Noi stiamo con Noè

Disse Dio a Noè: «Questo è un mondo avvelenato da affogare».
E così fu. Poi Noè rigenerò la terra…
Al patriarca biblico hanno pensato alcuni giovani tecnici di Torino
di fronte ad un pianeta nuovamente inquinato,
condannato ad un altro diluvio. A meno che…

Da convegni nazionali e inteazionali emerge sempre di più la necessità di trovare con urgenza energie alternative. Esse sono necessarie per tutti, ma specialmente per i popoli disagiati nel sud del pianeta. È un dovere morale, non rinviabile, aiutare queste genti.
Chi ha trascorso un po’ di tempo in un paese del terzo mondo (ospite magari di qualche missionario) racconta, al suo rientro, come questa esperienza sia stata arricchente. Ma, a tale fine, bisogna lasciarsi catturare dall’atmosfera che si respira in quelle terre e vedere le cose da un punto di vista completamente nuovo, conferendo un valore diverso alla vita, al tempo, al denaro. È necessario liberarsi dai propri numerosi condizionamenti, imparare a giornire del poco che c’è e a condividerlo.
Si rileva, soprattutto, la grave situazione di povertà in cui vive, ad esempio, la grande maggioranza degli africani. Nel contempo, affascinano gli spazi immensi e la bellezza della natura, mentre si prova rabbia nel vedere come le potenziali ricchezze della terra non siano debitamente sfruttate. Spesso ci si ferma, impotenti, di fronte a realtà ritenute immutabili.
L’amicizia con i missionari della Consolata e la collaborazione con dei volontari hanno suscitato, in alcuni giovani amici di Torino, interrogativi profondi; hanno avvertito la necessità di trovare, pur nei loro limiti, delle valide soluzioni a qualche problema del nostro pianeta.
L’inquinamento dell’ambiente, ad esempio.

In molti paesi dell’Africa (e non solo) esiste una massa di persone impoverite anche dal progressivo inquinamento ambientale, dovuto anche allo sfruttamento indiscriminato del territorio. Per gli abitanti, già costretti ad un’esistenza precaria, si aggiungono altre difficoltà, dato il rapporto di forte dipendenza economica con l’ambiente. Allora diventa indispensabile favorie lo sviluppo privilegiando il reperimento di nuove forme d’energia.
A tale scopo, il suddetto gruppo di amici di Torino ha deciso di lavorare con impegno per offrire un aiuto positivo e una speranza concreta. Da qui è nata l’idea di fondare l’Associazione culturale e umanitaria «Noè», che svolge ricerche finalizzate alla valorizzazione dell’habitat nel sud del mondo, grazie a confronti d’idee e sperimentazioni di nuovi progetti.

Tra le iniziative dell’Associazione «Noè», un progetto è particolarmente significativo.
In breve: si tratta di effettuare un tour con mezzi di trasporto sperimentali ad energia alternativa che, partendo dall’università di Tolosa, attraversi l’Africa e raggiunga l’università di Kinshasa, nella repubblica democratica del Congo; da qui, costeggiando l’Africa orientale, rientrare a Torino dopo aver toccato città, villaggi sperduti e missioni tra le più bisognose.
Il viaggio si prefigge, come scopo primario, di fornire informazioni tali da favorire la presa di coscienza di uno dei più grandi mali del terzo millennio: l’inquinamento ambientale, prodotto da emissioni di gas nocivi.
Sovente, però, tale problema viene proposto in maniera non consona alla realtà, provocando disinteresse. Sono ormai numerosi i trattati che, confortati da inoppugnabili dati, mostrano a livello mondiale i disastri ambientali, tra i quali: il surriscaldamento della terra e il recente susseguirsi di sconvolgimenti meternorologici in ogni parte del pianeta, Italia inclusa.
Chiunque consideri l’ambiente la casa dell’uomo e un dono di Dio da salvaguardare anche per i propri figli e nipoti intuisce facilmente gli ideali del progetto di «Noè».
L’intento è quello di sfruttare il sapere e le tecnologie disponibili, al fine di rallentare (almeno) il processo d’inquinamento, destinato altrimenti ad un irreversibile incremento. «Noè», pertanto, intende convogliare subito gli sforzi là dove le condizioni sociopolitiche sono più vulnerabili e minore importanza viene attribuita al problema.
Il «testimone» di questa operazione sarà «una colonna di veicoli sperimentali», spinti da propulsori ad energia alternativa, cioè ad idrogeno.
Durante il viaggio verranno fotografate e documentate le varie situazioni di povertà, le realtà missionarie, le necessità energetiche delle popolazioni. Le informazioni raccolte potranno essere divulgate in tempo reale con un browser web e opportuni programmi televisivi.
Nel frattempo sarà possibile analizzare il territorio e i bisogni energetici più urgenti dei luoghi visitati, studiando così la possibilità di realizzare in loco sistemi alternativi, come centrali eoliche, solari od idriche.

L’Associazione «Noè», in sinergia con studi tecnici italiani, oltre alla campagna di sensibilizzazione, cornordinerà il progetto e ne curerà l’attuazione sino al collaudo finale. Inoltre, in stretta collaborazione con varie facoltà universitarie e alcuni missionari della Consolata, provvederà alla formazione di tecnici locali, al fine di dare «un valore aggiunto» agli sforzi profusi e garantire, soprattutto, che le opere durino nel tempo.
Il 29-30 settembre 2000 l’iniziativa è già stata presentata all’università di Parigi da Luigi Toscano, presidente dell’Associazione «Noè», su invito di Antonio Gioelli, rettore magnifico dell’università.
L’Assemblea universitaria, favorevole al progetto, ha delegato quale cornordinatore tecnico della progettazione l’ingegnere Massimiliano Longo, direttore generale del «Centro per le ricerche ed energie alternative» di Bruxelles.
L’elemento cardine del progetto sarà il motore ad idrogeno, brevettato negli anni ’70 dallo stesso ingegner Longo e riconosciuto come valido dal premio Nobel 1977 Giulio Natta, collaboratore scientifico dell’Università europea del lavoro di Bruxelles (Uet).

L’Associazione «Noè» si rivolge a quanti credono che si possa (anzi si debba) rispettare la terra e le risorse che il Creatore vi ha elargito, usandole non solo per i propri bisogni, ma anche con metodi di conservazione, onde garantire anche ai posteri un mondo più vivibile e «a misura d’uomo».
«Noè» sollecita tutti ad unire al più presto le forze, per ingaggiare una «crociata» contro l’inquinamento. Purtroppo sono brutte le notizie giunte dall’Aja, durante la Conferenza mondiale sui mutamenti climatici (24-26 novembre 2000): Stati Uniti ed Europa hanno penosamente litigato, mancando l’accordo per ridurre i gas che producono l’effetto serra.
D’altro canto, non è più possibile ascoltare le notizie allarmanti dei mass media e pensare: «Sono problemi troppo grandi per noi. Non possiamo farci nulla!». Al contrario, ognuno deve assumersi la sua responsabilità e dire «basta!» per mutare politica.
È risaputo che una fresca, limpida e pura sorgente d’acqua di montagna è costituita da tante piccole gocce.

Luigi Toscano




Nell’occhio dei cicloni

Gioviale e sincero, cuore grande e sensibile, la vita di padre Calandri fu tutta in salita, costellata di difficoltà
e incomprensioni, senza mai arrendersi. Definito pioniere, eroe, artista, antropologo…
fu educatore, difensore e padre di migliaia di africani.

Da grande voleva fare il «bandito», diceva ai compagni delle elementari. Un palmo più alto dei coetanei, il collo oltremodo lungo, nel seminario di Giaveno (TO) lo chiamavano «cammello». Il nomignolo non gli dispiaceva; anzi, aumentava i suoi sogni di avventure per deserti e savane sconfinate. Voleva essere prete; ma non intisichire tra le mura di una canonica. «Come conciliare sogni e vocazione? – racconterà più tardi -. Eccoti saltar fuori la chiamata alla missione».
SOGNANDO LA MISSIONE
A 18 anni (era nato nel 1893 a Moretta, Cuneo), Pietro Calandri ottenne dal vescovo il permesso di entrare tra i missionari della Consolata. Il 3 marzo 1917 fu ordinato prete. Non scordò mai quel giorno, anche per un curioso extra rituale: dubitando di avergli imposto le mani sul capo, alla fine dell’ordinazione il vescovo ripeté tale cerimonia. «Mai avuto dubbi sul mio sacerdozio: sono stato ordinato due volte» raccontava spesso.
Per realizzare i suoi sogni bisognò aspettare il ritorno dei missionari mobilitati come cappellani militari nella guerra mondiale. Padre Pietro doveva dare una mano nei vari servizi della casa madre: formazione degli studenti e insegnamento di materie pratiche: fotografia, pittura, arti e mestieri.
Come ogni artista che si rispetti, era soggetto a madoali distrazioni: iniziare la messa senza paramenti; andare in tram con uova fresche in tasca e conseguente frittata. E rideva volentieri di tali disavventure.
Nel 1920 Calandri raggiunse il Kenya. Si buttò nel lavoro con tutto il suo entusiasmo. Ma ben presto si accorse che le savane e foreste dei sogni giovanili erano popolate da ingiustizie e soprusi da fargli ribollire il sangue, fino a definire la missione di Kanjo (ora Turu) «selvaggia e crudele» (vedi riquadro).
Nel 1925 fu scelto per formare il primo gruppo di missionari della Consolata destinati al Mozambico.
ORDINI E CONTRORDINI
Secondo gli accordi presi con il prelato del Mozambico, dom Rafael Assunção, il drappello era destinato a Miruru, missione ai confini con lo Zimbabwe, fondata dai gesuiti e da vari anni senza preti. Ma a Torino i superiori avevano messo gli occhi sul Niassa, dove si poteva cominciare da zero, poiché nessun missionario cattolico vi aveva ancora messo piede.
Fu così che padre Calandri, con in tasca l’ordine segreto di andare nel Niassa, si staccò dal gruppo di Miruru e, insieme a padre Amiotti, raggiunse Mandimba, ai confini col Nyassaland (oggi Malawi). Nel frattempo i superiori avrebbero richiesto i permessi necessari alle autorità ecclesiastiche e civili . Di fronte al fatto compiuto, pensavano, sarebbe stato più facile ottenerli.
I due missionari cominciarono subito la costruzione di un capannone, una cappellina di canne di bambù e una casetta per accogliere una dozzina di orfanelli, figli di europei, impiegati del governo inglese in Malawi.
Secondo le istruzioni dei superiori, padre Calandri fece una bella relazione sulla situazione e la inviò a dom Rafael, dichiarandosi disponibile all’evangelizzazione del Niassa. La risposta giunse come una mazzata: «Uscire dal territorio entro un mese, dopo il quale scatterà la sospensione a divinis». Il che significa: proibizione di amministrare qualsiasi sacramento.
Da Torino arrivò l’ordine di restare, perché tutto si sarebbe aggiustato. Pure il vicario apostolico del Nyassaland, il monfortano francese mons. Auneau, consigliò di rimanere. I due missionari celebravano la messa di nascosto e ogni settimana passavano la frontiera per confessarsi e assolversi a vicenda nel territorio del vescovo amico. Per non dare nell’occhio degli ispettori della colonia portoghese, vari amici consigliarono loro di tagliarsi la barba e spacciarsi per coltivatori di tabacco.
Padre Pietro si lasciò un paio di baffetti e, oltre a coltivare tabacco, impiegò quel «tempo d’inedia» per esplorare il Niassa, studiare i posti più idonei per le future missioni, incontrare la gente e imparare la lingua ciyao. Scriveva ogni nuova parola su un pezzetto di carta, che infilzava in un ferro e, tornato a casa, ordinava i foglietti in ordine alfabetico. Ne risulteranno 13 volumi, confluiti nel dizionario italiano-ciyao, poi in quello portoghese-ciyao.
Ma per il cuore sensibile del Calandri fu «una situazione così terribile», da farlo piangere giorno e notte.
«TEGOLE» IN TESTA

