Noi e voi, dialogo lettori e missionari


Una nuova Tac per Ikonda

Caspita, 316mila euro non sono noccioline. Anche se, per chi sfreccia con i bolidi di «Formula uno», o chi batte e ribatte le palline gialle da tennis, o chi rincorre il variopinto pallone da calcio, 316mila euro sono quasi quisquilie. Ma quisquilie non sono né noccioline per il Consolata hospital Ikonda in Tanzania.

L’ospedale conta 404 posti letto, sei sale operatorie e cura le principali patologie con la presenza di 349 persone: medici, farmacisti, infermieri, tecnici di laboratorio, addetti alle pulizie, ecc. Gli ammalati provengono soprattutto da Morogoro, Iringa, Njombe, Songea, Mbeya, Rukwa, Katavi, ma qualcuno viene anche da più lontano, persino dall’isola di Zanzibar. I bambini del distretto di Makete fino ai 10 anni vengono curati gratuitamente, mentre i pazienti Hiv ricevono alcune prestazioni gratuite, così come le partorienti del distretto.

Il centro sanitario è dei Missionari della Consolata. Fu costruito nel 1962, e successivamente ampliato. Venne inaugurato ufficialmente un anno dopo l’indipendenza del Tanzania con Julius Nyerere presidente, il quale affermava: «I nemici del nostro paese sono la povertà, l’ignoranza e la malattia».

Il Consolata hospital Ikonda affrontò subito «il nemico» malattia.

L’ospedale sorge fra le montagne dell’Ukinga a 2.050 metri di altitudine. Dista circa 800 chilometri da Dar Es Salaam, la capitale del Tanzania. Fino a tre anni fa, gli ultimi 90 chilometri da Njombe a Ikonda erano in terra battuta, una salita scivolosa durante le piogge, rasente precipizi. Oggi da Mbeya giunge ogni giorno un autobus stracolmo di ammalati: affronta nebbie fitte, pantani traditori, pietre massacranti, buche da sprofondare. Il tutto per 7-8 ore, se non capitano guasti meccanici.

Quante volte i missionari della Consolata si sono detti: «Ah, se avessimo costruito l’ospedale altrove, i pazienti l’avrebbero raggiunto più facilmente, e la gestione sarebbe stata più economica». Già. Ma non sarebbe stato l’ospedale dei poveri di Ikonda e dintorni, sferzati dal vento e dal freddo, tagliati fuori dal mondo. È vero, tuttavia, che la lontananza da insediamenti urbani rende più costosa la conduzione della struttura. Alcuni medici e tecnici di laboratorio, dopo aver acquisito una buona esperienza, abbadonano Ikonda; sono attratti da una vita più agiata altrove. L’ospedale cerca di fronteggiare l’esodo con stipendi migliori, mentre investe sulla specializzazione di medici locali in radiologia, medicina interna e medicina d’urgenza. Così è nata pure l’Unità di emergenza.

Un aiuto significativo è la presenza di medici stranieri: italiani, soprattutto, ma anche spagnoli e di altre nazionalità. Sono volontari che si pagano persino il viaggio. Frequentano Ikonda nonostante due «tristezze». La prima tristezza è la povertà di molte persone che non hanno denari per una degenza in ospedale. Seconda tristezza: non raramente i pazienti arrivano «fuori tempo massimo», quando non c’è più nulla da fare.

Ma proprio per tali tristezze i medici volontari ritornano, perché hanno il Tanzania nel cuore. «Tanzania nel Cuore» è anche un’associazione di medici italiani, animati da solidarietà e generosità.

La strumentazione del Consolata hospital Ikonda è apprezzabile. Da anni opera la Risonanza magnetica, mentre dal 2014 è in funzione la Tac, benemerita ma oggi obsoleta. Non si trovano più i pezzi di ricambio. Di qui l’urgenza di un nuovo impianto.

Ed eccola la nuova Tac, fiammante e moderna. L’inaugurazione è avvenuta il 20 settembre 2024 con la presenza dei missionari della Consolata, del direttivo dell’ospedale, del dottor Gian Paolo Zara (di «Tanzania nel Cuore») e del Nunzio apostolico, l’arcivescovo Angelo Accattino (foto qui sotto).

La presenza del Nunzio non è stata una formalità, bensì la testimonianza che i 316mila euro, per acquistare la Tac sono un dono della Conferenza episcopale italiana: euro raccolti attraverso l’8 per mille degli italiani. Ebbene, manciate e manciate di «noccioline» di tante persone, divenute «un ricco raccolto». Perché l’unione fa la forza.

Dante Alighieri direbbe: «Poca favilla gran fiamma seconda». E Gesù: «Il minuscolo granello di senapa diventa un albero imponente».

Grazie, vescovi e amici italiani, della vostra straordinaria generosità.

padre Francesco Bernardi,
Torino 27/09/2024


A proposito di IA

Ho letto con interesse l’articolo di Chiara Giovetti sull’intelligenza artificiale (IA) pubblicato nel numero di ottobre 2024.

Vi sono molte considerazioni importanti, tra le quali in particolare ho colto la domanda se l’intelligenza artificiale ci aiuterà a trovare soluzioni o se sarà parte dei problemi che si vogliono affrontare.

Resta per me, comunque, un argomento di fondo, non affrontato nell’articolo, il fatto che la cosiddetta «intelligenza» artificiale non è in effetti «intelligenza», ma una serie di algoritmi e istruzioni date alle macchine per conferire loro capacità di analizzare enormi quantità di dati per elaborare documenti (testi, tabelle, progetti, immagini e altro) in tempi brevissimi, a partire da questi dati e da domande poste dagli utenti in modo discorsivo. E fin qui mi è chiaro e l’ho provato anche personalmente.

Ma per far sì che le macchine facciano queste elaborazioni è necessario che abbiano a disposizione i dati necessari.

Mi sono soffermato quindi sulla lista ricavata dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni, che include servizi di telemedicina, ottimizzazione dell’uso dell’acqua in agricoltura, riduzione della corruzione negli appalti pubblici, miglioramento della salute e del benessere degli animali in allevamenti, prevenzione di incendi e altro.

Per nessuno di questi esempi nell’articolo si spiega «come» possano essere ottenuti questi risultati.

Riesco da una parte ad immaginare come l’intelligenza artificiale possa essere d’aiuto ad esempio nel caso specifico della telemedicina, dove l’analisi di enormi quantità di cartelle cliniche e/o immagini radiologiche raccolte per tanti anni in tanti archivi medici del mondo certamente può dare informazioni importanti e in tempo immediato e, laddove una ricerca senza intelligenza artificiale richiederebbe tempi lunghi incompatibili con le esigenze di intervento sanitario.

Ma in nessuno degli altri casi portati ad esempio mi pare che si possa fare a meno di dati rilevati in tempo reale, con strumenti anche tecnologicamente avanzati e anche collegati direttamente alle macchine di «intelligenza» artificiale che li possano elaborare, e non a partire da dati storici, per quanto ampi e dettaglianti possano essere.

Tantomeno in casi che riguardano comportamenti umani, come l’esempio della corruzione in appalti pubblici.

