari esteri della Russia, Sergej Lavrov, nella sua tourné africana, è stato il 5 giungo scorso a Ouagadougou dove ha incontrato il presidente Ibrahim Traoré, fresco di conferma fino al 2029. Traoré aveva partecipato al summit Russia-Africa del luglio 2023, dove si era distinto per un discorso zeppo di demagogia. Diversi accordi di tipo militare e tecnico sono, da allora, stati firmati tra i due paesi, compreso l’invio di istruttori russi per l’esercito, arrivati nel novembre scorso. L’ambasciata di Russia a Ouagadougou è stata riaperta nello stesso periodo, a sottolineare relazioni sempre più strette. Tratto questo che il Burkina Faso ha in comune con Mali e Niger, con i quali ha creato, nel settembre dello scorso anno, l’Alleanza degli stati del Sahel.
Marco Bello
Mondo. La geometria variabile dei diritti umani
La Dichiarazione universale dei diritti umani risale al 1948. La realtà è però diversa dalla teoria. Oggi più che mai.
«Siete dalla parte giusta della storia», si sono sentiti dire gli universitari americani per la loro difesa della causa palestinese. Parole pronunciate dall’ayatollah Khamenei, guida suprema della teocrazia iraniana che lo scorso 30 maggio – tramite X – si è rivolto direttamente a loro. Il complimento si è immediatamente trasformato in un palese imbarazzo visto che proveniva da un grande violatore dei diritti umani, leader di un Paese dove non esiste libertà.
Il fatto ha riproposto all’attenzione pubblica internazionale molti interrogativi. Uno di essi può trovare una sintesi nella seguente domanda: al di là delle dichiarazioni teoriche (la principale è quella del 1948), nella realtà esiste una definizione universale dei diritti umani?
In un momento storico come l’attuale, caratterizzato da divisioni e guerre, la risposta è «no, non esiste». Ogni stato – sia esso una democrazia o una dittatura – è convinto di rispettare i diritti umani, convinzione che spesso assume aspetti grotteschi. Prendiamo, ad esempio, la Cina di Xi.
Lo scorso marzo un dipartimento del Comitato centrale del Partito comunista cinese ha organizzato – anche se pare impossibile – il terzo Forum internazionale sulla democrazia, come ha raccontato anche il «China Daily», il principale quotidiano in lingua inglese di Pechino. La democrazia – è stato detto durante il Forum – può assumere forme diverse a causa delle diverse situazioni dei paesi. Per parte sua, la Cina è un campione di democrazia. Infatti, afferma l’articolo, «pratica la “democrazia popolare integrale”, che consiste nel rendere la democrazia presente in tutti gli aspetti» (economia, politica, cultura, società, ecologia).
Difficile capire come la democrazia declinata alla cinese spieghi la mancanza di libertà in Tibet o nello Xinjiang o la repressione in atto a Hong Kong o tutto il potere concentrato nelle mani del Partito comunista e del suo leader Xi Jin Ping. Meglio allora – avrà pensato il presidente cinese – giocare d’attacco. A maggio è, quindi, uscito «The Report on Human Rights Violations in the United States in 2023», un rapporto sulle violazioni dei diritti umani negli Usa stilato dallo State council information office (Scio), l’ufficio informazioni del consiglio di stato cinese.
«La situazione dei diritti umani negli Stati Uniti – si legge nell’incipit – ha continuato a peggiorare nel 2023. Negli Stati Uniti, i diritti umani stanno diventando sempre più polarizzati. Mentre una minoranza al potere detiene il dominio politico, economico e sociale, la maggioranza della gente comune è sempre più emarginata e i suoi diritti e le sue libertà fondamentali vengono ignorati. Uno sconcertante 76% degli americani ritiene che la propria nazione vada nella direzione sbagliata».
Negli Usa i problemi certamente non mancano, ma che i diritti umani vengano ignorati è pura propaganda di Pechino per distrarre l’opinione pubblica dai problemi cinesi. A fine maggio, a Hong Kong, 14 esponenti del locale movimento per la democrazia sono stati condannati in base alla legge sulla sicurezza nazionale (nota come «Articolo 23 della Legge fondamentale»), imposta da Pechino e firmata lo scorso 23 marzo dal governatore John Lee (un ex poliziotto, vincitore di un’«elezione» in cui era il solo candidato). Probabilmente la triste esperienza di Hong Kong fa sì che anche gli abitanti di Taiwan guardino con terrore a una eventuale riunificazione con la Cina.
A ulteriore riprova della distanza esistente tra la seconda potenza mondiale e il modello democratico, c’è la Conferenza internazionale per la pace in Ucraina, prevista a Bürgenstock (Canton Nidvaldo, Svizzera) per il 15 e 16 giugno. Nonostante sia stata invitata, la Cina non vi parteciperà, prendendo a pretesto l’assenza della Russia ma confermando – una volta di più – di stare dalla parte dell’aggressore e, in generale, dei sistemi anti democratici. Da ultimo, lo scorso 4 giugno è stato il 35.mo anniversario della repressione di piazza Tiananmen (4 giugno 1989), che a Pechino è passato sotto il silenzio più assordante. E chi se ne importa dei diritti umani.
