Fare il bene stando allegri

È possibile parlare dello «humour» dell’Allamano? Certamente sì, anche se, confrontandolo con quello del Cottolengo, don Bosco, Cafasso, le differenze si notano. L’Allamano nel parlare (assai meno nello scrivere) risulta più immaginoso e, soprattutto, più aneddotico, sia del Cafasso come degli altri due santi piemontesi. Il suo humour è certamente meno frizzante, più contenuto e sottile, quasi impercettibile, al punto che anche coloro che lo hanno avvicinato o hanno scritto di lui non si sono accorti della sua esistenza; nessuno, per lo meno, lo ha messo in rilievo, come se in una fuga di Bach, nel turbinio delle note, non si avvertisse l’andamento continuo del pedale.
servire in letizia
Anzitutto, i suoi aneddoti sono quasi sempre corti, pratici e immediati. Come quando, trattando della povertà, racconta che «frate Leone vede in visione molti frati che dovevano attraversare un fiume impetuoso; alcuni avevano un fardello sulle spalle e, giunti in mezzo al fiume, la forza della corrente li travolse. Altri, che non avevano nulla, passarono liberamente».
«Mi ricordo di un frate vecchio, prefetto di sacrestia, che non toccava mai con le mani i denari, ma usava una zampa di gatto». «E sì, quando si ha 60 anni, se ne desiderano 70 e poi… 80. Un canonico racconta: “È morto uno di 60 anni e un altro commentò: Non era poi tanto vecchio!”. Ma lui ne aveva 80 e gli altri hanno sorriso».
Ci sono nell’Allamano inviti generici e insistenti alla letizia come nota fondamentale della santità, specie nei missionari e missionarie. In caso contrario, non avrebbe potuto continuare per tutta la vita ad essere «rettore» di un santuario dedicato alla «consolazione». La conferenza del 29 gennaio 1917 inizia: «Siete sempre allegri? Sempre contenti? Bene, bene». «Vedete, se si vuole fare del bene, bisogna stare allegri». «Vedete come è bello essere sempre allegri! Bisogna che quello sia un carattere vostro: Servite Domino in laetitia, ma servite». «Dovete sempre essere allegri, di vera allegria, in modo che tutti vi possano vedere felici. Che possano dire: hanno lasciato tutto, eppure guarda come sono felici. E, poi, perché non essere felici?».
Parlando alle missionarie, diceva: «Non bisogna addormentarsi sulla calzetta»; voleva dire che bisognava fare le cose con piacere, sereni e allegri, «come i bambini che, quando dormono, hanno un’aria così bella e sorridente; non addormentatevi mai col muso; bisogna andare a dormire con pensieri allegri più che si può». «Dovete sempre avere una bell’aria… Andate avanti come vanno tutti i cristiani, alla buona, cioè, serene, allegre, gentili».
Aborriva però lo «spirito buffonesco»: «Ci sono di quelli che mettono sempre in ridicolo… disturba tanto quel parlare sempre figurato». In un’altra, occasione disse in piemontese: «Il mio spirito l’è nen fé ‘l faseul» (il mio spirito e di non fare il fagiolo).
A volte, a dare il tono dei suoi intrattenimenti spirituali era il suo modo d’introdursi. Stupisce che i suoi ascoltatori siano persino giunti a trascrivere queste espressioni: «Bravi! Là, bene! Eccovi come nel Cenacolo»; «Bene, bravi» o le parole conclusive: «Bé, Bé, là!». Oppure, quando rivolgendosi al più giovane dei suoi ascoltatori (poiché le file dei suoi missionari si erano assottigliate a motivo della guerra), dice: «E tu, Michelino, quanti anni hai? Sedici ancora non compiuti… Fortunati tutte e due: Tu sei giovane e io vecchio» e, per questo, esenti dal servizio militare.
Innumerevoli sono poi i casi in cui, con brevi racconti o addirittura con bisticci di parole, riesce a far esplodere delle piccole scintille, come stesse stropicciando due pietre focaie, e un bel fuoco di sorrisi, riuscendo a trasmettere il suo pensiero senza aggrottamenti della fronte: «Ho chiesto ai ragazzi se avevano preso la febbre spagnola; mi rispondono di sì, ma quella italiana, cioè, l’appetito!». La guerra infatti stava imponendo a tutti restrizioni molto gravi.
A riguardo della «pazienza» a motivo della guerra, dice alle missionarie: «Nel Pater noster, noi domandiamo il pane; nell’Ave Maria domandiamo la polenta… Un canonico mi raccontava che una vecchietta dicendo mulieribus intendeva domandare la polenta alla Madonna. Essa non poteva pronunciare bene mulieribus e così trasformava questa parola in melia (meliga-granoturco). Ricordatevi dunque di chiedere al Signore il pane e alla Madonna la polenta (sorride)».
«Quando si fa una novena ai santi, non si ottiene subito la grazia; sembra che la prima volta non sentano; se ne fa una seconda e il santo incomincia a sentire, se ne fa una terza e il santo apre e ci ottiene la grazia». Invita alla santità di fatto e non soltanto di parole: «Sapete quell’uccellaccio che grida cras, cras (che in latino significa «domani»)… e mai hodie (oggi)».
Nel 1913, raccontò che padre Barlassina, nuovo prefetto apostolico del Kaffa, era stato ricevuto in udienza da Pio x. Parlarono di tante cose, riferisce l’Allamano, «perfino di quegli animali di cui non vogliamo fare il nome, ma dei quali, disse Pio x, si fa un buon prosciutto».
«Anche i nostri cari, cioè i missionari, sotto le armi o in Africa sono tuttavia sempre dell’Istituto, sono sempre uniti a noi… sono sempre attaccati all’albero… Ebbene se vi venisse rivolta questa domanda: o chi sei tu? Sono uno studente della Consolata! – Questo sì! Ma sei un vero aspirante alle missioni? Sei sempre qui, ma qui ci sono anche i gatti, che abitano qui nell’istituto».
Un giorno di luglio, di ritorno da Sant’ Ignazio, dove si era svolto il solito corso di esercizi spirituali, predicati da un gesuita, racconta ai missionari che il predicatore, parlando di come dal noviziato di Chieri erano usciti tre suoi compagni, «fu preso dalla malinconia per timore di dover uscire anche lui e fare la bella figura del gesuita sgesuitato».
Sconcertante è il seguente caso. «Una persona una volta mi domanda se gli permettevo di piangere almeno per un’ora, puramente per sfogo, così… Ma come?! Senza nessun motivo, piangere puramente per sfogo, che stupidaggine!».
Al vescovo di Ivrea, mons. Matteo Filipello, suo compaesano e discepolo, che non permetteva a un suo sacerdote, don Luigi Santa, di entrare nell’istituto, l’Allamano dice: «Tu non solo non puoi trattenerlo, ma devi lasciarlo andare! Se mai, dagli la benedizione con la sinistra».
Racconta padre Ugo Viglino: «In un giorno dell’ottobre del 1924, la nostra piccola classe di otto alunni del ginnasio si recò tutta insieme a trovarlo al Convitto… Gioviale, tanto felice di essere con noi. A un certo punto, rivolgendosi a Pessina, mio vicino: “Di che paese sei?”. “Di Mondovì”. “Cui d’ Mondvì i ciamo i babi cheucc” (Quelli di Mondovì li chiamano i rospi cotti)».
a scuola della vita
Si può dire che la sua semplicità aneddotica e immaginazione non avessero limiti. Si potrebbe comporre un’antologia assai ampia. Il giorno dei morti del 1906, invita a pregare, come faceva ogni anno nella stessa circostanza, per i defunti. Poi, si lascia prendere dalla fantasia: «Quelle tante anime da noi liberate dal purgatorio figuratevi se stanno quiete, quando ci vedono a nostra volta in purgatorio! Andranno da nostro Signore e, per non disturbarlo, dalla Madonna o da san Giuseppe, e ci caveranno presto. Il Signore non può lasciarle agitate, deve quietarle e come fare in altro modo?». Alla fine della conferenza fa distribuire delle castagne, soggiungendo: «Ad ogni castagna che prendete ponete l’intenzione di trarre un’anima dal purgatorio». La frase, annota chi trascrisse la conferenza, suscitò «sorrisi universali».
Ci troviamo, naturalmente, fuori degli schemi rigidi della teologia sui novissimi. Così, un altro apologo di teologia spicciola riguarda la devozione mariana: «Sapete quel fatto della Madonna che faceva entrare le anime in paradiso per un’altra strada… ma non lo voglio raccontare». Lo racconta qualche mese dopo: «E sapete quella storia che si racconta che la Madonna fa entrare in paradiso per la finestra quelli che non passerebbero per la porta. Si racconta che un giorno san Pietro, girando per il paradiso, vede delle brutte facce, che lui certamente non aveva lasciato passare per la porta. Va da nostro Signore e gli dice: “Ma non so! C’è certa gente in paradiso che non so da dove sia passata… Hai dato le chiavi solo a me, le ho solo io, non so da dove passino; poi ho capito che è la Madonna, tua madre; sono stato a vedere bene e ho visto che è proprio lei che le tira su dalla finestra; purché abbiano una medaglia o uno scapolare, e poi essa li tira su! Questo qui non va!”. E allora nostro Signore dice a Pietro: “Ma! Cosa vuoi farci… mia madre è madre! Lasciala un po’ fare!”».
«Là in seminario c’era un campanello e c’è ancora adesso, mi pare, che veniva suonato solo quando veniva l’arcivescovo di Torino a trovarci, così tutti restavano avvisati e si lasciava tutto e si veniva fuori a riceverlo. Un giorno venne una vecchia di montagna, tutta vestita alla moda antica, con in testa certe cose lunghe come si costumava allora, era di Balme… Ebbene costei arriva in seminario e, invece di tirare l’altro campanello, tira quello dell’arcivescovo. Allora noi che eravamo a scuola, siamo venuti tutti fuori in fretta; e poi, invece del vescovo, c’era quella vecchierella; e tanto più che aveva visto che l’uscio era aperto ed è venuta dentro. Ebbene, un chierico mi ha fatto impressione: le è subito corso incontro, l’ha presa per il braccio e ha detto: “È mia mamma!”. Fossimo stati noi, neh?! Avremmo subito detto: “E perché sei venuta adesso? Perché hai tirato quel campanello la!”. Avremmo voluto nasconderla subito, che nessuno la vedesse, vestita com’era. Invece quel chierico, niente: “È mia madre”. E l’ha salutata tutto grazioso, come si deve fare».
Altri aneddoti piacevoli li desume dall’esperienza di tutti i giorni, a contatto con le persone di ogni ambiente sociale, dal confessionale, dalla predicazione. «Non facciamo come quel tale della predica sull’avarizia. Quando il parroco iniziò la predica disse: “Oh! Questo non fa per me!”; si coprì ben bene e cominciò a dormire; e tutta la gente a pensare: “Questa volta la predica fa proprio per lui”».
Anche la gola può fare dei brutti scherzi. «Ho tardato, perché mi sono fermato a raccontare ai giovani la storia della capra. È venuta nella sacrestia della Consolata una ragazzina e piangeva, diceva che le era morta la capra della nonna, perché aveva mangiato una rista d’ai (treccia d’aglio). È gonfiata e poi è morta. E un bel giorno videro che non c’era più l’aglio, ed è morta crepata. Vedete la gola».
Svariatissimi poi i toni dello humour a riguardo del comportamento esteriore e interiore, ch’egli suggeriva ai missionari: «A me piace molto quel pensiero di san Francesco di Sales quando dice: “Entriamo in un palazzo antico; per lo scalone, nelle sale vi sono delle statue, che magari da cent’anni sono sempre lì, non si sono mai mosse; direte dunque che sono inutili? No! Danno gloria al loro padrone. Ora, immaginate che uno voglia gettarle giù. No! – gli si dirà – fanno figura, danno gloria al loro padrone. In chiesa facciamo come quelle statue, diamo gloria a Dio con la nostra presenza”». Tuttavia, quella presenza «come statue» all’Allamano non piaceva molto. Infatti, in un’altra occasione dice: «Oh, come è brutto in una comunità essere come tante statue, dove ognuna sta al suo posto senza toccare le altre»!
con fortezza e dolcezza
È noto come all’Allamano, a causa di certi inconvenienti verificatisi in Africa per modi troppo violenti nei riguardi della gente, abbia fatto della mansuetudine uno dei pilastri fondamentali della sua metodologia missionaria. Deve però trattarsi di vera mansuetudine: «C’era in seminario un chierico che pareva proprio calmo; di quelli che non si muovono, che fanno due passi in una pianella. Un giorno, che passava con un vassoio d’acqua in mano e un altro chierico, lo toccò, egli, voltatosi verso il compagno, gli gettò addosso il vassoio d’acqua. Vedete, anche quelli che sembrano più calmi…».
Così a riguardo della buona educazione. «Mons. Bertagna aveva l’abitudine di tenere le mani in tasca; e così di fermarsi davanti alle vetrine; credo che studiasse un caso di morale; eppure era lì fermo a vedere il cacio».
Neppure è bene tenere le braccia dietro la schiena. «Nei paesi chiedono se uno ha del grano da vendere… e dicono anche un’altra cosa: sapete quello che domandano? Ha la figlia da maritare?».
Come superiore di un istituto femminile, dovette scuotere una suora che «faceva niente ed era sempre a letto», credendosi ammalata; le impose di scendere in refettorio insieme alle altre… ed è guarita. «Essa dice che è un miracolo della Madonna di Pompei… Era un capriccio! In quella comunità si preparavano sei tipi di minestra».
Era venuto a conoscenza che qualche suo missionario in Africa si era ammalato per aver mangiato qualche banana in più o per aver bevuto acqua inquinata «con pericolo di partire per l’eternità»: sarebbe un partire poco glorioso, «da folli», e porta l’esempio della capra.
Nonostante questo costante humour (da pochi avvertito) e tranquillità di spirito, qualche spiffero d’aria fredda non manca neppure in lui, poiché anch’egli ritiene che il vangelo e la santità siano esigenti; per temperamento, poi, era amante dell’ordine, della pulizia, delle cerimonie liturgiche eseguite a puntino. Il che lo può far apparire in qualche caso alquanto «pignolo». Così, ad esempio, quando porta a modello san Francesco Saverio che, passando presso il castello natio, rinuncia a visitare la vecchia madre e i fratelli, dicendo: «Li rivedrò in paradiso».
Sono però, queste e altre piccole cose marginali, che vanno viste in un contesto più ampio. Con lui a Torino ebbe infatti termine il rigorismo morale e ascetico, che aveva imperversato per molti anni. Così come va tenuto presente che, nel suo metodo educativo, il fortiter (fortemente) è sempre abbinato al suaviter (dolcemente).

