Brasile. Francesco padre dei poveri

 

Il mio primo incontro con Papa Francesco è avvenuto alla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro nel 2013. Da poco più di un anno ero stato nominato vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi di San Salvador da Bahia, e per la prima volta partecipavo a un grande evento che mostrava il volto giovane di una Chiesa desiderosa di essere presenza nel mondo.

Ho poi avuto altre occasioni per incontrarlo e godere della sua paternità, fede e semplicità.
«Dio sempre ci sorprende», era solito dire Papa Francesco. E la Chiesa è rimasta sorpresa con l’elezione di un uomo «venuto dalla fine del mondo» che ha sempre cercato di mettere al centro della nostra attenzione tutto quello che era considerato periferico.

Cosa ci lascia in eredità Papa Francesco?

Successore dell’apostolo Pietro, ha dedicato la sua vita all’annuncio e alla testimonianza del Vangelo. Fin dall’inizio del suo pontificato, egli ha esortato la Chiesa a «uscire», impegnandosi ad annunciare la gioia del Vangelo (Evangelii gaudium), invitando ogni battezzato a partecipare attivamente alla missione evangelizzatrice.

Buon Pastore, ha camminato «davanti, in mezzo e dietro al gregge», con il popolo santo di Dio, soprattutto con i fratelli e le sorelle più poveri che vivono nelle periferie geografiche ed esistenziali.

Profeta del nostro tempo, difensore della dignità umana, ha denunciato la «cultura dell’indifferenza» verso la sofferenza delle persone più vulnerabili e scartate della società.

Ha invocato la pace in un mondo segnato dalle guerre e ha richiamato l’attenzione della società sulla necessità di prendersi cura della nostra Casa Comune.

Padre dei poveri, ha mostrato nei piccoli gesti il volto misericordioso di una Chiesa dalle porte aperte, chiamata a essere «ospedale da campo», testimone di un Dio che non si stanca mai di amare e perdonare.

Sono grato al Signore per averlo conosciuto e incontrato, per la sua testimonianza che ci invita a essere una Chiesa più vicina, più umana e più fedele al Vangelo.

+ Giovanni Crippa, Vescovo di Ilhéus, Brasile




Brasile. «Siamo sempre stati qui!»

 

Una folta rappresentanza dei popoli indigeni del Brasile si è data appuntamento a Brasilia – dal 7 all’11 aprile – per dare vita alla ventunesima edizione dell’«Acampamento terra livre» (Atl). Il raduno – organizzato dall’«Articolazione dei popoli indigeni del Brasile» (Apib), associazione che comprende sette rappresentanze regionali – è avvenuto in un periodo storico particolarmente grave per i popoli autoctoni a causa dei ripetuti attacchi ai loro diritti, formalmente sanciti dalla Costituzione del 1988 e dai trattati internazionali.

Se da una parte c’è un presidente aperto alle istanze indigene come Lula, dall’altra c’è un Congresso dominato dai «ruralisti» (latifondisti, proprietari terrieri, imprenditori dell’agrobusiness, imprenditori del settore minerario) che vedono nei popoli indigeni un ostacolo ai loro interessi particolari. L’obiettivo di questo gruppo è uno solo: impossessarsi a qualsiasi costo delle terre occupate dalle popolazioni indigene per sfruttarle a piacimento.

Negli ultimi anni, gli attacchi ai diritti costituzionali dei popoli indigeni hanno trovato la massima espressione nell’emanazione della legge 14.701/2023, nota come Lei do marco temporal Legge del limite temporale»), concernente il riconoscimento, la demarcazione, l’uso e la gestione delle terre indigene. Una norma – si noti bene – emanata dal Congresso che prima ha ignorato il giudizio di incostituzionalità del Supremo tribunale federale (Stf) e poi ha respinto i veti posti dal presidente Lula.

Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva con il leader indigeno Raoni Metuktire. Lula si trova a dover fronteggiare un Congresso dominato dai ruralisti, la cui unica volontà è di impossessarsi (a qualsiasi costo) delle terre indigene. Foto: Ricardo Stuckert – PR.

La legge è, dunque, vigente trovando su fronti opposti i popoli indigeni e il Congresso a maggioranza ruralista. Per cercare di trovare una soluzione consensuale, il ministro Gilmar Mendes del Supremo tribunale federale ha formato una Commissione speciale di conciliazione. Tuttavia, il Consiglio indigenista missionario (Cimi), organo meritorio legato alla Conferenza episcopale brasiliana (Conferência nacional dos bispos do Brasil, Cnbb), da oltre cinquant’anni a fianco dei popoli indigeni, ha commentato che la conciliazione proposta «potrebbe comportare conseguenze ancora più gravi per i popoli rispetto alla stessa Legge 14.701».

È in questo clima di incertezza e di opposizione frontale che circa ottomila indigeni (questa è stata la stima) si sono ritrovati nella capitale brasiliana. Le giornate sono state però segnate da un brutto evento. Il 10 aprile, durante una marcia programmata («A resposta somos nós», la risposta siamo noi), la polizia (sia quella nota come legislativa sia quella militare) ha attaccato un gruppo di indigeni, colpiti con gas lacrimogeni e spray al peperoncino. Le autorità hanno accusato i manifestanti di aver tentato di occupare spazi non autorizzati. Gli organizzatori hanno respinto l’accusa, replicando che si è trattato di un atto deliberato della polizia. Il fatto è riuscito a sviare l’attenzione pubblica dalle questioni poste dai popoli indigeni, evidenziando nel contempo il pesante clima anti indigeno vigente nel paese.

Tutto questo è stato raccontato anche nel comunicato finale dell’Apib, testo che si apre con un’affermazione e un’accusa incontestabili: «Noi indigeni siamo sempre stati qui! Abbiamo resistito all’invasione dei nostri territori e al genocidio perpetrato contro i nostri antenati e contro di noi per 525 anni». La conclusione è – invece – un grido, forse un po’ enfatico, ma sicuramente pieno di orgoglio e di speranza: «La nostra lotta è per la vita, per la Madre terra, per la Costituzione e per il futuro dell’intera umanità».

Paolo Moiola




Brasile. Un indigeno in meno

Si chiamava Hariel Paliano ed era un indigeno di soli 26 anni. È stato assassinato nella Terra indigena Ibirama – abitata da Guarani, Kaingang e Xokleng – nello stato di Santa Catarina, nel Sud del Brasile, lo scorso 27 aprile. Il corpo del giovane è stato trovato ai margini di una strada e presentava segni di percosse e bruciature.

La notizia dell’omicidio è stata annunciata al termine della ventesima edizione di «Acampamento terra libre» (21-27 aprile), l’annuale incontro organizzato dall’«Articulação dos povos indígenas do Brasil» (Articolazione dei popoli indigeni del Brasile, Apib) sulla situazione dei diritti degli indigeni (1,7 milioni di persone, secondo il Censimento 2022). Quest’anno a Brasilia sono arrivati in ottomila in rappresentanza di oltre 200 popoli sui 305 totali. Un successo di partecipazione al quale non è corrisposto un successo politico. Tanto che Kleber Karipuna, coordinatore esecutivo di Apib, durante la marcia per le vie della capitale brasiliana ha gridato più volte: «Lula, creare semplicemente un ministero dei Popoli indigeni non risolve nulla».

Kleber Karipuna, coordinatore esecutivo di Apib, ha criticato il presidente Lula, ostaggio del Congresso.