Paolo Moiola
Sudafrica. Sconfitto l’Anc
Il 1994 fu un anno storico per il Sudafrica. Con la fine dell’apartheid e l’apertura democratica, l’African national congress (Anc), il vecchio movimento di liberazione nazionale guidato da Nelson Mandela, vinse le elezioni con il 63% dei consensi.
Trent’anni dopo, il partito è sceso per la prima volta al di sotto della maggioranza assoluta. Un declino che era in atto da tempo, quantomeno dalla presidenza Zuma, caratterizzata da continui scandali di corruzione e da una cattiva gestione delle risorse statali.
I risultati
Come previsto dai sondaggi, l’Anc si è fermata al 40%, crollando nettamente rispetto al 57% del 2019. Il colpo si è sentito anche a livello provinciale: il partito ha perso la maggioranza assoluta nel KwaZulu Natal, Gauteng e Northern Cape. L’Anc ha pagato le accuse di corruzione che hanno colpito i suoi membri, la disoccupazione dilagante e la stagnazione economica.
Ma soprattutto ha sofferto l’ascesa di un nuovo movimento politico: l’uMkhonto we Sizwe (Mk), fondato a fine 2023 da Jacob Zuma, ex presidente dell’Anc e del Sudafrica (2009-2018). L’Mk ha avuto successo a livello nazionale con il 14,6% dei consensi e ha sfiorato la maggioranza assoluta (45%) nella sua roccaforte, il KwaZulu Natal. L’Mk ha eroso voti all’Anc ma anche agli Economic freedom fighters (Eff), fermatisi al 9,5% (10,8% nel 2019).
La Democratic alliance (Da) si è invece confermata il maggiore partito di opposizione con il 21,8% e si è assicurata per un altro quinquennio il governo della provincia del Western Cape.
Gli scenari futuri
L’assenza della maggioranza assoluta impone all’Anc di creare un governo di coalizione. Un qualcosa di mai visto finora a livello nazionale, ma che localmente si è già verificato più volte. Dalla pubblicazione ufficiale dei risultati (2 giugno), i partiti hanno quattordici giorni per tentare di costituire delle alleanze e individuare il futuro presidente. Il 16 giugno infatti, il nuovo Parlamento si riunirà e il suo primo compito sarà nominare il capo dello Stato.
Un punto sembra fermo: l’Anc – in quanto partito che ha ricevuto la maggioranza dei voti – sarà il leader della nuova coalizione e molto probabilmente esprimerà il futuro presidente. Un governo che non la includa è altamente improbabile, oltre che complesso da costituire.
La questione quindi è con quale o quali partiti l’Anc deciderà di allearsi. Secondo alcuni osservatori, il suo alleato naturale sono gli Eff di Julius Malema, ex leader dell’ala giovanile dell’Anc. Ma i rapporti tra gli esponenti dei due partiti sono tesi e manca un’intesa sulla riforma della terra, questione centrale per gli Eff. La proposta avanzata da Malema in campagna elettorale – alleanza in cambio del ministero delle Finanze – è già stata rifiutata dall’Anc. Inoltre, questa coalizione avrebbe comunque bisogno del supporto di almeno un altro partito per garantirsi la maggioranza.
L’opzione più caldeggiata dai mercati e dal mondo imprenditoriale è un’alleanza tra Anc e Da. La coalizione includerebbe i due maggiori partiti del Paese ed escluderebbe le formazioni più radicali. Anc e Da condividono posizioni conservatrici sull’economia, ma divergono nettamente in politica estera: se l’Anc ha accusato Israele di genocidio dei palestinesi; la Da rigetta le accuse. Tuttavia, il leader della Da, John Steenhuisen, ha annunciato di voler fare tutto il possibile per evitare la “doomsday coalition” (la coalizione della fine del mondo) tra Anc, Mk ed Eff.
Zuma, il reale vincitore
A emergere come reale vincitore delle elezioni è stato Zuma. Il suo Mk ha superato ampiamente le previsioni dei sondaggi, ponendosi come interlocutore significativo per il nuovo governo. Infatti, con l’eccezione di un’alleanza tra Anc e Da, in tutti gli altri casi l’Mk potrebbe portare i voti necessari per arrivare alla maggioranza.
Nonostante abbia denunciato che le elezioni sono state rubate, Zuma ha in effetti aperto a negoziati con l’Anc. Ma ha anche posto una condizione: sostituire l’attuale presidente, Cyril Ramaphosa.
