CHE IL VINO NON DIVENTI ACQUA!


Riflessioni proposte ai missionari nel Convegno di Ariccia/Roma
(4-8 febbraio), utili anche a chi ha a cuore una chiesa diversa, più
missionaria.

L’invito
proposto al Convegno di Bellaria (1998) fu di «aprire il libro della
missione». E fin qui, niente di speciale: possiamo aprirlo e lasciarlo
sulle nostre scrivanie. Occorre, invece, leggere e lasciarci mettere in
discussione. Aprire il libro richiede movimento, gesti dinamici per
passare dal «fare» all’«essere» missione.

Come tutti
i libri, anche quello della missione ha una premessa, dei capitoli e un
epilogo. Ma non ci deve essere la parola «fine».



 Una premessa:

è la
chiamata dei dodici da parte di Gesù, che li scelse per averli con sé e
mandarli poi a predicare due a due. Leggeri nell’«equipaggio», non
avrebbero dovuto essere maestri di retorica, ma persone dal linguaggio
schietto, astuti e docili; insomma, non semplicioni e neppure saccenti,
capaci invece di coniugare amore e giustizia.

Li avvertì
che non sempre avrebbero trovato dove posare il capo; anzi, sarebbero
stati odiati a causa sua. E, compiuta la missione, niente gloria, ma solo
e semplicemente essere considerati «servi inutili».

Unico
segno di potenza: la croce!

All’origine

di ogni
vocazione, c’è sempre l’iniziativa di Cristo e la risposta della persona
chiamata. Lo scopo della scelta è duplice: condividere la sua vita e
continuae la missione di incarnazione, annuncio e testimonianza. Questo
aspetto della chiamata è essenziale, per non dimenticare le nostre origini
e correre il rischio di invertire i ruoli, sentendoci datori di lavoro,
importanti, onnipresenti, indispensabili!

Vogliamo
costruire il Regno… e non abbiamo tempo di stare con Lui, dimenticandoci
di un piccolo particolare: che il Regno è già iniziato! A noi tocca
annunciarlo, scoprirlo e farlo conoscere. Il Regno c’è; non siamo noi che
lo inventiamo; ma spesso assumiamo atteggiamenti da «architetti».

Si
annuncia quello che si ha dentro, l’esperienza personale. Questo  ci
insegna la missione, ed è quanto le nostre chiese madri si attendono da
noi. La chiesa italiana chiede ai missionari spirito apostolico,
entusiasmo evangelico, tenacia e testimonianza (martirio), per
rivitalizzare il cammino delle comunità cristiane dell’Occidente.

La
presenza di istituti missionari in una chiesa locale non può né deve
passare inosservata. Anche perché (forse non lo sappiamo), siamo
considerati gli esperti dell’annuncio e siamo chiamati ad animare la
comunità cristiana. Lo abbiamo fatto e lo facciamo con disinvoltura in
terre geograficamente di missione, ma con la nostra gente ci ritroviamo
timidi, paurosi e ritrosi.

Ci
sentiamo inadeguati e stranieri in casa nostra? Non sappiamo più metterci
in sintonia con il popolo?… Perché in missione ti senti grande, capace e
qui, dove sei nato, ti senti balbuziente?… Animare la propria chiesa è
certamente meno gratificante, ma è altrettanto urgente e indispensabile.
La nostra presenza deve essere viva, quasi un pungolo che stimola, porta
al confronto e obbliga all’azione.

Però
essere missionari non significa fare i supplenti. Oggi in Italia si stanno
creando situazioni di missione, di rievangelizzazione. La tentazione è di
affidare «agli addetti del mestiere» zone o situazioni considerate di
frontiera. Da parte nostra è doveroso privilegiare questi servizi, ma è
compito della chiesa locale fronteggiare tali realtà e trovare risposte
adeguate. Come, per esempio, la cosiddetta missione che «viene a noi»,
cioè il fenomeno migratorio.

Dobbiamo
privilegiare i campi di animazione missionaria, avere una presenza nei
seminari diocesani (e non solo con missionari, ma anche missionarie),
intervenire nei mezzi di comunicazione per far passare un nuovo modo di
percepire gli altri.



 La natura stessa

della
vocazione missionaria è dialogica. L’incontro con l’altro, il diverso, il
nuovo è pane di ogni giorno: un esercizio giornaliero che dovrebbe
allenarci ad essere persone capaci di empatia, di «compassione». Chi apre
e legge il libro della missione trova questo capitolo di estrema
attualità.

Oggi in
Italia assistiamo preoccupati ad un ritorno di ideologie xenofobe, con
posizioni intransigenti a tolleranza zero; assistiamo ad un regresso
culturale. È caduto il muro di Berlino, ma se ne stanno erigendo altri,
invisibili, ma forse più massicci. E sembra che questo non incida sul
nostro «quieto vivere»!

I casi
sono due: o la vita missionaria ci è passata sopra, senza forgiare
minimamente il nostro essere, o non siamo informati: gravissimo peccato
pure questo. L’informazione critica, l’approfondimento serio, la ricerca e
lo studio devono essere una delle nostre principali attività.

Dialogo
esige conoscenza, ascolto, competenza. Sono finiti i tempi in cui bastava
raccontare la storia del «moretto». Oggi la gente vuole conoscere i perché
delle tragedie che assillano il Sud del mondo; vuole sapere quali e di chi
sono le responsabilità dei disastri umanitari. Qui e in missione dobbiamo
essere responsabilmente preparati.

Dialogo è
anche collaborazione: tra missionari e con i laici. Ma non lasciamoli
entrare solo dalla porta di retro, ossia in qualità di subaltei, senza
diritto di parola. Sono invece persone che possono aiutarci a leggere
criticamente la realtà nella quale viviamo.



 I poveri, ragione prima

e ultima
della nostra vita. Però mai una parola come «poveri» è stata tanto usata e
abusata. I poveri sono diventati oggetto di estenuanti riflessioni,
documenti…

Eppure,
chissà perché, mai come adesso sono così lontani da noi. Ci siamo talmente
adeguati a mettere «a norma» le nostre case, che non c’è quasi più posto
per chi «a norma non è». Abbiamo paura di infrangere le leggi dello stato
e perdiamo la forza di «contraddizione» (come Gesù, segno di
contraddizione!).

Non
possiamo avere due regole di vita: in missione e in Italia. Se sei
disposto al martirio là, devi essere disposto a infrangere le leggi anche
qua, che diminuiscono la testimonianza evangelica.

Davvero ci
siamo incarnati, fino a far causa comune con gli emarginati? Il nostro
stare con i poveri è nel ruolo di «compagni di viaggio» verso un mondo più
giusto? Oppure, facciamo sentire il peso del nostro vantaggio economico,
culturale, spirituale?

Partire

è la
nostra parola d’ordine, anche se a volte non sappiamo bene verso dove.
Talvolta non si capisce bene se è «fuga» o un partire verso qualcuno,
uscendo da noi stessi. Non basta divorare chilometri per sentirsi
missionari: la partenza che ci viene richiesta è più radicale e meno
avventurosa.

Ripartire,
ogni giorno e ogni momento, per andare incontro all’altro… Nel libro
della missione ci sono parole essenziali, che dobbiamo ricuperare:
passione, gioia, fermezza; devono sostituire… negatività, stanchezza,
istituzionalizzazione del carisma.

La
missione ci richiede di essere, più che assertori di certezze, umili
ricercatori di verità… profeti in cammino verso il Regno. Se scordiamo
la chiamata, l’essere noi stessi «terra da evangelizzare», la nostra
attività sarà come il muoversi «di un mare agitato che non può calmarsi, e
le cui acque portano su melma e fango» (Is 57, 20).

Non
conformiamoci alle regole della società, per non fare l’antimiracolo:
trasformare il vino in acqua!

(*) Elisa
Kidanè, missionaria comboniana eritrea, ha operato in Ecuador. Oggi è
redattrice di Raggio.

Elisa Kidanè




GRANDI AMORI


«Cuore grande e fede incrollabile, uniti a uno spirito
ribelle e un po’ goliardico, hanno fatto di questo piccolo grande
missionario uno strumento formidabile dell’amore cristiano». Così gli
amici ricordano padre Antonio Giannelli, scomparso all’inizio di quest’anno,
dopo aver speso quasi 50 anni in Africa, privilegiando poveri, anziani e
bambini.
Invece,
dopo circa due ore, eccoci a Gaturi, la missione di padre Antonio, dove
sarò ospite per un mese insieme a Ugo e Luca. Non fatichiamo molto a
capire che la nostra vacanza in Kenya sarà caratterizzata dal lavoro sodo,
per dipingere la chiesa parrocchiale: siamo qui per questo e ce ne
rallegriamo.

Padre
Antonio non ci fa mancare nulla: pennelli, vernice, cappelli di carta,
scale, ponteggi e latte caldo a volontà. Eh, sì! Sull’altopiano collinoso,
200 chilometri a nord di Nairobi, agosto è fresco e piovoso.

Le
giornate sono faticose, ma serene. Antonio, aiutato da padre Aldo Cremasco,
è sempre in movimento: scuola, famiglie da visitare, dispensario, bambini
da accudire ed educare. E poi le funzioni sacre con i canti così
coinvolgenti, la preghiera comunitaria ed altre attività religiose… La
sera arriva improvvisa e ci coglie indaffarati nelle ultime fatiche della
giornata.

Padre
Antonio arriva spesso per ultimo al desco serale, ma è il primo ad alzarsi
per riordinare la cucina e accendere il gruppo elettrogeno, che fornisce
per un’ora o poco più l’energia elettrica. Appena il tempo di una partita
a carte prima del meritato riposo: il vincitore, manco a dirlo, è quasi
sempre padre Antonio.

Il
ricovero per anziani è una delle realizzazioni di cui il missionario va
più orgoglioso. Anche se nella tradizione familiare africana la figura
dell’anziano riveste un ruolo importante, la realtà è spesso differente:
l’emarginazione di persone, avanti negli anni e non più totalmente
autosufficienti, è sempre più frequente nella società locale.

Tutti i
giorni Antonio passa molto tempo con i suoi «vecchietti», come li chiama
con affetto. Per ognuno ha una parola di conforto; ma non solo: si informa
delle loro necessità e li mette al corrente di ciò che sta accadendo nel
villaggio.

Quattro
settimane sono passate in fretta e ci troviamo di nuovo all’aeroporto di
Nairobi in attesa del volo per l’Italia. Rimpianto e malinconia sono i
sentimenti dominanti, mitigati, però, dalla consapevolezza di avere
imparato tante cose dalla compagnia del missionario.

Dopo
questa esperienza, non sono più lo stesso: le parole del vangelo sono
sentite come invito obbligatorio a fare qualcosa per gli altri e la
condivisione con i più deboli è diventata più naturale. E questo grazie
all’esempio di padre Antonio, che proprio nel messaggio di Cristo trova la
forza per affrontare ogni giorno grandi sfide e fatiche, anche nei momenti
in cui la salute incomincia a dargli qualche grattacapo.

Ritoo in
Kenya nel 1992 e trovo in padre Antonio il solito spirito giovanile, come
se il tempo lo avesse appena sfiorato.

Nel
frattempo egli ha cambiato parrocchia: nel 1987 è stato incaricato di
fondare una nuova missione nella zona di Wamagana, a nord di Nyeri. Detto
fatto: si è messo subito al lavoro e in pochi anni ha compiuto
un’autentica meraviglia. Egli stesso mi fa da cicerone, mostrandomi le
opere realizzate: chiesa, casa dei padri, scuola secondaria, laboratorio
di cucito per le ragazze, casa per le suore e, vero fiore all’occhiello,
la casa di accoglienza per bambini con gravi deficit mentali e motori. Una
vera rarità nel panorama assistenziale africano.

Maestosa è
la chiesa parrocchiale, dedicata alla Madonna della coltura, venerata nel
santuario di Parabita (Lecce), luogo natale del missionario della
Consolata. La costruzione è stata laboriosa e lo ha occupato a lungo; ma
ne è risultato un edificio con l’ardito tetto in cemento armato, simile a
quello della cattedrale di Nyeri, e le pareti arricchite da bei dipinti,
tele e vetrate multicolori.


Nell’illustrare le varie opere della missione i suoi occhi brillano di
luce particolare: senza l’aiuto della Madonna, fa intendere che non
sarebbe riuscito a costruire tutto ciò che sto ammirando.

Una simile
impresa implica un’organizzazione complessa e articolata. Il missionario
vi ha coinvolto i cristiani della parrocchia in modo ampio e concreto,
stimolandoli a crescere nel senso di responsabilità verso tutti i loro
simili.

Una delle
caratteristiche più affascinanti di padre Antonio è l’entusiasmo con cui
si prodiga per il bene degli altri, senza badare a sacrifici né alla
propria salute. Ed è un entusiasmo contagioso, che suscita solidarietà in
numerose persone, familiari e amici sparsi in Italia,  a cui confida
progetti, fatiche e speranze.

 

 

Torino
1999. Padre Antonio ritorna in Italia per controlli sanitari urgenti. La
salute lo sta abbandonando piano piano, ma non si scoraggia: accetta la
malattia con grande serenità e dignità.

Nonostante
le precarie condizioni fisiche, vorrebbe salire su un aereo e volare tra i
«suoi bambini» di Wamagana. «La mia casa e i miei figli sono laggiù – mi
confida -. È là che devo tornare. Qui procuro solo guai!».

Il
pomeriggio del 23 gennaio 2001 padre Antonio si sente male; avvisa i suoi
dell’imminente fine; affida le ultime volontà a padre Daniele Armanni e
vola in paradiso.

La sua
scomparsa mi lascia sbigottito, insieme a tutti coloro che gli sono stati
vicini. Ci rimangono una profonda ammirazione per la fede e forza d’animo
con cui è vissuto fino all’ultimo respiro e la certezza che, dal cielo,
potrà fare ancora tanto per i suoi bambini e per quanti lo hanno
conosciuto. Ci mancherà moltissimo. Ma saremo ugualmente suoi testimoni,
concreti e puntuali, per continuare a fare vivere a Wamagana un pezzetto
di paradiso.

 


MISSIONARIO
«MAIUSCOLO»

Quando per
strada incontro un bambino mi ritorna alla mente ciò che padre Antonio
Giannelli ripeteva negli ultimi mesi di vita come un testamento. Adesso
che non c’è più, mi rendo conto di quanto amore avesse in cuore per i suoi
bambini e con quanta sofferenza avesse dovuto lasciare, nel maggio 1999,
la sua missione di Wamagana.

Da quel 23
gennaio, quando padre Antonio ci ha lasciati, per me e per tanti altri è
come se una parte della nostra vita se ne sia andata con lui; ma la sua
presenza continua a scandie i momenti sereni e tristi. Ricordo ogni suo
gesto e parola. Anche quando, scherzando, mi diceva «vattine», era per me
un momento di affetto, che rimarrà per sempre scolpito nella mente e nel
cuore.

Ho davanti
agli occhi alcune fotografie che rievocano i momenti sereni. Anche se
ormai la malattia aveva scalfito il suo fisico e ancor più il suo cuore,
riusciva a dimenticare la sofferenza per farci sentire tutta la sua
umanità, come nelle interminabili partite a carte, in cui boicottava il
gioco (perché non accettava di perdere) o davanti a un piatto fumante di
polenta e funghi, quando ringraziava il Signore per ciò che gli era
concesso, soprattutto per essere ancora con noi e poter dare ancora
qualcosa.

Da padre
Antonio abbiamo ricevuto molto. Col carattere spensierato e ribelle, a
volte incosciente, ci ha regalato momenti di gioia; col suo coraggio,
dignità e voglia di lottare, specie contro il male che lo stava
distruggendo, ha fortificato il nostro carattere. Con i suoi silenzi, la
riservatezza e (perché no?) la testardaggine, a volte sfrontata, ci ha
insegnato che l’amore per gli altri è più importante dell’amore per se
stessi.

Ricordo
anche la sofferenza e rabbia che provava quando si sentiva accusato di
gestire missione e progetti con criteri troppo personali. Per me e per chi
l’ha conosciuto a fondo, padre Antonio è stato e resterà sempre un
missionario con la «M» maiuscola, per tutto quello che ha fatto per la
gente delle missioni in cui ha lavorato per tanti anni; specialmente per i
«suoi bambini», che considerava tutti figli suoi, e per la comunità di
Wamagana, che riteneva la sua grande famiglia.

Il modo
migliore per ricordarlo e ringraziarlo di tutto quello che ha saputo e
voluto darci in tanti anni di amicizia, sincera e disinteressata,
consisterà nel continuare la sua opera, specialmente a favore dei «suoi
bambini». Glielo abbiamo promesso.

Federico Casarani




PUNTI INTERROGATIVI


Ripensando ai lunghi anni trascorsi in Kenya, un missionario si confessa.
È cambiato il modo di stare con la gente, di spiegare la salvezza dei non
cristiani di aiutare gli altri…
Ma,
anche se ci si può lamentare con Dio di fronte alle sofferenze dei
poveri,la cosa migliore da fare è ancora… fidarsi di Lui.

Siamo agli inizi

degli anni
’50. Sono le mie prime settimane di scuola e sto cercando di mettere
insieme le lettere dell’alfabeto, di leggere le prime parole. Però mi
sembra tutto tempo sprecato: niente entra in zucca! Un giorno la maestra
ci chiede di portare qualcosa per la «giornata missionaria mondiale». E
che cos’è?

Rumino la
parola «missione» lungo la strada… niente! Forse che la maestra non
lavora per noi? Ha bisogno anche lei di uno stipendio. Forse è proprio
questo che ci ha chiesto. Lo dico subito a papà e, immaginate la mia
delusione, quando mi risponde che è già pagata dal governo.

Missione.
«Sì, – mi spiegano – sono i neretti». Poverini! Devono avere ben freddo,
perché sono mezzi nudi. Mia sorellina ha una bambola moretta: la guardo,
la rigiro tra le mani… Sono anch’essi come noi. Cambia solo il colore
della pelle. Ma – continuo a chiedermi – come mai sono così? Forse che si
sono dati il lucido da scarpe?…

Erano
altri tempi. L’Italia era ancora «bianca e pulita», come sostengono alcuni
oggi. Per le nostre strade non si vedeva «gente di colore». Oggi tutto è
cambiato. Italia ed Europa stanno diventando sempre più color caffellatte
e nessuno si chiede più come sono i negretti. Gli anni sono passati e
anch’io, ormai, ho trascorso metà della mia vita in Africa. Sono
missionario. Ma perché?

Ci
dicevano e ripetevano che coloro che morivano senza battesimo andavano
all’inferno. Bisognava, allora, andare, battezzare, predicare. Questo,
però, mi ha sempre lasciato con molti punti interrogativi… In Kenya le
conversioni sono molte, i catecumenati pieni e tanti chiedono di conoscere
la fede cristiana. Lo Spirito lavora, anche se è tutta gente che viene
dalle religioni tradizionali.

