Ma lo spirito è libero

Con la «scoperta» dell’America l’evangelizzazione assume dimensioni planetarie. Per portare il vangelo in Asia e Nuovo Mondo il papato
deve servirsi delle caravelle e del sostegno finanziario dei re di Spagna
e Portogallo. Tanto di cappello per i loro sforzi economici; ma a che prezzo!
Le nuove chiese fanno fatica a prendere le distanze dagli intrighi politici;
i missionari contestano le violenze dei conquistatori;
la loro attività è spesso confusa con quella della colonizzazione.
Eppure il vangelo avanza inarrestabile.

Scoperte e conquiste

Il 12 ottobre 1492, data della «scoperta» dell’America, segna un cambiamento epocale nella storia dell’umanità. Nello stesso anno in cui la Spagna si libera dall’ultima presenza saracena, si lancia nelle avventure marinare, sostenendo il sogno di Cristoforo Colombo: raggiungere le Indie navigando verso ovest. Il navigatore genovese s’imbatte in un Nuovo Mondo, più tardi chiamato America.
Alla fine dello stesso secolo, dopo decenni di esplorazioni lungo le coste africane e la circumnavigazione del continente nero, il Portogallo si apre la via marittima verso est e raggiunge le Indie sognate da Colombo.
Alle scoperte segue la conquista. In pochi anni i portoghesi seminano basi fortificate lungo le coste africane e asiatiche: India, Ceylon, Birmania, Thailandia, Penisola Indocinese, Cina. Nel 1500, una tempesta sbatte Pedro Alvarez Cabral sulle coste del Brasile. Nove anni dopo comincia la colonizzazione portoghese.
Gli spagnoli arrivano con cavalli, fucili e cannoni, piegando con estrema facilità la debole quanto inutile resistenza degli indigeni. La conquista sfocia nella colonizzazione e sfruttamento delle ricchezze dei territori occupati: torme di avventurieri, nobili spiantati e contadini affamati cercano di fare fortuna nel Nuovo Mondo, a scapito degli indigeni, ridotti in servitù. Il primo impatto con gli europei è micidiale, secondo la testimonianza, per quanto esagerata, di Bartolomeo de las Casas: in meno di 30 anni dalla scoperta, gli indiani delle Antille sono già totalmente scomparsi, a causa delle guerre, lavori forzati e fulminanti epidemie.
Ma gli indigeni si rivelano troppo deboli per certi lavori; allora vengono sostituiti con gli schiavi neri, catturati in Africa e trasportati nel Nuovo Mondo da compagnie portoghesi e spagnole, inglesi, olandesi e francesi.
Sotto l’avanzata dei conquistatori scompaiono non solo le popolazioni più deboli, ma anche i grandi imperi del continente americano e le loro civiltà: maya, aztechi, incas. Non è certo questo lo scopo inteso dai cristianissimi sovrani di Spagna e Portogallo, che si sono impegnati a portare il vangelo ai nuovi popoli. Ma chi può controllare una conquista portata avanti da condottieri senza scrupoli e per giunta alla testa di una soldataglia drogata dall’avventura e dall’oro?

Evangelizzazione e «patronato»

Le grandi scoperte geografiche e l’incontro con popoli sconosciuti offrono alla chiesa un’altra occasione, la più ghiotta mai incontrata, per un’avventura missionaria su scala planetaria: il vangelo giunge veramente fino ai confini della terra; la chiesa diventa realmente «cattolica», cioè universale.
Per quanto i tempi stiano cambiando, la società cristiana è ancora pervasa dallo spirito di crociata: bisogna battezzare, nel più breve tempo, il maggior numero possibile di eretici e pagani, altrimenti condannati alla dannazione eterna.
Tale urgenza non è sentita solo dai predicatori, ma anche dai laici come Erasmo da Rotterdam. «I viaggiatori portino con sé dalle terre lontane oro e pietre preziose, ma sarà più grande trionfo il portare, di qui a là, la saggezza di Cristo, più preziosa dell’oro, e la perla del vangelo, che vale tutte le ricchezze della terra» scrive il grande umanista.
L’urgenza dell’evangelizzazione è sentita soprattutto dal papato, che vede nelle scoperte un evento provvidenziale, che compensa la chiesa delle perdite subìte con lo scisma protestante. Ma come far fronte a un’impresa di dimensione planetaria e tanto dispendiosa?
Già in precedenza il papa ha concesso ai sovrani portoghesi il diritto di possedere le terre strappate agli infedeli. Per prevenire qualsiasi conflitto tra Spagna e Portogallo, il papa Alessandro VI traccia una linea di demarcazione «da un polo all’altro», passante a occidente delle Azzorre, successivamente spostata 270 miglia più a ovest (1494). A est di tale linea le terre sono riservate al Portogallo; quelle a occidente alla corona spagnola.
Con tale spartizione e ulteriori accordi, il papa legittima per i re di Spagna e Portogallo la presa di possesso delle terre scoperte e da scoprire. In compenso, essi hanno l’obbligo di diffondervi la fede. Diritti e doveri chiamati col termine «patronato». I sovrani sono i «patroni», capi delle nuove chiese: fondano diocesi e nominano i vescovi; sostengono le spese per i viaggi dei missionari, sostentamento del clero e gerarchia, costruzioni di chiese, conventi e parrocchie.
Non c’è dubbio che il «patronato» imprime un impulso decisivo all’espansione dell’evangelizzazione e della chiesa. Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Il connubio tra stato e chiesa finisce per snaturare l’opera missionaria, facendo apparire l’evangelizzazione come una componente della politica coloniale. Il meccanismo del «patronato» condiziona gli evangelizzatori, quando questi non sono confusi con gli agenti del potere politico; le nascenti comunità cristiane, più che nuclei di credenti, paiono isole dell’Europa, i neofiti dei venduti più che convertiti. Molti missionari avvertono il pericolo ed entrano in conflitto con le autorità coloniali.
Lo sforzo maggiore nella nuova crociata di evangelizzazione, però, è assunto in blocco dagli ordini religiosi. Pur essendo spesso delegati dai sovrani, più che dal papato, i missionari sono animati da entusiasmo, volontà di sacrificio, desiderio di martirio, certezza della vittoria. L’opera di evangelizzazione inizia con fervore, conseguendo brillanti risultati. Spuntano promettenti comunità cristiane in Africa, in Asia e nelle Americhe.




In barba ai “cattolicissimi”

Alla Spagna, l’altro beneficiario della spartizione del globo, toccano l’America e, dopo varie scaramucce, le Filippine. A differenza del Portogallo, che si accontenta di occupare punti strategici lungo le coste, la Spagna cerca di stabilirsi in profondità. Conclusa la conquista comincia l’evangelizzazione sistematica. I re di Spagna s’interessano personalmente dell’amministrazione ed evangelizzazione dei territori. E prendono sul serio gli impegni imposti dal patronato. Dal 1535 al 1592, per esempio, sono inviati nelle colonie 2.682 religiosi e 376 preti diocesani. In un secolo sono create 34 diocesi in America Latina.

Il vangelo in America

«I nostri re ci hanno mandato non per soggiogarvi, ma per insegnarvi la vera religione» dice Cristoforo Colombo agli indigeni de La Española (Haiti), mentre pianta la croce al suolo, prendendo possesso dell’isola in nome dei re di Spagna. Una promessa mantenuta solo per metà: di fatto gli indigeni verranno soggiogati; quanto all’insegnamento della vera religione è tutto merito dell’azione della chiesa.
Le Antille sono le prime a ricevere coloni e missionari: una quindicina di francescani (1502), seguiti da un gruppo di domenicani. Nel 1511 vi sono già tre diocesi. Ma non è una facile impresa. I missionari si scontrano spesso con i propri compatrioti: soldati, mercanti, avventurieri d’ogni risma che, di per sé, non sono ostili alla religione, anzi. Ma della religione hanno un concetto talmente distorto, da non saper più distinguere tra fede e cupidigia, tra devozione e istinto. Per il fatto di essere cristiani, si sentono autorizzati a sottomettere chiunque e con qualsiasi mezzo.
Nell’intento di reperire manodopera per la coltivazione delle terre occupate e il lavoro nelle miniere, la Corona propone l’istituzione di un sistema già collaudato in patria: l’encomienda. Ai proprietari terrieri viene dato un certo numero di indigeni con l’impegno di nutrirli, proteggerli e istruirli nella fede cristiana; questi ripagano con il lavoro. I coloni trattano gli indigeni come bestiame umano: deportazioni, smembramenti di famiglie, lavori forzati.
Contro tali abusi insorgono i domenicani. Se ne fa portavoce Antonio de Montesinos: «Non vi salverete più dei turchi. Siete tutti in peccato mortale e in esso vivete e morite, a causa della tirannia con cui trattate questa povera gente» tuona dal pulpito il 21 dicembre 1511. Il fatto è raccontato da Bartolomeo de las Casas, domenicano pure lui, strenuo difensore dei diritti degli indigeni, tanto da meritarsi l’appellativo di «padre e protettore degli indiani».

Nel 1524, due anni dopo la mostruosa conquista operata da Ferdinando Cortés, arrivano in Messico i «dodici apostoli» francescani. A sette anni di distanza, il primo vescovo di Città del Messico, Zumárraga, traccia un bilancio del lavoro svolto: «Un milione di persone sono state battezzate; 500 templi di idoli distrutti; 20 mila dipinti di dèmoni bruciati. Un fatto ancor più meraviglioso: una volta gli abitanti di questa città sacrificavano ogni anno ai loro idoli 20 mila cuori umani; oggi offrono a Dio sacrifici di lode, grazie all’insegnamento e buon esempio dei religiosi». Dopo 15 anni i battezzati erano 6 milioni. La sera i frati andavano a dormire con il «crampo da battesimo». Lo testimonia il più famoso dei «dodici apostoli», Toribio da Benavente, detto Motolinía, cioè il povero.
Ai francescani si uniscono domenicani, agostiniani e, più tardi gesuiti, fondando scuole, ospedali, orfanotrofi e lanciandosi in una spettacolare gara di dedizione e carità. Il cristianesimo viene costruito sulla rovina della religione e cultura azteca, ma non mancarono tentativi di adattamento. Per trasmettere il messaggio del vangelo i missionari sfruttano gusti e attitudini degli indigeni: pitture, teatro religioso, gesti simbolici, splendore del culto ed esuberanza architettonica delle chiese.
A differenza dei conquistatori, i missionari non hanno alcuna intenzione di ispanizzare gli indiani. Fondano le loro missioni lontano dai villaggi dei coloni; imparano le lingue indigene; preparano grammatiche, dizionari e catechismi e tendono a capire in profondità i popoli che evangelizzano.
In questo campo si distingue soprattutto il francescano Beardino da Sahagun: scrive la Storia generale delle cose della Nuova Spagna (Messico), frutto di 40 anni di ricerche sulle antiche usanze religiose azteche; a mano a mano che procede nella descrizione, s’innamora dei popoli descritti, fino a sognare, insieme ad altri missionari, uno stato cristiano e messicano libero dalla colonizzazione. Tale simpatia suscita i sospetti delle autorità; Filippo II fa distruggere tutte le cronache scritte dai missionari. L’opera di Sahagun si salva e sarà pubblicata solo nel XIX secolo.

Altro centro di evangelizzazione è il Perù. Vi arrivano prima i domenicani nel 1531; 13 anni dopo sono già 55. Seguono i francescani (1540), agostiniani, mercedari, gesuiti (1568). Questi si dedicano all’insegnamento e alla linguistica. A Lima viene fondata l’università, centro culturale per tutta l’America Centrale e Meridionale.
L’organizzazione della chiesa in Perù è tutto merito di Toribio de Mogrovejo: conosce la lingua degli incas, il quechua, come quella insegnatagli da sua madre; raduna sinodi e progetta piani pastorali; visita l’immensa diocesi da capo a fondo e a più riprese.
Il Perù diventa centro di irradiazione del vangelo nelle regioni confinanti. Francesco Solano, il «taumaturgo del Nuovo Mondo», evangelizza gli indios dell’Argentina. Gesuiti e francescani penetrano nel Cile e predicano agli araucani. Il domenicano Alfonso di Montenegro fonda la chiesa in Ecuador. San Luigi Bertrand, domenicano, è l’apostolo della Colombia.
Alla fine del secolo XVI, la chiesa è saldamente impiantata in quasi tutto il continente latino americano, con arcidiocesi e diocesi ancora vastissime, ma già in grado di trasformare quelle regioni nel continente più cattolico del mondo.
Nei due secoli seguenti l’evangelizzazione si spinge sempre più nell’interno del continente. Due missionari si distinguono per zelo e santità: il gesuita trentino Francesco Chini (1645-1711) e il francescano spagnolo Junipero Serra. Il primo evangelizza l’Arizzona; il secondo dissemina la costa della Califoia di stazioni missionarie, destinate a diventare grandi metropoli. Entrambi sono onorati come «padri fondatori» degli Stati Uniti.

Il vangelo nelle Filippine

L e Filippine sono raggiunte solo nel 1564; il lavoro missionario si presenta meno difficile e dà subito risultati clamorosi. La nuova città di Manila già manifesta la sua vocazione di capitale cattolica del Pacifico. Nel 1579 è eretta in diocesi, nel 1595 in arcidiocesi con tre suffraganee; i cattolici filippini sono 670 mila. Nel 1611, a Manila, viene fondata l’università «San Tommaso». Nel 1620 i battezzati raggiungono i 2 milioni.
I missionari sono ormai in tutte le isole dell’arcipelago. Nel 1668 alcuni gesuiti fondano una missione nelle isole Marianne (Oceania) e quattro anni dopo padre Diego Luìs de Sanvitores finisce martire: sarà beatificato nel 1985. Altri 12 gesuiti lo seguono nel martirio. Soppressa la Compagnia (1773), subentrano agostiniani e francescani.