Igino Tubaldo




Parliamaoci chiaro

«Meglio cinque parole intelligibili che diecimila in lingue» diceva già san Paolo. Tale suggerimento è,
oggi, valido più che mai sia in campo sociale che in quello religioso; anzi, è raccomandato soprattutto nel dialogo ecumenico.

Q ualche passo avanti nel dialogo ecumenico, specie tra cattolici, ortodossi e protestanti, è stato compiuto. Se si paragonasse tale dialogo a una tavola rotonda, è senz’altro assodato che ogni membro che siede a quel tavolo si considera su un piano di perfetta uguaglianza con i suoi partners. La deontologia del dialogo ormai è accettata. Quanto ad accordi, tuttavia, le distanze sono ancora enormi, che assumono a volte tali dissonanze, da sembrare un’orchestra con strumenti non accordati.
Due, soprattutto, sono i punti dove il disaccordo può dirsi totale. Il primo, specie tra cattolici e protestanti, riguarda il culto mariano e dei santi. Su questa questione nel 1990 uscì un documento ecumenico, frutto di un laborioso dialogo tra «cattolici romani e luterani» negli Stati Uniti, svoltosi dal 1983 al 1990, in otto dense riunioni.
Il documento ha un titolo molto significativo: L’unico Mediatore – I Santi e Maria; ed è molto lungo (152 pagine) e disgraziatamente molto complesso; quindi poco accessibile ai comuni mortali. Sembra quasi di assistere a una concitata partita di ping pong, botta e risposta. Non su un vasto campo di calcio, ma su un minuscolo tavolo da pranzo.
Il secondo punto di profondo disaccordo riguarda la figura stessa del papa e la sua funzione nella chiesa. Il 25 maggio 1995, Giovanni Paolo II scrisse un’enciclica dal titolo Ut unum sint sull’impegno ecumenico. Nella parte finale dell’enciclica, in cui tratta direttamente del vescovo di Roma, riconosce che il papa, proprio lui, «costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi. Per quello che ne siamo responsabili, con il mio predecessore Paolo VI, imploro perdono».
PAROLE VUOTE
DISCORSI INCOMPRENSIBILI
Il prof. Tullio de Mauro, nella prefazione al libro di Roberto Berretta, Il piccolo ecclesialese illustrato, osserva che, ad esempio, la parola dono, così bella e dolce, diventa acerba come un limone, se presentata in un’«ottica ablativa».
Il noto predicatore Raniero Cantalamessa aggiunge: «Uno dei motivi per cui, in molte parti del mondo, si sta verificando un esodo dei cattolici verso altre chiese o sètte, è che la predicazione cattolica è diventata così ricca e complessa da non arrivare direttamente al cuore di una persona…» e per conto mio aggiungerei: neppure al cervello.
Se anche nell’ambito della stessa nostra chiesa, tra noi cattolici, non riusciamo a capirci, come fare a dialogare con fedeli di altre chiese, che forse devono affrontare le stesse nostre difficoltà?
Tanto più che, a quanto pare, un po’ tutti i settori del nostro vivere civile sono infestati da questo virus del parlare e scrivere senza farci capire.
Un giornale pubblicò la seguente lettera di un cliente di una banca: «Nella mia banca c’è un nuovo consulente finanziario addetto ai servizi di risparmio. Parla da esperto di borsa, usa parole per me incomprensibili. Viene da pensare che non voglia essere chiaro per vendere quello che vuole. Le pare giusto?».
E dopo la firma segue un esilarante articolo a commento e a conferma.
Un altro autore, per dimostrare la mania di certi politici di scrivere in modo incomprensibile – quasi tutti – riporta questo periodo di prosa politica: «Gli elementi di intelligence (evviva l’inglese!) e i risultati delle operazioni di polizia hanno confermato l’esistenza nel nostro paese di poli impegnati in attività, la cui valenza emerge alla luce di una strategia globale che trova nella fase logistica momento nodale per garantire la mobilità dei militanti».
Mi auguro che il tipografo abbia riportato in modo esatto questo testo. Ma il commento del giornalista è questo: «Se fossi presidente della Camera l’avrei rispedito al mittente: “Per favore riscrivete tutto in un linguaggio decente, chiaro e stringato. I rappresentanti del popolo italiano non saranno un granché, però non avete il diritto di offenderli con una prosa così demente”».
Lo scopo di questo mio scritto è, però, religioso, specie nei suoi aspetti ecumenici. Uno di questi aspetti, primario e indispensabile, senza del quale tutti gli altri servono a poco, è di parlare in modo comprensibile.
Ci sarebbe da divertirsi, prima di arrivare al punto, ma il sorriso sarebbe sempre amaro.
Indro Montanelli, nella celebre La Stanza del Corriere, diede una secca risposta alla lettera di un teologo che dissentiva dal suo modo di presentare lo scisma del 1054, che spaccò la chiesa in due: «Vede, questa è la grave stortura della cultura italiana, teologia compresa: di essere una cultura a circolo chiuso… di pochi eletti: ai quali io non appartengo, né mai ho ambito di appartenere. Perché il mio compito – quello che mi sono sempre prefisso – è di spiegare le cose a chi non le sa, non a chi le sa meglio di me, ma vuole tenersele per sé».
E più spassose ancora, a volerle riportare per intero, sarebbero le critiche di Guido Ceronetti a scritti redatti in «un gergo del tutto demenziale», che provano che chi così scrive «non è mentalmente a posto». E aggiunge, e ciò vale anche per il linguaggio religioso: «La prima delle difese è il linguaggio: se le sue porte sono senza cardini, i lupi vi entrano a frotte, con la solita zampina infarinata».
«I RUMINANTI
DELLA SACRA ALLEANZA»
È noto che il papa Luciani parlava in modo semplice. Aveva voluto accanto a sé suor Celestina per un compito speciale: che gli leggesse le sue prediche e gli dicesse se capiva tutto.
Qualcosa del genere aveva fatto anche don Bosco, servendosi di sua madre. Un giorno le lesse un articolo, nel quale chiamava l’apostolo Pietro «il clavigero». Sua madre l’interruppe: «Clavigero? Dov’è questo paese?». «Non è un paese – le rispose il figlio – vuol dire: colui che porta le chiavi». «E allora dillo così e lascia quella parola che io non riesco neppure a pronunciare».
J. Maritain chiamava certi biblisti, teologi, vescovi e papi per i loro scritti troppo lunghi e soprattutto difficili: i ruminanti della sacra alleanza. Come buoi o quei tipi che masticano continuamente gomma americana.
TEOLOGIE DEMENZIALI
E SGANGHERATE
Tempo fa ricevetti in omaggio un libretto dal titolo: La via dell’anima. In prima pagina, quasi come dedica o sintesi del volumetto, si legge:
Nella parusia spirituale
si raggiunge il sé
paradiso metapsichico
che permette di considerare
la morte fisica come
paradiso metafisico.
Ma il buon Dio ci liberi dai paradisi metapsichici e più ancora da quelli metafisici!
In un’altra pagina il cristiano è così definito: «Il cristiano è l’attributo di chi ha subito in modo cosciente-accettato il processo di transizione psiche-pneuma ed è diventato persona».
Il vescovo di Como, mons. Alessandro Maggiolini, su un giornale tra i più diffusi d’Italia propose «una legittima difesa da parte dei credenti – preti inclusi – contro il moltiplicarsi patologico dei documenti ecclesiali».
E ciò per un motivo, non solo pastorale, ma anche ecumenico, cioè di possibili dialoghi e accordi.
E i più responsabili di questo degrado sono i teologi di professione, con i loro scritti il più delle volte incomprensibili. Si potrebbe stralciare un campionario, a dir poco, allucinante. Tre esempi soltanto, tra i mille che si potrebbero elencare.
In un libro sullo Spirito Santo leggo: «Lo Spirito perfetto dà luogo alla cre-azione, vero processo teogonico, col quale le potenze praeter Deum, predivinizzate, operano demiurgicamente a formare l’unum-versum, l’universo intero delle cose create, realizzando a un tempo l’individuazione e caratterizzazione delle Persone…» e i puntini indicano che non sarebbe finito!
Così, secondo esempio: «Lo Spirito Santo è il traboccare ad extra dell’exstasi ad intra del Padre e del Figlio». Povero Spirito Santo!
Terzo esempio: «Da Gregorio di Nissa al Concilio Vaticano II, ogni antropologia iconica ha valutato l’autentica relazionalità logonomica dell’uomo e l’autentica relazionalità cristonomica del cristiano»; e tutto ciò per dire che esiste un «io liturgico».
Ma questa è pazzia pura: teologia rompicapo, vaniloquio teologico.
Ripenso a san Paolo che ai Corinti, amanti del «parlare in lingue» da esperti carismatici, li ammonisce (mi si perdoni il latino): «Sed in ecclesia volo quinque verba sensu meo loqui, ut et alios instruam (nell’assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri) quam decem millia verborun in lingua (piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue)», che volgarmente tradurrei: «Preferisco dire cinque parole capite da tutti che diecimila incomprensibili!» (cfr 1 Cor 14,19).
Anche perché è assolutamente impossibile non far scappare la gente dalle chiese o avviare un dialogo ecumenico, anche solo tra noi, con tante e tante parole, non sempre dettate da un comune buon senso.