Ma i
musulmani, gli hindu… non si convertono. Parlare loro di Gesù Cristo?
Sarebbe inutile. Penso al commerciante indiano che, ogni settimana,
provvede il pane all’orfanotrofio. Penso alla donna musulmana che ho
incontrato un giorno nel suo negozio, durante il ramadan, mese del
digiuno: stava ascoltando alla radio un programma musulmano, con il volume
assordante. Non capivo la lingua, ma sentivo che ripeteva sempre la stessa
litania e la ripeteva mentre mi serviva. Mi sono azzardato a chiedere che
cosa fosse. Un po’ sorpresa, mi ha risposto che si trattava della loro
preghiera, senz’altro strana, molto strana per noi.

Che gente
come questa dovesse andare all’inferno non l’ho mai pensato. Per fortuna
oggi la teologia è cambiata e in paradiso ci vanno molti di più. Il mio
compito è soprattutto quello di «testimoniare», condividere, essere
presente.

Ammiro tantissimo

i primi
missionari arrivati qui, nel centro del Kenya, all’inizio del secolo. Soli
e sperduti in un paese senza strade, tra gente indifferente e a volte
ostile, impossibilitati a comunicare non conoscendo la lingua del posto,
tagliati fuori dal loro mondo di origine… Quanta povertà!

Eppure ce
l’hanno fatta… Oggi alzo la cornetta e chiamo l’Italia, senza neppure
passare dal centralino. Ci sono strade, macchine. In città troviamo cibi
di ogni tipo e viviamo in case di pietra.

Ricordo un
mio compagno missionario che voleva vivere come loro, gli africani: cibo,
casa, mezzi di trasporto… Dopo qualche tempo si è ritrovato
all’ospedale: una degenza che l’ha fatto riflettere e gli ha fatto
cambiare qualche idea. Ho un’educazione, una formazione, una cultura, un
passaporto, una cittadinanza italiana. Quanti in Kenya vorrebbero averla.
Scapperebbero subito, per cercare fortuna in Italia. Sì! Sono ricco. Ma mi
sento anche tanto povero.

Povero,
perché vivo in un paese straniero, di cui non potrò mai conoscere appieno
la lingua e la cultura. La mentalità della gente è sempre un mistero,
anche dopo tanti anni. Povero, perché in certi uffici o parlando con certe
persone, sento chiaro il messaggio o l’invito (anche se non detto a
parole): è meglio che me ne torni nel mio paese.

Sì, sono
un povero ricco o un ricco povero! Senz’altro un segno di contraddizione:
amato, stimato, rispettato da molti… rigettato da altri. Testimonianza,
quindi, di un povero ricco. Ed è con la mentalità del ricco che sono
venuto. Avevo molto da dare. Ed era anche vero. Oggi, quando qualcuno mi
chiede un aiuto materiale, non posso dire che non ho niente. In fondo alle
tasche qualche monetina la trovo sempre.

Ma, dopo
tanti anni, mi accorgo che ho ricevuto molto dagli africani. Hanno valori
che noi non abbiamo o abbiamo perso: amore alla vita, solidarietà,
comunità, il gusto per la celebrazione… Quando sono in Italia, quelle
messe domenicali di 35 minuti, così slavate, proprio non mi dicono niente
o quasi. E non c’è modo di farle più lunghe, perché ti accorgi che la
gente comincia a guardare l’orologio o il parroco, dopo gli avvisi, ha già
detto ai fedeli: «In piedi per la preghiera finale».

E quella
volta che mi sono permesso di lasciare un minuto di silenzio dopo la
comunione, l’inserviente in sacrestia mi ha subito domandato se mi fossi
addormentato. Poteva permetterselo, perché… era mio nipote! Le
celebrazioni liturgiche in Africa, sempre così animate e piene di vita,
sono un’altra cosa.


Missione è presenza

dare e
ricevere, in un interscambio che arricchisce entrambe le parti. Sono
venuto giovane, entusiasta, pieno di vita, pensando di cambiare il mondo.
Mi accorgo ora, dopo tanti anni, che l’Africa ha cambiato me.

È appena
venuta una donna a chiedere aiuto: non ha di che sfamare la famiglia. So
che è sincera. È la seconda siccità di fila; sono mancate le piogge anche
quest’anno. Andando in giro, mi si stringe il cuore, quando vedo quel
granoturco così accartocciato. Ho trovato ancora qualcosa per lei nel
portafoglio. Ma domani avrà di nuovo fame. È nuvoloso, ma non cade una
goccia di pioggia per salvare in extremis questo granoturco e questi
fagioli. Niente. Chiedo a Dio, nella preghiera, che cosa stia facendo. Il
suo silenzio è terribile. Certo, se avessi creato io il mondo, l’avrei
fatto diverso. Non avrei permesso che tanta gente soffra la fame.

Ma forse è
meglio che lasci a Dio il suo mestiere. E io mi accontenti di essere un
povero testimone, che ha tanto da imparare. Un testimone che prega con
questa gente: «Dacci oggi, il nostro pane quotidiano». E quanto al mondo,
visto che non l’ho creato io, non sarò io a cambiarlo. Ma voglio offrire
il mio piccolissimo contributo per renderlo più umano, più abitabile.

È tutto
ciò che posso fare e che Dio mi consente… qui in Kenya. Gliene sono
grato. Molto grato.

Un missionario sereno




GIUSEPPE ALLAMANO – Dalla Consolata al mondo

Chi passa per la casa madre dei missionari della Consolata a Torino si trova davanti a striscioni che ricordano i loro 100 anni di vita: «I missionari della Consolata compiono cento anni!».
Un anniversario ricco di stimoli. Ripercorrere la propria storia è motivo per vedervi la presenza di Dio. Ai missionari partenti, il fondatore, beato Giuseppe Allamano, spesso ripeteva la incoraggiante promessa di Gesù, quando affida ai discepoli di continuare la sua opera di evangelizzazione nel mondo intero: «Io sono con voi tutti i giorni». E commenta: «Egli parte con voi, sarà il vostro sostegno… Questo pensiero deve essere la vostra consolazione: il Signore parte con voi e sarà sempre con voi, non in modo generico, ma tutto particolare» (Conf. III, 470). È lui che opera attraverso i suoi messaggeri.
Ma, prima ancora, egli ha agito nel beato Giuseppe Allamano, a cui si deve la fondazione dell’Istituto. Egli ebbe sempre viva la coscienza di essere soltanto uno strumento nelle mani di Dio per la realizzazione di tante vocazioni alla missione: «Non avendo potuto essere missionario io – diceva – mi sono proposto di aiutare altri a esserlo». Ma si è preoccupato, anzitutto, che fosse il Signore a volerlo, secondo la direttiva fondamentale su cui ha regolato la sua esistenza: fare in tutto e sempre la volontà di Dio.
Alla fondazione di un istituto esclusivamente dedicato all’evangelizzazione dei popoli a cui non è giunto il messaggio del vangelo, l’Allamano pensò in modo abbastanza concreto fin dal 1891, ma non si mosse finché non ebbe la garanzia che ciò rientrava nei disegni di Dio.
La prova da lui ritenuta definitiva la ebbe nel gennaio 1900 quando, assistendo una anziana signora in una gelida soffitta, ne uscì con i brividi della febbre, sviluppatasi poi in broncopolmonite, che lo portò, debole di polmoni fin dagli anni del seminario, in fin di vita. Le suppliche alla Consolata ottennero la guarigione, ritenuta da tutti e dall’Allamano stesso, miracolosa. Erano le prime ore del 29 gennaio. Lui stesso davanti al quadretto della Consolata che stava ai piedi del suo letto promise che, se fosse guarito, avrebbe dato inizio all’Istituto. E mantenne la promessa. Diceva: «Avendo ottenuta la guarigione dalla malattia mortale la fondazione si doveva fare: che io fossi guarito non si poteva negare».
Convalescente nella villa di Rivoli, il 24 aprile spedì al cardinale Richelmy la lettera in cui prospettava tutta la questione relativa alla fondazione dell’Istituto. La mise sull’altare dove celebrò la messa, chiedendo che il Signore manifestasse ancora la sua volontà, come aveva scritto al cardinale nella conclusione: «Rifletti alla cosa presso il Signore, e ritornando fra non molto a Torino, mi dirai il da farsi». Il cardinale gli disse che si doveva fare. E l’Allamano, con le parole di Pietro a Gesù, rispose: «Sulla tua parola getterò le reti». Secondo il suo stile, cominciò subito.
Dopo aver consultato il Dicastero romano di Propaganda Fide, interpellò i vescovi del Piemonte, riuniti alla Consolata nei giorni 12-13 settembre 1900 per la loro assemblea annuale, sul progetto di fondazione dell’Istituto missionario. Il cronista del tempo riferisce che «vivamente caldeggiata dal cardinale Richelmy, l’opera venne discussa, lodata e approvata da tutti i presuli subalpini» (La Consolata, 1,1900, p. 163; cf. L’Italia Reale – Corriere Nazionale, 14-15 ottobre 1900).
Il cardinale manifestò pubblicamente la sua cordiale approvazione con un messaggio pubblicato sulla rivista La Consolata:
«Benediciamo con tutta l’effusione dell’animo al nuovo Istituto, che prendendo il nome della Consolata, ha per scopo di consolare il cuore stesso dell’amatissimo nostro Signor Gesù Cristo col far paghi i desideri del suo amore.
A codesti figli novelli di Maria Consolatrice auguriamo collo spirito di zelo e di sacrificio i doni più eletti dell’apostolato cattolico; e affrettiamo coi voti più ardenti la conversione di quegli infelici, che nelle terre lontane ancor giacciono fra le tenebre e l’ombra di morte.
E mentre sull’opera novella imploriamo i favori del cielo, raccomandiamo la stessa a tutti i nostri figlioli, e specialmente alle anime devote della cara nostra Madre delle Consolazioni. Torino 12 ottobre 1900. Agostino card. Richelmy».
La data «ufficiale» di fondazione dell’Istituto venne stabilita dal card. Richelmy e dal beato Allamano al 29 gennaio 1901, anniversario della guarigione.
Alla culla della Madre
L’ispirazione della fondazione dell’Istituto è venuta dall’intenso dialogo di amore dell’Allamano di fronte alla icona della Consolata. Lì capì che lei è Madre di tutta l’umanità e a tutti desidera che sia fatto conoscere il suo Divin Figlio. Da lei è venuto il segno che doveva partire.
Lei è all’origine dell’Istituto. Il beato Allamano ne è fermamente convinto: «È lei che ideò il nostro Istituto, lo sostenne materialmente e spiritualmente, ed è sempre pronta alle nostre necessità. È lei la fondatrice. Non c’è dubbio che tutto quello che è stato fatto è opera sua».
Era logico che al suo santuario avvenisse la celebrazione principale a cento anni dalla fondazione dell’Istituto, il 29 gennaio 2001, con la presidenza dell’arcivescovo di Torino, Severino Poletto, successore del Richelmy, del rettore del santuario, mons. Franco Peradotto, dei missionari e delle missionarie della Consolata con i loro superiori, e di tanta gente.
Il beato Giuseppe Allamano che ha sempre tenacemente rivendicato la sua funzione unica di trasmettere un carisma e uno spirito, ha anche avuto viva coscienza di non poterlo fare se non insieme a tante persone, dal Camisassa, ai sacerdoti della diocesi, alle tante persone che frequentavano il santuario della Consolata e hanno imparato a esprimere il loro amore alla Madonna contribuendo al cammino della missione e all’aiuto dei fratelli più bisognosi. Questo centenario è di tutta la gente, tante persone che hanno accompagnato, aiutato, incoraggiato e sostenuto l’Istituto e ne hanno reso possibile l’impegno missionario. Tutti insieme hanno espresso il grazie per i 100 anni dell’Istituto, che ha percorso le strade del mondo per portare ai popoli il vangelo, consolazione e vita.
Insieme alla riconoscenza, la celebrazione centenaria è occasione per rinnovare l’affidamento alla Consolata. «Portiamo il suo nome», ricordava l’Allamano; «siamo suoi figli»; da lei prende ispirazione la consacrazione alla missione. Per questo, il superiore generale ha offerto una lampada, che arda davanti a lei durante tutto l’anno, segno di adesione, di rinnovato impegno e fiducia. La Consolata, che «nei momenti difficili è intervenuta in modo straordinario», ha protetto i suoi missionari e le sue missionarie, ha fatto per loro «miracoli quotidiani», continui a prenderli sotto il suo manto e, insieme a loro, quanti ne accompagnano e sostengono il cammino di annuncio del vangelo.
A nome di tutti i missionari della Consolata, il padre generale ha affidato tutto l’Istituto alla loro Madre. Questo gesto ha voluto ricordare e fare proprio l’atteggiamento di fede del beato Allamano. Davanti all’icona della Consolata si inginocchiava affidando a lei i missionari lontani, in viaggio, tra i pericoli, ammalati, presi da sconforto o nostalgia. Nelle difficoltà più grosse, la sicurezza è venuta dal dire con fiducia alla Consolata: «L’Istituto è tuo, pensaci tu!». E ha percepito pure la risposta della Madonna: «Stai tranquillo, ci sono io!». Con questo stesso spirito, il padre generale ha pregato:

«Santa Vergine degli inizi, fidenti ti invochiamo
in quest’alba del secondo centenario di vita dell’Istituto.
Da te, Consolata, è venuta a noi la vita;
per te il Signore ci ha elargito doni
con munificenza regale.

Specchio della nostra identità,
ispiratrice della nostra vita
rendici fedeli collaboratori del regno che viene.
Vincolo della nostra comunione,
ravviva nelle nostre comunità lo spirito di famiglia,
la capacità di lavorare in unità di intenti,
la sollecitudine per i fratelli che ci vivono accanto.

Non si spenga in noi la lampada della speranza,
nella certezza che nulla è impossibile a Dio;
arda in noi il fuoco della missione per illuminare
quanti non conoscono la luce da te generata;
brilli in noi la gioia della consolazione,
perché si diffonda nelle case dei poveri,
degli oppressi e smarriti di cuore.