LA TRATTA DEGLI SCHIAVI

Che cos’è che ha spinto gli europei a trasformarsi in negrieri? La richiesta di manodopera dei paesi del Nuovo Mondo. Gli indios sono stati decimati e poi non sembrano fatti per i lavori pesanti. I negri invece sono buoni lavoratori.
Nel 1518, si stacca dalle coste del golfo di Guinea il primo carico umano diretto alle Antille. A partire da quell’anno, i viaggi si intensificano a ritmo accelerato. Un’altra «linea» viene aperta più a sud: congiunge l’Angola con il Brasile. Nel secolo XVII, dal solo regno del Congo, vengono deportati un milione di africani. Il monopolio della tratta in principio è in mano ai portoghesi. Ma la domanda è troppo superiore all’offerta e altri stati, Olanda, Spagna, Inghilterra, Danimarca, Francia, istituiscono i loro mercati. Le coste occidentali dell’Africa, dal Senegal all’Angola, sono disseminate di posti di raccolta, ciascuno con la sua bandiera, dove gli schiavi rastrellati nelle razzie vengono valutati, pagati e imbarcati. In cambio degli schiavi, i negrieri bianchi offrono agli schiavisti neri stoffe, utensili, ma soprattutto armi e polvere da sparo. Per fare più schiavi.
Le traversate transoceaniche sono spaventose. Una volta a bordo, gli schiavi vengono ammassati sotto i ponti, incatenati a coppie, caviglia a caviglia, polso a polso. Le donne, invece, sono sciolte, tenute in compartimenti separati. Febbre e dissenteria fanno stragi. I morti vengono gettati in mare.
Ritornando dalle Americhe le navi, con il loro carico di zucchero, cotone, caffè, tabacco e rum, dirigono le loro prue verso l’Europa, per puntare poi ancora sull’Africa, dove altri schiavi sono già in attesa.
Il delirante girotondo ultramarino rallenta solo ai primi dell’ottocento, dopo che il re di Danimarca, nel 1772, ha abolito per primo la tratta; seguono Inghilterra (1807), Spagna (1820), Stati Uniti (1865), Brasile (1888). Con l’accordo di Bruxelles (1890) tutta l’Europa dichiara la tratta degli schiavi illegale.
Ma il bilancio per l’Africa è disastroso: secondo cifre attendibili (e benevole), dai 20 ai 30 milioni di africani sono stati strappati alla loro terra; buona parte periscono nel viaggio di stenti e di crudeltà; gli altri sfruttati fino alla morte. Regni prosperi distrutti o trasformati loro malgrado in mercati di schiavi, pacifiche etnie ridotte in guerra tra di loro, e infine l’immensa diaspora negra, tuttora alienata ed emarginata, degli Stati Uniti, delle Antille e del Sudamerica.

HANNO COSTRUITO L’AMERICA LATINA

Bartolomé de las Casas (1484-1566). Arriva a Santo Domingo nel 1502. Colono, prete, domenicano, vescovo di Chiapas: 82 anni vissuti con passione, lotta con tutti i mezzi (predicazione, relazioni, dibattiti) per difendere la dignità degli indios.

Antonio de Valdivieso (+1550). Domenicano, consacrato vescovo di Nicaragua da Bartolomé de las Casas. Difende gli indios fino a pagare con la vita. È l’Oscar Romero del secolo XVI.

Pedro de Gand (1480-1572). Francescano laico belga, imparentato con Carlo V, arriva in Messico nel 1523; s’innamora degli indigeni e ne sfrutta le inclinazioni alla pittura, musica, danza, teatro per educare i bambini; una cinquantina li trasforma in predicatori e catechisti. Costruisce oltre 100 chiese.

Martín de Valencia (1475-1534). Capo gruppo dei «12 apostoli» francescani, è considerato uno dei padri della chiesa messicana. Muore consumato dal lavoro e dalle penitenze.

Toribio de Benavente (1495-1565). Il più popolare dei «12 apostoli» francescani arrivati in Messico nel 1524. Chiamato Motolinía (il povero), fedele allo spirito francescano, per 45 anni percorre Messico, Guatemala e Nicaragua, predicando, battezzando e prodigandosi per la promozione umana degli indigeni. Fonda la città di Puebla.

Juan de Zumárraga (1468-1548). Primo vescovo di Città del Messico, «difensore degli indios», organizza la chiesa messicana, porta in Messico artigiani e 6 donne per l’educazione delle bambine indiane; fa istallare la prima tipografia nel Nuovo Mondo. Riconosce le apparizioni di N. S. di Guadalupe (1531).

Vasco de Quiroga (1470-1565). Inviato in Messico come giudice (1531), si appassiona alla causa indigena; a 67 anni, ancora laico, è eletto vescovo di Mochoacán. Muore quasi centenario, venerato dagli indios come tatá (padre), è considerato un padre della fede della chiesa messicana.

Beardino de Sahagun (1500-1590). Francescano spagnolo, arriva in Messico nel 1529. Insegna per 40 anni in un collegio, alla formazione degli indigeni e del clero locale. Raccoglie tutto ciò che si riferisce alla vita degli antichi messicani prima dell’arrivo di Cortés. Precursore dell’etnologia.
Alfonso de Montenegro, domenicano, fonda la chiesa in Ecuador.

Pedro de la Peña (1522-1583). Domenicano, missionario in Messico nel 1550; vescovo di Quito (Ecuador) nel 1565. Difende i diritti degli indios, prepara candidati al sacerdozio, ordina preti meticci, obbliga gli encomenderos a rispettare i loro obblighi, comanda ai preti di insegnare agli indigeni agricoltura, allevamento, igiene e medicina. Si attira le ire delle autorità, ma diventa il «fondatore della vita rurale ecuadoriana».

Jeronimo de Loáyza (1498-1575). Domenicano, vescovo di Lima dal 1541, grande organizzatore pastorale, si distingue nella difesa degli indios e dei neri, che definisce «la maggior ricchezza del Perú».

S. Luis Bertrand. Domenicano, in soli 7 anni (1562-69) catechizza, battezza, erige chiese, difende gli indios e opera miracoli: è l’apostolo della Colombia. Schifato degli abusi dei dominatori, torna in Spagna.

Toribio de Mogrovejo (1538-1606). Evangelizzatore laico, a 42 anni è consacrato arcivescovo di Lima (Perù). Organizzatore di sinodi e concili, sempre in cammino per le visite pastorali, oppositore degli abusi di governatori e coloni, conoscitore delle lingue indigene è il più grande vescovo dell’America Latina. Canonizzato nel 1726.

Francesco Solano (1549-1610). Francescano, percorre Argentina, Uruguay e Paraguay, incantando gli indigeni col piffero, amore e santità. Canonizzato nel 1726.

Luis Bolaños (1549-1629). Grande missionario francescano, evangelizza i guaraní del Paraguay. Difensore degli indios, inventa le riducciones e scrive grammatiche e catechismi in guaraní.

Antonio Ruiz di Montoya (1585-1652). Gesuita, organizzatore delle reducciones del Paraguay.

Roque Gonzales (1576-1628). Gesuita paraguayano, appassionato dei guaraní e delle reducciones, è il primo martire nato in Sudamerica. A lui si ispira il film Mission. Beatificato nel 1988, assieme ai compagni martiri Alonso Rodrigues e Juan Castillo.

Pietro Claver (1580-1654). Gesuita catalano, missionario in Colombia, si fa «schiavo degli schiavi per sempre», risvegliandone la dignità. Li evangelizza con sussidi didattici creati da lui stesso, ne impara le lingue, crea numerosi interpreti e battezza oltre 300 mila africani che la crudeltà umana aveva gettato sulle spiagge americane. Impressionante per la sua eroica carità, è canonizzato nel 1888 e dichiarato patrono universale della missione tra i neri.

Eusebio Francesco Chini (1645-1711). Gesuita trentino, sbarca in Messico nel 1681. Studioso, esploratore e viaggiatore, percorre 40.000 km a piedi o a cavallo, alla scoperta della Califoia messicana e dell’Arizona, dove, per 30 anni, evangelizza gli indios di diverse etnie e fonda numerose missioni. Battezza oltre 100 mila indigeni. Una statua in bronzo nel Campidoglio di Washington lo ricorda come «padre e fondatore dell’Arizona», unico italiano tra i grandi degli Stati Uniti.

Junipero Serra (1713-1784). Francescano di Maiorca, approda in Messico nel 1749.
Camminatore infaticabile (20.000 km a piedi), dissemina la Califoia di una dozzina di fiorenti missioni, evangelizza gli indigeni e ne promuove lo sviluppo, introducendo agricoltura e allevamento.
Una statua nel Campidoglio di Washington lo ricorda come «padre degli indiani» e «fondatore della Califoia». Beatificato nel 1988.




Pellirosse e mandarini

Per liberare l’evangelizzazione dai laccioli del «patronato», il papato istituisce un dicastero speciale: la Congregazione «de propaganda fide».
Le nuove direttive e l’istituzione dei «vicariati
apostolici», dipendenti direttamente da Roma,
vengono attuate nelle nuove frontiere
aperte dalla colonizzazione
francese in Nord America
e nella regione indocinese,
mentre nelle colonie
portoghesi e spagnole
ci sono forti resistenze.
Ma ormai la nuova strategia
missionaria è avviata
e Propaganda fide riprenderà in mano
le redini dell’attività missionaria
in tutto il mondo.

Nasce Propaganda Fide

L’aveva suggerito Raimondo Lullo nel 1373; Ignazio di Loyola era ritornato alla carica, come pure eminenti personalità del tempo: la Santa Sede deve prendere in mano le redini dell’azione missionaria. Nel 1622 Gregorio XV istituisce finalmente la Congregazione de Propaganda Fide (dal 1968 «Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli»).
Con questo dicastero la chiesa assume in proprio e in esclusiva, per la prima volta nella storia, tutta l’opera di evangelizzazione. Non più patronati né deleghe a re o imperatori, non più interferenze di carattere politico. Nessun missionario può predicare il vangelo senza la missio o investitura, diretta o indiretta, di questa Congregazione.
Vengono emanate direttive precise: l’evangelizzazione deve essere apolitica e adattata al carattere dei popoli evangelizzati; sono proibiti metodi coercitivi; dare priorità assoluta alla formazione del clero locale. Per liberare l’attività missionaria dai patronati, si propone l’erezione dei vicariati apostolici, dipendenti direttamente da Roma.
Tali innovazioni non si attuano di punto in bianco. In alcuni territori, soprattutto portoghesi, il dualismo giurisdizionale di Roma e dei patronati durerà ancora a lungo (in Mozambico fino al 1975!) e sarà causa di tanti conflitti; ma ciò non impedisce all’evangelizzazione, dopo 150 anni di patronato, di rientrare a poco a poco sotto la guida della chiesa.
Come sostenere l’attività missionaria senza l’aiuto economico delle potenze coloniali? Dove pescare nuovi vescovi e vicari fuori di Spagna e Portogallo? Per Propaganda è un rompicapo. Al primo problema si comincia a rispondere con la vendita degli anelli cardinalizi, eredità, offerte di privati, elargizioni straordinarie di principi e pontefici. In seguito si farà appello alla responsabilità di tutto il popolo cristiano.
Nel 1627, cinque anni dopo la fondazione di Propaganda, Urbano VIII erige il collegio Urbano di Propaganda Fide con lo scopo di formare alunni «di qualsiasi popolo e nazione, da inviarsi, per mandato del sommo pontefice, in tutto il mondo a diffondere la chiesa cattolica». Tale Collegio (oggi Università) formerà nei secoli posteriori migliaia di missionari d’ogni lingua e colore, e sussiste tuttora sul Gianicolo.
Intanto la Francia, esclusa dalla spartizione del mondo, si sta lanciando nell’avventura coloniale e missionaria. È un’occasione per liberarsi dai patronati. Nel 1663 a Parigi viene fondato il seminario delle Missioni estere, con lo scopo di reclutare sacerdoti secolari e prepararli alla missione. Il papa vi attingerà a piene mani, pur continuando a servirsi dagli ordini religiosi.

Evangelizzazione del Nordamerica

«Il sole splende per me come per gli altri – protestava Francesco I, re di Francia, di fronte alla papale spartizione del globo tra Spagna e Portogallo -. Vorrei proprio vedere la clausola del testamento di Adamo che mi esclude dalla spartizione del mondo». Allo stesso modo la pensano i paesi protestanti di Inghilterra, Olanda, Svezia. Tutti vogliono il loro pezzo al sole.
Siccome l’America centro-meridionale è già in mano a spagnoli e portoghesi, i nuovi contendenti puntano più a nord: i francesi occupano il Canada; inglesi e olandesi si contendono le zone sottostanti. I primi hanno la meglio e fondano tredici colonie lungo la fascia atlantica. Gli olandesi hanno più fortuna in Estremo Oriente e Sudafrica.
Varietà di colonie, varietà di religioni. Nella Nuova Francia (che all’inizio comprende l’attuale Canada e vari territori ora sotto gli Stati Uniti) arrivano i missionari cattolici; con i coloni inglesi sbarcano i pastori protestanti: anglicani, luterani, calvinisti, quaccheri e via dicendo.
In ritardo di oltre un secolo rispetto a Spagna e Portogallo, intralciata da inglesi e olandesi, che vedono come fumo negli occhi la formazione di una colonia cattolica alle loro spalle, l’evangelizzazione in Canada sfocia in autentica crociata mistica a partire dal 1632. Nel giro di cinque anni arrivano 54 gesuiti, tre suore orsoline e tre ospedaliere, le prime nella storia delle missioni. Coniugando azione e contemplazione, le religiose curano gli infermi, istruiscono i fanciulli, raccolgono anziani e malati, tutti pesi morti della tribù durante il periodo della caccia. Numerosi volontari laici (medici, artigiani, gentiluomini e dame dell’aristocrazia) si lanciano a briglia sciolta nell’avventura missionaria.
I gesuiti seguono gli indiani nel loro nomadismo. Poi, lungo le rive del fiume San Lorenzo e dei Grandi Laghi, costruiscono comunità stabili, con chiese, scuole, campi e strutture varie. In pochi anni migliaia di famiglie di algonchini e uroni sono battezzate. In tempo di caccia i cristiani diventano apostoli presso i fratelli ancora nomadi; per questi i missionari organizzano missioni volanti.
Un lavoro esaltante, ma rischioso. Gli stregoni, sentendo minacciata la loro autorità, sobillano la gente contro i «veste-nera». Ma il pericolo più grave viene dagli irochesi: aizzati dagli inglesi, muovono guerra agli uroni, che nel giro di otto anni (1642-50) vengono sterminati insieme ai missionari: i martiri canadesi.
Ufficialmente sono 8 gesuiti: 6 padri e 2 fratelli laici, canonizzati nel 1930. Numero simbolico, rispetto ai tanti missionari e fedeli, europei e indiani, che, con fede eroica, hanno scritto in pochi anni una delle pagine più gloriose della storia della chiesa. Immensità del territorio e rigori del clima, ferocia e lotte tribali, conflitti politici e religiosi, solitudine nei deserti di ghiaccio, martirio fisico e spirituale… costituiscono un’epopea indimenticabile.
Ma il sangue dei martiri non cade invano. Dieci anni dopo comincia un’altra crociata missionaria: gesuiti, sulpiciani, cappuccini fondano missioni tra gli irochesi. Cristiani algonchini, uroni e irochesi cominciano a vivere insieme nei villaggi, coltivando i campi comunitari. E fiorisce il «giglio degli irochesi»: Caterina Tekakwitha, prima tra tutti gli indigeni dell’America a salire agli onori degli altari (1980).
Intanto la storia continua. Nel 1658 Québec diventa vicariato apostolico (il primo istituito da Propaganda Fide) affidato al vescovo François de Laval.
Nel 1763 le colonie francesi passano sotto la corona britannica. I cattolici vengono discriminati. Ma nel 1777 nella regione del Québec vengono ristabilite le leggi francesi e garantita piena libertà religiosa.
Con l’indipendenza degli Stati Uniti (1776), la situazione dei cattolici migliora in tutto il Nord America. Cessa a poco a poco l’ostilità riservata ai cattolici durante il periodo coloniale. Con le nuove immigrazioni cresce il loro numero e anche la loro presenza nei quadri direttivi del paese. Nel 1789 con la creazione della diocesi di Baltimora, la prima negli Usa, i cattolici sono poco più di 20 mila, su 5 milioni di americani; ma nei secoli successivi la chiesa cattolica assumerà proporzioni tali, che finirà per diventare la comunità religiosa più consistente del paese.
Nello stesso tempo due grossi problemi affliggono l’America del Nord: i massacri di indiani perpetrati dai coloni, lanciati alla conquista dei territori dell’est; la deplorevole condizione degli schiavi negri, che superano ormai il milione. Sono problemi che l’evangelizzazione affronta solo marginalmente per l’impossibilità di inviare missionari e per l’intransigenza degli stessi coloni, troppo convinti che indiani e negri siano esseri inferiori.