Democrazia che funziona
Il voto ha confermato il funzionamento delle istituzioni democratiche sudafricane: l’Anc ha accettato i risultati annunciati dalla Commissione elettorale e invitato gli altri partiti a collaborare per dare un governo al Paese. Non ha tentato di mantenere il potere, sconfessando o manipolando i risultati, come avviene in altri Stati della regione (ad esempio, Zimbabwe e Mozambico).
Il Sudafrica quindi è il primo Paese dell’Africa australe dove l’erede di un movimento di liberazione nazionale ha accettato la sconfitta elettorale e si è reso disponibile a creare una coalizione. Confermando la forza delle sue istituzioni democratiche.
Aurora Guainazzi
Cosa non si vede in Oppenheimer
Nel film di Christopher Nolan colpisce tutto quello che non viene rappresentato: ad esempio, le conseguenze delle bombe sul Giappone, le alternative alla guerra, l’opposizione della scienza al potere militare.
A cosa serve recensire un film uscito quasi un anno fa? Serve a riflettere sui temi che propone, analizzando il film alla giusta distanza emotiva.
Il tempo, le riflessioni altrui, le cose che accadono, possono cambiare molto la prospettiva.
«Oppenheimer» è un film magniloquente. Maestoso, sì, ma non vuol dire che mi sia piaciuto.
È una biografia divisa arbitrariamente in tre fasi. E dura tre ore.
La prima ora è dedicata a spiegarci che Julius Robert Oppenheimer era un genio (nel famoso libro di Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, sarebbe identificata come la «certificazione dell’eroe»). La seconda parte è dedicata alla costruzione e all’impiego della bomba atomica. La terza è centrata sul processo subito da Oppenheimer per essersi rifiutato di proseguire gli studi sulle armi nucleari.
Morti invisibili e guerra ineluttabile
Quello che colpisce di più di questo film è quello che non si vede.
Certo, il fisico nucleare non è mai stato a Hiroshima. Ma nel film non c’è una sola inquadratura dedicata all’utilizzo finale del lavoro fatto da lui e dal suo imponente seguito di scienziati.
Questa è forse la critica più netta, che viene, tra l’altro, proprio dai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki: perché nel film non viene mostrata neanche un’immagine dell’inferno scatenato sulle due città giapponesi? E non si dice mai, aggiungo io, che il vero obiettivo era quello di compiere un’azione dimostrativa nei confronti dell’Unione Sovietica, il nemico numero uno degli Usa nei quarant’anni successivi.
Inoltre, non viene mai messa in dubbio la necessità della guerra come soluzione dei conflitti, neanche con un’espressione dubitativa sul volto di qualche comparsa. La guerra c’è, e basta.
Una prospettiva insostenibile, tanto più oggi, quando i governanti del mondo parlano di nuovo di ineluttabilità della guerra: allora, almeno in un film, un accenno alle vie alternative, alla diplomazia, alla nonviolenza, si sarebbe potuto inserire.
Di fronte al rischio per la stessa sopravvivenza della comunità umana, è oggi di vitale importanza aprire a visioni diverse.
Scienza sottomessa
Il secondo elemento riguarda il rapporto tra gli scienziati e l’apparato industriale militare.
Quegli anni furono il punto di svolta per l’Occidente: la scienza si sottomise all’esercito, e da allora divenne la sua ancella. Questo è accennato nel film, ma non è approfondito, mentre invece è uno dei cardini su cui si basa l’intera storia del Novecento.
E poi la pellicola di Christopher Nolan si sarebbe potuta soffermare sulla grande tensione che ci fu dopo il 1933 tra gli scienziati di tutto il mondo: essi si trovarono divisi, per la prima volta, da valutazioni politiche.
Gli anni 30 segnarono, infatti, il primo momento in cui la comunità scientifica internazionale smise di essere coesa, di scambiarsi informazioni, di condividere esperienze, e cominciò a guardarsi con sospetto.
Il ciclo del nucleare
Terzo elemento, quello più nascosto: nel film mancano totalmente i riferimenti al ciclo del reperimento e dell’arricchimento del materiale radioattivo necessario per la costruzione della bomba atomica. Manca quindi una visione sistemica di tutto il ciclo del nucleare: da dove viene l’uranio? Quali conseguenze hanno gli esperimenti sulle persone? Cosa è successo alle popolazioni attorno al sito della prima detonazione nel deserto del New Mexico il 16 luglio 1945? Bisogna sapere, bisognava dirlo, che i primi a subire gli effetti prodotti dalle bombe atomiche non furono i giapponesi, ma molti degli abitanti dell’area di Alamogordo, Usa.
Movimenti contro l’atomica
La terza parte del film si concentra sul processo maccartista a Oppenheimer, che si era rifiutato di proseguire con le ricerche sulla bomba all’idrogeno, avendo, presumibilmente, considerato già abbastanza devastante quella convenzionale (a fissione di plutonio). Di tutto quel periodo storico, successivo alle esplosioni in Giappone, però, non si citano mai le grandi organizzazioni e i movimenti nati contro l’atomica negli anni 50.