L’Istituto è opera tua, o Consolata;
alla tua protettrice assistenza ci affidiamo.
Imprimi nel nostro cuore
le parole del beato padre fondatore:
“Coraggio! Avanti!”,
per muovere i nostri passi verso le frontiere dell’umanità,
portando la vera consolazione, Gesù Cristo,
e il lieto annunzio del suo vangelo. Amen».
Tante vite donate
All’inizio della celebrazione è stato espresso il senso di profonda comunione con quanti hanno contribuito alla nascita e alla crescita dell’Istituto; con i missionari e le missionarie e le loro comunità in ogni parte del mondo; con coloro che in cento anni hanno speso la vita per la missione.
Tra questi un posto singolare hanno avuto i missionari, le missionarie, i laici uccisi a causa dell’annuncio del vangelo. Con il dovuto risalto è stata portata all’altare della Madonna una ampolla intrisa del sangue di catechisti martiri del Mozambico. In essi erano presenti tanti altri, molte vite sacrificate per il regno di Dio. Sono il fiore e frutto più valido della missione, la più potente intercessione. L’arcivescovo l’ha invocata a conclusione della preghiera universale, tenendo tra le mani questa ampolla, chiedendo:
«Sia preziosa davanti a te, Signore, questa terra intrisa del sangue di missionari e catechisti martiri; renda a te accetta la nostra preghiera, efficace la nostra intercessione. La loro testimonianza sia seme da cui germoglia la vita, fioriscono nuove vocazioni alla missione, coraggio nell’impegno di oggi fiducia nel futuro».
Dal grembo della diocesi
Nell’omelia, dopo aver fatto memoria dell’evento storico che sta alla base della celebrazione, l’arcivescovo di Torino ha proseguito:
«Da dove è nato l’Istituto dei missionari della Consolata? La risposta ovvia, anche da quello che abbiamo già sentito, è che è nato qui, nella casa della Madonna Consolata. Ha preso il nome da questo nostro carissimo e importante santuario. Potremmo anche dire che è nato dal cuore della SS. Trinità, perché ogni opera, ogni iniziativa di bene viene da Dio: “Ogni dono perfetto viene dal Padre della luce”, ci ricorderebbe S. Paolo. Credo che sia molto importante, volgere questo sguardo verso le vere origini, che sono la SS. Trinità e l’ispirazione della Madonna, accanto a cui l’Allamano è vissuto per ben 46 anni. Lo sguardo però alla realtà storica ci conduce a dire che l’Istituto è nato dal cuore del beato Giuseppe Allamano. Un sacerdote della diocesi di Torino, nato a Castelnuovo Don Bosco, terra di santi, nipote del Cafasso, patria di s. Giovanni Bosco, paese dove è morto, in una frazioncina, anche s. Domenico Savio. Un comune che annovera già al suo interno ben quattro santi, già proclamati tali dalla chiesa.
Il giovane Giuseppe Allamano ha attinto la sua formazione dalla famiglia, indubbiamente profondamente cristiana, ha coltivato la sua preparazione con gli studi filosofici e teologici, fino a raggiungere la laurea in teologia, e ha costruito in questo santuario, accanto alla Vergine e attraverso la devozione alla Consolata, la storia del convitto ecclesiastico, il suo cammino di santità cristiana, lo slancio per attuare l’ispirazione di fondare l’Istituto dei missionari della Consolata, e poi delle missionarie della Consolata.
L’Istituto è nato dal cuore del beato Giuseppe Allamano. E non perché sono arcivescovo di Torino, ma per aderenza alla realtà storica, dico anche che è nato dal grembo del presbiterio diocesano di Torino. L’Allamano, con il consiglio e l’approvazione dell’arcivescovo del tempo, card. Richelmy, e, come abbiamo sentito, di tutti i vescovi del Piemonte, si poneva il problema dell’annuncio del vangelo a immense popolazioni del mondo, ancora distanti dalla conoscenza di Cristo. La situazione, tanto diversa da oggi, era di grande abbondanza di clero locale, da arrivare al punto che l’arcivescovo non sapeva dove mandare i sacerdoti appena ordinati. Ecco allora che all’interno del presbiterio diocesano, l’Allamano intuisce di poter chiamare un gruppo di sacerdoti, che diventeranno il primo nucleo dell’Istituto.
Ci tengo a ripetere che l’Istituto è nato dal grembo del presbiterio diocesano di Torino e, in senso più largo, da questa santa chiesa di Torino. La grande tradizione di santità e di spirito apostolico dei secoli XIX e XX è diventata il giardino in cui sono germogliati tanti fiori, tanti istituti religiosi, tanti esempi di santità e di missionarietà. Questo è il ricordo storico che desideravo fare a cento anni dalla nascita dell’Istituto della Consolata, sottolineando il legame di parentela tra l’arcidiocesi di Torino e il vostro Istituto. Il vostro fondatore è sempre rimasto prete diocesano e per 46 anni, fino alla sua morte, rettore di questo santuario della Consolata; questo mi ha impressionato».
Motivi per dire grazie
«Dalle piccole esperienze dirette che anch’io ho avuto dell’azione dei missionari della Consolata – ha continuato l’arcivescovo – posso dire che il loro stile è quello tipico di coloro che partono per la missione ad gentes. Andare in un luogo dove non si conosce Gesù Cristo, annunciare il vangelo, far sorgere la comunità cristiana, attendere pazientemente che essa si esprima in sacerdoti, laici impegnati, catechisti, per poi spostarsi da un’altra parte, e lasciare che questa comunità cammini con le proprie gambe. Questa caratteristica del missionario non solo della Consolata, ma di tutti gli Istituti missionari, di essere sempre sulla frontiera dell’annuncio, ha caratterizzato i cento anni di storia dei missionari della Consolata.
La vostra storia, nel profondo, ha avuto quello spirito che l’Allamano aveva sempre raccomandato: una grande preparazione culturale, soprattutto teologica, grande santità e fervore di vita, e soprattutto una carità tale da essere disposti a morire anche martiri per l’annuncio del vangelo. Credo che davvero questi cento anni sono stati un camminare su questa traccia indicata dal Fondatore: formazione umana, teologica, spirituale, santità di vita, eroismo fino all’effusione del sangue.
La terra intrisa del sangue dei martiri del Mozambico, come è già stato ricordato nell’introduzione, dà pieno significato al rendimento di grazie che oggi innalziamo al Signore e alla Vergine Consolata.
Vanno pure ricordate le chiese locali nate dall’apostolato dei missionari. Io ne ricordo diverse in Kenya e in Tanzania, dove sono stato, per vostra benevolenza, a predicare un corso di esercizi spirituali ai padri. Dove non c’era niente, ora ci sono parrocchie, fiorenti comunità cristiane. Anche per questo rendiamo grazie».
Riprendere slancio
«Siamo qui anche per un rilancio. Il santo padre nella lettera apostolica che ha voluto donarci a conclusione del grande giubileo del 2000, prende lo spunto dal testo di Luca, dove Gesù dice a Pietro “prendi il largo”, e getta le reti per la pesca. Non bisogna fermarsi al passato, ma guardare il futuro e rilanciare il fervore della prima ora, l’entusiasmo e lo slancio dei primi missionari. Questo ci propone la parola di Dio che abbiamo ascoltato. S. Paolo nel bellissimo inno della lettera agli Efesini (1,3-14) ricorda che siamo dentro il grande progetto di Dio. Un Dio che “ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo”, non per realizzazioni umane “ma per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità”. Un Dio che ci chiama ad entrare nella grande avventura del suo mysterium, “il progetto di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra”.
Cari missionari della Consolata, questo è uno slancio che dovete riprendere nel cuore, nella mente e nelle azioni. Entrare dentro al progetto che il Padre ha di ricapitolare, riassumere, riconciliare nel Signore Gesù Cristo tutta l’umanità. E questo è possibile se noi, come diceva il vangelo (Gv 15,4-15), siamo uniti a Cristo come il tralcio alla vite. Uniti a lui portiamo frutti, e abbondanti, come quelli che avete raccolto in questi cento anni.
Se siamo uniti a Cristo dobbiamo anche accettare di essere potati, provati, nelle difficoltà e nella sofferenza. Anche i missionari della Consolata, come i seminari diocesani, stanno tribolando per la scarsità di vocazioni. Sono tutte prove che il Signore ci dà per purificare la nostra vita, la testimonianza, lo spirito. Il Signore ha i suoi disegni, per cui se un tralcio porta frutto, il Padre lo pota perché porti più frutto. Questa unione con Cristo è certezza della sua amicizia, “vi ho chiamati amici, perché vi ho comunicato tutto ciò che il Padre mi ha detto”. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi. E vi ho detto queste cose, vi comunico la mia amicizia, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.
Lo slancio lo prendiamo qui, ai piedi della Vergine Consolata, il modello, la protettrice, colei che ci sostiene e dà forza nelle difficoltà. Qui l’Allamano ha trovato ispirazione e forza per seguire la sua vocazione e dare al vostro Istituto le caratteristiche che lui ha ricevuto dalla Madonna Consolata. Qui è il riferimento irrinunciabile».
Per sempre
«Ho incontrato alcune missionarie della Consolata a Nairobi nella loro casa per le suore anziane. Dicevano: “Noi siamo partite per l’Africa 50 anni fa, quando eravamo giovani, e non siamo mai più tornate in Italia”. Ho chiesto: “Come mai? Adesso vanno e vengono con i voli aerei, adesso c’è facilità di viaggiare”. “E no – risposero -. Quando siamo partite, il nostro santo fondatore ci diceva che si parte per sempre. E anche se i superiori ci concedono di ritornare, vogliamo rimanere qui fedeli al nostro impegno”. Questo mi ha scioccato, mi ha impressionato: “Siamo partite e non siamo mai ritornate in Italia, vogliamo morire qui ed essere sepolte qui”.
Il “per sempre”, fratelli e sorelle carissimi, oggi non è così ovvio. Tuttavia, anche se oggi non è tanto di moda, è una caratteristica fondamentale dell’amore. Uno che ama Dio, ama Gesù Cristo, e sente il bisogno di portare il vangelo agli altri, dice sì come ha detto Maria, per tutta la vita, per sempre. Così ha fatto il beato Giuseppe Allamano, che si è consegnato a Dio nella fedeltà alla sua vocazione. Così ha fatto la serva di Dio Irene Stefani (speriamo che anche voi suore abbiate poi la vostra santa proclamata tale dalla chiesa). Siamo qui nel santuario della Vergine Consolata, per rinnovare nel ringraziamento, nel ricordo storico, il nostro proposito di perseveranza e di fedeltà alla missione che il Signore ci ha affidato. Questa fedeltà deve durare per sempre».

L’ inizio del centenario, al santuario della Consolata è stato veramente una festa «di famiglia» per la missione: nella «casa della Madre», nel ricordo del padre che ha dato avvio all’Istituto, con la rappresentanza di tutta la diocesi, che ha condiviso attivamente l’intento dell’Allamano e ne ha reso possibile la realizzazione.
Circondati da un gran numero di testimoni fedeli a questo progetto, suscitato da Dio per attuare l’opera di salvezza di Cristo, si è rafforzata la volontà di proseguire per la strada intrapresa.
È cresciuta la fiducia che il beato Giuseppe Allamano aveva per il futuro: «La nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata. Passeranno gli uomini, cadranno pure alcune foglie, ma l’albero prospererà e verrà un albero gigantesco: io ne ho prove prodigiose in mano».

Redazione




Quasi come sul ring

Il dossier «L’alta teologia
e il buon senso» (Missioni Consolata,
gennaio 2001), scritto da un teologo
missionario, ha suscitato disappunto
in un vescovo.
Trattandosi di temi della massima
importanza, abbiamo trasformato in articolo
la «botta» e «risposta» dei due personaggi.

Non sono sfumature

Non posso nascondere il disappunto nel leggere le pagine 30-31, firmate da Igino Tubaldo, della benemerita rivista Missioni Consolata, gennaio 2001.
L’espressione «fuori della Chiesa non c’è salvezza» va, certamente, compresa alla luce della Rivelazione, dove si afferma che Dio vuole tutti salvi e non fa eccezione di persone (cfr. Rom 2, 11).
Numerosi fratelli dell’Ortodossia, della Riforma protestante e fra gli stessi pagani vivono più santamente di me, vescovo della Chiesa cattolica. Dio guarda nel cuore e in un modo che solo Lui conosce, fa giungere a tutti la grazia della salvezza, frutto del sacrificio redentore dell’unico salvatore Gesù Cristo (cfr. Lumen gentium, 16).
È pure vero che, per essere fedele discepolo di Gesù, devo amare, stimare, rispettare e, quando possibile, aiutare chiunque così com’è, senza pretendere che diventi cattolico, lasciando alla misericordia di Dio che gli conceda o no in terra la pienezza della luce, che è Cristo.
E vengo al punto sul quale non mi trovo d’accordo: è il tema della salvezza nella vera Chiesa. Al riguardo, ricordo che il catechismo della Chiesa cattolica riporta, al numero 181, una parte della frase di san Cipriano: «Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre».
L’interpretazione di Missioni Consolata del «subsistit» (Lumen gentium, 8) contrasta con quanto scritto in «Chiesa: carisma e potere», dove si legge: «Il Concilio (ecumenico) aveva scelto la parola subsistit proprio per chiarire che esiste una sola sussistenza della vera Chiesa, mentre fuori della sua compagine visibile esistono solo elementa Ecclesiae, che, essendo elementi della stessa Chiesa, tendono e conducono verso la Chiesa cattolica».
Infine l’esempio dei vari ordini francescani (per vedere dove «sussiste» la genuina forma del francescanesimo) mi sembra molto inopportuno, perché qui si tratta solo della regola di san Francesco, vissuta nella sostanza, ma con sfumature diverse dai vari ordini. Invece che nell’Eucaristia ci sia la presenza reale o no, che la Messa sia un vero sacrificio o no, che ci sia il Ministero petrino o no, che ci sia un Magistero autorevole e, in certi casi, infallibile o no, che ci sia il Sacerdozio ministeriale o no, che la Chiesa abbia il potere di rimettere i peccati o no… non sono sfumature!
Si dimentica la fondamentale distinzione fra la sincerità della coscienza retta, onesta ed aperta allo Spirito Santo (che opera ovunque e su ciascuno e che è la norma dell’agire umano – cfr. Dignitatis humanae, 3) e la verità, realtà oggettiva, alla quale l’uomo retto e sincero si adegua allorché ne viene a conoscenza (cfr. Veritatis splendor).
Riconosco e apprezzo il vostro lavoro di missionari, ma ho timore che presentare in questo modo problemi così seri per la fede sia fuorviante, specialmente per le famiglie cui la rivista è diretta e che sono spinte a cadere in quel relativismo e sincretismo deprecati dal dossier.
Antonio Santucci
vescovo di Trivento (CB)

Carità e lacrime

Talora a teologi e direttori di riviste «missionarie» tocca la sorte del pugile sul ring che, colpito da un gancio, cade al tappeto e poi si sente contare: «tradisci la fede…», «produci scompiglio nei fedeli…», «sei eretico…».
Quando nel 1942 (prima del Concilio ecumenico) A.J. Cronin (1896-1981) pubblicò il romanzo Le chiavi del regno, nella Chiesa parecchi storsero il naso. Padre Chisholm era un missionario sui generis: in Cina dialogava con un pastore protestante e, soprattutto, con un medico ateo, che lo raggiunse per curare gli ammalati. A costui, sul letto di morte, il missionario disse: «Nessuno che sia in buona fede può essere perduto. Nessuno!». Perché a Dio non farebbe piacere vedersi davanti un agnostico rispettabile, giudicarlo con una luce amichevole negli occhi e dirgli: «Come vedi sono qui, nonostante quanto ti hanno fatto credere. Entra nel Regno che hai onestamente negato!»?
Ogni docente di teologia lo insegna: la misericordia di Dio può andare al di là dei sacramenti e il regno di Dio ha confini più ampi di quelli della Chiesa.

Se fuori della Chiesa cattolica e nelle religioni non cristiane esistono valori autentici, l’espressione «la Chiesa di Dio è quella cattolica» o «la Chiesa di Dio sussiste in quella cattolica» può essere accettata solo in senso positivo, cioè: la Chiesa di Cristo è quella apostolica e si manifesta nella Chiesa cattolica. Il verbo «è» o «sussiste» non è accettabile nel significato negativo, cioè: i gruppi cristiani, al di fuori del cattolicesimo, non hanno nulla di ecclesiale. Il Concilio ha riconosciuto l’ecclesialità (anche se non perfetta) delle comunità cristiane, non cattoliche. Queste possono essere come pianeti gravitanti attorno allo stesso sole, che è Cristo.
Altro è il problema dei non cristiani. Qui entra il detto «fuori della Chiesa non c’è salvezza» o, in modo più edulcorato, «nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre». Sono assiomi che si possono accettare se, ancora una volta, vengono intesi in senso positivo, cioè: nella Chiesa cattolica c’è salvezza, senza però escludere che, fuori di essa o del cristianesimo, chi è in buona fede o fa quanto è in suo potere possa salvarsi.
Il Concilio riconosce (e con insistenza) che anche nelle religioni non cristiane possono esistere «cose vere e buone», «preziose, religiose e umane», «germi del verbo», «raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (cfr. rispettivamente Lumen gentium, 16; Gaudium et spes, 92; Ad gentes, 11 e 15; Nostra aetate, 2).
Nel 1984 il Segretariato per i non cristiani ha commentato: «Poiché nelle grandi tradizioni religiose dell’umanità esistono questi valori, le stesse tradizioni meritano l’attenzione e la stima dei cristiani».
Le religioni non cristiane sono o non sono salvifiche per se stesse, anche se l’individuo che le pratica in buona fede può salvarsi? Il Concilio non ha risposto alla domanda.
Al quesito (poiché la via è aperta) cercano di rispondere i teologi. Oggi quasi tutti proseguono sulla strada del dialogo: Gesù Cristo è l’unica via della salvezza, ma non si possono porre limiti all’azione salvifica di Dio; si chiedono se nel «pluralismo religioso» ci sia un disegno di Dio. Seguendo la linea ascendente «Chiesa – Gesù Cristo – Dio Padre – Regno di Dio – Spirito Santo», affermano che la Chiesa in terra non è il Regno di Dio, poiché ne è solo il «germe e inizio» (Lumen gentium, 5); germi e inizi del Regno si possono riscontrare pure altrove. Sviluppano teorie sulla «presenza inclusiva»; ricordano che lo Spirito soffia dove vuole…
I teologi concludono: alla Chiesa, per spirito ecumenico e missionario, spetta «condurre a compimento» quanto di positivo esiste nelle tradizioni religiose, non solo perché nulla vada perduto, ma sia «purificato, elevato e perfezionato» (Lumen gentium, 17).
Il papa, nell’enciclica missionaria Redemptoris missio, afferma che «la presenza e l’attività dello Spirito sono universali, senza limiti né di spazio né di tempo»; tale presenza e attività «non toccano solo gli individui, ma la società, la storia, i popoli, le culture, le religioni» (28).
Allora i teologi si chiedono se, nelle altre religioni, ci siano raggi di verità non presenti nella Chiesa e se, di conseguenza, essa debba dimostrarsi incline a ricevere qualcosa. Perché, quale dialogo si può instaurare se una parte è sicura di non aver bisogno di nulla e di nessuno?
Vittorio Morero, sacerdote giornalista e corrispondente di Avvenire, nel suo libro Il catechismo dei non credenti, scrive: «Penso che ci sia anche una delega di Dio alle religioni non cristiane, agli umanesimi laici, alla saggezza del pensiero dell’uomo nella sua evoluzione storica, nella sua creatività artistica e al genio di ogni uomo» (p. 194).
Una rivista «missionaria» deve amare la propria Chiesa, senza cadere nella «melassa religiosa», senza negare il Ministero petrino o la Presenza reale… e sa che queste non sono sfumature. Se ricorre al paragone del francescanesimo, è per farsi capire. Trattandosi poi di una rivista «missionaria», è comprensibile la sua preferenza per una Chiesa «aperta» ai non cristiani.
Nella Chiesa non esistono solo sette sacramenti; prima o accanto a questi, ci sono i «sacramenti naturali» o «pre-sacramenti». Secondo il biblista Stanislas Lyonnet (1902 1981), essi sono la carità, le lacrime, la debolezza («quando sono debole è allora che sono forte» – 2 Co 12, 9). Sono alla portata di tutti.
Come valutiamo le folle di indiani che s’immergono nel Gange? E più ancora: perché non rivolgere al Padre di tutti una preghiera, affinché abbia pietà delle migliaia di persone, vittime di terremoti, anche se non hanno mai sentito parlare di Cristo o della sua Chiesa?

Igino Tubaldo
missionario e teologo

Antonio Santucci e Igino Tubaldo




SPECIALE 100 ANNI – I martiri

PER LA PACE
padre Quinto Gardetto (1911-1941)

Ne avrebbe fatto volentieri a meno; ma, educato all’obbedienza senza discutere, fu tra i primi missionari della Consolata a vestire la divisa coloniale. A 24 anni (era nato nel 1911 a Bosconero, Torino) padre Quinto Gardetto raggiunse Mogadiscio (Somalia), cappellano della sezione di sanità nelle truppe che si preparavano a invadere l’Etiopia. Insieme ai soldati, nel 1936, entrò in Harrar, dove fu incaricato di dirigere la scuola della cittadina etiopica, che contava 235 allievi. L’anno seguente era a Lekemti, nel vicariato apostolico di Gimma. Così scriveva ai superiori: «Sono contento di essere giunto finalmente in terra della nostra missione».

Capitale della regione del Wollega, centro carovaniero a 330 km da Addis Abeba, Lekemti era stata adocchiata fin dai «tempi di camuffaggio missionario» come centro ideale di evangelizzazione; ma per non dare nell’occhio, i missionari si erano stabiliti a Comto, 5 km dalla cittadina. Dopo la conquista italiana (1936) si poté iniziare a costruire la stazione missionaria.
Padre Gardetto, prima viceparroco e poi superiore, diede grande impulso allo sviluppo della missione: in pochi anni furono costruite le case per i padri e per le suore, scuole governative per 230 alunni, collegio maschile, asilo per 70 bambini, ambulatorio e «scuola clandestina di amarico», senza trascurare la catechesi, visite ai villaggi, cura degli ammalati.
Sopraggiunta la seconda guerra mondiale, le truppe italiane furono impegnate a combattere gli inglesi: i ribelli abissini ne approfittarono per rialzare la testa. Capi e sottocapi della zona di Lekemti, che si erano impegnati a garantire l’incolumità dei missionari, cominciarono a manifestare risentimenti contro l’occupazione coloniale. Il malcontento si trasformò in ribellione.
Il capo Maconnen, fino al 1941 impiegato dal governo per domare i ribelli di altre regioni, si mise alla testa degli insorti. Ai loro massacri e devastazioni, gli ascari assoldati dal governo coloniale rispondevano con rappresaglie indiscriminate, bruciando capanne e raccolti.
Benvisto da tutta la popolazione e dallo stesso Maconnen, padre Gardetto cercò di fare opera di pacificazione tra i ribelli e il presidio di Lekemti, fino a sottoporre ai più alti livelli un disegno di pacificazione, concordato col presidio e il capo degli insorti.

Il 1° aprile 1941, insieme a due autisti italiani e a suor Teodora, il padre partì in auto alla volta di Addis Abeba, per sottoporre l’accordo di pace al governo coloniale. Il rischio era grande: il giorno precedente, a Sirè, c’era stata una feroce repressione e il capo locale aspettava l’occasione per vendicarsi. Infatti, giunta in quella località, a 30 km da Lekemti, l’auto fu bersagliata da una banda di rivoltosi che, ignari della missione che il padre stava compiendo, spararono a vista e uccisero tutti e quattro gli occupanti. Padre Gardetto morì sul colpo, con una pallottola in fronte. Aveva 30 anni. Martire per un atto di alta carità: promuovere la pace e riconciliazione.