Altre frontiere missionarie

N el 1658, insieme a quello di Québec, Propaganda Fide istituisce altri due vicariati: Tonchino e Cocincina (Vietnam). In queste regioni dell’Indocina avevano lavorato alcuni gesuiti, ma con scarsi risultati. L’evangelizzazione sistematica comincia nel 1624, per opera del gesuita francese Alexandre de Rhodes, e continua, con una presenza a singhiozzo fino al 1645; ma lascia il segno. Egli diffonde la scrittura vietnamita; distanzia il cristianesimo dalla politica portoghese; redige un catechismo in lingua locale e fonda una congregazione di catechisti. Questi esercitano tutte le funzioni che non richiedono il sacerdozio, fanno voto di castità e vivono in comunità con i missionari; in tempo di persecuzione mantengono viva la chiesa. Il sogno della formazione del clero indigeno rimane nel cassetto.
Tornato in Europa per evitare la condanna a morte, de Rhodes accelera la fondazione del seminario delle Missioni estere di Parigi e preme su Propaganda perché istituisca la gerarchia in Vietnam: François Pallu e Pierre Lambert de la Motte vengono nominati rispettivamente vicari del Tonchino e della Cocincina.
Attraversando l’Asia via terra, per consegnare ai vescovi, di nascosto dalle autorità coloniali, le «Istruzioni» di Propaganda Fide, mons. Pallu arriva in Indocina. E poiché nel Tonchino infuria la persecuzione, si stabilisce nel Siam (Thailandia), dove si adopera per la formazione del clero indigeno.
La Motte è più fortunato: riesce a soggioare per qualche tempo nel Vietnam; celebra il primo sinodo del Tonchino e Cocincina; istituisce la «Casa di Dio» per raccogliere missionari, seminaristi e catechisti; ordina i primi preti vietnamiti, crea una congregazione religiosa femminile, fonda il seminario per tutto l’Estremo Oriente.
L’evangelizzazione dell’Indocina continua, tra persecuzioni a momenti di bonaccia. Le cristianità sono esigue, complessivamente 400 mila cattolici, ma ben stabilite e in grado di svilupparsi con le proprie forze.
In Corea, caso più unico che raro nella storia della chiesa, il vangelo arriva prima dei missionari: alcuni membri dell’ambasciata che ogni anno si recano a Pechino a rendere omaggio all’imperatore (la Corea è paese vassallo della Cina) avvicinano i gesuiti, si foiscono di libri cristiani e li diffondono tra gli amici.
Nel 1784 si reca a Pechino un letterato di nome Ni-Seung-houn, che riceve il battesimo con il nome di Pietro Ly. Ritornato in patria battezza altri compagni e con essi continua a diffondere il cristianesimo.
Dieci anni dopo, il sacerdote cinese Giacomo Tiyon, inviato in Corea dal vescovo di Pechino, vi trova una comunità di quattromila cristiani. Arrivano le persecuzioni, ma il cristianesimo coreano non sarà più sradicato.
Il Tibet, invece, è un osso duro. Nel 1630 il gesuita portoghese Antonio De Andrade vi apre una missione, ma è subito distrutta. Ritentano inutilmente altri gesuiti. Più fortunato è il gesuita pistorniese Ippolito Desideri: riesce a stabilirsi a Lhasa, la capitale tibetana, e per cinque anni studia, commenta e traduce i testi sacri del lamaismo.
Nel 1703 Propaganda affida la missione del Tibet ai cappuccini italiani. Sotto la direzione del marchigiano Francesco Orazio da Pennabilli, essi riescono a costruire una chiesa e un convento nella capitale, ma le conversioni sono scarse. Nel 1742 una persecuzione orchestrata dai lama costringe i cappuccini a lasciare il Tibet.
Ci provano ancora i lazzaristi francesi e, a più riprese, i preti della Missione di Parigi, convertendo parecchi tibetani presenti nei territori cinesi; ma anche questi sono raggiunti dall’odio dei lama: i cristiani sono massacrati nel 1905. I preti delle Missioni lasciano sul campo otto martiri, l’ultimo è ucciso nel 1940.

La disputa dei riti

Propaganda Fide è appena nata e si trova tra le mani una delle patate più bollenti nella storia della chiesa: la «questione dei riti cinesi e malabarici». Dopo le dispute trinitarie e cristologiche dei primi secoli, non si è mai visto diatriba più accanita, meschina e devastante per l’evangelizzazione.
Ricci, De Nobili e altri gesuiti riscuotono buoni successi adattando al cristianesimo quegli elementi religiosi e culturali delle popolazioni locali che meglio si prestano per esprimere il messaggio evangelico. Sono tre i punti su cui ruota tale adattamento: 1) la «terminologia» religiosa locale è usata per invocare e parlare di Dio; 2) nella liturgia sono assunti riti secondari tradizionali e omessi certi gesti nell’amministrazione dei sacramenti, come l’uso della saliva nel battesimo; 3) tolleranza di usanze sociali tradizionali, come il culto degli antenati in Cina e certi riti matrimoniali e di fecondità in India. Finché i gesuiti ne discutono tra loro, va tutto liscio. Ma nel 1631-33 arrivano in Cina un domenicano e un francescano spagnoli: partecipando a una cerimonia civile, restano scandalizzati nel vedere che anche i cristiani, con l’accondiscendenza dei gesuiti, compiono riti in onore di Confucio e degli antenati. I due frati avvertono i rispettivi superiori; questi si appellano a Roma e la questione diventa una disputa teologica europea.
Il domenicano Morales pone a Propaganda Fide una domanda a brucia pelo: possono i cristiani onorare gli idoli (intendendo Confucio e antenati)? Evidentemente la risposta è negativa (1645). I riti sono condannati.
Dieci anni dopo i gesuiti domandano: si possono rendere a Confucio onori puramente civili? La risposta è affermativa. I riti cinesi sono riammessi.
Ma la questione non si placa. Gli schieramenti pro e contro i riti cinesi e malabarici spaccano i missionari d’Oriente: domenicani e francescani contro i gesuiti; gesuiti contro gesuiti. Dispute furiose si scatenano anche in Europa, coinvolgendo le Missioni estere di Parigi, vescovi e curialisti, teologi e moralisti, politici e scrittori (Pascal). Quasi tutti contro i gesuiti.
Tra studi e reazioni, condanne e concessioni, accettazioni e rifiuti, interventi canonici e diplomatici, la confusione si protrae fino al 1744, con la condanna senza appello dei riti cinesi e malabarici. Solo nel 1939 Roma cancellerà quelle posizioni intransigenti. Ma ormai il guaio è fatto: la mentalità estremorientale non farà più differenza tra cristianesimo e potenze coloniali; la missione continua vivacchiando.

La missione segna il passo

Lo chiamano il «secolo dei lumi». Per la chiesa e l’evangelizzazione, il 1700 è un secolo disgraziato. Lo scontro tra l’assolutismo di stato e la chiesa si fa ogni anno più aspro. Il conflitto tra patronati e Propaganda Fide incancrenisce. Nuovi sistemi di pensiero minacciano di spazzar via il cristianesimo in blocco. Le vocazioni entrano in crisi. L’anticlericalismo si abbatte su chiesa, papato, ordini religiosi.
Vittime illustri del secolo dei lumi sono i gesuiti. Già bersagliati all’interno della chiesa per la «questione dei riti», incappano nelle ire dell’intellighenzia europea, che vede in essi il più forte baluardo del papato e dell’ortodossia. Uno dopo l’altro i paesi cattolici li cacciano, ne confiscano i beni e ne chiedono al papa la soppressione. Nella speranza di avere un po’ di tregua, nel 1773 Clemente XIV sopprime la Compagnia in tutta la chiesa: 30 mila missionari devono lasciare le loro opere e non sono rimpiazzati. A corto di personale, Propaganda è impotente a tamponare tale emorragia. Con la rivoluzione francese e l’impero napoleonico, Propaganda viene soppressa, insieme alle istituzioni che le foiscono missionari.
In Cina, dove 3 diocesi e 3 vicariati coprono un territorio immenso, il personale missionario è dimezzato. All’inizio del ’700 i cristiani sono circa 300 mila; alla fine del secolo scendono a 200 mila e cercano di sopravvivere con le proprie forze.
In India, ai francescani, domenicani, agostiniani, gesuiti, si aggiungono carmelitani spagnoli, cappuccini francesi e teatini italiani. Alle numerose diocesi del patronato portoghese, si affiancano i quattro vicariati istituiti da Propaganda. Nei primi 50 anni del 1700 i cattolici indiani passano da 800 mila a un milione. Ma nella seconda metà del secolo l’evangelizzazione avanza a passo di lumaca. Alla controversia dei riti malabarici e alla cacciata dei gesuiti, si aggiunge il crollo del patronato portoghese sotto i cannoni degli olandesi, francesi e inglesi. Nel 1763 l’India passa nelle mani della Compagnia inglese delle Indie Orientali. E comincia la concorrenza delle missioni protestanti.
In America, le missioni dei territori soggetti a Spagna e Portogallo sono ormai quasi tutte assorbite da un regolare ordinamento territoriale, articolate in arcidiocesi e diocesi. Ma con l’espulsione dei gesuiti le «riduzioni» cadono in rovina. Quello splendido processo di salvaguardia fisica e culturale delle popolazioni e di graduale integrazione nella nuova società viene bloccato e si ripropone daccapo il problema indigenista, ancora attuale ai giorni nostri.

EPOPEA CANADESE

I Martiri canadesi (1642-49). Sono otto gesuiti: sei padri e due fratelli. Renato Goupil: dottore, cura i suoi carnefici prima di spirare. È il primo martire, spirato per le torture subite (1642). Isacco Jogues: catturato e torturato insieme a Goupil, se la cava con le dita mozze e un anno di schiavitù. Ritorna a convertire gli uroni, suoi carnefici e viene ucciso con un colpo d’ascia (1646). Giovanni La Lande: fratello coadiutore, muore insieme a padre Jogues. Antonio Daniel: bersaglio di frecce e di archibugi, viene gettato nella chiesa in fiamme (1648). Giovanni de Brébeuf: in Canada dal 1625, è l’animatore della missione gesuita in Canada. Evangelizza algonchini e uroni: è bruciato vivo nel 1649. Gabriele Lalemand: muore insieme a Brébeuf, con le mani mozze. Carlo Gaier: colpito da archibugio, è finito a colpi d’ascia (fine 1649). Natale Chabanel: ucciso da un urone rinnegato e gettato nel fiume (1649).

Maria dell’Incaazione (1599-1672). Sposa, madre, vedova, a 31 anni diventa monaca orsolina. Prima missionaria nella storia della chiesa dell’era modea, approda a Québec nel 1639. Maestra e mistica, è definita «Teresa del Nuovo Mondo»; educatrice di generazioni di giovani indiane ed europee, è venerata come: «Madre della chiesa canadese».
Beatificata nel 1980, insieme a Caterina Tekakwitha.

MISSIONARI DI PROPAGANDA FIDE

Alexandre de Rhodes (1591-1660). Gesuita francese, missionario in India, Molucche e Macao: fluente in 12 lingue. Fonda la chiesa nel Tonchino e Cocincina (Vietnam), adattando il vangelo alla cultura locale e preparando ministri locali. Più volte cacciato, altrettante volte vi ritorna, finché è preso, condannato a morte ed espulso. Nel 1655 è in Persia, dove morirà.

François Pallu (1626-1684). Confondatore della Società per le Missioni Estere di Parigi. Vicario apostolico del Tonchino e amministratore in Cina, si stabilisce nel Siam, ma l’opposizione portoghese e la necessità di visitare i territori a lui affidati lo costringono a girare mezzo mondo, senza mettere piede nel Tonchino. Fonda un seminario per il clero locale. Muore in Cina.

Pierre Lambert de la Motte (1624-1679). Confondatore delle Missioni Estere, vicario apostolico della Cocincina e amministratore del Siam: perseguitato dall’inquisizione portoghese, difende i diritti di Propaganda Fide; fonda un seminario per il clero locale e una congregazione religiosa per donne indocinesi.

Ippolito Desideri (Pistornia 1684 – Roma 1733). Gesuita, esploratore e missionario in Tibet nel 1716. Stimato da re e Dalai-Lama, predica il vangelo, scrive vari volumi su lingua, cultura e religione tibetana e compone opere apologetiche accolte con favore. Nel 1721 passa in India, quando Propaganda Fide assegna il Tibet ai cappuccini.