Si pensi al Bulletin of the atomic scientists fondato proprio da Oppenheimer già nel Dicembre 1945. Si pensi alle Pugwash conferences on science and world affairs fondate da Joseph Rotblat e Bertrand Russell, nate nel 1957 e che hanno ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1995.
Associazioni e movimenti che si sono battuti per sessant’anni, fino ad arrivare al fondamentale risultato di tutte queste lotte: il Trattato delle Nazioni Unite per la proibizione delle armi nucleari, entrato in vigore nel gennaio 2021, preceduto dal Premio Nobel per la pace del 2017 conferito alla Campagna internazionale contro le armi nucleari (Ican).
Neanche nei titoli di coda si riconosce l’importanza di queste associazioni.
Film militarista?
Dunque? Oppenheimer è un film che si concentra sulla vicenda di un uomo e dell’apparato gigantesco che ha diretto, ma non sottolinea quanto in essa si sia sviluppato l’evento che più di ogni altro ha contribuito ad avvicinare l’umanità alla propria fine.
C’è una scena che mi ha fatto pensare: quando il protagonista vede il lampo accecante della bomba che scoppia, nel silenzio che ne segue, mormora: «Ora sono divenuto morte». Ma le immagini dicono tutt’altro: la nuvola dell’esplosione è fiammeggiante, imponente, devastante e… affascinante. Come l’eruzione di un vulcano.
Questa scena mi ha ricordato quella di Salvate il soldato Ryan alla fine della lunga rappresentazione dello sbarco in Normandia: guardando la spiaggia, le decine di navi e di mezzi, la distesa di morti, il protagonista dice, «però, che spettacolo».
Sottolineare l’aspetto epico di un evento, non significa forse legittimarlo? Oppenheimer, in definitiva, credo sia un film militarista.
Un’ultima cosa: che relazione c’è tra questo film e il documentario uscito in contemporanea: Nuclear now, di Oliver Stone?
Forse è solo una coincidenza che Christopher Nolan e Oliver Stone si siano occupati di nucleare. Forse. Oppure bisogna rendersi conto che c’è un tentativo di rilanciare la «normalità», la «necessità» dell’energia atomica.
Dario Cambiano
Allamano. Il dono della vocazione
Nel suo messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni, celebrata nella IV domenica di Pasqua, papa Francesco invitava a «considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita».
Il beato Allamano considerava la vocazione missionaria come un dono straordinario di Dio al punto di ritenere «fortunati» quei giovani che avevano sentito il suo invito a seguirlo sulla via della missione. «Egli – diceva il fondatore dei missionari della Consolata ai suoi – vi ha chiamati all’apostolato per sola sua bontà. L’ha fatta a voi questa grazia, a preferenza di tanti altri che ne erano più degni e che vi avrebbero forse corrisposto meglio. E perché proprio a voi? Perché vi ha amati di un amore particolare. Ha fatto con voi ciò che fece con quel giovane del Vangelo: “E Gesù fissatolo, lo amò e gli disse: vieni e seguimi” (Mc 10,21). Ecco che cosa è la vocazione! È questo sguardo di predilezione di Gesù».
La risposta alla vocazione spinge tante persone a consacrarsi e a offrire la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano.
Annunciare il Vangelo a quanti non lo conoscono, spezzare la propria vita, insieme al pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio: è questo il Dna della vocazione missionaria seminato nel cuore di tanti giovani dal beato Allamano.
La crisi di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa nel mondo occidentale a cui assistiamo oggi, tra le altre cause, è certamente determinata dalla crisi di identità di cui soffre l’uomo moderno che porta a cercare la propria realizzazione in surrogati che alla lunga si rivelano incapaci di soddisfare il desiderio di felicità che abita il cuore delle persone.
«Ascoltare la chiamata divina – scrive ancora papa Francesco – lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso, è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro. La nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo».
Sergio Frassetto
Seminatori di consolazione
Contemplando l’icona della Consolata, come faceva l’Allamano dal coretto del Santuario, suor Maria Luisa Casiraghi evidenzia le caratteristiche, i valori e i sentimenti che noi missionari siamo chiamati a incarnare per essere presenza di consolazione nel mondo.
Dal «coretto» il fondatore la contemplava
Noi missionari e le missionarie ci possiamo definire: «Seminatori e seminatrici di consolazione attraverso vie e modi che lo Spirito e le contingenze della vita ci fanno intravedere». Per fare questo cammino bisogna affidarci alla Consolata, dialogare con lei, accogliere le intuizioni dello Spirito.
Ma come? Quando desideriamo conoscere qualcuno cerchiamo di incontrarlo, parlargli, stare il più possibile in sua compagnia per carpire i suoi segreti, arricchirci della sua esperienza, accogliere i suoi consigli.