DESERTO
INSANGUINATO
padre Michele Stallone (1921-1965)

Anche quel mattino, il 19 novembre 1965, approfittando del passaggio del camion diretto a un club turistico costruito sulla sponda meridionale del lago Turkana, padre Michele Stallone lasciò Baragoi per raggiungere la stessa località. Seduto accanto all’autista, l’italiano De Luca, arrivò a destinazione sull’imbrunire. Il giorno dopo avrebbe dovuto prendere le ultime misure per costruire, secondo le direttive del vescovo di Marsabit, mons. Carlo Cavallera, una scuola e un dispensario a favore della popolazione ol molo, minacciata di estinzione.
Alle nove di sera, terminata la recita del breviario, padre Stallone era seduto a tavola con mister Poole, direttore del club, quando una banda di una trentina di predoni (shifta), armati di fucili, assaltarono il campo, chiusero i due in bungalow e fecero man bassa di tutto ciò che trovarono. Finita la razzia, tornarono dai due prigionieri: li freddarono a colpi di fucile. Risparmiarono De Luca, costringendolo a trasportarli con una Land Rover insieme al bottino. Di lui non si seppe più nulla.
Il pomeriggio del giorno dopo, la notizia dell’assassinio arrivò a Baragoi. Alle 3,30 del mattino seguente, padri e polizia raggiunsero il luogo dell’eccidio: padre Stallone giaceva a terra in una pozza di sangue, le mani ancora legate e due colpi di fucile nella schiena; aveva accanto il breviario; ogni altro oggetto era scomparso.

Aveva 44 anni. Era nato il 13 settembre 1921 a Giovinazzo (Bari). A 13 anni Michele entrò nella casa dei missionari della Consolata di Parabita (Lecce); compì gli studi in varie case dell’Istituto e fu ordinato sacerdote a Casale Monferrato (AL) nel 1947. L’anno seguente raggiunse la diocesi di Nyeri (Kenya) e cominciò il tirocinio missionario a Gatanga.
Di piacevole compagnia, volontà energica e spiccata attività, nel 1953 fu destinato da mons. Cavallera, in quegli anni vescovo di Nyeri, in aiuto ai confratelli che avevano da poco aperto la missione di Baragoi, avamposto nell’immensa e arida «frontiera» a nord del Kenya.
«Dall’infuocata sabbia – scriveva nel 1954 -, come per incanto, uno dopo l’altro si sono innalzati i fabbricati: tre aule scolastiche, case dei padri e delle suore, collegi per ragazzi e per ragazze, magazzino, tre cistee per l’acqua piovana, un ospedale con 30 letti. I lavori non sono ancora ultimati, ma possiamo già dedicarci all’apostolato diretto. Mi è stata affidata l’educazione di 38 piccoli samburu e turkana: due etnie con lingue del tutto differenti. Unico sussidio, finora, è un abbozzo di dizionarietto samburu di circa 1.500 vocaboli da me compilato».
«La chiave per penetrare nell’animo di queste popolazioni è la scuola – scriveva l’anno seguente -. Sebbene ancora indolenti nel lavoro, queste etnie ci danno molte consolazioni. In pochi mesi i miei scolaretti hanno imparato a cantare, a perfezione, la Missa de angelis e altri inni latini e swahili. A sentirli pregare e cantare si crederebbero altrettanti seminaristi, anziché selvaggetti strappati alla brughiera solo ieri».
Diventato superiore (1957), padre Stallone continuò a sviluppare la parrocchia, organizzando la scuola secondaria e disseminando di scuole-cappelle i punti strategici del vasto territorio.

«Il deserto fiorisce» era intitolato un articolo che padre Stallone aveva scritto per Missioni Consolata un anno prima di morire. Quando, infatti, venne costituita la diocesi di Marsabit (1964), Baragoi era ormai la missione più adulta e sviluppata del territorio, centro propulsore di nuove fondazioni, come la missione di South Horr, al cui sviluppo padre Stallone lavorò per vari anni.
Il suo sacrificio ha ritardato di alcuni mesi la fioritura della missione a Loyangalani, ma ne ha fecondato il terreno. Il suo sangue ha irrorato le speranze in cui, lui per primo, aveva fermamente creduto e per le quali aveva dato con entusiasmo tutto se stesso.

TUTTO PER GLI INDIOS
padre Giovanni Calleri (1934-1968)

Bello, alto, forte, spiritoso, estroverso, con una carica che ispirava fiducia a prima vista. Chi lo incontrava per strada o in una riunione lo definiva uno sportivo o un artista. E vedevano giusto.
Nato a Carrù (Cuneo) nel 1934, prete per cinque anni nella diocesi di Mondovì, Giovanni Calleri entrò tra i missionari della Consolata nel 1962. Tre anni dopo partì per il Brasile e raggiunse il territorio di Roraima. E cominciò a organizzare la missione del Catrimani, tra gli indios yanomami.
«Quando giunsi in Brasile non mi importava di morire – scriveva nel 1966 -. Ora no, voglio vivere per amore degli indios. Mie compagne sono a volte la fame e sempre tanta solitudine». Invece morì a 34 anni, per amore degli indios.

Per l’esperienza tra gli yanomami e la ricca personalità, nel 1968 padre Calleri fu scelto dal governo brasiliano per dirigere una spedizione per pacificare gli indios waimirí-atroarí. Dal 1961 era in costruzione la strada BR-174 che, attraverso la foresta dell’Amazzonia, doveva collegare Manaus e Boa Vista a Caracas (Venezuela). Ma per attuare il progetto bisognava fare i conti con gli indigeni che si ritenevano, a diritto, padroni della regione e non intendevano rinunciare al loro sistema di vita.
La spedizione fu preparata seriamente e il piano approvato dal governo. Si doveva adottare la tattica di «avvicinamento indiretto»: cioè accostare prima gli indios non irritati con i bianchi, per farli mediatori presso quelli sul piede di guerra, vicini allo sconquasso prodotto dai lavori della strada. Il piano fu ritenuto da qualcuno troppo lento. Per non fermare i lavori, poteri militari e minerari, nazionali e stranieri, premevano per il confronto diretto con i ribelli waimirí-atroarí, che in fatto d’imboscate sapevano il fatto loro.
All’ultimo momento il piano fu accantonato e padre Calleri dovette accettare, anche sotto minacce, di portare la spedizione su un altro luogo. È l’aspetto più misterioso della faccenda, perché con il cambiamento i rischi di fallimento e morte risultavano enormemente aumentati. Nella spedizione, poi, fu inserito Alvaro da Silva, esperto della foresta, ma ambiguo e senza scrupoli, legato alla Missione evangelica dell’Amazzonia (Meva).
I dipendenti di questa missione protestante, con residenza in Guyana, svolgevano una doppia attività: evangelizzazione e ricerca di miniere per conto degli Stati Uniti. Per cui essi erano troppo interessati che la spedizione diretta da un prete cattolico fallisse.
E così avvenne: il 1° novembre 1968 la spedizione fu massacrata nel cuore della foresta. Delle 10 persone, comprese due donne, si salvò solo Alvaro da Silva. La colpa fu sempre attribuita alla ferocia degli indios.
A 30 anni di distanza, dopo faticose ricerche, padre Silvano Sabatini, che ebbe un ruolo importante nel preparare la spedizione, ha fatto luce sul mistero. Dalle innumerevoli testimonianze da lui raccolte e pubblicate nel libro Massacre, risulta che la spedizione-Calleri fu massacrata da alcuni indios waimirí-atroarí e wai wai, istigati da un manipolo di bianchi, in particolare Alvaro da Silva e lo statunitense Claude Leawitt, funzionario della Meva. I due imposero agli indios, sotto terribili minacce, un assoluto silenzio.
Padre Sabatini denuncia che la BR-174 fu condotta a termine, dopo il massacro della spedizione, con la decimazione degli indios: i waimirí-atroarí, circa 3 mila nel 1968, nel 1982 erano ridotti a qualche centinaio.

CONTESTATORE GLOBALE
padre Guerrino Prandelli (1943-1972)

«Sono molto felice di essere prete – aveva scritto poco tempo dopo l’ordinazione -. Mi piacciono lavoro duro e tempi difficili. In un’epoca in cui il sacerdote è fuori moda, per un giovane come me diventare “servo” fa parte di una “contestazione globale”, la più profonda: quella dell’amore».
Era nato a Brescia nel 1943. Temperamento vivo e quasi scatenato, forte e a volte rude, Guerrino Prandelli lottò contro tutto e tutti per restare fedele alla chiamata della missione. Ordinato sacerdote (1969), gli fu proposto di lavorare un po’ in Italia. La controproposta non lasciava scampo: «O mi mandate in missione, o mi sposo». Fu spedito in Mozambico.
N el 1970 padre Guerrino era nel Niassa. Da Unango passò come vice parroco a Nova Esperança. Lavorava come un forsennato, quasi presago del pochissimo tempo a disposizione. Coglieva al volo esigenze e bisogni della gente, dei più poveri soprattutto, come i lebbrosi. Per questi costruì varie casette, perché avessero un’abitazione più igienica e vita più dignitosa.
Aveva il dono delle lingue: dopo solo due anni di permanenza nel Niassa, padre Guerrino si mise a tradurre in lingua ciyao alcuni testi della messa, per facilitae la partecipazione della gente.
Era felicissimo, nonostante le difficoltà provocate dalla guerriglia anticoloniale. «Nova Esperança è la missione più isolata del Niassa – scriveva -. Ciò è dovuto alla guerriglia. Ultimamente sulle nostre strade hanno messo molte mine. Viaggiare è diventato estremamente pericoloso. Nei villaggi o nella missione non c’è pericolo; ma non possiamo stare sempre fermi; nessuno viene a portarci niente. Abbiamo bisogno di viveri e medicinali; la gente non ha sale, zucchero, olio, sapone, petrolio. Il pericolo di imbattersi in una mina sussiste; chi vi incappa finisce sbriciolato».

A metà ottobre del 1973, i confratelli lo chiamarono a Nova Freixo (oggi Cuamba), per aiutarli in alcuni lavori di traduzione. Terminato il lavoro, padre Guerrino volle tornare subito alla sua missione. Gli fu consigliato di attendere un momento più sicuro. Rispose che non poteva lasciare i suoi lebbrosi senza cibo: i poveri non possono aspettare tempi sicuri. E partì da solo.
Ma a 20 chilometri da Belém, una ruota dell’automezzo urtò una mina anticarro, nascosta nella carreggiata. Lo scoppio violento distrusse l’auto e causò la morte fulminea del missionario.
Un mese prima aveva scritto a un compagno di studi: «Vale più un anno di missione, che cinquant’anni trascorsi nella mediocrità in Italia». Padre Guerrino è morto a 29 anni; in missione ne ha spesi appena tre: una «contestazione globale» a tanta mediocrità.

UNA VITA
PER L’AFRICA
padre Luigi Graiff (1921-1981)

«Un giorno o l’altro mi accopperanno» ripeteva da un anno come un ritornello. Anche quel venerdì padre Luigi Graiff si recò a Parkati con cibo e medicinali: sentiva il fiato della morte ormai sul collo. Lasciando 40 metri di cotonata blu a una famiglia turkana, disse alla signora Veronica: «Taglia dieci pezze per adulti e bambini, ma tieni da parte una misura grande per avvolgere il mio cadavere».
Due giorni dopo, domenica 11 gennaio 1981, finita la messa a Parkati, padre Luigi caricò sulla Land Rover il catechista anziano, cinque ragazzi e un diciottenne aspirante catechista, per celebrare l’eucaristia a Tum, a una ventina di chilometri. A metà strada vide all’orizzonte una ciurma di uomini, oltre duecento, armati di panghe (coltellacci), lance e fucili automatici. Intuì subito il pericolo: erano gli ngorokos, bande di razziatori, che da tempo infestavano la zona, rubando bestiame, distruggendo villaggi e uccidendo centinaia di persone.
Tentò di invertire la marcia, ma alcuni spari bloccarono la Land Rover. Il padre e il catechista corsero ad aprire lo sportello posteriore dell’auto, perché i ragazzi si mettessero in salvo. Furono subito accerchiati. «Non ci resta che pregare» disse il missionario. S’inginocchiarono. Il tempo di iniziare il Padre nostro e il padre stramazzò a terra in una pozza di sangue, insieme al giovane e un ragazzo; gli altri quattro, approfittando del trambusto, riuscirono a fuggire, inseguiti dalle fucilate.
Il catechista riconobbe alcuni degli assalitori e implorò pietà. Percosso e spogliato di tutto, fu mandato ad avvertire la missione. La notizia del massacro arrivò a South Horr alle cinque della sera. I confratelli partirono immediatamente; arrivarono sul luogo dell’eccidio a notte fonda e trovarono una scena raccapricciante: tre corpi ignudi, orrendamente crivellati di proiettili e sfigurati dai colpi di panga, cotti e tumefatti, giacevano accanto alla carcassa dell’auto ancora fumante.

A veva 60 anni, metà dei quali spesi in Africa: era nato a Romeno (Trento) nel 1921; in Kenya dal 1951. Destinato alla diocesi di Nyeri, padre Graiff lavorò a Gatanga, poi a Mugoiri, durante gli anni difficili della rivolta mau mau.
Nel 1964 chiese di passare alla nuova diocesi di Marsabit. Mons. Carlo Cavallera lo accolse volentieri e lo nominò parroco di Laisamis: una savana desolata, tutta pietre, sabbia e cespugli spinosi. Per 10 anni padre Luigi lavorò come un forsennato, costruendo uno dei più bei complessi della diocesi: chiesa, case per padri e suore, ospedale, scuole e… cristiani.
Gli anni 1965-70 furono particolarmente duri e pieni di tensione: gli shifta imperversavano; una notte assaltarono la missione; il padre scampò dalla morte per miracolo. Ma continuò a lavorare, nonostante la paura.
Coraggioso e spavaldo solo in apparenza, padre Graiff aveva paura della morte: la notte si svegliava di soprassalto al minimo rumore; imbracciava il fucile e correva da una finestra all’altra, pronto a respingere gli intrusi.
Dietro una scorza ruvida e autoritaria si nascondeva un cuore di bambino. Lo avevano capito subito gli africani: venivano a chiedere aiuto nei momenti più importuni. Egli si arrabbiava, ma poi cedeva, soprattutto se dicevano di avere fame. Ottenuto un po’ di cibo, i questuanti si nascondevano dietro un cespuglio, mangiavano felici e ridevano a crepapelle, imitando gesti e boccacce del burbero benefico.
Come un bambino odiava stare solo. Eppure la solitudine fu il suo pane quotidiano: prima a Laisamis, poi a Loyangalani (1973-78); gli ultimi due anni a Parkati, avamposto della missione di South Horr. In quella squallida regione abitavano i nomadi turkana, minacciati periodicamente da fame, malattie e, ultimamente, dalle razzie dei banditi. Nonostante il pericolo, padre Graiff vi si recava tutte le settimane, portando viveri, medicinali, vestiario, materiale da costruzione e tutto ciò che poteva servire alla sopravvivenza della gente. Era riuscito ad aprire la scuola e avviare piccole comunità cristiane.
Per gli ngorokos quella di padre Graiff era una presenza scomoda, quasi una sfida. Il loro banditismo era fomentato da rivalità etniche e politiche, con misteriose ingerenze straniere: lo dimostravano le armi sofisticate in dotazione. Il governo non interveniva; le forze di polizia stavano alla larga per paura. Solo i missionari avevano il coraggio di stare accanto a quelle popolazioni martoriate e prendee le difese. Per questo padre Graiff fu messo a tacere barbaramente.

CON LA GENTE
PER SEMPRE
padre Ariel Granada Sea (1941-1991)

Non aveva compiuto 50 anni. Era nato a Marulanda (Colombia) nel 1941. Dopo l’ordinazione (1968), padre Ariel Granada lavorò per alcuni anni nel vicariato di Florencia; poi svolse vari incarichi nelle case di formazione. Nel 1988 fu destinato al Mozambico. Partì sereno, contento di cominciare, a 47 anni, una nuova avventura missionaria.
Si trovò catapultato a Mecanhelas, una sperduta missione nel sud del Niassa. «Mancano luce elettrica, posta, telefono, acqua – scriveva a un amico -. Stiamo scavando un pozzo con la speranza di trovae un poco. Sono contento e sto facendo programmi per aiutare questa povera gente. Ma la guerra non vuole cessare. Sembra che ai guerriglieri arrivino armi sufficienti per uccidere tutti se volessero».
Imperversava la guerra civile tra l’esercito regolare del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e i ribelli della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana). Attoo alla missione si erano ammassati migliaia di sfollati. Costante e metodico, padre Ariel stava loro vicino, con iniziative materiali e spirituali, per riaprire un futuro di speranza. Altrettanto faceva con le comunità che poteva visitare. Intanto continuava a ritmo serrato la formazione di animatori e catechisti. Aveva iniziato la costruzione di una decina di belle capanne per i lebbrosi.

Tanti segni di consolazione furono troncati il 15 febbraio 1991. Padre Ariel stava per tornare in Colombia, per le vacanze e per la morte della mamma. Era in viaggio verso Lichinga, con padre José Rocha Martins, una suora indigena, una ragazza e una donna con tre bambini, quando la vettura fu bersagliata da una furia di proiettili.
«Non sparate! Siamo missionari!» gridarono i padri. Troppo tardi! Ariel fu colpito in fronte e morì all’istante. José fu ferito a una gamba. Pur riconoscendo i missionari, gli assalitori cominciarono a rubare quanto trovarono nella vettura; cavarono perfino le scarpe ai padri e un maglione alla suora. Quando videro il sacco di pane, cominciarono a divorarlo avidamente. Alle proteste di padre José e della suora, restituirono qualche oggetto e liberarono la ragazza, che volevano portare nella foresta.

Padre Ariel è morto sulla strada, accanto a un confratello ferito e alcune delle tante persone fatte oggetto di violenza indiscriminata. Egli sapeva che, per camminare insieme alla sua gente, doveva mettere in conto la condivisione degli stessi rischi, compreso quello della morte senza un apparente perché. Il suo sacrificio è solo l’ultimo atto di una presenza di speranza e solidarietà, con la conseguenza drammatica ma logica che tale scelta evangelica comporta.

UNA MARCIA IN PIÙ
padre Luigi Andeni (1935-1998)

Sono le 22.30 del 14 settembre 1998, festa dell’«Esaltazione della croce». Terminato l’incontro di programmazione pastorale, le suore tornano a casa, 200 metri distante, e spengono il generatore di elettricità. Padre Luigi Andeni e il diacono africano Williams Othieno si fermano sotto la veranda per una boccata d’aria fresca.
Cinque minuti dopo, tre loschi figuri sbucano dalle tenebre, travestiti da militari. «A terra!» ordinano imperiosi, puntando i fucili e facendo cigolare i caricatori. Padre Andeni si alza e domanda: «Chi siete? Cosa volete?». I malviventi indietreggiano. Inizia una colluttazione. Uno sparo lo ferisce di striscio al braccio destro; il polso sinistro è colpito ripetutamente con la panga; un’altra pallottola dirompente lo colpisce alla schiena ed esplode sul davanti. Gli assassini fuggono.
Stringendosi il ventre con le mani e aiutato dal diacono, padre Luigi riesce a rialzarsi e raggiungere la casa delle suore. Gli aprono la porta; cade a terra in una pozza di sangue. Alla luce di una torcia, suor Matilde cerca di tamponare la ferita, mentre il padre recita l’Atto di dolore; la voce si indebolisce, fino a diventare un impercettibile bisbiglio.
Vista la gravità delle ferite, le suore caricano il ferito sulla loro auto e lo portano all’ospedale di Wamba. I 70 km di strada ghiaiosa e sconnessa diventano un autentico calvario. «Pole!» (adagio) invoca il padre a ogni sobbalzo, mentre non cessa di pregare. Dopo tre ore di via crucis, a 5 km da Wamba, padre Andeni affida la sua vita nelle mani di Dio e della Madonna: sono le prime ore della festa dell’Addolorata.