Igino Tubaldo




L’olivo del gran capo

Nato a Campolongo (UD) nel 1912, morto a Tosamaganga (Tanzania) nel 2003,
65 anni di missione. È padre Rambaldo Olivo, ridotto all’osso.
Per lui il cognome valeva più del nome.
Si compiaceva di essere «un olivo verdeggiante».

Si spense a Tosamaganga
il 26 giugno 2003. Lui che spesso esprimeva il timore di essere solo al momento della morte, ebbe il dono della presenza di due confratelli e di una decina di suore, che con la preghiera lo accompagnarono durante la breve agonia. Aveva scritto: «Signore, prendimi quando vuoi, ma liberami dalla morte subitanea. Dammi il tempo per un’ultima spazzolata. Però, fiat ut vis…».
Il Signore lo ascoltò, anche troppo! Il suo fu uno spegnersi lento, un consumarsi senza alcuna malattia, se non l’anzianità. Negli ultimi due anni la totale inattività, la vecchiaia e il timore di essere di peso gli erano un tormento. Si lamentava che il Signore lo avesse dimenticato, chiamando prima di lui missionari più giovani e ancora in salute. Ogni volta che le campane suonavano a morto diceva: «La prossima volta sarà per me». Era in attesa continua.
Aveva pure scritto: «Non ho dolori fisici e neppure morali. Cerco di fare ciò che vuole il Gran Capo. Per me è stato tanto misericordioso. Sono pronto alla sua chiamata…».
Lo visitai la sera del 20 giugno, festa della Consolata, e lui non voleva assolutamente che me ne andassi. Numerose volte feci cenno di andarmene, ma lui, stringendomi la mano, mi obbligava a restare. Fino a quando, assopitosi, potei lasciarlo. Ebbi la netta percezione che sentisse vicina la sua «pasqua».
Ripassai a salutarlo il giorno 24, e stava meglio. Era l’ennesima «risurrezione» di Olivo? No, perché due giorni dopo spiccava il volo verso l’eternità. Sul petto aveva un crocifisso e un quadretto della Consolata. Il crocifisso: quello che gli fu consegnato 65 anni prima, alla partenza per le missioni.
Un giorno scrisse: «Quel crocifisso lo porto ancora oggi, anche se è piuttosto consumato. Mi auguro di presentarmi al Gran Capo con Lui». Sì, il crocifisso era consunto. Così il quadretto della Consolata. Crocifisso e Consolata erano sempre lì sulla sedia, accanto a lui. Li baciava. Erano il suo viatico.

Missionarietà.
Che fosse a Madibira, Irole, Kibao, Igwachanya o Tosamaganga, lo stile missionario di padre Olivo era sempre lo stesso. Poche sue parole lo descrivono: «Visito tutte le famiglie di ogni villaggio, anche quelle pagane, anche quelle musulmane: nessuno mi ha mai messo alla porta… Sono sempre in giro a controllare le scuole, a vedere che i catechisti insegnino, a benedire le famiglie, a portare la parola di Vita».
Un giorno scrisse a lettere maiuscole: «Un grazie sincero al buon Dio, che mi ha sempre tenuto la sua mano santa sul capo in tutti i miei anni d’Africa. Anni dei quali non mi sono mai pentito».
La missione gli era nel cuore e gli sprizzava da ogni parte.

Gioia e facilità
di relazioni. Ecco una sua testimonianza da Madibira, la prima missione: «Non ebbi difficoltà di sorta né con il nuovo ambiente, né con i missionari». E, ricordando le possibili difficoltà della vita comunitaria, è bello leggere ciò che scrisse del periodo trascorso a Tosamaganga con padre Giovanni Berghi: «Siamo stati insieme 17 anni, e non è mai successo che io sia andato a letto con il muso per qualche torto ricevuto da lui o che io gli abbia fatto qualche affronto. Eravamo più che fratelli siamesi. Discutevamo e programmavamo: nulla si faceva senza dirci tutto».

Lunga la processione
quel giorno al cimitero di Tosamaganga, dove riposano tanti missionari e missionarie della Consolata. Meticolosa, come sempre, la deposizione della bara nella fossa, con i riti culturali da osservarsi, e la copertura con la terra scavata.
Ultime preghiere… E per un missionario di 91 anni (di cui 65 spesi in Tanzania) non poteva mancare una danza, al suono di tamburi, attorno alla sua tomba ricoperta di fiori. Non era un atto funebre. Era una danza di gioia, affetto e gratitudine cui hanno partecipato anche i padri e le suore.
Con padre Rambaldo Olivo scompare una generazione di missionari: quelli venuti in Tanzania prima della seconda guerra mondiale; quelli che hanno camminato e camminato spesso malati di malaria; quelli che hanno seminato nel pianto, ma che hanno pure goduto la gioia dei frutti successivi. Missionari innamorati della missione.
Affermava padre Olivo: «L’Africa mi piace sempre di più con il passare degli anni, i madibiresi soprattutto». Se c’è un ricordo che rimarrà indelebile in chi lo ha conosciuto è il suo zelo missionario: visitare, annunciare, catechizzare, celebrare. E anche la sensibilità nei confronti di chi era in necessità. Era generoso e riconoscente.
Sentiva molto la gratitudine. «Se ho fatto qualcosa di buono, lo devo all’aiuto ricevuto da tanti confratelli», dalle missionarie della Consolata, dalle suore Teresine, dai sacerdoti diocesani Tito e Rodrigo, dalle autorità locali e dalla popolazione (egli la considera tutta buona), dai benefattori in Italia.
Da tutti otteneva aiuto. E chi poteva rifiutarsi di fronte alla sua bonaria imperiosità? Il suo dito perennemente alzato ne era un simbolo.

Padre Olivo
hai camminato a piedi, hai percorso chilometri e chilometri in bicicletta e in moto. Hai guidato l’auto persino in modo spericolato, fino a due anni fa. Ora riposa in pace, con quel lieve sorriso che ti era abituale.
Noi ringraziamo il Signore per la tua lunga e operosa vita e per i molteplici doni che ti ha elargito perché facessi del bene a tutti. Ti ringraziamo per l’esempio di totale sacerdotalità, per sentirti ed essere missionario della Consolata nella bocca, nel cuore, nella vita. È il mantello di cui vogliamo essere ricoperti. Lascialo cadere su di noi. •

Giuseppe Inverardi




Carissimo Mario

Lettera a padre MARIO BIANCHI viale dei teologi e missionari ciità di Dio

ti scrivo dopo la tua morte.