Francesco Orazio da Pennabilli (1680-1745). Il più illustre missionario cappuccino in Tibet (1716-45), guida due spedizioni missionarie nel paese. Propaganda Fide lo nomina prefetto della missione di Lhasa. Lavora fino allo spasimo nella predicazione, compilazione di dizionari italiano-tibetano, italiano-hindi, opere etnografiche e traduzioni di libri biblici e di catechesi.




Tutti in gara nel mondo

Bloccata dalla rivoluzione francese,
l’evangelizzazione riprende con slancio mai visto prima.
È arrivato finalmente il tempo di evangelizzare l’Africa,
l’Australia e i più sperduti arcipelaghi dell’Oceano Pacifico.
Tutta la chiesa è mobilitata, papi e vescovi,
religiosi di antica e nuova istituzione, preti e laici.
I laici, soprattutto, uomini e donne senza frontiere,
costituiscono la grande novità della missione.
Un’altra sorpresa: i popoli evangelizzati
cominciano a diventare evangelizzatori.

Cattolica, cioè universale

Mentre i vescovi francesi si piangono addosso, recriminando sui 25 anni di rivoluzione e d’impero, e parlano di «missione intea», i semplici fedeli sono pervasi da un contagioso slancio missionario. Ogni sera migliaia di famiglie si raccolgono attorno al fuoco per leggere le Lettere edificanti e curiose di Chateaubriand: un libro di racconti missionari ristampato per tre volte tra il 1803 e il 1824. Altrettanto successo riscuotono le Nuove letture edificanti delle missioni della Cina e delle Indie, pubblicate dalle Missioni estere di Parigi.
Simbolo di tale fervore missionario è una ventenne lionese, Paolina Jaricot, che spende la sua vita per raccogliere preghiere e aiuti finanziari per i missionari, dando vita a un’associazione che nel 1822 si chiamerà «Opera della propagazione della fede». Le pubblicazioni di tale associazione si diffondono in tutta la Francia e dilagano in Svizzera, Italia, Germania, Inghilterra. Altri organismi del genere sorgono con lo scopo di coinvolgere nell’evangelizzazione tutto il popolo cristiano: l’Opera di Pietro Apostolo (1889) raccoglie fondi per sostenere e formare il clero indigeno; l’Opera dell’infanzia missionaria è aperta a tutti i fanciulli cristiani, perché siano educati allo spirito missionario e alla solidarietà mondiale.
A tale zelo di retroguardia, si accompagna lo slancio di coloro che vogliono operare in prima fila. Dall’inizio del secolo XIX ai nostri giorni sono nate in tutto il mondo cattolico centinaia di famiglie religiose, maschili e femminili, esclusivamente orientate all’azione missionaria; mentre altrettante sono le congregazioni che, nate per rispondere ai problemi locali, aprono le porte verso i territori ancora in attesa dell’annuncio del vangelo. Nel XX secolo si moltiplicano le associazioni laicali e di volontariato, che si affiancano al lavoro missionario con opere di testimonianza cristiana e opere di solidarietà e promozione umana.
La rinascita della missione è ispirata e sostenuta dai grandi papi che si sono succeduti negli ultimi due secoli, a cominciare da Pio VII, che risuscita la Compagnia di Gesù (1814) e riorganizza Propaganda Fide (1817). Ma è con Gregorio XVI, il primo «papa missionario» che avviene il rilancio dell’evangelizzazione. Già prefetto di Propaganda quando era cardinale, il papa promuove un’evangelizzazione a tutto campo, con invio di missionari in tutti i continenti, moltiplicando vicariati e diocesi, istituendo i primi seminari per la formazione di sacerdoti indigeni.
I successori continuano sulla sua scia. Leone XIII scrive sei lettere missionarie. Le direttive papali più conosciute sulla missione sono le encicliche papali del XX secolo. Benedetto XV, nella Maximum illud (1919), presenta la missione come primo dovere della chiesa, ne rifiuta l’europeizzazione e ne reclama l’indipendenza. Nel 1926 Pio XI va ben oltre il suo predecessore, sia con la Rerum Ecclesiae, sia con l’ordinazione dei primi 6 vescovi cinesi, a cui seguiranno quelli giapponesi, indocinesi, africani. È un evento di portata storica, che segna l’avvento ufficiale degli «indigeni» alla guida delle chiese locali, la promozione civile dei popoli «di colore» e l’avvio spontaneo e giornioso della decolonizzazione, che decenni dopo le grandi potenze dovranno accettare per forza, costrette da guerre e rivolte.
L’enciclica Fidei donum (1957) di Pio XII ricorda ai vescovi del mondo che essi sono tutti responsabili dell’evangelizzazione e li invita a rispondere a tale responsabilità inviando i loro preti alle chiese più bisognose. Nasce un nuovo tipo di missionario: il sacerdote diocesano «Fidei donum» a servizio temporaneo e specifico delle missioni. Il concetto di missione si arricchisce di una nuova dimensione, diventando anche collaborazione e servizio reciproco tra chiese sorelle.
Il Concilio Vaticano II sancisce la nuova coscienza missionaria maturata nell’ultimo secolo: cioè l’evangelizzazione è un dovere di tutti i cristiani e di tutte le istituzioni ecclesiali. Le encicliche Evangelii nuntiandi (1975) di Paolo VI e la Redemptoris missio di Giovanni Paolo II sviluppano le idee del Concilio e legano definitivamente l’evangelizzazione alla promozione umana, dello sviluppo, della giustizia e della pace.

L’Africa diventa cristiana

Un giorno del 1800, Anna Maria Javouhey vede la sua camera affollarsi di faccette nere imploranti aiuto. La visione non si cancellerà mai più dalla memoria. Fonda le suore di San Giuseppe di Cluny; nel 1817 ne manda alcune in Senegal; poi essa stessa le raggiunge: con sorpresa, riconosce per le strade di Saint Luis le stesse facce sognate 22 anni prima.
Così ricomincia la storia dell’evangelizzazione in Africa. Madre Javouhey lotta con coraggio contro i bianchi che calpestano i diritti degli africani. «I neri – scrive – sono buoni, semplici e non hanno altra malizia se non quella imparata dai bianchi». Fonda scuole in Senegal e Guinea e si adopera per la formazione del clero indigeno. Nel 1840 ha la gioia di assistere all’ordinazione di tre preti senegalesi.
Nella stessa direzione si muove Francesco Libermann, anche se non metterà mai piede nelle missioni. Nel 1841 due creoli di Réunion gli parlano della triste situazione degli schiavi neri: rimane così sconvolto che mette subito mano alla fondazione della congregazione del Cuore Immacolato di Maria (confluita nel 1848 nella Società dello Spirito Santo) e comincia a inviare missionari a evangelizzare Guinea, Liberia, Sierra Leone e Gabon, combattere la schiavitù e formare il clero locale.
Le prime spedizioni sono un disastro: i missionari cadono come mosche, falciati da malaria e febbre gialla. «Non voglio mandare i miei figli al macello – si tortura padre Libermann -. Ma non posso abbandonare milioni di africani che non hanno mai sentito la buona notizia del Signore». Anche i missionari della Società delle Missioni Africane di Lione (Sma), guidati dallo stesso fondatore, mons. Marion de Brésillac, vicario apostolico della Sierra Leone, sono stroncati tutti dalla micidiale febbre gialla (1859).
Ma l’epopea missionaria continua, si estende alle isole dell’Oceano Indiano, si attesta lungo le coste orientali africane e penetra gradualmente nel cuore del continente. Un centinaio di missionari perdono la vita nel vicariato nell’Africa Centrale (dall’Egitto ai Grandi Laghi), finché Daniele Comboni progetta di «salvare l’Africa con gli africani», riavvia la missione nel Sudan (1872) e ne diventa il primo vescovo. Liberati schiavi e schiave, li coinvolge nel lavoro missionario; alcuni di essi diventano sacerdoti e religiosi.
Una ex schiava sudanese, Giuseppina Bakhita, diventerà religiosa e sarà beatificata nel 1992.
L’evangelizzazione di questa regione è segnata da persecuzione e martirio. Tra il 1882 e il 1889, nella bufera scatenata dal movimento messianico islamico del mahdismo, missionari e missionarie sono ridotti in schiavitù; molti catechisti e sacerdoti africani sono martirizzati. Ma l’opera missionaria continua; dal Sudan si estende all’Uganda.
Grande stratega dell’evangelizzazione è pure il cardinale Lavigerie, fondatore dei missionari per l’Africa (padri e suore bianche). Anche lui vuole «salvare l’Africa con gli africani». Invia i suoi missionari su due fronti; l’uno parte da Algeri, attraversa il deserto e penetra nelle regioni subsahariane. Dopo due spedizioni massacrate dai tuareg, i padri bianchi si attestano a Bamako e Tumbuctù (Mali).
L’altro fronte, nel 1878, da Bagamoyo (Tanzania) si dirige nella regione dei Grandi Laghi. Un gruppo di padri penetra nell’Alto Congo; un altro evangelizza il regno dei Baganda, nell’Uganda meridionale: nasce la chiesa ugandese in un battesimo di sangue: negli anni 1885-87 vengono uccisi oltre 80 cristiani; 22 di essi, arsi vivi insieme a un gruppo di fratelli protestanti, saranno canonizzati nel 1964. Sono i primi martiri della chiesa africana dei tempi modei.
Nel 1839 il lazzarista Agostino de Jacobis entra clandestinamente in Etiopia; tra infinite persecuzioni da parte del clero copto pone le basi della chiesa cattolica in Abissinia. Nel 1846 un altro grande missionario, il cappuccino Guglielmo Massaia evangelizza i galla, nel sud del paese. La loro opera sarà continuata dai lazzaristi e cappuccini francesi, ai quali si uniranno i missionari della Consolata.
Nel 1850, sfidando l’opposizione calvinista, gli Oblati di Maria Immacolata iniziano l’evangelizzazione degli zulu e sotho del Sudafrica. Nel 1880 arrivano i missionari di Mariannhill. Nello stesso anno la prima missione dei verbiti tedeschi in Namibia è distrutta dai protestanti.
Nel 1879 Propaganda affida ai gesuiti la missione nella regione della Zambesia. Negli anni seguenti i padri bianchi creano la missione del lago Niassa; una parte del vicariato sarà affidato ai monfortani.
Nel 1887 i padri belgi di Scheut gettano le basi cristiane nel Congo, sacrificando il 30% dei missionari.
Nel 1890 mons. Le Roy, della congregazione dello Spirito Santo, celebra la prima messa alle pendici del Kilimangiaro, a 3.600 metri di altitudine. È il primo annuncio del vangelo in Kenya. Dodici anni dopo arrivano i missionari della Consolata, seguiti dai padri di Mill Hill.
Siamo ormai in piena colonizzazione dell’Africa, sanzionata dalla Conferenza di Berlino (1885). L’evangelizzazione è in qualche modo condizionata dalla politica delle potenze coloniali; al tempo stesso ne è favorita, come in una specie di pax romana, che consente di estendere l’evangelizzazione a tutta l’Africa. Nel 1920 vi lavorano 31 istituti religiosi maschili, 14 dei quali nuovi di zecca, 24 istituti femminili e quasi 10 mila catechisti locali.
Salvo il periodo della seconda guerra mondiale, l’evangelizzazione continua la sua accelerazione per tutto il secolo XX. Nascono le chiese locali con vescovi e clero indigeno; inizia quel processo di inculturazione che deve sviluppare una chiesa cristiana e africana al tempo stesso. Soprattutto gli africani cominciano a diventare missionari di se stessi.

Asia: continente di martiri

A lll’inizio del XIX secolo la chiesa cinese vive ancora in clandestinità; le persecuzioni fanno molti martiri: nel 1815 mons. Dufresse, vicario apostolico di Seciun, è decapitato, 4 preti cinesi strangolati, due muoiono in prigione; nell’Honan i padri Clet e Giovanni di Triora subiscono la stessa sorte (1820); nel 1840 padre Gabriele Perboyre muore crocifisso e strangolato.
Ritorna un po’ di pace quando le potenze europee costringono gli imperatori della Cina a firmare trattati e convenzioni diplomatiche. In pochi anni da tutta l’Europa arrivano centinaia di missionari, che fanno a gara nel costruire ospedali, scuole, seminari e università. Ma le persecuzioni non si placano. Altri missionari sono vittime di guerre civili e rigurgiti xenofobi: i padri Chapdelaine (1856) e Néel (1862) sono massacrati insieme a molti cristiani. Nel 1900 la società segreta dei boxers fa strage di circa 300 mila stranieri, tra i quali una cinquantina di missionari, e di 30 mila cristiani, un centinaio dei quali preti e religiose: 86 di essi (66 cinesi e 20 missionari stranieri) saranno beatificati tra il 1946 e il 1955.
Le persecuzioni aprono gli occhi ai missionari: non si può predicare il vangelo all’ombra delle bandiere europee; bisogna «farsi cinesi coi cinesi». E fanno pressione su Roma, perché riveda le sue posizioni: 6 diocesi e vicariati sono affidate ai cinesi (1926); si ridiscute la questione dei riti e la proibizione viene revocata (1939). «Decolonizzazione» della chiesa e sangue dei martiri fanno esplodere l’evangelizzazione: i 720 mila fedeli del 1900 diventano un milione e mezzo nel 1912, due e mezzo nel 1930, quattro nel 1949; così pure i preti: in mezzo secolo passano da 1.375 (400 cinesi) a 5.725, oltre la metà dei quali sono cinesi.
Negli ultimi 50 anni la chiesa è ridotta di nuovo al silenzio dal regime comunista; entra in clandestinità e continua a scrivere la storia dell’evangelizzazione con lacrime e sangue: oggi la popolazione cattolica è più che triplicata (circa 10 milioni); i seminari ufficiali e clandestini sono pieni di persone che vogliono consacrarsi a Dio e alla missione.