Dopo due anni di «purgatorio», il 1° maggio 1928 arrivò un telegramma dal Nyassaland: «Concessa giurisdizione. Cominciare i lavori». Calandri era felicissimo, ma a tasche vuote: gli ultimi due scellini li aveva dati al fattorino che aveva recapitato la bella notizia. Un amico, salvato dal padre da una febbre micidiale con un drammatico bagno freddo, gli infilò in tasca 500 scudi portoghesi, con cui organizzò subito una carovana per raggiungere Massangulo, 60 km a nord-est di Mandimba.
Gli orfanelli più grandi a piedi, gli altri in spalle ai portatori, a passo di lumaca, giunsero a destinazione il 20 maggio 1928; furono piantate le tende e si cominciò subito la fabbricazione di tegole e mattoni.
Passò un mese e un’altra «tegola» si abbatté sulla testa di Calandri: il governatore del Niassa ritirava ogni permesso, finché dom Rafael non avesse comunicato anche a lui l’autorizzazione ecclesiastica consegnata ai missionari. Era una ripicca contro il prelato; ma per aggiustare la faccenda il padre dovette correre a Porto Amelia: 1.600 km di andata e ritorno, con mezzi sgangherati, per sentirneri da capre.
Altre minacce pesavano sulla missione: ladri, leoni, ostilità dei capi musulmani. Contro i leoni aveva il fucile e una mira infallibile, tanto da essere chiamato in tutti i villaggi per liberare la gente dalle bestie feroci. Più dura fu con i musulmani: prima cercarono di depredarlo, poi gli ordirono trabocchetti per eliminarlo.
«La lotta è il mio pane quotidiano» diceva spesso. I lavori continuarono frenetici per costruire le case dei padri, bambini e suore prima della stagione delle piogge. Alla fine dello stesso anno, infatti, arrivarono due padri, tre fratelli e otto suore.
Col nuovo personale fu aperta la scuola; si cominciò la visita sistematica ai villaggi, a curare gli ammalati nella missione e a domicilio. In poco tempo la situazione fu rovesciata come un calzino: la gente nutriva grande simpatia per i missionari; perfino i capi musulmani erano affascinati dalla carità delle suore.
Nel giugno 1930 padre Calandri fu chiamato a Beira dal delegato apostolico mons. Hinsley che, nervoso e imbarazzato, gli ordinava di chiudere immediatamente la missione. «Mi sentii cadere dalle nuvole – racconta il missionario -. Fatiche andate in fumo. Orfani ributtati sulla strada. Scoppiai in un pianto dirotto e irrefrenabile».
Per calmarlo il delegato gli chiese di Massangulo; sentendolo parlare di scuole e collegi per bambini e bambine, orfanotrofio per meticci, monsignore tirò un sospiro ed esclamò: «Se è così, è tutt’altra cosa. Vada pure avanti con la costruzione dei collegi; io le manderò i mezzi. Bisogna dare molta importanza a scuole e collegi».
BURRASCA… MAIUSCOLA
Alla fine del 1930 dom Rafael arrivò a Massangulo in visita pastorale. Padre Calandri era a caccia per procurare un po’ di carne per fare festa al visitatore. Il prelato ne approfittò per domandare agli alunni i nomi della capitale d’Italia, del re e primo ministro. I ragazzi cascavano dalle nuvole. Il prelato sospettava che i missionari fossero la «lunga mano» di Mussolini.
A pranzo padre Calandri presentò al vescovo i progetti per aprire altre missioni: una al lago Niassa e un’altra a sud, a Mepanhira, dove un laico convertito in Malawi aveva costruito una bella comunità cristiana e faceva battezzare i catecumeni oltre confine. La risposta fu glaciale: «Nessuno ti incarica delle anime di Mepanhira».
La sera, a quattrocchi, dom Rafael scaricò tutta la bile che aveva in corpo. Rivangò la disobbedienza del 1926 e accusò il padre di non aver creduto alla sua buona fede. Accusò i superiori di Torino di collaborare col fascismo, perché avevano mandato in Mozambico troppo personale; se la prese con vari missionari, rei di averlo denigrato. Padre Pietro pianse tutta la notte. Ricorderà quel fatto come «il giorno di burrasca con la B maiuscola».
Prima di partire, dom Rafael scrisse sul registro dei visitatori una mezza pagina di lodi sperticate per il lavoro dei missionari e missionarie.
In fondo il prelato era d’animo buono e nutrì fino alla morte grande stima per i missionari della Consolata. Ma in quegli anni si trovava tra l’incudine e il martello. Unico vescovo del Mozambico, aveva bisogno di personale per evangelizzare immense regioni che non avevano mai visto un prete cattolico. Pio XI aveva definito il Mozambico «arretrato di 300 anni; macchia nera nella storia delle missioni». Al tempo stesso egli non voleva apparire troppo facilone agli occhi del dittatore portoghese Salazar, sospettoso verso tutti i missionari stranieri, specie se italiani.
Da parte sua, padre Calandri era fatto così: per difendere giustizia e verità non guardava in faccia nessuno; a volte rispondeva senza peli sulla lingua; altre volte reagiva col pianto. Ma non si arrendeva mai, specie quando la gente più indifesa gli chiedeva aiuto contro le prepotenze dei capi e capetti locali: se non riusciva a farli ragionare, egli ricorreva ad autorità sempre più alte, fino a ottenere giustizia. Si procurava qualche nemico; ma la gente lo chiamava bwana cilima (signore forte).
Anche le autorità civili lo ammiravano. Il dottor Oliveira, che visitò più volte Massangulo, descrisse così padre Calandri: «Un misto di eroe e artista, che incarna in sé tutta l’anima di un romano. Lavoratore instancabile, tutto prevede, a tutto arriva. Ha sempre una soluzione per le maggiori difficoltà, che sono enormi in un luogo così lontano dai mezzi civilizzati e con poco denaro».
ESILIO BRASILIANO
Nonostante la diminuzione del personale, padre Calandri riuscì a terminare i lavori programmati: collegi e scuole per oltre 200 alunni delle elementari; avvio dei corsi di arti e mestieri; elettricità in tutta la missione; trapianto di migliaia di piante coltivate nei vivai; frutteto e orto, campi di caffè e grano; scuole-cappelle in molti villaggi, affidate a maestri formati alla missione; nascita dei primi nuclei di famiglie cristiane.
Nell’agosto 1936 da Torino arrivarono nuovi rinforzi con una lettera del superiore generale, mons. Gaudenzio Barlassina, in cui era scritto: «Conveniente a padre Calandri andare a riposarsi in Italia».
La vacanza si trasformò presto in dramma: il superiore generale, senza tanti preamboli, lo destinò al Brasile per pitturare una grande chiesa. Calandri rimase impietrito; non riuscì ad aprire bocca per chiedere spiegazioni. Ma intuiva le ragioni: per risolvere il pasticcio del Mozambico, Roma aveva sostituito dom Rafael con dom Teodosio de Gouveia; Torino mandava padre Calandri in capo al mondo. «È l’obbedienza più costosa richiestami nella mia vita religiosa» racconterà più tardi.
Padre Calandri raggiunse il Brasile nel maggio 1937 e cominciò a pitturare la chiesa di Santa Teresina a São Manuel. Al tempo stesso si dedicava anima e corpo al lavoro pastorale, attirandosi la benevolenza della gente, dei poveri soprattutto. Esteamente era entusiasta e ottimista, ma quando era solo ritornava a galla la domanda: «Cosa ho fatto di male?». Sentiva quella destinazione come un castigo immeritato.
A moltiplicare i crucci contribuiva una certa telepatia; i presentimenti venivano confermati dalle lettere di alcuni orfani: ragazze e ragazzi, ormai cresciuti, erano stati allontanati dalla missione e mandati allo sbaraglio. «Tali notizie sono spine acute che mi fanno tanto male – scriveva. – I superiori non potevano trovare un supplizio più grande per farmi scontare le loro vendette personali».
Quattro anni di lotta interiore lo fiaccarono fisicamente, fino ad ammalarsi e cadere in una depressione spirituale, paragonabile alla notte oscura di cui parlano i mistici: si sentiva abbandonato dal Cuore di Gesù, di cui era devotissimo; cominciò a dubitare della sua vocazione; pensava di ritirarsi in un ordine religioso di aspre penitenze «per dimenticare tutti e tutto il passato burrascoso».
A salvarlo dalla disperazione contribuì l’amicizia dei confratelli, Fiorina e Bisio soprattutto. Questi scrisse ai superiori in Mozambico e a Torino perché intervenissero con un gesto di umanità, una lettera di stima e comprensione, per liberare Calandri dall’«agonia e terribile oppressione» che lo stavano consumando.
RICOMINCIA LA LOTTA
Nel 1940 arrivò il permesso di tornare a Massangulo. Un mese dopo Calandri era a Lourenço Marques. Dom Teodosio lo accolse con affetto: «Questo abbraccio serva, caro padre, a riparare quanto le ha fatto il mio predecessore».
Intanto nel Niassa erano sorte altre missioni: Mepanhira, Maua, Mitucué. Massangulo, però, navigava in cattive acque: orti, piantagioni e campi erano divorati dalle erbacce; gli orfani allontanati gettavano discredito sulla missione. Padre Calandri riprese la direzione della barca, ma la barra non rispondeva ai suoi comandi, ma a quelli del superiore provinciale, Domenico Ferrero. Era costui una tempra di missionario pari a Calandri, ma di mentalità totalmente differente. Ne scaturirono scontri e arrabbiature indescrivibili.
Finalmente il superiore provinciale ebbe la bella idea (o l’ordine) di stabilirsi a Mitucué. Padre Calandri rimase a Massangulo con i suoi collaboratori, lavorando in armonia e frateità. Massangulo cresceva fino ad accogliere oltre 500 alunni.
NUOVO TORNADO
Alla fine di maggio 1948 il vescovo di Nampula, dom Teofilo de Andrade, ricevette da Torino un telegramma firmato dal superiore generale: «Imbarcare padre Calandri sul primo bastimento. Se ricusa, applicare sanzioni canoniche». Il vescovo girò il messaggio all’interessato che, appena lesse la missiva stramazzò a terra come un sacco di patate. In calce, però, il vescovo aveva scritto: «Restare fino a nuovo ordine; inviterò il superiore a visitare le missioni del Niassa; dopo si deciderà».
«Che cosa ho fatto per trattarmi così?» si domandava il padre. A parte il parlare a ruota libera per difendere giustizia e verità, non si sentiva colpevole di nulla. Da tempo, però, circolavano critiche poco benevoli: la scelta del posto in cui era stata costruita la missione era in una zona totalmente musulmana; perdeva tempo con gli orfani meticci, da qualche testa fasciata definiti «figli del peccato»; la sua ospitalità aveva trasformato la missione in un albergo… Critiche che, a distanza e senza vedere la realtà, diventavano macigni.
Altri confratelli, però, lo ammiravano, felici di lavorare con lui. Le autorità civili e religiose lo portavano in palmo di mano. Un giorno dom Teofilo non esitò a dire in faccia al superiore: «Se i missionari della Consolata sono conosciuti e rispettati in Mozambico lo si deve a padre Calandri».
Nei primi di dicembre 1948 arrivò il superiore generale: era la prima visita canonica alle missioni del Mozambico. E fu «una bufera con tuoni e lampi». Chiamato a Mitucué, padre Calandri si sentì definire «testardo, prepotente, dispotico». Per ritornare nella sua missione gli fu chiesto di firmare un documento in cui, tra i vari punti, figurava l’ammissione di aver disubbidito all’ordine di tornare in Italia.
Calandri spiegò che l’ordine era diretto al vescovo: sarebbe toccato a lui spedirlo in Italia. Rifatto il documento e tolta la condizione incriminata, il padre era talmente stufo che firmò la copia originaria. Il giallo diventò disperazione: padre Pietro era deciso a recarsi a Nampula e chiedere al vescovo di accettarlo come prete diocesano. Il suo autista, però, conoscendo il padre e visto come si erano messe le cose, era scappato nella foresta con le chiavi dell’auto.
Il giorno seguente mons. Barlassina raggiunse Massangulo, accolto con addobbi, luci, canti e danze. Rimase sbalordito e non finiva di ripetere: «Che bello! Meraviglioso! Che bei viali! Ma questa è una città…». Passando in rassegna le opere della missione continuava: «Non sapevo che esistesse tutto questo ben di Dio». E quando padre Calandri lo portò a visitare alcune famiglie di mulatti, raccontando la storia di ciascuna, il superiore concluse: «In tutto il tempo passato in Abissinia non ho mai visto famiglie così bene educate». E per il resto della vita continuò a definire Massangulo «una meraviglia».
E FU BONACCIA FINALMENTE
Padre Calandri continuò a lavorare con il solito entusiasmo, determinazione e cuore rappacificato. Finalmente poteva realizzare sogni coltivati da tanti anni: la missione sul lago Niassa, a Cobué, posto strategico e, a quei tempi, quasi inaccessibile; un seminario «catacombale», poiché il nuovo vescovo di Nampula, dom Manuel de Medeiros, non era d’accordo; soprattutto la costruzione di una bella chiesa alla Consolata. «Cobué mi ha tolto dieci anni di vita» dirà più tardi. Nella costruzione della chiesa investì tutto il suo talento di architetto, artista e pittore: fu subito definita «la cattedrale del Niassa».
Intanto continuava a battagliare contro le ingiustizie, prima con i produttori di cotone, che sfruttavano la gente in modo vergognoso; poi con le autorità coloniali che, scoppiata la guerriglia indipendentista, vedeva terroristi dappertutto e molti innocenti venivano uccisi o torturati.
Ma gli acciacchi dell’età si facevano sentire. Diabete e una ferita al piede lo convinsero a tirare i remi in barca: nel 1962 chiese e ottenne di essere sostituito dalla responsabilità di superiore. Cominciò a passare ore e ore in contemplazione sia nella sua bella chiesa, sia di fronte alle meraviglie del Niassa, trasfigurandole nelle sue pitture.
Furono anche gli anni della gloria: il presidente del Portogallo in persona, Amerigo Tomas, volle appuntargli al petto la medaglia dell’Ordine di Cristo; dal governo italiano fu nominato Cavaliere della Repubblica; il Vaticano gli conferì la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice. «Brutto segno – commentava -. Ti danno le medaglie quando stai per morire».
Nel 1967 celebrò il 50° anniversario di sacerdozio. Fu l’ultimo trionfo. Tre mesi dopo cadeva ammalato e il 12 agosto moriva nell’ospedale di Nampula. «Voglio che la mia anima scenda dal cielo a prendere il mio corpo a Massangulo» disse prima di morire. Fu sepolto nella sua «cattedrale». E lì riposa ancora, venerato come un padre da tutta la popolazione del Niassa, cristiani e musulmani.

Benedetto Bellesi




Ricordati del grembiule

Un giornocambia mestiere.
Un mestiere che lo «costringe» anche a vivere faticosamentecon africani e latinoamericani.
È la scelta di Pino, di San Vito dei Normanni (BR). Prete da pochi mesi, si appresta a raggiungere il Congo in guerra.

Negli anni ’84-85 infuriava la siccità in Africa, specialmente in Etiopia. I mezzi di comunicazione riportavano scene di morte. Ed io volevo fare qualcosa.
Visitai alcune associazioni di volontariato, offrendo la mia disponibilità per qualche mese d’impegno. Ma tutto era complicato, perché ero del sud, mentre quasi tutti gli organismi di volontariato operavano nel nord. Non potevo partecipare agli incontri di formazione.
Un giorno, a Lourdes, conobbi don Pietro De Punzio, che tutti gli anni andava in Africa per un’esperienza missionaria. «Pino – disse -, perché non vieni con me?». Ci andai: precisamente in Kenya, dai missionari della Consolata a Wamba. Non feci un granché, però vidi la vita tirata della gente e, soprattutto, compresi che non bastava un mese in Africa per essere missionario.
Intanto facevo il cuoco. Però l’esperienza di Wamba mi spinse a ricontattare in Italia i missionari della Consolata. «Posso lavorare con voi due anni?» chiesi a padre Giano. Poi lo raggiunsi a Bedizzole (BS). Qui capii che neppure due anni sono sufficienti per essere missionari. «Bisogna scegliere la missione ad vitam» disse padre Giano.
– Ad vitam! Che significa?
– È latino, ragazzo mio.
– Ma io sono cuoco.
– Un po’ di latino dovrai studiarlo, se vorrai essere prete-missionario.

Lasciai i fornelli
e, a 26 anni, ritornai sui banchi di scuola. Capii presto che il missionario vero offre agli altri tutta la propria vita, per sempre. Ecco cosa vuol dire «ad vitam».
Conseguii la maturità magistrale a Bedizzole, frequentai un biennio di filosofia a Torino e, dopo il noviziato a Vittorio Veneto, feci voto di povertà, castità e obbedienza. Con tale scelta, canonicamente ero missionario della Consolata. Cercai di spiegarlo anche a mamma Grazia, già vedova da 15 anni dopo la morte del papà per malattia.
– Pino, che significa missionario canonicamente?
– Significa che ora sono nella famiglia dei missionari della Consolata.
– E partirai subito per la missione?
– Non subito. Prima devo studiare teologia, per essere prete.
– Figlio mio, hai 32 anni. Chi troppo studia matto diventa.
Era la prima volta che la mamma si opponeva ai miei progetti. Ero l’ultimo di quattro fratelli e la mamma ha sempre avuto un debole per il più «piccolo», senza far torto agli altri figli già sposati. Mi concedeva libertà, che gestivo «facendo le stagioni» come cuoco in Puglia.
Ora, però, le costava perdermi. Il ragionamento della nuova famiglia non la convinceva. Inoltre, abituata a vivere con me e non più giovane, temeva la vecchiaia… Ma, dopo tante lacrime, sospirò: «Sia fatta la volontà di Dio». Lo mormorò in dialetto, che non so scrivere…
Studiai teologia a Roma in un seminario internazionale. Eravamo in 24 di 11 paesi. Nel primo anno ero l’unico italiano. Questo comportò delle difficoltà. Per esempio: accettare gli altri come sono e farsi accettare come si è. La diversità dell’altro, specie se di cultura diversa, fa paura. Ma non si deve accettarlo con idealismo, bensì con realismo, soprattutto negli aspetti discutibili. Discutibili siamo tutti.
Inoltre in seminario è facile farsi il nido. Al mattino si va all’università, poi ognuno studia in camera sua. Sì, c’è la preghiera comunitaria. Però il tempo per vivere insieme non è molto. Questo può favorire l’individualismo, che è pericoloso per un missionario.
Dietro a queste parole, c’è una verità scomoda, di fronte alla quale talora ci si tira indietro… Anch’io mi sono detto: «Lascia perdere, Pino. Ritorna a fare il cuoco».
In quel momento di crisi, il mio formatore mi ha chiesto a bruciapelo: «Com’è la tua preghiera?». Allora ho capito che, prima di riindossare il berretto dello chef, dovevo fare «qualcos’altro».