Stranamente ti dò del «tu», cosa che non ho mai fatto prima… Ecco alcune riflessioni sulla tua figura, basate su ricordi personali nell’arco dei tuoi ultimi 24 anni. I lettori valuteranno la validità o meno del mio scritto.

Nel 1969-1975,

quale superiore generale dell’Istituto Missioni Consolata (imc), numerosi giovani confratelli ti ritenevano un po’ conservatore, eletto per frenare le iniziative che uscivano dal solco tradizionale dell’Istituto. Pareva tu volessi comprimere le aperture iniziate o tollerate dal predecessore, padre Domenico Fiorina.

Non dico che tu non stimassi padre Fiorina: tutt’altro. Ma eri fermo nei tuoi principi, decidevi. Così hai accettato (sia pure a malincuore) l’uscita dall’Istituto di parecchi missionari, soprattutto in Brasile. La tua preoccupazione era quella di salvare l’imc, e pensavi di farlo basandoti sulla tradizione della Chiesa.

Come professore di teologia dogmatica, prendevi con serietà il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ma ragionavi: il Concilio non ha promulgato dogmi; la dottrina è la stessa. Quindi gli appelli del Concilio a cambiare e adattarsi al mondo d’oggi non erano vincolanti.

Volevi evitare pratiche rischiose, che potevano snaturare il fine dell’IMC; volevi scongiurare comportamenti secolarizzanti. Tuttavia accettavi la critica e il dialogo. Quando un missionario commentava per iscritto le tue circolari, non solo eri pronto ad ascoltare, ma eri anche riconoscente. Al termine ribadivi le posizioni che ritenevi giuste.
Delegavi responsabilità concrete al vicesuperiore generale, ai consiglieri e ai superiori delle circoscrizioni in Africa, nelle Americhe e in Europa. (Allora non eravamo ancora in Asia).

Rieletto superiore

per altri sei anni (1975-1981), la tua posizione è rimasta la stessa. Tuttavia hai avuto un vicegenerale che dialogava con i missionari fuori dei «parametri normali» dell’IMC. Il vice si è sforzato di trattare bene gli esclaustrati giustificati e non giustificati. Tu ne hai visitati alcuni nel loro posto di lavoro, informandoti sulle loro attività.

Volevi persone decise a lavorare «dentro» l’IMC. Altrimenti, dovevano decidere diversamente… Però, di fronte ad un missionario che ha lasciato l’Istituto per incardinarsi in una diocesi, hai scritto: «Il problema reale con lui (ma anche con altri) è forse un altro: quello di misurare il tempo necessario ad ogni individuo per maturare la decisione se restare o no nell’Istituto… In tale situazione può accadere che i superiori chiedano all’individuo di decidere prima che egli sia pronto a farlo. È un problema di discernimento non facile; e si può sbagliare, senza volerlo. Penso che, se si sbaglia, per l’individuo resta sempre aperta la porta per rientrare nell’Istituto. Tale porta è aperta anche per il padre…».

Come superiore generale
hai avuto contatti con altri omologhi di varie congregazioni. Hai parlato, per esempio, con i padri Pedro Arrupe e Theo Van Asten, superiori dei Gesuiti e Padri Bianchi. Con loro hai trattato il problema del Mozambico durante la lotta anticoloniale nei primi anni ’70. Tu non eri molto entusiasta dei missionari che, in blocco, abbandonavano il paese per protesta contro i vescovi portoghesi, che appoggiavano troppo il governo coloniale. Tuttavia hai rispettato la decisione dei missionari, esprimendo loro solidarietà.

Ai missionari della Consolata hai concesso piena libertà di lasciare o restare in Mozambico. Esortavi chi rimaneva ad essere difensore della causa dei nativi. Hai maturato questo atteggiamento dietro consiglio e informazione dell’allora superiore dei missionari nel paese.

Un missionario della Consolata, mozambicano, fuggì dal suo paese per raggiungere il Fronte di liberazione del Mozambico. E, anche se viveva con i ribelli, l’hai sempre considerato dell’IMC. Perché? Penso due motivi: primo, quella persona si trovava in una zona con la presenza di missionari della Consolata; secondo, il superiore dell’IMC in Tanzania aveva rapporti regolari con lui. Quindi, anche se era con i ribelli, manteneva contatti con l’Istituto.

Dopo 12 anni

al comando-servizio dell’IMC, hai operato a Roma presso le pontificie Opere missionarie (1987-1995).
Passando per la capitale mi piaceva ricordarti alcuni episodi, quando eri generale. Eri anche contento di discutere sulla tua tesi di laurea in teologia, sostenuta all’università Angelicum di Roma. Il tema elaborato fu «il sacerdozio dei fedeli nella teologia di san Tommaso di Aquino».

Una volta ti chiesi: «Quale esperto sul sacerdozio dei fedeli secondo san Tommaso, cosa pensi di quanto dice il Vaticano II al riguardo?». La risposta fu: «Poiché il Vaticano II non ha definito dogmi, il pensiero equilibrato di san Tommaso è anche discutibile».
Per questa posizione ti ritengo un pensatore lucido ed onesto. Ma ti era difficile accettare i cambiamenti nella traditio christiana con il sottofondo aristotelico-tomista. Oggi, nella Città di Dio, non so come vedi le cose… Intanto sta a noi risolvere i problemi fino alla nostra morte.

Nel 1997, sempre a Roma,

mi hai pregato di sostituirti nel celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata. Tornato a casa, mi hai domandato:

– Cosa hai detto ai fedeli?

– In cinque minuti ho detto che sono mozambicano e che sono missionario della Consolata. Educato dai missionari della Consolata sin da bambino, sono felice di celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata.

Ricorderò sempre il tuo sorriso e le parole: «Oggi sei più maturo, hai superato il “sessantotto”, ti sei convertito».

L’ultimo nostro incontro
avvenne nella casa-madre di Torino (novembre 2002). A pranzo e cena ti facevo ridere con i miei «spropositi». Ma tu capivi che scherzavo.

Una volta dissi: Giovanni XXIII, dopo la prima sessione del Concilio, ha saputo dai medici di avere una malattia che lo avrebbe presto portato alla morte, se non si fosse sottoposto a cure speciali. E ti domandai:
– Perché papa Giovanni ha risposto ai medici che preferiva la morte e dissolversi in Cristo?

– Papa Giovanni era un uomo di fede: credeva nella vita dopo la morte…

Subito ti incalzai:
– Tanti parlano di fede, ma hanno una grande paura di morire; ci tengono a questa vita e ai posti che occupano e si fanno prolungare la vita con numerosi farmaci.

– Sì, è vero…
– Allora significa che costoro non hanno fede?
Sorridesti… Padre Mario, perché non mi dicesti chiaramente: «Il tuo pensiero potrebbe offendere personaggi a cui si deve venerazione»?…

Perché questa lettera? Per farti conoscere, affinché molti si sentano motivati ad essere onesti e decisi nella vita. Tu sei stato così. E meriti rispetto, ammirazione.

Nato a Coriano (FO) il 30 luglio 1925, Mario Bianchi entrò nell’Istituto Missioni Consolata (IMC) nel 1947, proveniente dal seminario di Rimini. Sacerdote, si laureò in teologia all’Angelicum di Roma. Per 13 anni professore di dogmatica nel seminario teologico IMC di Torino, fu pure direttore della rivista Missioni Consolata.

Destinato al Kenya nel 1966, nel 1969 fu eletto superiore generale dell’Istituto. Rieletto per un secondo mandato, terminò il servizio nel 1981. Poi fu superiore della Delegazione centrale e, nel 1987-1995, segretario generale della Pontificia Unione Missionaria del clero (Roma). Trascorse gli ultimi anni della vita a Torino, nella casa-madre, impegnato nell’animazione missionaria. L’11 agosto 2003 fu chiamato alla casa del Padre a 78 anni, di cui 55 di sacerdozio.

Il suo testamento

Ringrazio il Signore di avermi chiamato ad essere sacerdote,
religioso e missionario nell’Istituto della Consolata.
Egli ha disposto che avessi la responsabilità della direzione
dell’Istituto in un periodo non facile della sua storia.
Chiedo perdono a Dio e ai confratelli per ciò che non ho fatto
o avessi fatto non bene nello svolgimento del mio servizio.
Prego il Signore di donarmi la perseveranza nella vocazione
missionaria, per la quale non Lo ringrazierò mai abbastanza;
e mi raccomando con fiducia e umiltà alla misericordia di Dio
e alle preghiere dei confratelli.
La Consolata, che mi volle nella famiglia dei suoi missionari,
mi ottenga dal Signore la corona dell’apostolato
per le preghiere del Padre Fondatore e di coloro
che, fedeli alla vocazione missionaria e religiosa,
hanno già terminato il servizio alla Chiesa
e si sono ricongiunti al padre della nostra famiglia.

p. Mario Bianchi (Roma, 12 luglio 1981)

D i fronte ad un mondo che si caratterizza per sfiducia, insoddisfazione e negatività, padre Mario Bianchi ha cercato di essere per tutti, ma soprattutto per i confratelli, un missionario che parlava della tenerezza di Dio padre, una tenerezza che conforta, che dà gioia e speranza.
Sentiva, in questo modo, di essere un vero missionario della Consolata.
p. Piero Trabucco

padre Felipe Couto




Panorama Missionario

AFRICA
L’evangelizzazione deve far fronte a varie sfide. Come annunciare il messaggio di salvezza in un contesto di povertà, miseria, con lo sfondo di una storia fatta di umiliazioni, violenza e schiavitù, alle prese con il problema della fame, della guerra, con tensioni sociali e tribali, nell’instabilità politica vissuta come situazione di normalità, con quotidiana esperienza di violazione dei diritti umani?
L’Africa è un continente emarginato (un’appendice senza alcuna importanza), maltrattato, dimenticato e abbandonato.