Non sono un addetto ai lavori, quindi queste mie osservazioni possono forse essere inadeguate o addirittura fuori luogo.

Ma avendo letto questo articolo in una rivista come Missioni Consolata, che si rivolge a un pubblico come me non preparato su questi argomenti, mi sarei aspettato qualche spiegazione su «come» possa funzionare l’intelligenza artificiale, per non lasciare l’impressione che sia soltanto un business nelle mani di pochi soggetti che sostengono di migliorare il mondo, ma senza far capire come e con quale attendibilità intendano farlo.

Sarei quindi molto grato se fosse possibile avere qualche spiegazione in merito.

Resto in attesa e ringrazio.

Filippo Pongiglione
03/10/2024

 

Le domande del lettore sono molto interessanti, ma se non ho approfondito i punti che lui fa presenti è solo per mancanza di spazio.

In realtà, non ho fornito più informazioni su che cos’è l’intelligenza artificiale perché sul numero precedente della rivista c’era a pagina 11 un box di Paolo Moiola dal titolo: «IA, di che cosa parliamo». Includere un rimando a quello sarebbe stato in effetti una buona idea.

Quanto ai casi d’uso dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni@, fornisco la traduzione e sintesi di alcuni passaggi del rapporto che possono aiutare a capire meglio.

Sul benessere degli animali negli allevamenti in Rwanda.
Posizionando strategicamente negli allevamenti dei sensori per monitorare parametri ambientali chiave come temperatura, umidità e livelli di gas di ammoniaca, oltre a catturare i suoni dei polli, gli allevatori possono adottare misure basate sulle previsioni ricavate dai dati per proteggere la salute e il benessere degli animali, facilitando inoltre il rilevamento precoce di potenziali problemi.

Sulla lotta alla corruzione in Tanzania. Le soluzioni attuali, basate principalmente sui tradizionali meccanismi legali e di audit, faticano a far fronte alla portata e alla complessità delle pratiche corrotte. Il sistema di IA proposto […] dovrebbe elaborare i dati sugli appalti, inclusi documenti di gara, valutazioni e casi di corruzione, per rilevare irregolarità e assegnare una percentuale di probabilità di corruzione […]. Offrire uno strumento anticipatorio consente al Prevention and combating of corruption bureau (Pccb) di adottare misure preventive contro le attività corrotte, migliorando così la trasparenza e garantendo la conformità durante tutto il ciclo di vita degli appalti. […] I vantaggi di questo approccio riguardano il potenziale per il rilevamento della corruzione in tempo reale, l’analisi automatizzata dei documenti e una migliore allocazione delle risorse investigative. Gli svantaggi riguardano invece la difficoltà nella raccolta dati iniziale, possibili pregiudizi nei modelli di intelligenza artificiale e la necessità di competenze tecniche continue e aggiornate.

Sulla prevenzione degli incendi in Malaysia. Il Fire weather index (Fwi), o Indice meteorologico di pericolo d’incendio, è utilizzato in tutto il mondo per stimare il pericolo di incendi@. Nel caso d’uso della Malaysia, invece di usare i dati su temperatura e piogge, come fa il modello esistente, si stima il Fwi – in particolare uno dei sotto indici che lo compongono, il drought code (Dc, indice di siccità) – usando i dati raccolti da strumenti dell’«Internet delle cose» (come sensori, stazioni meteo) su un altro parametro, il livello delle acque sotterranee (Ground water level, Gwl), per poi elaborare i dati attraverso l’apprendimento automatico (machine learning, cioè quella branca dell’intelligenza artificiale in cui – con tutte le virgolette che abbiamo a disposizione – le macchine imparano dalla loro stessa esperienza). Il risultato mostra una correlazione molto alta con i dati osservati dal sistema meteorologico nazionale, rivelandosi quindi piuttosto accurato.

Lieta, comunque, di ricevere domande così circostanziate e stimolanti, che danno anche a me una bella occasione per approfondire ancora.

Chiara Giovetti
07/10/2024


Pdre Fernando Paladini a Pawa, Isiro, allora Zaire, gennaio 1983 (Gigi Anataloni)

Ad-dio, padre Fernando Paladini

Non dimenticate mai
di salutare bene le persone.
Non fatevi travolgere dal tempo che inghiotte ogni relazione.
Ho lasciato che succedesse a me,
e non dovrà capitare più.

Io e padre Fernando Paladini ci conoscevamo da 34 anni: avevo 14 anni ed è stato il primo dei tanti missionari che ho incontrato nella mia vita. Quello che ha acceso il fuoco della missione nel cuore di una ragazza che cercava un senso per la sua vita.

Ci siamo scritti a lungo quando era in Congo, quando ancora non c’erano i cellulari o whatsapp e si usavano la carta e la penna. Ogni sua lettera era una festa per me: odorava di Africa, aveva l’ennesimo francobollo per la collezione del mio caro papà. Poi, è rientrato in Italia. E io intanto crescevo e mi alimentavo di sogni e di amore per l’umanità. Persone speciali come lui hanno contribuito a farmi diventare quella che sono, mi hanno dato le ali per volare al di sopra di tutto ciò che, di fronte alla povertà e alla passione, diventava sempre più piccolo. Grazie a lui e a chi credeva fortemente in Dio e nei grandi ideali, ho trovato sempre più la mia strada, dove non sono mai stata sola.

Padre Fernando mi chiamava ogni anno il 10 dicembre, per farmi gli auguri per l’onomastico. Non si ricordava quasi nessuno della Madonna di Loreto, ma la sua telefonata arrivava puntuale e fedele come un regalo, con benedizione finale e il classico saluto («Arrivederci ad ogni Eucarestia»).

Quest’anno non mi chiamerà neanche lui. Se ne è andato senza che io lo sapessi. Avrei dovuto essere più presente anch’io.

E invece ho lasciato che gli impegni, le corse, gli affanni quotidiani decidessero per me e per il nostro non saluto.

Ad-Dio, padre Fernando. Ricorderò sempre la tua risata, il tuo entusiasmo, il tuo legame profondo con l’Africa e con il tuo Istituto.

Eri fiero e felice di essere un missionario della Consolata, e sono sicura che domenica 20 ottobre, dal Cielo, ci hai sorriso quando Giuseppe Allamano, il tuo fondatore, è stato proclamato santo.

Grazie infinite per tutto.

Spero che le mie figlie, così come tutti i ragazzi di oggi possano fare incontri come il mio. Di quelli che ti cambiano l’esistenza e le visioni. Di quelli che ti aprono le braccia, gli occhi, la mente.

La maggior parte degli YouTuber e degli influencer non ha niente da dirci. Tu, semplicemente, mi hai toccato il cuore.

Loredana Brigante
19/10/2024

Padre Fernando Paladini, nato a Leverano (Lc) il 25/01/1944, ordinato sacerdote missionario della Consolata il 14/08/1974, nel 1978 parte per il Nord dello Zaire (nella foto è a Pawa nel 1983) dove rimane con breve intervallo, fino al 2016. Rientrato in Italia, ha concluso il suo viaggio missionario il 22/09/2024.