Divenuto prete
il 7 ottobre 2000, oggi sto studiando francese. Nel mio orizzonte c’è il Congo di Mobutu e Kabila, ma anche degli ugandesi e rwandesi che gli hanno dichiarato guerra. Una guerra che in due anni circa ha mietuto quasi tre milioni di morti. Volevo una missione «forte». Eccomi servito, a 37 anni, dopo 11 di attesa.
Alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale, ho ricevuto un regalo significativo: un grembiule. Mi ricorda il mio passato di cuoco e cameriere. Ho trascorso anni a servire nei ristoranti. Oggi inizio un servizio diverso con un nuovo grembiule.

Pino Galeone




Il silenzio è complice del male

Una «nuova colonizzazione» per l’Africa? Nonscherziamo, per favore!
Il problema del continente africano e del mondo intero è un sistema economico dove detta legge una «trinità satanica», formata da «Fondo monetario
internazionale», «Banca mondiale» e «Organizzazione mondiale del commercio». Un mondo unificato sotto le insegne dell’«impero del denaro» (il cui cuore pulsante è la speculazione finanziaria), dove la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa. Parole di fuoco (e, a volte, anche discutibili) quelle di Alex Zanotelli, missionario scomodo.

LA «TRINITÀ SATANICA»

È riduttivo dire che l’Africa è in pasto alle multinazionali. Non si tratta solo di questo. La cosa è molto più sofisticata. Le multinazionali, essendo molto intelligenti, usano le strutture inteazionali per fare la loro politica. In particolare, usano il «Fondo monetario», la «Banca mondiale» e l’«Organizzazione mondiale del commercio» (io li chiamo la «trinità satanica» dell’impero del denaro) per portare avanti i loro interessi.
Ricordate il Mai, l’«accordo multilaterale sugli investimenti», che (per ora) siamo riusciti a bloccare? Esso non è altro che la politica delle multinazionali per entrare negli stati e prendersi i mercati senza colpo ferire.
Il Mai è stato poi tradotto e affinato dagli Stati Uniti nel «Nafta for Africa» («African Growth and Opportunity Act», approvato dal congresso nordamericano lo scorso maggio).
Qual è la filosofia che sottende? In pratica la seguente: diminuire il potere degli stati, perché «meno stato c’è, meglio si va»; abbattere tutte le barriere, affinché i potentati economici siano facilitati ad investire e comperare ovunque. Una multinazionale può comperare quello che vuole.
Guardate quello che sta avvenendo in Mozambico, dove le multinazionali (magari attraverso i boeri del Sudafrica) si spostano là per acquistare migliaia di ettari di terreno. Lo comperano in chiave agricola, con un occhio di riguardo per il sottosuolo.
La politica è quella di favorire una agricoltura da esportazione e non per la sussistenza. Il Kenya produce tè e caffè, ma il caffè buono lo potete bere solo in Italia e il tè buono solo a Londra. I kenyiani o non lo bevono o hanno il peggiore. Questo è il tipo di logica.
Pensate al Congo, con una guerra voluta, ma voluta fino in fondo e andrà avanti così. Perché meno stato c’è in Congo, meglio le multinazionali funzionano. Le multinazionali dell’oro, dei diamanti, del cobalto hanno i loro eserciti.
Pensate al ruolo del Sudafrica (e qui Mandela si è fatto… fregare). Nella guerra del Congo sono coinvolte 11 nazioni, una vera guerra mondiale o continentale almeno. Ho visto le statistiche: si parla di 1 milioni e 700 mila morti in 22 mesi di guerra. Ma sui nostri giornali e le nostre televisioni non se ne parla…
Ora sto a guardare cosa farà la politica nordamericana nel Sudan, perché, da quanto mi dicono, i giacimenti di petrolio sudanesi sono i più grandi del mondo. Si dice che gli Stati Uniti potrebbero fare a meno del petrolio mediorientale se il petrolio del Sud Sudan andasse a Mombasa…
Nel 1998 Clinton fece un lungo viaggio africano proprio per promuovere la filosofia americana del «trade, not aid» (commercio, non aiuto). Chiarissimamente per favorire gli Stati Uniti (utilizzando la potenza amica e subalterna del Sudafrica) nella conquista di un grande mercato potenziale di 700 milioni di consumatori! È questo in fondo quello che sta dietro a tutto. Ormai i mercati sono saturi. Non sappiamo più a chi vendere, continuiamo a produrre, ma alla fine dobbiamo domandarci per chi produrre. L’Africa è un mercato nuovo, perché non aprirlo?, si sono detti gli americani. Sapete che, durante il suo ultimo viaggio in Nigeria, Clinton aveva con sé 1.000 uomini d’affari statunitensi?
Questo è lo scopo essenziale. Questa legislazione permetterà ai presidenti americani di stipulare accordi bilaterali con i presidenti degli stati che risponderanno ai requisiti di «elegibility». È chiaro che le nazioni africane desiderano moltissimo entrare nell’accordo. Perché vedono arrivare i soldi americani. È una maniera per salvarsi dal suicidio collettivo in cui l’Africa sta sprofondando.
E ora che gli Stati Uniti si stanno preparando per un altro grande trattato: quello con la Cina. Quello con l’Africa è soltanto l’antipasto, dopo c’è la Cina. Con il Nafta per l’Africa gli Stati Uniti stanno entrando (ma entrando alla brutta o alla grande) nel continente.
Dal Nafta per l’Africa sta emergendo chiaramente che la politica americana è di un imperialismo incredibile. Mi fa un male boia ammettere questo, perché gli Stati Uniti partirono (solo 200 anni fa) ribellandosi contro il colonialismo britannico. Tredici repubbliche che volevano la loro dignità e che sognavano un mondo alternativo. Guardate in 200 anni come si può cambiare.
PRIVATIZZARE… LA MISERIA
Altrettanto importante è la logica delle privatizzazioni. Osservate l’insistenza sul privatizzare l’educazione, la sanità… Sapete cosa vuol dire questo per l’Africa? Cosa significa per 300 milioni di persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno? Significa privatizzare la miseria. Anche in Italia questo tipo di politica la pagano i poveri. Negli Stati Uniti oggi siamo arrivati a 40 milioni di poveri. Mai il paese più potente del mondo era arrivato ad avere un tale numero di poveri…
Io non ho bisogno delle statistiche per capire la sofferenza della gente. Basta che guardi Korogocho e il Kenya. La scuola è un macello: i ragazzini non riescono più ad entrarvi, perché i genitori non hanno soldi per pagarla. E mi riferisco alla scuola pubblica! Fra qualche anno a Nairobi ci sarà il 50 per cento di ragazzi che non potranno entrare in prima elementare. Sapete cosa vuol dire il 50 per cento in una città di 4 milioni di abitanti? È una bomba! Ecco il risultato delle privatizzazioni.
Vedo la sofferenza della gente che non può più andare a curarsi all’ospedale, perché non ci sono soldi. Vedo sempre più gente che abbandona i cadaveri al governo o che cerca di seppellirli di nascosto…
Una volta vidi un uomo disperato, perché gli era morto il bambino. Questo padre era andato al fiume per cercare di seppellire il figlio, ma la gente lo aveva notato. Da tre giorni teneva il bambino morto in casa, perché non aveva i soldi per seppellirlo. Alla fine, l’uomo chiese una cosa soltanto: essere aiutato per tornare al suo villaggio, dove la sepoltura gli sarebbe costata molto meno. Pose il corpicino in un sacco e con esso si mise in viaggio.
Questi sono i drammi quotidiani che viviamo in Africa.
Lo stesso Fondo monetario internazionale dice che 1 su 5 bambini in Africa muore prima dell’età di 5 anni. Il 50 per cento degli africani vive sotto la linea della povertà assoluta e il 40 per cento con meno di un dollaro al giorno. L’interesse sul debito assorbe già oggi l’80 per cento di tutto quello che le nazioni africane ottengono vendendo i loro prodotti sul mercato. Il 40 per cento degli africani soffre di malnutrizione e di fame; oltre 42 milioni di bambini non riescono ad entrare in prima elementare. L’Africa è il solo continente al mondo dove l’immatricolazione nelle scuole è in declino, è l’unico continente dove l’educazione perde di qualità perché non ci sono più soldi per investire.
Quando avete una situazione economica del genere e fate passare una legislazione come quella del Nafta per l’Africa, io non ho dubbi nel dire che si tratta di un genocidio pianificato.
Però, sento gente come Indro Montanelli e Sergio Romano, ma anche padre Piero Gheddo, che invocano una nuova colonizzazione per l’Africa. Fare affermazioni di questo tipo è scandaloso, dopo tutto quello che abbiamo fatto a quel continente.
LA VERGOGNA DELLE ARMI ITALIANE
In Italia, a tutte le manifestazioni cui partecipo, continuo a ripetere: ma voi sapete da dove vengono molte delle armi (soprattutto le cosiddette «armi leggere») delle guerre africane? Dal nostro paese. Però, un silenzio incredibile è calato su questo problema. È scandaloso che si vada avanti a spendere quello che spendiamo in armi, a produrre quello che produciamo in armi.
L’altro giorno ero a Quarrata (Pt) con il capogruppo di rifondazione della Camera, Giordano. Questi mi ha detto: «Alex, hai saputo le ultime novità?» No, dico, vengo da Korogocho e le ultime novità non le so. Cosa c’è? «L’Italia ha appena comperato l’Eurofighter, un aereo da guerra del costo di 120 miliardi. E ne ha ordinati 100».
È possibile che debba venire un imbecille da Korogocho per ricordarvi questo? Questo è un fatto di una gravità estrema. Non so perché Pax Christi non protesti immediatamente. Non si trovano soldi per le scuole, per la sanità e li trovano per 100 aerei militari. Ma per fae che cosa? Domandatevelo.
Voi sapete tutte le armi che si producono in questo paese? Ma è possibile che in Parlamento dorma ancora la norma sulle armi leggere? C’è una proposta per mettere al bando la loro produzione e l’export. Ma la legge non va avanti.
Però quello che più mi preoccupa è il vostro silenzio. Quando sento queste cose io mi sento male e mi domando perché nessuno protesti. Sulle armi vi prego di tornare agli anni Ottanta; allora c’era molta più vivacità in questo paese, c’era molto più senso della lotta.
Ronald Reagan (un presidente che io metto a fianco di Stalin, per tutti i massacri che, coscientemente, ha perpetrato nel Centro America) per primo parlò di guerre stellari. Poi però rinunciò a quel folle progetto. È concepibile che ora se ne torni a parlare? Può darsi che Gore abbia qualche idea più liberale di Bush, ma alla fine chiunque vinca deve fare quello che la logica del mercato richiede. Altrimenti non vanno avanti.
NO AL «DIO» DEL SISTEMA
Davanti a noi non c’è soltanto l’Africa, ma è l’intero mondo che è minacciato, gravissimamente minacciato di morte. Tutti noi siamo minacciati. Questo è un sistema che crea morte a tutti i livelli.
L’Africa è emblematica come continente e su di essa scende sempre il silenzio e il non parlarne accresce ancora di più l’impressione. L’Africa è un paradigma dove impegnarsi.
Io ho come riferimento la tradizione profonda della bibbia e del giubileo. Il quale, per favore, non è roba da pellegrinaggio, soprattutto in questo tipo di società. Sono tutte cose che facciamo, ma il giubileo biblico è un’altra cosa. Non lo possiamo dimenticare. Il giubileo biblico è «il sogno di Dio».
Il problema di oggi non è l’ateismo. Per me l’ateismo è il primo passo verso la fede. Quando abbiamo ridotto Dio al dio del sistema, al dio degli Stati Uniti, al dio di questa società, l’unica maniera per riscoprire la fede è l’ateismo perché devi sbarazzarti di «questo» dio.
Il vero problema è il materialismo quotidiano, l’idolatria. Anche noi come chiesa abbiamo adottato tutti gli idoli di questa società dal massimo profitto: soldi, successo e via di questo passo.
Fare giubileo vuol dire ritornare al «sogno di Dio», legare economia e vangelo. Un gesuita inglese dice: noi leggiamo il vangelo come se non avessimo soldi in tasca e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del vangelo. E questa è la nostra realtà. Ecco perché siamo così integrati, così parte del sistema. Il giubileo è una cosa seria, è ritornare all’ideale che ci può essere una economia di uguaglianza dove i beni di questo pianeta servano a tutta la gente del mondo. Significa ritornare a una politica di giustizia, perché solo questa permetterà una economia di uguaglianza. Significa ritornare ad una esperienza di Dio, dove Dio è sentito come il Dio di schiavi, oppressi, marginalizzati, forestieri, immigrati. Di tutta la gente, insomma.
LA BOMBA DEI POVERI
Io dico a tutti di svegliarsi, perché l’altra bomba atomica è proprio quella dei poveri. Può scoppiare in qualsiasi momento. E, se scoppia, sorrideremo sul macello del Rwanda.

IL CAMMINO DI LILLIPUT

Oltre mille persone si sono ritrovate nel primo incontro nazionale della «Rete di Lilliput». Questa è la dichiarazione finale preparata dal Tavolo intercampagne e letta da Alex Zanotelli.

Marina di Massa, 6-7-8 ottobre 2000.