Parlando dell’Oceania che ha nell’inculturazione la principale sfida missionaria, mons. Sarah, segretario di Propaganda fide, osserva: «L’inculturazione non è né una canonizzazione, né una incoronazione della cultura con il rischio di assolutizzarla, ma l’epifania e l’irruzione del Signore nel cuore di un popolo e di una cultura. Attraverso di essa, Dio si muove dal di dentro la cultura e la purifica. In tal modo il vangelo trasforma le tradizioni di un popolo e di una cultura, offrendo nuovi punti di riferimento. Quando il vangelo entra nella vita, la smuove; le offre un orientamento nuovo, dei nuovi riferimenti morali ed etici».

ASIA
Il continente ospita i due terzi dell’umanità, di cui solo il 3% cristiani. Eppure ci riserva belle pagine di storia di martirio, di contributi sociali, culturali offerti dai missionari… La chiesa è quasi nella totalità indigenizzata e ben stabilita. La Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche è bene organizzata, con diverse commissioni che curano l’evangelizzazione, la ricerca teologica, l’educazione, la formazione, le comunicazioni sociali, l’inculturazione, la giustizia e la pace; il programma di comunità di base ecclesiali è in piena fioritura.

AMERICA
– Le circoscrizioni che dipendono da Propaganda fide in America rappresentano in molte nazioni le zone più difficili, sia dal punto di vista geografico (vastità di territorio, mancanza di vie di comunicazioni), sociale (povertà, narcotraffico, guerriglia), che pastorale (scarsità di personale e di mezzi).
Si registra una crescita di coscienza missionaria con l’invio di sacerdoti fidei donum e missionari laici; la nascita di diversi seminari missionari; la celebrazione dei Congressi missionari americani (il prossimo sarà in Guatemala, nel novembre 2003).
Difficoltà e problemi:
a) Le motivazioni politiche nella difesa delle culture indigene provocano spesso un’erronea concezione della rivelazione divina e dell’inculturazione del vangelo. In alcuni casi viene promosso un ritorno alle antiche tradizioni religiose.
b) Le sètte, che diventano una vera sfida. Da qui la necessità di offrire una liturgia viva, un’esperienza di comunità e fratellanza, un’attiva partecipazione alla missione e all’annuncio diretto del vangelo.
c) Le sfide della cultura post modea, urbana, globale, pluralista, secolarizzata, che si manifesta in una perdita del senso religioso, nella disuguaglianza sociale, nella mancanza di rispetto per la vita e nella violenza.

aa.vv.




Ma ci crediamo o no?

Osservando il comportamento «missionario» di tanti fedeli musulmani, potrebbe nascere un dubbio legittimo: ma noi cristiani, siamo così convinti della nostra fede,da non poter fare a meno di «comunicarla»
agli altri?

Appena sbarcata nell’aeroporto di Malpensa, al rientro dall’Iran, la prima immagine che mi accoglie è un poster gigantesco, sul quale sono ritratti un ragazzo e una ragazza seminudi, in atteggiamenti che non lasciano dubbi sulle loro intenzioni. La solita pubblicità di una casa di moda. Ormai sono tutte uguali, con gli stessi giovani perfetti e immusoniti, le stesse poco velate allusioni. Mi è venuta voglia di tornare subito indietro.

Mashhad è chiamata
dagli iraniani «la santa» perché ospita il santuario dell’imam Rezà, il maggior luogo di pellegrinaggio in tutto il paese. Nella dottrina sciita, gli imam sono i diretti successori di Maometto (di cui hanno ereditato le doti straordinarie) e le guide spirituali della comunità. Gli sciiti riconoscono dodici santi imam. Il dodicesimo scomparve misteriosamente nell’anno 873: si crede che non sia mai morto e che ritoerà tra gli uomini alla fine dei tempi.
Rezà è l’ottavo della serie. Sul posto dove fu ucciso, nell’817, sorse in seguito il suo mausoleo, intorno al quale si sviluppò la città di Mashhad, che significa «luogo del martirio». Tutt’oggi, la città vive attorno al santuario che, nel frattempo, è cresciuto e continua a crescere sempre più.
Qui giungono ogni anno milioni di pellegrini. Sia quando entrano, come quando escono dal recinto che ospita il mausoleo, i fedeli salutano l’imam, perché credono che egli sia una presenza viva e gli si debba rivolgere come a una persona in carne e ossa.
Una sera, avevo deciso di assistere alla preghiera. Dopo un po’ di ricerche, mi ero infilata in un angolino, dove non davo troppo disturbo alle persone che continuavano a entrare. Avevo proprio davanti a me la metà del cortile riservata agli uomini e, non potendo seguire il senso delle parole recitate, tutta la mia attenzione si era concentrata sui movimenti degli oranti. Le loro espressioni erano raccolte, miti, quasi melanconiche. Quando i corpi si piegavano fino a terra nelle flessioni rituali e l’assemblea si trasformava in un tappeto di schiene, spuntavano improvvisamente qua e là i bambini, rimasti in piedi accanto ai padri: per niente compresi del momento solenne, cominciavano a guardarsi l’un l’altro, divertiti di essere diventati, per pochi secondi, più alti di tutti. Un marmocchio aveva trovato un’occupazione ancor più divertente: tentava di arrampicarsi sulla schiena del padre tutte le volte che questi si piegava fino a terra.

Anche chi
non si reca al santuario, prega: le donne solitamente nelle loro case, gli uomini in moschea, dove giungono seguendo il richiamo del muezzin. E non soltanto la sera. La giornata è scandita dal ritmo della preghiera e non sono pochi quelli che si alzano prima dell’alba per le orazioni del mattino. Durante un viaggio notturno da Mashhad verso il Mar Caspio, all’ora della preghiera mattutina, il nostro autobus fece sosta accanto a una moschea per dare, a chi lo desiderasse, la possibilità di assolvere il precetto. Era la prima volta che mi capitava una cosa del genere. Mi era, invece, successo più volte che all’inizio o alla fine, di un viaggio i passeggeri recitassero insieme una breve invocazione. A qualsiasi azione, grande o piccola che sia, – un discorso, un libro da leggere, anche solo una lettera privata – il musulmano dà solitamente inizio «nel nome di Dio, grande e misericordioso».
Ovunque in Iran, nei luoghi pubblici e nelle case, sono presenti segni che richiamano il pensiero di Dio o dell’islam: possono essere le parole della professione di fede, o frasi del Corano; o la mano stesa, le cui cinque dita simbolizzano i cinque pilastri dell’islam; o i ritratti barbuti di Ali e Hussein, genero e nipote di Maometto, particolarmente venerati dagli sciiti.
Se in Iran tutto aiuta a ricordare che l’uomo è creatura di Dio, da noi, invece, tutto concorre a farlo dimenticare. E non mi riferisco solo al fatto che gesti e simboli della nostra tradizione cristiana stiano scomparendo dalla vita pubblica; ma anche alla proposta di valori, di segno opposto a quelli del vangelo. I programmi televisivi, la pubblicità, le riviste ci fanno credere che la bellezza, la forza, il benessere fisico ed economico, la soddisfazione dei nostri impulsi siano gli unici obiettivi da perseguire e gli unici valori che contino. Uno degli attacchi più massicci, cui quotidianamente assistiamo, è quello dell’«esaltazione sessuale»: si agita la bandiera della lotta contro antiche inibizioni e poi ci si serve dei nostri istinti, opportunamente stimolati, per indurci a comprare un prodotto, una rivista, a guardare un film e così via.

Alloggiavo in un ostello di Mashhad e, alla sera, era facile attaccare discorso con qualcuno degli ospiti, mentre si sorseggiava il tè sui tappeti della grande sala comune. La mia presenza suscitava parecchia curiosità anche perché, a quanto pare, ero la prima turista occidentale ad aver messo piede in quel luogo. Spesso il discorso cadeva sulla religione. Nonostante dichiarassi subito di essere cristiana, più di una volta mi sono sentita proporre: «Perché non diventa musulmana? Non sa com’è bello!». L’argomento principale era: l’islam è l’ultima delle tre grandi religioni: quindi, la più vera. Rispondevo, cercando di tagliar corto, che mi stava bene restare com’ero. Mi guardavano con compassione: «Inshallah, diventerà anche lei musulmana, è una brava persona». La cosa m’irritava parecchio. Dovevo trattenermi dal rispondere male, ma poi ho cominciato a riflettere.

Se sei veramente convinto che l’islam sia la salvezza, non puoi non comunicare questa tua certezza alle persone che incontri, a maggior ragione se le stimi. Non è strano che i musulmani esprimano il desiderio di vedere tutti convertiti all’islam; è strano che i cristiani non facciano altrettanto con la loro fede. Non si tratta, ovviamente, di esercitare pressioni indebite, ma soltanto di rendere manifesta quella speranza che dà significato alla vita. Tutto ciò si chiama, molto semplicemente, «missione»!
Quanto diversa, rispetto a tanto buonismo dei nostri giorni, la posizione di san Paolo che, in carcere a Cesarea, parlando in propria difesa davanti al re Agrippa, proclamava senza mezzi termini il proprio desiderio che tutti si convertissero alla fede in Cristo: «Vorrei supplicare Dio che non soltanto tu, ma quanti oggi mi ascoltano diventassero così come sono io, eccetto queste catene» (At 26, 29). Oggi, Paolo non potrebbe più parlare così, senza essere tacciato, magari dagli stessi cristiani, di intolleranza o irriverenza verso le opinioni altrui. Invece, quelle parole esprimono un amore infinito verso tutti gli uomini, che si vogliono partecipi dello stesso banchetto di felicità.
Se i cristiani hanno perso l’abitudine di testimoniare pubblicamente la propria fede, non sarà, forse, perché non ci credono più di tanto?

Biancamaria Balestra




UN SEME CHIAMATO… AMICIZIA

mons. Giovanni Battista Pinardi,
ausiliare di Torino ai tempi
del beato Giuseppe Allamano,
stretto amico di mons. Filippo Perlo
e di altri missionari della Consolata,
è in corso il processo di beatificazione.