N ato nel 1935 a Barbariga (Brescia), è in Kenya dal 1970. Gioviale ed entusiasta, semplice e tenace, pieno d’iniziative e generoso, padre Andeni sembra avere una marcia in più. Dovunque passa (Moyale, Sololo, Archer’s Post, Sukuta Marmar, di nuovo Archer’s Post), lascia la sua impronta: forma catechisti responsabili; costruisce chiese e cappelle con fiorenti comunità cristiane e folti catecumenati; stimola la gente a contare sulle proprie forze, aiutandola a costruire asili, scuole elementari e secondarie, laboratori di arti e mestieri, dispensari medici, pozzi e un’infinità di altri progetti di sviluppo economico e sociale. Dappertutto si fa apprezzare per il cuore aperto a tutti: aiuta centinaia di studenti poveri a pagare le tasse scolastiche; procura cibo a migliaia di affamati, senza distinzione di etnia o religione; semina la pace nei momenti di tensione e lotte tribali.
Perché lo hanno ucciso? Le autorità civili cercano di ridurre la sua morte a una rapina finita male, anche se non gli è stato rubato neppure l’orologio. Ma la gente è convinta che si tratti di un delitto su commissione. Il mandante sarebbe un pezzo grosso del villaggio, politicamente molto influente: uno che, pochi giorni prima del crimine, aveva avuto un’accesa discussione col padre, che accusava il capoccione di aver intascato i milioni raccolti dalla gente per lo sviluppo della scuola locale.
Dietro il sorriso cameratesco, padre Andeni nasconde un carattere forte, trasparente, senza compromessi. Ama e aiuta tutti, senza distinzione; ma non sopporta pigri, lazzaroni e imbroglioni. Rispettoso e cornoperativo con l’autorità, non ha peli sulla lingua di fronte a ingiustizie e corruzione. I cristiani lo conoscono e lo capiscono; i leaders politici, suscettibili e gelosi, sentono i suoi rimproveri come una minaccia alla loro autorità. Da qui la decisione di cucirgli la bocca.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – Il nuovo che ci aspetta

Missionari anche domani nell’annunciare Gesù Cristo,
nella testimonianza della vita, per rendere «felici anche su questa terra»,specialmente gli «esclusi».
Ma «ci vuole fuoco per essere apostoli»
(beato Allamano).

«Il 2001 ci ricorda il primo secolo di vita dei missionari della Consolata. Chiediamo al Signore che, durante le celebrazioni giubilari, sappiamo recuperare una sempre più chiara coscienza della nostra responsabilità verso la chiesa e il mondo da evangelizzare».
Con queste parole padre Piero Trabucco, superiore generale, annunciava le celebrazioni per i primi 100 anni di vita dei missionari della Consolata, indicando che non è sufficiente «fare memoria» del passato, ma bisogna pensare al futuro che ci aspetta. Occorre far sì che il «codice genetico» ricevuto dal fondatore continui nelle nuove generazioni di missionari.
Lo Spirito Santo – pare ci voglia dire l’Allamano – soffia dove vuole e perpetua, oggi, gli stessi prodigi che operò agli albori della nostra famiglia missionaria. Il ricordarli non diventa solo un insegnamento per noi, ma può trasformarsi in sorgente di vita e ardore apostolico, secondo i bisogni del tempo nuovo che ci attende.
Essere missionari della Consolata nel terzo millennio significa camminare in due direzioni irrinunciabili: siamo stati voluti per «evangelizzare» e questa azione è per i popoli che ancora non conoscono il vangelo. Siamo, cioè, «ad gentes».
UNA consegna
precisa
«Evangelizzare è la grazia, la vocazione propria della chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare»: ricordava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi.
Per noi missionari questo è e rimarrà sempre l’elemento essenziale e costitutivo della nostra vocazione, una consegna esplicita del fondatore Allamano, che diceva: «Datevi con tutto il cuore all’opera dell’evangelizzazione. È per questo speciale fine che sceglieste la via delle missioni, preferendo il nostro istituto a tante altre congregazioni che attendono ad altri ministeri».
Nel Nuovo Testamento «evangelizzare» è una realtà dai molti volti: annuncio con un linguaggio comprensibile, testimonianza, guarigioni, amore, perdono, «consolazione». Al cuore di queste espressioni, Gesù colloca (e gli evangelisti lo ricordano) il regno di Dio, che non è un puro concetto, ma il movente di tutta la sua azione.
La chiesa, nell’attuare la missione ricevuta da Cristo, ha sviluppato il tema dell’evangelizzazione accentuandone l’uno o l’altro aspetto. Se un tempo aveva un solo scopo (andare, annunziare, convertire, battezzare e fondare la comunità cristiana), oggi si apre a un ventaglio più vasto e l’esperienza dei missionari sul campo lo conferma.

In questa ampiezza e ricchezza di significati del termine «evangelizzazione», ci piace sottolineare alcuni aspetti:
n Scoprire i «semi del Verbo» (come dicevano i padri della chiesa) nel contesto in cui il vangelo viene predicato. Oggi, più che mai, i missionari riconoscono che Dio parla all’umanità intera attraverso il creato, il popolo della «prima alleanza», le religioni e culture di altri popoli.
n Annunciare esplicitamente il vangelo e Gesù Cristo come unico salvatore; che è molto di più dell’insegnamento di una dottrina, una morale, un insieme di verità alle quali aderire. L’annuncio mira a cambiare le persone dal di dentro e condurle a vivere, pensare e operare secondo gli ideali del regno di Dio, fino alla formazione di chiese locali.
n Testimoniare la verità della Parola con la vita degli annunciatori e la trasformazione dei suoi destinatari. La testimonianza dello stile di vita di Gesù, da lui proposto ai suoi discepoli, anche senza annuncio esplicito della sua parola, è già evangelizzazione.
n Promuovere lo sviluppo autentico delle persone e dei popoli, nella giustizia e nell’amore, con la cooperazione di tutte le forze (anche di coloro che non credono o hanno fedi diverse) verso il bene comune, cioè il Regno.
n Rivolgere il messaggio evangelico non solo agli individui, ma anche alle comunità. Il contenuto dell’evangelizzazione non si può capire senza il contesto di una comunità che lo vive e lo comunica in modo significativo. È ciò che l’Allamano chiamava «elevazione dell’ambiente».
n Evangelizzare anche le culture, le strutture e i modelli di vita, per purificare ciò che è in contrasto con la parola di Dio e favorendo l’inculturazione del messaggio evangelico.
non solo geografia
I missionari della Consolata sono nati in un tempo in cui la missione si confondeva con la geografia. Rivolgersi ai non-cristiani significava uscire dal proprio paese, per andare in altri continenti: un elemento carismatico ritenuto ancora valido. Per l’Allamano era assolutamente chiaro che la peculiarità dei suoi missionari stesse nell’uscire dalla propria terra, nell’incontro con popoli, culture e religioni differenti e nell’annuncio del vangelo a chi non ne era venuto a conoscenza.
Inoltre il nostro istituto è nato per l’Africa. A questo continente era rivolto il sogno dell’Allamano che si ispirava a un «modello africano», il Massaia, per indicare la meta ai suoi missionari. Per tutta la vita il fondatore pensò e lavorò per le missioni d’Africa, per la quale egli stesso affermava di aver sempre avuto, senza sapee la ragione, una speciale attrazione. È in Africa che l’istituto ha elaborato la sua strategia e metodologia missionaria e, nella percezione comune, partire e fare missione erano sinonimi di «Africa». Così la fondamentale identità dei missionari della Consolata viene dal cotinente nero, dove è maturata la loro iniziale esperienza e comprensione dell’ad gentes.
Ma questa scelta non è esclusiva. Ha il diritto di «primogenitura», ma si andrà pure altrove, come raccontava il fondatore dopo una visita a Propaganda Fide, aggiungendo di aver fatto una proposta: «Poi andremo dove ci vogliono». Ed è su queste componenti fondamentali dell’identità dell’istituto che si è innestata la linfa vitale della missione in America e, soprattutto, in Asia. La «scoperta» continua ancora e spinge a chiarire sempre meglio ambiti e direzioni del nostro impegno missionario ad gentes.
Non si tratta soltanto di luoghi, ma di persone, situazioni, aree, fenomeni, culture non raggiunti dal vangelo. Si apre, quindi, il grande ventaglio di quelli che il papa, nella Redemptoris missio, ha indicato come i modei «areopaghi».
Per noi, missionari della Consolata, significano concretamente l’Asia, l’islam, le molte forme di ateismo pratico, il fenomeno della scristianizzazione, il mondo delle sètte e dei movimenti religiosi. Come attuazione concreta, c’è l’impegno per una nuova apertura in un altro paese dell’Asia, oltre alla Corea, dove l’istituto ha già alcune presenze, rivolte prevalentemente al dialogo interreligioso, all’animazione missionaria della chiesa, alla pastorale in ambienti disagiati.
In linea con le Costituzioni, che nell’evangelizzazione dei non cristiani danno la preferenza ai «più bisognosi e trascurati», vengono altre due scelte: le povertà urbane (uno dei fenomeni più degradanti del tempo presente ed anche più massicci per il numero di persone coinvolte) e le minoranze etniche (spesso vittime di oppressione, emarginazione e minacciate di distruzione culturale e fisica).
Un impegno non indifferente e significativo rimane quello dell’animazione missionaria di tutte le chiese. Appena nasce, ogni comunità cristiana, per essere veramente tale, deve aprirsi all’intera umanità: all’annuncio del vangelo ai non cristiani del luogo e del mondo. Nostro compito, perciò, sarà quello di aiutare le comunità ad assumere questa dimensione, con slancio e generosità.
Infine l’impegno per la giustizia e la pace. Intitolato alla «Consolata», l’istituto ha ricevuto dal suo fondatore un criterio preciso: abbinare l’annuncio del vangelo con la promozione umana nelle sue diverse forme, la vicinanza e la partecipazione alla sorte della gente.
L’Allamano ha inviato i suoi missionari a portare un «vangelo di consolazione», capace di rendere «felici anche su questa terra». Vogliamo, allora, farci voce degli esclusi di ogni genere e a essi diamo voce, con l’impegno per la difesa e promozione dei diritti e della dignità umana, con la riconciliazione tra persone, tribù, popoli e nazioni, con la salvaguardia del creato. Questi temi sono parte costitutiva dell’evangelizzazione ad gentes ed «espressione odiea di consolazione».
Un’attenzione particolare i missionari della Consolata la riservano ai laici, con i quali vogliono condividere l’evangelizzazione. È la conseguenza della presa di coscienza che ogni battezzato è missionario per natura sua, vero agente di pastorale e di missione, per vocazione. È un cammino aperto, che richiede riflessione, nonché qualche «conversione», per saper collaborare, condividere, programmare insieme.

Tutti questi aspetti portano alla conclusione che le trasformazioni avvenute, nel mondo e nella chiesa, esigono un forte impulso al rinnovamento, ma nel profondo. Puntando quasi a una «rifondazione» dell’istituto, perché vi sia lo «zelo apostolico» di cui parlava il beato Allamano. «Ci vuole fuoco per essere apostoli!»: zelo presente in modo caratteristico nelle prime generazioni di missionari.
Questo, al di là delle strategie e delle proposte per il futuro, ravviva il cammino che i missionari della Consolata vogliono compiere per i prossimi… 100 anni!

Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – Città di lotta e di cuore

Dall’ingresso in seminario (nel 1866) alla sua morte (nel 1926), Giuseppe Allamano trascorse a Torino 60 anni.
Per il capoluogo sabaudo quello fu un periodo
ricchissimo di avvenimenti, dalla nascita della Fiat
alla crescita della classe operaia. Ma altrettanto
importanti furono le trasformazioni culturali con il diffondersi del positivismo (Cesare Lombroso e Arturo Graf insegnarono a Torino) e delle idee socialiste
(portate avanti da personaggi come
Antonio Gramsci e Piero Gobetti).
Poi arrivò il fascismo, che travolse tutto e tutti.