La tragica fine di Hariel Paliano s’inserisce nell’infinita diatriba sulla legge del «marco temporal» (secondo la quale sono da considerare terre indigene soltanto quelle occupate fino al 1988) che, al momento, ha visto la vittoria della folta compagine anti indigena e l’umiliazione di Lula per mano del Congresso brasiliano.

Nonostante la sentenza di incostituzionalità da parte del Supremo tribunale federale (settembre 2023) e il veto parziale del presidente Lula (ottobre 2023), il Congresso – dominato dalla «bancada ruralista» (Frente parlamentar da agropecuária, Fpa) legata ai latifondisti e all’ex presidente Bolsonaro – ha proseguito sulla propria strada approvando il «marco temporal» (dicembre 2023) con la legge 14.701/2023.

L’«Articolazione dei popoli indigeni del Brasile» ha presentato un’Azione diretta di incostituzionalità (Adi) al Supremo tribunale federale per chiedere l’annullamento della legge, da essa ribattezzata «Legge del genocidio indigeno». Finché l’Adi non sarà giudicata dai ministri del tribunale, i popoli indigeni si troveranno ad affrontare invasioni dei loro territori, omicidi e devastazione dell’ambiente.

Secondo il Conselho indigenista missionário (Consiglio indigenista missionario, Cimi), organizzazione da 52 anni in prima fila nella lotta a fianco dei popoli indigeni, le conseguenze derivanti dall’approvazione della legge saranno disastrose.

Per parte sua, il Fronte parlamentare dell’agricoltura (Fpa) ha gioito per la promulgazione della legge che – sostiene – difende il diritto di proprietà in Brasile e l’eguaglianza di tutti i brasiliani. Affermazioni incredibili da parte di chi, attraverso il latifondo, vuole soltanto mantenere i propri privilegi ai danni dei popoli indigeni e dell’intero paese.

In tutto questo, a oggi c’è una sola certezza: la legge del «marco temporal» è entrata in vigore e, come temuto, sta già facendo danni.

Paolo Moiola




Brasile. Ailton Krenak, oltre il silenzio e l’invisibilità

Da 84 anni, il mese di aprile è dedicato alla celebrazione dei popoli indigeni dell’America Latina. Quest’anno, però, per quelli del Brasile, la ricorrenza dell’Abril indígena assume un significato particolare, essendo stata segnata da due avvenimenti di portata storica.

Il 10 aprile scorso, Davi Kopenawa, leader e sciamano noto a livello internazionale, ha incontrato papa Francesco per chiedergli di unire i suoi sforzi a quelli del presidente Lula per contrastare la minaccia che ancora oggi incombe sul destino del suo popolo, gli Yanomami, rappresentata dalla nuova ondata di cercatori d’oro che si riversano nel territorio a loro riconosciuto nel 1992.

Qualche giorno prima, il leader indigeno e ambientalista Ailton Alves Lacerda (1953), del popolo Krenak (di qui il nome Ailton Krenak), era stato insignito dall’«Accademia brasiliana delle lettere» del titolo di «immortale» (riservato ad accademici illustri) divenendo il primo scrittore indigeno a insediarsi nella prestigiosa istituzione brasiliana.

Già sul finire degli anni Ottanta, Krenak, tra i promotori del movimento indigeno, era stato protagonista di un altro atto di grande valore simbolico: durante i lavori dell’Assemblea nazionale costituente di cui era partecipante – in segno di lutto e protesta – si era dipinto il viso di jenipapo (frutto che rilascia una tinta scura utilizzata in diverse culture per la pittura corporale) per mobilitare l’opinione pubblica e i parlamentari affinché approvassero i due articoli della Costituzione (varata poi nel 1988) che riconoscono gli indigeni come cittadini brasiliani e il loro diritto a vivere sulle terre da essi tradizionalmente occupate secondo la propria cultura.

Divenuto un leader riconosciuto e affermato a livello nazionale fin dalla giovane età, non ha mai smesso di denunciare i soprusi e le violenze che, dall’inizio del XX° secolo fino al periodo della dittatura militare (1964-1985), hanno segnato in modo indelebile la sua storia personale e quella del suo popolo.

Dal 1940, con l’espansione dell’industria mineraria nel Minas Gerais a opera della compagnia «Vale do Rio Doce» (Valle del fiume Dolce), il territorio krenak è attraversato da una linea ferroviaria per il trasporto dei minerali destinati all’esportazione. Da quel momento, la vita degli indigeni krenak cambiò per sempre: il contatto con gli operai provocò la diffusione di malattie e l’ambiente fu completamente stravolto: «Le nostre montagne – scrive Krenak – si sono trasformate in merce da trasportare su treni e vagoni».

Considerati un intralcio allo sviluppo, i Krenak, che già allora erano un popolo di poche decine di persone (oggi sono circa 500), furono successivamente espulsi dalla terra d’origine e segregati (tra il 1969 e il 1972) in un luogo conosciuto come il «Riformatorio». Krenak, che fu deportato in questa struttura gestita dalla polizia militare quando era ancora un ragazzo per essere «rieducato», non esita a definirla un «campo di concentramento». Solo dal 1980 in poi, dopo un’altra serie di deportazioni, i Krenak riconquistarono il proprio territorio.

Nel 2015, una nuova tragedia si abbattè sul piccolo popolo indigeno: il cedimento della diga di contenimento di una impresa sussidiaria della Vale, provocò lo sversamento nel fiume di residui tossici derivanti dell’estrazione dei minerali ferrosi. Ailton Krenak sentì l’urgenza di denunciare il disastro ambientale che aveva determinato la morte del rio Doce o «Watu», cioè «nostro nonno» in lingua krenak, che era «entrato in coma».

Nella sua lunga frequentazione del mondo del bianco, Krenak ha compreso che è necessario traslare la potenza della lingua nella scrittura – «la scrittura dell’oralità» – attraverso la quale è possibile veicolare all’esterno il discorso e le rivendicazioni dei popoli indigeni.

Anche come reazione all’ennesimo trauma vissuto dal suo popolo, tra il 2019 e il 2022 ha scritto una serie di saggi che, in poco tempo, sono diventati dei veri e propri best sellers, tradotti in diciannove paesi: Ideias para Adiar o Fim do Mundo (2019), A vida não é util e O amanhã não está à venda (2020) e Futuro ancestral (2022).

Nel suo discorso di investitura all’Accademia brasiliana delle lettere, Krenak ha dichiarato che con lui entrano nell’istituzione oltre 300 popoli indigeni – più precisamente 305 -, e ha reso omaggio non alla «lusofonia» ma alla «sinfonia» delle oltre 200 lingue native che rappresentano la diversità culturale del Brasile.

Come l’indio «sceso da una stella colorata, brillante» di cui canta Caetano Veloso, Krenak, nell’uniforme verde e oro dei sovrani colonizzatori, ma con il capo cinto da una bandana del popolo Huni kuin – «gli uomini veri» dell’Acre (ai quali è legato da vincoli di parentela e di storia) -, è atterrato sul palcoscenico della Storia per riscattare i popoli indigeni dal silenzio e dall’invisibilità a cui sono stati relegati per oltre 500 anni e per riconnetterci con la nostra ancestralità, senza la quale non può esserci futuro.