Il fondatore in questo ci è modello. Sappiamo infatti quanto tempo lui trascorreva in preghiera nel coretto del santuario della Consolata contemplando l’icona a lui e a noi tanto cara per comprendere meglio la volontà di Dio, il cammino da intraprendere e per avere il coraggio e la forza di realizzare ciò che Dio voleva da lui.
Penso che nel coretto del Santuario della Consolata, mentre contemplava il volto di Maria, il fondatore vedesse tratteggiati gli atteggiamenti e i lineamenti che noi missionarie e missionari avremmo dovuto incarnare per portare la consolazione alle persone nei luoghi e nelle situazioni che avremmo incontrato nel nostro cammino. Contemplando l’icona di Maria il fondatore focalizzava le sue virtù e meditava come noi, suoi figli e figlie, che avremmo portato nel mondo il suo nome, dovevamo viverle.
Come davanti a uno specchio
Mi sono posta più volte davanti all’icona della Consolata come davanti a uno specchio per cogliere qualche particolare che mi suggerisse i passi ancora da fare, i cammini da iniziare, gli atteggiamenti da vivere per divenire sempre di più una presenza di consolazione. E, contemplando questa icona, sono stata colpita da vari particolari, soprattutto dalle mani del bambino Gesù: una mano tiene stretto il pollice della Madre che così s’intreccia con la sua e l’altra indica a noi Maria. In questo intreccio di mani scorgo ciò che il fondatore spesso sottolineava quando ci incoraggiava a rivolgersi e a pregare la Consolata. Egli diceva: «È importante avere fiducia nella Consolata: senza di lei possiamo fare poco o nulla, con lei tutto. Fìdati della Madonna, è tua madre! Voglile bene! Senza di lei non si può volare e camminare nella santità. La nostra ala in più è lei, la madre di Gesù, la Consolata».
Essere «conche» per essere «canali»
Un secondo messaggio che ho visto scaturire contemplando Maria lo collego a un’altra espressione del Fondatore in cui affermava: «A riguardo del prossimo dobbiamo essere conche, non solo canali. Ma riguardo ai beni materiali dobbiamo essere solamente canali e non conche». La prima attitudine di Maria che emerge dai Vangeli è quella dell’accoglienza che fa posto allo Spirito, che si svuota per lasciarsi guidare da lui sulle strade di Dio.
Questo è l’atteggiamento che il fondatore voleva che noi coltivassimo per diventare conche e fonti vive. Essere conche ripiene di Spirito aiuta a comprendere l’importanza poi di divenire canali in cui scorrono generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.
C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la missione in modo autentico ed efficace.
I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare nella corrente, nel canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date». Solo così la missione diventa annuncio della consolazione, del dono che Dio fa al mondo: il suo unico figlio, tanto amato, offerto per la salvezza di tutti, un figlio che Maria ha rivestito della sua natura umana.
Seminare la buona notizia
Ancora: Maria, in questa icona non tiene il bambino stretto a sé, ma lo offre all’umanità. Il suo atteggiamento è rivolto anche a noi: non tenere stretta la buona notizia della salvezza, ma seminarla nelle pieghe del quotidiano per trasformare l’ordinario in straordinario. L’annuncio non nasce da noi, ci viene donato affinché lo condividiamo con parole, gesti, silenzi… come Maria ha fatto nella sua vita: poche parole, molti gesti per aprire cammini e orizzonti nuovi e tanti silenzi, non sterili, ma che hanno generato vita.
E termino con l’augurio fatto parecchi anni fa ai missionari e alle missionarie dall’allora arcivescovo di Torino, il cardinale Anastasio Ballestrero. Diceva: «Quando si è portatori di un annuncio di consolazione non si può esserlo autenticamente senza un entusiasmo che brucia dentro, senza un fervore totale che investe la vita e senza un ardore che non conosce stanchezza. Il popolo di Dio e tutti i popoli hanno bisogno di vedere che i missionari e le missionarie sono così: creature incandescenti che dovunque arrivano accendono il desiderio di Dio e dovunque passano lasciano un segno profetico profondo, efficace e fecondo». E, a questo segno, noi missionari e missionarie della Consolata diamo il nome di «consolazione».
Suor Maria Luisa Casiraghi
Ho speso tutto
Quando nel 1880 l’Allamano assunse la direzione del Santuario della Consolata, questo si presentava brutto e decadente, così, nel 1883 diede inizio a lavori di restauro esterno dell’edificio, su disegno dell’ingegnere Giovanni Battista Ferrante, che riportò il complesso alle linee originarie dell’architetto Filippo Juvarra. I lavori furono ultimati nel 1885. A convincere l’Allamano della necessità di intervenire nuovamente con lavori più radicali sull’edificio fu la prospettiva delle grandiose feste che si sarebbero dovute celebrare nel 1904, in occasione dell’ottavo centenario del ritrovamento dell’immagine della Consolata da parte del cieco di Briançon, avvenuto il 20 giugno 1104, secondo un’antica tradizione. Il progetto dei restauri fu affidato all’architetto Carlo Ceppi e i lavori di trasformazione furono compiuti tra il 1899 e il 1904. Attraverso l’inserimento di quattro cappelle ovoidali, sistemate attorno all’esagono guariniano, e la realizzazione di altri interventi architettonici e decorativi, la chiesa assunse una forma maestosa che dall’esterno si arricchiva di cupolini e volute, a coronamento delle nuove cappelle, mentre all’interno risplendeva di marmi e stucchi dorati così come la conosciamo oggi.