«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche,
dolori e illimitata fiducia in
Dio, fruttificherà il cento per uno».
Così si esprimeva il cuore di un vescovo,
mons. Giovanni Battista Pinardi,
che si apriva alla confidenza di
un altro vescovo, mons. Filippo Perlo,
primo successore del beato Giuseppe
Allamano alla guida dell’Istituto
dei missionari della Consolata.
L’indizio di un sincero legame tra
i due grandi pastori del secolo scorso
ci viene offerto dalla lettera di felicitazioni
che mons. Pinardi scrisse
al Perlo nell’agosto 1945, in occasione
del giubileo sacerdotale di
quest’ultimo.
Parroco e ausiliare di Torino il primo
(1880-1962), missionario e vicario
apostolico del Kenya il secondo
(1873-1948), che cosa alimentava
l’amicizia di questi due vescovi, così
differenti tra loro per stile ed esperienza
pastorale concretamente vissuta?

La loro amicizia
cominciò ai tempi degli studi nel seminario
di Torino. Nato a Castagnole
Piemonte (TO) il 15 agosto
1880, Giovanni Battista Pinardi era
di sette anni più giovane del Perlo,
nato nel 1873 e ordinato prete nel
1895.
Il loro legame continuò anche
quando il Perlo, dopo un breve periodo
di attività pastorale e servizio
come economo al santuario della
Consolata, entrò tra i primi nell’Istituto
missionario fondato dall’Allamano.
In occasione del suo invio in
Kenya, nella prima spedizione missionaria,
l’allora giovane chierico Pinardi
partecipò come cantore alla
celebrazione della partenza.
Ordinato sacerdote nel 1903 e
consacrato vescovo nel 1916, mons.
Pinardi seguì sempre con commozione
e interesse l’opera del Perlo,
attraverso due testimoni di eccezionale
importanza: il canonico Giacomo
Camisassa, zio di Filippo, e, soprattutto,
il beato Giuseppe Allamano,
del quale mons. Pinardi si
disse, visitandolo nel 1926, «uno dei
suoi più affezionati discepoli».
Mons. Pinardi stimò grandemente
l’attività missionaria di mons. Perlo,
ritenuto l’anima e l’artefice delle
fondazioni missionarie in Kenya, poi
consacrato vescovo nel 1909 nel santuario
della Consolata. «Pochi come
il sottoscritto – confidava mons. Pinardi
a mons. Perlo – hanno seguito
la tua vita, i tuoi sacrifici, i tuoi dolori,
le tue aspirazioni di vero missionario
del Signore; perciò doverosamente
e sentitamente mi sento accanto
ai tuoi confratelli…».
Ecco ciò che ha accomunato e alimentato
l’amicizia tra queste due figure
luminose di pastori: il sacrificio
della propria vita per il vangelo.

Mons. Pinardi conobbe
l’intelligenza brillante e concreta dell’attività
di mons. Perlo nella nuova
missione in Kenya, parlandone come
di un terreno completamente da
dissodare e che costò all’intrepido
vescovo missionario «sacrifici senza
nome», al punto da affermare che il
Perlo «…molto ha fatto, quanta
umana azione da Dio benedetta poteva
compiere».
Il sacrificio richiesto a mons. Perlo
toccò sul vivo la tempra della sua
fede, quando il mondo intero fu
sconvolto dalla seconda guerra mondiale,
le cui conseguenze si fecero pesantemente
sentire anche in terra
d’Africa: «L’immane guerra d’Africa
e mondiale si è abbattuta sul terreno
sì bene coltivato – scriveva ancora
mons. Pinardi, riferendosi alla
giovane missione africana -; penso
quanto ha sofferto il suo cuore, nel
vedere il frutto di tante fatiche sue e
dei suoi cari confratelli, ritardato e,
in apparenza, compromesso. Dico,
in apparenza, compromesso».
Ma l’uomo di fede è capace di una
diversa e ben più profonda visione
del mondo, scorgendo la crescita del
regno di Dio anche nelle sue apparenti
smentite e contraddizioni.
Il cuore di mons. Pinardi fu capace
di un sentimento di tanta e tale
compartecipazione alle fatiche del
Perlo per una sorta di connaturalità:
lo stesso mons. Pinardi era provato
nelle stesse sofferenze a motivo del
vangelo, seppure in contesto differente,
custodendo nel suo animo gli
stessi sentimenti che furono già dell’apostolo
Paolo: «È giusto, del resto,
che io pensi questo di tutti voi,
perché vi porto nel cuore, voi che
siete tutti partecipi della grazia che
mi è stata concessa sia nelle catene,
sia nella difesa e nel consolidamento
del vangelo» (Fil 1,7).

Per vocazione
e temperamento, mons. Pinardi non
fu missionario alla maniera del Perlo.
Il «terreno» dove egli si spese come
parroco e vescovo non richiedeva
il primo annunzio, ma una sempre
nuova incarnazione nei diversi
contesti storici: in questo fu davvero
missionario e pioniere, impegnato su
tanti fronti, tra cui spicca quello per
la stampa cattolica. In una congiuntura
storica che sfavoriva ogni iniziativa
di questo genere, nell’ottobre
1917 fondò l’Opera della buona
stampa e sostenne, pagando di persona,
la diffusione della stampa cattolica.
Quando nel 1930 Pio XI chiamò
da Sassari a Torino mons. Maurilio
Fossati, il papa disse al nuovo arcivescovo:
«A Torino avete un vescovo
santo, ma bisogna lasciarlo nell’ombra,
per non avere problemi con
il regime».
Mons. Pinardi non fu più confermato
né vescovo ausiliare, né provicario
generale e se ne stette, apparentemente,
nell’ombra nascosta del
suo servizio di parroco presso la parrocchia
di San Secondo. Ma il chicco
di frumento non teme l’ombra
della terra; anzi, l’accoglie come la
vera possibilità di portare frutto, che
non tardò a maturare. Esso ha il volto
di migliaia di poveri, malati e sofferenti,
che furono quotidianamente
accolti e aiutati da mons. Pinardi.
A San Secondo e in tutta la diocesi
di Torino è ancora vivissimo il suo ricordo
come di un vero padre dei poveri.
«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche, da tanti dolori, da
illimitata fiducia in Dio, fruttificherà
il cento per uno»: quanto mons. Pinardi
scriveva del Perlo delinea bene
il suo stesso ministero pastorale.
È proprio il progressivo approfondimento
dei suoi frutti spirituali che
ha portato la diocesi di Torino ad avviare
il processo di canonizzazione,
che si trova ora depositato presso la
Congregazione romana per le Cause
dei Santi, dove è iniziata la seconda e
più impegnativa fase del processo,
nella speranza di poterlo un giorno
onorare come santo, venerando in lui
un pastore da imitare e un intercessore
da pregare.
Qui tornano a intrecciarsi le storie
dei santi torinesi, perché proprio un
figlio del beato Allamano, un altro
missionario della Consolata come
mons. Perlo, sarà il postulatore della
causa di mons. Pinardi, padre
Gottardo Pasqualetti, al quale vanno
il ringraziamento e l’augurio per
il suo impegno.
«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche, da tanti dolori, da
illimitata fiducia in Dio, fruttificherà
il cento per uno»: la lunga amicizia
tra mons. Pinardi e le missioni della
Consolata è sicuramente uno di questi
frutti. E che la storia continui.

Luca Ramello




GUARDANDO «LA CROCE DEL SUD»


È un bisogno del cuore quello di ricordare un grande vescovo e un amico indimenticabile. Sì, don Tonino Bello, il profeta dei piccoli grandi gesti, cantore degli umili, innamorato della pace.

Don Tonino Bello, scomparso dieci anni fa è ancora presente in me: quanti ricordi e rimpianti! L’ho sempre considerato uno strumento nelle mani di Dio, per cantare e «portare ai popoli l’annuncio della salvezza», come dice un testo a lui molto caro. Non ho paura di dire che mi è stato maestro e padre, soprattutto nei momenti di discernimento del mio cammino di vita, della vocazione missionaria.

Credo avesse sempre desiderato essere missionario e lo faceva intuire in certe occasioni; come quando una volta, al visitatore della Pontificia unione del clero faceva domande proprio come uno di noi; o le sue lacrime durante la proiezione del film «Molokai»; e ancora il suo entusiasmo travolgente e partecipe nel conferire il mandato missionario a padre Vincenzo Mura (suo alunno e, poi, missionario della Consolata). Ma quanti gesti di pace e missionarietà lo hanno reso… famoso! Basti pensare ai tanti messaggi scritti per la «prima» guerra del Golfo, dove difese a spada tratta la scelta della non-violenza; il suo incarico di presidente di «Pax Christi», succedendo all’amico mons. Luigi Bettazzi; i suoi viaggi all’estero (in Australia, Argentina, Venezuela, U.S.A. per visitare i molfettesi emigrati in quelle terre; o in Etiopia, per un ritiro ai missionari; o a San Salvador, nel luogo del martirio del vescovo Romero); la marcia per la pace a Sarajevo, durante i suoi ultimi giorni, con la malattia che l’aveva già consumato.

Quando decisi di farmi missionario e averne parlato in famiglia, i miei genitori avevano invitato a pranzo don Tonino, non solo perché era nostro grande amico, ma soprattutto con la segreta speranza che mi convincesse a rimanere in diocesi. Quella volta «fallì» nel suo intento (almeno apparentemente), perché le sue parole non mi fecero cambiare idea. Vistomi agitato e piuttosto contrariato, mi confidò l’apprezzamento che aveva per i miei genitori; mi chiese soltanto di non dimenticarmi mai di loro. Il motto del suo episcopato: «Ascoltino gli umili e si rallegrino» (Sal 33,3), non sono state vuote parole, ma espressione concreta del suo cuore ardente e aperto a tutti, cominciando dagli ultimi e dai poveri.

Una sera dell’autunno 1984 ero andato a salutarlo a Molfetta, perché ero in partenza per la Colombia, dove avrei studiato teologia. Lo trovai impegnato a presiedere un incontro: con l’entusiasmo di sempre, raccoglieva consigli e dava suggerimenti per incrementare una pastorale d’insieme. Rimasti finalmente soli, mi offrì una «frisa» (pane tipico della gente del Salento), con olio e sale; poi, in casa e lungo il porto di Molfetta, parlammo a lungo. Mi accennò, tra l’altro, all’idea di prendersi un appartamento, lasciando il palazzo episcopale come dimora per i più poveri e centro culturale e teologico, a servizio della nuova evangelizzazione. Fu la più lunga chiacchierata con lui della mia vita (siamo arrivati alle ore piccole) e sembrava non sentisse la stanchezza della lunga e pesante giornata. Mi regalò anche il suo libro «Sotto la Croce del sud», frutto della sua visita pastorale agli emigrati in Australia, scrivendomi la dedica: «A Rocco, chiamato a essere testimone del Risorto».