Le profonde trasformazioni culturali verificatesi a Torino ai tempi dell’Allamano interessarono soprattutto due periodi: l’ultimo trentennio dell’Ottocento, con l’imporsi della egemonia positivista, e l’immediato dopoguerra, con l’irruzione prepotente della cultura politica marxista-gramsciana e con il proporsi di quella gobettiana, caratterizzata da una forte tensione civile.
Sia quella positivista, sia quella marxista-gramsciana erano culture totalizzanti, in quanto assolutizzavano rispettivamente la scienza e la politica, proponendosi l’emarginazione e la eliminazione della religione.
La cultura gobettiana, nel suo giovane fondatore, il torinese Piero Gobetti, era una cultura attenta al fatto religioso e disposta al dialogo; ma nei suoi discepoli, neoilluministi, prevarrà la chiusura alla dimensione religiosa della vita, se non addirittura l’anticlericalismo e l’anticattolicesimo.
Se si considera che il positivismo conquistò il mondo universitario (ma ebbe pure una forte ricaduta sull’economia e sul ceto borghese), che il pensiero marxista-gramsciano ebbe una notevole presa sul mondo operaio e che la cultura gobettiana esercitò un grande fascino sugli intellettuali, non è difficile rendersi conto dei loro dirompenti effetti sulla mentalità e sulla prassi religiosa, nella breve e nella lunga durata.
POSITIVISMO E LIBERALISMO
Il positivismo fece la sua comparsa nella facoltà di medicina. Nel 1861 il ministro della pubblica istruzione Francesco De Santis chiamò sulla cattedra di fisiologia l’olandese Jacob Moleschott, fautore di una fisiologia materialistica, che poneva la materia alla base della vita e dell’agire umano, in contrapposizione a ogni visione teleologica e teologica.
Su questa linea si orientò non soltanto la scuola medica torinese, ma il mondo scientifico. Infatti l’atteggiamento fideistico verso la scienza caratterizzava fisiologi, anatomisti, patologi e zoologi. C’era però, anche all’università, chi era convinto della conciliabilità tra fede e scienza – evoluzionismo compreso – come il canavesano Pietro Giacosa, allievo e ammiratore del Moleschott, amico ed estimatore del Fogazzaro, nonché in rapporto con esponenti del modeismo italiano e straniero. Tenne la cattedra di farmacologia per circa mezzo secolo. Però visse ai margini della vita ecclesiale torinese.
Alla cultura positivista apparteneva Cesare Lombroso, fondatore dell’antropologia criminale e titolare della cattedra di medicina legale. Questi, a sua volta, fece chiamare alla direzione del manicomio e sulla cattedra di psichiatria l’emiliano Enrico Morselli, instancabile propugnatore e divulgatore delle teorie evoluzionistiche di Haeckel, Spencer e Darwin. Infatti, con Firenze e Pavia, Torino era il centro di diffusione del pensiero di Darwin, le cui opere furono tradotte e divulgate da Michele Lessona, ordinario di zoologia e poi rettore dell’università torinese. Il positivismo si impose anche nella facoltà di lettere con la critica letteraria, grazie al trentennale magistero di Arturo Graf, le cui lezioni erano anche un evento mondano, tanto era l’interesse che suscitavano al di fuori del mondo accademico.
Presso il grande pubblico mietevano successo Emilio Salgari, con le avventure di Sandokan (l’autore porrà fine alla sua vita con il suicidio sulla collina torinese nel 1911), e Edmondo De Amicis che, avvicinatosi al movimento socialista, con il suo libro Cuore proponeva un codice di morale laica.
Santuario del liberalismo era la facoltà di giurisprudenza, il cui insegnamento fondamentale era l’economia politica. Il titolare di questa cattedra, Cognetti, fondò nel 1893 l’importante laboratorio di economia politica, che allevò un gruppo di ricercatori di prim’ordine, tra cui Luigi Einaudi. La cultura che vi era elaborata era essenzialmente una cultura per lo sviluppo industriale, che non a caso fu straordinario nella Torino del periodo giolittiano. La nascita del Politecnico nel 1906 era la prova tangibile del successo del binomio cultura scientifica ed industria.
Ma tra fine Ottocento ed inizio Novecento si verificarono tre novità destinate a incidere profondamente nel costume non solo torinese: il calcio, l’automobile e il cinema. Nel 1898 nacque a Torino la «Federazione italiana del football» e si disputò in una sola giornata il primo campionato di calcio. Il 1899 vide la nascita della FIAT, evento gravido di conseguenze per la città. Nel 1901 partiva il primo giro automobilistico d’Italia e si teneva anche il primo salone dell’automobile. Per quanto concee il cinema, Torino costituiva uno dei principali centri della cinematografia italiana.
Non meno importante, anche se di minore durata, fu l’altra svolta culturale, quella gramsciana-gobettiana, nel primo dopoguerra, con Antonio Gramsci dell’«Ordine Nuovo» e con Pietro Gobetti della «Rivoluzione Liberale»: convinto il primo della funzione messianica della classe operaia, il secondo del ruolo guida degli intellettuali nella trasformazione politica, sociale e civile della società. Entrambi, sia pure con accento e taglio diverso, contribuirono a imprimere a Torino rispettivamente l’immagine di città operaia e laica, ponendo l’ipoteca dell’egemonia di due culture: quella marxista e quella laica.
Le culture protagoniste (la positivista, la marxista e la laica), di ascendenza risorgimentale, erano non soltanto anticlericali, ma anche antireligiose e addirittura atee.
LA FIAT E LA DIFFUSIONE
DELLE FABBRICHE
Non meno profonde furono le trasformazioni politico-economico-sociali dal 1860 al 1920, trasformazioni che interessarono l’Italia e Torino in particolare. La classe dirigente liberale, protagonista del risorgimento e dell’unità italiana, proprio nella capitale subalpina dovette, prima, fare spazio ai movimenti popolari emergenti (quello socialista e quello cattolico), poi fu costretta a cedere il potere al fascismo. Torino, capitale del liberalismo, divenne, più o meno suo malgrado, fascista; sul piano economico la città della Mole divenne capitale dell’industria.
Sul piano sociale, prima di precipitare nel calderone del corporativismo fascista, vide successivamente emergere, dopo i tempi dell’egemonia piccolo borghese e artigiana, la media e alta borghesia industriale e poi la classe operaia.
Negli anni ’70, Torino non era ancora città industriale, ma si avviava a esserlo, soprattutto grazie alla crescita dell’industria meccanica con le officine ferroviarie di Porta Susa e Porta Nuova e dell’industria delle armi con le fabbriche del Regio Arsenale, di Valdocco e di Borgo Dora. Sui mercati finanziari, ancora nelle mani dei Rothscild e dei Pereire, cominciarono a fare la comparsa i finanzieri svizzeri (come Geisser).
Il tenore di vita era generalmente basso e molto basso tra gli operai. Le condizioni di lavoro nelle fabbriche erano assai scadenti e gli orari lunghi e massacranti, anche per donne e bambini. Soltanto una legge del 1898 stabilì (ma venne sovente elusa) che le donne non lavorassero oltre le 12 ore giornaliere e proibì il lavoro in fabbrica ai bambini inferiori a 13 anni. A rendere drammatica la condizione operaia contribuivano l’insicurezza del lavoro e la disoccupazione, in un tempo in cui mancavano garanzie assistenziali e previdenziali.
A causa della costante immigrazione dalle campagne, Torino cresceva demograficamente: i 191.500 abitanti del 1868 diventarono 250.000 nel 1881.
Sotto il profilo economico-sociale, gli anni ’80 e ’90 furono molto difficili, sia per i riflessi della gravissima crisi agraria, sia per il crollo dei principali istituti di credito (coinvolti nella speculazione edilizia di Roma), sia per il peggioramento dei sistemi di scambio provocati dalla crisi serica e dalla guerra doganale con la Francia.
Tali fenomeni provocarono forti tensioni sociali, cui cercarono di dare una risposta soprattutto il movimento cattolico, molto vivace a Torino, e il movimento socialista, che, ormai organizzato in partito (fondato a Genova nel 1892), riuscì a portare a Palazzo Civico 17 consiglieri nel 1897. Il loro organo di stampa era, dal 1893, il Grido del Popolo.
Al socialismo aderirono, più idealmente che politicamente, numerosi intellettuali di cultura positivista, come Cesare Lombroso, Arturo Graf e Giuseppe Giacosa, nonché Edmondo De Amicis, ai quali peraltro era estraneo il marxismo.
L’ESPANSIONE SOCIALISTA
E I CATTOLICI
La crescente forza socialista cominciò a preoccupare sia i liberali, che erano al potere, sia i cattolici, che pure continuavano ad astenersi dalla vita politica.
Per questo anche a Torino cominciò a farsi strada un tendenziale clerico-moderatismo (così fu chiamato) che prevedeva un accordo più o meno tacito tra liberali e cattolici (almeno una parte) in funzione antisocialista. La cosa non spiaceva né a Pio X né all’arcivescovo di Torino, Agostino Richelmy, che anche con tale scopo volle nel 1903 il nuovo quotidiano cattolico Il Momento. La disponibilità in quella direzione fu abilmente sfruttata da Giolitti, per dividere sia il movimento socialista sia quello cattolico, mantenendo l’egemonia liberale.
Convinto e fedele sostegno alla politica giolittiana in generale venne offerto da Alfredo Frassati, dal 1900 direttore del quotidiano La Stampa, che a partire da questa data comincerà a condizionare e a orientare le vicende della città di Torino. La vita politica e amministrativa della città fu dominata dai giolittiani (anche grazie all’appoggio deciso, e a volte critico, del Frassati) fino alla grande guerra. La notevole ripresa economica della congiuntura era dovuta soprattutto ai progressi dell’industria elettrica e allo sviluppo dei trasporti.
Nel 1908 fu approvato un nuovo piano regolatore e nel 1912 fu estesa la cinta daziaria da 16 a 34 chilometri, inglobando nella città una buona parte di popolazione agricola. Nel frattempo la periferia si andava infoltendo di fabbriche e di case operaie.
Per facilitare le comunicazioni con le «barriere» e fra il centro e l’antica periferia, si operò la municipalizzazione dei trasporti tranviari. Contemporaneamente la città registrava un marcato incremento demografico, soprattutto in Borgo San Paolo, alla Crocetta ed alle Molinette, ma anche nei vecchi quartieri operai della Barriera di Milano, del Regio Parco e della Barriera di Lanzo.
Alla vigilia della grande guerra la città aveva raggiunto i 450.000 abitanti, di cui un quarto era costituito da operai. Questi erano in gran parte legati alle organizzazioni socialiste, anche ideologicamente, come dimostra tra l’altro la scelta di alcuni nomi di battesimo per i figli: Marxina, Libera, Libera Idea, Ribello, ecc.
GRAMSCI, STURZO
E I FASCISTI
Da parte sua la borghesia registrava un costante incremento di benessere. «L’esposizione internazionale che si tenne a Torino nel 1911, in occasione del cinquantenario dell’unità italiana, fu la consacrazione tangibile dell’ottimismo positivista e degli ideali evoluzionistici che informavano larga parte della borghesia torinese» (V. Castronovo).
Insomma, mentre alcuni intellettuali (come il poeta Guido Gozzano) già avvertivano e denunciavano la crisi del positivismo, la borghesia, meno attenta alle grandi idealità e guidata dall’interesse concreto, continuava a nutrire una grande fiducia nella scienza, nella tecnica e nell’avvenire.
Nonostante la presenza del partito nazionalista, a Torino di fronte alla prima guerra mondiale prevalsero le forze anti-interventiste, che si riconoscevano nella politica di Giolitti, sia che fossero cattoliche o socialiste.
In piena guerra mondiale, nell’agosto del 1917 la città fu sconvolta da una rivolta popolare, occasionata dalla penuria di generi alimentari e dalla mancanza di pane.
Le commesse pubbliche belliche avevano incrementato il settore meccanico, in particolare la FIAT, che dal 1914 al 1918 passò da 4.000 a 40.000, dipendenti (piazzandosi al terzo posto delle industrie nazionali).
Ma, se l’impetuoso sviluppo industriale bellico aveva creato delle fortune, aveva pure inasprito i conflitti sociali. Una delle cause era il carovita: dal 1913 i prezzi erano cresciuti più di 6 volte.
A Torino, più che altrove, lo scontro fu particolarmente duro, soprattutto nelle fabbriche, che furono occupate durante il cosiddetto biennio rosso, 1919-1920, sotto la regia degli uomini di «Ordine Nuovo», con Gramsci in testa, che guardavano ormai ai modelli dei soviet russi. Così, in una atmosfera molto tesa, si svolsero le elezioni politiche del novembre 1919, che a Torino videro la sconfitta dei liberali, la vittoria dei socialisti ed una buona affermazione del partito popolare di Sturzo, che si presentava per la prima volta. A questo punto passarono all’offensiva i fascisti, che nella notte del 25 aprile 1921 assalirono ed incendiarono la Camera del Lavoro.
Nel capoluogo subalpino gli uomini di Mussolini non trovarono terreno facile neppure dopo la marcia su Roma: c’era una robusta opposizione guidata da Alfredo Frassati sulla Stampa. Il padre del beato Pier Giorgio fu costretto a lasciare il giornale nel settembre 1925, che passò nelle mani di Giovanni Agnelli. La Gazzetta del Popolo fu fascistizzata, mentre da alcuni anni il già glorioso quotidiano cattolico Il Momento era su posizioni filofasciste.
IL REGIME
Nel 1926, quando la chiesa torinese era guidata dall’arcivescovo Giuseppe Gamba, si spegneva il canonico Giuseppe Allamano e tramontava ogni forma di democrazia in Italia con l’affermazione del fascismo come regime.
La Torino risorgimentale del 1866 era davvero, sotto tutti i punti di vista, molto lontana.

LA CHIESA TORINESE AI TEMPI DELL’ALLAMANO

Lorenzo Gastaldi (1871-’83)

Carattere forte ed austero, esigente con se stesso, e con gli altri (a cominciare dai sacerdoti), molto attivo, mons. Gastaldi si propose di scuotere la diocesi di Torino da un torpore ventennale, dovuto all’esilio di mons. Fransoni (dal 1850 al 1862) e alla prolungata vacanza della sede episcopale (dal 1862 al 1867).
La diocesi divenne un cantiere di iniziative. Convinto che alla base di una fiorente vita cristiana stesse lo zelo dei sacerdoti, si propose la riforma della vita sacerdotale e dell’attività pastorale a vari livelli.
Cominciò con i sinodi diocesani. Ne tenne ben cinque: i primi tre nel triennio, 1873-1874-1875, con scadenza annuale, gli altri con scadenza triennale, nel 1878 e nel 1881.
Le costituzioni sinodali severe suscitarono opposizione in una parte del clero, specialmente parroci, con relativi ricorsi a Roma, anche anonimi. Indubbiamente le costituzioni contenevano norme molto rigide sul clero: dall’obbligo della talare a quello della tonsura (6 cm. e mezzo!), all’assoluta proibizione ai parroci di assentarsi dalla parrocchia per più di 3 giorni senza l’autorizzazione del vicario foraneo, dall’obbligo degli esercizi spirituali, almeno ogni 3 anni, a quello della confessione almeno ogni 3 settimane, con l’imposizione di presentare nel mese di gennaio in curia l’attestato di frequenza alla confessione.
Va detto, però, che la severità delle norme era comune ad altri sinodi piemontesi contemporanei. Il sinodo Gastaldi tuttavia eccedeva in sanzioni disciplinari come la sospensione a divinis (dall’attività sacerdotale).
La riforma del clero non poteva non partire dai seminari, a cui l’arcivescovo attribuiva una estrema importanza. Riservò la massima cura al seminario teologico. Nel 1874 ne nominò rettore un suo uomo di fiducia, don Giuseppe Maria Soldati, già direttore spirituale (a ricoprire tale incarico sarà chiamato nel 1876 Giuseppe Allamano, sacerdote da 3 anni); compose un nuovo regolamento, nel quale il seminario era concepito ad instar domus religiosae, e con il quale tutta la vita seminaristica era regolamentata anche nei minimi particolari, animata però da grande serietà e da una forte tensione ascetica verso il sacerdozio.
All’arcivescovo Gastaldi spetta senza dubbio il merito del rilancio dei seminari e della ripresa delle ordinazioni sacerdotali. Infatti, dopo il 1848, c’era stato un vero e proprio crollo di vocazioni e ordinazioni sacerdotali, che aveva portato al ridimensionamento e alla riduzione dei seminari da parte dell’arcivescovo Riccardi di Netro nel 1869. Una inversione di tendenza si registrò, nel numero dei chierici teologi sotto l’episcopato Gastaldi, e nel numero delle ordinazioni sotto l’episcopato Alimonda. A partire dal 1893 il numero delle ordinazioni cominciò a superare quello dei decessi. La tendenza durò fino alla prima guerra mondiale.
Anche il giovane clero preoccupava l’arcivescovo, che non era soddisfatto dell’insegnamento morale e della formazione pastorale che venivano impartiti da Giovanni Battista Bertagna al convitto ecclesiastico, che nel 1871 era passato dalla chiesa di S. Francesco d’Assisi al santuario della Consolata. Le riserve dell’arcivescovo conceevano soprattutto la prassi della confessione, ritenuta troppo indulgente. Dopo richiami personali e un sondaggio presso il clero, risultato in gran parte contrario al Bertagna, il Gastaldi nel settembre 1876 dimissionò il Bertagna dall’insegnamento. Il provvedimento suscitò un putiferio tra il clero e precipitò nella crisi il convitto, dalla quale uscì soltanto con la nomina di Giuseppe Allamano, nel 1880, a rettore della Consolata e del convitto, e direttore della conferenza di morale nel 1882.
La nomina dell’Allamano, nipote del Cafasso, e formatosi alla scuola del Soldati e del Bertagna, rappresentò una soluzione di compromesso, ma saggia, in quanto era forse la migliore possibile, perché sembrava garantire le esigenze delle varie parti.
Maggiore sensibilità si ebbe da parte del mondo cattolico nei confronti della incipiente questione sociale-operaia, sorta dall’avvio della industrializzazione. In questa direzione andava una significativa iniziativa, per certi aspetti pionieristica, pur nei suoi limiti, sorta il 29 giugno 1871, anche per volontà di don Leonardo Murialdo: la «Unione di operai cattolici», che mise in atto tutta una serie di iniziative di carattere formativo, assistenziale e previdenziale per operai ed artigiani. Essa ebbe il pieno appoggio dell’arcivescovo Gastaldi.
Nonostante la diffusione dell’anticlericalismo, persisteva una massiccia pratica religiosa, c’era una grande diffusione delle nuove devozioni e una costante crescita dell’associazionismo cattolico. Segno di vitalità cristiana era la nascita in Torino e diocesi di non poche congregazioni religiose, nonché lo sviluppo di quelle recenti, come la congregazione salesiana, e la ripresa degli antichi ordini religiosi, come i gesuiti, che proprio a due passi dall’arcivescovado rilevavano l’Istituto sociale.
Tuttavia la situazione religiosa era ambigua, nel senso che in profondità le trasformazioni sociali, economiche e culturali, stavano producendo lentamente ma inesorabilmente cambiamenti di mentalità e di costume, con inevitabili cambiamenti anche sulla vita religiosa, a lunga scadenza, e i cui sintomi già venivano avvertiti, sia pure confusamente. Cosa che appare nella relazione sullo stato della diocesi del 1878, nella quale monsignor Gastaldi esprimeva preoccupazione sulla fede degli intellettuali, della borghesia e degli operai. Ottimismo manifestava solo sul conto dei contadini e degli aristocratici.

Gaetano Alimonda (1883-’91)

A succedere al Gastaldi, Leone XIII, d’accordo con re Umberto I, mandò un suo uomo di fiducia, ligure, già vescovo di Albenga, ma da alcuni anni attivo in diverse congregazioni romane: il card. Gaetano Alimonda.
Probabilmente il papa vide in lui, uomo di carattere dolce e remissivo, la persona più adatta per sopire le tensioni esistenti in Torino soprattutto tra il clero.
Nella diocesi torinese la nomina dell’Alimonda fu anche interpretata in funzione antigastaldiana. Così di fatto avvenne. I più vicini collaboratori del predecessore, soprattutto nella formazione del clero, furono rimossi o trascurati: il rettore del seminario di Torino, il canonico Soldati, uomo di fiducia del Gastaldi, fu immediatamente esautorato; il canonico Allamano restò rettore del convitto della Consolata, ma fu privato di fatto, anche se non con atto formale, della cattedra di teologia morale. Su suggerimento di don Bosco e anche di altri antigastaldiani, fu richiamato in diocesi da Asti don G. B. Bertagna.

Davide Riccardi (1892-’97)

Breve ma intenso fu l’episcopato di Davide Riccardi, biellese, vescovo di Ivrea e poi di Novara. La caratteristica di fondo del suo episcopato fu il sostegno incondizionato al movimento cattolico, che si esprimeva soprattutto nell’«Opera dei Congressi», sostenendo e promuovendo una grande quantità di iniziative di carattere sociale.
L’arcivescovo fu anche grande promotore e sostenitore della stampa cattolica. Nel 1892, in seguito al passaggio a Firenze del quotidiano intransigente L’Unità Cattolica, si adoperò per la fondazione di un nuovo quotidiano intransigente L’Italia Reale (anche l’Allamano diede il suo fattivo contributo), che veniva ad affiancarsi all’altro quotidiano cattolico Il Corriere Nazionale, di orientamento moderato. Intanto continuava la sua vita il settimanale La Voce dell’Operaio.
Nel 1896 nasceva il primo circolo «Democrazia cristiana» e don Piovano fondava il settimanale Democrazia Cristiana, per iniziativa di 12 parroci di Torino. Si rivolgeva soprattutto agli operai e polemizzava con liberali e borghesia, sostenendo il diritto di sciopero.
Non mancarono iniziative per il mondo agricolo: nel 1896 nacque la «Unione cattolica agricola torinese» e nell’anno seguente la «Federazione agricola torinese». Quindi tante iniziative, ma anche acque agitate negli ultimi anni dell’Ottocento a Torino.

Agostino Richelmy (1897-1923)

Anche il lungo episcopato di Agostino Richelmy, il vescovo amico del canonico Allamano e suo grande sostenitore nella fondazione dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, fu costretto a misurarsi con gravi problemi: la crisi del movimento cattolico (contrasti tra l’«Opera dei Congressi» e la nascente «Democrazia Cristiana»), intrecciata in parte con la crisi modeista, la tragedia della grande guerra e la crisi politico-sociale post-bellica che portò al fascismo.
In primo luogo la crisi del movimento cattolico. Il 1 gennaio 1898 il settimanale Democrazia Cristiana si trasformò in quotidiano, ma i fatti di Milano (con la repressione del generale Bava Beccaris e con l’arresto di don Davide Albertario e di Filippo Turati), pur non coinvolgendo direttamente i cattolici torinesi, ebbero un contraccolpo, provocando un atteggiamento negativo dell’arcivescovo nei confronti della Democrazia Cristiana, che a Torino era particolarmente viva. Infatti il suo quotidiano, il 15 maggio 1899 pubblicò il Programma di Torino, considerato il primo vero programma politico dei cattolici italiani, che don Sturzo terrà presente non solo nel discorso di Caltagirone nel 1905 ma anche nella stesura del programma del «Partito popolare italiano» del 1919. Tuttavia, anche a Torino divenne prevalente il cosiddetto clerico-moderatismo (accordo tra cattolici conservatori e liberali) caldeggiato su scala nazionale dal nuovo papa Pio X, per contrastare l’avanzata socialista, e fatta proprio a Torino dal card. Richelmy. Per sostenere questa linea l’arcivescovo volle nel 1903 il nuovo quotidiano cattolico Il Momento.
Le questioni politico-sociali nel mondo cattolico italiano si intrecciavano con la crisi modeista, che coinvolse, non il popolo, ma le élites intellettuali del clero e del laicato cattolico.
I cattolici intransigenti vegliavano e colpivano senza riguardo veri e presunti modeisti. L’avanguardia antimodeista a Torino era costituita da gesuiti, che facevano capo allo studentato teologico di Chieri, tra i quali emergeva padre Giuseppe Chiaudano. L’episcopato piemontese e l’arcivescovo di Torino avevano già preso posizione sul modeismo, rispettivamente in una lettera circolare nel 1905 ed in una lettera pastorale nel 1906. Dopo la enciclica Pascendi e la visita apostolica del 1907, furono presi provvedimenti disciplinari da parte del Richelmy, che tuttavia per gli integristi non era abbastanza antimodeista. Fece espellere dal seminario i chierici colpevoli di leggere le opere modeiste e, in quanto responsabile del servizio religioso dell’opera Bonomelli per l’emigrazione, favorì la partenza per l’estero dei sacerdoti ritenuti modeisti o sospettati di modeismo.
Il provvedimento più spettacolare fu imposto da Roma, dopo la visita apostolica ai seminari nel 1911: il dimissionamento del professore di storia ecclesiastica alla facoltà, il canonico Giuseppe Piovano, perché ritenuto non affidabile e irrecuperabile. La crisi modeista resta una pagina drammatica nella storia della chiesa; troppo sovente mancarono discernimento, giustizia e carità.
Non era ancora rientrata la bufera modeistica che ci si trovò inguaiati nella tragedia della prima guerra mondiale.
La crisi post-bellica coinvolse particolarmente Torino, dove la componente operaia era numerosa ed agguerrita, sotto la guida accorta del gruppo dell’«Ordine Nuovo», di Gramsci e Togliatti. Il socialismo faceva paura e si faceva minaccioso anche per il suo aperto ed ostentato anticlericalismo.
I cattolici si organizzarono in campo politico e sociale: la sinistra del partito popolare era particolarmente attiva ed operava attraverso il periodico Il pensiero popolare (diretto da Attilio Piccioni) verso il quale andavano le simpatie di Pier Giorgio Frassati e la disapprovazione dell’arcivescovo che ne proibì la lettura ai chierici, perché propugnava la collaborazione tra cattolici e socialisti in funzione antifascista. Da anni era molto attivo il sindacato cristiano con la «Unione del Lavoro», che aderì alla «Confederazione Italiana del Lavoro», nata a Roma nel 1918, e di cui primo segretario fu G. B. Valente, già esponente della prima Democrazia cristiana torinese.
Negli ultimi mesi di libertà di stampa concessa dal fascismo, cioè nel 1926, Giuseppe Rapelli diresse il battagliero periodico della CIL, Il Lavoratore, apertamente antifascista. Ma ormai anche non pochi cattolici erano saliti sul carro del vincitore. Lo stesso quotidiano cattolico Il Momento era passato su posizioni filo-fasciste, come la destra del partito popolare.