Quando «piccolo» è grande


Sorino, chi è costui? Come don Abbondio con Carneade, forse ci facciamo questa domanda, visto che oggi il suo nome è sulla bocca di tutti dopo che Giuseppe Allamano è stato riconosciuto santo per aver guarito proprio lui.
Ma al tempo del miracolo, trent’anni fa, Sorino era per noi un signor nessuno. Uno Yanomami inesistente, uno dei tanti indigeni dell’Amazzonia che l’anagrafe del suo Paese ignorava (e continua a ignorare). Un signor nessuno, che però è diventato segno di vita e speranza per tutti gli ultimi della terra.

Come lui, anche quel bambino nato 2030 anni fa in una stalla di Betlemme era nessuno. Amato, però, curato e protetto dai suoi genitori e accolto dai marginali della storia, i pastori. Era un bambino inerme, Gesù. Eppure da subito ha dato fastidio ai potenti del tempo che hanno cercato di eliminarlo.

Quel nessuno, finito in croce come uno schiavo, è oggi Luce del mondo, Parola di vita, Via alla più vera e autentica umanità, quella a misura di Dio.

Sorino era un nessuno per il mondo, ma un unico per Dio il quale, complice Giuseppe Allamano, lo ha fatto rinascere alla vita dopo un terribile incontro con un giaguaro nel fitto della foresta amazzonica, lontano dagli occhi di tutti.

Là il Signore ha voluto porre un segno della santità di Giuseppe Allamano, per confermare ancora una volta il senso più vero del suo sogno missionario: un miracolo in favore di un nessuno e un non cristiano per ricordare che la Buona Notizia trova la sua realizzazione nei più poveri, umili e dimenticati della terra. È là, nella piccolezza e nel nascondimento, che nasce il mondo nuovo, non nei palazzi degli Erode di ieri e di sempre e neppure nei templi (stadi, arene, platee social) dei nuovi idoli di oggi.

Il piccolo seme del futuro cresce in mezzo agli ultimi della terra. Come un tempo la più radicale rivoluzione è iniziata con un bambino figlio di umili lavoratori di un villaggio di periferia, che da adulto è stato ucciso come uno schiavo su una croce piantata fuori dalle mura della città, così ora la guarigione di Sorino ci ricorda che la vera luce per il mondo continua a germinare nella piccolezza e nelle periferie.

I piccoli e i «nessuno» del mondo diventano maestri di vita, come la bimba di nove anni che si carica sulle spalle la sorellina di cinque ferita dalle bombe a Gaza per portarla all’ospedale.

Dio ha sempre avuto un occhio speciale per i nessuno di questo mondo. Grazie a essi ha scritto la storia della nostra salvezza. Basta ricordare Noè, Abramo, Giuseppe, Davide, Geremia, Ester, e tanti altri fino a Maria e Giuseppe, Giovanni Battista, gli apostoli, e fino a noi.

Mi colpisce la bellezza della logica del nascondimento e della piccolezza che unisce la nascita di Gesù e il miracolo accordato a Sorino.
È una potente contestazione dell’apparire, dell’ostentazione, del protagonismo, della voglia di imporsi e dominare che ha contagiato il nostro mondo. È l’antidoto alla tentazione di richiudersi in se stessi, di difendere i propri confini, di vedersi al centro di tutto. È un invito a guardare oltre, ad aprirsi alla sorpresa, a superare le paure dell’altro.

Sorino, una volta guarito, è diventato, insieme a sua moglie, «casa di accoglienza» per tanti bambini orfani, spesso resi tali da malattie e uccisioni provocate dall’invasione dei territori indigeni da parte di chi vuole rapinarne le risorse. Una risposta di squisito amore ai bisogni del suo popolo.

Il bambino di Betlemme ha portato nel mondo una nuova proposta di vita che insegna agli uomini a scoprirsi veri fratelli e sorelle, tutti figli e figlie dello stesso Padre.

San Giuseppe Allamano ha mandato nel mondo i suoi missionari e missionarie per continuare questa rivoluzione, per rendere reale il sogno di Dio di un’umanità che viva nella pace e nell’amore qui e ora, nell’attesa della grande festa di famiglia che ci aspetta in cielo, la sua casa.

Una rivoluzione senza armi e violenze, nella quale «il bene è fatto bene» a favore di tutti da persone che «prima sono sante e poi missionarie».

 




Europa. Se la guerra bussa alla porta

La cronaca racconta che due paesi della Nato, la Germania e la Svezia, hanno già in distribuzione opuscoli per istruire la loro popolazione su come comportarsi in caso di guerra. Difficile stabilire se si tratti di giusta prevenzione o di esagerazioni politiche. Intanto, però, le istruzioni – cartacee e digitali – sono già arrivate nelle case dei cittadini.

«Viviamo in tempi incerti – si legge nell’introduzione dell’opuscolo svedese “In caso di crisi o guerra” (pubblicato dall’Agenzia svedese per le emergenze, Msb, a novembre 2024 e spedito a cinque milioni di famiglie) -. Attualmente, nel nostro angolo di mondo sono in corso conflitti armati. Terrorismo, attacchi informatici e campagne di disinformazione vengono utilizzati per indebolirci e influenzarci. Per resistere a queste minacce, dobbiamo restare uniti. Se la Svezia viene attaccata, tutti devono fare la loro parte per difendere l’indipendenza svedese e la nostra democrazia. Ogni giorno costruiamo resilienza, insieme ai nostri cari, colleghi, amici e vicini. In questa brochure, imparerai come prepararti e agire in caso di crisi o guerra».

«In tempi incerti – si legge a pagina 5 -, è importante essere preparati. I livelli di minaccia militare stanno aumentando. Dobbiamo essere pronti allo scenario peggiore: un attacco armato alla Svezia». E così continua: «Quando la violenza militare viene usata per soggiogarci, il nostro diritto a vivere una vita libera e indipendente è minacciato. Tuttavia, ci sono altri modi, oltre al conflitto armato, per influenzare e indebolire la nostra società; ad esempio, attacchi informatici, campagne di disinformazione, terrorismo e sabotaggio. Questi tipi di attacchi possono verificarsi in qualsiasi momento. Alcuni stanno accadendo qui e ora. Non possiamo mai dare per scontata la nostra libertà».

Nelle 32 pagine del libretto, utilizzando molte illustrazioni si danno consigli sui comportamenti da tenersi in caso di minaccia di guerra e di conflitto conclamato, ma anche in altre situazioni come attacchi terroristici ed eventi meteorologici estremi: si va dai sistemi d’allarme alla difesa dalle fake news, dall’evacuazione delle case al comportamento nei rifugi, dal cibo ai servizi igienici.

Meno dettagli e consigli ma stessa messa in guardia nell’opuscolo del Bundeswehr, l’esercito tedesco, pubblicato in Germania a luglio 2024. «L’attacco illegale della Russia all’Ucraina nel 2022 – vi si legge – ha scosso l’architettura di sicurezza europea a fondo e costretto la Germania a riprogettare la sua capacità di difesa […] una cosa è certa: la Germania e la sua popolazione devono diventare più robuste e più resilienti per essere preparate ad affrontare minacce e aggressori».