Quella sera la ricordo come la celebrazione del mio primo mandato missionario, in un’atmosfera evangelica, presso le barche ormeggiate nel porto. Nel 1993, alla fine di luglio, ormai dopo la sua dipartita, arrivato in Sudafrica, riassaporai la gioia del porto di Molfetta, vedendo la costellazione della Croce del Sud: me lo sentii vicino, mentre mi incoraggiava a non aver paura e a saper «osare» nel mio nuovo lavoro apostolico.

A don Tonino piaceva ricordare i missionari con il versetto «Beati i piedi del messaggero che annuncia la pace», cioè che annuncia Gesù, la sua pasqua, il suo progetto, il suo amore, espressi in azione nella carità quotidiana. La sua parola era sostanziosa pregna di cultura umanistica, saggezza popolare e, soprattutto, imbevuta dello stesso Cristo, sapienza del Padre. Tutti comprendevano la sua parola; i dotti l’apprezzavano, riconoscendone lo spessore culturale; gli illetterati si affezionavano a lui, perché veniva loro offerto un messaggio evangelico di liberazione, capace di incoraggiarli e spingerli ad essere protagonisti nella storia. Soltanto in Colombia, studiando la teologia della liberazione, mi sono accorto di essere già stato introdotto a quel tipo di riflessione (che è anche metodologia missionaria), proprio da don Tonino.

L’unica volta che mi sono trovato a pranzo da lui, insieme a un missionario, ci aveva mostrato la sua piccola cappella; ricordo l’inginocchiatornio di fronte al tabernacolo, e un tavolo, su cui c’era la bibbia aperta, altri libri, la sua penna e manoscritti qua e là. Mi era sembrato di vedere simbolicamente la sapienza umana attenta ad attingere dalla sapienza divina. Don Tonino spendeva ore di adorazione durante le notti, pregando e scrivendo. In lui, la contemplazione diveniva azione e il suo dialogo col Signore era prototipo di nuove relazioni nella chiesa e nella società.

Dopo la visita in cappella, ci fece vedere gli oggetti esposti su un tavolo, parlandoci delle persone di diverse razze, culture e religioni a cui appartenevano. Ogni «pezzo» ricordava qualcuno, con nome e cognome, che lui aveva incontrato nel suo girovagare in diocesi, ma anche per l’Italia e all’estero. In quei segni c’erano persone che aveva aiutato e da cui era stato aiutato. Fu un animatore, un architetto, un poeta e cantore dell’annuncio ai lontani e credo di non esagerare venerandolo come uno dei padri della nuova evangelizzazione.

La scelta dei poveri non fu, per lui, solo una pia formula, ma uno stile di vita. Per questo ebbe a soffrire e, come Gesù, anch’egli non fu capito, ma invidiato e combattuto; eppure non ebbe mai sentimenti di rancore con nessuno. Neanche quando, in televisione, cercò di esprimere un’alternativa di pace alla guerra del Golfo, in una trasmissione condotta da Santoro. In quell’occasione, venne interrotto moltissime volte da interventi in diretta, tanto che non gli fu possibile presentare la sua posizione pacifista e non violenta.

Considerando queste difficoltà, così accentuate in certi momenti, è molto probabile che, se fosse stato missionario in America Latina, o in qualche paese dell’Africa, avrebbe senz’altro pagato con la vita la sua fedeltà al vangelo e la coerenza delle sue scelte, fondate su una fede semplice e filiale. Poche ore prima della sua dipartita, chiedeva di collocare sulle pareti della sua stanza quadri della Madonna (chissà se non c’era anche quello della Consolata), per essere sicuro di morire, fissando lo sguardo su uno di essi. Don Tonino discepolo fedele ha celebrato le nozze dell’Agnello entrando nel suo regno di giustizia e di pace attraverso Maria, sospirando le parole di tanta gente sofferente del Salento: «Mamma mia, Madonna mia!». E fidandosi fino in fondo di quel Dio a cui aveva dedicato, con amore appassionato, tutta la sua vita.

Rocco Marra




IMPARARE… PER SERVIRE

Il missionario novello atterra,
per esempio, a Maputo
(Mozambico). E che fa?
Certamente impara la lingua.
E poi? Prima di annunciare
il vangelo,deve capire.
Meglio «intelligere».

Sono un missionario fidei donum
di Brescia. Ho partecipato
con piacere al «Corso di inserimento
» in Mozambico, organizzato
presso il Centro pastorale di
Guiua, nella diocesi di Inhambane.
Eravamo in 36: religiose e religiosi,
sacerdoti e laici. Varia la provenienza:
Italia, Spagna, Portogallo,
Brasile, Angola, India, Argentina.
Tutti uniti nella fedeltà a Cristo e in
ascolto delle chiese locali, che vogliamo
servire ogni giorno.
Guidati da amici ed esperti, abbiamo
focalizzato i contenuti dell’azione
missionaria di Gesù Cristo. In
lui «il volto della missione» è chiaro,
come pure lo stile: è quello dell’incarnazione,
che non ha niente a che
vedere con le violenze estee, che
stravolgono tutto. L’incarnazione richiede
rispetto e pazienza, se si vuole
che il «seme» cresca e maturi.
Infine abbiamo condiviso le motivazioni
del nostro annuncio, già tutte
contenute nella vita del Maestro:
bellezza, verità, amore.

Quando si partecipa
a un evento bello, lo si racconta;
quando si conosce un fatto vero, lo si
annuncia; quando si gusta l’ebbrezza
dell’amore puro, lo si condivide.
Il lavoro di analisi e sintesi è stato
alimentato da un’intensa preghiera
liturgica. La preghiera è il respiro
della missione. L’evangelizzatore è
un contemplativo in azione e un attivo
in contemplazione. Questo ci ricorda
la vocazione alla santità. La
santità poi va fatta risplendere nella
multicolore sapienza di Dio (cfr. Ef
3, 10). Solo se vivremo plasmati dal
magistero e dalla logica della preghiera,
potremo invitare a credere in
Gesù Cristo.

Oltre ad essere
«un dimorare con il Signore», la
missione è pure un andare verso i
fratelli e sorelle che vivono in terre
lontane.
Però l’annuncio del vangelo non
può essere improvvisato. È vero che
la parola annunciata ha in sé tutta la
sua efficacia; ma è altrettanto vero
che, per essere buoni missionari, è
necessario amare, conoscere e valorizzare
la persona che s’incontra e il
contesto culturale nel quale l’annuncio
risuona, soprattutto quando
recano il sigillo della differenza. In
tutto questo il corso ci è stato di valido
aiuto.
Parlare dell’Africa e degli africani
non è facile. Sono realtà complesse,
che presentano stratificazioni di
tempi e, pertanto, differenti culture.
Sono realtà instabili, perché animate
e attraversate da fatti molteplici e
a volte contraddittori. La tradizione
africana, pur affondando le radici in
un humus vitale comune, si presenta
con varietà di forme: visione della
vita, simboli sacri, proibizioni morali e religiose, costumi che cambiano
da gruppo a gruppo e da villaggio
a villaggio. Così è delle persone.
L’Africa è molto interculturale a livello
nazionale e locale. Ogni nazione
e luogo influenza i comportamenti
personali. Sulle persone ci sono
state date indicazioni precise e
dettagliate circa la nascita, crescita,
riti di iniziazione, maturità, matrimonio,
scelta di consacrazione, malattia
e morte. La questione femminile
è particolare.
Una speciale
attenzione è stata riservata alle religioni
tradizionali. Il mondo religioso
africano è complesso. Tale complessità
deriva dall’esperienza in sé
stessa, dai tentativi teorici messi in atto
per spiegarlo, dal vasto ambiente
sociale in cui si esplica, dagli interessi
culturali che suscita. Ciò che più ci
ha fatto riflettere è il valore e l’influsso
della tradizione, che non deve
essere minimizzata.
La religione africana è di natura
esperienziale, non teorica. Si esprime
con un vocabolario teologico
preso dalla vita vissuta in un preciso
contesto geografico. Si tratta di esperienze
senza «autori», prive di strutture
cultuali chiare, prive di libri sacri:
perciò è difficile evidenziae gli
aspetti dottrinali e determinare i
contenuti.
Per qualificare il fenomeno religioso,
si raccomanda di respingere i
termini feticismo, animismo, paganesimo,
antenatismo, totemismo.
L’africano crede in due mondi, uno
visibile e l’altro invisibile, e nella loro
interazione. Crede nella comunità
gerarchizzata e, soprattutto, in un
Essere supremo, creatore e padre di
tutto ciò che esiste.
Con questa ricchezza il cristianesimo
deve dialogare. Nel dialogo ciascuno
dovrà donare non tanto idee
e dottrine, ma storie vissute. Il dialogo
richiede di esprimersi con parole
e gesti autentici, che sappiano porre
a confronto tutta la propria storia di
fede. Il passato emerge con grandezza
e forza. Chi oggi non ricorda
ciò che lo ha preceduto ieri (antenati,
eventi…) vive senza meta.

Sono state illustrate
le dinamiche e problematiche della
vitalità ecclesiale odiea.
La chiesa in Africa è chiamata ad
essere «chiesa-famiglia», ambiente
dove Dio riunisce i suoi figli dispersi
nel mondo (Gv 11,52), luogo dove
coloro che invocano Gesù Cristo
(2 Cor 1,2) si accolgono reciprocamente
come dono di Dio (Gv 17,6-
24) per vivere l’amore del Padre e
del Figlio; luogo di vita caratterizzato
dalla premura verso l’altro, solidarietà,
calore delle relazioni, accoglienza
e fiducia.
Per rendere incisiva l’evangelizzazione,
i vescovi mozambicani sollecitano
la creazione di «piccole comunità
cristiane»: cellule di base ecclesiale,
progetto per un’autonomia
delle giovani chiese e punto di riferimento
per una pastorale a dimensione
d’uomo.
In tali comunità tutti sono chiamati
ad essere responsabili; esse sono
luoghi di convivenza quotidiana
e aiutano a vincere i tribalismi; stimolano
a cogliere i segni dei tempi
nel contesto sociopolitico del paese.
Il laico, con la grazia di Cristo, è una
pietra angolare della nuova costruzione.