Nel momento in cui le leggi del profitto pretendono di dominare ogni ambito del vivere umano distruggendo la base naturale su cui si fonda la vita sul Pianeta e la politica è incapace di contrastare lo strapotere dell’economia dominante, noi oltre mille tra semplici cittadini, associazioni e gruppi, riuniti a Marina di Massa per il primo incontro della Rete di Lilliput, rivendichiamo il diritto di riappropriarci della facoltà di decidere sul nostro futuro e ci sentiamo parte integrante di una nuova forma di cittadinanza sociale che sta prendendo corpo nel Pianeta e che ha avuto una sua prima manifestazione a Seattle.
Nel contempo affermiamo che non basta battersi contro le principali storture del sistema, ma che dobbiamo ricercare delle alternative eque e sostenibili a questo assetto economico che genera esclusione, ingiustizie e distruzione del Pianeta.
I tratti fondamentali dell’alternativa che noi ci impegniamo a costruire si basano sulla sobrietà, la riduzione dell’impronta ecologica e sociale, l’esaltazione dell’economia locale ed il riconoscimento che i bisogni fondamentali sono diritti da garantire a tutti gli abitanti del Pianeta. Noi ci impegniamo fin d’oggi a costruire questa prospettiva organizzando gruppi di lavoro e campagne:
– per riaffermare la dignità del lavoro e la democrazia economica, costringendo le multinazionali alla trasparenza e alla responsabilità sociale e ambientale
– per ottenere una radicale riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale che fino ad oggi hanno generato disuguaglianze e oppressione sociale
– per l’annullamento del debito e il riconoscimento del debito ecologico dei paesi del Nord verso quelli del Sud
– per ridurre l’impronta ecologica e sociale dell’Italia proponendo alle famiglie un diverso modo di consumare, e spingendo gli enti locali e le istituzioni nazionali alla costruzione di filiere produttive alternative
– per promuovere la riconversione dell’industria bellica, per spingere le banche a non finanziare i traffici d’armi, per promuovere la tutela e i diritti dei migranti.
Sul piano della vita intea della Rete vogliamo costruire dei rapporti che esaltino la partecipazione, l’identità dei gruppi locali e il loro radicamento sul territorio, la costruzione di campagne comuni proponibili da tutti i punti della Rete, la costruzione di una struttura leggera di riferimento nazionale con compiti di informazione e servizio. Sappiamo che la nostra Rete costituisce una sfida per tutti perché è una novità assoluta che rompe con gli schemi del passato. Per questo ci impegniamo ad avviare un approfondimento interno a tutti i livelli per individuare forme ottimali di aggregazione e dilazione. Un segnale importante che va in questa direzione è la nascita di gruppi tematici emersi durante lo svolgimento dell’assemblea. Il primo passo di questo cammino è la costituzione di un gruppo di lavoro composto dal nodo locale genovese e dal tavolo intercampagne per organizzare la nostra opposizione alle politiche del G8 che si riunirà a Genova nel 2001.

L’IMPERO DEL DENARO

Caro onorevole, jambo! Penso che il viaggio in Africa e la visita a Korogocho sia stato un evento importante per te. Ti sarai accorto che vedere con i tuoi occhi e sentire con il tuo naso è tutt’altra cosa che guardare gli esclusi, in televisione o leggerli nelle statistiche.
Penso che le sofferenze dei poveri hanno cominciato a cambiarti come uomo: in questo ti sento vero e sincero.
Come leader politico ti ringrazio perché stai tentando di mettere l’Africa e la povertà globale al centro del dibattito. Non vorrei però che le sofferenze dei poveri diventassero semplicemente oggetto di manipolazioni, tatticismi e furbizie per ottenere consensi elettorali.
Per questo ho sentito il dovere di scrivere questa lettera aperta in cui esprimo la mia maniera di guardare alla realtà e ciò che da questo sguardo ne consegue.
Io guardo il mondo stando dalla parte degli impoveriti, cioè dalla parte dell’80% dell’umanità. Lo faccio come credente, perché tutta la tradizione biblica, ebraica e cristiana, da cui provengo sta dalla parte degli esclusi, perché il Dio di Mosé non è il Dio dei faraoni o di Clinton, ma il Dio dei crocefissi. Per la prima volta nella storia, il mondo è retto da un unico sistema: l’impero del denaro, il cui cuore è la speculazione finanziaria. Mai nella storia si era visto un impero tanto vittorioso e suadente, grazie alla forza dei mass media, da prenderci tutti nella sua ideologia.
Viviamo in un sistema economico dove il 20% degli uomini si pappa l’82% delle risorse a spese del resto dell’umanità. Il 20% dei più poveri ha a disposizione solo l’1,4% dei beni. Per me questo è un sistema di peccato. E la politica che cosa fa? Oggi la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa.
Questo sistema di oppressione si regge sullo strapotere delle armi: spendiamo ogni anno 800 miliardi di dollari in armamenti (ma il muro di Berlino non era crollato?). A che cosa ci servono? Per difendere i nostri privilegi dalla minaccia dei poveri.
Non dimentichiamo che chi vive nell’opulenza e la difende a denti stretti pone anche una gravissima ipoteca ambientale. Molteplici studi ci dicono che abbiamo non più di 50 anni per cambiare: è in ballo la vita del pianeta. L’impero del denaro uccide, quindi, con la fame (30 milioni: un «olocausto» ogni anno), con le armi (conflitti africani, regimi repressivi, guerre stellari), con la distruzione dell’ambiente, con l’annientamento delle culture.
È un sistema di morte che ci interpella tutti, credenti e non, perché mina la vita stessa. Se questa analisi è vera e condivisibile, dobbiamo smetterla di raccontarci la storia di uno «sviluppo sostenibile». O cambiamo rotta o cadiamo nel baratro.
Tocca alla politica reinventare la politica e anche lo stato, perché l’economia torni a servire la polis. La politica e il far politica devono rispondere alle esigenze della gente e soprattutto della vita, della vita per tutti.
Alex Zanotelli

(*) Sintesi di una lettera aperta indirizzata da padre Zanotelli a Walter Veltroni. La scorsa estate il segretario dei Ds aveva effettuato un lungo viaggio in Africa, visitando anche Korogocho. Quell’esperienza è stata raccontata nel libro Forse Dio è malato (Rizzoli, 2000).

IL DIVERSO E’ VERAMENTE UNA MINACCIA?

Le affermazioni del card. Biffi sull’immigrazione islamica sono di una gravità estrema. Ne sono rimasto esterrefatto, perché se incominciamo a dividere la gente così, non usciamo più dallo scontro. E potremmo davvero muoverci verso forme di pulizia etnica.
La grande domanda posta da Susan George è semplicissima: il miliardo e mezzo di persone, i poveri, gli inutili per il sistema attuale, hanno diritto sì o no di vivere? Sapete voi quanti episodi di razzismo ci sono in giro? È chiaro che c’è un rifiuto dell’altro. E guardate che qui anche Marx (che pure ha indovinato tante cose) si è preso una bella sventola. La teoria marxista, riprendendo quella di Rousseau, afferma che l’uomo è buono: è la società che lo rende cattivo. Purtroppo altri hanno dimostrato che la violenza non viene dalle istituzioni, ma da ogni uomo. Il rifiuto dell’altro ce lo portiamo dentro. Me lo trovo anch’io, a Korogocho, tra i derelitti.

Un giorno incontrai una ragazza di 23 anni. La salutai, chiedendole come si chiamasse. Lei rispose: «Mi chiamano Omarì». Come – dissi – ti chiamano, ma tu come ti chiami? «Mi chiamano». E io: non prendermi in giro! «Mi chiamano Omarì» insistette. Allora chiesi: a che etnia appartieni? «Non lo so». La guardai stupefatto: sei il primo africano che non sa a che etnia appartiene; l’appartenenza è talmente forte per un africano! «Tu non mi conosci, Alex. Io sono una ragazza che, piccolissima, si è ritrovata sulle strade di Nairobi insieme ad altri ragazzi e loro mi chiamavano Omarì. Non so quale sia il mio vero nome, non so chi sia mio padre, mia madre, non so niente. Sono cresciuta sulle strade. Un giorno, verso i 12-13 anni, un uomo mi violentò ed ecco il mio primo bimbo. Andai avanti così. Poi un secondo uomo mi fece violenza ed ecco il secondo bimbo. A quel punto, vinta dalla città, scappai nella discarica vicino a Korogocho. Qui la gente mi guardava e chiedeva da dove venivo, cosa facevo, perché non ero dei loro. Alla fine mi hanno sbattuta fuori. Fuori dalla discarica».
Le domandai dove era andata a vivere. «Vivo nella parte estrema di Korogocho, raccogliendo frutta marcia per me e i miei bambini e, di notte, dormendo anche sotto le bancarelle che di giorno vendono frutta. Alex aiutami!». La mandai nel gruppo della discarica dove per un po’ fu aiutata. Poi sparì.
Poche settimane fa Omarì è ritornata. Con tre ragazzi… Ho guardato la bambina più grande e le ho chiesto: e questa chi è? La ragazza mi ha risposto: «L’ho incontrata l’altro giorno per strada. Le ho chiesto chi fosse e dove erano i suoi genitori. Lei mi ha detto: non li conosco, non ho nessuno, posso venire con te?». Insomma, oggi Omarì è una donna di 23 anni con tre bambini… Non ho potuto fare altro che dirle: «Vieni, vieni con noi, Dio provvederà!».
Una storia assurda per una logica assurda che esclude, perché «non è una di noi, non è dei nostri».

Oggi in Italia è importante uscire da questa logica dell’altro. Provo una grande sofferenza nel vedere il razzismo crescente, il rifiuto dell’altro, anche in chiave religiosa. Io dico a tutti: perché abbiamo paura dei musulmani? Ho studiato teologia musulmana, corano, arabo classico, storia, e ne sono rimasto profondamente impressionato. Quando, per esempio, leggevo i mistici musulmani, non ci trovavo nessuna differenza con Giovanni della Croce o Teresa d’Avila. Quanto più entriamo nella realtà e le situazioni si rivelano complesse, tanto più i nostri slogan diventano semplicistici. Perché tutto ciò che non è bianco non è nero. Tutto ciò che non ci appartiene non è contro di noi, tutto ciò che non è cristiano non è marxista, tutto ciò che non è musulmano non è imperialista o diabolico, tutto ciò che non ci rassomiglia non è una minaccia. Le generalizzazioni, alimentate dalla propaganda politica e religiosa, sono un pericolo.
Al.Za.

Alex Zanotelli




Trentotto minuti, predica inclusa

Fra le messe africane (che si protraggono anche per due ore)e quelle italiane (che non devono superare i quaranta minuti, omilia compresa)
esiste una via di mezzo?
Ma, più che al tempo, bisogna mirare alla qualità,
specialmente da parte del sacerdote.
Per celebrare e far festa.

Di ritorno dal Kenya,
una domenica celebro la messa nella chiesa di un mio amico parroco. Al termine, il sacerdote mi invita per un caffè. «Bene, bene. Vedo che non hai dimenticato l’italiano e che sei abbastanza sbrigativo» mi dice.
È un complimento. Ma per me è più amaro del caffè in cui ho dimenticato di mettere lo zucchero.
In Italia mi mancano molto le liturgie africane, così piene di vita, dove il tempo non conta. Invece, nel nostro «stivale», prova a superare i 10 minuti di predica e vedrai subito la gente guardare l’orologio con impazienza. Già, in Italia il tempo è denaro! Anche se abbondano le chiacchiere televisive, giornalistiche, salottiere…
Durante la messa si intonano quei tre-quattro canti che tutti conoscono (o quasi), ma si cantano solo poche strofe. Alla fine ci sono gli avvisi del parroco, la benedizione… E, mentre ci si avvia in sacrestia, si controlla l’orologio: 38 minuti e mezzo. Così va bene. Guai a sgarrare!
Un’altra domenica il parroco non c’è. Dopo la comunione, mi permetto un momento, brevissimo, di silenzio. In sacrestia il chierichetto (mio nipote) mi chiede se mi sia addormentato…
Oggi si parla molto di «religioso» come elemento strutturale dell’uomo. Di fronte al disorientamento provocato dalla società dei consumi, si auspica un ritorno al sacro. È vera fede? O un semplice desiderio di tranquillità psicologica, distensione? In tale contesto le sètte mietono numerosi proseliti.
L’africano ha insito il senso sacro della celebrazione e della festa. Per lui celebrare significa festeggiare.

Prima del Concilio
ecumenico Vaticano II, in chiesa esisteva una separazione tra il sacerdote e il popolo. Si celebrava l’eucaristia in una lingua morta (il latino), con la preghiera più significativa (il canone) in silenzio, voltando le spalle alla comunità. Sui banchi si contavano molte donne con la corona del rosario in mano. Oggi, però, tutto questo è solo un ricordo dei cinquantenni.
Ma la presente messa, in Italia, è davvero quella voluta dalla riforma liturgica del Concilio? Ne dubito. E rimpiango le celebrazioni nella mia parrocchia in Kenya.
Nella pasqua Gesù Cristo ha realizzato la nostra salvezza. Celebrare e festeggiare l’eucaristia è attualizzae il mistero. Parola, rito, canto, danza, silenzio: tutto ha valore.

Quando ero bambino,
la domenica era una festa anche esteamente. Per la messa si indossavano le scarpe e i vestiti migliori, non quelli di tutti i giorni. Una volta a casa, bisognava cambiarli subito per non sciuparli. È quanto sta avvenendo oggi in Africa. La domenica è festa e la gente (soprattutto la più povera) viene in chiesa con gli abiti migliori. Non sono «firmati», ma i colori sono sgargianti.
Spesso mi chiedo come riescano i giovani e le ragazze del Kenya a conservare così bene i loro vestiti in abitazioni di fango, senza armadi, e come facciano a salvaguardarli dalle capre, che sono così di casa…
Penso pure ai gruppi neocatecumenali. Dopo numerosi incontri di formazione, ecco finalmente la domenica con la messa. I nuovi membri del gruppo sono invitati a vestirsi bene, quel giorno, per partecipare ad «un avvenimento molto importante». È celebrazione, festa.
Le comunità africane
sono giovani, piene di vita e giorniose, anche se soverchiate da enormi problemi. Amano far festa. I canti, le danze e i tamburi esprimono anche fede.
Le comunità italiane, invece, mi sembrano talora vecchie e stanche; forse hanno perso la gioia di vivere, di celebrare, di cantare.
Ricordo le animate discussioni, in Kenya, con qualche maestro di canto. Era difficile fargli capire che, alla domenica, non era sempre necessario cantare tutto il… cantabile! Qualche volta il «credo» si poteva anche «recitare». Allora il choirmaster mi «boicottava», anticipando con il canto la mia recitazione. E che sforzo far capire al coro che, di una lode di 20 strofe, se ne possono cantare anche soltanto 15! «Niente affatto! Bisogna cantarle tutte» era la risposta.
È con grande nostalgia che risento le preghiere spontanee dei fedeli da ogni angolo della chiesa: implorano aiuto, guarigione, pioggia. Drammatiche queste ultime, quando sui campi il granoturco e i fagioli ingialliscono anzi tempo per la siccità, e il cielo continua ad essere terso. Mi chiedo spesso come Dio non si commuova a tali suppliche. Forse ha problemi di udito anche Lui?

Oggi sono in Italia,
dove l’eucaristia non deve superare i 40 minuti. «La messa è finita» dice il prete. Mi sembra che qualcuno tiri un sospiro di sollievo. Dio è servito. Adesso si può vivere tranquilli per un’altra settimana.
E i giovani dove sono? Se non vanno più in chiesa, è tutta e sempre colpa loro? Come possono accettare liturgie così «pallose», senza il senso della festa? Allora la discoteca diventa la loro chiesa. Forse sono proprio i nostri giovani ad apprezzare le liturgie africane, così «gasate»! Dimenticando l’orologio.
Quanto a me, spero di non abituarmi ai 38 minuti e mezzo di messa. Cercherò di spiegarlo anche al parroco, mio amico. Se mi riesce. E lui capirà?

Adamo Nostalgia




Quando le genti non balbettano più

Qual è per la chiesa l’eredità più ricca del secolo appena trascorso?
Senz’altro il Concilio ecumenico Vaticano II.
Il Concilio è una grazia anche per il 2000.
«Missioni Consolata»
ne ricorda il decreto sull’attività missionaria,
aggiornato da altri significativi documenti.
E sorge spontanea
la domanda:
dopo 35 anni
di «Ad gentes»,
i missionari
sono in crescita?

R icordo ancora il libro di Piero Gheddo Concilio e terzo mondo del 1964. Dal titolo se ne intuiva già il contenuto; ma più espliciti erano la copertina e il suo retro, che riportavano foto di vescovi e cardinali provenienti soprattutto dal sud del mondo. Così pure la «seconda» e la «terza» di copertina. Complessivamente si contavano 30 prelati con tricorno, zucchetto, colbacco, fez o altri copricapo.
Il libro attirò la mia attenzione anche perché, tra le foto, spiccava quella di Carlo Cavallera, missionario della Consolata, vescovo sui verdi altopiani di Nyeri e, poi, nel deserto di Marsabit (Kenya). Con lui trascorsi alcuni mesi a Roma durante il Concilio ecumenico Vaticano II.
«Nell’aula conciliare – confidò un giorno monsignor Cavallera – c’è battaglia tra noi missionari e gli altri vescovi: vogliono liquidare in fretta il problema delle missioni, facendone un’appendice di qualche altro tema. Ma noi insistiamo per un documento a parte, perché il futuro della chiesa si gioca soprattutto nel terzo mondo. Eppoi: la chiesa è o non è missionaria?».
Vinsero la battaglia i padri conciliari missionari, ma sul filo di lana. Ecco perché il decreto su «l’attività missionaria della chiesa» fu approvato «in zona Cesarini», cioè il 7 dicembre 1965, ad un solo giorno dalla chiusura del Concilio.
Barbari, pagani e Genti
Il documento sulle missioni è noto come «Ad gentes», le due parole latine di inizio: un’espressione che si è imposta specialmente fra i missionari. «Ad gentes» significa «alle genti».
E chi sono le «genti»? Il termine ricorre nelle lettere di san Paolo, che si definisce «apostolo delle genti», mentre san Pietro è «apostolo dei giudei» (cfr. Gal 2, 8). Nella concezione di Israele, «popolo eletto», l’umanità è divisa in «ebrei» e «genti».
Esisteva anche un’altra distinzione: «greci» e «barbari». Questa era etnocentrica: esprimeva un giudizio tutt’altro che positivo sui «barbari». Infatti barbaròs, secondo l’etimologia greca, era colui che (parlando una lingua straniera) balbettava; significava pure rozzo, incivile e crudele.
«Genti», invece, era un termine neutro e, forse, più rispettoso sotto il profilo culturale; ma non nella valutazione dell’ebraismo, perché «le genti» praticavano l’idolatria, sinonimo di peccato… Fu un merito di san Paolo, il più grande missionario di tutti i tempi, l’essersi dedicato all’evangelizzazione dei «non ebrei» e avere imposto alla chiesa nascente l’apertura a tutti i popoli.
Accanto a «genti» e «barbari», ricorreva anche «pagani». Era una parola innocua: definiva semplicemente gli abitanti dei villaggi di campagna. Ma, a partire dal quarto secolo, «pagani» assunse un significato negativo, in contrapposizione a «cristiani». Il messale romano, edito dal papa Pio V e riformato da Pio X, conteneva una Missa contra paganos, in cui si invocava Dio «affinché i popoli pagani, che confidano nella loro ferocia, siano schiacciati».
Oggi, caduto l’uso di «pagani», resta quello di «gentes», che designa coloro a cui non è stato annunciato il vangelo. È da sottolineare l’«ad» gentes. La preposizione ad significa «verso»: suggerisce attenzione, disponibilità e comprensione verso i popoli da evangelizzare.
Dunque: non «contra», ma «ad» gentes.
«Sembra strano (però ce lo dobbiamo pur dire) – commentava a Torino il cardinale Anastasio Ballestrero – che qualche volta facciamo i missionari con spirito di conquista, di dominio, per contare le nostre vittorie e i nostri trionfi».
Al contrario, la chiesa non deve mirare ad ambizioni politiche, sociali o religiose; non è mandata per giudicare, ma per salvare e servire.
Non basta un tocco
di vernice
Già prima del Concilio ecumenico Vaticano II, alcuni missionari illuminati avevano parlato di «adattamento» alle culture dei popoli. Poi il decreto Ad gentes ha richiesto che, nei paesi di missione, la vita cristiana fosse «commisurata al genio e all’indole di ogni civiltà» (n. 22). Si è auspicato un cristianesimo più rispettoso delle culture: quindi adattato nello stile delle chiese e nelle celebrazioni liturgiche, con la valorizzazione di canti, ritmi e danze locali. Ma era un modo di evangelizzare ancora superficiale.
Pertanto dall’«adattamento» si è passati all’«inculturazione», cioè all’incarnazione del messaggio evangelico in una cultura non cristiana e non europea. È un problema complesso. Ci si dibatte tutt’oggi.
Il nocciolo della questione è il seguente: l’accoglienza del vangelo deve sfociare nella nascita di nuove espressioni cristiane. Ebbene: sono state composte orazioni eucaristiche particolari e manuali di preghiere che accolgono elementi tradizionali. Ma non basta. Si richiedono elaborazioni teologiche «dal» sud del mondo.
Incombe però un rischio: quello del miscuglio, della confusione, del sincretismo. Ciò crea sconcerto e (fatto assai più negativo) divisione. Ecco perché nell’esortazione apostolica del 1975, Evangelii nuntiandi, Paolo VI insistette sull’evangelizzazione delle culture: «Occorre evangelizzare, non in modo decorativo, a somiglianza di vernice superficiale, la cultura e le culture dell’uomo, partendo dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (n. 20).
Tuttavia i pericoli, insiti talora nelle novità, non devono comportare il riflusso verso posizioni teologiche stantie. Si camminerebbe fuori della storia. Il servizio dell’evangelizzazione deve continuare con coraggio, «anche quando bisogna seminare nelle lacrime». Parole di Paolo VI.
un «Ad gentes» in crescendo
Il decreto sull’attività missionaria della chiesa Ad gentes è da completarsi con altri documenti conciliari: specialmente la costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium, il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, la dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis umanae, la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes.
Sono testi che sollevano problemi cruciali per il missionario: si pensi alla Nostra aetate nel contesto del Sudan, dove i cristiani sono perseguitati dal regime islamico. Anche il rapporto con il fondamentalismo induista è spigoloso. Giovanni Paolo II l’ha sperimentato nel suo recente viaggio in India.
Traumatico per alcuni missionari (che fino a ieri predicavano che «fuori della chiesa non c’è salvezza») può essere il tema della libertà religiosa. Al che il cardinale Ballestrero rilevava: «Purtroppo i pavidi che rifiutano quel testo ci sono ancora, eppure esso è intriso dell’audacia dello Spirito e va letto in questa prospettiva e con questa sensibilità. La chiesa, proprio perché missionaria, non è mai sulla difensiva e non deve esserlo. Non siamo mandati a difendere una cittadella, ma a servire il mondo con il messaggio della parola che salva».
Il messaggio del Concilio sull’Ad gentes va aggiornato pure con i successivi documenti che ne sviluppano i problemi. Ho già ricordato l’Evangelii nuntiandi.
Nel 1967 appariva l’enciclica Populorum progressio. In essa Paolo VI sottolineava lo sviluppo integrale di tutto l’uomo come un aspetto fondamentale dell’evangelizzazione. Inoltre il documento sensibilizzava i cristiani sui problemi nel sud del mondo e stimolava la solidarietà verso i fratelli impoveriti da poteri nazionali e inteazionali.
L’ultima charta magna sull’evangelizzazione dei popoli è l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio (1990). Ha riaffermato l’urgenza della missione ad gentes, anche di fronte alla penuria di vocazioni sacerdotali in Europa. Però il problema della scarsità di sacerdoti non si supera chiudendo i cancelli delle diocesi, affinché nessun prete «scappi».
«La fede (in crisi) si rafforza donandola» (n. 2).
N el 1976, ritornato in Italia dalla missione in Tanzania, mi capitò tra mano una rivista missionaria, di cui non ricordo la testata. Mi colpì, come nel libro di Gheddo, la copertina: ritraeva un ragazzo che scriveva sulla lavagna: «Anch’io sono missionario».
Da questa affermazione, in perfetta sintonia con l’Ad gentes del Vaticano II, ci si sarebbe aspettati una crescita di vocazioni missionarie. Ma la dichiarazione del ragazzo è stata «una» rondine che… non fa primavera. In compenso, sono cresciuti i laici impegnati. Gli istituti missionari (che lamentano la mancanza di vocazioni) non dovrebbero forse fare i conti con i volontari, ripensando i propri comportamenti e regole? Però i laici, missionari part time, non sostituiscono gli evangelizzatori full time.
Allora «udii la voce del Signore che diceva: “Chi invierò? E chi andrà?…”. Io risposi: “Eccomi, manda me”» (Is 6, 8-9).

Francesco Beardi




Testimoni coraggiosi

Il 10 giugno il cardinale Angelo Sodano ha inaugurato la grande mostra multimediale missionaria.
Ai pellegrini che giungono a Roma per il Giubileo
è offerta una suggestiva panoramica sull’opera
di evangelizzazione della chiesa e uno stimolo
per continuare la missione di Cristo nel mondo d’oggi.

A llestita presso l’abbazia delle Tre Fontane, luogo del martirio di s. Paolo, l’Expo Missio 2000 racconta, in un percorso realizzato con mezzi multimediali, i fondamentali dinamismi della missione: ricerca di Dio, incontro con Cristo e missione in mezzo agli uomini. È quindi un coinvolgente itinerario di spiritualità, che sollecita il visitatore a compiere un suo personale cammino missionario e suscita in lui una domanda, oltre a fornire una risposta, sul significato della missione universale di Cristo e dei cristiani, come dono, appello e mistero. In un luogo di altissima spiritualità, qual è l’abbazia, ai visitatori è offerta una serie di suggestioni e contenuti lungo un itinerario in cui storia, geografia, antropologia, ispirazione artistica, riflessione teologica e soprattutto fatica missionaria di uomini e donne, consacrati per tutta la vita all’evangelizzazione dei popoli s’intrecciano, si spiegano e si completano a vicenda.
LA RICERCA
Expo accompagna i visitatori lungo tre passaggi fondamentali. Il primo, all’aperto, immette gradualmente nel fluire continuo della storia umana, con le sue bellezze e tragedie, slanci di carità, giustizia, solidarietà e ingiustizie. Un’umanità contrassegnata comunque da un impulso comune a tutti i popoli: la ricerca di Dio. Quest’ansia istintiva della trascendenza si manifesta nella grande varietà di religioni e fedi, riti e simboli, e nel mistero dei libri sacri su cui molte religioni si fondano.
L’idea centrale di questa prima parte dell’esposizione è che il primo missionario è Dio stesso: tutto parte da lui e dal suo amore per l’uomo, a cominciare dalla creazione, per continuare in un dialogo ininterrotto con ogni singola persona e con ogni popolo, cultura e religione, nonostante peccati, errori, tradimenti.
L’INCONTRO
Il secondo passaggio conduce a incontrare la risposta di Dio a questa ricerca, secondo la fede cristiana: Gesù di Nazaret. Il suo volto è il volto di Dio. All’interno della chiesa abbaziale, viene proposto un intenso momento di meditazione intitolato «dal volto ai volti»: una sacra evocazione dell’immagine di Cristo così com’è stata accolta, vissuta e rappresentata nelle culture del mondo. Essa consiste nella proiezione di gigantesche immagini integrate da testi, musiche, effetti di luce. Le icone sono tratte da opere d’arte cristiana di Africa, America, Asia, Europa e Oceania, ed evocano aspetti e momenti diversi della figura di Gesù: bambino, amico, maestro, giornioso, sofferente, glorioso.
Il fascino della rappresentazione è accentuato dal movimento lento e continuo delle immagini della vita di Gesù, che si dilatano sull’enorme schermo e percorrono i diversi piani della chiesa, disegnandovi un cangiante e fascinoso affresco virtuale.
All’uscita dalla basilica, i pellegrini sono invitati a entrare nella chiesa dedicata al martirio di s. Paolo per un momento di silenzio e preghiera. Questa sosta nel luogo del martirio dell’apostolo delle genti, il primo, grande testimone-missionario della fede cristiana, è un invito a riflettere su cosa comporta annunciare Cristo e il suo vangelo: il rischio sempre presente del martirio, del dover sacrificare la vita per testimoniare in prima persona l’amore ai fratelli.
LA MISSIONE
Il terzo passaggio dell’esposizione vuole essere un percorso nella storia e nelle realtà e forme attuali della missione. S’inizia con l’annuncio: in una specie di «giardino missionario» vengono presentate le tappe fondamentali di 20 secoli di evangelizzazione, insieme a una schiera di volti noti o sconosciuti di missionari, fino a quelli che operano oggi in tutto il mondo.
Entrando nel contesto attuale della missione, il visitatore è invitato a una partecipazione non solo ideale e di principio, ma gli viene offerta l’occasione di un gesto concreto di solidarietà con i poveri: egli può partecipare a comporre un gigantesco puzzle (4×20 metri), acquistando una o più tessere e contribuendo così a realizzare alcuni progetti di cooperazione internazionale in varie parti del globo.
Di fronte al grande puzzle sono allineate una serie di tende, alternate a grandi tele che, in più lingue, sintetizzano i grandi bisogni delle popolazioni con le quali i missionari condividono la loro vita: armonia, vangelo, pace, acqua, cibo, salute, scuola. Ci sono le tende degli istituti missionari, che cambieranno periodicamente. C’è la tenda della giustizia e pace, in cui il visitatore può firmare, su un rotolo di carta di tre quintali, e aderire alla campagna per la remissione del debito estero dei paesi più poveri.
Nella tenda della vocazione, attraverso l’interpretazione in chiave missionaria delle beatitudini evangeliche, i pellegrini possono scoprire il fascino della chiamata che Dio rivolge a uomini e donne di ogni continente, perché siano partecipi della missione di Cristo con tutta la loro persona e per tutta la vita.
Nella tenda del dialogo interreligioso, una mostra audiovisiva illustra l’impegnativo cammino che porta gli uomini di religioni diverse a incontrarsi nel rispetto reciproco e collaborazione, operando insieme per il bene. Un’atmosfera carica di luce e di pace invita a pregare in dialogo con altre esperienze religiose.
Al termine del percorso le tende dell’ascolto e dell’incontro: i pellegrini possono ascoltare dalla voce dei missionari le loro esperienze, per comprenderne meglio fatiche e speranze e rimanere contagiati dalla loro fede ed entusiasmo.

Beppe del Colle




Il ritorno del Nazareno

Nasce universale

È pentecoste. Spinto dallo Spirito, Pietro prende la parola davanti ai giudei provenienti dai quattro punti cardinali del mondo allora conosciuto, da Roma all’Arabia, dalle coste della Libia a quelle del Mar Nero. Tre mila persone accolgono il primo annuncio della morte e risurrezione di Gesù Cristo e sono battezzate. Poco tempo dopo se ne aggiungono altre cinque mila.
Nasce la missione. Nasce universale. Ma non senza tensioni. Tra i convertiti ci sono giudei della diaspora, chiamati «ellenisti»: questi fanno una lettura diversa della storia d’Israele. Relativizzano il ruolo del tempio e della legge di Mosè e scoprono nel vangelo una dimensione più universale che sorprende gli stessi discepoli di Cristo. Il giudaismo ufficiale reagisce con veemenza: Stefano viene lapidato. Gli ellenisti abbandonano Gerusalemme e portano il vangelo fuori delle mura della città santa.
Intanto gli apostoli sembrano dimenticare il comando del Signore: «Andate in tutto il mondo, fino agli estremi confini della terra; battezzate tutti i popoli e insegnate loro ciò che io stesso vi ho insegnato». Ed ecco altre persecuzioni che costringono discepoli e apostoli a uscire fuori dei confini geografici ed etnico-religiosi a cui sono abituati.
Pietro capisce per primo che l’evangelizzazione è destinata anche ai non giudei, quando lo Spirito Santo lo tira per i capelli nella casa del centurione romano Coelio a Cesarea: tutta la famiglia si apre alla fede in Cristo, viene battezzata e confermata dalla discesa dello Spirito.
Ma chi si distingue nella direttrice universalistica è Paolo, apostolo dei gentili. Uomo di grande statura culturale e spirituale, persecutore dei cristiani, afferrato da Cristo sulla via di Damasco, si butta anima e corpo nella predicazione del vangelo. Tra il 46 e il 58, intraprende tre viaggi missionari, percorre diverse regioni dell’Asia Minore, fino a raggiungere la Macedonia e l’Acaia. Si rivolge dapprima ai giudei, destinatari prioritari del vangelo. Ma di fronte al loro rifiuto, si dedica all’evangelizzazione dei pagani. Un quarto viaggio lo porta a Roma in catene; ma continua a presentare a tutti il Cristo, fino al giorno in cui subisce il martirio, l’anno 67.
Gli apostoli sono affiancati da collaboratori, per lo più laici, missionari itineranti, che si spostano di città in città per annunciare il vangelo (profeti) e per consolidare la fede con la catechesi (dottori). Apollo di Alessandria d’Egitto, Lidia di Tiatira, i coniugi Aquila e Priscilla, collaboratori di Paolo, sono solo alcuni nomi di una folta schiera di anonimi uomini e donne che collaborano alla diffusione del vangelo nel primo secolo della chiesa.
Ma l’apertura universale non è indolore. Una corrente conservatrice esige che i pagani, prima di entrare nella comunità cristiana, diventino giudei, sottoponendosi alle leggi e costumi tramandate da Mosè. Una pretesa impraticabile: i pagani aborriscono la circoncisione; i divieti alimentari impediscono ai cristiani di cultura e origine diverse di prendere insieme i pasti. Per di più, osservava Paolo, l’imposizione della legge mosaica annulla l’assoluta novità e gratuità dell’azione liberatrice operata da Cristo.
La situazione diviene insostenibile. Perfino Pietro una volta la dà vinta ai conservatori, rifiutando di mangiare con gli «incirconcisi». Paolo gli rinfaccia l’incoerenza senza peli sulla lingua. Per dirimere la questione, verso l’anno 50, si raduna a Gerusalemme un «concilio ecumenico», il primo nella storia della chiesa: apostoli, anziani (collaboratori) e delegati di Antiochia, guidati da Paolo, raggiungono un compromesso: le prescrizioni giudaiche non devono essere imposte ai cristiani provenienti dal paganesimo; in compenso questi devono astenersi da comportamenti che fanno rabbrividire i giudei, specie in fatto di matrimonio.
La fede cristiana si sgancia dal giudaismo; con la distruzione del tempio (70), il distacco è definitivo. Ormai anche le autorità romane sanno distinguere i cristiani dai giudei, come dimostra la persecuzione scatenata da Nerone, in cui periscono Pietro e Paolo.
La chiesa diventa veramente cattolica (universale) anche sotto l’aspetto geografico: alla fine del I secolo il vangelo è ormai annunciato in tutte le grandi città dell’Oriente mediterraneo, dall’Egitto all’Asia Minore, dalla Grecia a Roma e alle coste della Gallia.
Le comunità sono piccole; i cristiani sono una minoranza, ma si fanno ammirare e notare per lo stile di vita singolare: preghiera comune e, soprattutto, solidarietà nel soccorrere i fratelli più bisognosi sparsi per il mondo greco-romano.

Evangelizzazione per osmosi

M orti gli apostoli, i loro successori diventano sedentari, facendo un tutt’uno con i vescovi. Anche i missionari itineranti scompaiono gradualmente. Eppure la chiesa cresce e si dilata, grazie a un certo numero di cristiani, come mercanti, soldati, funzionari, schiavi e altre persone costrette a spostarsi a causa del mestiere: evangelizzati, diventano evangelizzatori. Si potrebbe dire che i cristiani, chi più chi meno, si sentano tutti in «stato di missione».
Se da una parte, nel II e III secolo, il vangelo viene comunicato quasi per osmosi, non mancano i missionari veri e propri, che portano il vangelo fino agli estremi confini dell’impero; alcuni, addirittura, passano al di là delle frontiere. Gregorio il Taumaturgo (213-270), per esempio, predica il vangelo nelle regioni estreme del Mar Nero; Gregorio l’Illuminatore evangelizza l’Armenia, fonda ben 12 sedi vescovili, spingendosi fino alla Mesopotamia, Persia ed India.
Alla fine del III secolo i cristiani costituiscono il 15% della popolazione dell’impero, anche se ripartiti in maniera assai disuguale: in molte regioni orientali costituiscono più della metà della popolazione (5-6 milioni); in Occidente il cristianesimo avanza più lentamente (2 milioni), ma raggiunge gli estremi confini dell’impero. Alcune sedi vescovili compaiono in Britannia; una trentina sono in Gallia; nel 256 papa Coelio riunisce in assemblea 60 vescovi italiani; Cipriano ne convoca 87 a Cartagine; il concilio di Elvira (300) parla di 33 sedi vescovili in Spagna e Portogallo. «Siamo nati ieri – scrive l’apologista cristiano Tertulliano – e abbiamo già riempito la terra e tutto ciò che era vostro: città, quartieri, fortificazioni, municipi, borgate, palazzi, senato e foro. Vi abbiamo lasciato solo i vostri templi».
Senza togliere nulla allo zelo dei primi cristiani, la straordinaria espansione del vangelo è favorita dall’organizzazione dell’impero romano, all’apice della sua potenza. La pax romana è una realtà tangibile; ordine e diritto regnano in tutte le regioni; una fitta rete di strade e collegamenti marittimi raggiunge tutto il mondo allora conosciuto.
I missionari possono circolare in tutta sicurezza e andare dove vogliono, godendo della protezione legale dell’ordinamento romano; col greco possono farsi capire dappertutto.
Sotto l’aspetto religioso la società greco-romana è pervasa da confusione e tendenze contraddittorie. Per l’élite gli antichi dèi sono ormai fuori uso; la filosofia non offre soluzioni adeguate ai problemi della vita; allora si rifugia nei culti misterici di divinità orientali, che promettono esperienze del divino, dignità umana, pace interiore e immortalità felice. Le disuguaglianze sociali provocano malcontenti e risentimenti tra le classi meno fortunate. Per tutti, schiavi e liberi, ricchi e poveri, plebei e aristocratici, nobildonne soprattutto, l’ideale cristiano diventa la vera risposta alle più profonde aspirazioni di salvezza radicale, redenzione spirituale e felicità eterna. E così il vangelo abbatte ogni barriera di lingua, razza e ceto sociale.
Il sangue dei martiri

I nizialmente tollerati come una delle tante sètte orientali che pullulano nelle regioni dell’impero, i cristiani si trovano presto nell’occhio del ciclone. Scatenata per scherzo da Nerone, la persecuzione continua per oltre due secoli e mezzo; da Roma si estende alle più lontane regioni dell’impero, con intermittenza e intensità variabili, che va dal sospetto prudente alla caccia al cristiano.
Perché tanto accanimento contro i cristiani, in un impero fondamentalmente tollerante verso tutte le religioni dei popoli vinti? Le cause sono molteplici: ignoranza, calunnie, interessi, fanatismi. Ma c’è un motivo più profondo: in un ambiente in cui anche la religione è a servizio dello stato, fino a prestare culto agli imperatori, come segno di civica lealtà, i cristiani, che inorridiscono di fronte ad ogni idolatria, sono sentiti come corpi estranei e accusati di alto tradimento.
In alcuni periodi la persecuzione è devastante. A migliaia i cristiani d’ogni età e ceto cadono sotto la spada dei persecutori o finiscono in pasto alle fiere, negli spettacoli di circhi e anfiteatri, per il sollazzo della plebe.
Eppure il martirio si dimostra un efficace strumento «missionario» e molti evangelizzatori si identificano di fatto con i martiri. «Il sangue dei martiri è seme di cristiani – afferma Tertulliano -. Alla vista di tanto coraggio il popolo s’interroga e vuole sapere di che si tratta. E quando un uomo ha conosciuto la verità, è dei nostri». Le persecuzioni rafforzano lo sviluppo del cristianesimo e ne consolidano la struttura comunitaria, tanto che la chiesa, in tutti i suoi membri, si identifica con la sua missione.
Altri pericoli, più micidiali delle persecuzioni, minacciano vita e sviluppo delle comunità cristiane: le eresie. Per arginare tali sbandamenti dottrinali vengono radunati vari concili, che condannano gli errori e affermano la vera dottrina del vangelo. Un valido aiuto viene anche dagli intellettuali che, una volta convertiti, mettono penna e cultura a servizio del vangelo.
Fiorisce una letteratura cristiana ricca e variegata, per dimostrare ai persecutori la bellezza del messaggio evangelico e la lealtà dei cristiani; per confutare gli errori degli eretici; per confrontare i valori del vangelo con quelli della cultura corrente.
Non solo vescovi, preti e diaconi, ma anche i laici di ogni strato sociale (soldati, commercianti, nobili, schiavi, filosofi e scrittori) danno un solido apporto all’evangelizzazione. Senza dimenticare le donne, che danno luminose testimonianze di fede, sia affrontando impavide il martirio, sia cornoperando intelligentemente all’evangelizzazione.

Il vangelo nelle campagne

C on l’editto di tolleranza religiosa, promulgato dall’imperatore Costantino nel 313, il cristianesimo acquista finalmente la libertà, fino a diventare vera e propria religione di stato (380). Per combattere lo sfascio morale della società, gli imperatori puntano tutto sulla chiesa.
Col connubio tra stato e chiesa, l’evangelizzazione s’impone sui diversi ceti sociali, soprattutto sulle masse popolari. Farsi cristiano diventa quasi uno status symbol: chi non è cristiano non è chic. Un atteggiamento non privo di ambiguità. Al tempo stesso prova la autorevolezza di cui la chiesa gode presso tutto il popolo, tanto che alcuni pastori non esitano a condannare i monarchi per le loro eventuali violenze e fanatismi.
Del momento di grazia la chiesa approfitta per portare avanti la sua missione nella società, riuscendo a far legalizzare certi valori cristiani: proibizione di uccidere gli schiavi; autorità patea non deve essere dispotismo; abolizione dei giochi cruenti del circo; assistenza alle vedove e agli orfani.
Un nuovo slancio missionario è diretto alle popolazioni delle campagne (pagus, da cui i termini «pagano» e «paganesimo»), fino ad ora trascurate dai missionari e rimaste attaccate a riti e superstizioni pagane. A mano a mano che il vangelo raggiunge le zone più isolate, l’attività missionaria si trasforma in azione pastorale, con istituzioni di parrocchie, affidate a preti distaccati dalle urbane sedi vescovili.
È chiaro che la cristianizzazione non fa cambiare necessariamente i costumi. Vescovi e preti hanno il loro daffare per purificare le motivazioni di tutti coloro che in massa si precipitano verso le chiese per adottare la religione dell’impero. Fortunatamente si registrano apostoli capaci di ascoltare e dialogare. Vescovi come Filostrato di Brescia, Vigilio di Trento, Martino di Tours, Germano di Auxerre, Vitricio di Rouen, Valentino di Chartres, il monaco Gionata di Almirisso (Tracia)… non si accontentano di lavare teste con l’acqua battesimale, ma si prodigano nella formazione di veri cristiani.

Alla fine del IV secolo il vangelo si è consolidato all’interno dell’impero, fino agli estremi confini. In Oriente li ha superati, spesso grazie a circostanze fortuite. I prodigi e la saggezza di alcuni schiavi cristiani destano tale impressione sui loro conquistatori, da indurli a chiedere all’imperatore di Bisanzio o ai vescovi più vicini l’invio di missionari tra la propria gente. In seguito a un miracolo, santa Nino converte la Georgia. Frumenzio, giovane intellettuale prigioniero in Etiopia, fonda la chiesa in questa regione. Wulfila, portato prigioniero a nord del Danubio, elabora un alfabeto per la traduzione della bibbia e, per 40 anni (341-383), trasmette il cristianesimo nella versione ariana a goti e visigoti. Attraverso di essi il cristianesimo ariano si diffonde tra numerosi popoli germani.
Lo slancio missionario è forte anche tra molte chiese orientali, rimaste fuori della comunione ecclesiale più per motivi politici che religiosi. I nestoriani dell’impero persiano, per esempio, si dimostrano prodigiosi missionari in tutta l’Asia, fino all’India e alla Cina.




Fra intrighi e quisquiglie

Nel secolo V l’impero romano si divide:
quello d’Oriente sopravvive per altri
dieci secoli, ma quello d’Occidente
tramonta, sotto l’incalzare dei «barbari».
Successivamente in Europa nasce
la «cristianità»: una forma di società
in cui la vita religiosa e politica
si amalgamano in un’unica fede
religiosa. Ma, dopo mille anni di evangelizzazione, mentre l’islam cancella
le comunità cristiane in Africa e Medio Oriente e minaccia l’Europa, la chiesa
latina e la chiesa orientale si scomunicano
a vicenda. Un pessimo affare per tutti.