Silvia Zaccaria

 




Brasile. I «tifosi» di Santa Barbara


Al Nordest del Brasile si trova Salvador de Bahia de Todos los Santos. È in questa città che si tocca con mano l’eredità africana del Paese. Abbiamo assistito alla cerimonia religiosa afrobrasiliana in onore di Santa Barbara – Iansã.

Salvador Bahia. Il quartiere di Pelourinho – nome che, in portoghese, indica la «gogna» che veniva usata per legare e frustare le persone schiavizzate – è un quartiere dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Raccoglie tracce importanti dell’architettura coloniale locale del XVII e XVIII secolo. In esso, dicono le guide, si trovano più di trecento chiese.

Una di esse è quella di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos (Nostra Signora del Rosario dei Neri), la cui costruzione durò quasi cento anni e che è uno dei simboli del sincretismo religioso e culturale della città brasiliana.

La resistenza degli schiavi

È proprio qui che il 4 dicembre scorso ha avuto luogo la celebrazione in onore di Santa Barbara, martire dei primi secoli dopo Cristo (terzo e quarto) che la tradizione colloca tra la Turchia e l’Italia. La festa cattolica si unisce a quella dei fedeli dell’umbanda in onore di Iansã, un’orixá (divinità afro) dei culti afrobrasiliani.

Abbiamo partecipato all’intera giornata di celebrazioni per vedere in prima persona una ritualità nata in epoca coloniale dalla popolazione nera schiavizzata come esercizio di resistenza e di conservazione delle sue radici religiose e culturali.

La festa per Santa Barbara – Iansã ha inizio alle prime luci dell’alba quando, di fronte alla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos, tutto comincia a colorarsi di rosso e bianco: petali di rose rosse ricoprono le strade del quartiere, rossi e bianchi sono i vestiti dei pellegrini e dei commercianti, rosse e bianche le collane, i palloncini, i chioschi, le ghirlande di fiori, i tappeti e ogni ornamento portato in dono per celebrare questa santa a due facce.

Per questo, fin dalle cinque del mattino, di fronte alla chiesa, sono appostati i venditori di rose, così come i commercianti che vendono una miniatura della santa che cerca di riprodurne lo splendore.

Una devota di Santa Barbara – Iansa in adorazione davanti alla chiesa di Nossa Senhora do Rosário dos Pretos, Largo do Pelourinho (4 dicembre 2023). Foto Diego Battistessa.

Dal mondo degli Yoruba

La figura di Iansã, sotto nomi e forme diverse, si può far risalire a una divinità del popolo Yoruba, originario del sud della Nigeria, Benin e Togo. È una delle principali divinità femminili venerate in varie tradizioni religiose africane sia in Brasile che nei Caraibi.

È conosciuta e venerata per essere la divinità del vento, dell’acqua e delle tempeste, però i primi pellegrini che arrivano di fronte alla chiesa ci spiegano che le funzioni di questa orixá sono anche riconducibili all’ambito della sfera privata. Infatti, Iansã si occupa anche di allontanare gli spiriti maligni da luoghi o persone e di risolvere le questioni di coppia, come l’infedeltà.

Allontanare gli spiriti maligni, ricevere una profonda purificazione o ringraziare per una grazia ricevuta sono gli obiettivi di questa marea biancorossa di persone che, ogni anno, giungono da tutto il Brasile e anche dall’estero per prendere parte alle celebrazioni.

Le porte dell’edificio di culto si aprono di primo mattino e subito la statua della santa riceve i fedeli che fanno la fila per avere pochi istanti di intimità al suo cospetto. Fuori inizia la musica, e, non più tardi delle sette, quando il caldo si fa già sentire, scoppiano i primi fuochi d’artificio.

Nel centro della piazza, nota come Largo do Pelourinho, di fronte alla Casa museo di Jorge Amado, indimenticato scrittore della Bahia, è stato preparato un palco sul quale verrà celebrata una messa campale per la folla dei fedeli festanti, folla che non può essere accolta tutta dentro Nossa Senhora do Rosario dos Pretos. Mentre le processioni e le richieste a Santa Barbara – Iansã si susseguono all’interno, fuori, negli spazi adiacenti il palco, si moltiplicano i riti di purificazione, nei quali si invocano i poteri dell’orixá per avere protezione, salute e serenità.

In questi brevi ma intensi rituali sono i sigari, le erbe, l’acqua e l’olio santo a diventare protagonisti, tra grida e sussurri, momenti di trance ed estasi, in una sublimazione simbolica della religione afrobrasiliana.

Mentre quel mare rosso e bianco di fedeli che inneggiano a Santa Barbara – Iansã balla e canta la sua devozione, poco dopo le otto, la statua della Santa viene portata in processione dalla chiesa fino al palco. Un percorso che suscita commozione, in un clima allegro e solenne allo stesso tempo, tra tamburi, incenso e petali di rosa.

La messa inizia pochi minuti dopo e anche in essa sono evidenti le tracce della cultura e della religiosità afrobrasiliana. Finita la celebrazione, esplode la festa in tutto Pelourinho, con manifestazioni artistiche e concerti che durano per tutto il giorno.

I ristoranti servono caruru (piatto tradizionale della cucina afrobrasiliana a base di gamberetti, cipolla, anacardi e arachidi, tipico di Bahia e di questa festività), si ascolta l’atabaque (strumento rituale simile a un tamburo) che batte al ritmo del cuore e si cantano canzoni come la famosa «Sorriso negro» di Dona Ivone Lara: «Negro é a raiz da liberdade» (Il nero è alla radice della libertà).

Verso le undici il grande corteo parte per attraversare tutto il centro storico passando per Largo do Pelourinho e per Terreiro de Jesus, Praça da Sé, Praça Municipal, Ladeira da Praça, fermandosi alla sede dei vigili del fuoco (la santa è la loro patrona), continuando poi per Praça dos Veteranos, per Baixa dos Sapateiros e fino al Mercado da Santa Barbara per ritornare poi al punto di partenza.

Qui i devoti si riuniscono di nuovo per ascoltare i gruppi musicali che si susseguono sul palco di fronte alla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos nel centro del Peló (così viene popolarmente chiamato il Pelourinho dagli abitanti della città). L’energia e la magia della celebrazione continuano dopo il tramonto quando le luci natalizie fanno la loro comparsa, illuminando il selciato delle strette strade irregolari, tortuose e in pendenza del quartiere (sono chiamate «ladeiras»), vie ancora spumeggianti di vita e allegria.

La chiesa Nosso Senhor do Bonfim, a Salvador Bahia, uno dei luoghi più importanti per le manifestazione del sincretismo religioso tra cattolicesimo e religioni afrobrasiliane. Foto Diego Battistessa.

Un pieno di feste

Quelle in onore di Santa Barbara – Iansã (ricorrenti fin dal 1641) fanno parte di un ricco calendario di celebrazioni che interessano la capitale dello stato di Bahia durante tutto l’anno. Dopo il 4 dicembre, la prima data da segnare è l’8 dello stes-so mese, quando si celebra la festa religiosa più antica del Brasile, nella basilica de Nossa Senhora da Conceição da Praia, in onore all’Immacolata Concezione.

Successivamente, il 13 dicembre si celebra la festa di Santa Luzia (Santa Lucia), mentre nella notte tra l’anno vecchio e quello nuovo, si rende omaggio al Bom Jésus dos Navegantes (Buon Gesù dei Naviganti). A gennaio, il 5 e il 6, si celebrano i Re Magi, mentre nella seconda metà del mese ha luogo uno dei riti sincretici più importanti della capitale della Bahia: il «Lavagem do Bonfim» (riquadro a lato).

Il primo mese dell’anno si chiude con la festa di San Lazzaro, ma è febbraio che ospita il clou. Infatti, nei giorni 1 e 2 del mese si celebra quella che è considerata la più grande manifestazione religiosa pubblica del candomblé nello stato di Bahia: il festival Iemanjá (Yemanjá), celebrato in onore della divinità dell’oceano sulle spiagge e nelle acque di Salvador.

Tra questa e l’inizio del Carnevale, si celebra in città anche il Lavagem de Itapuã, festa popolare che ha già compiuto più di 100 anni.

Tocca poi al Carnevale che, qui e nel resto del Brasile, è la più grande festa dell’anno nel quale, ancora una volta, si mischiano e si fondono le simbologie cattoliche e quelle delle religioni afrobrasiliane. Giugno è il mese di Santo Antônio, São João, São Pedro, rispettivamente il 13, il 24 e il 29, mentre il 2 di luglio si celebra a Bahia l’indipendenza del Brasile.

L’ultima festa che citiamo, ma non per importanza, è quella del 13 di agosto, giorno nel quale si rende omaggio a Santa Dulce dos Pobres, conosciuta come «il Buon angelo di Bahia», donna laboriosa ed esempio di dedizione a poveri e ammalati, canonizzata da papa Francesco il 13 di ottobre del 2019.

Diego Battistessa

 

La chiesa del Santissimo Sacramento in Rua do Passo 52°, quartiere di Santo Antônio Além do Carmo, Salvador. Foto Diego Battistessa.

Il sincretismo

QUANDO IL CATTOLICESIMO SI MESCOLÒ ALL’AFRO

Il sincretismo tra la religione cattolica e quelle africane è un elemento caratteristico di Salvador de Bahia e del Brasile. Esso si esprime in un ampio ventaglio di concezioni e pratiche religiose continuamente create, ricreate e adattate a un contesto spazio-temporale diverso da quello di origine.

La parola sincretismo deriva dal greco «synkrasis», ovvero mescolare insieme. Il sincretismo religioso nel mondo latinoamericano ha vissuto numerose tappe che hanno visto, in modo alterno, il protagonismo di popolazioni indigene, coloni europei, criollos (meticci, ndr)e afrodiscendenti.

Poiché durante il periodo coloniale la Chiesa di Roma dominava il campo spirituale di tutti i Paesi latinoamericani, le credenze afro vi si sono inserite e ne hanno – a loro volta – tratto diversi elementi, assimilandoli.

Mappando le religioni afrolatinoamericane, possiamo identificare il Brasile come un centro focale. Nel Paese, in fatti, si riscontra la sublimazione di questo processo di resistenza delle tradizioni ancestrali africane da un lato, e di mescolanza (krasis) con le molteplici spiritualità presenti nel territorio, dall’altro. Siamo di fronte a una grande complessità di rituali e simbologie che, in Brasile, trovano nel candomblé e nell’umbanda* le espressioni più note e diffuse.

D.B.


La chiesa di Nostro Signore del Buon fine

LE BAHIANE DEL CANDOMBLÉ

Quella di Nostro Signore del Buon fine è una delle chiese cattoliche più tradizionali della città, dedicata al Senhor do Bonfim, santo patrono dei bahiani e simbolo del sincretismo religioso di Salvador de Bahia. Costruita sulla cima della Collina sacra, questo edificio di culto è lo scenario del famoso «Lavagem do Bonfim», evento nel quale le donne bahiane del candomblé lavano in modo rituale i gradini della chiesa con abbondante acqua. Si tratta di uno dei rituali più importanti del Salvador, rispettato e celebrato sia dai fedeli cattolici che da quelli afro.

Proprio da questa chiesa proviene il famoso braccialetto colorato (fita, in portoghese) che si può vedere in tutta Salvador de Bahia. Il nastro originale fu creato nel 1809 e misurava esattamente 47 centimetri di lunghezza, la misura del braccio destro della statua di Gesù Cristo, Signore di Bonfim, situata sull’altare di questa chiesa, sicuramente tra le più famose di Bahia. Venduto o regalato in diversi colori in tutta la città, il nastro del Senhor do Bonfim rappresenta, a seconda del colore, un orixá diverso. In questo modo, gli orixá, divinità centrali del candomblé, si uniscono al messaggio rappresentato da Gesù di Nazaret, creando un nuovo spazio di devozione inclusiva che trascende i confini della religione e si estende alla cultura e all’identità afrobrasiliana.

D.B.

Vista mattutina della Rua Alfredo Brito, Pelourinho, con sullo sfondo la Chiesa di Igreja de Nossa Senhora do Rosário dos Pretos. Foto Diego Battistessa.

 


Sul sito MC si può leggere:

– Paolo Moiola, «I tamburi di oxalá» (giugno 2015);

– Paolo Moiola, «Balli di libertà» (luglio 2015).




Brasile. Chi governa il Paese?

 

Il «marco temporal» (limite temporale) è la tesi giuridica secondo la quale i popoli indigeni avrebbero diritto soltanto sulle terre occupate (o contese) alla data limite del 5 ottobre 1988, giorno di promulgazione della nuova Costituzione brasiliana. Il 20 ottobre di quest’anno Lula aveva posto il veto, totale o parziale, su 24 dei 33 articoli del progetto legislativo 2903/2023 che lo prevedeva, bocciando gran parte dei punti più gravi.

Ebbene, giovedì 14 dicembre 2023, il Congresso nazionale ha annullato la maggior parte dei veti di Lula sul quel disegno di legge 2903/2023. In totale, 41 dei 47 punti analizzati in plenaria sono stati respinti da senatori (53 contro 19) e deputati (312 contro 137). In pratica, solo sei dei punti posti dal veto di Lula sono stati mantenuti. Ora, le decisioni su cui era stato posto il veto verranno incorporate nella legge 14.701/23, che ristabilisce il «marco temporal» in materia di diritti dei popoli indigeni.

Alla luce di quanto accaduto la domanda è: chi governa il Brasile? Purtroppo, Lula ha molto successo all’estero, piace per i suoi discorsi progressisti, ma in patria ha molta difficoltà a mettere in pratica i suoi propositi. Insomma, deve fare i conti con un Congresso in cui prevalgono impresari, latifondisti, conservatori, reazionari. Il presidente vorrebbe, finalmente, trattare i popoli indigeni con rispetto, ma gli interessi dei parlamentari sono contrastanti e finiscono per prevalere. Addirittura sulle decisioni della Corte suprema che aveva dichiarato incostituzionale la tesi (assurda) del «marco temporal».

Senatori e deputati federali si sono dati da fare e hanno approvato un’altra volta la stessa tesi. Di fronte al rifiuto di accettarla da parte del presidente Lula, non hanno esitato a ribadirla, aggravando la situazione con varie altre questioni che dimostrano – per l’ennesima volta – quanto costoro disprezzino gli indigeni e li trattino come ostacoli da abbattere.

Joenia Wapichana (al centro) e Sonia Guajajara (a destra) a Dubai, per la Cop28. (foto Estevam Rafael/Audiovisual/PR)

A cosa serve un ministero dei Popoli indigeni (quello retto da Sonia Guajajara), se non riesce ad ottenere i mezzi necessari per funzionare? La stessa cosa avviene per la Funai guidata da Joenia Wapichana. Un esempio: la mortalità tra gli Yanomami è oggi maggiore che negli anni di Bolsonaro anche se i piccoli ambulatori nella foresta – occupati, distrutti o abbandonati durante il governo precedente – sono stati riaperti. Quanto alla Polizia federale, dopo un inizio promettente, ha quasi abbandonato il compito di scacciare gli invasori dalla Terra indigena Yanomami. Pare che i militari non vogliano far parte di questa operazione, soprattutto a Roraima dove i politici locali – legati a doppio filo con i garimpeiros (cercatori d’oro) – sono contrari a queste operazioni.

La maggioranza degli elettori brasiliani si sono dati da fare per togliere di mezzo Bolsonaro, ma i restanti – spesso ingannati da una propaganda menzognera – hanno eletto uno stuolo di congressisti con la sua faccia.

Teoricamente, la Corte suprema potrebbe sentenziare che anche la nuova legge è incostituzionale, ma è improbabile che essa proceda contro tutto quello che i parlamentari hanno approvato. Per ora, la sola certezza è che essi hanno dichiarato apertamente guerra ai popoli indigeni. E pare non provino neppure vergogna.

Carlo Zacquini da Boa Vista (Roraima, Brasile)




Brasile. Loro sono foresta


La terra è cromosoma essenziale del Dna indigeno. Senza terra i popoli indigeni non sopravvivono in quanto tali. Nelle loro mani, l’ambiente – lo dicono gli studi scientifici – è più rispettato. Per questo non è esagerazione definirli «guardiani della foresta». Né affermare che essi «sono foresta».

La scena è ripresa nella terra indigena Yanomami (regione di Sururucu), in un accampamento di garimpeiros, i minatori illegali tristemente noti. Si vedono le loro tende piantate in uno spiazzo deforestato. Si sente una voce concitata: «Andiamo, andiamo, portateli qui». Non si tratta di animali della foresta, ma di alcuni giovanissimi yanomami, scalzi e in pantaloncini, entrati nell’accampamento degli invasori. I bambini vengono legati (sì, legati) al palo di una baracca venendo accusati dai garimpeiros di essere dei ladri. Il video si chiude così.

L’episodio è raccontato da Hutukara, la principale organizzazione degli Yanomami, che lo ha scoperto tramite Wãnori, un sistema di allarme via cellulare attivato per la prima volta lo scorso luglio. «Dico sempre che il futuro è già oggi –  ha commentato Davi Kopenawa, noto leader yanomami – . Penso che sia importante per noi poter sognare e pensare con altri amici che ci appoggiano, lavorano e combattono insieme. Quelli in città ascoltano, ma non capiscono di cosa hanno bisogno gli Yanomami. Quindi, è fantastico avere questo sistema di allarme per il nostro monitoraggio».

Insomma, anche in piena foresta amazzonica i cellulari sono divenuti strumenti imprescindibili, nel bene e nel male, per vittime e oppressori. A questi ultimi si devono le foto autocelebrative e spaccone postate sulle reti sociali. Alcune di esse sono state pubblicate anche da globo.com.  Si vedono i garimpeiros orgogliosamente in posa con armi da fuoco salde nelle loro mani, davanti a una tavola imbandita con pizze e fusti di birra.

Poco importa se si tratta di voglia di apparire o di una più banale umana stupidità: dimostrano che, nonostante le azioni di sgombero messe in atto dal governo Lula nei primi mesi del 2023 (con la distruzione – stando ai dati ufficiali – di 327 accampamenti, 18 aerei, 2 elicotteri, motori, barche e la riduzione dell’80 per cento dell’area dei garimpo), un numero imprecisato di garimpeiros continua a operare in terra Yanomami.

Secondo «Yamakɨ nɨ ohotaɨ xoa!» (Noi stiamo ancora soffrendo), il rapporto di Hutukara con Seduume e Urihi, uscito a luglio, dopo gli sgomberi delle autorità, si sta assistendo al ritorno di gruppi di garimpeiros sui fiumi Apiaú e Couto Magalhaes e nelle regioni di Papiu, Parafuri, Xitei e Homoxi.

L’insistenza degli Yanomami sull’invasione dei garimpeiros potrebbe apparire esagerata se non si spiegassero gli effetti sconvolgenti che essa produce sulla loro esistenza. Effetti che sono a un tempo ambientali, sanitari, sociali. «La foresta non è contro di noi… chi è contro di noi è l’uomo capitalista», ha spiegato a gennaio a New York Davi Kopenawa.

Secondo il Sistema di monitoraggio delle miniere illegali, da ottobre 2018 a dicembre 2022, l’area interessata dall’attività mineraria è cresciuta di un altro 300%, raggiungendo un totale di 5.053,82 ettari di area devastata, colpendo direttamente quasi il 60% della popolazione Yanomami.

Due giovani Yanomami con un cellulare: da luglio 2023 è stato ativato un sistema di allarme chiamato Wãnori. Foto Evilene Paixao Yanomami – Hutukara.

Conseguenze sulla salute e sulla vita quotidiana

Scrive il citato rapporto di Hutukara: «Oltre alla distruzione delle foreste, del suolo e dei fiumi, che ha un impatto diretto sull’economia delle famiglie indigene, che dipendono dalla pesca, dalla caccia e dalla terra per coltivare, l’attività mineraria influisce direttamente anche sulla salute e sul benessere delle persone e delle comunità».

La situazione sanitaria degli Yanomami vede la grande diffusione di infezioni respiratorie (polmoniti, in primo luogo), parassitosi intestinali, tungiasi (parassitosi epidermica) e – a causa della diffusione della contaminazione da mercurio (utilizzato dai garimpeiros) – ripercussioni pesanti sulla salute riproduttiva delle donne e sullo sviluppo psicofisico dei bambini.

E poi c’è l’esplosione dei casi di malaria, soprattutto nelle zone più vicine ai garimpos.

«Questa malattia, a sua volta, come le infezioni respiratorie, compromette non solo la salute individuale del paziente, ma anche l’economia delle comunità che dipendono dal lavoro familiare per produrre la propria sussistenza. Un uomo che non riesce a curare un campo durante la stagione secca perché indebolito dalla malaria, in futuro avrà maggiori difficoltà a sostenere se stesso e i suoi coresidenti, creando così un circolo vizioso di malaria, crisi economica e fragile socializzazione». Non è – pertanto – un caso se nelle zone a maggior incidenza malarica risultano più alti anche i livelli di denutrizione infantile.

Membri di una comunità indigena osservano gli aiuti alimentari governativi recapitati dall’aviazione militare brasiliana. Foto FUNAI.

Le foto di piccoli yanomami pelle e ossa hanno fatto il giro del mondo. L’esercito brasiliano è intervenuto lanciando da aerei ed elicotteri tonnellate di cibo. Com’è stato possibile arrivare a una simile emergenza?

Secondo varie indagini, il problema della denutrizione è direttamente collegato all’avanzata dei garimpos. Gli Yanomami si sono sempre mantenuti con la raccolta di cibo dalla foresta, con la pesca e la caccia e – in maniera assai minore – coltivando piccoli appezzamenti di terra. Oggi le loro modalità di sussistenza sono state sconvolte dall’invasione dei minatori illegali. L’attività mineraria provoca la deforestazione e distrugge i corsi d’acqua inquinandoli con il mercurio. La selvaggina diventa più scarsa perché gli animali fuggono. Gli indigeni hanno bisogno di trascorrere molto più tempo nella foresta a cacciare e la quantità di cibo portata a casa non arriva più ai livelli di prima.