I due opuscoli di Svezia e Germania sono l’ennesima prova che il conflitto scatenato – ormai sono trascorsi oltre mille giorni dal suo inizio – dalla Russia di Putin ha aperto un vaso di Pandora di reazioni (negative, ma comprensibili), a cominciare dalla corsa al riarmo da parte dei paesi europei.

Paolo Moiola

 




Mondo. Rifugiati in fuga dal clima


Cresce sempre di più il numero di rifugiati nel mondo. Ma soprattutto aumentano quelli che – fuggiti da guerre, violenze e persecuzioni – trovano rifugio in Paesi dove c’è un rischio alto o estremo che si verifichino disastri legati al cambiamento climatico.

A metà 2024, secondo il rapporto No Escape. On the frontlines of Climate Change, Conflict and Forced Displacement dell’Unhcr (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), circa 90 milioni di persone – il 75% degli attuali 123 milioni di sfollati – si trovavano in Paesi dove il rischio di disastri naturali era alto o estremo.

I conflitti restano la prima causa di flussi transfrontalieri, ma è sempre più frequente che a loro si sommino gli effetti del cambiamento climatico, in una relazione complessa e multidimensionale che aggrava disuguaglianze preesistenti, indebolisce la coesione sociale e mina la disponibilità di risorse naturali come acqua pulita e terra arabile.

Quello che, ad esempio, sta accadendo in Ciad, dove hanno trovato rifugio circa 700mila persone in fuga dal conflitto in Sudan. Qui la popolazione deve fare i conti con la presenza di gruppi armati al confine e con la mancanza di un’adeguata assistenza umanitaria. A ciò poi si aggiunge il fatto che le regioni orientali del Ciad sono una delle aree più vulnerabili al cambiamento climatico: sono sempre più frequenti piogge torrenziali e inondazioni che colpiscono i campi di sfollati, distruggono le infrastrutture di base e contaminano l’acqua. Esacerbando le già difficili condizioni di vita e aumentando il rischio di tensioni tra rifugiati e comunità autoctone.

Spesso, la situazione è talmente difficile che molti di coloro che hanno lasciato il proprio Paese per un conflitto decidono di spostarsi nuovamente a causa degli effetti del cambiamento climatico. I rifugiati quindi si trovano intrappolati in un circolo vizioso di spostamenti continui e protratti. Nel solo 2023, 42 dei 45 Paesi che accoglievano persone in fuga da conflitti hanno anche sperimentato spostamenti a causa di disastri naturali. A maggio 2024, ad esempio, piogge torrenziali e inondazioni hanno travolto lo stato brasiliano del Rio Grande do Sul (estremo Sud del Paese), causando la morte di 181 persone. Tra i colpiti c’erano anche 43.000 rifugiati provenienti da Venezuela, Haiti e Cuba, nuovamente gettati in una situazione di incertezza.

Ma i casi sono tanti. Il 38% dei rifugiati venezuelani si trova in Colombia, un Paese frequentemente colpito da disastri naturali. Oppure l’86% degli sfollati afghani si è spostato in Iran e Pakistan, Stati che subiscono gli effetti del cambiamento climatico. Ma è anche il caso del 72% dei rifugiati del Myanmar che si trovano in Bangladesh, dove i rischi naturali sono considerati estremi.

Entro il 2040, secondo l’Unhcr, il rischio di disastri climatici vedrà un’escalation, soprattutto nelle Americhe, in Africa centroccidentale e nel Sud Est asiatico. Il numero di Paesi a rischio estremo aumenterà da tre a 65 e, tra essi, ci saranno Stati come Camerun, Ciad, Sud Sudan, Nigeria, Brasile, India e Iraq che attualmente ospitano il 40% di tutti i rifugiati nel mondo.

E se anche alcuni di questi rifugiati decidessero di tornare nel Paese d’origine, è altamente probabile che pure lì si trovino a fare i conti con il cambiamento climatico. A metà 2024, il 75% di coloro che avevano tentato di tornare a casa dopo un conflitto, stava subendo proprio le conseguenze di disastri climatici. Tra fonti di reddito distrutte e reti sociali frammentate, per un rifugiato è sempre più difficile costruirsi una vita degna e sicura.

Ma un problema di fondo è quello delle politiche adottate per affrontare queste situazioni. A livello internazionale, gli Stati sono tenuti a preparare e aggiornare dei documenti – i Contributi determinati a livello nazionale (Ndc) e i Piani di adattamento nazionale (Nap) – contenenti le loro strategie di lotta contro il cambiamento climatico. Ma solo il 35% dei Nap presentati a luglio 2024 era frutto di consultazioni con le comunità vulnerabili. In 54 Ndc (su 166) venivano citati gli sfollati in modo forzato a causa del cambiamento climatico, ma appena 25 documenti contenevano misure concrete per farvi fronte.

E da ultimo, ma non per questo meno importante, mancano i fondi. Attualmente, il 90% della finanza climatica è destinato a Paesi a medio reddito, mentre gli Stati che ospitano la maggioranza dei rifugiati il più delle volte non ricevono supporto. Soprattutto se c’è un conflitto: secondo l’Armed conflict location & event data (un database che monitora il trend dei conflitti nel mondo), più alta è l’intensità di un conflitto, più bassa è la probabilità che il Paese riceva risorse per contrastare il cambiamento climatico.

Con il risultato che i più fragili e vulnerabili ancora una volta sono lasciati indietro.

Aurora Guainazzi




Mondo. Ha vinto la teologia fossile

C’è stata una continuità tra la Cop28 e la Cop29: entrambe le conferenze sul clima sono state organizzate in «petrostati», paesi produttori di idrocarburi. Si è passati, infatti, dagli Emirati arabi uniti (2023) all’Azerbaijan (2024). Ipocrita dunque stupirsi che, sia nel primo che nel secondo caso, il risultato in tema di mitigazione climatica e transizione energetica sia stato nullo: tante parole, qualche promessa, pochi o pochissimi risultati.

Che a Baku le cose si sarebbero messe male si era capito fin dall’inizio. La ventinovesima Conferenza delle parti (Cop) è iniziata l’11 novembre, pochi giorni dopo la vittoria elettorale di Donald Trump, noto per il suo negazionismo climatico e prossimo presidente degli Stati Uniti, il secondo più grande emettitore di gas serra dopo la Cina. Il magnate statunitense ha fatto immediatamente proseliti: il presidente argentino di ultradestra Javier Milei ha ordinato il ritiro della sua delegazione.

Nella giornata d’apertura, ha parlato il padrone di casa, il presidente e dittatore Ilyam Aliyev. Figlio di Heydar Aliyev, alla guida del Paese dal 1993 al 2003, Ilyam Aliyev è al potere dal 2004, essendo stato (teorico) vincitore di quattro consecutive elezioni. Nel suo discorso inaugurale, l’uomo ha dato il proprio benvenuto ai partecipanti e, dopo aver elogiato il proprio Paese (che, tra l’altro, occupa con la forza la regione armena del Nagorno-Karabakh) e criticato l’Occidente, ha fatto chiaramente intendere che l’ipotizzata transizione energetica dovrà attendere. Furbissima la sua spiegazione: gas e petrolio sono «un dono di Dio». Per inciso, l’Azerbaijan ci ricorda che gran parte delle riserve mondiali di idrocarburi è in mano a stati dittatoriali: Russia, Arabia Saudita, Iran, Venezuela. Tutte dittature che si reggono sulla produzione e vendita di gas e petrolio.