Anche in Vietnam la missione si sposa col martirio. Fino al 1800, oltre 30 mila cristiani hanno perso la vita a causa della fede. Il nuovo secolo si apre con i migliori auspici, nonostante la penuria di missionari. Ma a partire dal 1833 esplode un’altra persecuzione: le chiese vengono distrutte; vescovi e missionari sbattuti in prigione, dove alcuni vi muoiono di stenti, altri ne escono per essere decapitati o strangolati. I cristiani sono obbligati a calpestare il crocifisso: le loro teste cadono a decine di migliaia.
Un altro periodo di tolleranza. Ma nel 1857 il massacro riprende più violento e continua per una trentina d’anni: 115 preti e 100 mila cristiani vietnamiti muoiono per la fede. Di queste schiere di martiri, 117 vengono canonizzati nel 1988.
In mezzo secolo di pax gallica (il Vietnam diventa protettorato francese) l’evangelizzazione riprende col solito slancio. Dopo la prima guerra mondiale arrivano numerosi missionari e missionarie di paesi e congregazioni differenti; si moltiplicano le opere di carità e promozione umana; fioriscono le congregazioni religiose locali, comprese quelle di vita contemplativa; la chiesa è vietnamizzata.
Ma una serie di guerre coloniali, sfociate nell’occupazione comunista su tutto il paese, frenano nuovamente l’espansione missionaria. Eppure il numero dei candidati al sacerdozio è migliaia di volte superiore a quello ammesso dal governo nei seminari autorizzati. Invece di essere un ostacolo, la persecuzione sta divenendo un’occasione per far scoprire ai giovani nuove forme (laicali) di consacrazione, più facili a sfuggire il controllo governativo e più incisive e capillari per la testimonianza e l’evangelizzazione del paese.

Negli ultimi due secoli l’evangelizzazione ha raggiunto tutte le nazioni asiatiche. I cattolici in Asia aumentano del 4,5% l’anno, superando i 101 milioni. Su 3,4 miliardi di asiatici essi sono una minoranza, ma viva e dinamica.
Tirando le somme della storia, si può affermare che la chiesa in Asia è quella che ha dato più martiri in assoluto: oltre 300 mila in Vietnam nel secolo XIX; almeno 30 mila in Cina, durante la rivoluzione dei boxers (1900) e un numero incalcolabile nei 50 anni di dittatura comunista; decine di migliaia in Corea tra il 1801-83; aggiungendo le schiere di martiri sotto la persecuzione islamica di tartari e turchi e quelli del Giappone, l’esercito supera il milione.
Il numero dei martiri continua a crescere ogni anno in varie parti dell’Asia: Filippine, Timor Est, Indonesia, India per citare gli esempi più clamorosi, dove i cristiani sono perseguitati e uccisi per la loro fedeltà ai valori del vangelo.

Il vangelo in Australia e Oceania

N el XIX secolo viene aperto un campo nuovo per l’evangelizzazione: il continente australiano e quel pulviscolo di isole chiamato Oceania, che si estende per decine di migliaia di chilometri nell’immenso Oceano Pacifico. Favoriti dalla supremazia marittima inglese, i protestanti vi lavorano da alcuni decenni, quando arrivano i primi missionari cattolici; ma recuperano subito il tempo perduto con profusione di sudore, lacrime e sangue.
Tra difficoltà enormi, dovute alle distanze incolmabili, isolamento, mancanza di comunicazione, clima malarico, ostilità degli indigeni, lingue e culture diversissime, concorrenza protestante e ostacoli frapposti dalle varie autorità coloniali, i missionari scrivono pagine d’oro nella storia dell’evangelizzazione. Nell’impossibilità di leggerle tutte, ne sfogliamo alcune tra le più esaltanti.

Appena diventata possedimento inglese (1787), l’Australia è usata come colonia penitenziale per condannati politici, un terzo dei quali sono cattolici. Tra i confinati, un giorno arrivano tre preti irlandesi. Uno di essi, James Dixon, ottiene di fare il cappellano del penitenziario: il 5 maggio 1803 viene celebrata la prima messa con un calice di stagno. Rimpatriati i tre irlandesi, per 30 anni il continente rimane riserva di caccia degli anglicani, interdetto ai preti «papisti».
Nel 1819 Roma invia il cistercense Geremia O’Flynn come prefetto apostolico dell’Australia e Tasmania. Dopo poco tempo di lavoro clandestino, il missionario è scoperto, inteato e rispedito al mittente. La notizia fa scandalo. Il parlamento londinese consente che due preti si prendano cura dei cattolici dell’isola. Nel 1829 viene proclamata la libertà religiosa. Ma solo nel 1834, il benedettino inglese mons. Béde Polding può stabilirsi nel vicariato; otto anni dopo diventerà arcivescovo di Sydney.
In coincidenza con un forte flusso migratorio, attirato dalla scoperta delle miniere d’oro, arrivano maristi e benedettini francesi. La popolazione cattolica si fa sempre più consistente. In 30 anni vengono create una decina di diocesi. Nasce una chiesa con caratteri europei. Parecchi missionari cercano di evangelizzare gli aborigeni; ma, per oltre un secolo, i risultati non sono entusiasmanti.

Più incoraggiante, ma non meno difficile, si presenta l’evangelizzazione degli indigeni sparpagliati negli innumerevoli arcipelaghi dell’Oceano Pacifico. Nel 1827 i missionari di Picpus arrivano nelle Hawaii, l’arcipelago settentrionale della Polinesia. Dopo quattro anni di concorrenza con i fratelli protestanti, sono presi e sbarcati sulla costa della Califoia con due bottiglie d’acqua. Toano nel 1837. Dalla Francia partono nuovi rinforzi, ma la nave è inghiottita dall’oceano insieme a 7 preti, 7 fratelli, 10 suore e lo stesso vicario apostolico.
Arrivano altre congregazioni religiose e l’evangelizzazione procede più speditamente. Il più famoso dei missionari di Picpus è padre Damiano, l’apostolo dei lebbrosi dell’isola di Molokai.
Un secondo fronte dei padri di Picpus è aperto nella Polinesia meridionale. Nel 1833 si stabiliscono nelle isole Gambier, abitate da cannibali, terrore dei naviganti. I missionari vi ottengono grandi successi: nel 1835 si contano già 4 mila battezzati. Nelle isole Marchesi, invece, la lotta contro cannibalismo, idolatria e poligamia dura oltre un secolo: nel 1950 tutta la popolazione dell’arcipelago è cattolica.
Non meno faticosa è l’evangelizzazione di Tahiti, l’isola più importante dell’arcipelago polinesiano: più volte cacciati dagli intrallazzi tra protestanti e autorità francesi, i missionari di Picpus riescono a spuntarla ed estendono gradualmente l’evangelizzazione alle isole circostanti.

Nel 1838 i maristi arrivano nella Polinesia. Li guida mons. Pompallier, che si stabilisce nella Nuova Zelanda. La comunità cattolica è costituita da coloni irlandesi; ma è subito avviata l’evangelizzazione dei maori. Intanto padre Battaion converte tutta l’isola di Wallis e Francesca Perron, laica missionaria, getta le basi di una congregazione femminile locale. Pietro Chanel lavora per tre anni nell’isola Futuna, finché viene martirizzato (1841). Due anni dopo tutti gli isolani diventano cristiani.
Nel 1842 i maristi raggiungono le isole della Tonga; l’anno seguente la Nuova Caledonia, dove fratel Biagio Marmoiton viene massacrato; un anno dopo le Figi; nel 1845 Samoa. Per 40 anni i pionieri subiscono un martirio incruento: navigano senza posa da un’isola all’altra, piantando croci e nulla più. Nel 1902 nell’arcipelago ci sono solo 3 mila battezzati; 50 anni dopo sono quasi 30 mila e i preti indigeni evangelizzano altre isole dell’Oceania.

Nel 1844 Roma affida ai maristi anche la Micronesia. Mons. Epalle approda con 7 preti e 6 fratelli nelle isole Salomone. Appena sbarcati, il vescovo viene assassinato; 4 missionari sono divorati dai cannibali; gli altri si salvano con la fuga. Il vicariato passa ai missionari italiani del Pime, ma i risultati non cambiano: Giovanni Mazzucconi viene ucciso nell’isola di Woodlark (1855). Solo nel 1898 l’evangelizzazione delle isole Salomone riprende con i maristi, aiutati da catechisti indigeni delle isole Figi e Samoa.
Nel 1881 Propaganda affida ai missionari del Sacro cuore di Issoudun le grandi isole della Nuova Guinea o Papuasia e gli arcipelaghi adiacenti. Qui l’evangelizzazione procede più speditamente che altrove.

Agli inizi del XX secolo, fatta eccezione per la Papuasia, tutto il quinto continente è convertito al cristianesimo dalle varie confessioni. Ai pionieri del secolo precedente (maristi, cappuccini, padri di Picpus e d’Issoudun, verbiti, Pime, ecc.) si è aggiunta un’incalcolabile schiera di missionari di varie congregazioni: gesuiti, Mill Hill, pallottini, salesiani, passionisti, monfortani, francescani, preti diocesani, congregazioni di fratelli e molte congregazioni religiose.
Ne è nata una chiesa ricca di risorse locali (clero, religiosi e religiose, laici impegnati), con una storia di santità e sangue, non solo «straniero»: Peter To Rot, catechista in Papua Nuova Guinea, avvelenato a 33 anni, e Mary MacKillop, suora australiana, fondatrice della congregazione di San Giuseppe e del Sacro Cuore, beatificati nel 1995.

I GRANDI MISSIONARI

Guglielmo Massaia (1809-1889). Cappuccino, nel 1846 è vicario apostolico dei galla (Etiopia). Peripezie, persecuzioni e successi sono raccontati nei 12 volumi de «I miei 35 anni di missione nell’Alta Etiopia». Cardinale nel 1884.

Agostino de Jacobis (1800-1860). Lazzarista, vicario apostolico dell’Abissinia (1839), è consacrato vescovo dal Massaia (1849). Apostolo infaticabile è maestro di missionari, affronta enormi fatiche, sacrifici e persecuzioni. Beatificato nel 1935.

Giuseppe Faraud (1823-1890). Oblato di Maria Immacolata, primo vicario apostolico del Mackenzie, sviluppa e consolida le missioni tra i montagnesi del nord-ovest canadese.

Melchior de Marion Bresillac (1813-1859). Prete delle Missioni estere, è inviato in India nel 1842 e diventa vescovo di Coimbatur. Nel 1856 fonda la Società per le missioni africane (Sma) e parte per la Sierra Leone, dove muore di febbre gialla.
Damiano de Veuster (1840-1889). Della congregazione dei Sacri Cuori, a 23 anni parte per le Hawaii, si mette a servizio dei lebbrosi e muore consumato dalla carità e dalla lebbra. Beatificato nel 1995

Pier Luigi Maria Chanel (1803-1843). Marista, martirizzato nell’isola di Futuna (Oceania). Canonizzato nel 1954.

Giovanni Cagliero (1838-1926). Salesiano, in Argentina nel 1875, evangelizza la Patagonia. Nel 1904 è delegato apostolico in Costarica, Nicaragua e Honduras. Cardinale nel 1915.

Charles Lavigerie (1825-1892). Vescovo di Nancy, poi di Algeri (1867), fonda i missionari e missionarie per l’Africa (padri bianchi e suore bianche). Amico dei musulmani, difensore degli schiavi, apostolo degli africani, formatore di apostoli.

Daniele Comboni (1831-1881). Prefetto apostolico di Karthum, fondatore dei missionari per l’Africa e pie madri della Nigrizia. Combatte la schiavitù e promuove il clero locale per «salvare l’Africa con l’Africa». Proclamato beato nel 1996.

Gabriele Leperbiyre (1802-1840). Lazzarista, in Cina dal 1835. Tradimento, arresto, giorno e ora della morte in croce lo avvicinano alla passione di Cristo. Canonizzato nel 1996.

Simeone Lourdel (1835-1890). Padre bianco, primo missionario in Uganda, formatore di martiri, è venerato dagli ugandesi come loro «padre nella fede».

Giovanni Mazzucconi (1826-1855). Missionario del Pime in Oceania: viene trucidato, dopo soli tre anni di apostolato, nell’isola di Woodlark. Beatificato nel 1984.

Teofano Venard (1829-1861). Delle Missioni estere, apostolo del Tonchino: martirizzato nel 1861 e beatificato nel 1909.

Pierre-Jean de Smet (1801-1873). Gesuita belga, missionario tra gli indiani degli Stati Uniti, ne difende i diritti contro le invasioni e gli stermini operati dai bianchi.

MISSIONE AL FEMMINILE

La storia missionaria del XIX-XX secolo è più che mai tinta di rosa. Le figure che presentiamo sono solo un simbolo delle migliaia di donne che hanno dato la vita nell’eroica testimonianza di amore e santità.

Anne Marie Javouhey (1779-1851). A 15 anni nasconde i preti «non giurati». Nel 1806 fonda le suore di San Giuseppe di Cluny e nel 1817 le invia in Senegal e Réunion. Missionaria in Senegal e Guinea, si spende nell’aiutare gli africani. Re Luigi Filippo la definisce «un grande uomo». Beatificata nel 1950.

Filippina Duchesne (1769-1852). Durante la rivoluzione aiuta prigionieri, malati e moribondi. Entrata nella Società del Sacro Cuore, nel 1818 parte per il Missouri (Usa), fonda conventi e scuole per bianchi, neri e indiani. Beatificata nel 1940.

Teresa di Gesù (1873-1897). Carmelitana di Lisieux. Offre la sua breve vita per i missionari. Patrona delle missioni.

Francesca Saverio Cabrini (1850-1917). Fondatrice delle missionarie del Sacro Cuore, sogna la Cina. Leone XIII le indica gli emigrati italiani in America. Raggiunge gli Usa nel 1889; dissemina nelle tre Americhe 67 case religiose, innumerevoli scuole, ospedali, collegi, orfanotrofi, laboratori, ospizi per anziani. Canonizzata nel 1952, è patrona degli emigranti.

Katherine Drexel (1858-1955). Fondatrice delle suore del Santo Sacramento, spende la vita per l’integrazione di neri e indiani nella società Usa, fondando per loro scuole e l’università «Saverio» di New Orleans. Canonizzata nel 2000.




Dàgli una spinta

L’evangelizzazione del nuovo
millennio è iniziata in anticipo
sul calendario:
Concilio Vaticano II,
encicliche
e documenti
del magistero,
sinodi locali
e continentali hanno
rivoluzionato idee e metodi
della missione, foendo
alla chiesa gli strumenti
per affrontare le sfide
di società soggette
a mutamenti planetari.
Lo Spirito, che ha lanciato
dodici pescatori per le vie
del mondo ed è stato per 20 secoli
il «protagonista della missione»,
continuerà ad animare la sua chiesa
perché diventi realmente
«comunione di comunioni»
e non si confondano più le missioni…
con le cassette per le elemosine.