Nuova era missionaria

Il V secolo segna una svolta epocale nella storia europea. L’impero romano è definitivamente spaccato in due. L’impero d’Oriente, con capitale Bisanzio, sopravvive per altri dieci secoli; ma quello d’Occidente muore nel 476, schiacciato dalle invasioni di popoli che i romani chiamano «germani» e i greci «barbari». Roma è più volte messa a ferro e fuoco. Papa Leone Magno cerca di salvare il salvabile. Ogni gruppo etnico si ritaglia il proprio regno; l’unità dell’impero è frantumata.
«È la fine del mondo» balbettano i cristiani, vedendo la città eterna calpestata da Alarico. «Tutta colpa dei cristiani, che hanno distrutto i nostri dei» rispondono gli ultimi pagani incalliti. San Gerolamo piange sulle rovine romane. Agostino, vescovo di Ippona, cerca di dare un senso a tale apocalisse: passano i regni, Roma compresa, spiega nel suo capolavoro La città di Dio; «in mezzo a queste impalcature provvisorie l’Architetto (Dio) sta costruendo la città futura, che non cadrà mai».
«Non dovremmo accogliere i germani nelle nostre chiese?» si domanda lo storico Orosio, amico di Girolamo e Agostino. Passato lo stordimento, papi e vescovi si adoperano per integrare gli invasori nella vecchia società e nella chiesa. I barbari, da parte loro, eccetto i vandali, apprezzano la civiltà romana, ne accolgono la struttura politica e l’unità spirituale e culturale operata dalla chiesa e dalla romanità.
L’attività missionaria riprende con nuovo slancio, e si prolunga per oltre otto secoli, su diversi fronti: diffusione del vangelo nelle zone rurali; evangelizzazione dei nuovi arrivati; riconquista degli eretici alla fede cattolica. Varie popolazioni, infatti, professano il cristianesimo nella versione ariana, come i visigoti, ostrogoti, vandali, svevi, burgundi, turingi e parte dei longobardi. Franchi, angli e sassoni sono rimasti pagani.
A prima vista la fede ha poca speranza di penetrazione: il cristianesimo richiede un’adesione personale, mentre questi popoli hanno reazioni sempre collettive, seguendo in blocco ordini ed esempi dei propri capi. Ma basta convertire il re, e i sudditi lo seguono al fonte battesimale come sul campo di battaglia. Un metodo di evangelizzazione che per molti secoli sarà privilegiato.
Sotto la pressione di spose cattoliche, vescovi e popolazioni, tutti i principi ariani passano a poco a poco alla chiesa romana. Il re dei visigoti di Spagna, per esempio, fa giustiziare il figlio Ermenegildo, perché si è fatto cattolico (585); ma l’altro figlio, Reccaredo, salito sul trono, si converte al cattolicesimo con tutta la popolazione (587).

Conversione dei franchi

Esemplare è la conversione della Francia, «figlia primogenita della chiesa cattolica». Il re dei franchi, Clodoveo (465-511), si mostra aperto alla fede cristiana, grazie all’influenza della sposa cattolica Clotilde e del vescovo Remigio. L’argomento che determina la sua conversione è per lo meno singolare, ma di un certo peso per quei tempi: il re invoca il Dio dei cristiani e giura di convertirsi a lui se si mostrerà più forte degli dei del popolo nemico. Clodoveo vince e, nel natale del 496, a Reims, si fa battezzare da Remigio, insieme a 3 mila soldati.
I vescovi vedono in Clodoveo un nuovo Costantino e legano le sorti della chiesa a quelle del regno franco, a spese di altri capi barbari: burgundi, bavari e turingi. Avito, vescovo di Vienne, legge tale battesimo con tono profetico: un re franco sarà il successore dei romani imperatori e la cristianizzazione dell’Europa sarà opera dei franchi.
Lo stesso Avito attrae i burgundi dall’arianesimo alla fede cattolica, conquistandosi la fiducia del principe Sigismondo, che si converte nel 500, seguito dai suoi sudditi. Nel 532 i burgundi si uniscono al regno franco, formando un solo popolo.
La profezia di Avito aspetta per tre secoli: nel natale dell’800 Carlo Magno viene dal papa solennemente incoronato «imperatore dei romani». Con zelo infaticabile, Carlo Magno e i suoi successori riportano gran parte dell’impero d’Occidente sotto il controllo del «Sacro romano impero», cristianizzando i popoli che via via vengono sottomessi. Spesso i popoli vinti non hanno alternativa: la fede o la morte. Il metodo non ha nulla di evangelico. Ma questi sono i tempi che corrono.
La stretta collaborazione tra i re franchi dilata la chiesa geograficamente, a scapito del radicamento del vangelo nella vita dei nuovi battezzati, monarchi compresi. L’acqua del battesimo non cancella la slealtà di Clodoveo, che fa uccidere i suoi parenti: lo zelo di Carlo Magno, monarca geniale e analfabeta, fa arricciare il naso perfino al papa e provoca le rimostranze del consigliere Alcuino, che gli ricorda un precetto di s. Agostino: «La fede è atto della volontà e non di costrizione».
A lavorare in profondità saranno i monaci.

Pellegrini per Cristo

M entre i monaci orientali si ritirano nel deserto, lontano dalla società, quelli occidentali vanno a vivere in mezzo alla gente, svolgendo un’azione missionaria completa: evangelizzazione in senso stretto e promozione umana. Vivendo come i contadini, essi ne conoscono la psicologia, adattano il cristianesimo al loro genere di vita e cristianizzano molti aspetti religiosi e culturali dei pagani.
Vari ordini monastici, con diverse regole, sorgono in Francia, Irlanda e Inghilterra. Tra i più benemeriti va annoverato quello fondato a Montecassino, nel 520, da Benedetto da Norcia. Ramificandosi in tutta l’Europa e fedeli al motto ora et labora, i benedettini semineranno vangelo, progresso e civiltà.
A mano a mano che i monasteri vengono fondati, la fede e la vita cristiana vengono consolidate nella regione circostante e i monaci partono per nuove imprese missionarie tra i non cristiani, mediante frequenti spostamenti in varie parti d’Europa. Sono i «pellegrini per Cristo», un movimento apostolico che diventa storicamente efficace grazie soprattutto agli irlandesi.
La loro evangelizzazione non è programmata, né guidata dall’alto. Tuttavia i campi di azione appaiono distinti chiaramente, a seconda della provenienza dei missionari. I monaci franchi e irlandesi si espandono prevalentemente nel centro-nord del regno franco, fino alle regioni della Baviera. Gli anglosassoni si dedicano all’evangelizzazione dei frisoni e degli stessi sassoni.

Irlanda evangelizzata ed evangelizzatrice

N on sfiorata dalla colonizzazione romana né dalle invasioni barbariche, l’Irlanda diventa totalmente cristiana per opera del monaco bretone Patrizio. Per 30 anni, con zelo infaticabile, egli fonda monasteri, punti di riferimento della vita religiosa e culturale del paese. Nella sua attività apostolica ha una geniale intuizione: associare i bardi (poeti e maestri di scuola) all’annuncio del vangelo.
Ne nasce una chiesa dai tratti originali, ma fieramente cattolica. L’abate è spesso anche il vescovo; alcuni elementi della liturgia, come la confessione privata, passeranno alla chiesa universale; la vita cristiana è solida e rigorosa. L’Irlanda sarà chiamata «l’isola di santi».
Una delle pratiche ascetiche dei monaci irlandesi è la «peregrinazione per Cristo». Essi si spargono presto nella Bretagna e poi in tutto il continente: da evangelizzati diventano evangelizzatori. Tra questi itineranti, il più famoso è Colombano: predica il vangelo e fonda monasteri in Francia, Svizzera e Italia.

Missione in Inghilterra

U n altro monaco, discepolo di s. Benedetto, diventato papa Gregorio Magno, si lancia nell’organizzazione missionaria: s’interessa della chiesa in Lombardia, Spagna e regno franco; ma prende a cuore, soprattutto, l’evangelizzazione della Gran Bretagna.
In buona parte già romanizzata e cristianizzata, l’isola è ripiombata nella barbarie: l’invasione di angli, juti e sassoni ha cancellato ogni traccia di cristianesimo. Nel 596 papa Gregorio vi invia 40 monaci, guidati dall’abate Agostino. L’anno seguente, a pentecoste, i missionari battezzano Etelberto, re di Kent, insieme alla sua corte; a natale 10 mila sudditi. A Canterbury Agostino costruisce la sede episcopale.
Per accelerare l’azione missionaria e l’organizzazione della chiesa, il papa manda altri missionari e alcune direttive, in cui si trovano i primi elementi della dottrina missionaria pontificia: evangelizzare non significa capovolgere le tradizioni nazionali; le usanze vanno cambiate in feste cristiane; distruggere gli idoli, ma non i templi, da usare eventualmente per il culto cristiano; imparare le lingue delle popolazioni locali.
Il nuovo metodo, ben lontano da quello distruttivo dei re franchi e dei monaci irlandesi, porta ottimi frutti. Alla morte di Agostino (605) gran parte dell’isola è cristiana. Roma invia un altro gruppo di missionari (657) e la riunificazione religiosa e politica del paese è completata.
L’Inghilterra è la prima nazione passata alla chiesa per iniziativa papale. Per molti secoli, monaci, principi e vescovi continueranno a evangelizzare l’Europa senza mandato né programmi specifici, per iniziativa privata e in modo un po’ anarchico, anche se poi, a cose fatte, tutti si premurano d’avere l’approvazione pontificia.

Dalla Germania i popoli scandinavi

A nche l’Inghilterra da evangelizzata diventa evangelizzatrice e continua la cristianizzazione avviata dai franchi in Germania. Comincia Vilfrido, abate di Ripon e vescovo di York: in viaggio per Roma, converte alcuni capi della Frisia (Paesi Bassi). Tornato in patria, manda il monaco Villibrordo, che converte la regione di Utrecht. Quindi passa in Danimarca, Turingia e Lussemburgo.
Nel 716, a 40 anni suonati, arriva nella Frisia anche il monaco Winfrido. Il primo tentativo missionario è deludente. Il monaco chiede aiuto a Roma, dove viene consacrato vescovo (622) e, col nome di Bonifacio, rimandato dal papa tra i frisoni.
Per tre anni Bonifacio affianca l’attività di Villibrordo; poi passa in Turingia, Assia e Baviera, fondando monasteri maschili e femminili. Organizza la chiesa tedesca, introducendo le parrocchie, riformando la vita spirituale del clero e fondando nuove diocesi, affidandole a vescovi anglo-sassoni.
Nel 732 Bonifacio è nominato vescovo di tutta la Germania, con sede a Magonza. Per mandato pontificio riorganizza la chiesa in Francia, ottenendo dai vescovi la professione collettiva di fede cattolica e la sottomissione a Roma per tutta la vita.
Bonifacio si distingue anche per il metodo missionario, ben lontano da quello dei suoi colleghi irlandesi. «Bisogna illuminare le intelligenze – dice -, procedere con argomenti opportuni e far sì che i pagani espongano le loro credenze». E dialoga anche con gli amici lasciati nella chiesa di origine: questi accompagnano la sua attività missionaria con preghiere, consigli e aiuti materiali (denaro, oggetti sacri, manoscritti della bibbia).
Quasi ottantenne Bonifacio ritorna al primo amore: l’annuncio diretto del vangelo ai pagani. Ritorna nella Frisia dove muore martire insieme a 42 compagni (754).
Al di là delle frontiere del Sacro romano impero, tra il Baltico, i Balcani e gli Urali, scorrazzano paurosamente grandi masse popolari. Per la chiesa si presenta un’altra occasione di evangelizzazione. I monaci anglosassoni accorrono tra le popolazioni baltiche e scandinave. Dalla Sassonia il monaco-maestro Ansgario (Oscar 801-865) raggiunge la Danimarca e poi la Svezia, ove nessun missionario è mai arrivato. Nominato da Gregorio IV vescovo di Amburgo (831) e legato pontificio per gli slavi e i popoli dei paesi nordici, lavora indefessamente per convertirli a Cristo. Ottiene buoni risultati. Ma tutto viene distrutto dalle invasioni dei normanni (845). Ridotto a vita raminga, Oscar riprende la sua missione: fonda la chiesa in Svezia e raggiunge la Scandinavia.
Dopo alcuni decenni, la missione di Oscar è ripresa dal monaco Unni (936). Il nuovo arcivescovo di Amburgo converte Harald, re della Danimarca (950). Alcuni anni dopo Olaf, re di Norvegia, abbraccia la fede cristiana (1026), lotta contro i ribelli pagani e muore in battaglia, diventando sant’Olaf (1030). L’Islanda si fa cristiana verso il 1000, seguita dalla Svezia e Groenlandia.
L’evangelizzazione dei paesi scandinavi è complessa e confusa. La creazione di diocesi è lentissima; ancor più lento l’abbandono delle abitudini pagane, come esposizione di neonati, divorzio, concubinaggio e pirateria.

Evangelizzazione dei popoli slavi

Sia la chiesa di Roma che quella di Bisanzio sono coinvolte nell’evangelizzazione dei popoli slavi. Questi vengono divisi in tre grandi gruppi: slavi meridionali (croati, sloveni, serbi, bulgari), slavi occidentali (moravi, boemi, cechi, poloni), slavi orientali (russi, ungari).
Croati e sloveni, confinanti con l’impero franco, sono i primi a entrare nella chiesa latina, nel secolo VIII, grazie ai missionari inviati dalle diocesi della Sassonia e di Aquileia. Presso i serbi arriva la chiesa di Bisanzio. I bulgari accolgono i missionari dalla chiesa di Roma.
Anche gli slavi occidentali sono tra i primi a ricevere il cristianesimo: a metà del IX secolo, 14 dei loro principi sono già battezzati. Ma nell’862, Ratislao, principe di Moravia, caccia i preti latini e chiede a Bisanzio missionari che parlino la lingua slava. Imperatore e patriarca mandano due fratelli di Tessalonica, Cirillo e Metodio.
Questi arrivano nell’863 e mettono a punto l’alfabeto glagolitico (ispirato alle minuscole del greco) e traducono in slavo i libri biblici e liturgici. L’uso della lingua slava nella liturgia, permessa dalla chiesa bizantina, favorisce l’attività missionaria dei due fratelli e l’espansione della chiesa orientale. In Occidente, invece, i preti franchi s’incaponiscono nel sostenere che non ci si possa rivolgere a Dio con una lingua barbara, ma solo con le lingue usate sulla croce di Gesù: ebraico, greco e latino.
Dalla Moravia, i due fratelli sono accolti con entusiasmo dagli slavi di Pannonia (parte dell’attuale Ungheria). Ma il clero sassone rende loro la vita dura. Dopo una serie di contatti con Roma, Metodio ottiene da Giovanni VIII l’approvazione ufficiale della liturgia slava (880). Cinque anni dopo, alla morte del grande missionario, il clero latino torna alla carica e Stefano V si rimangia la concessione. I discepoli di Metodio si rifugiano in Bulgaria.

Intanto missionari boemi portano la fede tra i polacchi e magiari (o ungheri). In occasione del matrimonio con la principessa boema Dubrawka, il principe Mieszko viene battezzato da Adalberto, vescovo di Praga: nasce la chiesa e lo stato polacco (966). Benedettini e camaldolesi consolideranno la chiesa in Polonia.
Venti anni dopo lo stesso Adalberto battezza il duca di Ungheria Geisa e suo figlio Stefano (985). Gli ungari si convertono in massa. Ma lo sviluppo della vita ecclesiale avviene sotto il regno di Stefano, che riceve la corona regale da papa Silvestro II (1001) e il titolo di «re apostolico». Alla sua morte il popolo torna alla vita pagana, fino a odiare il cristianesimo; ma la comunità cristiana riprende vita sotto Bela I (1061-1063).
Nel secolo IX i missionari bizantini portano il vangelo anche agli slavi orientali: i russi. La presenza cristiana si fa più consistente un secolo dopo, quando la principessa Olga, vedova di Igor, principe di Kiev, si fa battezzare a Costantinopoli (975). Ma sono i contatti con la Bulgaria che imprimono una svolta all’evangelizzazione dei russi. Affascinato dalla liturgia bizantina, il principe Vladimiro, nipote di Olga, e i suoi sudditi si fanno battezzare in massa nel fiume Dnieper. Nasce la chiesa della Russia, che adotta la liturgia in lingua slava. Da Kiev il cristianesimo si estenderà fino agli Urali.