Oltre che a rallentare il cambiamento climatico, la transizione energetica sarebbe anche una scelta morale a favore della democrazia e della libertà.

A Baku, dopo dieci giorni di discussioni improduttive (soprattutto sui soldi da destinare ai paesi poveri o in via di sviluppo di Africa, Asia e America Latina per affrontare le emergenze climatiche e la transizione), la Cop29 è stata chiusa – domenica 24 novembre – in ritardo di un giorno e mezzo sul calendario. L’accordo raggiunto prevede trecento miliardi di dollari all’anno (promessi, non elargiti), che sono poco più di nulla di fronte alla gravità dei problemi.

Come si sono comportati i paesi più importanti? L’Arabia Saudita, di gran lunga il primo dei petrostati, ha lavorato – apertamente e di nascosto – per ostacolare ogni accordo che prevedesse un riferimento all’abbandono delle fonti fossili (la cosiddetta decarbonizzazione). Quanto alla Cina, primo inquinatore e seconda economia mondiale, è clamoroso che essa contribuirà ai finanziamenti per il clima in maniera volontaria, a differenza dei paesi ricchi che sono obbligati. Per gli Stati Uniti, secondo inquinatore e prima economia, occorrerà invece attendere l’insediamento di Trump 2, ma l’anti ambientalismo dichiarato del tycoon induce all’assoluto pessimismo.

Infine, riguardo all’Unione europea, attore tra i più avanzati nel contrasto ai cambiamenti climatici, il suo attivismo è stato frenato dalle divisioni interne prodotte dall’avanzata dei partiti sovranisti, ma – a conti fatti – rimane il protagonista più serio.

Nel 2025, la Cop30 si svolgerà in Brasile, a Belém, la porta d’ingresso dell’Amazzonia, uno degli ecosistemi mondiali più importanti e più in sofferenza.

Paolo Moiola




Somaliland. Le elezioni nel «non Stato»

 

Lo scorso 13 novembre, il Somaliland ha tenuto la sua quarta elezione presidenziale dal 1991. Cioè dall’anno in cui la regione – composta dai territori settentrionali della Somalia – ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza da Mogadiscio. Da quel momento, il Somaliland elegge un proprio Governo e si è dotato di un Parlamento. Emette una sua moneta (lo scellino del Somaliland) e ha propri passaporti. Ma, finora, nessuno Stato della comunità internazionale ne ha riconosciuto l’indipendenza. E, soprattutto, la Somalia continua a rivendicare la propria sovranità su questo territorio.

Le elezioni
Ciononostante, l’esercizio della democrazia in Somaliland continua. Addirittura, alcuni esperti lo annoverano tra gli Stati de facto «più stabili» al mondo. Quest’anno, a sfidarsi erano in tre. Ma era chiaro che a contendersi la massima carica dello Stato sarebbero stati il presidente uscente Muse Bihi Abdi, leader del Peace, unity and development, e l’ex speaker del Parlamento e capofila dell’opposizione Abdirahman «Irro» Mohamed Abdullahi del Somaliland national party. L’outsider era Faysal Ali Warabe del Justice and welfare party.

Alla fine, con il 64% dei consensi si è imposto Abdirahman, ex diplomatico di grande esperienza. La politica internazionale infatti è stata uno dei temi più caldi del dibattito pre elettorale, assieme alla preoccupazione per il crescente costo della vita. Molti elettori si sono interrogati sul peso internazionale dei candidati e su ciò che avrebbero potuto fare, una volta eletti, per promuovere il riconoscimento dell’indipendenza del Somaliland. Le posizioni erano molto diverse.

Da un lato, c’era Abdi che puntava sul memorandum d’intesa «port-for-recognition» (un porto per il riconoscimento) siglato a gennaio 2024 con il Primo ministro etiope Abiy Ahmed. Infatti, se l’Etiopia si è assicurata l’affitto del porto di Berbera, il Somaliland ha ottenuto che la sua richiesta di un riconoscimento internazionale venisse tenuta in «profonda considerazione». La firma del patto però ha causato un’escalation di tensioni diplomatiche con la Somalia, oltre al coinvolgimento (anche militare) di altri Stati della regione. E così, dall’altro lato, c’era «Irro» che dipingeva il presidente uscente come un attore profondamente divisivo.

Il memorandum
Alla fine ha vinto proprio lui, Abdirahman. Ma la situazione che si trova a gestire è decisamente complessa, con il Somaliland stretto tra Etiopia e Somalia. Il bagaglio diplomatico di «Irro» sarà fondamentale per tentare di sbrogliare la complessa matassa che è diventato il Corno d’Africa. Tentando, al contempo, di ottenere il tanto agognato riconoscimento internazionale.

Già nel 2019, l’Etiopia aveva acquistato una partecipazione del 19% nel porto di Berbera. Ora con il memorandum ne ha ottenuto l’affitto per cinquant’anni, garantendosi venti chilometri di costa sul Mar Rosso per le proprie operazioni commerciali e a una base navale. Si trattava di riavere quello sbocco sul mare che Addis Abeba aveva perso nel 1993 con l’indipendenza dell’Eritrea e che l’aveva costretta a dipendere per tre decenni dal porto di Gibuti (da cui, ancora oggi, transita il 95% del traffico commerciale marittimo etiope).

Per l’Etiopia, avere un accesso diretto al mare è fondamentale anche per affermare il proprio status di grande potenza regionale. Tant’è che Abiy Ahmed ha affermato: «L’Etiopia è un’isola circondata dall’acqua, ma è assetata. Il Mar Rosso e il Nilo ne determineranno il futuro. Sono profondamente interconnessi al nostro Paese e saranno le fondamenta del suo sviluppo o della sua scomparsa». Il riferimento, chiaro, era al dibattito sull’accesso al Mar Rosso. Ma anche alle tensioni con l’Egitto per la Grand renaissance dam, la diga che l’Etiopia ha innalzato sul Nilo blu e che, secondo Il Cairo, mina le sue risorse idriche.

Tensioni con l’Egitto, dunque. Ma anche con Gibuti che non apprezza un accordo che riduce i flussi commerciali nel suo porto. E, soprattutto, cresce il malcontento della Somalia, indispettita dalla promessa etiope di tenere in «profonda considerazione» la richiesta del Somaliland di un riconoscimento. Mogadiscio ha definito l’accordo «oltraggioso» e dichiarato che non avrebbe ceduto nemmeno «un millimetro» del proprio territorio. Il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud ha poi rincarato la dose, dicendo: «Non staremo a guardare, mentre la nostra sovranità viene compromessa».