Trampolino di lancio

Tricoi, zucchetti, colbacchi, fez e altre varietà di copricapo: basta uno sguardo panoramico sui partecipanti al Concilio Vaticano II (1962-65) per convincersi che, dopo quasi due mila anni di evangelizzazione, la chiesa è diventata realmente universale. Dei 2.498 vescovi di 136 paesi presenti all’assemblea conciliare, appena un terzo è europeo; un altro terzo viene dalle Americhe; il resto dall’Asia, Africa e Oceania, con numerose facce gialle e nere.
I padri conciliari missionari fanno da cassa di risonanza dei problemi dell’evangelizzazione e, col fiato sul collo di coloro che vorrebbero liquidarla, riducendola a un’appendice di qualche tema ecclesiale, ottengono che «attività missionaria della chiesa» sia trattata in un documento a parte: nasce il decreto «Ad gentes». Vengono ratificate idee e principi rivoluzionari: tutta la chiesa è per natura missionaria; i vescovi sono collegialmente responsabili della diffusione del vangelo tra tutti i popoli; scopo della missione rimane sì la plantatio ecclesiae (impiantare la chiesa), ma come servizio alla costruzione del regno di Dio e non semplice organizzazione giuridica e gerarchica.
Tale decreto, insieme ad altri testi conciliari, come quelli riguardanti la liturgia, chiesa e mondo contemporaneo, ecumenismo, apostolato dei laici, libertà religiosa e dignità umana, relazioni tra chiesa e religioni non cristiane, obbligano a modificare i metodi di evangelizzazione. Nel dizionario e prassi missionaria entrano definitivamente concetti e principi, come dialogo, rispetto e «adattamento» alle culture, liberazione e lotta per la giustizia, sviluppo e promozione umana, che lanciano la missione verso il terzo millennio.

Evangelizzazione del «seto continente»

L’attuazione teorica e pratica delle nuove dimensioni dell’evangelizzazione lanciate dal Vaticano II provoca nuovo slancio missionario, insieme a non pochi interrogativi, dubbi, perplessità e stanchezze. Intervengono nuovi documenti di papi e vescovi per chiarire, ribadire, correggere e, soprattutto, incoraggiare.
L’ultima charta magna sull’evangelizzazione è l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio. Oltre a ribadire che «la missione riguarda tutti i cristiani, tutte le diocesi e parrocchie, istituzioni e associazioni ecclesiali», il papa intende rilanciare in grande stile la missione ad gentes, dissipando dubbi e ambiguità, rimarcandone l’urgenza soprattutto.
A 20 secoli dalla nascita di Cristo, il vangelo è stato annunciato fino agli estremi confini della terra, facendo discepoli tra tutte le nazioni, come lui stesso aveva comandato. Eppure «gli ultimi confini della terra a cui si deve portare il vangelo si allontanano sempre più… la missione ad gentes è ancora agli inizi» afferma Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio.
Due terzi dell’umanità attende ancora l’annuncio del vangelo; il numero di coloro che ignorano Cristo è in continuo aumento. Nei paesi di antica tradizione cristiana, come l’Europa, e in quelli in cui la chiesa è saldamente impiantata, si sente l’urgenza di una nuova evangelizzazione. A queste chiese il papa ricorda che «la fede si rafforza donandola».
Prendendo atto che la missione non è più identificabile e circoscritta in determinati confini geografici, l’enciclica parla di «ambiti territoriali», «mondi e fenomeni sociali nuovi», «aree culturali o areopaghi modei» che hanno dilatato gli orizzonti della missione e sono diventati oggetto di evangelizzazione. Urbanizzazione, giovani, migrazioni, rifugiati, situazioni di miseria, mezzi di comunicazione e globalizzazione, impegno per la pace, sviluppo e liberazione, cultura e ricerca scientifica, diritti umani e dei popoli, specie delle minoranze etniche, promozione della donna e del bambino, salvaguardia del creato… costituiscono il «sesto continente» verso il quale si deve orientare l’attività missionaria della chiesa.

È primavera!

«I n prossimità del terzo millennio della redenzione – scrive Giovanni Paolo II nell’enciclica missionaria – Dio sta preparando una grande primavera cristiana, di cui già si intravvede l’inizio». Assecondando tale «primavera», le chiese dei vari continenti hanno celebrato sinodi speciali in preparazione del grande Giubileo del 2000, per rilanciare il processo di evangelizzazione e affrontare le sfide lanciate dal nuovo millennio, caratterizzato da cambiamenti planetari.
L’Assemblea speciale dei vescovi dell’Africa (1994) ha preso coscienza della situazione di miseria in cui vive la maggior parte della popolazione del continente e ribadito l’impegno nella lotta per la giustizia e nella testimonianza della carità. Constatando che gruppi sociali e intere regioni non sono ancora toccati dall’annuncio evangelico, la chiesa africana si è impegnata a continuare e completare il processo di evangelizzazione del continente, aprendosi alla missione universale. Tuttavia la sfida più grande del terzo millennio rimane l’inculturazione: l’Africa è diventata cristiana; è ora che il cristianesimo diventi africano.
L’idea chiave, lanciata dall’assemblea sinodale per raggiungere tali scopi si chiama: chiesa-famiglia: cioè un modello di chiesa solidale, in cui i membri si prendono cura gli uni degli altri nella lotta per la nascita di una nuova Africa, per la sopravvivenza dell’identità africana e dei diritti dei più poveri nel grande oceano dell’omolagazione globale.

In America Latina i problemi riguardanti i bambini, gioventù, famiglia, educazione, disoccupazione, minoranze indigene, corruzione, distribuzione delle terre, guerriglia, giustizia sommaria, narcotraffico… costituiscono altrettante sfide per l’evangelizzazione del 2000.
Dopo cinque secoli di evangelizzazione l’America Latina conta la metà dei cattolici del mondo, ma ha ancora bisogno di clero e missionari stranieri. Eppure da alcuni decenni la chiesa ha preso coscienza del dovere missionario e sta diventando sempre più attiva nella missione ad gentes.
Per la prima volta nella storia, il Sinodo per le Americhe (1997) ha avviato un dialogo vivo e costruttivo tra le chiese del nord, centro e sud del continente; dialogo che promette un avvio del nuovo millennio all’insegna della speranza e della solidarietà nella lotta contro il neoliberismo imperante e prepotente, produttore di miseria, emarginazione e rifiuto di buona parte della popolazione latinoamericana.

È soprattutto l’Asia la sfida missionaria del 2000. In questo continente vive l’85% di tutti i non cristiani della terra. La chiesa cattolica è solo una minoranza: supera a malapena il 2% della popolazione; i cattolici sono poco più di 101 milioni, su 3.500 milioni di asiatici.
Tra mille ostacoli vecchi e nuovi, la chiesa è presente e viva, specie nei paesi dove è stata più martirizzata. E questo è già un miracolo e garanzia di speranza per il futuro. Le sfide dell’evangelizzazione si chiamano: dialogo con le grandi religioni e spiritualità cristiana più asiatica, inculturazione e più efficacia sociale, ha appena sottolineato il Sinodo dell’Asia (1998). Il vangelo dovrà tradursi più concretamente in buona notizia per le folle di affamati, mendicanti, senza tetto e senza futuro.
In un continente sempre più globalizzato e secolarizzato, il cristianesimo, religione dell’incarnazione, appare come il compimento dell’intenso desiderio di familiarità col divino, capace di brillare anche nelle situazioni meno sacrali delle fabbriche e megalopoli. Per questo i padri sinodali hanno rinnovato, per il terzo millennio, l’impegno di proclamare con vigore, in parole e opere, che Gesù Cristo è l’unico salvatore e mediatore dell’incontro con Dio.

Anche la chiesa dell’Oceania ha celebrato un sinodo speciale nel 1998, il primo della sua storia. Alle solite sfide geografiche e socio-economiche, si è aggiunta la confusione provocata dalle sètte fondamentaliste, alcune importate, altre di origine locale.
La missione del 2000, affermano i vescovi, si gioca sulla lotta all’ignoranza: le scuole cattoliche sono la base per una evangelizzazione intelligente e cosciente e strumento per la formazione di catechisti e clero locale. Il numero delle vocazioni locali aumenta con un buon ritmo, anche se insufficiente. L’impegno dei laici è in costante crescita. Ma le chiese locali, già isolate dalla geografia, si sentono spesso ai margini della solidarietà mondiale ed ecclesiale.

«Toano le caravelle»

Anche le chiese d’Europa hanno celebrato il proprio sinodo speciale (1999), per «contribuire a edificare un’Europa aperta alla solidarietà universale, sia ridando vigore e slancio alla missione ad gentes, sia allargando i continenti». I padri sinodali europei hanno accolto gli appelli provenienti dagli altri sinodi continentali; appelli tradotti non solo in richieste di aiuto, ma anche in stimoli e denunce, contributi e offerte di esperienze. Un’espressione è risuonata spesso nelle loro discussioni: scambi di doni.
Abituate da sempre a «dare», spesso con spirito di superiorità, le chiese europee devono oggi imparare a «ricevere» i doni provenienti dalle altre chiese del mondo, non più fotocopia delle chiese madri. Tale scambio, negli anni passati, era espresso con un’immagine suggestiva: «Toano le caravelle». Ma non più cariche d’oro, argento, spezie, tessuti e prodotti sconosciuti, ma di tesori più preziosi: le giovani chiese dell’Africa, Asia e America Latina offrono alla vecchia Europa le loro ricchezze di fede, esperienze ecclesiali vissute con entusiasmo, teologie e liturgie incarnate nella vita, impegno generoso per la giustizia, libertà e dignità della persona umana, preferenza riservata ai poveri e agli ultimi, fino al martirio, semplicità di linguaggio nell’esprimere la fede, coraggio di parlare senza vergogna della personale esperienza di Dio, maggiore importanza data all’interiorità, contemplazione e silenzio, doni caratteristici, questi ultimi, delle chiese asiatiche.
Tale scambio di doni tra le chiese d’Europa e quelle del Sud del mondo è appena iniziato; dichiarazioni ed esortazioni sono sempre più frequenti, ma le esperienze effettive sono ancora deboli. Il completamento di tale processo di «chiesa, comunione di chiese» costituisce la sfida del nuovo millennio.




Non di solo preti – 14 maggio 2000 giornata mondiale delle vocazioni

Non è esaltante il numero di sacerdoti,
anche perché quelli in attività
sono tutt’altro che giovani.
Ancora più preoccupante la situazione
delle vocazioni missionarie,
specie per alcuni istituti.
Il calo delle «vocazioni speciali»
è «un segno dei tempi»
per far largo a quelle «comuni»,
cioè dei laici?
Che, però, non vogliono fare
solo i sacrestani.

PER UN’ANTICA SIMPATIA

Forse è opportuno un avvertimento. Parlando di vocazione, non bisogna intendere solo quella «speciale»: al sacerdozio, alla vita consacrata dei religiosi e religiose o alle missioni.
La parola «vocazione» ha tanti sinonimi, la cui molteplicità ha il pregio di dilatae il concetto. Al posto di «vocazione», possiamo usare chiamata, convocazione, elezione, scelta fondamentale, servizio, missione, via, cammino, attitudine, inclinazione, passione, estro, illuminazione, sintonia, apertura…
Ad esempio: Giuseppe Allamano fondò i missionari della Consolata anche per «una specie di attrattiva per l’Africa, un’antica simpatia che non so spiegare»… Si racconta che in casa di Gioacchino Rossini, se cadeva un piatto e la madre imprecava, il figlio fin da ragazzo tendeva l’orecchio e, con la musica nel sangue, canterellava «re, la, sol…». E la Scrittura raccomanda di «non spegnere lo Spirito».
Si potrebbe affermare che la vita stessa è vocazione, in senso assoluto: ognuno ha il diritto di nascere e realizzarsi pienamente come persona. Non esiste, infatti, mistero più grande e sacro della genesi dell’io e della consapevolezza della propria unicità. J. H. Newman scrisse: «In qualche modo sono tanto necessario io al mio posto quanto un arcangelo al suo».
Nella bibbia è Dio che chiama. Ciascuno è chiamato per nome (Is 43, 1), e sta all’uomo rispondere come sa e può (Rom 9, 12). Ne deriva che la vocazione non è un monumento fisso, ma un rischio: si trasforma in storia, con parecchie avventure. Quasi tutti i fondatori di istituzioni religiose, umanitarie e scientifiche hanno dovuto, strada facendo, modificare i loro piani e rifare continuamente il punto, «guardando le stelle».
Di più. Esiste anche una chiamata universale: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati (1 Tim 2, 4), come c’è una vocazione universale alla santità o a migliorarci.
Nella chiesa poi ogni persona ha la sua vocazione o funzione da svolgere, che va riconosciuta e valorizzata per quanto umile possa essere. I documenti del Concilio ecumenico Vaticano II parlano chiaro al riguardo (Lumen gentium, 11).
Anche nelle religioni non cristiane il concetto di vocazione è presente. Muhammad è un profeta trascinato da Dio; Budda significa l’illuminato; così Zarathustra, profeta e riformatore.
L’INVERNO DELLE VOCAZIONI
È diventato un luogo comune distinguere il fenomeno della vocazione in due tipi di esperienza: ci sono le vocazioni speciali o particolari e le altre… Per la chiesa cattolica, dal Concilio ad oggi, la diminuzione delle «vocazioni speciali» costituisce una grande preoccupazione.
Si tratta dei chiamati ai ministeri ordinati (legati al sacramento dell’ordine), in particolare dei preti, dei religiosi e religiose, dei missionari (uomini e donne). È invalso l’uso di qualificare questi soggetti come «persone entrate in vocazione», come se entrassero in una «corrente marina» che, solcando l’oceano dell’umanità, è destinata ad influire sul clima di intere regioni.
Un tempo tutto procedeva a gonfie vele. Ai giorni nostri le acque sono estese, ma poco profonde, e la navigazione in grande stile quasi impossibile. Decenni fa i sacerdoti erano persino troppi. Oggi invece… Il papa stesso, rivolgendosi ai vescovi francesi, ha parlato di «inverno delle vocazioni» (13 gennaio 1992).
Però è doveroso fare in modo che la preoccupazione della chiesa per la crisi delle vocazioni sacerdotali non fagociti le altre vocazioni. Il Concilio anche su questo punto è chiarissimo: tutti i battezzati sono chiamati ad operare per «la vitalità della chiesa».
Ad aggravare la situazione ci sono pure l’invecchiamento e il calo della perseveranza.
Però è necessario fare anche un esame di coscienza. L’Allamano a coloro che gli impedirono nel 1891 di dar vita all’Istituto missionario (poi fondato nel 1901), adducendo come motivo la scarsità del clero (il che era falso) disse: «Se a Torino vi fosse un terzo o anche la metà in meno dei sacerdoti esistenti, ma lavorassero di più, si andrebbe avanti lo stesso» (9 marzo 1917).
DIO CHIAMA PER NOME
I tentativi per risalire la china del calo di vocazioni sacerdotali sono immani. Nel 1992 Giovanni Paolo II scrisse la poderosa esortazione apostolica Pastores dabo vobis, in cui alla crisi delle vocazioni speciali contrappone un «abbandono fiducioso nello Spirito Santo». Nel frattempo in questi anni si sono celebrate Gioate per le vocazioni e si è anche pregato molto.
Nonostante tutto, la pastorale vocazionale si presenta stanca, ripetitiva, disordinata e quasi fallimentare. Le diagnosi continuano ad essere approfondite e precise. Troppe in ogni caso le incertezze in una società e in una chiesa in rapida evoluzione. Difficile fare il punto.
Il bisogno forse maggiormente sentito è quello della chiarezza, che non c’è o non c’è a sufficienza. Da tale mancanza deriva il disorientamento, soprattutto quando si tratta di fare scelte decisive. Dagli studiosi emerge un debole e cauto suggerimento, ma che forse merita di essere preso in considerazione.
Oltre alle iniziative «comunitarie» attraverso gruppi, slogan, campi di lavoro, marce e pellegrinaggi (che pure sono necessari per sensibilizzare i giovani), è necessario accostare i giovani e ogni altra persona a livello più individuale, per accompagnarli spiritualmente e più dall’interno.
Perché Dio chiama per nome e non in massa.
INOLTRE…
Inoltre c’è pure chi nella preoccupante diminuzione quantitativa e a volte qualitativa del clero, scorge un aspetto positivo. Non sono molti, ma ci sono.
La diminuzione non potrebbe essere interpretata come un «segno dei tempi» o un invito a considerare se non ci sia qualcosa da modificare nella struttura della chiesa? E non si allude all’ordinazione delle donne o all’abolizione del celibato.
Per esempio: Carlo Castagnetti, direttore del Centro nazionale vocazioni e direttore della rivista Vocazioni, scrive: «Il Signore vuole che si prenda coscienza della vocazione generale di tutti i battezzati al sacerdozio comune, e che si facciano avanti nella chiesa e non considerarsi degli spettatori passivi».
La chiesa cattolica, in polemica con i protestanti, ha sempre messo un po’ la sordina sul «sacerdozio comune» che spetta a tutti i battezzati (1 Pt 2, 9). Il Concilio ne ha parlato. E sarebbe sufficiente prendere in mano alcuni documenti ecumenici di cattolici e protestanti per rendersi conto di come il «sacerdozio comune» sia stato approfondito. Ciò non toglie che esista pure «un ministero sacerdotale speciale». Anche per i protestanti non tutti i fedeli sono pastori, come fra gli ebrei non tutti sono rabbini.
È stupefacente che, a 35 anni dal Concilio, un parroco torinese abbia scritto la lettera aperta «Pastori o padroni?», per denunciare come «i laici siano considerati dei bambini incapaci, che devono solo eseguire gli ordini dettati dal prete» (La Voce del Popolo, 5 marzo 2000).
Sarebbe anche interessante percorrere la storia del movimento cattolico femminile, per rendersi conto che cosa ha significato per una donna essere attiva nella chiesa senza sposarsi o entrare in convento.
È sviluppatissimo poi in molte nazioni il volontariato, a volte molto impegnato, che per essere come si deve importa una vera vocazione, oltre a doti particolari e una carica spirituale.