La chiesa lacerata

Dopo mille anni di evangelizzazione, il cristianesimo si estende dall’Atlantico agli Urali e diventa l’unica religione dell’Europa. Nonostante tutti gli sconvolgimenti, la chiesa riesce a salvare l’eredità di Roma: universalità e civiltà dell’impero romano vengono integrate efficacemente nella cultura dei popoli germanici. Stato e chiesa procedono mano nella mano. È nata la «cristianità»: forma di società in cui la vita religiosa e politica di una moltitudine di popoli è amalgamata dalla fede cristiana.
Nel frattempo, però, la chiesa universale ha perso enormi pezzi sotto l’avanzata dell’islam. In tutta l’Africa mediterranea, dal Marocco all’Egitto, la chiesa è cancellata. In Asia la mezzaluna sventola sulla penisola arabica, Palestina, Siria, Mesopotamia, Persia, Armenia, Turkestan e India anteriore. Poche comunità cristiane riescono a mantenere la loro fede, disperse ed isolate nell’impero islamico.
I musulmani hanno cercato di espandersi anche in Europa, attaccando Costantinopoli e invadendo la Spagna, rimasta cattolica solo nelle Asturie.
Ancor più doloroso è il dramma che si consuma all’interno della chiesa: sette secoli di quisquiglie teologiche (in cui i bizantini sono maestri) e di intrighi politici… avvelenano i rapporti tra Oriente e Occidente, in un’altalena di dissapori e abbracci, dissidi e riconciliazioni, scontri e concili ecumenici. Finché nel 1054, in un ennesimo e svogliato tentativo di comporre vertenze antiche e nuove, il patriarca di Bisanzio, Michele Cerulario, e il legato del papa Leone IX si scambiano reciproche scomuniche.
È lo scisma d’Oriente. Nasce la chiesa ortodossa, cioè la chiesa che si contrappone a quella latina, ritenuta eretica. L’oriente cristiano si stacca da Roma, trascinando nello scisma tutte le chiese dell’Asia Minore, delle regioni del Caucaso, la Grecia, la Russia e vari paesi balcanici.




Fino al favoloso Catai

Lotta tra chiesa e potere politico;
minacce dell’islam e dei mongoli;
convulsioni ecclesiali intee…
Nonostante tutto si fa strada un modello
di chiesa più evangelica e più missionaria.
Nasce un nuovo stile di evangelizzazione
che si spinge fino agli estremi confini del mondo
allora conosciuto: il continente cinese
o Catai, come si diceva a quei tempi.

Voglia di riforma

L’abuso imperiale di conferire cariche ecclesiastiche produce effetti deleteri nella cristianità. La chiesa è asservita al potere politico; corruzione e mercanteggio di ordini sacri ne avvelenano la vita; vescovi e abati, con immense proprietà fondiarie, si comportano più da signori feudali che da guide spirituali. Dall’alto e dal basso soffiano venti di riforma.
Gregorio VII, diventato papa nel 1073, emana leggi severissime per stroncare simonia e clerogamia e per strappare all’imperatore il diritto di nominare gli ecclesiastici alla guida delle comunità cristiane. È uno scontro duro, conosciuto come «lotta per le investiture».
Dal basso la voglia di una chiesa più santa si fa strada anche tra la gente di ogni strato sociale. Nascono vari movimenti popolari: alcuni vogliono riformare la chiesa dal di fuori, con ribellione e fanatismo; altri cercano di cambiare la comunità cristiana dal di dentro, con la predicazione del vangelo e la testimonianza di vita evangelica. Grandi santi riformano diocesi e monasteri, rinnovando la vita del clero secolare e dei gloriosi ordini religiosi.
I movimenti popolari danno origine a una grande fioritura di nuove famiglie religiose, con spiccato carattere missionario, come gli ordini mendicanti dei frati minori, fondati da Francesco d’Assisi nel 1210, e dei predicatori o domenicani, nati nel 1215 per opera di Domenico di Guzman.
In una chiesa ancora tanto credula di non poter svolgere la sua missione senza l’appoggio della potenza, ricchezza e prestigio, i due ordini predicano e praticano valori rivoluzionari: povertà, umiltà, frateità. Entrambi hanno uno sviluppo strepitoso: dopo un secolo di vita i francescani contano 1.400 case e 30 mila frati; i domenicani 600 case e 10 mila religiosi. Ma ancor più impressionante è il ruolo che essi svolgono nell’evangelizzazione, sia per l’organizzazione metodica della missione che per la formazione regolare e continua del personale missionario.

Voglia di crociate… pacifiche

Quando nel 1076 i turchi occupano e devastano Gerusalemme, si crede che la fine del mondo sia vicina. Papa Urbano II lancia un appello a tutta la cristianità per la liberazione dei luoghi santi, la difesa della chiesa orientale dall’espansione musulmana e, magari, convertire a Cristo i saraceni. Un nuovo movimento di entusiasmo «missionario» esplode in Francia e contagia tutti i paesi europei.
Dal 1095 al 1270 otto grosse spedizioni militari o «crociate» si riversano in Oriente, facendo un buco nell’acqua: i luoghi sacri rimangono in mano islamica; le relazioni con la chiesa orientale sono avvelenate più che mai; di conversioni dei saraceni neppure l’ombra. Solo la Spagna è in gran parte liberata dal dominio islamico.
Stanchi di scannarsi a vicenda, dopo oltre sei secoli di «guerre sante», musulmani e cristiani scendono a compromessi. Nuove strade e relazioni tra Oriente e Occidente sono aperte a navigatori, armatori, commercianti e missionari.
Di fronte al fallimento delle armi, tra gli ordini mendicanti si fa strada l’idea di organizzare crociate «pacifiche». Il dovere di convertire i non cristiani è così forte che i missionari non arretrano neppure di fronte alla prospettiva del martirio.
Quando i superiori chiedono volontari da inviare tra i saraceni, i frati si offrono piangendo dalla commozione, come testimonia il famoso «capitolo delle lacrime» dei domenicani (1255).
Anche negli ordini di vita claustrale il dovere missionario è sentito con impellenza: nel 1245 i cistercensi cominciano a recitare ogni giorno sette salmi «secondo le intenzioni dei francescani e domenicani, mandati dal signor papa nei paesi più lontani a propagare la fede».
Francesco per primo dà l’esempio del nuovo stile missionario: armato solo di fede e crocifisso, va a convertire i musulmani marocchini (1214). Una malattia lo rimanda a casa; ma riparte per l’Egitto e riesce a incontrare il sultano El Kamil, proprio mentre i crociati assediano Damietta (1219). Il sultano non si converte, ma prova tanta tenerezza e simpatia che permette al missionario di visitare tutti i luoghi santi prima di tornare in Italia.
Altri francescani sono inviati in Tunisia, Marocco, Palestina, Turchia, Mesopotamia a convertire scismatici e musulmani. Altrettanto fanno i domenicani in Grecia, Cipro, Persia, Ungheria, Ucraina, Russia e paesi baltici. Ma le conversioni dei saraceni sono rare; i missionari possono circolare liberamente nel paese, al pari dei mercanti, ma non predicare in pubblico; chi si azzarda può finire male. Non pochi missionari d’ambo gli ordini finiscono martiri in Marocco e Tunisia.
Qualche successo è ottenuto, invece, nel riavvicinamento con varie chiese orientali, alcune delle quali rientrano nella comunione con Roma, come i maroniti del Libano e vari gruppi di armeni, giacobiti e nestoriani.

Nasce la scienza missionaria

«B isogna scrivere libri che foiscano ai missionari argomenti per convertire le nazioni barbare, pagani, saraceni, giudei, eretici, scismatici e quanti altri sono fuori della chiesa» esorta Umberto da Romans, generale dei domenicani. Rispondono Tommaso d’Aquino (1225-1274) con la Summa contro i gentili, Argomenti della fede contro saraceni, greci e armeni e varie opere; Raimondo Martini, con Combattimento della fede contro mori e giudei; Guglielmo da Tripoli, missionario in terra santa, con lo Stato dei saraceni; Ricoldo da Montecroce con un vademecum zeppo di consigli per i missionari. Un altro generale dei domenicani, Raimondo di Peñafort, fonda due collegi per lo studio delle lingue orientali e la formazione dei missionari.
Tra i francescani, Ruggero Bacone (1210-1294) scrive l’Aspetto geografico della terra santa e Raimondo Lullo (1234-1315) il Trattato sulla maniera di convertire gli infedeli e altri numerosi trattati missionari.
Quest’ultimo, soprattutto, è considerato un fondatore della missiologia. Insiste sulla formazione enciclopedica dei missionari: lingue, soprattutto, e poi usi e costumi, ambiente e cultura, filosofia e religione dei popoli da evangelizzare. Egli esorta i suoi superiori ad aprire collegi di lingue e lui stesso ne fonda uno a Maiorca; scrive ai papi e alle università perché istituiscano cattedre di lingue orientali.
Un altro geniale suggerimento di Raimondo Lullo: un cardinale abbia l’incarico della politica missionaria del papato.
L’attuazione dell’idea dovrà aspettare 300 anni, ma non è del tutto scartata. Il papato diventa sempre più il peo dell’evangelizzazione estera: ordina inchieste su missioni e missionari, riceve le richieste di personale e le trasmette ai superiori; raccomanda i missionari ai sovrani e raccoglie fondi per i viaggi ed edifici.
Pur continuando ad esistere i missionari pellegrini, battitori liberi che vanno dove li porta il cuore, la missione diventa sempre più centralizzata e meglio organizzata. Si fa strada una convinzione fondamentale: la missione è, nella chiesa, un’attività specifica ed essenziale.
Il vangelo in Cina

«L a cristianità è in pericolo» si grida in tutta Europa nel 1241, quando il generale mongolo Batu porta i suoi cavalli a rinfrescarsi nelle acque dell’Adriatico. In pochi anni, Gengis Khan e figli hanno costruito un impero colossale, dalla Corea alla Polonia e Ungheria, dal mar Giallo al golfo Persico, passando per l’Asia centrale e le vallate dell’Indo. Il passaggio dei mongoli (o tartari) semina dappertutto terrore e morte: città ridotte a cumuli di macerie; abitanti sgozzati come capre o deportati come schiavi. La stessa sorte tocca a molti cristiani russi, polacchi, ungheresi.
Il «remedium contra tartaros» è posto all’ordine del giorno nel concilio a Lione (1245). Scartata l’idea di una crociata, papa Innocenzo IV vede nell’espansione mongola una nuova sfida missionaria, per convertire il gran khan al cristianesimo o, almeno, farselo alleato contro l’islam.
Quello stesso anno, il francescano Giovanni da Pian del Carpine parte per la Mongolia. Attraversando a piedi le sterminate steppe centroasiatiche, dopo quindici mesi di viaggio raggiunge Karakorum e consegna a Kuyuk-Khan il messaggio papale, che invita l’imperatore mongolo alla pace e alla conversione al cristianesimo. L’accoglienza è gentile; ma il missionario è rimandato con un messaggio inequivocabile: «Voi tutti, papa e imperatore, re e governanti, affrettatevi a venire di persona e sentirete le nostre proposte di pace. Quanto a convertirci, non ne vediamo la ragione».
Altri missionari vengono inviati con lettere del papa e di Luigi re di Francia: il domenicano Andrea da Longiumeau (1249) e il francescano Guglielmo di Rusbruk (1255). Anch’essi, però, non hanno maggiore fortuna: il gran khan risponde di non conoscere altro Dio, in cielo e sulla terra, al di fuori di Gengis Khan.
I loro viaggi tuttavia hanno risvolti positivi: le notizie raccolte dai missionari svelano all’Occidente un mondo ancora sconosciuto; le loro imprese aprono ai mercanti la strada verso il favoloso Catay, com’era chiamata la Cina, dove nel frattempo si è spostata la capitale dell’impero mongolo.
Più delle missioni diplomatiche, riescono quelle commerciali, come l’avventura dei mercanti veneziani Nicolò e Matteo Polo (1260-69). Quando questi si congedano, il gran khan Kubilai li prega di portargli «un po’ d’olio della lampada che arde sul sepolcro di Cristo» e chiedere al papa d’inviare 100 uomini esperti nelle arti e nella religione.
Nel 1271 il papa manda due domenicani, insieme ai due mercanti veneziani, cui si è aggiunto il piccolo Marco Polo; ma i frati tornano subito indietro. Nel 1277 sono inviati quattro francescani, che spariscono nel nulla. Dieci anni dopo lo stesso Kubilai invia in Europa un monaco nestoriano, che ripete la richiesta di missionari. Nel 1289 Nicolò IV, primo papa francescano, manda un missionario collaudato: fra’ Giovanni da Montecorvino.
Con un manipolo di francescani e domenicani, fra’ Giovanni attraversa l’Armenia, Persia, India, predicando, battezzando e organizzando comunità cristiane. Continuando il viaggio via mare, giunge solo a Pechino e comincia con successo l’evangelizzazione di mongoli e cinesi. Rimane da solo per 13 anni, svolgendo un lavoro immenso, finché papa Clemente V gli manda alcuni missionari e vescovi, per consacrarlo arcivescovo di Pechino (1307). In pochi anni vengono erette altre diocesi suffraganee.
Nel 1325 un altro grande missionario francescano, Odorico da Pordenone, dopo aver percorso innumerevoli regioni e isole dell’Asia meridionale, sempre predicando e battezzando, raggiunge Pechino; per tre anni aiuta il vecchio Montecorvino e pianifica con lui nuove imprese missionarie. Ritorna in Italia, via terra, per chiedere rinforzi per la missione in Cina. Purtroppo muore un anno dopo il suo arrivo: ha macinato per mare e per terra oltre 50 mila chilometri.
Prima di morire, però, Odorico ha il tempo di dettare a fra’ Guglielmo di Solagna le sue memorie, intitolate: Relatio (relazione), che non ha nulla da invidiare al Milione di Marco. Il libro di Odorico diventa subito un best seller: ne sono stati ritrovati oltre 130 manoscritti, senza contare le traduzioni in italiano, francese e tedesco.

Alla morte di Giovanni da Montecorvino (1328)
i cristiani cinesi sono oltre 30 mila. La sua opera viene proseguita da una cinquantina di confratelli. Ma nel 1368, con la caduta dell’impero mongolo e l’avvento della dinastia dei ming, i confini della Cina si chiudono, le cristianità cinesi si dissolvono e lentamente scompaiono nel nulla. Bisognerà attendere 200 anni prima che l’evangelizzazione venga ripresa dai gesuiti.