«La situazione di insicurezza alimentare – spiegano nel loro rapporto le organizzazioni degli Yanomami – non è diffusa nel territorio yanomami, ma è aumentata enormemente negli ultimi anni a causa di una combinazione di fattori, che vanno dalla distruzione delle risorse naturali attraverso lo sfruttamento illegale dei minerali alla disorganizzazione della produzione derivante dalla crisi sanitaria e agli impatti sociali dell’attività mineraria. Nel 2021 e nel 2022, a ciò si sono aggiunti gli effetti del prolungamento della stagione delle piogge, dovuto al fenomeno climatico La Niña, che ha impedito a molte comunità di curare i propri appezzamenti agricoli».

Se questo non bastasse, è possibile trovare notizie che complicano ancora di più il quadro complessivo. Come racconta Repórter Brasil parlando della diffusione dei narcogarimpos. Secondo i dati raccolti dal sito investigativo brasiliano, in sei anni (dal 2017 al 2022) c’è stato un raddoppio delle esportazioni di oro (da 11 a 32 tonnellate) e – dato ancora più inquietante – una triplicazione dei sequestri di cocaina (da 10 a 32 tonnellate).

Indigeni sfilano a Brasilia nella manifestazione che attende la decisione del Stf sul marco temporal (30 agosto). Foto Tiago Miotto – CIMI.

Semplificazioni veritiere

Secondo i dati Inpe (Instituto nacional de pesquisas espaciais), a luglio 2023 la deforestazione dell’Amazzonia brasiliana è scesa del 66% rispetto allo stesso mese del 2022. Merito, ha sottolineato la ministra dell’Ambiente Marina Silva, delle nuove politiche del governo Lula. Tuttavia, il dato non può indurre a uno sciocco ottimismo.  Riduzione non significa salvaguardia.

Secondo una ricerca della Agenzia spaziale europea (Esa, marzo 2023), tra il 2017 e il 2021 la perdita forestale è stata di 5,2 milioni di ettari, una superficie più o meno equivalente alle dimensioni del Costa Rica.

Identicamente a «polmone del mondo» per l’Amazzonia, anche «guardiani della foresta» per i popoli indigeni può apparire come una di quelle affermazioni semplificatorie utilizzate per descrivere situazioni complesse. Tuttavia, almeno in questo caso, non si è lontani dalla verità.

Esiste una relazione tra presenza indigena e preservazione ambientale? L’osservazione ma anche la scienza rispondono che la relazione esiste ed è positiva. Uno degli ultimi studi in proposito – pubblicato da Nature sustainability (3 gennaio 2023) – certifica che, nelle aree indigene, la perdita di foreste è molto più contenuta, a patto che esse vengano rispettate. «Le popolazioni indigene – conclude lo studio – potrebbero impedire il superamento del punto di svolta (tipping point) per la trasformazione degli ecosistemi della foresta amazzonica in ecosistemi di savana».

Una maloca, la casa comune degli Yanomami, nell’Alto Catrimani, nella Terra indigena Yanomami (Tiy). Secondo il governo Lula, l’80 per cento dei garimpeiros sono stati cacciati nelle operazioni iniziate a gennaio 2023. Foto Bruno Kelly – ISA.

Intanto, i Guarani

Anche per merito del carisma e della notorietà internazionale di Davi Kopenawa, negli ultimi due anni si è parlato soprattutto dell’emergenza riguardante gli Yanomami.

In realtà, la situazione è molto difficile per tutti i popoli indigeni e la soluzione pare lontana, nonostante la buona volontà del governo Lula, visto che il parlamento brasiliano è dominato da una maggioranza di politici bolsonaristi (per i quali i popoli indigeni sono semplicemente una palla al piede per lo sviluppo del Brasile).

«La sconfitta di Bolsonaro – scrivono Lucia Helena Rangel e Roberto Antonio Liebgott nell’ultimo rapporto del Cimi – alle elezioni presidenziali è stata fondamentale per rompere con il progetto di morte e distruzione in corso. Tuttavia, non basta affrontare le sfide della causa indigena. La negazione dei diritti, il pregiudizio e il razzismo costituiscono lo scenario di un brutale aggravamento della violenza, che viene alimentata o incoraggiata negli uffici e nei corridoi degli organi statali».

Si consideri che il più consistente gruppo indigeno del paese, quello dei Kaiowá Guarani (che occupa gli stati del Sud, ai confini con Paraguay e Argentina), vive in condizioni estreme. Da anni essi sono costretti ai margini delle loro terre tradizionali dalle quali sono stati espulsi con la forza dai fazendeiros e dalle multinazionali agroalimentari che le hanno occupate per farne piantagioni di soia o di canna da zucchero e pascoli per il bestiame.

Un garimpo sul rio Couto Magalhães, Kayanau, Terra indigena Yanomami (in alto, a sinistra, una pista aerea clandestina). Foto Bruno Kelly – ISA.

L’arma dell’intolleranza religiosa

Proprio negli stessi giorni del giudizio del Supremo tribunale federale (Stf), il Consiglio indigenista missionario (Cimi) pubblicava, sul proprio sito, un durissimo atto d’accusa per l’en-

nesima violenza contro esponenti Kaiowá Guarani del Mato Grosso do Sul, stato in cui l’intolleranza e la violenza verso gli indigeni sono consolidate.

Il fatto risale al 18 settembre scorso quando Sebastiana Galton (di 92 anni) e il suo compagno Rufino Velasquez sono morti in un incendio doloso che ha bruciato la loro casa e i loro corpi. Sebastiana era una nota leader religiosa tradizionale che lottava a fianco della propria popolazione. Questa – spiega il Cimi – vive una tragica situazione di disgregazione sociale «la cui causa continua a essere il risultato dello sfollamento forzato, del processo di confinamento e della mancanza di accesso effettivo di questa popolazione ai propri territori tradizionali». Alla lotta per la terra in questo caso si aggiunge – continua la nota – «una complessa situazione di intolleranza religiosa che ha deriso, diffamato e ucciso – spiritualmente e fisicamente – i Ñanderu e i Ñandesy (rappresentanti religiosi tradizionali, ndr) in tutto il territorio Kaiowá Guarani».

Corrutela de garimpo no rio Uraricoera, Terra IndÌgena Yanomami

«In tutte le società umane il fenomeno religioso consiste nella mobilitazione delle forze spirituali, siano esse considerate buone o meno (benedizione e maledizione), secondo i bisogni, i desideri e le speranze di un popolo, come strategia per vincere sfide, pericoli e crisi. […] Così, nel caso delle pratiche religiose tradizionali dei Kaiowá Guarani, si può osservare un atto di resistenza di fronte ai molteplici processi di sterminio perpetrati contro le loro comunità».

Senza usare mezzi termini, il Consiglio indigenista missionario accusa le Chiese neopentecostali e i loro metodi.

«Da decenni il Cimi denuncia la presenza e gli effetti distruttivi che queste sette fondamentaliste rappresentano e promuovono tra i Kaiowá Guarani, soppiantando un intero sistema di credenze, screditando leader religiosamente costituiti e, favorendo, penalmente, la distruzione di ambienti e oggetti considerati sacri da questi popoli».