Ringrazio il Signore
per il Corso di inserimento in
Mozambico. Esprimo gratitudine,
soprattutto perché si è svolto a
Guiua, una località dove alcuni cristiani
sono stati martirizzati per la fede
(*). Pregando sulle loro tombe
pensavo: la missione avanza lentamente
all’insegna della croce e da essa
si caratterizza.
Essere missionari significa credere
che la chiesa cresce con la testimonianza
del martirio.
Anche del mio martirio.
(*) Ai 24 catechisti, martirizzati
in Mozambico il 22 marzo 1992,
Missioni Consolata di Marzo 2002
ha dedicato un dossier.

Adriano Dabellani




FARE… NON BASTA PIÙ!

Domande e inquietudini
di un missionario, di fronte
al suo lavoro e al modo
di annunciare il vangelo.
Per evitare di lavorare
invano! Con un punto fisso:
la solidarietà non si discute.
Ma non è patealismo.

La missione rende presente il
regno di Dio, conducendo
persone e comunità a fare
esperienza di Gesù, unico salvatore e
redentore. L’unum necessarium della
missione è quello di portare i frutti
della redenzione a tutti. «Legge suprema
è la salvezza delle anime» si diceva
un tempo.
Noi siamo i responsabili del cammino
della chiesa in questa porzione
del regno che è il Distretto samburu
(Kenya), in cui la missione di Baragoi
ha compiuto 50 anni (1952-2002).

Dopo 50 anni
di generoso lavoro, fino allo spargimento
del sangue, non possiamo
chiudere gli occhi sulla realtà: circa
l’80% dei samburu e un po’ meno
per i turkana e gli altri immigrati
(kikuyu, kalinjin, rendille, meru…)
non è stato raggiunto dal vangelo. Le
nostre comunità samburu sono com-
poste da bambini e da alcune donne.
Sono assenti anziani e giovani.
Inoltre, forse a causa dell’eccessiva
tutela dei missionari, la chiesa locale
appare rachitica, malata di perenne
adolescenza, incapace di responsabilità
e progresso. La gioventù, dentro
e fuori la scuola, sta perdendo
ogni senso etico e religioso; gli anziani
sono irraggiungibili…
Molte le attività: spesso siamo immersi,
senza risparmio, dentro a un
vero e proprio dinamismo pastorale.
Ma ciò che stiamo facendo è davvero
secondo il vangelo? Non corriamo,
forse, il rischio di trascurare ciò
che è essenziale? Il nostro ministero
è il modo migliore per condurre la
gente (tutta!) a conoscere, amare e
servire Dio, vivere in grazia per la sua
gloria?
Se guardiamo i nostri consigli parrocchiali
e pastorali, le varie associazioni
di giovani e studenti, i diversi
incaricati della catechesi, possiamo
domandarci: che cosa fa tutta questa
gente che collabora e si sacrifica per
la vita della chiesa? Come collabora?
Che cosa ha in mente e cosa si propone?
Qual è l’anima di tutto il lavoro?
È l’amore di Dio, la comunicazione
del Verbo della vita? È aiutare
gli altri a vivere nella
quotidianità, immersi nella giorniosa
volontà di Dio? È questo che noi e
loro stiamo facendo?
Non ci lasciamo, forse, ingannare
da routine, pigrizia, ricerca di realizzare
noi stessi, dall’amore ai nostri
progetti, dallo spirito mondano, dal
populismo e patealismo?
Sono interrogativi che nascono da
una dolorosa realtà e, se non fosse
per la fiducia nel Dio misericordioso,
principale artefice della missione,
ne saremmo quasi schiacciati.

Guardando
alle nostre missioni, mi viene da
pensare che, forse, siamo su un’altra
strada e che tante delle nostre realizzazioni,
che tuttavia hanno un volto
religioso e apostolico, non rispondono
all’esigenza e al fine del nostro
mandato missionario: la salvezza delle
anime.
Penso che, al principio del nostro
cammino pastorale, vada messa la
prospettiva della santità a tutti i livelli.
Abbiamo bisogno di gente, uomini
e donne, con il dono di una
giorniosa tensione alla santità, che annuncino
e anticipino l’avvento del
regno.
È richiesta la santificazione del
missionario e dei preti locali, dei religiosi
e laici, di tutto il popolo di
Dio: senza la volontà di santificazione,
tutto diventa spreco di energie e,
ancor più, illusione. È la santificazione
che la chiesa deve portare dentro
le culture e la società. Se lo fa, risponde
alla sua vocazione. «Siate
perfetti come il Padre».
La «storia della missione» e delle
sue opere (scuole, ospedali, chiese,
pozzi) sovente non è la «storia della
salvezza». La nostra organizzazione,
spesso così materialistica da non avere
neppure più il ritegno di dire che
senza denaro non si può far missione,
impedisce o ritarda la nascita di
un’autentica chiesa locale. Il nostro
lavoro è quello di spianare la via al
vangelo, affinché, per quanto dipende
da noi, entri senza troppi ostacoli
nelle anime e diventi una realtà loro
propria.
Il termine di ogni attività missionaria
è la creazione di un cristianesimo
locale, che realizzi il triplice self
support (ecclesiastico, culturale e finanziario)
e in cui i cristiani diventino
evangelizzatori. La gente ha bisogno
di sentire con entusiasmo e gioia
il vangelo, mentre l’attuale missione
si preoccupa (troppo spesso) di
strutture, a scapito del vero annuncio.
È, forse, perché abbiamo smesso
di tendere alla santità, di collaborare
nell’intimità con il Cristo risorto,
che le nostre comunità sono interiormente
così povere? Abbiamo dimenticato
che, «se Dio non costruisce
la casa, invano vi faticano i costruttori
»? Fondare la chiesa è un
ministero che esige santità. Il beato
Giuseppe Allamano ce lo ricorda:
«Prima di convertire gli altri, voi dovete
essere santi, altrimenti non sarete
utili né a voi stessi né agli altri».
Se manca questo, ogni darsi da fare
porta soltanto delusione.

La forza
di penetrazione del vangelo si basa
sulla potenza della croce, più che
su quella delle opere: siamo dei consacrati
a Dio per la missione. Tutto il
resto viene dopo. Da qui, la necessità
di un’osmosi tra vita apostolica e
ascetica. Come condizione per pascolare
il gregge, Cristo non chiede
a Pietro che un assoluto e definitivo
amore per Lui. E fu dalla croce, assai
più che dalla predicazione o dalle
opere (miracoli), che Gesù acquistò
lo Spirito per noi.
Si è missionari per «salire» sulla
croce: è qui che il Cristo compie definitivamente
il «mandato missionario
» ricevuto dal Padre. L’apostolo
Paolo lo comprese bene e lo fece valere
come il suo unico titolo di gloria:
«Quanto a me, non ci sia altro
vanto che nella croce del Signore nostro
Gesù Cristo» (Col 6, 14). E il nostro
vanto, qual è?
Preoccupati delle strutture, siamo
in ritardo nell’annuncio del vangelo
fra i non-cristiani. Questi, in generale,
non vedono subito Gesù Cristo
nel lavoro apostolico della missione.
Vedono la scuola, il dispensario e le
altre belle opere. Nei missionari vedono
stranieri colti, ricchi e influenti;
nei convertiti vedono individui
soggetti agli stranieri per i benefici
che ne ricevono o che sperano di ricavare.
Se vedono una religione, è
quella degli stranieri.
Penso che sia giunto il tempo di
non affannarci più per le opere, ma
di impegnarci nell’indigenizzazione
della chiesa.

Per una chiesa,
indigena, at home, sono indispensabili:
autofinanziamento (se continua
il finanziamento estero, continua
la servitù) e autoevangelizzazione
attraverso il clero locale, capace
di vivere con mezzi e ritmi propri.
Una missione, senza sussidi esteri,
potrebbe significare una grande purificazione
e un decisivo passo verso
la nascita e costituzione di una autentica
chiesa locale.
Dobbiamo convincerci che il denaro
non è la conditio sine qua non
per l’attività missionaria: al contrario,
esso contiene una logica infeale,
che nasconde la croce di Gesù
Cristo. È la prima delle schiavitù e
rende artificiale la presenza della
chiesa. Se alla chiesa locale manca
l’indipendenza economica, la sua indigenizzazione
resta un’utopia. Ma
la continua dipendenza dall’estero e
l’incapacità dei ministri locali di guidare
le strutture e i meccanismi «europei
», sia parrocchiali sia diocesani,
bloccano sul nascere ogni genuina
iniziativa diversa.
Anche triplicando il numero di
missionari, se non si cambia metodo,
non si rimedierà alla «piaga» della
missione. Infatti, dove più forti sono
uomini e mezzi, più debole è la chiesa
locale. La missione è per sua natura
transitoria, «provvisoria» ed è
necessario che i missionari lavorino
per rendersi «superflui». È tempo di
passare dalla fase protettivo-assistenziale
a quella di una piena responsabilità
diretta.
Bisogna cambiare metodo e perseguire
con maggiore energia l’ideale
di una chiesa locale, sulla scia delle
prime comunità apostoliche. C’è
bisogno di un’élite di laici, accanto
ai sacerdoti, che siano responsabilmente
presenti nelle strutture della
vita non solo parrocchiale, ma anche
sociale e politica.
Il cristianesimo non è soltanto liturgia
e culto, ma anche impegno
umano e sociale. Ma sono i cristiani
che lo devono realizzare, in forza del
loro battesimo e della loro carica interiore.
La chiesa primitiva ha creato
il diaconato per questo: perché gli
apostoli dovevano impegnarsi al ministero
della parola e della preghiera.

Achille Da Ros