Così in agosto, Somalia ed Egitto hanno firmato un patto di sicurezza: entrambi sono intenzionati a opporsi alla politica di potenza di Abiy Ahmed. Il Cairo ha inviato equipaggiamento militare pesante e diversi aerei a Mogadiscio. Una dimostrazione di forza che ha irritato l’Etiopia.

Decidere se andare avanti e rendere il memorandum un accordo definitivo – con il rischio, come lui stesso ha denunciato in campagna elettorale, di incendiare ulteriormente la regione – sarà ora una delle prime questioni scottanti nelle mani di «Irro».

Aurora Guainazzi




Italia. Missione come ponte tra mondi


Il Festival della missione 2025 si terrà a Torino. Preceduto da eventi pre festival durante il 2025, si svolgerà tra il 9 e il 12 ottobre nelle piazze della città.
In un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali, il tema della kermesse sarà «Il volto prossimo».
Non sarà una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza nel quale ascoltare il racconto di molte esperienze di pace, resistenza e trasformazione.

Sarà Torino la città ospite del prossimo «Festival della Missione», occasione di riflessione e, soprattutto, di incontro con molti protagonisti della «Chiesa in uscita» nelle periferie del mondo.

Un evento che, come spiegano i promotori, non sarà solo una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza e un invito a tutti ad aprirsi al mondo.

Dal 9 al 12 ottobre 2025, la terza edizione della kermesse promossa da Cimi (Conferenza degli istituti missionari italiani) e Fondazione Missio Italia, avrà come location l’area tra piazza Castello e piazza Carlo Alberto. Si interfaccerà con il programma del Festival dell’Accoglienza, evento diffuso promosso dalla Pastorale migranti dell’arcidiocesi di Torino tra settembre e ottobre, e avrà come tema di fondo «Il volto prossimo», collegandosi alla riflessione sul «Vivere per-dono» iniziata nella scorsa edizione del 2022 a Milano. Si inserirà, inoltre, nel contesto del Giubileo del 2025 promosso dal Papa con il tema «Pellegrini di speranza».

Festival della Missione 2022 a Milano. L’incontro «Missione tra vecchie e nuove vie». Da sinistra: p. Carlos Reynoso Tostado, saveriano; Elisabetta Grimoldi, laica saveriana; suor Dorina Tadiello, comboniana della comunità di Modica; il giornalista Paolo Affatato; i coniugi Marangoni della comunità di famiglie Bethesda di Padova; Fabio Agostoni, laico a Ginevra. @foto di Luca Lorusso

L’interrogativo sul volto del prossimo, e sul rendere prossimo il nostro volto all’altro, ha una sua urgenza particolare oggi, in un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali.

Alla conferenza stampa di presentazione del Festival, tenutasi martedì 19 novembre presso l’Arcivescovado di Torino, sono intervenuti monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, Agostino Rigon, direttore generale del Festival (insieme a Isabella Prati), e Lucia Capuzzi, giornalista di «Avvenire» e direttrice artistica dell’evento (insieme al regista e documentarista Alessandro Galassi).

Per loro, Torino, città con una forte vocazione missionaria che ha visto nascere le missioni salesiane di don Bosco e l’Istituto Missioni Consolata di san Giuseppe Allamano, canonizzato lo scorso 20 ottobre, diventerà il cuore pulsante di una riflessione universale.

Il legame tra il Festival della Missione e il Festival dell’Accoglienza, come sottolineato da monsignor Repole, sarà un’occasione per allargare gli orizzonti, connettendo l’attenzione ai più fragili (del secondo) con la prospettiva internazionale (del primo).

Agostino Rigon ha definito il Festival «una risposta al movimento dello Spirito e della storia», sottolineando l’urgenza di camminare insieme come Chiesa e società.

In un momento in cui le forze del mondo missionario sembrano ridursi, l’obiettivo dell’iniziativa non è solo quello di unire risorse, ma di costruire alleanze e ponti con realtà civili e religiose.

Tra piazza Castello e piazza San Carlo, ha aggiunto il direttore generale del Festival, si allestiranno «tavoli di ascolto» dedicati alla ricerca delle tracce del divino nella realtà contemporanea.

Il centro di tutto, ha spiegato Lucia Capuzzi, sarà la narrazione. Non la speculazione teologica sulla missione, ma il racconto dei protagonisti della missione.

Le storie saranno il fulcro del programma, coinvolgendo missionari e comunità di tutto il mondo per raccontare esperienze di annuncio, di pace, giustizia e trasformazione.

Tra i progetti più significativi che faranno parte degli eventi «pre festival», quelli che verranno organizzati in città nelle settimane che precederanno il Festival, vi sarà un focus su Haiti, paese «invisibilizzato» dai media internazionali e attualmente sconvolto da violenza e povertà, e un altro su una periferia come Brancaccio, a Palermo, dove la memoria di don Pino Puglisi continua a ispirare progetti di rinascita.

Il Festival proporrà durante l’anno scolastico anche un programma educativo sulla pace, elaborato in collaborazione con il Centro studi Sereno Regis, che mira a mostrare i meccanismi della violenza e a promuovere la nonviolenza e giustizia riparativa. L’11 ottobre, in Piazza Castello, si terrà un grande evento dedicato alla pace.

Durante la conferenza stampa, per dare un assaggio di cosa sarà il Festival, sono intervenuti anche tre missionari per dare la loro testimonianza: suor Angela Msola Nemilaki, superiora generale delle Madri Bianche, le suore missionarie di Nostra Signora d’Africa, ha acceso i riflettori sul dramma della tratta di esseri umani. La religiosa ha raccontato la storia di Lulu, una giovane vittima di tratta e tortura. La missione, per suor Angela, è ridare dignità a chi se n’è visto privato, attraverso piccoli gesti di presenza e gentilezza, nella consapevolezza che, come affermato da papa Francesco, «solo aprendo il cuore agli altri scopriamo la nostra umanità».

Padre Dario Bossi, missionario comboniano in Brasile, ha parlato delle sfide globali legate al cambiamento climatico e del «razzismo ambientale», per cui capita sovente che le prime e principali vittime dei cambiamenti climatici siano i più poveri. «La missione oggi è costruire alleanze dal basso», ha detto, invitando a riflettere sul debito di giustizia che il Nord del mondo ha nei confronti del Sud.

Infine, Cristian Daniel Camargo, giovane missionario laico della Consolata e artista argentino, ha presentato il suo progetto «Murales por la Paz», una proposta artistica e teologica che invita comunità di tutto il mondo a dipingere insieme, costruendo pace e dialogo attraverso l’arte.

Dal 2018, il suo progetto «teo artistico» ha realizzato oltre 60 murales in luoghi come Colombia, Guatemala, Italia, Salvador e Argentina, e Camargo spera di proseguirlo in Kenya e Uganda, e poi di tornare in Italia nell’ottobre prossimo per partecipare al Festival della Missione.

«Se la Chiesa sparisse, è come se non ci fosse più cielo sulla terra», ha concluso monsignor Repole, citando il sociologo Hans Joas. Il Festival della Missione 2025 promette di essere uno «squarcio di cielo» su Torino, un’occasione per riflettere sulla dimensione umana e trascendente della missione, intrecciando storie di fragilità e speranza, per fare del mondo una sola famiglia.

Luca Lorusso

Il Festival della Missione 2022 a Milano si è tenuto prevalentemente all’aperto. La gran parte degli incontri sono stati alle Colonne di San Lorenzo. Anche il Festival 2025 a Torino si terrà negli spazi di piazza Castello e piazza Carlo Alberto in centro città. @foto di Luca Lorusso




Taiwan. Spose cinesi

 

Capita che una ragazza cinese del continente (mainland, come dicono a Taiwan) sposi un uomo di Taiwan. Le statistiche parlando di un totale di circa 380mila.
Capita, inoltre, che alcune delle spose siano blogger o youtuber e che molte di loro abbiano realizzato video sulla loro vita a Taiwan.

È frequente che parlino bene di questa esperienza, e la confrontino con quella in Repubblica popolare.
Alcune hanno parlato del sistema sanitario a Taiwan, delle leggi e dell’efficienza governativa, paragonandoli a quelli della Cina continentale.
Le autorità di Pechino hanno espresso disappunto su questi video.
Secondo una fonte del Taipei Times pare che queste spose cinesi siano state oggetto di minacce da parte di cittadini della Cina continentale. I video non sarebbero piaciuti e i loro account YouTube sarebbero finiti sotto cyber attacco e sarebbero stati perturbati.

La fonte ha riferito che i canali YouTube sono stati inondati da commenti negativi tra i quali accuse di connivenza delle autrici con il Partito democratico progressista (Dpp), attualmente al potere a Taiwan, mettendo in questione la loro credibilità.
«Tuttavia, questi video non toccano temi politici. Sono realizzati per condividere la propria esperienza di vita quotidiana a Taiwan», ha commentato il professor Hung Chin-fu della National Cheng Kung University di Tainan (Taiwan).
«Parlando di elezioni democratiche e di facile acceso a cure mediche hanno toccato temi sensibili e il governo della Cina continentale si sente minacciato da questi contenuti. […]
Sono argomenti che possono impattare sul contesto attuale dell’economia della Repubblica popolare – continua il professore -. Vedere qualcuno che vive liberamente e felicemente a Taiwan potrebbe causare una reazione della gente in Cina».

Questo fenomeno è tuttavia da inquadrare in un più complesso sistema di scambi tra i due lati dello Stretto. Molti imprenditori taiwanesi fanno affari in Cina continentale dove hanno aperto filiali delle loro aziende. Migliaia di studenti cinesi del continente frequentano le università taiwanesi. Ogni anno centinaia di migliaia di turisti cinesi visitano l’isola. Senza contare il volume gli scambi commerciali tra i due lati dello Stretto.

(Tratto dal Taipei Times)




Mozambico. Caos dopo le presidenziali

 

Dopo la ribellione islamista nel Nord, il Mozambico si trova alle prese con un altro grave motivo di instabilità. Le elezioni del 9 ottobre hanno portato tensione, scontri, morti, dissidio tra il partito al potere (Frelimo) e quelli di opposizione (Podemos e Renamo).

Un fardello pesante per un Paese che sembrava avere imboccato la via dello sviluppo grazie alla stabilità macroeconomica raggiunta, nel 2023, con una crescita del Pil intorno al 5%, sostenuta dai progetti di estrazione di gas naturale liquefatto, dal settore dei servizi e dalla caduta (dal 10,3% al 3,9%) dell’inflazione.

La tornata elettorale pareva giocarsi sul filo della novità. Il Frelimo, partito al potere dall’indipendenza (raggiunta nel 1975), ha presentato Daniel Chapo, 47 anni, primo candidato a non aver partecipato alla guerra di indipendenza. Chapo, sostenuto dal presidente uscente Filipe Nyusi, nella sua campagna ha sottolineato la continuità politica e lo sviluppo economico, con promesse di riforme e di contrasto alla povertà. A sfidarlo un altro candidato giovane: Venancio Mondlane, 50 anni. Ex membro della Renamo, storica formazione di opposizione e del Movimento Democrático de Moçambique, ha fondato un proprio partito, Podemos, con un’agenda di giustizia sociale e gestione equa delle risorse naturali. I dati ufficiali del voto hanno sancito la vittoria di Chapo che avrebbe ottenuto il 70,6% dei voti contro il 20% del rivale Mondlane.

I risultati sono subito stati contestati. Podemos ha dichiarato, in base a un conteggio parallelo condotto dai suoi osservatori, che il vero vincitore (con il 53%) sarebbe stato Mondlane. Le accuse di frodi elettorali, l’assenza di trasparenza e le irregolarità nel voto sono state evidenziate anche a livello internazionale. Gli osservatori dell’Unione europea e della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc) hanno segnalato mancanza di trasparenza e una gestione inadeguata delle operazioni elettorali, nonché difficoltà per gli osservatori nell’accedere ai seggi elettorali. Anche se la posizione della Sadc è stata ambigua. Il presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, ha espresso le sue congratulazioni al Frelimo e al candidato Daniel Chapo per quella che ha definito «una vittoria schiacciante», nonostante i risultati ufficiali non fossero ancora stati dichiarati. Questo gesto di Mnangagwa, che è anche presidente della Sadc, ha sollevato critiche.

Diverse manifestazioni pacifiche, organizzate dall’opposizione, sono state represse dalle autorità con l’uso della forza. Almeno cinquanta manifestanti hanno perso la vita durante gli scontri, come riferito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Il caso più eclatante è avvenuto il 19 ottobre 2024 quando l’avvocato Elvino Dias, consulente legale di Mondlane, e Paulo Guambe, leader del partito Podemos, sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco mentre viaggiavano in auto a Maputo. La polizia ha dichiarato di non avere ancora identificato i responsabili, e vari gruppi per i diritti civili hanno chiesto indagini urgenti su questi omicidi, interpretandoli come un segnale di pericolo per lo stato di diritto e la sicurezza politica nel Paese.

Dopo il voto, anche Amnesty International ha denunciato l’uso di proiettili da parte della polizia contro i sostenitori di Mondlane durante le proteste, richiamando il governo a rispettare i diritti di riunione pacifica. Mondlane stesso ha dichiarato di essere stato vittima di un tentativo di omicidio in Sudafrica, dove si è rifugiato per motivi di sicurezza.

Di fronte a questa situazione, i vescovi della Conferenza dei vescovi cattolici dell’Africa Meridionale (Sacbc) hanno inviato una lettera alla Conferenza episcopale del Mozambico nella quale chiedono «la creazione di spazi di collaborazione nella governance», suggerendo un possibile governo di unità nazionale «per dare al Mozambico un futuro di speranza». E hanno concluso: «Il Mozambico merita verità, pace, tranquillità e tolleranza».

Enrico Casale




Ucraina. In viaggio tra Fastow e Kherson

Padre Luca Bovio, missionario della Consolata in Polonia, ha compiuto diversi viaggi nel Paese in conflitto dall’inizio dell’invasione russa. Ogni volta per portare tutto l’aiuto che gli è possibile, anche grazie alla generosità di molti amici della Consolata.
A inizio novembre è stato a Fastow, vicino alla capitale Kiev, e a Kherson, sul fronte Sud della guerra.

«Ti auguro la pace dal cielo», è il saluto che spesso ci si scambia in Ucraina salutandosi alla fine di un incontro.

È un augurio con un significato concreto: ti auguro che nessun missile o drone cada dal cielo. In tempo di guerra, è un augurio essenziale.

Ma è anche un’invocazione: il Signore che sta nei cieli ci aiuti ad avere la pace.

Dal marzo 2022, quando compimmo il nostro primo viaggio nell’Ucraina invasa dalla Russia, siamo tornati nel Paese diverse volte. I Missionari della Consolata e la Chiesa polacca non smettono di portare il loro aiuto alle popolazioni colpite dal conflitto.

Charkiv. Nelle cantine della città, trasformate in rifugi sotterranei a causa dei bombardamenti. Novembre 2022.

In questi ultimi mesi siamo tornati in Ucraina diverse volte. L’ultima pochi giorni fa. Un viaggio iniziato nella comunità dei Domenicani a Fastow, non lontano dalla capitale Kiev, proseguito a sud fino alla città di Kherson e conclusosi con il ritorno a Kiev.

A Fastow c’è una vivace comunità di Domenicani impegnati non solo nel guidare la parrocchia locale e alcune chiese limitrofe, ma anche, con l’aiuto di numerosi volontari, in molte opere sociali.

Tra queste, l’accoglienza di bambini che qui possono stare sotto un tetto sicuro e caldo, e ricevere istruzione.

Poco lontano è stato aperto un centro di riabilitazione con una nuova cappella benedetta domenica 3 novembre dal Nunzio apostolico.

Benedizione della cappella del centro di riabilitazione per bambini non lontano dal convento domenicano.

Dopo aver partecipato alla giornata di festa, allietata anche da diversi cori, tra cui un coro di giovani non autosufficienti e un gruppo musicale di soldati, ci siamo diretti ancora una volta nella città di Kherson, posta a sud del Paese, sulla riva occidentale del fiume Dniepr.

Padre Luca Bovio (il primo a sinistra) una famiglia di Słoneczne che prende l’acqua.

In questi giorni la città celebra il secondo anniversario della liberazione, avvenuta l’11 novembre del 2022, quando, dopo una breve occupazione russa, è ritornata sotto il controllo ucraino.

Da quel momento non si può dire che la città viva in pace, anzi di fatto è un fronte di prima linea. Il fiume, in questo momento, determina il confine naturale tra i due eserciti: gli ucraini a ovest, i russi a est.

Le condizioni di vita in questo luogo sono difficili a motivo dei continui lanci che da una sponda all’altra si scambiano gli eserciti giorno e notte.

Fumo dopo un bombardamento.

La città che contava quasi 300mila abitanti prima dell’invasione, si è vista ridotta a 30mila. Oggi si assiste a un timido ritorno, e oggi si calcola che in città vivano circa 70mila abitanti. Alcuni, infatti, nonostante il pericolo, hanno deciso di tornare non avendo la possibilità di vivere per un lungo periodo da altre parti.

Don Massimo con il suo vicario, anche lui don Massimo, e un catechista che vive con loro, Sergio, stanno nell’unica parrocchia latino cattolica della città, dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù, posta non lontano dalla riva del fiume.

Sono impegnati a tenere viva la piccola comunità cristiana che ogni giorno si ritrova nella chiesa per celebrare la santa Messa, ma anche nel distribuire aiuti umanitari.

Don Massimo nella sua parrocchia dedicara al sacro Cuore a Kherson.

Don Massimo si reca quasi ogni giorno nei villaggi attorno alla città per portare acqua potabile. Qui l’acqua è abbondante nel sottosuolo, tuttavia, a motivo della guerra, le falde sono inquinate. Le esplosioni di magazzini di fertilizzanti usati dai contadini hanno causato un doppio  danno: la perdita dei concimi e l’inquinamento delle falde.

La fonte di acqua che si trova sotto la parrocchia è ancora pura, e con essa viene riempita una cisterna di 1000 litri che va settimanalmente nei villaggi.

Al mattino, passando i vari check point dei militari, arriviamo nel piccolo villaggio di Sloneczne dove lasciamo la cisterna.

Da Sloneczne ci dirigiamo verso la città e visitiamo la nuova lavanderia che i Domenicani hanno aperto affidandola ad alcune donne del posto.

Da poche settimane qui sono messe a disposizione 10 lavatrici e 10 asciugatrici dove chiunque, soldati compresi, possono gratuitamente lavare i panni.

Nel pomeriggio ritorniamo a visitare il piccolo ospedale di Bylozerka, per consegnare i medicinali che abbiamo portato.

Ritroviamo la giovane chirurga Natalia, l’unica rimasta a lavorare qui. È molto contenta di ricevere i medicinali che portiamo. Le condizioni di lavoro in questo piccolo ospedale che serve una grande regione, sono molto difficili. Ogni giorno il villaggio, e, a volte, l’ospedale stesso, sono colpiti dai droni o dall’artiglieria russi.

I segni delle esplosioni sono visibili. Tutte le finestre sono coperte con i sacchi di sabbia per attutire i colpi.

Ospedale di Bylozerka.

Delle quattro ambulanze disponibili prima della guerra, ne è rimasta una sola. Le altre sono state tutte distrutte.

Purtroppo, ha perso la vita anche una equipe medica che era a bordo di una di esse. Ultimamente è stata distrutta anche la caldaia dell’ospedale.

La caldaia (distrutta dai russi) dell’ospedale di Bylozerka.

I medicinali che consegniamo erano esauriti. Tra questi, ci racconta Natalia, mancano anche gli antidolorifici. L’incontro con lei è breve. La stessa dottoressa ci incoraggia a tornare in città perché fra poco calerà il sole e potrebbero di nuovo iniziare le esplosioni.

Una volta tornati, riusciamo a fare ancora una breve passeggiata nei dintorni della Parrocchia in una città completamente al buio. I parchi sono tutti chiusi, ed è pericoloso attraversarli. Tra le foglie abbondanti che coprono i giardini e i marciapiedi in questa stagione autunnale, sono mischiate alcune mine a forma di foglia lanciate dai droni, pericolose perché difficili da riconoscere.

Mercato di Kherson.

Notiamo la presenza di tanti cani randagi che girano per le strade deserte. Soprattutto nelle ore serali. È meglio evitarli. Il loro abbaiare è l’unico suono che si sente nel profondo silenzio di questa citta, alternato solo dai rumori degli spari che rimbombano da lontano.

Finita la visita a Kherson, torniamo a Kiev e da lì di nuovo in Polonia. Pensiamo che, nonostante la lunghezza del conflitto e la stanchezza che tutti sentiamo di avere, in primis coloro che abitano in Ucraina, la situazione richiede ancora molta preghiera e molto aiuto. E affidiamo questo Paese all’intercessione del nostro santo fondatore Giuseppe Allamano.

Luca Bovio, Imc