Igino Tubaldo




Il gran signore

Cioè fratel Modesto Zeni,missionario della Consolata.
Nato a Cavedago (TN) nel 1921e morto a Torino
il 6 novembre 1999.Ha trascorso oltre 50 anni
in Tanzania.Lo chiamavano anche «il moro».

Un aggiustatutto

Che fratel Modesto Zeni sia stato un veterano d’Africa, con alle spalle oltre 50 anni di Tanzania, è noto probabilmente a tanti addetti ai lavori della missione.
Pochissimi, invece, sanno che tra le sue molteplici attività missionarie (muratore, meccanico, idraulico, elettricista, capomastro di conventi e cattedrali, distributore di viveri e materiale edilizio, benzinaio, fabbro, aggiustatutto…) fratel Modesto sia stato anche un esperto ed appassionato arbitro di calcio, anzi il maestro e capo degli arbitri nella città di Iringa.
Al termine di ogni santo giorno dell’anno, egli dedicava qualche ora di tempo al calcio e all’arbitraggio. Oltre a tenere d’occhio lo svolgimento delle partite e controllare dalla panchina il comportamento degli arbitri e dei giocatori, fratel Modesto doveva pure, come giudice supremo, dirimere tutte le beghe calcistiche, assolvendo o condannando con relative squalifiche, sospensioni e multe.
Ciononostante Modesto era l’uomo più amato nel mondo calcistico di Iringa.
E un suo rientro in l’Italia, per ragioni di salute, aveva lasciato il vuoto. Quasi uno smarrimento generale. Ma il fatto risale ad una decina di anni or sono.

Arrivederci presto

La sera prima che fratel Modesto se ne andasse, i suoi fans e, soprattutto, il collegio arbitrale gli si strinsero attorno per una festicciola di saluto, affettuosa e sincera.
Dopo poche portate, qualche birra e coca-cola… ma tanti e commossi «grazie!», «buon viaggio!» e «arrivederci presto!», la serata si concluse con la seguente e originale preghiera d’ispirazione biblica:
O Dio,
Padre onnipotente ed eterno,
tu che ti sei posto
come una colonna di fuoco
affinché la tua nazione eletta, Israele, non fosse attaccata
dagli egiziani;
tu che, con la mano santissima,
hai diviso il Mar Rosso
per far passare il tuo popolo
sull’asciutto;
tu che, con grande potenza
hai salvato la vita del tuo amato
figlio Gesù, facendolo sfuggire
dalle mani di Erode,
noi ti preghiamo, Padre buono:
assisti il nostro fratello
Modesto Zeni
nel suo lungo viaggio;
mandagli tanti angeli,
affinché gli stiano vicini in questo viaggio di andata e ritorno
senza lasciarlo mai.
E tu, Signore nostro Gesù Cristo, che dopo la risurrezione
ti sei accompagnato con i discepoli nel cammino verso Emmaus
e discutevi con loro
senza che ti conoscessero,
ti preghiamo:
sii accanto al nostro fratello Modesto Zeni lungo la strada
che porta in Italia,
parla con lui e proteggilo sempre,
finché ritoerà ancora fra noi.
Amen!
Così pregarono gli «arbitrini», i calciatori semiscalzi e tanti tifosi di Modesto, sinceramente preoccupati della sua eia ombelicale.

Il moro

Fratel Modesto superò bene l’intervento chirurgico e ritoò a «fischiare» sui campi da foot ball.
Non solo, ma riprese in mano anche la bolla, la saldatrice, la chiave inglese… per riparare Land Rover e Toyota, costruire asili, scuole, ospedali. Ma, nella festa solenne dell’inaugurazione di tutte le «sue» chiese, Modesto non appariva mai. Si eclissava. Il microfono, il palco e l’applauso lo infastidivano un po’. Non lo diceva a parole, bensì con un timido sorriso. Anche in chiesa si inginocchiava all’ultimo posto…
Il 5 novembre scorso lo incontrai a letto, a Torino, e gli mormorai: «Ciao, bwana mkubwa!» (gran signore). Dagli occhi semichiusi sgorgarono poche lacrime. Al che, commosso anch’io, mormorai: «Sei davvero un gran signore!»… Poco dopo moriva di tumore.
Anche senza la salma, in Tanzania iniziò subito il kilio (pianto pubblico). Un kilio con tanta gente, accorato, di affetto e riconoscenza per un missionario, detto anche «il moro». Al di là del colore marcatamente scuro della sua pelle, fratel Modesto Zeni è stato soprattutto uno di «loro».

a cura di un “tifoso”




Certosa missionaria

È un centro di spiritualità missionaria. Numerosi giovani (ma anche adulti) lo frequentano per un rapporto profondo con Dio: e riscoprono anche
la frateità con gli uomini. Da quest’anno ha «una marcia» in più, con l’apertura della prima chiesa abbaziale.

La certosa di Pesio
(Cuneo), oasi del sacro dal medioevo ai giorni nostri, ha scritto nel vespro dell’Assunta del 1999 un’altra pagina luminosa della sua plurisecolare storia…
Immersa nel silenzio e nella maestosa natura, la certosa di Pesio continua ad essere un centro di spiritualità: preghiera e meditazione per chi sente il bisogno di tuffarsi nell’infinito; svolge la funzione di guida illuminante nel disorientamento dell’uomo moderno.
La fecondità spirituale della certosa è oggi affidata ai missionari della Consolata: nel loro caratteristico dinamismo, sono gli artefici di tanta ripresa di spiritualità. Fedeli al motto «prima santi, poi missionari» del loro fondatore, beato Giuseppe Allamano, realizzano il connubio tra contemplazione e azione apostolica e continuano, seguiti da tanti giovani, l’entusiastica diffusione della parola del Signore.

In questo clima
è maturato il progetto di riportare alla luce la prima chiesa abbaziale del 1173, abbandonata dai certosini dagli inizi del 1500, sia per la edificazione della chiesa superiore, sia per le tristi vicende storiche di guerre, saccheggi e decadenza abbattutesi nella valle.
Il lungo lavoro di sgombro di materiali e detriti, accumulatisi nel tempo, è stato condotto con tenacia e ha consentito le opere di restauro essenziale, guidate con oculatezza dal superiore, padre Francesco Peyron, secondo le norme della Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici del Piemonte. La certosa, infatti, è anche monumento nazionale.
La chiesa abbaziale è finalmente ritornata idonea alla funzionalità liturgica, nel rigore della sobrietà primitiva: offre il fascino della sua interiore bellezza nella scabra nudità delle mura martoriate, che raccontano, con eloquenza senza fine, la salmodia antica, l’esperienza dei certosini nella giorniosa e totale dedizione dell’uomo a Dio.
La solenne inaugurazione è avvenuta il 15 agosto scorso, con una solenne eucaristia presieduta da padre Gottardo Pasqualetti, superiore dei missionari della Consolata in Italia. Vi hanno partecipato anche i padri responsabili della certosa, i parroci della Valle Pesio, le autorità civili, un gruppo vibrante di giovani e tantissimi fedeli valligiani.
E tutti per esprimere «grazie» alla Vergine Assunta, a cui la certosa è dedicata.

Gli elementi
più significativi del restauro operato sono stati illustrati, con dovizia di particolari tecnici dall’architetto Carlo Faccio, che ha partecipato ai lavori.
Con passione professionale, l’architetto ha sottolineato la non facile ripulitura dei muri, delle finestre, dei portali laterali di accesso; la splendida pavimentazione realizzata con grandi lastre di pietra grigia; l’efficace sistema di illuminazione dal pavimento e per mezzo di lampade a stelo; la solennità dell’altare formato di antiche pietre scolpite, raffiguranti il battesimo del Battista; il geniale coro in pietra lungo tutta la base dell’abside; l’inserimento a parete di un rosone in pietra bianca nella parte centrale dell’abside.
Un tocco di raffinatezza emerge dalle due tavole verticali di materiale trasparente: vi sono incise notizie e date importanti della storia della certosa. Le tavole si collocano nel primo tratto della chiesa. A complemento del disegno iniziale del progetto è sorta una «mini galleria» di reperti archeologici dell’antico complesso abbaziale, allestita sotto il porticato del piccolo chiostro adiacente alla chiesa.
E, dulcis in fundo, dalla nicchia a destra dell’altare, veglia sulla certosa e su coloro che la frequentano la sfavillante icona della Madonna, simbolo e presenza d’infinita tenerezza.

La solennità dell’Assunta
del 1999, davvero memorabile, ha affiancato alla plurisecolare dedizione all’Assoluto dei monaci, la fede, il coraggio e lo zelo dei missionari della Consolata che operano nella certosa e nel composito mosaico del mondo. Lo fanno per il regno di Dio, secondo il mandato del beato Allamano: «et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (annunzieranno la mia gloria ai popoli).

Anna Bagliano




ECUMENISMO – Anche Dio scuote la testa?

L’unità tra cattolici, ortodossi e protestanti
(nonché «con» e «tra»
le altre religioni)
è un rompicapo, anche perché gli uomini
amano complicare
gli «affari di Dio».
Ma basta un ottavario
di preghiera
una volta all’anno?