Giuseppe Tuninetti




SPECIALE 100 ANNI – Un parto lungo dieci anni

Era il 29 gennaio 1901 quando Giuseppe Allamano fondò l’Istituto Missioni Consolata.
Vi lavorava da quasi un decennio, affrontando difficoltà di ogni genere. Figura importante e determinante nella chiesa torinese della metà Ottocento
e primo ventennio del Novecento, il fondatore è quasi sconosciuto fuori di Torino e del Piemonte.
In compenso, l’Istituto dei missionari della Consolata
ha messo solide radici in quattro continenti.
Questo è il racconto della sua travagliata nascita.

Mons. G. B. Ressia, compagno di corso ed amico dell’Allamano, afferma di lui: «Questo delle missioni fu il tormento santo della sua giovinezza».
Nominato rettore del santuario della Consolata di Torino, già tra il 1887-88, l’Allamano sembra avere in mente di fondare qualcosa in relazione alle missioni.
Forse la prima idea è semplicemente di dare inizio ad un’opera missionaria simile a quella esistente a Genova (Collegio Brignole-Sale), consistente nel raccogliere giovani sacerdoti, prepararli convenientemente e poi metterli a disposizione di Propaganda Fide per essere inviati nelle missioni.
Di certo l’Allamano, con la collaborazione determinante di don Giacomo Camisassa, dopo mesi di studio, ai primi di aprile del 1891, ha pronto lo statuto o regolamento di un nuovo istituto missionario.
I passi da compiere egli sa che sono in due direzioni: anzitutto a Roma presso Propaganda Fide e a Torino col suo vescovo, che in quegli anni era il card. Gaetano Alimonda. Per vari motivi pensa di dover trattare in modo informale prima con Roma e, in caso di parere positivo, con il proprio vescovo.
A Roma, il card. Simeoni, non soltanto si dichiara favorevole, ma fa sapere all’Allamano che converrebbe addirittura accelerare i tempi. Così stando le cose può presentarsi al suo vescovo. Il card. Alimonda a fine aprile si era recato a Genova per una cura alquanto impegnativa. L’Allamano gli scrive, esponendogli dettagliatamente il piano.
Da Genova non giunge alcuna risposta. Solo dopo due settimane un laconico biglietto del segretario gli comunica che il cardinale per ragioni di salute non è in condizioni di occuparsi del suo affare. Il cardinale è ammalato, ma il vero problema è che le persone che lo attorniano gli hanno presentato il progetto in cattiva luce. Facendo anche i mezz’offesi. Anzitutto perché l’Allamano ha interpellato prima Propaganda Fide e solo dopo il vescovo: vuole forse mettere quest’ultimo di fronte al fatto compiuto? E poi è proprio il caso di pensare ad un Istituto missionario a Torino data la scarsità di clero? Inoltre perché a pensarci deve essere l’Allamano che, come rettore del Convitto ecclesiastico, può sottrarre alla diocesi soggetti preziosi?
Nel frattempo, il 30 maggio 1891 il cardinale Alimonda muore.
POCHI O TANTI?
L’Allamano nel presentare a Roma il suo progetto scrive: «Preposto da molti anni all’educazione del giovane clero nella nostra archidiocesi, incontrai sovente dei seminaristi e dei giovani sacerdoti che mi manifestarono il desiderio di dedicarsi alle missioni…».
La scarsità di clero, continuamente addotta per bloccare l’iniziativa, è un semplice pretesto. Nel secolo 1800-1900 vengono ordinati a Torino 3.759 sacerdoti. Da aggiungere che dal 1880 al 1900 sono ordinati anche 362 religiosi. Nessun dubbio che la scarsità del clero, tanto temuta, è pretestuosa e nei riguardi dell’Allamano anche maligna.
Su questo tipo di difficoltà l’Allamano dirà: «Si fanno tanti lamenti sulla scarsità del clero: il che per altro non è così vero tra noi»; «Io dicevo sempre: “Se in Torino vi fosse un terzo o anche la metà di sacerdoti, si andrebbe avanti lo stesso’’». E il Camisassa: «Il tentativo della fondazione fu visto male e lo si volle bloccare col pretesto che il clero diocesano era già troppo scarso».
Di fronte ad una situazione del genere l’Allamano scrive a Roma: «Devo attendere un vescovo che sappia elevarsi sopra le idee che generalmente predominano». L’aspettativa fu di dieci anni!
IL DIBATTITO
SULLE NUOVE IDEE
Siamo all’epoca della Rerum novarum (15 maggio 1891) di Leone XIII, con i tentativi dei cattolici di aprirsi ai problemi sociali, particolarmente gravi a Torino, città di lavoratori.
Ci si interroga quale dovesse essere la strategia dei cattolici: cattolicesimo sociale, corporativismo cattolico…, per sfociare nelle accese discussioni sul concetto stesso di democrazia, democrazia cristiana, socialismo cristiano. Problemi grossi che, mentre entusiasmano i giovani sacerdoti, mettono in ansia i più anziani e parecchi vescovi.
L’Allamano in quanto rettore del Convitto ecclesiastico, a contatto con giovani sensibili a questi problemi, non si pone dalla parte dei sacerdoti bloccati su posizioni superate, ma neppure dalla parte dei più agitati. Egli diffidò sempre delle polemiche, sterili e laceranti, di quel discutere confuso su questioni non sufficientemente mature. C’è qualcosa da fare? Bisogna farlo, ma non in un polverone che acceca, operando invece delle sintesi superiori.
È in questo contesto di accesi dibattiti e contrasti che l’Allamano pensa ad un istituto missionario, e lo pensa come qualcosa che sia di più di una semplice valvola di sicurezza per un clero giovane, esuberante e troppo numeroso, che rischia di pestarsi i piedi o di esaurirsi in discussioni inutili sui «massimi sistemi».
IL PIEMONTE TRASCURATO
Nel 1891 i tempi sono maturi anche per altri motivi. Il movimento missionario in Italia è fiorentissimo. È un periodo in cui si riorganizzano gli antichi Ordini e le antiche Congregazioni religiose, ma è soprattutto il periodo in cui sorgono nuove istituzioni con finalità esclusivamente missionarie.
In ordine cronologico il primo istituto missionario italiano è quello delle «Missioni estere» di Milano, sorto per iniziativa dei vescovi lombardi (1850). Seguono il Collegio Brignole Sale Negroni per le Missioni Estere di Genova (1852-1855), le Missioni Africane di Verona o Figli del Sacro Cuore di Gesù (1867), il Pontificio Seminario dei SS. Pietro e Paolo per le Missioni Estere di Roma (1867, 1871), la Pia Società di S. Francesco Saverio per le Missioni Estere di Parma (1895).
E l’Allamano si chiede: «Perché soltanto il Piemonte, dove lo spirito missionario è fiorentissimo, non doveva avere un suo centro, senza dover ricorrere ad istituzioni straniere o a congregazioni religiose con voti»?
Fiorenti erano in Piemonte e anche a Torino l’Opera della Propagazione della Fede (specie dopo il 1822), la Società dell’Apostolato Cattolico dal 1835, l’Opera del Riscatto dal 1838, la Società antischiavista d’Italia dal 1888, l’Associazione Nazionale per soccorrere i Missionari cattolici italiani all’estero, fondata dal senatore e prof. Eesto Schiaparelli (1928).
Anche sfogliando i giornali e la stampa missionaria è possibile documentare la vivacità del risveglio missionario. Basti ricordare che il primo giornale a lanciare un appello in favore delle Missioni è l’Amico d’Italia, fondato a Torino nel 1822 dal marchese Cesare Taparelli d’Azeglio.
Il movimento missionario è, dunque, molto sviluppato anche in Piemonte e nella diocesi di Torino, ma manca di un’istituzione che convogliasse le vocazioni missionarie locali. Gli elementi positivi per una realizzazione del genere sono molti.
COLONIALISMO,
NAZIONALISMO, EGOISMI
Ci sono però anche delle contro- indicazioni di un episcopato non sufficientemente aperto e sempre timoroso per la mancanza di preti. C’è un alone di romanticismo missionario da epopea e leggenda che poteva entusiasmare per le missioni. Ma per contrapposto c’è un diffuso senso di pessimismo per il modo in cui gli europei consideravano il «mondo pagano», con «selvaggi» abbruttiti in crudeltà e superstizioni, con poco o nulla da valorizzare e conservare.
C’è soprattutto, come conseguenza di questa vantata superiorità europea e allargamento di orizzonti dovuto alle esplorazioni, una buona dose di colonialismo e di nazionalismo.
Inoltre nei territori missionari, soprattutto africani, pesa un’altra specie di gravissimo monopolio, attuato da alcuni ordini religiosi che nelle regioni loro affidate la fanno da «padroni», resistendo in tutti i modi alla sola eventualità che Propaganda Fide pensi di smembrarli affidandone una parte alle nuove forze missionarie che stanno sorgendo.
Le difficoltà maggiori che l’Allamano deve superare all’inizio sono, infatti, di natura politica (nazionalismo francese e anche italiano; meno quello inglese) e religiosa (resistenza di ordini francesi alla divisione dei loro immensi territori).
VIA DALLE BEATITUDINI
DI UNA VITA COMODA
A favorire l’Allamano nella fondazione c’è anzitutto il Camisassa, in perfetta complementarietà di funzioni, senza del quale nulla sarebbe stato possibile.
C’è anche il fatto di essere l’Allamano rettore del santuario della Consolata, luogo d’incontro delle forze più vive della diocesi. Egli era riuscito a intessere attorno a sé una rete fittissima di conoscenze, con persone appartenenti ai vari ceti sociali, e con quasi tutti i sacerdoti della diocesi, con uomini e donne del popolo, della borghesia e anche dell’aristocrazia. Di qui una concezione del tutto nuova di istituto missionario, non sempre evidenziata, costituita da questa ampia base di persone che, in vario modo, avrebbero accompagnato e sostenuto il corpo dei missionari.
Altro elemento positivo è il fatto che l’Allamano, come rettore del Convitto ecclesiastico, è a contatto con numerosi giovani sacerdoti, parecchi dei quali desiderano dedicarsi alle missioni. L’Allamano lo andava ripetendo: «Ho attorno a me gioalmente giovani sacerdoti che mi sollecitano».
Tra tutte le premesse di riuscita ce n’è una alla quale l’Allamano non pensa, ma che è la più importante: lui stesso, la sua personalità e quella del Camisassa. L’Allamano era un uomo dalla salute debole, ma dal carattere e dalla volontà forti; uomo ordinato, metodico, riflessivo, buon piemontese, che come diceva l’Antonelli, non si mettono due mattoni dove ne basta uno, amante delle montagne, che sa come superare le difficoltà, rispettando le stagioni e l’umore del cielo, con vedute larghe, almeno quanto basta per capire se nell’albero i frutti sono maturi e se in una diocesi i sacerdoti si potevano ritenere più che sufficienti o scarsi o male impegnati.
Soprattutto si è fatto sacerdote per lavorare, e non per adagiarsi nella beatitudine di una vita comoda. Egli stesso descrive come avrebbe potuto passarsela da «canonico signore»! In modo piacevole e tranquillo: «Dire il breviario, passeggiare, leggere il giornale, sedersi a tavola senza preoccupazioni, fare il pisolino dopo pranzo; starmene in pace come rettore della Consolata, protetto da un comodo orario, osservato scrupolosamente…». Convinto però che una vita del genere l’avrebbe portato diritto alla… «perdizione».
LIBERTÀ E STABILITÀ
Nel 1891 l’Allamano e il Camisassa scrivono il Regolamento del loro Istituto. Esso è corredato da una prefazione dal titolo Indole, natura e scopo dell’Istituto, che presenta allo stato puro l’idea originaria dell’Istituto in questi termini: «[…] si è venuti nel pensiero [si noti il plurale] di istituire una Società nella quale fossero conciliati per quanto possibile: la libertà di azione dei sacerdoti secolari [quindi non si tratta di una congregazione religiosa] e la stabilità che offrono ai loro individui le corporazioni religiose».
I due elementi fondamentali sono, dunque, la libertà e la stabilità. Quanto alla libertà, essendo l’azione missionaria un apostolato difficile, s’intende che chi, dopo una sufficiente prova non se la sente, può e deve lasciare senza remore di rottura di voti, promesse, giuramenti. I sacerdoti e laici che entrano in questa Società missionaria s’impegnano con una promessa a lavorare in missione per 5 anni, rinnovabili per altri 5 e solo dopo 10 anni possono legarsi definitivamente alla Società.
L’Allamano e il Camisassa non vogliono che ci siano persone legate alle sbarre di un carro per forza, ma solo persone libere, generose e decise: «Se durante il quinquennio – dice il testo del Regolamento – esse vedessero di non poter reggere al nuovo genere di vita, restavano in libertà al termine dei 5 anni di ritornare in Patria, ove la Società li aiuterà con ogni suo mezzo, per ottenere loro un conveniente ufficio nelle loro diocesi». In caso di adesione definitiva, la Società avrebbe assicurato ai suoi membri quella stabilità e sicurezza che le Congregazioni religiose garantivano ai propri membri anche in caso di malattia e vecchiaia.
Altra caratteristica fondamentale è la regionalità: vi possono far parte persone del Piemonte. Si tratta di cosa quasi scontata per gli istituti missionari in Italia, da pochi anni nazione unita, perché ogni regione ha un proprio istituto missionario (Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia, Lazio), ad eccezione, come si è detto, del Piemonte e dell’Italia meridionale. Quanto alla regionalità l’intenzione dell’Allamano è chiarissima: «Lo scopo di questa disposizione – diceva il Regolamento all’art. 13 – è di accrescere fra i missionari quello spirito d’unione e quel vicendevole incoraggiamento che in lontane regioni più si verifica tra coloro che hanno comune la terra».
Inoltre i missionari, membri di questa Società, per gli stessi motivi, non devono essere dispersi, ma operare nelle stesse località, stare insieme ed essere retti da superiori propri.
Tutti coloro che hanno occasione di prendere visione di questo Regolamento, compreso il Prefetto di Propaganda Fide, lo approvano pienamente.
Purtroppo, con la morte del card. Alimonda e le opposizioni esistenti in Curia, il progetto rimane ibeato per 10 anni. Quando nel 1897 ad arcivescovo di Torino viene nominato Agostino Richelmy (1850-1923), compagno di corso e amico dell’Allamano, devotissimo della Consolata e aperto al mondo missionario, il progetto viene ripreso, senza apportarvi nessuna modifica da come era stato concepito nel 1891.
BENEDETTE EREDITÀ!
Il progetto viene ripreso in mano nel 1899, subito con un serio «contrattempo».
Avviene che nel gennaio del 1900 l’Allamano cade gravemente ammalato, tanto da disperare della sua vita. Ne esce in modo inaspettato il 29 gennaio, festa di S. Francesco di Sales.
Dieci anni dopo, l’Allamano stesso, accennando alla sua guarigione, dirà: «Avevo già parlato in precedenza al card. Richelmy dell’Istituto da fondare, e sapevo di dover morire, gli dissi: “Sicché ormai all’Istituto penserà un altro”. E lo dicevo contento, forse per pigrizia di non sobbarcarmi ad un tale peso. Il cardinale però mi rispose: “No, guarirai, e lo fonderai tu” (24 aprile 1910). Aggiunse anche: “Feci, quando ero prossimo a morire, la promessa che, se fossi guarito, avrei fondato questo Istituto. Io intanto per allora non sono morto. Il Signore mi cacciò ancora in terra. Adunque avendo ottenuta la guarigione dalla malattia mortale, la fondazione si doveva fare: che fossi guarito non si poteva negare» (24 aprile 1910).
A spingere in questa direzione intervengono altri fattori di una certa importanza. Il 24 ottobre 1898 muore a Torino mons. Angelo Demichelis e nomina l’Allamano erede universale di tutti i suoi beni, che non sono pochi, compresa la sede di un Istituto magistrale in Torino e una villa a Rivoli. Un anno dopo, il 20 novembre 1899, muore l’ing. Edoardo Felizzati, figlio spirituale ed amico dell’Allamano. Avendogli il rettore del santuario della Consolata confidato l’intenzione di dare inizio ad un’opera in favore delle missioni, il Felizzati si era dimostrato pronto a divenire uno dei primi membri. Morendo, non potendo fare altro, lascia l’Allamano erede dei suoi beni!
L’Allamano, oltre al suo patrimonio personale, costituito dall’eredità patea, da quella dello zio, parroco di Passerano, dallo stipendio di rettore e dal beneficio di canonico (nel 1904 verrà in possesso anche dell’eredità dell’abate Luigi di Robilant), con l’eredità di mons. Demichelis e dell’ing. Felizzati, è spinto, quasi per una sorta di legge di gravità che anche i denari possiedono, a fare qualcosa. In più c’era un dovere di riconoscenza per l’ottenuta guarigione e il sentirsi avvolto dalla benevolenza e dalla fiducia di tante persone, dilatato inoltre da quella specie di istinto interiore o di simpatia per le missioni che fin da giovane l’aveva accompagnato.
Convalescente a Rivoli, informa il 24 aprile 1900 il card. Richelmy che intende procedere alla fondazione, sempre che il cardinale sia d’accordo. Più che d’accordo, gli risponde Richelmy.
Sebbene l’Istituto dei missionari della Consolata si potesse ritenere fondato nel 1900, perché i vescovi del Piemonte, riuniti in conferenza presso il santuario della Consolata nei giorni 12-13 settembre 1900, avevano dato il loro beneplacito e perché il card. Richelmy aveva approvato e benedetto il nuovo Istituto il 12 ottobre 1900, la data ufficiale di fondazione, per volontà espressa dell’arcivescovo di Torino, è il 29 gennaio 1901.
La prima sede dell’Istituto furono i fabbricati lasciati all’Allamano da mons. Demichelis, opportunamente adattati. L’inaugurazione della sede avviene il 18 giugno 1901.
SOGNI AFRICANI
E GELOSIE UMANE
Nel piano originario di fondazione del 1891, rimasto tale e quale nel 1900, c’era che all’atto della fondazione doveva essere definito il campo di apostolato in Africa.
Per prima cosa occorreva riprendere i fili con Roma. Ma dopo dieci anni molte cose erano cambiate. Ora Propaganda Fide, prima di affidare a nuovi istituti un territorio di missione, esigeva un periodo di prova passato alle dipendenze di qualche vicario apostolico.
Il provvedimento è saggio, perché salvaguardava Propaganda Fide da eventuali avventurieri. Di fatto le cose non sono così semplici. Si è detto che una delle «piaghe» dell’attività missionaria di allora (ai giorni nostri inconcepibile) consiste nella «gelosia missionaria» dei grandi Ordini e Istituti missionari, che la fanno da «padroni» nei vastissimi territori loro affidati (quasi con lo stesso stile delle potenze coloniali) e considerano «intrusi» i nuovi istituti, visti come una minaccia alla loro sovranità. Si tratta di un vero e proprio monopolio missionario, aggravato anche da nazionalismo politico.
Questa rappresenta una delle più gravi difficoltà che l’Allamano, il Camisassa e i primi missionari della Consolata devono superare. Una vera «piaga», che solo nel 1926 verrà denunciata da Pio XI nell’enciclica Rerum Ecclesiae. Con tutte le sue indiscusse benemerenze fu, soprattutto, la Francia a cadere in questo pessimo equivoco.
Il 9 settembre 1900 il Camisassa si reca a Roma e ha occasione d’incontrare il nuovo vicario apostolico dei galla (Etiopia), mons. André Jarosseau, anche perché proprio tra quella popolazione, già evangelizzata dal card. Massaia, l’Allamano intende impegnare i suoi primi missionari.
Gli accordi con mons. Jarosseau sono soddisfacenti solo apparentemente. Ben presto i due fondatori devono rendersi conto che nel territorio concesso da mons. Jarosseau la popolazione galla è quasi inesistente per l’aridità del suolo e quella poca dispersa dalle razzie dei somali. Da informazioni prese da varie parti, l’Allamano e il Camisassa devono constatare che mons. Jarosseau, forse condizionato dai superiori francesi del suo Ordine e per non avere intrusi tra i piedi, non è stato del tutto rettilineo, poiché era ben al corrente dell’incertezza dei confini e delle difficoltà per raggiungere e operare in quei luoghi. Ma aveva taciuto.
UNA SOLUZIONE
…DIPLOMATICA
È il console italiano a Zanzibar per il Kenya, Giulio Pestalozza (1850-1930), a dare un contributo essenziale per sbloccare la situazione. Il diplomatico suggerisce di chiedere ai padri dello Spirito Santo, responsabili dell’evangelizzazione del Kenya inglese, di permettere ai nuovi missionari di Torino di stabilirsi nell’alto Kikuyu, per compiervi il rodaggio richiesto da Propaganda Fide e, in seguito, raggiungere le popolazioni galla, procedendo via terra verso nord.
Questa è la strategia seguita, ma ancora una volta tra enormi difficoltà burocratiche: prima la necessità di farsi accettare dai Padri dello Spirito Santo, anch’essi gelosi del loro vastissimo e bellissimo territorio.
Le trattative sono difficilissime. Pur consci di non essere in numero sufficiente e con i protestanti che premono, i padri dello Spirito Santo non vogliono correre il rischio, accettando nel loro territorio un nuovo istituto missionario (per di più italiano) di vedersi sottrarre in seguito una parte di questa proprietà… Alla fine accettano di ricevere in prova i nuovi missionari e di affidare loro una regione ancora inesplorata, tra i kikuyu, ai piedi del monte Kenya. Una zona incantevole.
Però l’Allamano deve pagare un forte pedaggio, che sa di ricatto, impegnandosi per iscritto (e per ben due volte) a non chiedere in seguito alla S. Sede un qualsiasi stralcio di territorio senza un esplicito consenso dei padri dello Spirito Santo.
LA PARTENZA, FINALMENTE
Dopo molte trattative, finalmente l’8 maggio 1902 i primi quattro missionari della Consolata, due sacerdoti (Tommaso Gays e Filippo Perlo) e due fratelli laici (Celeste Lusso e Luigi Falda) partono per il Kenya.
Inizia l’avventura.