È cosa nota che, da sempre, le potenti Chiese neoevangeliche brasiliane hanno un approccio alla questione indigena completamente diverso da quello della Chiesa cattolica. Per loro i popoli indigeni debbono adeguarsi alla «visione bianca» dell’esistenza.

Riparare il male

Dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e, fino a poche settimane fa, presidente del Cimi, conclude la sua introduzione all’ultimo rapporto Violência contra os povos indígenas do Brasil con parole che sanno di preghiera e speranza: «Possano i nuovi governanti cercare di riparare il male, garantendo ai popoli indigeni il loro diritto fondamentale alla terra e ai loro modi di essere e vivere nelle differenze».

Paolo Moiola

Nel fotogramma pubblicato sui social un gruppo di garimpeiros mostra orgogliosamente armi pesanti e una tavola imbandita con pizze e birra.


Il Congresso contro il Supremo tribunale federale

«Marco temporal»: bocciato ma promosso

La vittoria giuridica presso il massimo organo giudiziario del Brasile non pare dare certezze ai popoli indigeni. In parlamento e nel paese, l’offensiva anti-indigena della «bancada ruralista» non si ferma. Che farà il presidente Lula?

Il 21 di settembre il Supremo tribunale federale (Stf) vota contro il marco temporal (in sostanza, è incostituzionale considerare terre indigene soltanto quelle occupate al 5 ottobre 1988, data di entrata in vigore della nuova Costituzione). L’entusiasmo per la decisione – sicuramente prematuro, spesso esagerato – dura però lo spazio di qualche giorno. Forse meno. Non è un «indietro tutta», ma quasi. Dopo l’approvazione alla Camera (30 maggio), la proposta sul marco temporal passa – infatti – anche al Senato (27 settembre). A questo punto, la domanda diventa: chi vince in caso di contrasto tra Stf e Congresso?

Carlo Zacquini, missionario della Consolata e grande esperto di Yanomami e popoli indigeni, è caustico: «Le leggi sono una cosa, i legislatori un’altra. Può anche darsi che sia impossibile approvare una legge, ma i politici non smetteranno mai di tentare nuovi o vecchi metodi per fare quello che “è conveniente per loro”. Sono ormai più di cinque secoli che si ammazzano indigeni, non sarà per una decisione del Stf che smetteranno di farlo o di tentare nuove forme per farlo. In fin dei conti la maggioranza dei brasiliani non è Indigena. Nella minestra ci puoi mettere molti prodotti, ma c’è ne sta sempre ancora uno. Se una legge stenta a trovare consenso o trova qualche ostacolo per essere approvata, si fa un’altra proposta, assieme ad altri richiami per le allodole. Tante volte quante necessario perché, alla fine passi, magari per la disattenzione di qualcuno. Se si vuole che i popoli indigeni abbiano una chance di sopravvivere, in Brasile non ci si può permettere alcuna distrazione. La spinta dell’industria agricola e mineraria è fortissima».

Il clima di contrapposizione tra poteri dello stato è palese. Per esempio, un deputato bolsonarista ha presentato una proposta di emendamento alla Costituzione (Pec 50/2023) che conferirebbe al Congresso il potere di sospendere le decisioni del Supremo tribunale federale che «superano i limiti costituzionali».

In base alle proprie prerogative, il presidente Lula potrebbe (e dovrebbe) mettere il veto sulla legge del marco temporal emanata dal Congresso. Tuttavia, come appare evidente, il clima per i diritti dei popoli indigeni rimane pessimo*.

Paolo Moiola

* Per gli aggiornamenti sul tema, seguiteci sul sito: www.rivistamissioniconsolata.it.

Brasilia, una seduta del Supremo tribunale federale (Stf) per decidere sul «marco temporal». Foto: Antônio Cruz – Agência Brasil.

 

 




Brasile. «Marco temporal»: il pericolo incombe

I sostenitori della legge anti indigena non si fermano né davanti alla bocciatura del massimo organo giudiziario del Brasile né davanti al veto (parziale) del presidente Lula.

Ammettiamolo: quella dello scorso 21 di settembre è stata una vittoria di Pirro. La decisione del Supremo tribunale federale (Stf) contro il marco temporal (è incostituzionale considerare terre indigene soltanto quelle occupate al 5 ottobre 1988, data di entrata in vigore della nuova Costituzione brasiliana) non è stata né storica né decisiva.

Dopo la Camera, il 27 settembre anche il Senato ha approvato il progetto di legge n. 2903 che rivede l’articolo 231 della Costituzione in merito a riconoscimento, delimitazione, uso e gestione delle terre indigene. Insomma, il marco temporal è più vivo che mai.

Il 20 ottobre il presidente Lula ha posto il veto sulla legge. In particolare, sugli articoli 4 (tempistica), 9 (indennizzo degli occupanti), 28 (popoli indigeni isolati) e 30 (coltivazioni Ogm). Tuttavia, non si è trattato di un veto integrale, ma parziale. Sono rimasti in essere gli articoli 20 e 26 che lasciano aperta la possibilità di uno sfruttamento economico delle terre indigene. Inoltre, il Fronte parlamentare agrario (Fpa, noto anche come «bancada ruralista»), che afferma di essere composto da 303 deputati federali (su 513) e 50 senatori (su 81), ha immediatamente rilasciato un comunicato ufficiale di aperta sfida al presidente e al Tribunale supremo. In esso si afferma che il Fronte non rimarrà con le braccia incrociate e farà di tutto per sovvertire i veti presidenziali. Il Fronte sostiene di agire per garantire la sicurezza giuridica, la pace nelle campagne e la dignità delle migliaia di famiglie responsabili della produzione alimentare per il Brasile e per il mondo. Non una parola viene detta sul rispetto dei diritti dei popoli indigeni e dell’ambiente.

Il sogno dei «fazendeiros» è un Brasile di vacche e soia. (Immagine da globalskybusiness.com)

Il giorno seguente (21 ottobre), l’agenzia dello stesso Fronte parlamentare ha lamentato «la mancanza di rispetto per il Congresso nazionale e per la volontà popolare» e ribadito, con toni da battaglia, la propria volontà di «garantire il diritto di proprietà» (purché – aggiungiamo noi – esso non sia in capo ai popoli indigeni).

Lapidario è il commento di fratel Carlo Zacquini, grande conoscitore della tematica indigena brasiliana: «La questione è che il veto, in ogni modo, sarà analizzato ancora dai parlamentari e ciò potrà portare a situazioni anche più pericolose. In Brasile chi comanda è il capitale, e questo non è alleato degli indigeni».

Paolo Moiola




Brasile-Italia – «Così soffice… così verde…»

Soft & green è l’attrattivo titolo sotto il quale una delle principali aziende italiane di produzione di carta per uso igienico e domestico presenta il proprio piano per la sostenibilità. L’azienda ha scelto di appoggiare una serie di iniziative di educazione e comunicazione ambientale sia a livello nazionale (tra cui il «Pianeta Terra Festival», che si tiene a Lucca dal 2022) che internazionale, come quella che la vede impegnata in un progetto di conservazione ambientale e sviluppo socioeconomico in un’area «a ridosso» della foresta amazzonica. Il nome del progetto, Together we plant the future (Insieme piantiamo il futuro), ricalca lo slogan dell’azienda partner, leader in America Latina della produzione di carta e cellulosa.

L’obiettivo è ambizioso: «Creare corridoi di biodiversità tra aree di foresta intatte a cavallo tra gli stati brasiliani di Pará e Maranhão», in cui la percentuale della cosiddetta floresta em pé (foresta in piedi, ovvero sopravvissuta) è rispettivamente del 23% e del 20%, e «contribuire a togliere dalla povertà circa 200mila persone entro il 2030 grazie a progetti di generazione di reddito».

Per le loro proprietà, le bacche dell’acai sono considerate tra i frutti più pregiati dell’Amazzonia brasiliana. (Foto Bermix Studio – Unsplash)

In Brasile, le Ong ambientaliste si schierano su due fronti opposti, ovvero tra chi si associa ad un’azienda entrata nel gotha della finanza verde per il contributo al sequestro di carbonio tramite piantagioni monocolturali di eucalipto (di cui, però, resta ancora da valutare l’effettiva efficacia) e chi non esita a tacciarla di greenwashing (adottare pratiche green più di facciata che di sostanza).

Le «quebradeiras» (spaccatrici) del cocco «babaçu» (un particolare cocco dalle piccole dimensioni). (Foto da Carta Capital)

Le comunità locali – indigene, quilombolas (nome con cui, in Brasile, si definiscono i discendenti degli schiavi), di piccoli agricoltori o raccoglitori e raccoglitrici dei frutti della foresta interessate dall’espansione delle coltivazioni tradizionali nelle loro terre (cocco babaçu, acai, buriti, bacuri, castanha) sono, invece, unanimi nel collegare il nome del colosso brasiliano a una serie di violazioni dei loro diritti: dalla contaminazione dei corsi d’acqua con pesticidi al prosciugamento delle sorgenti, dalla costruzione di strade senza consultazione previa, fino all’esproprio vero e proprio.

Di fatto, il processo di acquisizione fondiaria da parte dell’azienda viene da lontano e presenta molte ombre. Già nel lontano 1985, nel sud est del Maranhão, l’impresa aveva acquistato piantagioni di eucalipto da una succursale della compagnia mineraria Vale do Rio Doce con l’intento di fornire combustibile vegetale all’industria siderurgica come parte del programma Grande Carajás [1]. Grazie a concessioni statali e prestiti bancari, nel corso degli anni ’90 l’azienda brasiliana si estende verso ovest, fino al confine con il Pará, dove, nel 2008, rileva circa 80mila ettari di terra già piantata a eucalipto da un’altra succursale della compagnia per installare una nuova fabbrica di cellulosa a Imperatriz. Fino a qualche tempo, la città vantava il titolo di «porta dell’Amazzonia», vista la sua ubicazione nella regione dove il cerrado (un habitat costituito di praterie e alberi da frutto nativi) cede il posto alla foresta.

Un processo così rapido ed esteso di concentrazione fondiaria – si stima che ora l’impresa possegga migliaia di ettari nello stato – ha fatto sospettare che dietro atti di compravendita apparentemente regolari tra privati, ci sia in realtà l’accaparramento di terre pubbliche o appartenenti alle comunità locali che si sono viste sottrarre, con la frode o con la forza, gli spazi di produzione a cui è intimamente legata la loro sopravvivenza come identità culturali collettive.

Non sappiamo quanto l’omologa azienda italiana che promuove iniziative di ampio respiro educativo e culturale sia a conoscenza delle controversie che pesano sul partner oltreoceano, né quanto gli organizzatori di tali iniziative abbiano interesse a ricostruire le «relazioni pericolose» dei loro sponsor.

L’invito è, dunque, a vigilare su un settore come quello della finanza verde che cresce a dismisura – la Banca mondiale stima che beneficerà di finanziamenti per 30 trilioni di dollari entro il 2030 -, di pari passo però con fenomeni come quelli in atto nell’Amazzonia brasiliana dove l’espansione delle monocolture spinge sempre più le popolazioni tradizionali a riversarsi nelle periferie delle città tra le più violente del Paese (nel 2018 Imperatriz figurava tra le 50 città più violente del Brasile). Qui si trovano costrette a contendersi impieghi precari con le classi urbane più svantaggiate o a dipendere dai sussidi elargiti dai loro stessi carnefici.

Silvia Zaccaria, antropologa

In tempi di emergenza ambientale, la pratica del «greenwashing» è sempre più diffusa. (Illustrazione da iconaclima.it)

[1] Il programma «Gran Carajàs» è tristemente noto per aver portato sull’orlo del genocidio il popolo Awà Guajà le cui terre sono state attraversate da una strada e dalla linea ferroviaria omonima. Recentemente la Vale S.A., nome della compagnia dopo la privatizzazione, si è aggiudicata il titolo di peggiore multinazionale del mondo (cfr. Vale remporte le Public Eye Awards, le prix accordé à la pire entreprise du monde / Habitants des Amériques / Nouvelles / Home – International Alliance of Inhabitants).




Brasile. La storia non iniziò nel 1988

La notizia – una grande notizia – è arrivata nel tardo pomeriggio di giovedì 21 settembre. Ed è la seguente: il Supremo tribunale federale (Stf) del Brasile, il più alto organo del potere giudiziario, il «guardiano della Costituzione federale» del paese latinoamericano, ha respinto la tesi (discussa dal dicembre del 2016) conosciuta come «marco temporal» e sostenuta dal potente fronte dai rappresentanti dell’agrobusiness e dei latifondisti (e dai parlamentari riuniti attorno alla «bancada ruralista»).

Questa tesi si fonda su un’interpretazione forzata e interessata dell’articolo 231 della Costituzione federale promulgata il 5 ottobre del 1988, articolo che recita: «Agli indigeni sono riconosciuti organizzazione sociale, costumi, lingue, credenze e tradizioni, nonché i diritti originari sulle terre che tradizionalmente occupano, essendo l’Unione responsabile per delimitarle, proteggere e garantire il rispetto di tutti i loro beni». Secondo i sostenitori del marco temporal, sarebbero terre indigene soltanto quelle da loro effettivamente occupate all’atto della promulgazione della Costituzione, il 5 ottobre 1988. Le terre restanti sarebbero disponibili, cioè libere da pretese indigene. Detto in altre parole, il marco temporal mirava a cancellare in toto la storia indigena precedente a quella data, una storia fatta di allontanamenti dalle terre e usurpazione delle stesse.

Si festeggia il voto di uno dei ministri del STF riuniti in sessione plenaria per decidere sul «marco temporal». (Foto CIMI)

Finalmente, dopo anni di dibattito, l’Stf, formato da 11 membri (qualificati con il termine di ministri), ha respinto con 9 voti contro 2 il progetto del marco temporal. Hanno votato a favore di questo i due rappresentanti (Nunes Marques e André Mendonça) legati a Jair Bolsonaro, a dimostrazione di quanto fosse reale l’accusa di essere anti indigeno formulata verso l’ex presidente.

La vittoria del 21 settembre è frutto in primis della grande mobilitazione dei popoli indigeni brasiliani (riuniti soprattutto attorno ad Apib, Articulação dos povos indígenas do Brasil) ma anche del loro sostegno da parte di organizzazioni come il Cimi (Conselho indigenista missionário) guidato da dom Roque Paloschi e l’Isa (Instituto socioambiental). La cancellazione del marco temporal è un passo fondamentale, ma la lotta per l’affermazione e il rispetto dei diritti dei popoli indigeni sarà – questa è una certezza – ancora lunga e difficile. In Brasile, come nel resto del mondo.

Paolo Moiola