L’ecumenismo o «movimento ecumenico» può rappresentare per le chiese e religioni ciò che, in un’automobile, è la quinta marcia.
«Ecumène» (in greco oikouméne, da oikéo = abitare e oìkos = casa) indicava la terra abitata, l’orbe terracqueo, l’impero romano: una casa sempre più grande, ma abitabile.
«Ecumène», in senso cristiano, venne ad indicare la «terra abitata dai cristiani»; ma divisioni, guerre di religione e intolleranze la resero e rendono in buona parte inabitabile. Le spaccature tra le chiese e religioni si possono paragonare a sacchetti di plastica non biodegradabili: infestano mari, laghi e fiumi. Le divisioni inquinano, come le pile al mercurio e l’ossido di carbonio.
Il movimento ecumenico è conscio di questi danni; però, oggigiorno, è molto più avanzato dei movimenti ecologici, che stentano a rendere abitabile il pianeta-terra.
È assodato che le chiese cristiane (compresa la cattolica) non possono ritenere le altre fedi una «moneta fuori corso», senza alcun valore salvifico.
D’altro canto, il cristianesimo ha il diritto di considerare le altre religioni una «moneta fuori corso» o (concedendo qualcosa) una «moneta più o meno inflazionata»?
BIDONI TOSSICI E ALTRO
Non è facile per l’ecumenismo reperire immagini eloquenti o simboli adeguati, per farsi capire. Tuttavia…
Esistono «centri di ricerca contro il cancro». Ebbene, anche le divisioni tra i cristiani sono un cancro. Sono bidoni tossici, sono discariche inquinanti. È indispensabile, per la salute dei popoli, trovare mezzi per eliminare tutti i prodotti velenosi. Tra l’aggressività ostile o lo scontro frontale e la fuga o la neutralità indifferente non esistono altre scelte o strategie? Questo è ciò che caratterizza l’ecumenismo moderno tra le chiese e religioni, così bello e promettente, anche se difficile.
La poetessa russa, Marina Cvetaeva, il 9 settembre 1923 scriveva da Praga ad un amico: «Ora vado alla messa russa (molto lunga). La prima mezz’ora sarò rapita in estasi; la seconda penserò alle mie cose e la terza semplicemente bramerò di tornare all’aria aperta… Ma sono convinta che Dio mi sente, e scuote la testa». Il Dio dell’ecumenismo è proprio questo: un Dio che scuote la testa. E dice ai cristiani: «Ma possibile?!».
Tutti gli esponenti delle chiese cristiane, come pure la maggioranza dei fedeli, hanno capito che era ed è assurdo trasportare i nostri «bidoni inquinanti» (ossia tante dispute) nelle missioni.
Gli studenti africani di teologia, di fronte alle nostre polemiche sui concili, su natura, sostanza… e poi su Lutero e Calvino, in genere rimangono seri. Ma, se si riuscisse a leggere nei loro cervelli, ci si accorgerebbe che esiste un turbinio di pensieri; forse concordano sul Dio della poetessa russa, per dirci: «Ma voi siete pazzi!».
La storia dell’ecumenismo cristiano, poiché le divisioni sono malattie gravi, è corredata di «bollettini medici» e anche di «libri neri», con un susseguirsi di avvenimenti, date e personaggi allucinanti.
Nel secolo XII san Beardo, riferendosi al mondo (e non solo alle divisioni tra i cristiani), scrisse: «Habet mundus iste suas noctes et non sunt paucas» (questo mondo – cristiano – ha le sue notti, e non sono poche).
Origene, nel III secolo, scrisse di un dotto ebreo (probabilmente dell’Accademia rabbinica di Cesarea), che aveva paragonato la sacra scrittura ad un palazzo con molte stanze; accanto alla porta di ogni stanza erano appese le singole chiavi, ma erano sbagliate… Compito di chi spiega la bibbia non è di sforzare le porte con chiavi false né, tanto meno, abbatterle con violenza, ma di trovare la chiave giusta per la porta giusta.
Però che pasticcio! Proprio come, secondo il Talmùd, le spiegazioni che il rabbi Aquibà offriva ai suoi discepoli sulla legge di Mosè, ma in modo così astruso che, un bel giorno, Mosè stesso ottenne da Dio il permesso di assistere alle lezioni del maestro. Il risultato fu che Mosè non riusciva più a capire la sua legge… e se ne andò scuotendo la testa.
ACQUA CALDA E FREDDA
Nell’ecumenismo è necessaria una bussola, per non smarrire l’orientamento. Forse occorrerebbe pure qualcosa di simile agli impianti idraulici delle nostre case, dove l’acqua fredda e calda escono dallo stesso rubinetto, ben dosate e temperate: perché l’acqua, se troppo fredda, causa brividi e, se troppo calda, ustioni.
L’ecumenismo possiede impianti del genere? Forse sì.
Prendendo la Sacra Scrittura (in particolare i vangeli) come bussola, è possibile leggere in modo nuovo la complicata storia del passato. E, valorizzando i documenti ecumenici sottoscritti dai rappresentanti ufficiali di varie chiese, frutto di dialoghi serrati, sarebbe possibile miscelare in modo giusto acqua fredda e calda.
Il 13 marzo 1984 apparve un testo («audace» secondo gli stessi firmatari), intitolato «L’unità davanti a noi». Qui sembra di sognare, investiti da un pathos straordinario, che è qualcosa di più della giusta miscela di acqua fredda e calda; rassomiglia all’acqua della piscina di Gerusalemme, dalla quale, dopo essersi immersi, «infermi, ciechi, storpi e paralitici» uscivano guariti (Gv 5, 1-4).
Bussola, pathos, saggia utopia per ridurre in sintesi armoniosa quanto l’ecumenismo sta facendo in tanti modi e in tutto il mondo. Infatti esiste l’ecumenismo del vangelo e quello del pane (giustizia, liberazione…), che non sono la stessa cosa, ma si integrano; l’ecumenismo ecclesiologico, centrato sulle chiese; l’ecumenismo teologico; l’ecumenismo di vertice e di base. Ancora: l’ecumenismo dei giovani, delle religioni, delle culture. L’ecumenismo missionario.
PIÙ GESTI CHE PAROLE
L’ecumenismo deve essere più «televisivo», cioè più visibile, concreto e meno arzigogolato.
Racconta Elio Toaff, rabbino di Roma: un sabato di primavera papa Giovanni XXIII, mentre passava per il Lungotevere con un seguito di macchine, vide alcuni ebrei mentre uscivano dalla sinagoga; fece fermare il corteo che lo accompagnava e benedì gli ebrei; costoro, dopo un istante di comprensibile smarrimento, lo circondarono applaudendo entusiasti. «Era la prima volta nella storia che un papa benediceva gli ebrei, ed era forse quello il primo vero gesto di riconciliazione» (1). Questo era lo stile di Giovanni XXIII.
Avvenne pure, il 26 marzo 1959, che il vescovo anglicano, Marwin Stockwood, fece visita a papa Giovanni. Si vide poi il vescovo uscire dall’udienza tutto raggiante, stringendo un grosso uovo di pasqua, che il papa gli aveva donato. Ai giornalisti il vescovo disse: «Con un papa così non sarà difficile riportare i cristiani all’unità».
Ritornando agli ebrei, il 13 aprile 1986 Giovanni Paolo II visitò la sinagoga di Roma. Rivolgendosi ai convenuti, disse tra l’altro: «Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori». A queste parole scoppiò un applauso (2).
Perché i gesti valgono di più delle parole.
VERITÀ PIÙ ALTE
Tra i vari ecumenismi (sopra ricordati) emerge quello «spirituale», fatto di interiorità, cuore nuovo, riconciliazione, che si concretizza soprattutto nell’«ottavario di preghiera per l’unità delle chiese». Si tratta dell’anima del movimento ecumenico.
Ma è sufficiente? Già da tempo sono state formulate riserve su questo modo di esprimersi e di ridurre l’ecumenismo: perché è tutto il movimento ecumenico, nei suoi vari momenti e forme, che dovrebbe essere «spirituale». Ridurre tutto quasi esclusivamente ad «una settimana di preghiere», una volta l’anno, è troppo poco.
In una parola: l’ecumenismo spirituale, per essere efficace, deve trasformarsi in «spiritualità ecumenica», nel senso che tutta la spiritualità cristiana dev’essere ecumenica. È la spiritualità liturgica, eucaristica, mariana e, soprattutto, quella missionaria che devono essere ecumeniche. Ciò avviene?
Occorre, certo, pregare, ma anche valorizzare i documenti ecumenici esistenti, molto numerosi, servirsene non solo come materiale di lettura e cultura, ma anche strumenti di meditazione negli esercizi spirituali e ritiri, come manuale di metodologia missionaria e pastorale, come momento di pathos.
Quasi tutti noi siamo stati formati nello spirito cartesiano, che ci impedisce di capire (come, invece, l’aveva capito Paolo VI) che ci sono verità più alte, nelle quali ci si può trovare d’accordo. Questo perché Dio non continui a scuotere la testa.

(1) Elio Toaff, Perfidi Giudei – Fratelli maggiori, Brescia 1987, pp. 219-220
(2) Cfr. Ivi, p. 240

BACIAMI I PIEDI

Il fiume dei litigi tra le due «chiese sorelle» (quali sono quella cattolica-latina e quella ortodossa-orientale) si è talmente ingrossato nel corso dei secoli da uscire dagli argini, seppellendo il bene più prezioso lasciato da Cristo alla chiesa: la carità. R. Kipling (1865-1936) diceva: «Tu non riuscirai mai a conciliare l’orgoglio dei latini con l’ostinazione degli orientali».
Questo stato di cordiale antipatia scoppiò definitivamente, come un bubbone, nel 1054. Poi nel 1453 Costantinopoli cadde sotto i turchi. Ma prima, per impedire il disastro dell’invasione islamica, gli orientali capirono che dovevano fare pace con i latini. Venne indetto nel 1438 un concilio, che si riunì prima a Ferrara e poi a Firenze. Gli orientali vi parteciparono numerosi (oltre 700 persone), con a capo l’imperatore e il patriarca di Costantinopoli, Giuseppe II. Si giunse ad un accordo, che però minacciò di saltare subito, per una faccenda di prestigio, oggi a noi incomprensibile. All’atto del commiato a Venezia, il papa pretese che il patriarca lo salutasse baciandogli i piedi. Questa era la prassi. Cosa che il patriarca rifiutò. Un abbraccio tra fratelli e niente di più! Era l’anno 1439.
Passarono cinque secoli. Nel 1965 Paolo VI e il patriarca Athenagoras nei loro incontri si scambiarono l’abbraccio di pace, come vecchi fratelli che s’incontrano dopo tanti anni… Finché si giunse al 14 dicembre 1975. A Roma, nella cappella sistina, avvenne l’incontro tra il metropolita di Calcedonia, Melitone, delegato del patriarca di Costantinopoli, e Paolo VI. Al termine Paolo VI andò incontro al metropolita per l’ultimo saluto e, inaspettatamente, si inginocchiò e gli baciò i piedi. Il gesto fu accolto da un vibrante applauso. Il papa volle riparare l’incomprensione di Venezia.
Paolo VI aveva fatto suo il programma di Lacordaire: «Non si tratta di convincere l’altro di errore, ma di unirmi a lui in una verità più alta». E questi livelli «più alti» generalmente ci sono sempre, non solo sopra i «piedi», ma anche sopra le teste.

Igino Tublado




Visibile o invisibile?

«M ille volti!». Ma non sono un po’ troppi per «un solo» padre? Anche se noi italiani abbondiamo con il numero «mille» e, sovente, lo poniamo accanto a «grazie».
Ne nasce una delle più belle espressioni che si possa avere ed anche la più libera, perché nessun codice ci obbliga a pronunciarla. Noi la doniamo spontaneamente con… mille grazie.
È così (o quasi) anche in altre lingue. Many thanks dicono gli inglesi o anche thank you very much; i francesi: grand merci; i tedeschi pure, come noi, usano il «mille»: «tausend dank».
«Mille volti», dunque, anche perché ognuno e, soprattutto, le religioni si raffigurano Dio a modo loro.
Un filosofo ha impostato il suo sistema di pensiero sul volto, sul guardarsi in faccia. È uno dei gesti più personali ed espressivi che si possa compiere.
In quante maniere, poi, si può guardare la faccia della persona che ci sta di fronte, prima di accarezzarla, baciarla… o schiaffeggiarla! Gesù fa iniziare l’adulterio dallo «sguardo» (Mt 5, 27). Inoltre c’è un grande insulto in quelle poche parole di cronaca: «Allora sputarono in faccia a Gesù e lo schiaffeggiarono» (Mt 26, 66).
Il volto è la parte più personale di un essere umano e parlare del volto di un individuo è parlare proprio della persona in quanto tale.
«Quale diritto avete… di pestare la faccia ai poveri?» si domanda il profeta Isaia (Is 3, 15). San Paolo, quando scrive che «la gloria di Dio rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4, 6), intende proprio dare una definizione completa, estea ed intea, della persona di Cristo e della sua opera.
Ma parlare del «volto» di Dio è un’altra faccenda.

R ainer M. Rilke (1875-1926), conosciuto anche per quel magnifico libretto «Storie del Buon Dio» (perché i grandi le raccontino ai bambini), narra che Dio volle mostrarsi separatamente a tre pittori per farsi ritrarre; ma nessuno lo dipinse in modo uguale e le tre immagini non si rassomigliavano.
A. Lunn racconta di una bambina che stava disegnando con dei pastelli. La mamma le chiese che cosa stesse facendo.
– Sto disegnando Dio.
– Ma Dio nessuno l’ha mai visto.
– Ebbene, ora lo vedranno.
Mosè sul Monte Sinai (Es 33, 18-23) chiese a Dio di poter vedere la sua faccia (più propriamente: «Mostrami la tua gloria»). Il Signore gli rispose: «Farò passare davanti a te il mio splendore… Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Dio gli ordinò di mettersi in una spelonca della roccia: «e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere». Pressappoco la medesima scena si ripeté con il profeta Elia sullo stesso luogo di Mosè (1 Re 19, 9-13).
L’affermazione fondamentale e radicale che «Dio è invisibile» passa nel Nuovo Testamento: «Dio nessuno l’ha mai visto» (Gv 1, 18; 1 Gv 4, 12). Tuttavia, come Paolo nella Lettera ai Romani abbonda con «però ora…», così, circa l’invisibilità di Dio, occorre aggiungere un «ma ora», che costituisce la grande novità del cristianesimo: Dio è invisibile, ma ora Gesù Cristo «lo ha rivelato», essendo lui «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1, 15). Fino a rispondere al discepolo Filippo che gli chiedeva «Signore, mostraci il Padre»: «Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14, 9).
A questo punto potremmo trovarci di fronte a varie vie, ma in salita.

N ove teologi si riunirono in congresso per tre giorni, nel giugno del 1990, per disquisire sull’ombra di Dio – L’ineffabile e i suoi nomi. Certamente, più che Dio ad essere nell’ombra, lo furono loro, con discorsi quasi del tutto incomprensibili.
Viene in mente l’oscurità proverbiale di Karl Rahner, grande teologo tedesco, che, conscio del suo parlare difficile, esclamava: «Dio mio, che cosa dovrei fare?». Al punto che il fratello Ugo (teologo pure lui), dopo la morte del parente, esclamò: «Vorrà dire che passerò il restante della mia vita a tradurre in tedesco gli scritti di Karl».
Per parlare di Dio, c’è la via dei mistici, ma anche questa è in salita, anzi qui i sentirneri neppure esistono.
C’è la via maestra della bibbia, una via alberata e splendida, che attraversa giardini in fiore, e fiori sono i «nomi» di Dio, i «luoghi» in cui trovare Dio e, soprattutto, l’esperienza unica che Cristo stesso fece di Dio.
C’è la via percorsa da Giovanni Paolo II, nella sua seconda enciclica Dives in misericordia (1980), a commento della parabola del «figlio prodigo» e delle parole rivolte da Gesù a Filippo: «Chi vede me vede il Padre».
Poiché – scrive Ireneo – «è invisibile il Padre del Figlio. Ma è visibile il Figlio del Padre», che è Gesù.

Igino Tubaldo