Per preparare il progetto dei restauri fu scelto il principe degli architetti torinesi, il conte Carlo Ceppi. «Ma, mio caro canonico, – fu il preambolo dell’architetto al Camisassa – che cosa possiamo fare qui? Siamo strangolati in tutti i modi». «Signor conte – replicò il Camisassa -, il Juvarra sfondò le pareti e creò quel magistrale ampliamento dove fece sorgere l’altare della Vittoria. Come ha fatto lui perché non possiamo fare anche noi altrettanto ai fianchi?». «La cosa è fattibile, e la faremo», concluse l’architetto, e si mise all’opera.
All’architetto che gli faceva presente che non sarebbe bastato un milione, l’Allamano rispose: «Ne metteremo due, tre, purché Torino abbia un santuario degno della sua Patrona».
«Quando io facevo restaurare il santuario – confidò l’Allamano – (ebbene, c’è andato un bel milione, sapete) qualcuno diceva: “Uh, che spreco! Perché adoperare del marmo così prezioso? Marmo d’Egitto? Si potrebbe mettere marmo finto come in quell’altra chiesa!…”. Ed io dicevo: “Per il Signore, per la Madonna non è mai troppo, non si spreca mai”. Alcuni mi dicevano: “Perché cambiare il pavimento? Mettere marmo di prima classe? […]. Quando si tratta della Madonna non bisogna aver paura anche di fare dei debiti, di fare delle imprudenze, e poi con la Consolata non si fanno delle imprudenze. Io per la Consolata ho speso tutto».
La riflessione conclusiva dell’Allamano svelò da dove egli prendeva l’ispirazione e il coraggio: «I lavori, con visibile protezione di Maria, furono deliberati proprio il 10 dicembre 1898, festa della S. Casa di Loreto, quasi per farci notare che “Lei stessa si è edificata la casa”. […]. Questa non è opera nostra, ma è proprio opera della Madonna».
Giuseppe Allamano, per le feste centenarie della Consolata, oltre ai lavori di restauro del tempio, volle regalare alla Vergine due preziose corone di brillanti che furono apposte al quadro. Le celebrazioni centenarie iniziarono l’11 giugno 1904 per terminare il 20, festa della Consolata. Il giorno 19 si svolse la processione per le vie della città, con la partecipazione di sei cardinali, 23 vescovi e 104 parroci, oltre alle congregazioni religiose e ai fedeli in numero incalcolabile. Il giornale «La Stampa» fece questo commento: «Certo è riuscita una manifestazione religiosa imponente che non ha precedenti nella memoria dei torinesi».
POSTULATORE > P. GIACOMO MAZZOTTI
Chi ricevesse una grazia per intercessione del beato Giuseppe Allamano è pregato di notificarlo ai seguenti indirizzi:
POSTULAZIONE MISSIONI CONSOLATA
• Viale Mura Aurelie, 11-13 – 00165 Roma
• Corso Ferrucci, 14 – 10138 Torino
E-mail: postulazione@consolata.org https://giuseppeallamano.consolata.org
Sudafrica, trent’anni dopo Mandela
Nel 1994 Nelson Mandela diventava il primo presidente del Sudafrica libero e democratico, cioè post-apartheid, generando grandi speranze e aspettative. Oggi il Paese, tornato alle urne a fine maggio, si trova a tracciare un difficile bilancio di questo trentennio.
«Abbiamo trionfato nello sforzo di infondere la speranza nel petto di milioni di persone del nostro popolo. Abbiamo stretto un patto: costruiremo una società in cui tutti i sudafricani, sia bianchi che neri, potranno camminare a testa alta, senza alcun timore nei loro cuori, certi del loro inalienabile diritto alla dignità umana, una nazione arcobaleno in pace con se stessa e con il mondo». Così si rivolgeva al popolo sudafricano Nelson Mandela, leader del partito African national congress (Anc), nel discorso di insediamento come presidente del Sudafrica, il 10 maggio 1994@.
Fra il 27 e il 29 aprile1994 si erano svolte le prime elezioni libere dopo la fine dell’apartheid, termine che indica sia la politica di rigida segregazione razziale e discriminazione economica che separava i bianchi dai non bianchi in Sudafrica, sia il sistema istituzionale e giuridico che ha messo in pratica questa politica dagli anni Trenta ai Novanta.
«La vittoria dell’Anc è scontata», prevedeva su MC poco prima del voto padre Benedetto Bellesi, missionario che in Sudafrica aveva lavorato dal 1974 al 1986, ma «Mandela non si fa illusioni. Dovrà riportare l’ordine nel paese: dal giorno della sua liberazione la violenza ha fatto oltre 13mila morti» (MC 4/1994).
Mandela aveva trascorso 27 anni in carcere per il suo impegno nella lotta all’apartheid ed era stato liberato nel febbraio del 1990: alla sua scarcerazione avevano contribuito il combinarsi di pressioni sia interne che internazionali, manifeste queste ultime anche nell’assegnazione, dieci anni prima, del premio Nobel per la pace al noto e pugnace arcivescovo anglicano sudafricano, Desmond Tutu, «per il suo ruolo di leader unificante nella campagna non violenta per risolvere il problema dell’apartheid in Sudafrica»@. Nel 1993, erano stati proprio Nelson Mandela e Frederik Willem De Klerk, allora presidente in carica in Sudafrica e leader del National party, a ricevere il Nobel per la pace: anche se questa non era ancora realizzata, scriveva sempre Bellesi, «si vuole premiarli per aver creduto al dialogo e incoraggiarli a continuare sulla stessa strada, disseminata ancora di tante incognite e ostacoli».
L’ultimo miglio della long road to freedom
Ostacoli come, appunto, la violenza: quella, scoppiata all’indomani della scarcerazione di Mandela e che aveva come protagonisti gli estremisti bianchi che non si rassegnavano alla fine dell’apartheid. Altri ostacoli come il rigetto, da parte del Congresso panafricanista di Azania, dell’ipotesi di convivenza multirazziale sostenuta dall’Anc; la volontà dell’Inkatha, il partito guidato da Mangosuthu Buthelezi, di costituire un regno zulu autonomo guidato dal suo re all’interno di un Sudafrica federale, cosa che lo portò allo scontro con l’Anc, provocando migliaia di vittime.
Ma c’era anche una violenza più antica e radicata, che innervava la società sudafricana. Ancora Bellesi: «L’apartheid è scomparsa, ma le sue disuguaglianze e ingiustizie sociali ci sono ancora tutte. Con un’economia tanto disastrata, non basterà un colpo di spugna a cancellarle, anche se la propaganda elettorale dell’Anc promette casa, scuola lavoro».
Il Sudafrica del 1994 era un Paese dove erano appena state abolite leggi come il Natives land act, la legge del 1913 che assegnava alla minoranza bianca prima il 93% e poi l’87% del territorio, e il Group areas act, del 1950, che Mandela, nel suo libro Long walk to freedom, definiva come il «fondamento dell’apartheid residenziale», per cui «ogni gruppo razziale poteva possedere terre, occupare locali e commerciare solo nella propria area separata». Da questo impianto giuridico, imposto da cinque milioni di sudafricani bianchi a 23 milioni di sudafricani neri, 3,4 milioni di meticci e un milione di asiatici, erano sorti i cosiddetti Bantustan@, territori designati dal governo bianco come «patrie» nazionali per i neri, e le township o location, nomi che indicavano spazi urbani nei quali i sudafricani bianchi costringevano i non bianchi. La disoccupazione era al 20,1% e le persone che abitavano in baracche in aree senza alcun servizio erano circa sette milioni. Durante il dibattito elettorale del 14 aprile 1994@, Mandela accusò De Klerk di aver speso per l’istruzione di un bambino bianco tre volte tanto di quanto aveva speso per un bambino nero.
Dopo Mandela
La presidenza di Mandela, durata fino al giugno del 1999, avviò il difficile lavoro di riconciliazione, consolidamento della pace e transizione democratica.
Ottantunenne alla scadenza del suo primo mandato, non si candidò per ottenere il secondo. Gli succedette il suo vicepresidente Thabo Mbeki – figlio di quel Govan Mbeki incarcerato con Mandela per il suo ruolo di leader di Umkhonto we Sizwe (tradotto come Lancia della nazione), l’ala armata dell’Anc – e poi altri tre presidenti, tutti dell’Anc: Kgalema Motlanthe, Jacob Zuma, fino a Cyril Ramaphosa, presidente dal febbraio 2018.
Secondo una parte dell’Anc, l’accordo raggiunto da Mandela sarebbe quindi stato una resa al «capitale monopolistico bianco», mentre la ministra del turismo Lindiwe Sisulu, figlia di un’altra figura chiave nella lotta all’apartheid, Walter Sisulu, critica la costituzione – frutto anche questa delle negoziazioni condotte da Mandela fra il 1990 e il 1994 – e i magistrati che la applicano e difendono. Questi sarebbero, a suo dire, «africani mentalmente colonizzati» alleati con le élite contro il popolo@.
Vi sono poi le frustrazioni dei neolaureati e della massa di disoccupati neri, le centinaia di migliaia di persone che non hanno un alloggio adeguato e gli oltre due milioni di famiglie sudafricane, cioè più di una su dieci, che le statistiche del governo del 2021 indicavano come sofferenti la fame. I sudafricani, scriveva ancora Southall, vogliono qualcuno da incolpare.
La xenofobia degli ex oppressi
In questa ricerca di colpevoli, i migranti sono un bersaglio ideale. Secondo il censimento più recente (2022)@, i migranti presenti in Sudafrica sono 2,4 milioni, di cui un milione dallo Zimbabwe, 416mila dal Mozambico, 227mila dal Lesotho, 198mila dal Malawi, 61mila dal Regno Unito e 8mila dall’Etiopia, per limitarsi alle prime cinque nazionalità. I rifugiati e i richiedenti asilo, riportava invece il «Rapporto sulla migrazione» pubblicato dal dipartimento di statistica lo scorso marzo, sono circa 170mila@, principalmente da Etiopia e Repubblica democratica del Congo, ma anche da Bangladesh, Repubblica del Congo, Burundi, Zimbabwe, Pakistan, Somalia e Uganda.
Queste percezioni si combinano con un tasso di disoccupazione oltre il 30%, il più alto al mondo, che aumenta al 60% fra i giovani sotto i 25 anni. «Una sensazione diffusa nella popolazione locale», scrive padre Samuel Gitonga, missionario della Consolata che lavora a Kwaggafontein, a circa cento chilometri da Pretoria, «è che gli stranieri stiano togliendo lavoro ai locali e stiano approfittando di risorse e servizi che spetterebbero ai sudafricani», mentre nei fatti ne sono spesso esclusi. Ai migranti viene attribuito l’aumento degli episodi di criminalità. Si diffondono dicerie, come nel caso di alcuni messaggi girati sui social, per avvertire «i sudafricani di stare attenti agli stranieri che avvelenano i bambini con i prodotti dei loro negozi di dolciumi», cioè nei cosiddetti tuck shops che sono spesso gestiti da immigrati.
Questo contesto crea i presupposti per le aggressioni contro i migranti e per l’emergere di gruppi come Operation Dudula, un gruppo xenofobo poi diventato partito politico. Operation Dudula sperava di riuscire ad approfittare dell’eventuale calo nei consensi dell’Anc che prima delle elezioni risultava, per la prima volta in 30 anni, essere sul filo della maggioranza dei voti (mentre scriviamo, le elezioni devono ancora avvenire).
Al di là della propaganda delle formazioni xenofobe, continua padre Samuel, gli esempi di discriminazioni nei confronti dei migranti non sono difficili da trovare: «Durante il lockdown per il Covid, il governo ha distribuito pacchi alimentari alle persone che ne avevano bisogno, escludendo però i migranti. Inoltre, ci sono segnalazioni secondo cui alcuni operatori sanitari negli ospedali pubblici negano i servizi agli stranieri». E ancora: il Sudafrica dispone di un fondo per gli incidenti stradali che copre le spese mediche e il risarcimento delle perdite subite da chi è vittima di un incidente stradale e ci sono stati tentativi di interpretare la legge in modo da non coprire chi non è sudafricano.
Migranti per strada
«Le persone con cui lavoriamo si erano accampate in strada fuori dagli uffici delle Nazioni Unite a Pretoria, sperando di attirare l’attenzione e di vedere soddisfatti i propri bisogni più elementari». A parlare è padre Daniel Kivuw’a, missionario della Consolata che lavora nella capitale amministrativa del Sudafrica, collaborando con l’arcidiocesi e con la Caritas. «Un’ordinanza del tribunale ha stabilito che queste persone dovevano spostarsi in un insediamento informale e, una volta trasferite, avrebbero ottenuto assistenza. Ma, di fatto, appena si sono stabilite nell’area assegnata, sono state abbandonate: per questo la chiesa locale si è attivata in modo da fornire almeno cibo e materiale per l’igiene personale a settanta famiglie». È padre Daniel che gestisce il progetto insieme al comitato della Caritas della parrocchia Christ the king di Queenswood.
Il lavoro dei missionari della Consolata in Sudafrica oggi, spiega il superiore della Delegazione, padre Nathaniel Mwangi, si svolge in sei comunità nelle diocesi di Pretoria, Johannesburg e Durban e riguarda soprattutto le attività pastorali e quelle legate a emergenze, come nel caso dei migranti o, durante la pandemia, l’assistenza a persone indigenti che a causa delle restrizioni avevano difficoltà a procurarsi il cibo.
«Per i progetti in settori come l’istruzione, la sanità, l’accesso all’acqua, la sanificazione», spiega padre Fredrick Agalo, che in Sudafrica ha lavorato dal 2015 al 2019, «la domanda che le autorità locali fanno è: “Può farlo il governo?”. Se la risposta è sì, allora è escluso che enti non sudafricani, come una Ong o un Istituto missionario, ottengano il permesso di realizzare iniziative di sviluppo».