ISTRUZIONI PER L’USO

In Kenya la strategia missionaria (messa a punto a Torino dall’Allamano e dal Camisassa) contemplava anzitutto in missione una casa-procura nei pressi della ferrovia, da considerarsi come una specie di «campo base», centro di raccolta di quanto giungeva dall’Italia in personale e mezzi. Venne scelta la località di Limuru, poco oltre Nairobi. Sul luogo dove doveva avere inizio l’apostolato vero e proprio, cioè a Tuthu, un villaggio montano a 2 mila metri (ove dominava il capo Karoli) fu fondata la missione e più a monte, in piena foresta, a lato di uno scosceso torrente, venne impiantato un laboratorio. Più in basso, nella piana, a Nyeri, in un territorio ritenuto fertile, si avviò una fattoria con allevamento di bestiame, per provvedere un vitto adeguato ai missionari.
La strategia missionaria vera e propria venne attuata con una costanza eroica: quasi tutti i giorni i missionari partivano, ovviamente a piedi, in perlustrazione del paese per conoscere la gente, imparare la loro lingua, interessarsi degli ammalati, farsi conoscere e distinguersi dagli agenti del governo… Lo scopo finale di questa strategia era di giungere ad avere in mano il paese, elevarlo anche da un punto di vista materiale, per giungere, non tanto a delle conversioni individuali, ma alla conversione in massa, mirando ai capi e prima che vi giungessero i protestanti, che si sapeva essere alle porte.
Anche a Torino tutto procedeva a gonfie vele. Infatti il 15 dicembre 1902 era già pronta una seconda spedizione; poi nel 1903 altre due. Infine tra il 1904 e il 1911 altre nove. Il 24 aprile 1903 erano partite 8 suore della «Piccola Casa del Cottolengo» e altre 12 partirono il 24 dicembre dello stesso anno.
Nel 1905 l’Allamano acquista in Torino in via Circonvallazione (attuale corso Ferrucci) un terreno di 12.000 mq per la costruzione della casa madre, che è pronta ed inaugurata il 23 ottobre 1909.
Anche in Kenya lo sviluppo dell’attività missionaria è sorprendente, tanto che nel 1905, con decreto di Propaganda Fide, il territorio affidato in prova ai missionari della Consolata è dichiarato «missione indipendente», nonostante l’opposizione dei Padri dello Spirito Santo. Il 6 giugno 1909 la missione indipendente è eretta a vicariato apostolico con padre Filippo Perlo primo vicario apostolico.

1910: ARRIVANO LE MISSIONARIE
Sempre per offrire un maggior appoggio all’attività missionaria dell’Istituto, l’Allamano e il Camisassa fondano nel 1910 l’Istituto parallelo delle Missionarie della Consolata. Le prime missionarie partiranno per il Kenya il 3 novembre 1913 in numero di quindici (dal 1913 al 1922 ne partiranno 56).
Nel 1911 il Camisassa si reca in Kenya (dall’8 febbraio 1911 al 22 marzo 1912), per incontrarsi con i missionari e le missionarie, valutare la consistenza delle opere e la metodologia adottata e constatare se era giunto il momento di attuare il piano primitivo di passare ai galla. A questo scopo, sempre con la presenza del Camisassa in Kenya, viene deciso di estendere le missioni più a nord del monte Kenya, nel Meru (fine giugno-dicembre 1911).
Rientrato in Italia, il Camisassa presenta a Propaganda Fide il piano per il Kaffa (Etiopia). Ma ancora una volta una richiesta del genere suscita le reazioni dei cappuccini francesi e di mons. Jarosseau. Però con decreto del 28 gennaio 1913 Propaganda Fide affida ai missionari della Consolata la regione del Kaffa. Se fu relativamente facile ottenere una missione tra i galla, sarà invece molto più difficile entrarvi, soprattutto per l’opposizione del governo francese ed anche di quello italiano. Solo il 25 dicembre 1916 padre Gaudenzio Barlassina sarà ad Addis Abeba, come prefetto apostolico del Kaffa.

IN TANZANIA, SOMALIA,
MOZAMBICO
Dopo la prima guerra mondiale tutti i missionari tedeschi presenti in Africa vengono espulsi e Propaganda Fide nel 1919 affida ai missionari della Consolata la prefettura apostolica di Iringa nella ex colonia tedesca di Tanganyika (ora Tanzania).
L’Allamano a questo punto della sua vita avverte (il Camisassa muore il 18 agosto 1922) che la troppa carne al fuoco nuoce alle missioni affidate all’Istituto. Ma Propaganda Fide insiste perché l’Istituto accetti altri territori di missione. Nel 1924 (e solo per obbedienza) l’Allamano accetta la difficile missione della Somalia Italiana e nel 1925 (ma pare che l’Allamano non ne fosse al corrente) alcune missioni in Mozambico.
Questo espansionismo, contrario allo spirito dell’Allamano, sbilanciò alquanto l’Istituto sia nel numero dei missionari ed anche per un consistente aggravio finanziario.
L’Allamano muore il 16 febbraio 1926 e ne prende il posto mons. Filippo Perlo, ma con un Istituto affaticato per troppo lavoro. La ripresa fu lenta ma sicura.
I.Tu.

Igino Tubaldo




SPECIALE 100 ANNI – Straordinari nell’ordinario

Giuseppe Allamano nacque 150 anni fa, a Castelnuovo d’Asti, il 21 gennaio 1851. Sua madre Marianna era sorella di s. Giuseppe Cafasso. Dopo le elementari, frequentò gli studi ginnasiali nel collegio di don Bosco a Torino. Questi lo avrebbe voluto salesiano, ma lo studente scappò, lasciando di stucco il grande conoscitore dei giovani.
Nel 1866 entrò nel seminario di Torino e nel 1873 fu ordinato prete. Avrebbe voluto tuffarsi nel lavoro pastorale. «Vuoi fare il parroco? Bene! Ti affido la parrocchia più importante della diocesi» gli disse il vescovo. E don Giuseppe rimase in seminario come assistente e direttore spirituale.
Nel 1880 fu nominato rettore del santuario della Consolata: si mise subito al lavoro per restaurae i fabbricati, ravvivae la devozione e riaprire il convitto ecclesiastico, dove i giovani preti completavano la preparazione al ministero pastorale.
Nel frattempo cominciò a progettare la fondazione di un istituto missionario. Ma nel 1900 una grave malattia sembrava troncare il progetto. Ne uscì miracolosamente. L’Allamano vide in quella guarigione un segno per accelerare i tempi.
Il 29 gennaio 1901 fondò ufficialmente l’Istituto Missioni Consolata per l’evangelizzazione dei popoli. L’anno seguente partirono per il Kenya i primi missionari. Nel 1910 diede vita all’Istituto delle missionarie della Consolata.
Spese tutta la vita nella cura del santuario e formazione delle due famiglie missionarie, fino al giorno della morte: 16 febbraio 1926.

Una vita ordinaria, quindi,
in cui l’Allamano diede tutto se stesso al servizio della chiesa e società. Non ci fu attività a cui non partecipò, lavorando per oltre 50 anni al cuore della diocesi di Torino e sempre in collaborazione con il vescovo. «Nessuna opera di bene – affermerà di lui un contemporaneo – sfuggì all’irradiazione della Consolata», cioè di quel santuario mariano di cui fu rettore per 46 anni. «Tutto per Gesù, niente senza Maria» era uno dei suoi motti.
Dal santuario della Consolata, senza uscire dai confini dell’Italia, abbracciava tutto il mondo. Sarebbe voluto partire missionario, ma la salute glielo impedì; allora fondò i missionari e missionarie della Consolata. Ma guai a chiamarlo «fondatore»: lo proibiva esplicitamente. «La Consolata è la vera fondatrice» ripeteva.
Tuttavia è fondatore. E lo fu senza ricercare forme straordinarie di ispirazione per le due famiglie missionarie. Ciò che stupisce nell’Allamano, infatti, è la semplicità dei principi sui quali ha impostato la vita: «Essere, prima di fare»; «fare bene il bene»; «essere straordinari nell’ordinario». Direttrici di fondo che ne hanno fatto un grande uomo d’azione.
Che egli vivesse così lo confermano le testimonianze di quanti lo hanno conosciuto: «Aveva l’arte di non farsi avanti»; «rifuggiva in tutti i modi da qualsiasi esibizionismo»; «compiva il bene nascondendosi». «Non volle mai chiasso attorno a sé». «Tutto ciò che ci diceva – attesta padre Sales – lo vedevamo praticato in lui in modo superlativo».

«Fragile come un cristallo,
resistente come un diamante», lo definiscono quanti lo hanno conosciuto. E tracciano altri lineamenti della sua figura umana: un leggero sorriso risplendeva abitualmente dal suo volto; lo sguardo dolce e penetrante degli occhi lampeggianti, che andavano oltre il viso degli interlocutori e leggevano nelle pieghe delle coscienze; intelligenza intuitiva, sintetica, che arriva subito all’essenza delle questioni; innata capacità di rianimare, confortare, guidare al bene.
«Mentre era sempre calmo e misurato in tutte le sue azioni, quando parlava di Dio e del suo amore, s’infiammava talmente da trasfigurarsi. Tanto che molti dei suoi uditori temevano per la sua salute». Parlare dell’amore di Dio era per lui la cosa più spontanea e naturale; anzi, sentiva il bisogno di comunicare agli altri il fuoco che gli ardeva dentro.
L’intensità spirituale si traduceva in straordinaria capacità contemplativa: «Dominus est» (è il Signore) ripeteva di fronte a tutti gli eventi, cose, persone. Una volta scoperta la presenza di Dio e la sua volontà, la perseguiva con serenità e tenacia, anche nelle situazioni più critiche e dolorose, superando ogni ostacolo, confidando totalmente nell’aiuto divino.
La sua capacità contemplativa lo rendeva consigliere. Non solo i seminaristi, quando ne era direttore spirituale, e poi i suoi missionari, ma anche vescovi, sacerdoti, fondatori di istituti e gente comune si rivolgevano a lui per consiglio; e aiutava tutti a scoprire la volontà di Dio, dissipando dubbi, dissolvendo illusioni, infondendo coraggio.
«Avanti nel Signore!». «Coraggio nel Signore». Sono alcune delle espressioni usate frequentemente dall’Allamano, specialmente nelle lettere ai suoi missionari. Tre parole che racchiudono e trasmettono la sua incrollabile fiducia in Dio e nella Consolata. «Non bisogna mai stare fermi, ma andare sempre avanti – diceva -. Non starsene come automi, per paura di sbagliare; non lasciarsi rimorchiare; mai dire non tocca a me».
La forte umanità dell’Allamano, arricchita dalla sua intensità spirituale si esprimeva in un profondo senso di pateità. La figura di padre è quella che ha maggiormente contagiato quanti l’hanno conosciuto. Essi ricordano il primo incontro con lui, le sue parole, i gesti, il sorriso e le attenzioni…
Essere padre era il suo stile di educare e formare. Per lui l’istituto è una famiglia. Si sentiva padre dei suoi missionari e missionarie, non solo perché li amava con tutto se stesso, ma perché sapeva infondere in loro il suo spirito: cioè quel modo di percepire e vivere il vangelo che è tipico dei santi. Uno spirito che l’Allamano è cosciente di possedere e trasmette con intensità nell’insegnamento e contatti personali. Ne è geloso. Non permette interferenze. «Qui lo spirito lo do io – ripeteva con fermezza -. Chi non lo condivide vada pure altrove. Meglio pochi, ma radicati».

N ominato rettore del santuario della Consolata, l’Allamano volle don Giacomo Camisassa come collaboratore: «Faremo d’accordo un po’ di bene», gli aveva scritto. Lavorarono insieme per 42 anni come fratelli e amici.
Nato a Caramagna (CN) il 26 settembre 1854, Camisassa fu anch’egli alunno di don Bosco; poi entrò nel seminario diocesano e fu ordinato sacerdote nel 1878.
Membro aggiunto della facoltà di teologia della diocesi di Torino, professore di morale, diritto civile ed ecclesiastico al convitto dei giovani sacerdoti, rivelò doti superiori al comune; possedeva ed esponeva la materia in modo chiaro e preciso, sintetico. Avrebbe potuto fare una gratificante carriera; fu proposto per l’episcopato; ma preferì restare «sacrestano della Madonna», a fianco dell’Allamano, felice di essere secondo come vice-direttore del santuario e del convitto della Consolata e poi dell’istituto dei missionari e missionarie della Consolata. E lo fu fino alla morte: 18 agosto 1923.
Statura bassa, ma robusto e ben piantato, intelligenza rara e perspicace, volontà ferrea, organizzatore nato, il Camisassa era un uomo pratico, attivo, intraprendente, sempre in moto. «Ha la smania di lavorare: vorrebbe saper tutto, fare tutto; è tutto attività» confessava l’Allamano.
Troncata la carriera di professore, rivelò doti di praticità e abilità nel campo della tecnica e finanza, progettazione ed esecuzione dei lavori, scrivere articoli e redigere relazioni, saldare parcelle e far quadrare i bilanci. Di tutto era pratico e di tutto voleva darsi ragione.
Non badava a nessuno, né a chiacchiere né ad altro. Quando controllava i lavori dei restauri del santuario o saliva sui ponteggi, seminava il terrore: dava ordini, faceva rifare lavori, cambiava progetti, provocando qualche attrito, che toccava all’amico Allamano comporre.
La dedizione al lavoro è la caratteristica principale del Camisassa. Efficienza che l’Allamano completava con i suoi principi altrettanto pratici e ordinari: «Fare bene il bene», salvaguardia del buon nome e dignità, comprensione delle persone e attenzione alla loro crescita umana e spirituale. L’abilità del Camisassa si sposa al cuore dell’Allamano.

È definito «fedele collaboratore»,
«braccio destro» dell’Allamano, «confondatore». Eppure erano molto diversi. Diversità complementari, tanto che l’Allamano poté dire: «Se abbiamo fatto qualcosa di buono, è perché eravamo tanto diversi; ma abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto; se fossimo stati uguali, non avremmo visto i difetti l’uno dell’altro e avremmo fatto molti sbagli in più».
La collaborazione con l’Allamano non si limitava alla parte materiale. Ambedue affermano di aver studiato assieme ogni progetto, lettera, documento, con lunghe riflessioni e anche «notti di preghiera».
Tanta meravigliosa operosità aveva un’anima. In un breve scritto spirituale il Camisassa si propose di «voler essere tutto di Dio». Alla fine della sua vita potrà dire: «Mi consola il pensiero che non ho mai fatto nulla per me stesso, ma solo per la gloria di Dio».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi