MAUA (MOZAMBICO): la grande occasione della pace

SE LA ZAPPA PARLA AL COMPUTER

Non è il titolo di una favola nell’era dell’informatica,
ma la strategia culturale elaborata da un missionario
in un contesto agricolo.
Per valorizzare la ricchezza della tradizione
di fronte alla modeità.

Da Beira, la seconda città del
Mozambico, sono in partenza
per Cuamba, nel cuore
della regione del Niassa. Il viaggio
sarà in aereo fino a Nampula e
poi in auto.
Il velivolo ritarda. Fortunatamente
sono con Raffaele Carpaneto, ingegnere
(per gli amici Lino), e padre
Filipe J. Couto, rettore dell’università
cattolica, che ammazzano il tempo
in sala di attesa discutendo persino
di matematica pura. Io sbadiglio
al cospetto di una gigantografia,
che raffigura il primo volo aereo dal
Portogallo alla colonia del Mozambico.
Di botto mi assale il detto di
Karl Kraus: «L’uomo che sbadiglia
assomiglia ad un animale».
Dopo quasi cinque ore, decolliamo
per Nampula e, subito, puntiamo
verso Cuamba. Sono le 14,30.
Ci attendono 400 chilometri in terra
battuta, con la Toyota che arranca
sui dossi, sprofonda nelle buche,
sbanda sulle inclinazioni, sussulta
sui tratti corrugati: e noi con essa.
Ora l’ingegnere e il rettore non
discettano più di matematica pura,
ma (soprattutto padre Couto, affabulatore
instancabile) si abbandonano
al genere «barzellette». Cessano
anche queste, come il sole che
tramonta. Ed è subito «Africa nera», rischiarata appena dai fari dell’auto
che mettono in fuga qualche
lepre sulla via. Si scorge solo l’erba
alta ai margini della strada, che la
Toyota schiaffeggia. Sembra di avanzare
tra due pareti interminabili
e ondeggianti.
Alle 22,30 ecco Cuamba e il sorriso
ospitale di padre Adriano Prado,
brasiliano, che ci offre cena. Ma,
con gli sballottamenti sofferti, preferiamo
ritirarci. Ci attendono una
branda traballante e la compagnia
delle zanzare. Ma, sulla porta della
cameretta, si affaccia il rettore magnifico
Couto con uno zampirone.
«Accendetelo! Meglio il fumo che le
zanzare malariche». Un bel gesto.

POICHÉ «LUI» NON C’È
Il giorno seguente padre Couto si
separa. L’ingegnere Lino ed io partiamo
alla volta di Maua, a tre ore di
auto. Altri sobbalzi, ma questa volta
la strada è da «formula uno» rispetto
a quella di ieri.
Giunti a destinazione, «lui»… non
c’è. «Sta visitando una comunità. Ritoerà
certamente prima di notte»
ci risponde fratel Gerardo Secondino
con uno sguardo un po’ ironico.
Quasi a dire: «Qui si lavora!». Però,
di fronte alla nostra delusione, soggiunge:
«Forse ritoerà nel primo
pomeriggio. Intanto pranzate con
noi. Poi, se Deus quiser…». Dio vuole
che gustiamo un buon risotto (un
piatto luculliano in Mozambico) in
compagnia anche di padre Julius
Mwangi, kenyano.
Nel pomeriggio (poiché «lui» non
è ritornato) visitiamo una scuola per
«l’insegnamento a distanza» a pochi
chilometri da Maua. Gli allievi sono
tutti adulti: frequentano il centro una
volta al mese e acquisiscono alcune
nozioni basilari; a casa si esercitano
nei compiti da consegnare all’insegnante
il mese successivo. Ideata
dai missionari, la scuola viene incontro
alle esigenze degli adulti nei villaggi
sprovvisti di strutture educative.
Gli studenti provengono da distanze
notevoli: anche tre ore di bici.
Ritorniamo alla missione. «Lui» è
sempre assente. Passeggiamo lungo
la strada principale di Maua. È sorprendente
il movimento: donne in
fila verso il mulino per macinare granoturco,
uomini che trasportano pesanti
e lunghi pali per costruire una
nuova casa e un viavai costante al
mercatino per acquistare o vendere
pesce secco, olio, scampoli coloratissimi
di stoffe. C’è pure una piccola
banca: segno che gira denaro.
Sulla facciata di una scuola statale
campeggiano le parole «produrre,
studiare, combattere», ispirate a
suo tempo dalla Frelimo (Fronte di
liberazione del Mozambico), il partito
al potere dall’indipendenza del
paese (1975). Alcuni ragazzi siedono
davanti ad un modesto monumento
a piramide (opera anch’esso
della Frelimo), che ostenta una zappa,
un martello e una stella rossa; su
un blocco di cemento bianco si legge:
«Difendere la patria, vincere il
sottosviluppo, costruire il socialismo
(Maua, aprile 1983)». La
data ricorda un congresso
del partito nel cuore della
guerra civile. Oggi tuttavia,
dal 1992, il paese vive
in pace.
Durante la guerra civile i
cristiani di Maua non disponevano
di una chiesa ove celebrare
i funerali di
tante vittime, pregare
per la riconciliazione
nazionale
e la pace. Né potevano
costruirla in
cemento e ferro, perché
tali mezzi erano
irreperibili. Ma padre
Franco Gioda ragionò
davanti a tutti: «La chiesa
è fatta soprattutto di
cristiani, e i fedeli,
graças a Deus, non
mancano; poi servono cose materiali.
Vi domando: i nostri foaciai
non possono cuocere mattoni e tegole,
i nostri falegnami non sono in
grado di squadrare con l’accetta le
finestre e i fabbri forgiare i serramenti?
I muratori non possono erigere
muri e i pittori decorarli con colori
tratti dalle argille locali? Così si
supera anche il cruciale problema
della dipendenza dall’estero…».
In pieno conflitto è sorta la chiesa
di Maua, opera del popolo.
Stiamo per entrare. L’occhio ammira
il portone d’ingresso in legno
massiccio, finemente intarsiato con
immagini bibliche dagli artigiani del
paese. L’interno è una sinfonia di colori,
che i bagliori del sole tonificano.
La suggestione smorza la parola.
Diventa contemplazione.
«Che ne dite?». La domanda risuona
alle nostre spalle. È «lui», che
ha pure realizzato il sogno di padre
Franco.

UNA MONTAGNA DI CARTE
«Lui» è GIUSEPPE FRIZZI (*), missionario
della Consolata, come il
rettore Couto, fratel Gerardo
e i padri Julius e Franco. Però
è specialmente un mio compagno del liceo e della filosofia. Incontrarlo
a Torino, alla redazione di
Missioni Consolata, è un piacere; ma
abbracciarlo a Maua, fra il popolo
dei macua, è una commozione.
Mise piede in Mozambico quando
il paese era ancora colonia portoghese
e lottava per l’indipendenza
nazionale. In seguito soffrì con la
gente i 16 anni di guerra civile ed esultò
per la pace nel 1992.
Durante gli anni drammatici del
conflitto, padre Giuseppe non se ne
stette in casa ad aspettare la fine delle
ostilità; ma visitava le comunità
per settimane e settimane, a piedi e
in bicicletta: informava, ascoltava,
interrogava, rifletteva, annotava, incoraggiava.
Ha pregato e cantato
ovunque, soffrendo la penuria
come tutti e rischiando
il sequestro di persona
da parte della Renamo
(Resistenza nazionale mozambicana,
il partito armato
che si opponeva alla
Frelimo).
Ritornato a Maua, trascriveva organicamente
i miti e proverbi raccontati
dagli anziani, le favole e gli
indovinelli delle nonne, le ricette
psicosomatiche del curandeiro (medico
tradizionale). Il suo ufficio è diventato
una montagna di carte.
«I proverbi sono 9.708 – precisa
padre Giuseppe prendendo in mano
un fascio di fogli -. Le favole sono
un migliaio; poi abbiamo circa 2
mila indovinelli e tanti canti sull’iniziazione
femminile e maschile».
Mentre l’ex compagno parla, sul
suo tavolo di studio mi incuriosisce
un «coso», ricoperto da un drappo
rosso che sollevo e, stupito, tocco
un computer, alimentato da pannelli
solari. Ebbene: quel
vasto e prezioso materiale
etnografico è
stato elencato, catalogato.
La cultura
macua non
sarà più soltanto
orale, bensì scritta,
anzi computerizzata.
E, nel profondo dell’Africa,
computerizzati sono pure numerosi
disegni di artisti locali.

LE PORTE APERTE
Per fare che cosa?
«Ho già inserito proverbi e disegni
nel libro del catechismo e nella
bibbia appena tradotta in macua –
risponde il missionario -. Ma il materiale
può servire anche per una riflessione
antropologica nel contesto
del Mozambico moderno».
All’università la facoltà di pedagogia
o diritto, ad esempio, non dovrebbe
sorvolare sui valori culturali
dell’iniziazione tradizionale. L’insegnamento
di etica (una disciplina
presente in tutte le facoltà dell’università
cattolica) non dovrebbe ignorare
la ricerca del missionario di
Maua. È una ricerca non individuale,
ma comunitaria, che si è avvalsa
degli anziani (uomini e donne), degli
esperti del culto agli antenati, degli
operatori tradizionali della salute:
i depositari della cultura macua
insomma.
Lo studio delle radici culturali, da
applicarsi alla società attuale, è terminato?
«Stiamo completando l’applicazione
alla liturgia e alla catechesi. A
Maua, grazie anche alla Conferenza
episcopale italiana e alle Suore di
san Pietro Claver, abbiamo composto
e pubblicato canti e preghiere,
abbiamo tradotto, commentato e illustrato
la sacra scrittura. Oggi, dopo
alcune esperienze, può iniziare il
lavoro nelle scuole medie e superiori,
introducendo magari il bilinguismo
(macua e portoghese)».
Con quale risultato?
«Alcuni risultati sono sorprendenti:
ad esempio, chi sa scrivere il
macua impara meglio il portoghese.
Uno studente, dopo essersi identificato
con la propria cultura macua,
ora sta specializzandosi con successo
in Cina. Se dal macua si passa al
portoghese, il processo non è solo
più facile, ma più ricco. Se si dà all’alunno
la coscienza che, fin dal suo
villaggio, egli non è un selvaggio ignorante,
entrerà nella scuola modea
più convinto dei propri mezzi
e imparerà meglio le nuove discipline.
La matematica occidentale è
astrusa per i macua; invece diventa
più facile se si passa dalla loro alla
nostra matematica».
E tu, straniero, come sei stato accolto
dalla gente?
«Questa domanda dovresti farla
alla gente. L’accettazione dell’“altro”
dipende sempre dalla sua simpatia
e sintonia verso la cultura locale.
Nel mio caso, posso dire che
mi si aprono tutte le porte».
Non è poco. Infatti, se è vero che
la cultura tradizionale avalla lo spirito
comunitario, è vero altresì che
non elimina una «riserva mentale»
verso l’«altro» fra gli stessi macua.
La riserva è più accentuata, a fortiori,
per uno straniero. Se di fronte
a padre Giuseppe Frizzi la riserva
è caduta, il fatto è straordinario.

IL TOPOLINO NON SALTA
A Maua è nato il Centro di cultura
macua, oggi collegato anche alla
facoltà di agricoltura di Cuamba
dell’università cattolica.
Perché proprio la facoltà di agricoltura?
«La proposta al rettore dell’università,
padre
Couto, è stata
q u e s t a :
poiché la facoltà di agricoltura è frequentata
soprattutto da macua, facciamo
loro delle lezioni sulla cultura
tradizionale per spiegare il rapporto
“cordiale e religioso” dei loro
anziani con la terra».
Non ti sembra di sognare il tempo
passato?
«Me l’aspettavo tale obiezione!
Dopo 28 anni vissuti con i macua,
prima di utilizzare i mezzi dell’agricoltura
modea, ritengo necessario
partire dalle radici culturali di quella
tradizionale, che rappresenta una
filosofia di vita. Non vogliamo polemizzare
con le facoltà di agricoltura
occidentali: sappiamo che non dobbiamo
essere dei nostalgici e sappiamo
pure che, oggi, si possono
mungere le mucche utilizzando il
computer. Ma, per favore, il computer
non disprezzi la mano che, fino a
ieri, mungeva la vacca. Né l’aratro a
dischi disprezzi la zappa della donna
del villaggio. Giova, invece il dialogo
tra la zappa e il computer…».
Bussano. All’«avanti», una ragazza
posa sul tavolo un vassoio di vimini
con tre tazze in terracotta (tutta
produzione locale) e un thermos
di tè. Indicando il thermos e gli altri
oggetti, esclamo: «Ecco il frutto del
dialogo tra computer e zappa!».
L’ingegner Lino sorride divertito,
mentre gli occhi azzurri del compagno
di scuola sprizzano serenità.
In attesa che il tè bollente diventi
bevibile, chiedo a padre Giuseppe
qualche considerazione sulla vita
di tutti i giorni, dopo la firma della
pace nel 1992.
«Le cose potrebbero andare meglio.
I macua hanno l’impressione di
essere ignorati dal governo. Però, se
tieni presente che durante la guerra
a Maua circolavano solo due bici,
mentre oggi se ne contano due in ogni
famiglia… La pace è stata raggiunta
quando si è capito che essa
vale di più (anche economicamente!)
del commercio delle armi. Questo
è stato l’argomento che ha disarmato,
ad esempio, la Renamo».
Dal punto di vista etico…
«Ecco il nocciolo della questione
– interrompe il missionario -. Non
dimentichiamo che la guerra è stata
civile: non solo tra Frelimo e Renamo,
ma anche tra famiglie, tra genitori
e figli all’interno della stessa
casa con odi, furti e omicidi da ogni
parte. Che ci siano strascichi è deprecabile,
ma comprensibile. Però,
con la pace, la vita a Maua è ripresa
senza vendette. Non conosco un solo
caso di vendetta personale».
Finita la guerra, si è parlato subito
di riconciliazione nazionale; qualcuno
ha suggerito di invitare da America
e Europa tecnici per la pacificazione.
Ma gli anziani di Maua
hanno scosso la testa citando il proverbio
«il topolino salta la strada solo
per necessità». Però, se non c’è alcun
pericolo, il topo segue la strada,
cioè la tradizione.
Così a Maua un combattente della
Renamo, uxoricida, ha rischiato
il linciaggio; però, consigliato dal
missionario e appellandosi alla tradizione
che prevede il perdono, ha
confessato il delitto in pubblico, ed
è stato graziato. «Ecco la riconciliazione
» conclude padre Giuseppe.
Seduto su una dura sedia da circa
un’ora, mi è spontaneo allungare
le gambe sotto il tavolo.
Un piede tocca una pila di legni
accatastati, che si ribaltano rumorosamente.
«Piano! Tu non sai che c’è qui sotto
». Giuseppe raccoglie un legno. È
un crocifisso. Uno fra tanti, tutti
modellati sulla sagoma dell’albero.
«Provengono dalla nostra scuola
d’arte. La croce-albero ricorda la filosofia
tradizionale della pianta: la
pianta che rinfresca con la sua ombra,
che dona cibo con i suoi frutti e
medicine con le foglie e cortecce…
L’albero è vita. Pertanto, modellata
a forma d’albero, la croce rimanda
doppiamente all’albero della vita,
perché il crocifisso è il figlio di Dio…
Signor Lino, posso farle questo omaggio?».
L’ingegnere, confuso, riceve
il crocifisso dalle mani
del missionario.

(*) PADRE GIUSEPPE FRIZZI,
missionario della Consolata in Mozambico
dal 1975, licenziato in filosofia all’Università
urbaniana (Roma) e laureato
in teologia biblica all’università di
Münster (Germania). Ha scritto un catechismo
in macua e tradotto l’intera
bibbia. In italiano ha pubblicato «Gesù
mediatore e maestro», ricco di illustrazioni
(Istituto di San Pietro Claver
via Marmolada 40 – 00048 Nettuno).

Francesco Beardi




LICTO (ECUADOR) di fronte al Chimborazo

PRIMO AMORE

Un giovane missionario della Consolata
racconta la sua prima esperienza in Ecuador,
fatta di ascolto e tante domande, per imparare
e inserirsi in un mondo tutto nuovo.

Il mio trasferimento da Bogotá a
Licto era dettato da necessità organizzativa:
aiutare il padre Agostino
Baima, rimasto solo, mentre
il parroco, padre Giuseppe Ramponi,
si trovava in vacanza in Italia.
È la mia prima esperienza missionaria
«ufficiale». L’impatto con il
nuovo ambiente è stato positivo anche
se non facile.
Il Chimborazo è una regione geograficamente
montuosa, abitata
prevalentemente da popolazioni
indigene. Deve il suo nome all’omonimo
vulcano, spento, di 6.300
metri di altezza, che domina la capitale
della regione, Riobamba.
Le due missioni affidate ai missionari
della Consolata, Licto e Punin,
distano rispettivamente 17 e 10 chilometri
dal capoluogo e si trovano a
quasi 3.000 metri di altitudine.
La parrocchia di Licto si compone
di un paesino di circa 900 abitanti
e 31 comunità, piccoli villaggi disseminati
sulla sierra andina, per un
totale di 13.700 anime.
Ogni «iglesia viva», come vengono
definite in tutta la diocesi le piccole
comunità cattoliche, ha la propria
cappella, indispensabile per la
promozione di iniziative comunitarie
e organizzazione della vita umana,
sociale e religiosa della gente.
Necessaria, soprattutto, per rafforzare
il senso di unità e identità: senza
la cappella i cattolici si troverebbero
spaesati, dal momento che la
maggioranza degli indigeni del
Chimborazo è stata convertita al
protestantesimo, secondo un nutrito
catalogo di denominazioni. Una
realtà da tenere presente nel lavoro
missionario, a volte molto delicata e
non scevra di conflitti.
Licto è il centro motore delle attività
di tutta la parrocchia. Qui vengono formati uomini e, più raramente,
donne per essere catechisti,
leaders e responsabili di comunità. Il
loro ruolo è indispensabile, sia come
tramite di collegamento tra parroco
e gente, tra chiesa e cultura locale.
Licto, infatti, cura anche la parrocchia
di Flores e alcune delle sue
comunità; il missionario non può essere
presente nelle varie cappelle più
di una volta al mese. Sono questi laici
che organizzano la catechesi, riuniscono
la comunità per la liturgia
della parola e attendono ai vari problemi
ed esigenze delle iglesias vivas.
Buona parte del lavoro missionario
è dedicato all’istruzione
e formazione della persona,
affinché la gente riesca a vivere in
modo armonico il conflitto, sovente
drammatico, fra culture. Da un lato
sopravvive l’insieme delle tradizioni
che àncora individuo e comunità a
un passato di dipendenza; dall’altro,
a pochi chilometri, il mondo moderno
corre a mille all’ora, isolando o
stritolando chi non riesce a mettersi
al passo.
La gente vive del poco che produce
nei campi (mais, segale, patate, fave)
e di qualche animale che alleva e
vende, di solito per molto meno del valore
reale, al mercato di Riobamba
o Licto.
Fino ad alcuni anni fa la gente sopravviveva
moderatamente felice;
oggi è molto più povera, con gravi
problemi di sanità, igiene, istruzione.
I bambini sono lo specchio di tale
situazione. Sono tanti; si divertono
con poco; si entusiasmano per
due caramelle che regaliamo nelle
nostre visite. Mancano loro i termini
di paragone: le esche abbaglianti
della città, con le offerte, spesso devianti,
di felicità.
È quanto capita, invece, tra gli adulti.
Il contatto con altre realtà crea
nuovi bisogni, sovente non primari,
ma che diventano impellenti per chi
ha sempre avuto poco. Manca un
servizio sanitario; l’acqua non arriva
gratuitamente a tutti; nei giorni di
pioggia le stradicciole che collegano
le frazioni alla strada principale diventano
impraticabili.
Povertà e isolamento provocano e
ingigantiscono il fenomeno della migrazione,
privando le comunità degli
uomini più validi, che vanno a ingrossare
il già cospicuo numero di
gente che sopravvive nelle enormi favelas
di Quito e Guayaquil.
Da alcuni anni il fenomeno migratorio
investe anche i bambini. Sono
molti quelli che scendono a Riobamba o finiscono per le strade di Guayaquil
per guadagnare qualche soldo,
quasi sempre come lustrascarpe.
Tale migrazione giovanile è causata
principalmente dalla mancanza di
scuole e ha come conseguenza il distacco
dalla famiglia e dall’ambiente,
con grave perdita di radici e valori
culturali e cristiani.
Per questo la parrocchia di Licto
pone come priorità l’organizzazione
scolastica nelle comunità della sierra
ed è impegnata a promuovere e sostenere
scuole elementari e secondarie,
statali e aconfessionali, in modo
che i giovani non siano costretti a
scendere a valle in tenera età, ma ricevano
un’adeguata formazione per
affrontare il futuro senza perdere i
valori appresi in seno alla famiglia e
alla comunità.
Non è facile spiegare il dramma
di questa gente, la cui vita,
radicata in una cultura secolare,
deve innestarsi sul ceppo della
storia attuale del paese, delle sue
scelte politiche ed economiche.
In Ecuador si trovano in sintesi le
varie crisi che stanno sconvolgendo
il continente latinoamericano. Tracollo
economico dell’Argentina, tensioni
sociali di Uruguay e Paraguay,
proteste per l’infelice situazione economico-
politica del Venezuela,
dramma politico e sociale della Colombia
si ripercuotono negativamente
anche su questo relativamente
piccolo paese sudamericano, dalle
mille potenzialità non sfruttate o
sfruttate da altri.
Le scelte dei potenti, il condizionamento
delle multinazionali, l’enorme
indebitamento esterno, l’endemica
corruzione (l’Ecuador è il
paese più corrotto dell’America Latina
dopo il Paraguay), la dollarizzazione
della moneta e conseguente
aumento del costo della vita… tutto
fa sì che la gente debba arrangiarsi a
vivere alla giornata. In realtà, per
molti vivere significa sopravvivere.
In questa minuscola scheggia dell’ingranaggio
mi sono inserito
anch’io, con discrezione e voglia
d’imparare in questa mia prima esperienza
missionaria.
Cosa ho fatto in questi mesi è presto
detto. Mi sono guardato intorno,
ho ascoltato, preso appunti, fatto
domande, tante, alcune forse anche
stupide, ma tutte utili per meglio inserirmi
nella nuova situazione.
Uno degli ostacoli maggiori è stato,
ed è tuttora, quello delle lingue.
Al mio arrivo in Colombia non mi è
stato possibile studiare a fondo lo
spagnolo. E questo mi ha complicato
non poco l’esistenza, anche se ho
recuperato piano piano e ora me la
cavo con soddisfazione.
Compito primario della mia presenza
in Ecuador era quello di lavorare
nel centro cittadino di Licto, seguendo
la catechesi dei ragazzi e l’animazione
dei giovani. Un contatto,
quindi, prevalente con il mondo di
lingua spagnola, composto da meticci
e indigeni più «urbanizzati» (le
virgolette sono d’obbligo).
Padre Agostino, tuttavia, mi ha avvicinato
alle comunità della sierra,
che si esprimono quasi esclusivamente
in quichua, una specie di lingua
franca parlata in tutte le regioni
andine anticamente dominate dagli
incas. L’apprendimento di questo idioma
costituisce una sfida per
chiunque voglia inserirsi e lavorare
nel mondo indigeno.
Pur non avendo affrontato di petto
lo studio del quichua, dal momento
che il Chimborazo non era il
campo definitivo della mia vita missionaria,
ho imparato quanto basta
per estendere la mia attività ad alcune
comunità indigene, celebrarvi
l’eucaristia, leggendo le parti della
messa nel loro idioma e spiegando la
parola di Dio con la traduzione del
catechista.
Il mio trasferimento in Ecuador
era «aperto», nel senso che lasciava
margini per un eventuale definitivo
inserimento nel lavoro missionario
in questo luogo. E già cominciavano
ad aprirsi altre possibilità di lavoro:
richiesta di dare qualche lezione settimanale
di filosofia nel seminario di
Riobamba e di occuparmi di pastorale
giovanile a livello diocesano: il
Signore sa quanto ce ne sia bisogno
e quanto mi sarebbe piaciuto.
Ma con il ritorno del parroco a
Licto, dovrò tornare in Colombia,
per lavorare, come previsto dalla prima
destinazione, nelle comunità del
Cauca. Vi andrò con lo stesso spirito
che mi ha guidato in Ecuador: curiosità,
voglia di imparare e crescere
nel mio cammino di fede e dedizione
alla missione. Tuttavia, lascio il
Chimborazo con tanta nostalgia:
il primo amore non
si può scordare.

Ugo Pozzoli




NON DI SOLO CALCIO

Giugno 2002 passerà alla storia per i
goals di Ronaldo, che hanno laureato il
Brasile pentacampione mondiale di futebol.
Nell’euforia si è esclamato: «Ora anche
Dio è brasileiro!».
A noi, tuttavia, preme ricordare due altri eventi:
il Vertice mondiale sull’alimentazione, svoltosi
a Roma il 10-13 giugno presso la Fao, e il
Summit dei G 8 sulle Montagne Rocciose del
Canada dal 26 al 28 giugno. Incontri apertisi tra
perplessità e conclusisi nella delusione.
Idubbi sul vertice di Roma avevano un fondamento:
primo, perché la Fao è un’agenzia delle
Nazioni Unite che, mentre lotta contro la
povertà nel mondo, spende ogni anno 500 milioni
di euro per mantenere i propri apparati burocratici;
secondo, perché promette di sanare la
piaga di 800 milioni di affamati… a parole,
esattamente come nel vertice del 1996.
Accanto (o in contrapposizione) al vertice
Fao, se n’è svolto un altro con 2.000 delegati
di Organizzazioni non governative
(Ong), impegnate nel Sud del mondo. Nel
documento finale hanno osservato che il
piano della Fao del 1996 «è fallito… perché
si è basato su politiche che incentivavano
la fame nel mondo e la liberalizzazione
economica». L’errore è stato di «avere
forzato i mercati al dumping [con prezzi
stracciati, inferiori persino al costo
di produzione, per vincere la concorrenza],
alla privatizzazione di terreni
e risorse pubbliche: acqua, foreste,
aree di pesca». Inoltre c’è stata la
repressione di movimenti sociali.
Per le Ong la via di uscita è la
«sovranità alimentare»: ossia il
diritto dei popoli ad autodefinire
le proprie politiche produttive,
abbattendo la concentrazione di
proprietà, riconoscendo il ruolo
delle donne, investendo a favore
di piccoli produttori. Ma, per questo,
urgono riforme agrarie, l’esclusione
dell’Organizzazione mondiale
del commercio dalle politiche agricole, la moratoria
sugli organismi geneticamente modificati
(omg).
Il Summit in Canada è stato definito da Silvio
Berlusconi «un vertice concreto» con un piano
di azione per l’Africa povera. Ma, secondo
Sergio Marelli (direttore di 56 movimenti di volontariato
internazionale di ispirazione cristiana),
si tratta di un piano di inazione. Per dimezzare la
povertà entro il 2025, servono ogni anno 54 miliardi
di dollari: lo sostiene la Banca Mondiale,
mentre i G 8 si sono impegnati con 12 miliardi di
dollari: troppo poco rispetto ai 300 miliardi di debito
estero dell’Africa. Né si profila un piano di
aiuti, pari allo 0,7% del prodotto interno lordo,
da parte dei paesi ricchi a favore di quelli poveri.
Questi, nell’ultimo decennio, hanno aumentato
le esportazioni del 40%, vedendone però diminuire
il valore del 30%.
I leaders africani chiedono una collaborazione
collettiva, forte e responsabile, mentre i G 8
sembrano selezionare i paesi da soccorrere,
senza investirvi risorse. Il presidente del
Sudafrica, Thabo Mbeki, ha fatto buon viso a
cattiva sorte, affermando: «Il piano dei G
8 per l’Africa non è che il punto di partenza.
Però la forza non sta nelle risposte
che essi daranno, bensì nella convinzione
con cui gli africani si assumeranno la responsabilità
diretta di fare decollare
il continente».
E che dire dei milioni e milioni
di morti, uccisi da guerre? Al
riguardo, Berlusconi ha ricordato
che l’Africa è arretrata
anche per i conflitti armati.
Verissimo.
Ma, allora, come si può accettare
che, alla Camera dei
deputati italiani, la maggioranza
abbia approvato la
riforma della legge 185/94,
che allarga le maglie del traffico
di armi in Africa?

FRANCESCO BERNARDI




I MUSULMANI? CHE TORNINO A CASA LORO!

Leggo su Missioni Consolata la corrispondenza dei
lettori e trovo, in generale, odio per la globalizzazione
e odio verso i nordamericani. La lingua è
marchiata e si parla a vanvera!… Però, quando succedono
terremoti e distruzioni, è molto comodo ricevere
coperte, medicine e alimenti. E se non ci fosse
chi li produce? Inoltre è troppo complicato ciò che
tanti scrivono: si capisce poco! Benedetto Padre Pio
che scriveva semplice e chiaro! Ed era di una intelligenza
straordinaria. Trovo che anche i preti e i missionari
siano complicati, anche se non tutti. Per favore,
scrivete più semplice! Ritengo, inoltre, che tante
lettere contengano delle contraddizioni.
Riguardo alla lettera, intitolata «I “puntini” sui
musulmani» (Missioni Consolata, aprile 2002), dico:
lasciamoli stare i musulmani. Rispettiamoli, e non
facciamo confronti con i cattolici (cattolici veri e non
quelli solo di nome).
I musulmani sono superbi e ignoranti, trattano
malissimo le donne e sono falsi. Penso che Dio abbia
voluto far nascere Gesù da Maria, proprio per fare
rispettare le donne, mentre i musulmani le sfregiano…
E quelle maestre che levano il crocifisso dalle
scuole… sono state soggiogate dai musulmani;
oppure li hanno sposati e, quindi, devono obbedire.
Che tornino a casa loro! Fuori del loro ambiente,
rovinano solo il mondo. Sono crudeli, tagliano le mani
ai ladri, e chi le taglia chi sa quanto egli stesso ha
rubato! Se si può, aiutiamo i musulmani a capire; altrimenti,
che vadano a farsi benedire! Pregano più
di noi? Non vale nulla, se non diventano più umani.
Anni fa un musulmano, vicino di casa, cercò di insegnarmi
la sua religione e convincermi delle sue idee.
Tra l’altro mi domandò: «Come può Gesù essere
figlio di Dio… se questi non ha moglie?». Risposi:
«Dio ha creato il mondo e tutti noi, e può certo
aver fatto nascere Gesù Cristo da Maria».
Grazie a Dio, se n’è andato via!
MARIA C

Odio verso la globalizzazione e i nordamericani? No,
bensì «critica costruttiva», anche verso i sistemi politico-
culturali degli africani, dei sudamericani, degli asiatici,
degli australiani.
A proposito di contraddizioni… Come si possono rispettare
i musulmani se si giudicano superbi, ignoranti,
falsi, crudeli?
Che restino a casa loro! Impossibile. Nessun popolo
l’ha fatto. Quanti emigrati italiani vivono in Canada?
Maestre soggiogate? Forse. L’intimidazione psicoreligiosa
lede la dignità della persona.
Articoli e lettere con un linguaggio più comprensibile?
D’accordo al 100 per cento. I nostri lettori e collaboratori
sono avvisati. A tutti grazie!
Sulla globalizzazione e sul rapporto cristiani-musulmani
(e non solo), è significativo quanto ci ha
scritto il vescovo di Treviso PAOLO MAGNANI.
«È nata la proposta di sensibilizzare la nostra chiesa
diocesana anche attorno alle nuove sfide della
globalizzazione, compresa quella del dialogo interreligioso
e dell’annuncio di Cristo ai musulmani…
Abbiamo maturato una nuova consapevolezza delle
relazioni tra musulmani e cristiani e sul significato
del terrorismo e di ogni violenza. Abbiamo fatto un
incontro con loro, confrontandoci soprattutto nel
dialogo e nella preghiera.
L’arrivo tra noi di immigrati da diverse parti del
mondo ci avvia a nuove relazioni umane e religiose,
da coltivare e da tradurre nello stile della prossimità
verso gli emarginati e gli esclusi».

MARIA C. – MONTREAL (CANADA)




RACCONTARE TUTTO PER FILO E PER SEGNO?

Reverendo padre, ho 72 anni.
Ricevo la rivista Missioni Consolata,
ne sono affezionata e
vi ringrazio per il bene che fate all’umanità.
Vi amo da una vita. Parlo
così, perché ho anche trascorso
parte della mia gioventù accanto
al vostro istituto.
Ma veniamo al «dunque» della
mia lettera. Sono piuttosto istintiva:
quello che mi colpisce devo estearlo.
Il mio pensiero va a ciò
che ho letto sul dossier di maggio:
«Mutilazioni genitali femminili.
Ferite per sempre». Era proprio necessario
raccontare ogni particolare
per filo e per segno?
Gente mia, occorre prudenza, su
tutto! Ciò che si scrive rimane, sì,
sulla carta per sensibilizzare… ma
noi (che forse non siamo all’altezza
di interpretare giustamente le
notizie) possiamo restare scioccati,
specialmente di fronte ai problemi
descritti in modo troppo specifico.
Una volta gli scandali non si dovevano
palesare a nessuno, eppure
c’erano… Oggi le cose sono cambiate
e si può dire tutto: pedofilia,
omosessualità… Anche il Vaticano
non è da meno nel mettere in evidenza
certi scandali.
Caro padre, vuole il mio parere?
Se sì, eccolo. Forse il tema delle
«mutilazioni genitali femminili»
si presta per un documentario,
ben preparato e con storie raccontate
dalle interessate, presentato
sui canali televisivi (magari ad
un’ora tarda della notte), con la
possibilità di intervenire in diretta
e aprire un dialogo. Sarà forse
possibile ascoltare anche i modi adatti
per capire come certi usi e
costumi potranno scomparire nel
tempo.
Più che uno sfogo, caro padre,
vorrei che lo prendesse come un
consiglio. Dello stesso parere sono
pure alcune mie conoscenti, in
quanto faccio girare Missioni Consolata.
Risentiamo di un ambiente
troppo chiuso e riservato? Forse.
Tuttavia ritengo che non si devono
sbandierare apertamente
certi comportamenti della natura.
Sono cose delicate. Purtroppo sono
una realtà per chi vive in alcuni
paesi. Noi, direttamente, non
possiamo farci niente. Non credo
che basti sensibilizzare: anche
perché non penso che, facendo girare
sui giornali tutti i particolari
di alcuni usi e costumi, faccia piacere
a quei popoli.
Parlae in generale è giusto.
Ma è bene usare riservatezza, pudore,
modestia. E il fatto lo si capisce
ugualmente; inoltre è meglio
accettato, perché presentato con
«leggerezza».
Se io le dicessi: «Mia madre
morì di parto a soli 25 anni e mi
lasciò orfana a due anni, lei rimarrebbe
indifferente». Tutt’al più direbbe:
«Poverina!». È una notizia
qualsiasi. Se le raccontassi che fu
una fine tremenda (che nessuno
ha mai saputo), la cosa cambierebbe?
No. Siccome solo io so la
verità, ho pensato di vivere il fatto
rifuggendo dallo sbandierare
tutto in pubblico in termini scabrosi.
Mi scuso di queste righe, padre.
Ne faccia quello che vuole, liberamente.
Però tenga conto dell’essenziale…
Vi faccio i complimenti
per la vostra perseveranza. Anch’io
cerco di fare il bene, senza vergognarmi,
in mezzo a quelli che non
lo fanno.
CHERUBINA LORUSSO – MILANO

Grazie, signora Cherubina, dell’affettuoso
invito alla prudenza,
specie quando si affrontano temi
scabrosi e drammatici. Le mutilazioni
genitali femminili lo sono.
La rivista accennò al tema nel
1996. Allora la «persecuzione» infieriva
su 80 milioni di donne: una
cifra enorme. Oggi sono 130 milioni.
Che fare?
La collaboratrice Angela Lano ci
ha consegnato un dossier, solo con
testimonianze dirette. «L’ho scritto
con l’angoscia nel cuore» ci ha
confidato. Poi abbiamo sottoposto
lo scritto a diverse signore (non
giovani), rimaste inorridite. Però
hanno aggiunto: «È un tabù che bisogna
infrangere!»… Per «alleggerire
il peso», abbiamo scelto dei disegni
come foto.
Certamente la sola informazione
non basta a superare un costume
atavico, discutibile. Ma giova
il silenzio?… Un tempo i portatori
di handicap venivano nascosti,
perché ritenuti un disonore. Oggi
vanno a scuola e in chiesa, salgono
sui treni e gareggiano alle olimpiadi.
Qualcosa è mutato, dopo
avee parlato.
Fino a ieri, fra le pareti domestiche,
si sono consumati incesti e
atti di pedofilia con… «guai a te se
parli!». Al presente qualcuno parla.
Speriamo che lo faccia con spirito
costruttivo, e non per incuriosire
in modo morboso.
È in tale ottica che va letto «Ferite
per sempre». Una grave violazione
dei diritti della persona.

CHERUBINA LORUSSO




RACCONTARE TUTTO PER FILO E PER SEGNO?

Sono una studentessa di Scienze
politiche della facoltà di Torino.
Leggo la vostra rivista da
tempo; mia madre è abbonata da
anni e abbiamo avuto missionari
anche nella nostra famiglia.
Ogni volta rimango sorpresa
dalla chiarezza, dalla cura, dalla
oggettività, dalla profondità con
cui componete il giornale. Purtroppo
siete fra i pochi in questa
realtà italiana e anche mondiale a
dire veramente in quale misero
stato versa il mondo.
Ho in mente soprattutto il dossier
«Ferite per sempre» di ANGELA
LANO. Non ho mai, mai letto da nessuna
parte una pubblicazione così
cruda, reale e obiettiva del problema
dell’ infibulazione.
Allora complimenti a tutti voi!
E grazie.
PAOLA BIZZARRI – TORINO

PAOLA BIZZARRI




Condiscendenti verso la prostituzione?

Cari missionari,
rieccomi per l’ennesima
puntualizzazione. Sicuramente
la vista della mia
grafia non vi entusiasma.
Scusatemi… Ma l’articolo
«Quasi mai ragazze, quasi
sempre vittime» di Missioni
Consolata (aprile
2002) mi ha lasciata perplessa.
D’accordo nel non criminalizzare
la tenutaria
peruviana della casa di
prostituzione, vittima prima
di essere colpevole. Se
ne parla, però, come di una
persona che svolge la
sua attività con professionalità,
rigore, attenzione
ai «diritti» delle «dipendenti
»: sembra quasi che
sia una benemerita.
Poi non è affatto chiaro
nell’articolo che la prostituzione,
per quanto garantita
e protetta, sia
quanto di più degradante
possa fare una donna, oltre
ad essere un grave peccato,
sempre. Pare invece
che l’attività, esercitata
così, sia accettabile. E
non si dice che è un male
evitabile, non ineluttabile;
non si dice che la ragione
e la volontà possono controllare
le pulsioni.
D’accordo: quelle persone
vivono in ambienti moralmente
degradati. Ma
non sarebbe meglio fare opera
di educazione e prevenzione?
O siamo nell’ottica
delle «case di tolleranza
», inevitabili come le
catastrofi naturali? Crediamo
o non crediamo che
l’uomo, redento da Gesù
Cristo, non è una bestia?
Occorre solo educarlo.
Mi sembra, infine, che
nell’articolo pubblicato ci
sia una velata condiscendenza
verso «un’attività
ben regolamentata». Mi
auguro di aver frainteso.
Giulia Guerci
Castellazzo (AL)

Signora Giulia, lei è tra
le poche persone che ancora
scrivono ricorrendo
alla penna. La sua è una
grafia chiara, elegante,
che desta ammirazione.
Il tema «prostituzione»
non ci vede affatto condiscendenti.
Non lo siamo
neppure considerando le
«attenuanti sociali» presenti
nei paesi del sud del
mondo. «La denuncia del
fenomeno – scriviamo nel
sommario dell’articolo citato
– è scontata quanto
necessaria».
È il «mestiere» più vecchio
del mondo, perché
non sono mai mancati i
«clienti». Tutti lo dicono,
ma non tutti ne tirano le
debite conseguenze.

Giulia Guerci




Bisogno di profezia

Cari missionari,
da diversi mesi leggo Missioni
Consolata. Non posso
che condividere la sua
linea, che chiamo di «profezia
», se profezia significa,
qui e ora, prendere sul
serio il proprio tempo con
atteggiamenti chiari e coraggiosi.
Mi sto convincendo che,
nella chiesa d’oggi, i migliori
cattolici italiani sono
i missionari. I missionari
«danno fastidio» e
trovano poco spazio nelle
tivù e sui giornali.
Il mio auspicio è che
continuiate in questa direzione,
con un orecchio teso
anche alla situazione italiana.
Il Concilio ecumenico
Vaticano II, 37 anni
fa, non ha fatto una dichiarazione
puramente
teorica o diplomatica
quando ha dichiarato: «Le
giornie e le speranze, le tristezze
e le angosce degli
uomini d’oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti coloro
che soffrono, sono pure
le giornie e le speranze, le
tristezze e le angosce dei
discepoli di Cristo, e nulla
vi è di genuinamente umano
che non trovi eco nel
loro cuore» (Gaudium et
spes 1). Soprattutto voi,
missionari, in questi anni
testimoniate questo, pagando
di persona (nonostante
critiche e dissensi).
Su Missioni Consolata di
maggio ho apprezzato
molto gli articoli:
– «Sempre bugie, ancora
bugie» («La guerra afghana
è stata una grande,
drammatica terribile cortina
fumogena per nascondere
le responsabilità degli
Stati Uniti»);
– «Mutilazioni genitali
femminili / Ferite per
sempre» (un servizio che
scandaglia una brutale tematica,
scritto con completezza
e precisione);
– «L’ultimo volo di Maria
Marta» (come sopra);
– «Che il vino non diventi
acqua» (mi ha colpito la
frase: «Sono finiti i tempi
in cui bastava raccontare
la storia del moretto. Oggi
la gente vuole conoscere i
perché delle tragedie che
assillano il sud del mondo;
vuole sapere quali e di chi
sono le responsabilità dei
disastri umanitari»)…
Ambrogio Vismara
Cuggiono (MI)

Profezia è pure cogliere
«i segni dei tempi», anticipando
il futuro. E, date
le tristezze e angosce (di
cui parla il Concilio ecumenico),
profezia è ancora
consolazione. «Consolate,
consolate il mio popolo
– dice Dio -. Parlate
al cuore (della gente) e
gridatele che la sua schiavitù
è finita» (Is 40, 1-2).

Ambrogio Vismara




si fanno IN QUATTRO

L’esperienza di solidarietà missionaria in Brasile
dell’«Associazione di volontariato Ancona-Pocinho» (Avap).
Sono in pochi, ma…

Siamo un gruppo di animazione missionaria
nella parrocchia di Pietralacroce
ad Ancona: un gruppo assai
modesto. I membri si contano sulle dita di
due mani.
Consci della nostra esiguità, cerchiamo
confronti e contributi formativi in varie direzioni:
incontriamo, per esempio, persone
che a vario titolo operano nel campo della
solidarietà internazionale. Così sono stati
nostri graditi ospiti anche Feanda,
Maddalena e Giorgio; con Pina e Francesca
(la moglie di Giorgio, rimasta però a casa
con Lorenzo di appena cinque mesi), sono
i fondatori di Avap. L’acronimo sta
per: «Associazione di volontariato
Ancona-Pocinho».
Pocinho è
un modesto villaggio nello stato del
Paranà, nel sud del Brasile: una comunità
agricola di appena 350 persone.
La contiguità di Pocinho con
Ancona ha una storia breve e lunga
insieme, ennesima prova di come le
vie del Signore siano veramente infinite.
In una parrocchia di Ancona arriva,
nel 1992, una vivace suora brasiliana,
Isabelita, la quale stringe amicizia
con i ragazzi di Azione cattolica,
fra cui Maddalena e Giorgio, ma
pure con Feanda che di Giorgio è
la mamma.
Suor Isabelita ritorna in Brasile,
ma a Salvador, nel nord del paese.
Accade però che ella visiti di lì a poco
Cipriano, uno dei suoi numerosi
nipoti, che vive a Pocinho. Cipriano,
dopo una devastante esperienza in
una favela, è ritornato alla terra; ora
ha una piccola azienda agricola, dove
alleva bachi da seta e vive bene
con la sua famiglia. Intoo a lui,
però, Isabelita vede miseria e degrado
enormi.
Parte una lettera, secca secca, per
l’Italia: «Cari amici, chissà quante
cose voi avete in più nelle vostre case.
Qui invece i bambini sono nudi
e scalzi; non c’è una sola benda per
fasciare le ferite. Mandateci quello
che non vi serve. Però, se la mia richiesta
è per voi un peso, non importa.
Restiamo amici come sempre…
».
Invece «importò»
moltissimo a Maddalena, Feanda,
Pina, Francesca e Giorgio, gli ultimi
due allora ancora solo fidanzati.
Partirono i primi pacchi di aiuto.
Poi fu più conveniente inviare denaro;
e nacquero le adozioni a distanza
di alcune famiglie brasiliane.
Maddalena e amici furono fortunati:
Cipriano si rivelò un referente locale
capace e solidale con i suoi e
con coloro che erano ormai i suoi
amici italiani. Scriveva lettere e inviava
foto; registrava con scrupolo
l’arrivo dei pacchi, l’acquisto dei
beni di prima necessità, i gruppi familiari
adottati da altrettante famiglie
anconetane.
Giunse pure il bel momento dell’incontro:
Feanda, Francesca e
Giorgio volarono in Brasile. Prima
di arrivare a Pocinho, suor Isabelita
mostrò loro la realtà contraddittoria
del paese: gli hotel a cinque stelle
sulla spiaggia di Copacabana e le
favelas, i bambini di strada e i rampolli
delle famiglie grandi latifondiste,
i manganelli della polizia e l’azione
dei «senza terra» che lottano
per il possesso di un campo con il
quale vivere.
Dai termini con cui Giorgio ci ha
parlato del Brasile, abbiamo capito
che è nata in loro una «passione diversa
»: aiutare i fratelli poveri del
Brasile, sì, ma con intelligenza.
Mentre continuava l’opera di sostegno,
il gruppo è diventato Onlus
(Organizzazione non lucrativa di
utilità sociale), con il nome «Avap»
appunto. I componenti hanno avuto
contatti con realtà più grandi nel
campo della solidarietà internazionale
e hanno avuto l’umiltà di ascoltare
per imparare.
Oggi l’Avap si muove anche a livello
di istituzioni locali e regionali:
si fa conoscere, presenta progetti,
ottiene contributi, è affidabile e cerca
sinergie con altri movimenti di
volontariato.
Feanda
in gennaio ha trascorso un mese in
Brasile. Infatti l’Avap non vuole che
i suoi progetti cadano a Pocinho dall’alto,
cioè da «saccenti europei».
Feanda ha discusso con la popolazione
di Pocinho in assemblea: ha
proposto e ottenuto che delle commissioni
studiassero la fattibilità di
una cornoperativa agricola e di altri
quattro microprogetti; ha chiesto
l’intervento di un agronomo locale.
Ora il primo progetto, elaborato a
Pocinho, è giunto ad Ancona per essere
finanziato; sarà tradotto dal portoghese,
perché Maddalena, economista,
possa valutae con esattezza
la ricaduta economica e sociale sulla
comunità di Pocinho.
Giorgio sa già che le difficoltà non
mancheranno, perché – dice – «voi
non sapete quanto sia difficile aiutare
bene e quanti errori si possono
fare».
I viaggi in Brasile hanno fatto capire
che, se le zone agricole sono povere,
le periferie delle città lo sono di
più. La conoscenza diretta della gente
di Pocinho e della favela di San
Camillo, nello stato di San Paolo,
verso cui è diretta l’azione ha fatto
comprendere quanto la psicologia e
cultura di quella gente siano lontane
dall’efficientismo occidentale.
Come dire: l’Avap si sta inculturando.
Senza dimenticare che i cinque
sentono l’urgenza di imparare
il portoghese, perché la comunicazione
con i loro amici lontani sia ancora
più rapida ed efficace.
Di ciò che ci hanno
raccontato Feanda, Maddalena e
Giorgio potrei scrivere molto. Ma
vorrei, soprattutto, parlare di loro:
per esempio della generosità con
cui svolgono l’impegno di volontariato.
Una civiltà (civiltà?) fondata
sul profitto ci ha abituati a considerare,
dietro ogni gesto, l’interesse
personale, il vantaggio. Qui invece
c’è solo donazione.
Giorgio, Maddalena, Francesca e
Pina (ingegnere, economista, avvocato
e collaboratrice scolastica) sono
specialisti che, senza rimpianti, dedicano
molto tempo all’Avap; lo fanno
con la stessa competenza con cui
svolgono le loro professioni; e sono
ammirevoli. Lo è pure Roberto, che
ha deciso di condividere la scelta di
vita di Maddalena.
Come degna di viva ammirazione
è stata Feanda, quando ci ha raccontato
il suo incontro con la prefetta
dell’area in cui sorge Pocinho.
Feanda non aveva verità da dare;
ma sapeva anche giudicare da cristiana
la mala fede dei politici che
«assistono» un popolo, mentre dovrebbero
invece farlo «crescere».
Feanda, Maddalena, Giorgio,
Francesca, Pina… Che siano
questi i laici cristiani cui i missionari
potranno passare il testimone,
senza temere che la grandezza
incommensurabile della loro opera
secolare vada smarrita?

Rita Viozzi Mattei




È giusto scegliere tra lavoro e profitto?

ETICA ED ECONOMIA / A proposito di cristiani e comunisti
Perché chi desidera un posto sicuro e una retribuzione decorosa viene denigrato? Perché la flessibilità è un concetto sacro? Perché speculare è più importante che produrre? «Missioni Consolata» ospita le considerazioni di un suo vecchio abbonato, che (ancora una volta) faranno discutere.

Dalla lettura di Missioni Consolata di aprile
(pag. 7,8,9) ho avuto la conferma che l’ostilità
contro i comunisti è più viva che mai.
È un atteggiamento che non posso condividere. Se
un comunista tradisce Marx e cerca di imporre un
modello di società basata sul culto della personalità
del dittatore o una partitocrazia dove non solo si nega
Dio, ma non c’è neppure rispetto per la vita e la dignità
umana, il cristiano ha il dovere di ribellarsi; ma,
quando un comunista afferma principi retti e onesti,
il cristiano non è un buon cristiano se snobba o contesta
codeste affermazioni in quanto pronunciate dal
membro di un partito a lui non gradito.
Vorrei citare a questo proposito l’intervento dell’onorevole
Diliberto il quale, durante il dibattito parlamentare
seguito al vile assassinio del prof. Marco
Biagi, ha equiparato il terrorismo dei brigatisti a quello
che caratterizza certi rapporti di lavoro e si è spinto
ad affermare che «anche chi licenzia una persona
senza giusto motivo commette violenza…».
Condivido questa affermazione, perché la ritengo
in linea con il vangelo e con la dottrina della chiesa.
Se gli esperti, i tecnici, i consulenti, i supervisori che
collaborano con il ministero del lavoro hanno un po’
di etica professionale e vogliono davvero far sì che il
sacrificio del prof. Biagi non diventi un sacrificio inutile,
si astengano dal collaborare con quelle che l’anti-
lingua del capitalismo criminale chiama «riforme».
Abbiano invece il coraggio di replicare agli ultra-liberisti
che il vero nemico da battere non è il welfare,
ma la sfrenata rincorsa al profitto finanziario, dove
tutto diventa lecito perché non solo il lavoro vale più
dell’uomo, ma il capitale vale più dell’azienda e speculare
diventa più importante che produrre.
In nome della competitività oggi si licenzia non perché
si produce male o troppo o troppo poco, ma perché,
se non si licenzia, il valore delle azioni quotate in
borsa… non sale!
Se invece si investono centinaia di milioni di euro
per acquistare un Zidane o per «non lasciarsi scappare
» un Vieri (o Ronaldo, Totti, Batistuta, Nesta,
Shecchenko), allora la risposta positiva della borsa arriva.
Marco Biagi sapeva queste cose fin troppo bene,
perché era anche un appassionato di calcio (tutte le
volte che il Bologna aveva impegni casalinghi, andava
allo stadio assieme ai suoi due figli…), ma sapeva
pure, da cristiano, che l’attaccamento allo sport significa
disponibilità a lottare contro le intollerabili
sperequazioni retributive che vigono tra una categoria
e l’altra, tra una squadra e l’altra e, non di rado, tra
giocatori che militano nella stessa squadra. Sapeva
che il calcio non è solo serie A e conosceva il drammatico
fenomeno delle «morti bianche del pallone».
Una semplice regola dell’economia dice: «Per ogni
persona che percepisce un reddito che non produce,
c’è almeno un’altra persona che produce un reddito
che non percepisce».
Se, per esempio, le gambe di certi calciatori della
Juventus, la società di calcio più blasonata d’Italia,
valgono tanti soldi (lo facevano amaramente notare
alcuni anni fa i curatori di un reportage dal Kurdistan
iracheno) è anche perché le gambe di un pastore kurdo,
di una contadina cambogiana, di un bimbo somalo o angolano non godono di alcuna forma di tutela
e, se vengono dilaniate da una mina prodotta dalle fabbriche
dello stesso colosso imprenditoriale e finanziario
che controlla la Juventus, nessuna borsa crolla, nessuno
stadio si svuota, nessun mercato si «deprime»…
Se un allenatore di serie A riesce a percepire milioni
di euro anche dopo esser stato esonerato, perché il contratto
firmato a suo tempo gli dà ragione, è chiaro che
questo denaro dovrà in qualche modo essere recuperato
dai suoi ex padroni e sponsor vari, anche perché
una cifra pressappoco uguale sarà finita, nel frattempo,
nelle tasche del nuovo trainer. Allora è inevitabile che,
prima o poi, liquidazione d’indennità, diritto alla riassunzione
con l’articolo 18, diritto alla contribuzione,
diritto alla pensione vengano negati (o messi in seria discussione)
alle migliaia di persone il cui stipendio mensile
era o è 1.000 – 10.000 volte inferiore a quello percepito
da ognuno dei 2 allenatori.
Per risolvere queste contraddizioni e
molte altre, i rimedi non sono e non
potranno mai essere quelli proposti
dal governo Berlusconi o da Confindustria.
Non è colpa dello «Statuto dei lavoratori
», se certe industrie non attraversano
un buon momento e se le casse dello stato
non sembrano più in grado di pagare altre
pensioni, ma del fatto che questo Statuto
(a cominciare dall’articolo 18) raramente
è stato applicato. Ci si è comportati come
se non esistesse. In Italia troppe leggi non
vengono rispettate e troppi trasgressori
non vengono puniti; troppo facilmente i
furbi vengono premiati e c’è troppo incoraggiamento
a forzare i testi legislativi in
modo che il male diventi bene e il bene
male.
Le cifre astronomiche che lo stato ha speso a causa
degli incidenti sul lavoro (prima dell’avvento dell’euro,
la rimessa annua si aggirava attorno ai 55 mila miliardi
di lire), degli incidenti stradali (prevalentemente provocati
da alta velocità), delle alluvioni, del dissesto idrogeologico,
dell’inquinamento di aria, acqua, suolo…
non si recuperano mostrando i muscoli ai sindacati, irrigidendo
la mascella davanti ai microfoni e ripetendo
all’infinito: «Il governo andrà avanti per la sua strada,
la maggioranza del paese è con noi…».
L’abusivismo edilizio, le tangenti, la mafia degli appalti,
il racket non si contrastano con la flessibilità. La
mortalità e gli infortuni nei cantieri, nelle fabbriche, nei
campi, sulle navi e sui pescherecci non diminuiranno
abolendo l’articolo 18; è assai più probabile che aumenteranno
e lo stesso avverrà col mobbing, col caporalato,
coi ricatti e le molestie a sfondo sessuale e con i
controlli-burletta da parte degli ispettorati del lavoro.
Contro il lavoro minorile (in Italia almeno 300 mila
bambini che non dovrebbero lavorare vengono costretti
invece a farlo), le tratte delle cinesi e delle nigeriane,
dei kurdi e dei singalesi, le prepotenze degli scafisti
e di tutti i nuovi schiavisti, la risposta non può essere
la desindacalizzazione…
Le evasioni fiscali, i paradisi fiscali, le bande degli
estorsori e degli usurai sono realtà che le ricette
del liberismo e della «deregulation» possono solo
aiutare a espandersi, come è accaduto in tanti altri
paesi, compresi gli Stati Uniti.
Il terrorismo, la dipendenza da droga e alcornol, da lotterie,
quiz (adesso in Argentina, con 5 milioni di disoccupati
il posto di lavoro è diventato la… posta in gioco
tra i concorrenti che partecipano ai telegiochi) e video
poker, il tabagismo, l’imbarbarimento delle relazioni
all’interno dell’istituzione familiare, il fascino perverso
che le attività criminali esercitano sulle giovani generazioni…
non si prevengono deridendo «il mito del posto
fisso» e bollando come «sognatori» e «nostalgici»
coloro che aspirano semplicemente a un lavoro sicuro
e dignitoso e lottano perché una retribuzione decorosa
sia garantita a tutti.
Le ecomafie, le zoomafie, le piccole e grandi truffe ai
danni dello stato e dei singoli consumatori, le frodi alimentari
non si debellano con le privatizzazioni, i condoni,
la riduzione delle superfici dei parchi nazionali e
con la denigrazione di chi «osa» suggerire una politica
di rilancio dei lavori socialmente utili…

Fonti:
«Licenziano la madre, suicida a 14 anni» (in Corriere della Sera,
13/10/1999, pag.19); «Non fermiamo il girotondo» (whs
Retebrescia Handicap Inteational, 1995); «Lo sdegno di
Cacciatori» (in la Repubblica, 16/11/2000, pag. 57); «Quando
Biagi veniva in Africa» (in la Repubblica/Bologna, 24/03/2002,
pag. 1); «Il meno flessibile? D’Amato» (in Avvenire, 17/04/2002,
pag. 3); «Circus» (RaiTre, 11/01/2000).

Francesco Rondina